L’APPARTENENZA E LA MODERNITÀ MIGRANTE · È il migrante moderno che più intensamente delinea...

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L’APPARTENENZA E LA MODERNITÀ MIGRANTE

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L’ A P PA R T E N E N Z A E L A M O D E R N I TÀ M I G R A N T E

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I L P O T E R E D E L L A C A R T O G R A F I A …

«…è il territorio moderno che è la copia della mappa, non viceversa…»

Franco Farinelli

«È fuori dubbio che il Mondo Moderno, liberando l’individuo, ha fatto trionfare il soggettivismo e l’individualismo. Ma è altrettanto certo che nessuna epoca precedente ha elaborato un oggettivismo così spinto… L’essenziale è qui il gioco reciproco necessario di soggetivismo e oggettivismo.»

Martin Heidegger, ‘L’epoca dell’immagine del mondo’, 1950

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… E A N C H E L A C A R T O G R A F I A D E L P O T E R E

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La prospettiva è il punto di vista incorporato nella ‘neutralità’ oggettiva della cartografia, garantito dall’operata della geometria euclidea sullo spazio.

Il mondo si rende ‘universale‘ — qui la potenza illimitata della geometria e della matematica — per confermare lo sguardo del soggetto; e perciò la trionfa della continuità e dell’omogeneità di una prospettiva, forte dell’autorità universale dell’astratto (il quale supera qualsiasi barriera linguistica, storica o culturale).

Qui nell’estensione universale della grafia – dalla geografia all’etnografia, fino alla storiografia – si tocca l’autobio-grafia dell’Occidente, e la riduzione unilaterale del mondo alla sua, alla nostra, rappresentazione.

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L A P R O S P E T T I VA E I L P O T E R E

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Nell’inaugurazione del ‘mondo quadro’ esiste l’intreccio tra la prospettiva della pittura Quattrocenteso e la potenza della geometria a ridurre il mondo allo spazio controllato di una mappa o uno schermo; un ‘intreccio’ che rivela il nesso insospettato e inquietante tra l’inquadramento visuale e il futuro ‘disegno’ del colonialismo europeo nei secoli da venire.

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Da qui, nell’elaborazione dell’umanesimo occidentale, emerge la formazione degli occhi imperiali che guideranno gli esploratori negli ‘spazi vuoti’ dell’atlante. In questo inquadramento, tutto ciò che esiste fuori, oltre lo sguardo dell’osservatore, rappresenta uno spazio, un territorio vuoto, che si aspetta di essere mappato e riempito con il ‘nostro’ sapere, la nostra storia, il nostro ‘progresso’. In questo ‘gioco’ la soggettivismo e oggettivismo, l’io e l’occhio, diventano tutt’uno.

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“«Sporco negro!» o semplicemente: «Toh! Un negro».

Facevo ingresso nel mondo, preoccupato di trovare un senso alle cose, con l’animo pieno del desiderio di essere all’origine del mondo, ed ecco che mi scoprivo oggetto in mezzo ad altri oggetti.”

Frantz Fanon, Pelle Nera, Maschere Bianche (1952)

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Si tratta di una serie di ‘oggetti’ (sia animati, sia inanimati) che possono essere ‘spiegato’ solamente dopo l’arrivo del soggetto europeo e il suo regime di ‘verità’ (antropologica, storica, sociale, politica, estetica, religiosa, scientifica).

Sebbene non esiste nessuna parte del pianeta che non è stato abitato, denominato e appropriato da qualche essere e i suoi saperi, questi altri 'saperi', subalterni e locali, si trovano subordinati ad un sapere superiore, universale.

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Pensare ai confini, alle frontiere, significa anche pensare ai confini della democrazia. La distinzione tra la cittadinanza di ognuno di noi e la ‘vita nuda’ (Agamben) dei migranti, dei rifugiati, di coloro che sono senza documenti, degli esclusi, segna l’intervallo brutale tra la legge che garantisce la nostra appartenenza e una giustizia ancora da venire.

Sappiamo anche che questi confini sono labili e porosi, spesso essi diventano zone di transito e trasformazione dove il ‘qui’ e il ‘lì’ sono mescolati e rielaborati in forme inaspettate, ibride, fluide…

Le frontiere come zone di transito, sono anche zone di traduzione dove ognuno ci si trova esposta, ‘fuori casa’, e mondeggiato in ‘spazi scivolosi’ e tempi interrotti.

Ecco lo slittamento tra Heimlich e Unheimlich che produce il perturbante (Freud); ovvero, l’esperienza di non sentirci a ‘casa’ quando siamo a casa (Adorno) che spesso fluisce nella reazione paurosa della violenza.

F U O R I D E L L A M A P PA : O G G E T T I E S O G G E T T I

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I confini che svelano la violenza essenziale su cui si basa la legittimità dello stato non sono solamente e ovviamente quei confini fisici che separano uno stato da un altro per differenziare un interno domestico da un esterno estraneo. Sono anche le frontiere, talvolta flessibili, in altre occasioni brutali e rigide, che corrono anche all’interno del corpo sociale, all’interno della città occidentale odierna: quelle costituite dal razzismo, dalla povertà, dai generi sessuali e sessuati, dagli spossessati.

Anche qui si presenta la violenza della ratio occidentale nel divario tra la moralità dichiarata dell’umanesimo europeo e le pratiche concrete dell’Occidente, sia in casa sia oltremare. Si tratta di una violenza non individuale ma strutturale, una volta applicata negli spazi coloniali, ma ormai di casa dato che le distanze di ieri sono state annullate e ricomposte nella metropoli odierna.

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Qui possiamo pensare allo sottosviluppo non come il segno della superiorità europea, ma piuttosto in termini di un insulto, la cui origine rivela la crudele centralità del colonialismo nella costituzione del mondo moderno

L’Europe est litteralement la creation du Tiers-Monde…

Il pianeta resta nel vizio storico forgiato dall’Europa, “che non smette mai di parlare dell’uomo, e tuttavia lo massacra a ogni suo angolo di strada, a ogni angolo del mondo.”

Frantz Fanon, Les Damnès de la terre

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Le frontiere sono l’articolazione di rapporti di potere.

Perfino la frontiera porosa, mobile, flessibile, è sempre l’istanza di autorità: la leggitimazione dei rapporti di potere, l’esercizio di una biopolitica dove la ‘democrazia’ è spesso soppiantata dalla demografia.

È il migrante moderno che più intensamente delinea questa costellazione. Sospesi nell’intreccio di un’espropriazione economica, politica e culturale, sono lui e lei che portano le frontiere dentro di sé. Se il corpo del migrante è espressamente inscritto nella legislazione punitiva, la sua mobilità espone l’instabilità di distinzioni e confini astratti.

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Il/la migrante non è puramente un sintomo storico della modernità e i suoi flussi economici; piuttosto, è l’interrogazione condensata dell’identità vera del soggetto politico attuale. La sua precarietà è, infine, anche la nostra e detta le coordinate di una condizione mondiale.

Qui possiamo registrare come la temporalità postcoloniale disturba e interrompe il tempo misurato e controllato della modernità. La piantagione, le navi negriere, gli schiavi, le guerre, i massacri nei deserti e nella giungla, i campi di concentramento, l’apartheid, i CTP, propongono non solamente gli spettri dell’altro ieri di un’Europa mondializzata, ma sono eventi, pratiche e forme di potere che restano e resistono in un’economia affettiva attuale, come interrogazioni di una contemporaneità planetaria.

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Qui il tempo del migrante – come figura dei tempi rimossi e negati – diventa il tempo migrante della modernità. Il tempo del migrante crea lo squarcio nel nostro tempo attraverso cui il tempo della modernità migra altrove per ritornare con altri sensi, ma quasi sempre (ecco l’inquietudine e il vero senso dello spaesamento), all’interno dei linguaggi – estetici, storici, culturali, quotidiani – dell’Occidente stesso.

L A M O D E R N I TÀ M I G R A N T E

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Alla luce di questi esempi storici come possiamo oggi pensare al concetto di cittadinanza e ai processi di mondializzazione alla luce delle storie e culture rimosse, alla luce dei corpi e dei luoghi cancellati dalla modernità occidentale per assicurare che le sue prospettive restassero e continuino a restare globali ed egemoniche?

In questo scenario critico possiamo ripensare la connessione inquieta tra il colonialismo, la cittadinanza e la democrazia, e qui la figura del migrante contemporaneo si presenta con tutta la sua forza critica.

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Fare una critica del linguaggio che si regge sulla negazione violenta dell’alterità (questa potrebbe essere egualmente una definizione dello stato europeo moderno, del moderno soggetto cartesiano, e del concetto attuale di ‘cittadinanza’) implica, come giustamente suggerisce il critico Sandro Mezzadra, analizzare la ‘definizione stessa del “noi” europeo’ e della nostra ‘democrazia’: ambedue i risultati di processi storici, di configurazioni di potere, e non semplicemente figure concettuali.

Quella che Giorgio Agamben ha chiamato la violenza essenziale dello stato – quella stessa violenza che autorizza e sostiene la legittimità della democrazia – spinge il pensiero critico ai confini. Qui concetti come ‘globalizzazione’ e ‘cittadinanza’ restano inevitabilmente e giustamente esposti a una serie di domande che non sono sempre autorizzate da ‘noi’. In parole povere, e come direbbe Antonio Gramsci, sono concetti che aspettano ancora di essere pensati e praticati mondialmente.

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