Lettura Annuale di Magna Carta...

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Leura Annuale di Magna Carta 2012

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Lettura Annuale di Magna Carta2012

FEDELE CONFALONIERI

La Tv commerciale, fattore di sviluppo della democrazia

Roma, Tempio Adriano10 maggio 2012

Il presente volume raccoglie gli Attidella lectio magistralis tenuta da Fedele Confalonieri

a Roma, Tempio Adriano, il 10 maggio 2012 nell’ambito delle Letture Annualidella Fondazione Magna Carta.

Il volume è stato curato da Francesca Traldi

Indice

PresentazioneGAETANO QUAGLIARIELLO 7

La Tv commerciale, fattore di sviluppo della democraziaFEDELE CONFALONIERI 12

Nota biografica 31

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Presentazione

GAETANO QUAGLIARIELLOCari amici, come sapete, da quando mi è stato attri-

buito un incarico politico nel gruppo del Popolo dellalibertà al Senato ho dismesso ogni ruolo attivo nellaFondazione di cui ho il piacere di essere presidenteonorario. In questa veste, consentitemi due parole in-troduttive e soprattutto un sincero e riconoscente ben-venuto all'illustre ospite che ha accettato l'invito diMagna Carta e oggi ci onora della sua presenza: salutodunque Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset,co-protagonista di una storia straordinaria che, comelui stesso ci racconterà, non solo ha rivoluzionato ilmondo della comunicazione in Italia ma ha inciso inprofondità nel senso comune del popolo e nella storiadel nostro Paese.Hanno preceduto il presidente Confalonieri, in que-

sto appuntamento tradizionale di Magna Carta che èuna sorta di apertura dell'anno accademico, nel qualeci si ritrova per raccogliere ciò che si è prodotto l'annoprecedente e seminare ciò che si produrrà nell'annosuccessivo, personaggi come Bernard Lewis, il piùgrande storico vivente, Hans-Gert Pöttering, allorapresidente del Parlamento europeo, Norbert Lammert,ex presidente del Bundestag tedesco, e molti altri an-cora. Credo però che l'edizione di quest'anno sia par-ticolarmente significativa, per le ragioni che dirò abreve.

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La Fondazione ha cercato nell'anno appena tra-scorso di contribuire al dibattito pubblico con la pro-duzione di idee e l'offerta di spazi di confronto e diformazione politica. Dal canto mio, poiché anche nellepiccole cose la sfida sta nella durata, ci tengo a ricor-dare una ricorrenza che per Magna Carta è senza dub-bio un traguardo: l'ormai prossimo decimocompleanno della Fondazione, che nasceva nel 2003all'esito di una riflessione sulla crisi dell'Occidente su-scitata dall'abbattimento delle Torri Gemelle. Diecianni dopo, al cospetto di un'altra crisi e di fronte alcrollo di altre torri, qualche considerazione si impone.Oggi come allora, alle spalle dei giganteschi epife-

nomeni - nel 2001 il più grave attentato terroristiconella storia dell'umanità, ai giorni nostri lo scollamentotra economia reale ed economia virtuale che ha terre-motato i mercati e portato gli Stati nazionali sull'orlodel fallimento; oggi come allora, dicevo, sullo sfondoc'è anche e innanzi tutto una crisi di idee e di identità.I mutamenti intercorsi, lo smottamento economico-

finanziario, il venir meno delle paratie ideologiche edi strumenti consolidati di formazione del consensocome il ricorso alla spesa pubblica, hanno messo incrisi i canoni e gli stilemi della politica tradizionale. Irisultati delle recenti amministrative, se analizzati inprofondità, al di là di variabili rilevanti che sempre visono in elezioni di questa natura, restituiscono un'im-magine piuttosto fedele dell'affanno attuale dei partitie della sfida loro lanciata dai cartelli della cosiddettaantipolitica.La risposta a questa sfida non può essere una rea-

zione di terrore né una sprezzante sottovalutazione.La risposta alla crisi da parte dei partiti deve consistere

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in un rinnovamento delle forme e in un rafforzamentodei contenuti. E se il primo aspetto non è oggi all'or-dine del giorno in questa sede, sul secondo fronte iocredo che le fondazioni culturali di area potranno dareun importante contributo. Sia nella formulazione diproposte, sia nella definizione di quel perimetro idealeche muova dalla riscoperta di una tradizione per de-clinarla a fronte delle questioni inedite del nostrotempo.Apro una piccola parentesi lessicale. È interessante

notare come coniugando il termine italiano di fonda-zione, che richiama la solidità delle fondamenta, la di-mensione dell'origine, con l'espressione anglosassone"think tank", che sta per serbatoio di pensiero, si ricaviesattamente il binomio della tradizione e delle idee.

Magna Carta tutto questo ce l'ha nel suo DNA, e in-sieme alle altre fondazioni che gravitano intorno alcentrodestra è pronta ad affrontare la sfida. Sappiamoche la durezza della situazione economica del Paese cipone di fronte un problema essenziale anche in terminidi sostentamento: Magna Carta infatti non percepiscefinanziamenti dallo Stato se non in misura infinitesi-male e vive del contributo di privati e aziende che cre-dono nella promozione delle idee e che voglioringraziare, come ringrazio i tanti docenti e uomini edonne di cultura che mettono gratuitamente le propriecompetenze al servizio di un progetto e coloro che inFondazione lavorano senza risparmiarsi. Siamo con-sapevoli che la crisi sta mettendo anche le impresenella condizione di dover dosare le proprie uscite perfar quadrare i bilanci, ma ci permettiamo anche di au-

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spicare che a quanti credono nel lavoro delle fonda-zioni non sfuggirà l'importanza, proprio in un mo-mento di crisi, di sostenere la loro attività affinché leclassi dirigenti - e soprattutto mi permetto di dire, leclassi politiche - abbiano uno strumento in più per fon-dare su un terreno solido le ricette per uscire dal tun-nel.L'ho detto, infatti, e lo ribadisco: per uscire dalla

crisi non basta la tecnica, non bastano le soluzioni eco-nomicistiche se queste non sono ancorate a una visionepiù ampia, se non si nutrono della sedimentazionedelle esperienze e non salvaguardano i progressi delpassato, ivi compresi quelli maturati a livello del sensocomune. Non voglio anticipare nulla di ciò che dirà ilnostro ospite, anche perché non ne sarei in grado, macredo che le sue parole renderanno chiaro quanti osta-coli siano stati frapposti negli anni all'affermazionedella libera iniziativa sul determinismo, della liberascelta sulla costrizione, della volontà del popolo sullapretesa delle oligarchie illuminate, di una concezionedel consumo come mezzo di circolazione delle risorsesull'idea del profitto come sterco del diavolo se gene-rato al di fuori dell'egida dello statalismo.Tutto questo deve essere rivendicato con orgoglio,

e difeso in un momento nel quale la crisi potrebbe in-durre a metterlo in dubbio. Nell'immaginare propostedi modernizzazione del Paese non dobbiamo dimen-ticare la strada fin qui percorsa. E, come politica, dob-biamo farci forti di tutto questo senza paura diutilizzare questo tempo che ci separa dalla fine dellalegislatura per riformare le istituzioni, la forma-partito,gli strumenti di selezione della rappresentanza demo-cratica. In caso contrario, se lasciassimo suonare a

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vuoto quest'ultima chiamata, finiremmo per dar ra-gione a quegli editorialisti che ancora oggi - basta leg-gere Sergio Romano sul Corriere della Sera - avanzanoil sospetto che i partiti non abbiano capito la posta ingioco.Noi di Magna Carta siamo in prima linea su queste

riforme, e ricordiamo battaglie ancora attuali comequella per la libera informazione, o quella per la ri-forma costituzionale della giustizia, alla cui elabora-zione e diffusione i giuristi della Fondazione hannocontribuito, come Angelino Alfano ha avuto la genti-lezza di ricordare nel suo libro "La mafia uccided'estate".Abbiamo insomma una carta d'identità e un patri-

monio genetico di tutto rispetto, e da lì dobbiamo ri-partire per darci una rotta. Come centrodestradovremmo impiegare meno tempo a riempire i tac-cuini dei retroscenisti con la Novella 2000 delle amici-zie e inimicizie fra compagni di partito, e più tempo adefinire un programma per l'Italia per i prossimi cin-que anni e un'idea di Europa. Perché è la crisi dell'Eu-ropa che ponendoci di fronte alla prospettiva delfallimento degli Stati ci priva del nostro libero arbitrio,e non vi è nessuna ragione per la quale di fronte a que-sta crisi i manifesti di Romano Prodi e di GiulianoAmato debbano restare l'unica voce a levarsi, senza ri-sposta e senza alternativa.Ripartiamo da qui. Magna Carta è pronta e in prima

linea a fare la sua parte. Grazie.

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La Tv commerciale, fattore di sviluppodella democrazia

FEDELE CONFALONIERIÈ un onore per me essere qui a raccontare la mia

esperienza come presidente del primo gruppo di co-municazione operante in Italia. Il tema della lettura èla tv commerciale come fattore di sviluppo della de-mocrazia e senza dubbio la tv commerciale è stata mo-tore di democrazia. La sua storia e la storia di Mediasetin particolare sono strettamente intrecciate con evolu-zione politica e democratica del Paese. Oggi la pluralità dell’offerta commerciale, fornita da

un gran numero di televisioni private in competizionefra loro e con la Rai, è la realtà quotidiana. La nostrastoria imprenditoriale comincia prima, a metà deglianni ’70, quando l’attività televisiva era un monopoliopubblico e quindi solo la Rai era abilitata a trasmettere. La nascita della televisione commerciale è la prima

grande liberalizzazione che si realizza in Italia e la Raiè il primo monopolio pubblico che si trova, quasi al-l’improvviso, ad affrontare la concorrenza privata. Dovranno passare quasi vent’anni prima che arrivi

al traguardo un’altra liberalizzazione in un settore im-portante: è solo nel maggio 1994, durante il suo ultimogiorno in carica, che il governo Ciampi assegna a Om-nitel una licenza di operatore mobile inaugurando laconcorrenza con Telecom, ancora controllata al 100%dalla mano pubblica, nella telefonia mobile.

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Vent’anni di distanza e una differenza di fondo: latelefonia è aperta al mercato con una decisione dal-l’alto, sulla base di indirizzi provenienti dalla Commis-sione europea e secondo uno schema messo a puntodal governo che definisce il numero dei concorrenti ei loro tempi di ingresso; la televisione rompe il mono-polio pubblico grazie a un impulso dal basso, conl’azione di centinaia di soggetti (migliaia se si conside-rano anche le radio) che d’improvviso cominciano atrasmettere: non c’è una decisione del Governo, nonc’è una legge approvata in Parlamento, c’è solo un la-bile quadro normativo – poco più che un pretesto perlo scatenarsi della creatività editoriale – costituito datre sentenze della Corte Costituzionale (due emessenel 1974 e una nel 1976). La nascita dell’emittenza pri-vata (radio e televisione) è un moto sociale spontaneo,un’onda che viene dal profondo della vita collettiva.In quanto tale fragile, disordinata, facilmente desti-

nata a disperdersi.Chi sa dare a questa energia una quadratura indu-

striale, un indirizzo costruttivo, trasformandola in unacomponente duratura dell’imprenditoria italiana è Sil-vio Berlusconi. Riesce a farlo perché coglie il puntoessenziale: nella società italiana ci sono molti blocchidi comunicazione che impediscono di valorizzare apieno le risorse produttive, una grande riserva di ca-pacità industriale e di potenziale creativo che non rie-sce a dispiegarsi, perché è compressa, sminuzzata, ta -glieggiata da una gabbia istituzionale pervasiva chepretende di sapere – con arroganza dirigista – ciò cheè meglio per i cittadini e che alla fine crea solo nicchiedi opportunità per pochi privilegiati.

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Nella società italiana degli anni ‘70 un gran numerodi imprese aveva difficoltà a entrare in contatto con ipropri potenziali consumatori: sistema distributivo an-tiquato (tanti piccoli negozi sparsi sul territorio e co-stosi da raggiungere, pochi supermercati); tecniche dimarketing ancora rudimentali; strumenti pubblicitariinsufficienti (quotidiani poco letti, periodici molto af-follati e adatti solo ad alcuni tipi di prodotto, spazi te-levisivi non venduti ma assegnati col contagocce). Dal lato delle imprese ciò significava: difficoltà a

crescere, anzi qualche volta nanismo coatto; idee diprodotto spesso buone soffocate nella culla; rapportovendite/costi distributivi troppo basso. Dal lato deiconsumatori invece voleva dire: esigenze non soddi-sfatte o soddisfatte male; potenzialità di consumo chenon trovavano vie e strumenti per riconoscersi e ma-nifestarsi; vita quotidiana più complicata (i surgelati sidiffondono a partire dai tardi anni ‘70); meno gioia divivere (i prodotti per l’igiene e la bellezza esplodononei primi anni ‘80).

La televisione, con la sua straordinaria capacità dicoinvolgimento, è il mezzo ideale per dare voce alleimprese, per permettere loro di trovare il pubblico giu-sto per le idee di mercato che hanno messo a punto: inquesto senso favorisce la circolazione dei progetti com-merciali, migliora e rende meno costoso l’incrocio fradomanda e offerta.Il monopolio pubblico è un tappo per l’economia,

la liberalizzazione toglie ostacoli alla vita sociale.La società degli anni ‘70 – grigia, bloccata, intristita

dall’austerità, impaurita dal terrorismo – ha bisogno

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di nuove idee, va irrorata e rinfrescata con pensieri ori-ginali, con un’esplosione di creatività.

Rai è sottodimensionata rispetto a questo compito:pensa alla pedagogia sociale, a un mondo anni ‘50 datenere per mano, a cittadini in stato di minorità. In re-altà il miracolo economico ha fatto correre l’Italia e Ber-lusconi per primo intuisce che la società – i cittadini, icreativi, le imprese – richiede un surplus di comunica-zione, più conoscenze che circolano più veloci, menobarriere, divieti, nicchie protette. Una televisione plu-rale, variegata, flessibile è lo strumento adatto a questoscopo, ma per costruirlo ci vuole solidità, organizza-zione, piani di lungo periodo. L’energia vitale dei“cento fiori” sbocciati nei primi anni ‘70 (le radio e letelevisioni libere) deve trasformarsi in impresa, farsisistema.Nel 1980 Silvio Berlusconi: completa il suo primo network di emittenti regio-nali: insieme coprono tutt’Italia riunite nella siglaCanale 5;fonda la prima concessionaria di pubblicità pri-vata, Publitalia’80;costituisce Reteitalia, la società che acquista di-ritti televisivi e rileva da Rizzoli gli studi di Co-logno Monzese in cui realizza i propriprogrammi;acquisisce Elettronica Industriale, società specia-lizzata nella costruzione di reti di emissione.

Sono le «4 gambe del tavolo», come Berlusconi lechiamava, cioè un progetto industriale che contiene alproprio interno tutte le attività essenziali per il busi-ness televisivo.È il passaggio che permette alla televi-

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sione commerciale di raggiungere la dimensione na-zionale e di portare una sfida paritaria alla Rai.

Prima di arrivare a questo risultato occorre superareuna tappa intermedia, ovvero realizzare l’equilibrionelle infrastrutture acquisendo un numero di reti tra-smissive uguale a quello della Rai. Nel 1982, a inizio anno, debuttano su scala nazio-

nale i tre maggiori network: Canale 5, Italia 1, Retequat-tro. I due competitori privati, Rusconi e Mondadori,leader della carta stampata di grande fama e solida tra-dizione, ben presto gettano la spugna: Rusconi intuisceper primo l’ampiezza della scala di investimenti cheimpone il business televisivo e, pochi mesi dopo averlanciato Italia 1, sceglie di monetizzare realizzandoun’ottima plusvalenza; Mondadori invece prolunga lasfida, sbaglia alcune scelte strategiche di fondo e nel1984 è costretta a chiedere la mediazione di Cuccia pervendere il business televisivo a un prezzo che consentadi salvare la casa madre. Il biennio 1982-4 è il periodo chiave: l’outsider che

sconfigge i blasonati rappresentanti editoriali dell’esta-blishment (acquista da Rusconi Italia 1 nel 1982 e Rete-quattro da Mondadori nel 1984) e lancia una sfida adarmi pari alla Rai: è un evento che colpisce la fantasiacollettiva e marca un’epoca. Ne discende una lunga se-quenza di svolgimenti politici e sociali, alcuni dei qualiancora oggi segnano la nostra vita pubblica.

Prima conseguenza. La vittoria dell’outsider hacome effetto immediato di indurre gli avversari a coa-lizzarsi. La liberalizzazione è un fatto traumatico, inanticipo sui tempi della politica e dell’ideologia, i par-

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titi maggiori e anche larga parte del mondo industrialel’avvertono come una minaccia. Facciamo un rapidoflashback sul periodo.Nel 1982 Craxi è lontano dalla Presidenza del Con-

siglio e combatte per allargare lo spazio politico del Psiancora schiacciato sotto al 10%. Il terrorismo si man-tiene aggressivo, ma nel 1981 la marcia dei 40.000 a To-rino mostra che la classe media è stanca diintimidazioni e caos.Gli Anni ‘70, dominati dalla violenza politica e dallo

shock petrolifero, hanno consegnato un lungo decen-nio di sacrifici e grigiore, ma la maggioranza degli ita-liani ormai sta per voltare pagina: ne ha l’energia e ildesiderio.La politica però non l’ha compreso: l’unità nazio-

nale è finita, ma il Pci e gran parte della Dc ne hannonostalgia, resistono all’idea di archiviarla.Sono entrambi partiti in crisi: il Pci soffre la rivela-

zione ormai conclamata della ferocia sovietica (Praga,i gulag, l’Afghanistan) che culmina nel grottesco (la sfi-lata dei moribondi alla segreteria Pcus: Breznev, An-dropov, Cernenko) e cerca sollievo nel moralismo (ilpartito diverso, l’austerità come modello di vita); la Dcnon riesce più a capire l’Italia vitale e confusa deldopo’68, si meridionalizza e burocratizza, allarga leclientele e perde l’afflato riformista degli anni ‘50 eprimi ‘60.C’è però un punto – ideologico – che li mantiene vi-

cini e consonanti aiutandoli a combattere molte batta-glie di retroguardia – contro Craxi, Berlusconi e ingenerale gli impulsi innovatori della società – neglianni ‘80: è proprio la pedagogia illuminata, l’idea checittadini e consumatori (il popolo) siano in un perenne

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stato di minorità e che quindi sia opportuno limitarele loro scelte – nella televisione, nei consumi (l’auste-rità), nella scuola, nella gestione dei risparmi. Al postoloro è meglio se decide chi sa, l’élite civilizzata dell’edi-toria, dell’impresa, dei vertici politici, dell’alta diri-genza pubblica.È questo il mondo che vede la liberalizzazione tele-

visiva, l’esplosione consumista che ne deriva in lineadiretta, il successo dell’outsider venuto dall’Isola comeil caos che avanza, un acido che ha il potere di dissol-vere il castello perbenista della delega ai sapienti. Iconservatori non sbagliano: attraverso la libertà discelta che la televisione commerciale diffonde ovun-que, rende abitudine comune, modo naturale d’agire,l’Italia cambia, esce di minorità, abbraccia nuovi usi enuove attività. La radice di tante novità, che attecchi-ranno negli anni ‘90 e nel nuovo secolo, dall’uso per-vasivo delle reti mobili alla Seconda Repubblica,stanno in questo salto di mentalità.

Il fronte dei conservatori pedagogici è ampio: oltreal Pci e alla sinistra democristiana, c’è tutta la cartastampata convinta che la televisione commercialeusurpi una buona fetta dei ricavi pubblicitari ad essadestinati per diritto e tradizione, quella parte dell’im-prenditoria che ha come impegno prioritario l’accordoanche al ribasso con la CGIL (il patto stilato da Agnellisulla scala mobile), quasi tutto il mondo giuridico,sempre abile a trovare in una Costituzione ormai vec-chia di mezzo secolo la conferma di ogni propria idio-sincrasia, aree cospicue di intellettuali cui riesce facilecombinare interessi personali e battute chic.

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Negli anni ‘80 questo fronte non era allineato con lelinee di separazione vigenti nella politica parlamen-tare: De Mita era in maggioranza con Craxi e il Pcistava formalmente all’opposizione. Tuttavia sui temidell’editoria, della televisione, dei consumi si formauna diversa coalizione che lancia autonome paroled’ordine, utilizza tecniche di scontro extra politiche(delegittimazione personale, squalifica giudiziaria),sperimenta scenari inediti di convergenza.

Dall’oscuramento delle reti Fininvest, deciso daipretori di varie regioni nell’ottobre 1984, poche setti-mane dopo l’acquisto di Retequattro, alle dimissioninell’agosto 1990 di cinque ministri del governo An-dreotti appartenenti alla sinistra Dc, che protestavanocontro la prima legge sulla televisione commerciale(autore il repubblicano Mammì) giunta al voto delParlamento (era ritenuta troppo favorevole a Berlu-sconi), sono numerose le prove di forza del fronte con-trario alla liberalizzazione e nostalgico dell’unitànazionale.Sono molte le varietà ideologiche e le differenze di

interessi all’interno del fronte nostalgico; chi dà lorocompattezza e respiro strategico è Repubblica, findall’origine partecipata da Mondadori al 50% e ormaidivenuta quotidiano-partito: indirizza le faticose revi-sioni del Pci, smarrito e confuso in quella che (a sua in-saputa) è la fase terminale di una lunga storia, ripulisceDe Mita dalle scorie clientelari della Magna Grecia elo accredita a sinistra come leader nazionale («unnuovo De Gasperi» attesta Scalfari), argomenta la cen-tralità della questione televisiva, rilucida la pedagogia

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austera come alternativa alla vitalità poco perbene delmondo craxiano.A questo punto forse non sorprende notare che la

vittoria di Andreotti sulla sinistra demitiana nell’ago-sto 1990 è l’ultimo successo significativo dell’alleanzaDc-Psi (ovvero del Caf) e che il fronte schierato per losmantellamento della televisione commerciale è il pre-cursore, quasi la prova generale, della coalizione chenel 1994, caduto il governo Ciampi, si appresta con Oc-chetto a prendere la guida dell’Italia. Forse, senza ne-anche troppo forzare, si può dire che la SecondaRepubblica riproduce l’impianto, i temi e anche le tec-niche aggressive che negli anni ‘80 avevano caratteriz-zato lo scontro televisivo.

Seconda conseguenza derivante dal consolida-mento dei primi anni ‘80. Le emittenti commerciali, esoprattutto il leader che lancia la sfida paritaria allaRai, cambiano il consumo televisivo, trasformano ilvideo: il pungolo della concorrenza si fa sentire. Eccoi risultati.

Aumentano i tasti sul telecomando, cresce la li-bertà di scelta del consumatore.Si moltiplicano gli spazi professionali per leaziende, in una varietà di formule e formati chepersonalizzano gli usi di marketing e consentonomolti lanci di nuovi prodotti, sviluppo di aziendepartire da piccole dimensioni, rilevanti crescite difatturato per chi investe.Si estende a 24 ore la giornata televisiva: il daytime è un’invenzione della televisione commer-ciale, a cui la Rai si adegua con qualche fatica.

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Si accentua la figura intima, amichevole della retee del suo marchio che instaura una consuetudinedomestica con il pubblico (“Torna a casa in tuttafretta, c’è il Biscione che ti aspetta!”), testimoniatadal tono familiare dei volti celebri che lanciano lanuova era (Mike Bongiorno, Raffaella Carrà, Cor-rado, Pippo Baudo).Si sviluppano produzioni che introducono nuoviformati e stili inediti (Drive In), colgono tendenze,modi di pensare, atteggiamenti ancora in lucenella società, danno spazio a fasce di pubblico (igiovani) lasciati spesso ai margini della program-mazione Rai.

Come accade nel circuito imprese/distributori/con-sumatori, anche nell’ambito della vita sociale la con-correnza, che si afferma con l’ingresso ormai stabile nelmercato televisivo di nuovi operatori, scopre esigenzeimpreviste, intenzioni non manifestate, nuovi modi diagire: il mondo collettivo si arricchisce. La vitalità e gliimpulsi di sviluppo che marcano gli anni ‘80 hannonella sferzata creativa della televisione commercialeun ingrediente molto importante.

Terza conseguenza. Negli anni che seguono il con-solidamento della televisione commerciale il contrastofra la pedagogia conservatrice e le innovazioni di chipunta sulle scelte individuali si declina anche nellaforma di una crescente polarità fra senso comune eopinione pubblica. La televisione fin dall’esordio hadimostrato grande capacità di dare forma, linguaggio,contesti ai sentimenti personali e collettivi aiutando a

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esprimere e ordinare gli snodi, anche i più complicati,dell’esistenza.Quando entrano in scena le reti commerciali, che

ampliano la gamma degli strumenti espressivi a dispo-sizione del video, la capacità di costruire senso co-mune si affina e arricchisce: spot e fiction, show epromozioni agiscono in maniera coordinata e nel loroinsieme riescono, meglio di ogni altra fonte cognitiva,a generare immagini della vita che funzionano comematrici di senso dove collocare e intendere gli eventiquotidiani (di cui i consumi sono parte essenziale). L’opinione pubblica è invece la sfera in cui si raccol-

gono i giudizi e le descrizioni sugli eventi collettivi ein linea di tendenza è indirizzata soprattutto dallacarta stampata: negli anni ‘80 in questo ambito Repub-blica assume un ruolo di crescente rilevanza.La pedagogia conservatrice, che trova difficoltà a

parlare alla pancia degli italiani, riesce bene invece araccontare l’attualità, a organizzare il giudizio econo-mico e politico – in sintesi, a orientare le classi diri-genti. I telegiornali Rai tendono a seguire, nel periododel monopolio, la traccia dei grandi quotidiani, spessocon una punta di conformismo in più. Quanto alle te-levisioni commerciali, fino al 1990, quando passa lalegge Mammì, è impedito loro di fare telegiornali (èvietata l’interconnessione fra centri di trasmissione di-stanti fra loro ed è quindi impossibile la diretta nazio-nale) .

La polarità fra senso comune e opinione pubblicaha ricadute di lungo periodo. Per fare qualche esem-pio, nel 1984 la stampa conservatrice che fiancheg-giava con puntiglio legalitario la censura dei pretori si

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trovò spiazzata davanti alla protesta dei cittadini che,con lo slogan “Aridatece li puffi”, reclamavano il ri-torno in video di programmi ormai familiari; in modoanalogo nel 1994 il successo di Forza Italia colse di sor-presa quasi tutti gli osservatori: il racconto razionale econformista dell’attualità spesso fatica a intendere imovimenti sommersi della vita collettiva. Di converso,i partiti del centro-destra, sospinti dalla sintonia con ilsenso comune e poco interessati alle meccaniche del-l’opinione pubblica, hanno collezionato in questo am-bito, dal 1994 a oggi, una lunga catena di disastrid’immagine.Nell’agosto del 1990 la legge Mammì integra final-

mente la televisione commerciale, dopo 15 anni di esi-stenza, nella legislazione italiana. Si tratta di unpassaggio molto importante della storia televisiva.

È sancita la dimensione nazionale, ossia la possi-bilità di trasmettere in diretta su tutto il territorioitaliano. Ciò implica il diritto di fare telegiornali e l’ob-bligo di osservare nella produzione di informa-zione una serie cogente di principi («pluralismo,completezza, imparzialità»): la barocca architet-tura della par condicio, avviata nel 1995 dal go-verno Dini e stabilizzata definitivamente nellalegge 28 del 2000, ha qui il suo motivo fondante. Infine è riconosciuto il «concorso dei “soggettiprivati», che saranno dotati di concessione, nellarealizzazione del sistema televisivo, il che confe-risce loro uno statuto di parità con l’operatorepubblico.

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È la seconda grande vittoria politica della televi-sione commerciale.Nel 1984 Craxi ne salvò l’esistenza stipulando un

costoso compromesso con i conservatori: la Dc ottennela concentrazione dei poteri Rai nelle mani del diret-tore generale (di cui ipotecava la nomina) e il Pci gua-dagnò il comando di Rai 3. Nel 1990 Andreotti vince una battaglia campale, ma

paga il prezzo di dare consistenza e ratifica, pur nellasconfitta, a un sistema di alleanze alternativo al suogoverno. Gli effetti si vedranno pochi anni dopo.Anche nell’informazione le reti commerciali por-

tano novità: introducono uno stile più narrativo,danno spazio alla cronaca e ai sentimenti vissuti, ridu-cono la distanza ufficiale dal potere che provano a rac-contare come una sequenza di episodi quotidiani,cercano un costante aggancio con l’esistenza di tutti igiorni. Dalla prima guerra in Iraq (con la vicenda della cat-

tura di Bellini e Cocciolone) fino a Mani Pulite (la po-stazione con il tram davanti al Palazzo di Giustizia diMilano) sono frequenti, negli anni in cui debutta l’in-formazione della televisione commerciale, i casi in cuisi esercita un nuovo stile rapido e fresco, quasi fiction,nel fornire notizie.

La soluzione legislativa del 1990 stabilisce una tre-gua che ha durata breve: appena due anni dopo ManiPulite si riaccende lo scontro. La televisione commer-ciale era stata legittimata negli anni ‘80 da Craxi e An-dreotti, ovvero dal sistema politico mandato infrantumi dai giudici: già nel 1993 sembra orfana, priva

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di riferimenti istituzionali. Al fronte dei conservatoripare finalmente giunto il momento di ribaltare il risul-tato del 1990 e smembrare la costruzione di Berlusconi.

Due fattori giocano a suo favore: il sistema politicoche nel 1992-1993 si viene costituendo ha come assecentrale alcune delle forze che da 15 anni avversano latelevisione commerciale; l’epopea di Mani Pulite, cheimpressiona i sentimenti collettivi, dà all’establishmentperbenista e ai grandi editori di quotidiani quell’ag-gancio al senso comune che in precedenza era lorosempre mancato. Molti credono (e si augurano) che ladenigrazione di Craxi possa coinvolgere nella squali-fica anche la televisione commerciale.

Nel 1994 la Corte Costituzionale fornisce l’agganciogiuridico utile per amputare l’azienda di Berlusconi:dichiara incostituzionale la norma che fissa al 25% laquota di reti televisive nazionali controllabili da ununico soggetto (Fininvest si attesta esattamene a talesoglia) e la abbassa al 20%. È cominciata la partita di ritorno – quella che do-

vrebbe essere la rivincita – sulla sorte della televisionecommerciale. Il successo di Forza Italia scompagina però i giochi

e trasforma la natura della contesa intorno alla televi-sione commerciale: da scontro sull’assetto di un settoreindustriale, per quanto importante, si trasforma in con-flitto politico essenziale, linea di separazione che di-vide tutto lo spettro dei partiti e il Paese stesso. Sicostruisce pian piano un bric-à-brac mitologico checrea fortune televisive, cumula diritti d’autore, mobi-lita le anime sante e fa deragliare nell’inessenziale il

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dibattito pubblico: conflitto d’interessi, videocrazia, re-gime, caimano.In realtà dal 1984, per quasi trent’anni, si ripete uno

schema costante che ad ogni passaggio amplia il suoraggio di applicazione ma non muta natura. Chi pro-muove la libertà d’innovare delle imprese e la libertàdi scegliere dei cittadini, che sono anche consumatori,si rivolge in via diretta al pubblico, alla platea di chidecide programmi e acquisti, ne cerca il sostegno inprima persona: nel 1984 sono le manifestazioni deglispettatori che vogliono ritrovare sul video i Puffi, nel1994 sono gli elettori che votano primo ministro l’in-ventore di Canale 5, nel 1995 sono i votanti che respin-gono con larga maggioranza il referendum dell’ex Pciper amputare Mediaset.Chi promuove la pedagogia illuminata e vuole per

i cittadini una scelta limitata cerca la via burocratica, icollegi ristretti, gli organi istituzionali: nel 1984 i pre-tori, nel 1994 la Corte Costituzionale, nel 1998 l’AG-COM, nel 2005 la Commissione di Bruxelles.Se si volesse scherzare sui luoghi comuni, giocare

con i termini di moda, si potrebbe dire che da unaparte stanno i populisti che vogliono lasciar decidereal popolo anche le questioni più sofisticate, la derivaplebiscitaria che non ha scrupolo a travolgere i palettilegalitari, dall’altra c’è la macchina istituzionale ches’ingegna a trarre profitto da una sapienza esotericaper modellare il corso degli eventi, anche al di là dellavolontà popolare.La partita di ritorno, cominciata nel 1994 con la sen-

tenza della Corte che abbassa al 20% il limite antitrustper le reti televisive, si chiude 10 anni dopo, nel 2004,con un’altra sentenza della Corte e una decisione

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dell’AGCOM che salvano l’integrità di Mediaset eaprono una nuova fase di sviluppo televisivo basatosu un balzo in avanti della tecnologia. Per la primavolta le ragioni della concorrenza e della libertà discelta sono riconosciute in quelle sedi istituzionali chetante volte si erano inclinate verso la visione dei con-servatori: la chiave del successo, proprio come agli al-bori dell’avventura televisiva privata, è la fiducianell’innovazione.Negli anni di esordio della televisione commerciale

l’innovazione è di tipo organizzativo, consiste nella ca-pacità di combinare nel modo più efficace i fattori diproduzione (trasformare i programmi televisivi instrumenti di marketing). Nella fase che comincia a fine secolo, quando il ti-

mone politico è nelle mani del centro-sinistra e il pre-giudizio avverso all’impresa televisiva del fondatoredi Forza Italia è quasi un dato di realtà per la granparte dell’opinione pubblica, l’innovazione è tecnolo-gica e consente di espandere e arricchire l’esperienzadi consumo dei prodotti audiovisivi.Nel 1998, quando comincia a operare l’AGCOM, cui

spetta il compito di dare attuazione alla sentenza del1994 e quindi di stabilire tempi e modi del taglio da in-fliggere a Mediaset, la tecnologia digitale, che consentedi sfruttare con la massima efficacia lo spettro radio(più canali diffusi, migliore qualità dell’immagine), èutilizzata solo nelle trasmissioni via satellite in Francia,Germania (1996) e Gran Bretagna (1998), ma sta perapprodare – grazie agli enormi vantaggi che offre –anche nella diffusione terrestre.

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Il passaggio è ineliminabile e quanto prima avvienetanto più dà vantaggi (più offerta programmi, piùspettatori, più spazi pubblicitari) agli editori televisivi.Mediaset, che è il market leader e in teoria avrebbe piùdegli altri editori qualcosa da perdere in un rimesco-lamento dell’offerta, si mette alla testa del movimentoche spinge per una rapida attuazione del passaggiotecnologico.La mossa crea scompiglio tra i fautori della chirur-

gia antitrust. Da un lato contrastare lo sviluppo dellatecnologia (la principale forza produttiva) suona maleper il principale filone ideologico della sinistra, maanche sostenere una lunga durata dell’analogico, chefinirebbe con il collocare l’Italia alla retroguardia in Eu-ropa, non è un’opzione felice; d’altro lato la conver-sione al digitale intralcia la redistribuzione dellefrequenze per uso analogico che è un passo necessarioper il rilascio delle concessioni e il taglio di Mediaset.AGCOM assume una posizione di principio favo-

revole al rapido sviluppo della tecnologia digitale e,quando la prima legislatura prodiana finisce tra i con-trasti del centro-sinistra, il nuovo governo Berlusconivara (dicembre 2003) una seconda legge di sistema perla televisione (dal 1990 sono passati 13 anni: un’epocastorica) che si impernia sulla prospettiva digitale e creale condizioni per accelerare gli investimenti dei broad-caster in infrastrutture. La legge Gasparri è forse la legge più vilipesa di

tutta la seconda Repubblica, ha sollevato un’onda ine-sausta di ricorsi e contestazioni, però in 10 anni ha con-tinuato a funzionare quasi intatta e ha promosso unostraordinario sviluppo tecnologico dell’industria au-diovisiva.

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Due note a margine per conferma.I. nel 2003 la Commissione Ue autorizza una fu-

sione tra i due operatori pay dell’epoca che dà aSky il monopolio di settore: dopo sei anni, nel2009 Sky, operando nel contesto normativo deli-neato dalla legge Gasparri, diventa il primo edi-tore televisivo per fatturato scardinando ilduopolio (e le relative chiacchiere).

II. oggi il mercato televisivo annovera 4 principalioperatori, tutti facenti parte di grandi gruppi in-dustriali e almeno una dozzina di altri editori na-zionali, alcuni integrati in verticale altri attivisolo come content provider, con una configura-zione concorrenziale del tutto analoga a quelladella telefonia mobile che esprime un fatturatoquasi triplo.

La storia della televisione commerciale in Italia duraormai da più di un terzo di secolo. È stata densa dieventi e ha contribuito a modellare, in una misuraforse inaspettata, anche attraverso i contrasti suscitati,la forma del sistema politico negli ultimi Vent’anni.

Nel complesso ha arricchito e reso più compiuta lavita civile. Soprattutto tre apporti ci sembrano acquisitiin maniera irreversibile.

Aprire settori importanti e sensibili, come l’indu-stria televisiva, alla decisione dei cittadini e allaparitaria competizione delle imprese, superandorestrizioni che confiscano la libertà di scelta a fa-vore di élite sapienti, è una conquista che ha fattobene sia all’economia (il boom dei consumi deglianni ‘80) sia alla democrazia in Italia.

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Aiutare il senso comune dei cittadini a trovareun’espressione sempre più ricca e articolata at-traverso la novità degli spot e la sorpresa di pro-grammi fuori dalla consueta linea televisivaalimenta una crescita civile che negli anni ‘90 simanifesta anche in una crescente indipendenzadel giudizio: sociale in primo luogo ma anche po-litico.Costruire un’informazione meno ingessata diquella tradizionale, più centrata sulle persone ele loro storie, più diretta, fornisce migliori stru-menti di controllo sulle decisioni del mondo po-litico.

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Nota biografica

FEDELE CONFALONIERI è nato il 6 agosto 1937 aMilano. Si è laureato in Giurisprudenza all’UniversitàStatale di Milano con una tesi sulle norme antitrust. Èpresidente di Mediaset S.p.a e Consigliere di Ammini-strazione del quotidiano «il Giornale». Dal dicembre2000 è Consigliere di Amministrazione e Vicepresi-dente del gruppo Telecinco. È anche membro del Con-siglio Direttivo e della Giunta di Confindustria eAssolombarda e, nell’ambito della Federazione RadioTelevisioni, Presidente dell’Associazione TelevisioniNazionali. Fa parte della Giunta Direttiva di Assono-mine.

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