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1 IL LIBERALISMO DELLA SPESA PUBBLICA INTRODUZIONE 2 1. LA SPESA PUBBLICA 4 1.1 I fattori che influenzano la spesa pubblica 5 1.2 Le teorie sulla spesa pubblica 6 1.3 Le funzioni della spesa pubblica 9 1.4 Le inefficienze del mercato come giustificazione della spesa pubblica 10 2. LA VISIONE DI JOHN MAYNARD KEYNES 16 2.1 La formulazione della General Theory 18 3. IL PENSIERO DI FRIEDRICH AUGUST VON HAYEK 21 3.1 La confutazione delle tesi di Keynes 23 3.2 The Road to Serfdom 27 4. PRIME CONSIDERAZIONI 29 4.1 La necessità dell’intervento pubblico in un’economia capitalista 29 4.2 I limiti della spesa pubblica 31 4.3 Il monito di Hayek 34 BIBLIOGRAFIA 36

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IL LIBERALISMO DELLA SPESA PUBBLICA

INTRODUZIONE 2

1. LA SPESA PUBBLICA 4

1.1 I fattori che influenzano la spesa pubblica 5

1.2 Le teorie sulla spesa pubblica 6

1.3 Le funzioni della spesa pubblica 9

1.4 Le inefficienze del mercato come giustificazione della spesa pubblica 10

2. LA VISIONE DI JOHN MAYNARD KEYNES 16

2.1 La formulazione della General Theory 18

3. IL PENSIERO DI FRIEDRICH AUGUST VON HAYEK 21

3.1 La confutazione delle tesi di Keynes 23

3.2 The Road to Serfdom 27

4. PRIME CONSIDERAZIONI 29

4.1 La necessità dell’intervento pubblico in un’economia capitalista 29

4.2 I limiti della spesa pubblica 31

4.3 Il monito di Hayek 34

BIBLIOGRAFIA 36

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INTRODUZIONE

In un mondo utopico, la difesa delle ragioni del libero mercato dovrebbe essere il

mandato che ogni individuo dotato di raziocinio dovrebbe compiere ogni giorno. È noto infatti

che l’economia capitalista è il migliore sistema di organizzazione delle attività produttive ad

oggi conosciuto. Ed invero, soltanto in un ambiente in cui viene assicurato il libero estrinsecarsi

delle libertà economiche può essere garantito sia il rispetto della capacità di autodeterminarsi

dell’uomo, sia un adeguato sviluppo economico della società.

Senonché, il tempo presente ci mostra una realtà diametralmente opposta. Da un lato, lo

Stato ha incrementato negli anni il suo intervento nell’economia, dedicandosi alla produzione

di beni o all’offerta di servizi in svariati settori dell’economia reale. Al fine di colmare le

inefficienze dell’economia di mercato, le Pubbliche amministrazioni hanno finito per arrogarsi

la competenza a gestire mercati tradizionalmente in mano alle organizzazioni economiche

private, relegando l’iniziativa privata ad un ruolo da “attore non protagonista”. Dall’altro, la

spinta delle forze di mercato verso l’assunzione di quote di mercato sempre più importanti ha

ridotto drasticamente il cosiddetto atomismo dell’offerta, comportando la diffusione senza freni

di monopoli e/o oligopoli di natura privata. Tale inclinazione del mercato verso il

consolidamento di superpotenze economiche ha compromesso in profondità la possibilità del

libero gioco delle forze di mercato di garantire uno sviluppo libero e armonioso della società.

In tale contesto, si inserisce l’interesse ad approfondire il ruolo che la spesa pubblica

riveste nel sistema economico. Da un punto di vista teleologico, si afferma che l’intervento

statale nel governo dell’economia dovrebbe assicurare che l’interesse pubblico della collettività

non venga leso dallo svolgimento delle relazioni economiche inter-private. L’esperienza

empirica più o meno recente ha, infatti, dimostrato che il sistema dell’economia di mercato, a

causa della sua intrinseca instabilità, non può essere lasciato a sé stesso, ma deve essere

temperato dalla presenza di un organismo terzo in grado di assicurare il mantenimento di

condizioni di stabilità socio-economica.

Ciò detto, nel primo capitolo si affronterà lo studio della spesa pubblica in un’ottica

prettamente macroeconomica, analizzando il ruolo che tale aggregato riveste nella produzione

del reddito nazionale. Un focus specifico sarà quindi dedicato alle teorie maggioritarie sulla

spesa pubblica, nonché alle funzioni che l’intervento pubblico svolge nel sistema economico.

Nel secondo capitolo si analizzerà il pensiero di John Maynard Keynes, l’economista

inglese definito autorevolmente come uno dei padri della concezione riformatrice del sistema

capitalistico. Attraverso una rapida ricostruzione del pensiero keynesiano, si cercherà, in

particolare, di illustrare il fondamento teorico dell’intervento dello Stato nell’economia,

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sottolineando i passaggi logici che hanno indotto Keynes a supportare l’utilizzo della spesa

pubblica per contrastare fasi avverse del ciclo economico.

Il terzo capitolo è, invece, dedicato al pensiero di Friedrich August von Hayek, uno dei

più grandi esponenti della Scuola austriaca dello scorso secolo. Nello specifico, per quanto

interessa la presente sede, in tale capitolo si approfondirà la visione pessimistica del filosofo

austriaco circa l’utilizzo della spesa pubblica per finalità anticongiunturali. In tale ottica, un

paragrafo particolare sarà incentrato su The Road to Serfdom, una delle opere più famose di

Hayek.

Infine, alla luce degli spunti di riflessione derivanti dal dibattito tra Keynes ed Hayek,

l’ultimo capitolo sarà dedicato a delle prime considerazioni sul tema della spesa pubblica. A tal

proposito, si cercherà di dimostrare come una moderna democrazia liberale non può

sopravvivere in assenza di un intervento dello Stato nel sistema economico. In effetti, i rischi

insiti nel libero gioco delle forze di mercato impongono all’apparato pubblico di assumere un

ruolo fattivo, onde assicurare il mantenimento dell’ordine costituito. Tuttavia, tale conclusione

deve essere affiancata dall’individuazione di stringenti limiti all’utilizzo della spesa pubblica,

in assenza dei quali verrebbe seriamente compromessa la sfera di libertà dei singoli. Più

esattamente, il settore pubblico dovrebbe operare permanentemente nel sistema economico

soltanto laddove i soggetti privati non possono o non riescono ad assolvere al compito di fornire

beni e servizi alla collettività, ovvero agire in forma temporanea in caso di gravi

malfunzionamenti dell’economia di mercato. Al di fuori di situazioni, l’economia dovrebbe

essere lasciato in mano al settore privato e al libero gioco della concorrenza.

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1. LA SPESA PUBBLICA

La macroeconomica ci insegna che la spesa pubblica costituisce uno dei modi attraverso

cui lo Stato interviene nel sistema economico allo scopo di risolvere le inefficienze presenti

all’interno del libero mercato, nonché soddisfare esigenze di tipo distributivo. Insieme alle

entrate tributarie, al debito pubblico e all’utilizzo delle imprese pubbliche, la spesa pubblica

rappresenta, invero, forse il principale strumento in mano alla macchina statale per soddisfare

quello che viene comunemente definito l’interesse pubblico1.

A titolo esemplificativo, i beni e servizi che vengono considerati tradizionalmente parte

della spesa della Pubblica amministrazione ricomprendono il settore della difesa nazionale, le

spese per la manutenzione delle strade pubbliche e gli stipendi dei dipendenti pubblici2. In

aggiunta a tali spese per attività produttive correnti, tuttavia, lo Stato affronta anche un altro

tipo di spesa che viene denominata “trasferimenti”, atteso che tale voce di spesa ricomprende

tutto ciò che viene erogato ai cittadini non come sinallagma contrattuale3.

Il livello di produzione di una nazione viene influenzato dal settore pubblico

principalmente attraverso la seguente dinamica: la spesa pubblica incrementa la quantità di beni

e servizi prodotti dal settore privato, mentre le imposte e i trasferimenti incidono sul valore del

reddito nazionale. È noto infatti il contributo che la politica fiscale di uno Stato, attraverso le

sue decisioni sia in tema di imposizione fiscale sia in merito ai volumi di spesa pubblica in

senso stretto, esercita sull’ammontare del reddito nazionale4.

A ben vedere, da un punto di vista prettamente concreto, il Prodotto interno lordo di uno

Stato aumenta ogniqualvolta lo Stato decide di costruire una nuova strada, assumere un nuovo

dipendente pubblico, ovvero acquistare del carburante per le autovetture delle forze di polizia.

1 C. Imbriani, A. Lopes, Teorie macroeconomiche e sistema finanziario. Mercati, istituzioni e politiche, UTET

Universitaria, Novara, 2011, in cui si afferma che lo studio della macroeconomia è diretto ad analizzare, tra le altre

cose, la formazione del reddito e della produzione finale di beni e servizi, ovvero il cosiddetto Prodotto interno

lordo (PIL), come misura del comportamento aggregato del sistema economico. La spesa pubblica viene studiata

nella sua veste di macro-settore in cui si suddivide il sistema economico nel suo complesso. Infatti, la somma tra

il comportamento del settore pubblico, inteso nelle sue due varianti di spesa in beni e servizi e sistema fiscale, i

consumi effettuati dalle famiglie, le decisioni di investimento delle imprese e le importazioni/esportazioni

determina la misura quantitativa del reddito nazionale. 2 Con il termine Pubblica amministrazione si intende il settore del sistema economico dedito alla produzione di

beni e servizi destinati alla collettività di un paese. In estrema sintesi, il settore della Pubblica amministrazione si

divide, a sua volta, in tre macro-gruppi: (i) amministrazioni centrali come i Ministeri e gli Organi costituzionali,

nonché enti centrali con raggio di azione esteso su tutto il territorio nazionale (es. Istat, Coni, Cnel, Anas); (ii)

amministrazioni locali (regioni, province, comuni, camere di commercio, università); (iii) enti di previdenza (Inps,

Inail) la cui funzione è quella di fornire prestazioni sociali alla collettività attraverso la raccolta di contributi

obbligatori. Per un’analisi giuridica delle figure con cui lo Stato è solito intervenire nel tessuto economico si v. S.

Cassese, La nuova costituzione economica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000. 3 Esempi di trasferimenti pubblici, infatti, sono le pensioni di invalidità e i sussidi di disoccupazione. 4 Per un’analisi dei costi marginali che derivano dall’aumento della tassazione si veda B. Dahlby, The marginal

cost of Public Funds. Theory and applications, Massachusetts Institute of Technology, 2008

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In tali casi, difatti, il settore pubblico emula il comportamento degli altri operatori economi che,

come le famiglie, domandano beni e servizi al fine di soddisfare i rispettivi bisogni. Allo stesso

tempo, la produzione nazionale viene incrementata anche dall’altra componente della spesa

pubblica denominata “trasferimenti”. In particolare, tale canalizzazione di denaro che lo Stato

effettua a favore dei singoli individui a titolo di pensione e/o sussidio di disoccupazione,

aumentando la quantità di moneta disponibile, può incrementare la domanda aggregata di beni

e servizi. Senonché, in tale caso, il Prodotto interno lordo aumenta soltanto indirettamente, in

quanto un consumatore prudente difficilmente decide di spendere tutto le somme liquide che

riceve dallo Stato, preferendo conservare una quota di tali disponibilità liquide per esigenze di

risparmio5.

1.1 I fattori che influenzano la spesa pubblica

Quanto ai fattori che determinano la spesa pubblica, la dottrina concorda nel ritenere

che l’ammontare dell’intervento pubblico nell’economia risulta soggetto, in ultima istanza,

dalla presenza di due fattori ontologicamente diversi tra loro: la mole di risorse finanziarie

disponibili e la volontà politica di offrire beni e servizi alla collettività6. In riferimento al primo

fattore, è palese come la spesa pubblica non possa prescindere dal reperimento di disponibilità

liquide da parte dello Stato interessato ad agire nel sistema economico. Le fonti di

finanziamento dell’apparato pubblico sono rappresentate dalla tassazione e/o dalla vendita di

beni pubblici ai privati (c.d. privatizzazioni), da un lato, e dal reperimento di fondi sul mercato

mobiliare mediante l’indebitamento, dall’altro. Con riferimento, invece, alla volontà politica di

ricorrere alla spesa pubblica, l’esperienza storica ci insegna che in stati democratici la decisione

ultima circa la quantità di denaro pubblico da spendere risiede nelle deliberazioni dei vari

Parlamenti nazionali. Le concezioni ideologiche circa la preferenza tra libero mercato e

intervento pubblico nell’economia rappresentano sicuramente il principale aspetto che

contribuisce alla decisione finale sull’asserita quantità ottimale di Stato nel sistema economico.

Tuttavia, da un punto di vista concreto, la volontà di aumentare o ridurre la spesa pubblica

5 C. Imbriani, A. Lopes, op. cit., 38 e ss. i quali sottolineano l’importanza della distinzione tra trasferimenti e spesa

pubblica nella determinazione dell’apporto del settore pubblico al reddito nazionale. Qualora, infatti, si ritenesse

opportuno considerare come componente della spesa pubblica soltanto l’acquisto in senso stretto di beni e servizi

da parte dello Stato, si otterrebbe una rappresentazione del fabbisogno monetario dell’apparato pubblico non

conforme alla realtà e un’influenza pubblica nel sistema economico reale assai più ridotta. 6 M. Di Pace, L’economia e la politica economica. La macroeconomia ed i contenuti della politica economica

italiana e dell’Ue, Terza ed., CEDAM, 2013, 56 e ss.

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risulta correlata intimamente con il ciclo elettorale, aumentando in prossimità della

competizione elettorale e diminuendo in periodi di stabilità istituzionale7.

Da un punto di vista di contabilità di Stato, l’apparato pubblico presenta un bilancio in

pareggio ogniqualvolta l’ammontare della spesa pubblica corrisponde alle somme ottenute dalla

tassazione, al netto dei trasferimenti. Viceversa, si incorre in un disavanzo di bilancio se la

spesa pubblica complessiva, intesa come somma tra acquisti di beni e servizi e trasferimenti

alla collettività, risulta superiore agli introiti fiscali. In questo ultimo caso, il disavanzo di

bilancio si va a sommare al debito pubblico pregresso, aumentando la posizione debitoria dello

Stato nei confronti dei detentori di titoli pubblici8.

In aggiunta a questi due indicatori della finanza pubblica, la Ragioneria di Stato tende a

misurare anche un altro indice, denominato avanzo primario, che identifica la differenza tra le

entrate dello Stato e la spesa pubblica, senza considerare la quota di risorse che si dovrebbe

destinare al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

1.2 Le teorie sulla spesa pubblica

L’importanza della spesa pubblica per l’andamento generale dell’economia di una

nazione ha giustificato negli anni la produzione di svariate teorie dottrinali tendenti a

sottolineare, a vario titolo, i pro e i contro di questo essenziale fenomeno economico. Per

esigenze di “economia processuale” in tale sede si analizzeranno solo tre teorie della spesa

pubblica maggiormente note: la teoria dello spiazzamento degli investimenti produttivi, la

teoria della sostenibilità del debito pubblico e la teoria sull’analisi costi/benefici.9

La prima teoria afferma che l’incremento della spesa pubblica attraverso il ricorso al

deficit di bilancio, oltre ad aumentare il livello della produzione nazionale, può comportare un

effetto di spiazzamento degli investimenti privati (c.d. crowding out). Questi ultimi, in effetti,

potrebbero subire una diminuzione delle risorse provenienti dalle famiglie che decidono di

acquistare titoli di stato per finanziare l’incremento delle spese pubbliche, piuttosto che

investire i propri risparmi in titoli azionari od obbligazionari emessi dalle società industriali. A

7 Si veda sul punto la teoria del ciclo politico-economico di William Nordhaus, formulata per la prima volta nel

suo articolo The Political Business Cycle, in Review of Economic Studies, 1975, vol. 42, issue 2, p. 169-190 in

cui lo stesso affermava, in estrema sintesi, che le decisioni dei politici sono espressione delle loro preferenze. In

particolare, a detta dell’autore, essendo l’obiettivo della classe dirigente quello di essere rieletti, i politici cercano

di indirizzare l’economia al fine di massimizzare i voti attesi. Partendo dal presupposto che gli elettori tendono ad

attribuire un peso decisivo all’andamento dell’economia nel periodo precedente alla scadenza elettorale, si teorizza

che i politici ritengono conveniente adottare manovre espansive dal lato della spesa pubblica al fine di migliorare

il trend dell’economia nel breve periodo, tralasciando deliberatamente di considerare gli effetti di tale politiche sul

medio-lungo periodo. 8 Cfr. M. Di Pace, op cit., 57 e ss. in cui si afferma che il debito pubblico potrebbe semplicisticamente essere inteso

come la somma algebrica dei deficit di bilancio accumulati nel corso degli anni da uno Stato. 9 Ivi, p. 61 e ss.

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ben vedere, i titoli pubblici vengono tradizionalmente preferiti dai risparmiatori, atteso che tale

forma di investimento garantisce una relativa certezza di restituzione e un tasso di rendimento

assai competitivo. Di converso, l’investimento privato presenta maggiori margini di incertezza

principalmente sotto il profilo del più elevato rischio di insolvenza rispetto al settore pubblico.

Statistica alla mano, la percentuale di fallimenti di Stati-nazione rispetto alle procedure di

insolvenza quotidianamente aperte nei confronti delle imprese private risulta nettamente

sbilanciata a favore di queste ultime. Per questo motivo, la teoria dello spiazzamento degli

investimenti produttivi afferma che la decisione di uno Stato di finanziare la spesa pubblica

attraverso un aumento del deficit può implicare due conseguenze: (i) in primo luogo, un

aumento delle risorse da destinare al pagamento degli interessi sul debito pubblico crescente;

(ii) in secondo luogo, una riduzione degli investimenti verso il settore privato. La somma di

questi due risultati conduce, in estrema sintesi, ad una riduzione di risorse canalizzate verso

l’economia reale e, di conseguenza, ad una riduzione della ricchezza nazionale in termini di

minore Pil10.

Quanto alla teoria della sostenibilità del debito pubblico, si afferma che l’aumento della

spesa pubblica attraverso l’indebitamento pubblico si può considerare sostenibile qualora il

debito pubblico tenda a diminuire nel medio-lungo periodo rispetto al Pil, ovvero se resta

contenuto il rapporto debito pubblico/Pil11. Al fine di procedere in tal senso, è necessario che

l’incremento del Pil in termini assoluti dovuto ad una manovra pubblica espansiva cresca in

misura proporzionalmente maggiore rispetto all’eventuale deficit pubblico. In altri termini,

considerato che il rapporto debito pubblico/Pil rappresenta una divisione, onde ridurre il

quoziente il denominatore (Pil) dovrebbe crescere più del numeratore (debito pubblico).

Discorso lievemente diverso se l’obiettivo che una politica di spesa pubblica vuole perseguire

è quello di evitare la crescita in termini assoluti del debito pubblico. In questo ultimo caso,

infatti, è necessario che la spesa da destinare al pagamento degli interessi sul debito pubblico

(la quale si calcola moltiplicando il debito pubblico per il tasso di interesse) sia almeno pari

all’avanzo primario, ovvero alla differenza tra le entrate e le uscite pubbliche (esclusi, quindi,

gli interessi sul debito pubblico). Così facendo, non si avrebbe un aumento del debito pubblico

in quanto lo Stato non deve ricorrere al deficit per onorare il pagamento degli interessi pubblici.

10 Ivi p. 63, in cui si sottolinea che le conseguenze negative dell’incremento del deficit pubblico per il sistema

economico sono particolarmente veritiere per la situazione dell’Italia: sulla base dei dati del 2011, si è rilevato che

degli 823 miliardi di titoli di debito immessi sul mercato, ben 441 erano titoli di Stato, mentre solo 370 erano titoli

obbligazionari privati, emessi principalmente dal settore bancario (312 miliardi vs 58 miliardi emessi dalle società

industriali). 11 A titolo esemplificativo, in base ai noti parametri di bilancio istituti a livello europeo, il rapporto debito

pubblico/Pil dovrebbe essere pari al 60%, o comunque tendere verso tale risultato.

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La questione della sostenibilità del debito pubblico non entra certamente in gioco in presenza

di un debito pubblico che da un punto di vista quantitativo non presenta cifre esorbitanti. A

titolo esemplificativo, se il rapporto debito pubblico/Pil si trova al di sotto del 60 percento, uno

Stato avrebbe sicuramente maggiori margini di manovra per intervenire nel sistema economico

e correggere eventuali fallimenti dello stesso12.

Per quanto concerne, infine, la teoria sull’analisi costi/benefici della spesa pubblica, lo

studio delle scelte pubbliche di governo dell’economia prende spunto da considerazioni di

natura qualitativa. Come gli agenti razionali che si muovono nel sistema economico

capitalistico, anche lo Stato dovrebbe intervenire nelle logiche di mercato avendo come

obiettivo quello di massimizzare il livello di soddisfazione della collettività attraverso una

efficiente allocazione delle risorse. Senonché, la complessità delle dinamiche dei rapporti

economici ci insegna che è assai arduo effettuare un confronto obiettivo tra costi/benefici della

spesa pubblica. Le variabili in gioco per lo Stato sono infinite, e la conciliazione tra la

produzione di beni e servizi e il perseguimento dell’interesse pubblico presenta ostacoli

difficilmente risolvibili in base a criteri ragionevoli. In tale contesto si è quindi sviluppata la

teoria dell’analisi costi/benefici della spesa pubblica, allo scopo di individuare l’asserita

convenienza di un determinato progetto pubblico. In particolare, tutti i costi e i benefici di una

decisione pubblica, anche quelli che non hanno un determinato valore di mercato, vengono

tradotti in prezzi di mercato. Ad esempio, si cerca di attribuire un prezzo all’obiettivo di

garantire un ambiente salubre ovvero di elevare la qualità della salute umana, in guisa da

stabilire in termini numerici l’ammontare complessivo dei benefici di una determinata decisione

pubblica di spesa e comparare la stessa con il relativo costo da sostenere. La suddetta

quantificazione numerica può essere perseguita attraverso uno dei seguenti metodi: (i)

equiparazione dei benefici e dei costi ai relativi prezzi di mercato: a titolo esemplificativo, si

prendono come riferimenti i parametri dei risarcimenti fissati dalle assicurazioni sulla vita per

determinare il valore della perdita di una vita umana; (ii) utilizzazione dei prezzi ombra: qualora

non sia praticabile l’equiparazione con i prezzi di mercato di cui al punto precedente, si

utilizzano come criteri i valori di altri beni presenti nell’ambiente di riferimento (ad esempio,

determinazione della salubrità delle coste marittime mediante una stima della quantità di pesce

che si potrebbe ricavare nel caso in cui la costa in esame non fosse inquinata); (iii) ricorso alla

valutazione convenzionale in presenza di beni intangibili: se i precedenti criteri non possono

essere utilizzati per determinare in termini numerici i costi e i benefici di una decisione di spesa

pubblica, l’extrema ratio è rappresentata dalla necessità di autodeterminare un valore che possa

12 M. Di Pace, op. cit., p. 64.

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logicamente rappresentare le implicazioni di un determinato intervento pubblico (ad esempio,

il costo dell’estinzione di una determina specie animale e/o vegetale in assenza di un intervento

delle autorità competenti). Una volta determinati i valori di riferimento, in base alla teoria

dell’analisi costi/benefici, in primo luogo le autorità pubbliche devono quantificare l’eventuale

beneficio netto derivanti dal progetto di spesa pubblica, provvedendo ad effettuare una somma

algebrica tra i costi e i benefici (diretti ed indiretti) dell’intervento dello Stato. In secondo luogo,

la Pubblica amministrazione dovrebbe vagliare anche le cosiddette soluzioni “second best”,

ossia tutti quei progetti di spesa alternativi che, pur non essendo in senso stretto ottimali,

possono comunque conseguire l’obiettivo prefissato dalla funzione di indirizzo politico13.

1.3 Le funzioni della spesa pubblica

Le ragioni che possono spingere uno Stato ad intervenire nell’economia reale attraverso

decisioni di spesa pubblica sono svariate, tuttavia riconducibili ad unità dalla convinzione di

soddisfare una serie di finalità ritenute imprescindibili per la sopravvivenza di una società

civile. In altri termini, si ritiene che in assenza della mano pubblica il libero mercato non possa

garantire un ordine socio-politico confacente ad uno Stato di diritto14.

In via di prima approssimazione, il ricorso alla spesa pubblica sembra soddisfare tre

fondamentali funzioni: (i) offrire alla collettività beni e servizi che il libero mercato, a vario

titolo, non sarebbe in grado di produrre (ad esempio, la costruzione di infrastrutture per

agevolare i trasporti, le telecomunicazioni e l’approvvigionamento energetico); (ii) coadiuvare

il sistema economico attraverso misure finanziarie in grado di incentivare l’attività produttiva

delle imprese, aumentare il livello occupazionale della popolazione e fornire ai cittadini

sprovvisti di adeguati mezzi di sostentamento un livello minimo di reddito; (iii) contrastare fasi

avverse del ciclo economico mediante, ad esempio, l’utilizzazione di risorse pubbliche

necessarie a produrre effetti anti-congiunturali15.

Quanto alla prima funzione, fin dagli arbori della civiltà umana l’erogazione di servizi

pubblici per la collettività come la difesa, la sicurezza interna o la costruzione di strade è sempre

stato il compito principale svolto dalle istituzioni pubbliche16. Quello che nel corso della storia

è mutato ha riguardato “semplicemente” il quantum di servizi pubblici offerti. Più precisamente,

13 Per un’analisi economica dei costi/benefici legati alla spesa pubblica cfr. R. Jha, Modern Public Economics,

second edition, Routledge, Oxon, 2010. 14 M. Giusti, Fondamenti di diritto dell’economia, II edizioni, CEDAM, Padova, 2007, 6 e ss. 15 M. Di Pace, op. cit., pp. 254 e ss. 16 Sul ruolo della spesa pubblica nell’economia italiana del diciannovesimo secolo si veda F. Degli Esposti, Le

armi proprie. Spesa pubblica, politica militare e sviluppo industriale nell’Italia liberale, Edizioni Unicopli, 2006,

Milano; F. Repaci, La finanza pubblica italiana nel secolo 1861-1960, Bologna, Zanichelli, 1962.

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con l’evolversi dei costumi sociali e dell’innovazione tecnologica, l’apparato pubblico ha

dovuto far fronte ad un numero sempre maggiore di bisogni collettivi attraverso la produzione

di nuovi beni e servizi pubblici. Il risultato di tale processo si rinviene dai dati empirici che ci

mostrano come nel XXI secolo lo Stato abbia raggiunto una quota del Prodotto interno lordo

nazionale pari almeno al 45-50 percento.

In riferimento, invece, alla funzione di sostegno dell’economia, lo Stato si prefigge il

compito di garantire uno sviluppo economico sociale, basato cioè sulla convinzione

paternalistica di aiutare sia il settore produttivo attraverso sovvenzione pubbliche, sia le persone

fisiche in difficoltà mediante trasferimenti di denaro. A ben vedere, tale funzione è strettamente

connessa con il compito di contrastare fasi avverse del ciclo economico, atteso che la spesa

pubblica veniva additata come uno dei meccanismi più efficaci attraverso cui lo Stato può

stimolare la produzione nazionale in periodi di recessione, fornendo un cospicuo sostegno sia

alle famiglie che alle imprese, ovvero rallentare l’immissione di denaro pubblico nell’economia

in presenza di un’elevata crescita del Pil. In altri termini, al fine di stabilizzare l’andamento del

ciclo economico, la Pubblica amministrazione potrebbe modificare la quantità di spesa pubblica

da utilizzare durante un determinato esercizio di bilancio in modo anticiclico, aumentando o

riducendo l’intervento pubblico in caso rispettivamente di recessione e/o inflazione

dell’economia17.

1.4 Le inefficienze del mercato come giustificazione della spesa pubblica

Secondo la nota concezione ottimistica della mano invisibile, teorizzata da Adam Smith

nel 1776, il funzionamento del libero mercato in regime di concorrenza perfetta comporta

inevitabilmente una allocazione efficiente dei fattori produttivi. Ed invero, risultati come la

massima efficienza della produzione, la piena occupazione degli individui e, più in generale, il

massimo benessere collettivo della società possono essere raggiunti semplicemente dall’agire

egoistico degli individui. Più precisamente, in base a tale teoria, la massima efficienza insita

nel processo dinamico del mercato si traduce in concreto in costi minimi, allocazione ottimale

delle risorse presenti nel sistema economico e crescita economica di una nazione18.

Se il sistema economico teorizzato da Adam Smith si allontana dall’equilibrio

macroeconomico della piena occupazione e/o della stabilità dei fattori produttivi, la logica di

17 Per un approfondimento sulla teoria del sostegno della domanda aggregata attraverso l’utilizzo della spesa

pubblica si rinvia al cap. 2 dedicato alla visione di John Maynard Keynes. 18 Il concetto della mano invisibile come fiducia incondizionata nel libero gioco delle forze di mercato lasciate alla

libertà di agire degli individui risulta attribuita ad Adam Smith il quale la formulò una prima volta nell’opera

intitolata Teoria dei sentimenti del 1759, per poi sviluppare tale concetto in maniera più ampia nella Ricchezza

delle Nazioni del 1776.

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funzionamento sottesa alla mano invisibile dovrebbe comportare il raggiungimento di un nuovo

equilibrio mediante la generazione di forze “auto-riequilibratici”. Ne consegue che tale teoria

ritiene l’intervento pubblico una superfetazione che invece di risolvere i mali dell’economia,

potrebbe aggravare ulteriormente il ciclo economico. Quest’ultimo necessita della presenza di

uno Stato-regolatore che dovrebbe limitarsi innanzitutto ad emanare un quadro regolatorio

generale utile al buon funzionamento del mercato. Nello specifico, l’ordinamento giuridico si

dovrebbe preoccupare di adottare norme che assicurino la sicurezza dei traffici economici,

come ad esempio la salvaguardia dei diritti di proprietà, ovvero la tutela dei diritti nascenti dai

rapporti contrattuali. In secondo luogo, in un’economia di libero mercato, l’apparato pubblico

dovrebbe fornire soltanto quei beni e servizi considerati imprescindibili per la sopravvivenza

della società civile, evitando di intervenire in tutti quei settori in cui sono già presenti operatori

economici privati. In altri termini, l’equilibrio ottenibile in un’economia di mercato necessita

di uno Stato neutrale che non deve influire sul libero esercizio dell’attività economica privata.

Senonché, il mondo reale ci ha mostrato in più occasioni come tale concezione

ottimistica della teoria del mercato non sia confacente alla realtà. In particolare, nel tempo si è

realizzato che congiunture economiche caratterizzate da stabili sottoccupazione o da inflazioni

galoppanti non sono scomparse lasciando il mercato alla libera iniziativa dei singoli. Le

dinamiche di mercato non tendono mai verso un equilibrio di concorrenza perfetta, intesa come

atomismo della domanda e dell’offerta, perfetta omogeneità dei prodotti offerti dalle varie

imprese, trasparenza del mercato e completa libertà di entrata nei vari mercati. Di conseguenza,

in assenza delle premesse indicate dalla teoria della mano invisibile, il sistema economico reale

presenta un numero elevato di disfunzioni che non conducono ad una allocazione ottimale delle

risorse insite in una società19.

In tale contesto, la presenza di disfunzioni nel libero mercato ha rappresentato la

principale giustificazione dell’intervento dello Stato nell’economia al fine di ripristinare elevati

livelli di benessere collettivo. Tuttavia, la prassi di riferimento ci ha mostrato come la Pubblica

amministrazione non è un’entità onnisciente in grado di risolvere qualsiasi malessere

19 In tema di limiti alla concezione ottimistica del mercato, si veda tra gli altri J.E. Meade, External Economies

and Diseconomies in a Competitive Situation, in The Economic Journal, vol. 62, No. 245, 1952, pp. 64-67,

reperibile al seguente indirizzo: https://www.jstor.org/stable/2227173?seq=1; G. Akerlof, The Market for

"Lemons": Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in The Quarterly Journal of Economics, Vol. 84, No.

3, 1970, p. 488-500, disponibile al seguente indirizzo: https://www2.bc.edu/thomas-

chemmanur/phdfincorp/MF891%20papers/Ackerlof%201970.pdf; S. J. Grossman, J.E. Stiglitz, On the

Impossibility of Informationally Efficient Markets, in The American Economic Review, Vol. 70, no. 3, 1980, pp.

393-408, disponibile al seguente indirizzo: https://www.jstor.org/stable/1805228?seq=1; per una recente analisi

delle inefficienze del libero mercato che, se lasciato a se stesso, conduce inevitabilmente a situazioni di duopolio

e/o monopolio si veda l’opera di J. Tepper, D. Hearn, The Myth of Capitalism. Monopolies and the Death of

Competition, John Wiley & Sons, Hoboken, New Jersey, 2019.

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economico, ma più semplicemente un ente posto al servizio della collettività e dotato delle

stesse debolezze e fallibilità degli agenti economici privati. Ed invero, in molte occasioni gli

interventi pubblici nel settore economico si sono rivelati più pericolosi delle storture create dal

libero “gioco” della concorrenza, causando inefficienze di tipo distributivo ed allocativo20.

Ciò posto, si rileva che la scienza economica ha individuato una serie di elementi che, a

vario titolo, causano delle inefficienze di mercato, impedendo a quest’ultimo di funzionare in

maniera opportuna. A tal proposito, si possono elencare le seguenti circostanze: (i) presenza di

economie di scala che limitano lo sviluppo di una effettiva concorrenza; (ii) esistenza di beni

pubblici e di esternalità positive e/o negative; (iii) asimmetria informativa, e più in generale

incertezza circa il manifestarsi di eventi imprevisti a causa di lacune nelle informazioni

disponibili; (iv) presenza di elevati livelli di disoccupazione21.

Quanto alla carenza di una effettiva concorrenza, la presenza di economie di scala in

determinati settori produttivi implica l’esborso di importanti investimenti che si risolvono, ipso

iure, in barriere all’ingresso di nuovi operatori economici. In tal caso si crea quello che gli

economisti chiamano il monopolio naturale. In effetti, gli impianti che sfruttano economie di

scala per ridurre il costo medio della produzione possono essere costruiti soltanto da coloro che

godono di importanti disponibilità liquide da investire. Ne consegue che, dal lato dell’offerta

saranno presenti poche imprese che, invece di produrre fino al punto di realizzare l’ottima

efficienza allocativa (che, in una economia in perfetta concorrenza si traduce nell’eguaglianza

tra il prezzo offerto e il costo marginale nel punto di minimo costo), decideranno di produrre

soltanto la quantità di prodotto che massimizza il loro profitto. Il corollario di questo trend è

rappresentato da una situazione in cui, da un lato, i consumatori si trovano costretti a pagare un

costo superiore rispetto a quello ottenibile in un regime di concorrenza effettiva, e dall’altro

non si soddisfano i bisogni di coloro che non possono permettersi il costo offerto dalle aziende

che si trovano in una situazione di monopolio naturale.

A titolo esemplificativo, un caso classico di monopolio naturale che ha giustificato fin

dagli arbori dello sviluppo economico l’intervento dello Stato è rappresentato dalle ferrovie.

Peraltro, nel settore dei trasporti ferroviari, oltre al costo degli impianti, è presente un altro

20 F. Reviglio, La spesa pubblica. Correggerla e riformarla, Marsilio Editori, Venezia, 2007, in particolare pp. 19

e ss. in cui l’autore afferma che l’incertezza non è legata tanto all’alternativa tra l’utilizzazione dell’intervento

pubblico o il ricorso al libero mercato al fine di garantire elevati livelli di funzionamento del sistema economico,

ma piuttosto tra le inefficienze che sono insite in entrambi i lati della scelta. 21 Sul tema si veda, tra gli altri, i seguenti contributi: di E. J. Mishan, Economic Priority: Growth or Welfare?, in

The Political Quarterly, Vol. 40, Issue 1, 1969, pp. 79-88, disponibile al seguente indirizzo:

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/j.1467-923X.1969.tb00008.x; N. Barr, Economic Theory and the

Welfare State: A Survey and Interpretation, in Journal of Economic Literature, vol. 30, issue 2, 1992, pp. 741-803,

disponibile al seguente indirizzo:

https://econpapers.repec.org/article/aeajeclit/v_3a30_3ay_3a1992_3ai_3a2_3ap_3a741-803.htm.

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fattore che limita la possibilità per l’iniziativa economica privata di creare un regime di

concorrenza effettiva: la mancanza di spazi fisici adeguati. In particolare, con riferimento a

quest’ultimo aspetto, ben si comprende come in molti casi sia impossibile connettere gli stessi

luoghi attraverso una moltiplicazione delle strade ferrate. Inoltre, l’intervento pubblico nel

settore ferroviario è stato considerato opportuno anche per soddisfare esigenze di tipo militare,

nonché al fine di collegare aree di una nazione che, pur non rispondendo ai criteri di economicità

della gestione, sono state ritenute necessarie per sviluppare omogeneamente l’economia

nazionale22.

In riferimento all’esistenza di beni e servizi pubblici, si rileva che le caratteristiche di

non escludibilità e godimento collettivo di tali beni e servizi mal si conciliano con le logiche di

funzionamento sottese all’economia di mercato23. Da un lato, infatti, nessuna impresa privata,

sarebbe disposta a produrre dei beni e/o dei servizi che presentano dei benefici talmente estesi

da raggiungere anche coloro che non provvedono a corrispondere il relativo costo (c.d. free-

rider). Dall’altro, si manifesta un’inefficiente allocazione delle risorse, atteso che i benefici

privati sono inferiori al costo, mentre il beneficio sociale è sicuramente superiore ai costi di

produzione. Tale situazione rappresenta, quindi, un esempio di fallimento del mercato, atteso

che beni e servizi fondamentali per una collettività organizzata, come la sicurezza pubblica,

l’amministrazione della giustizia o la tutela della salute, vengono prodotti in quantità limitata

dal settore privato, ovvero, nei casi più estremi, non rientrano in toto nei business plan delle

aziende. Pertanto, anche in questo caso l’unico soggetto che si può accollare il costo connesso

alla fornitura di questi beni e servizi pubblici in una quantità socialmente accettabile è

rappresentato dallo Stato. Quest’ultimo, infatti, potrà in un secondo momento imporre,

mediante l’esercizio delle proprie facoltà iure imperii, in maniera coattiva il pagamento del

costo di produzione dei beni e servizi pubblici, incrementando per esempio la pressione fiscale,

ovvero fornendo sussidi economici alle imprese private al fine di produrre beni e/o servizi

pubblici24.

22 F. Reviglio, op. cit., pp. 20 e ss, in cui si sottolinea che ulteriori interventi pubblici al fine di contenere le

inefficienze dei monopoli naturali sono presenti nel settore della produzione di servizi di pubblica utilità come

acqua, gas, elettricità, telefono e costruzione di strade. In tali casi, lo Stato può intervenire mediante l’utilizzazione

dello strumento delle nazionalizzazioni delle società private già presenti nel settore, ovvero tramite la formazione

di monopoli legali attraverso la predisposizione di una normativa ad hoc (es. concessioni, autorizzazioni

amministrative). 23 In altri termini, un bene o un servizio viene definito pubblico se più individui possono consumarlo

congiuntamente senza che lo sfruttamento individuale possa ridurre la possibilità di godimento dello stesso bene

e/o servizio da parte di un altro soggetto. In effetti, in tal caso i beni e servizi pubblici vengono definiti non rivali

ed indivisibili. 24 F. Reviglio, op. cit., pp. 22 e ss. dove l’autore indica come esempi di beni e servizi pubblici “puri” la

predisposizione di regole per il buon funzionamento del mercato (norme antitrust, proprietà privata,

regolamentazione dei rapporti contrattuali), l’organizzazione dell’apparato giudiziario, i servizi di promozione

della salute e dell’igiene pubblica e il servizio di illuminazione pubblica.

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Quanto alla presenza di esternalità, queste ultime sono definite dagli studiosi di teoria

economica come tutta quella serie di costi e/o benefici che un agente economico arreca a terzi

senza che tale conseguenza sia contabilizzata adeguatamente nel conto economico del primo.

Ne consegue che, tale mancanza provoca un’inefficienza dal lato delle scelte del soggetto che

provoca esternalità. In altri termini, l’asimmetria informativa insita nelle esternalità crea

un’allocazione di risorse non ottimale che conduce, da un lato, ad una produzione insufficiente

di beni che generano economie esterne (ovvero, esternalità positive), e dall’altro ad una

sovrapproduzione di beni che producono diseconomie esterne (ovvero, esternalità negative). In

presenza di esternalità come il progresso tecnologico, l’istruzione o l’inquinamento, i costi e le

utilità private non coincidono mai con i costi e le utilità sociali, provocando quindi un

disequilibrio di mercato. In tale ottica, allo Stato viene attribuito il compito di intervenire nel

sistema economico al fine di incentivare la produzione di esternalità positive, ovvero contenere

la produzione di esternalità negative che, come l’inquinamento o il degrado ambientale,

possono creare effetti deleteri per il benessere collettivo25.

Per quanto riguarda le asimmetrie informative, in tale caso di fallimento del mercato

rientrano le ipotesi di imperfezione dell’informazione, asimmetria informativa tra produttori e

consumatori, rischio di eventi imprevisti e/o incertezza sugli sviluppi economici futuri. I

problemi sollevati da tali fattori possono creare delle inefficienze allocative in settori chiave del

sistema economico come l’industria bancaria, assicurativa e del mercato mobiliare. In

particolare, in presenza di asimmetrie informative, nonostante il costo di produzione di

determinati servizi sia inferiore al prezzo che un consumatore sarebbe disposto a corrispondere,

le imprese si astengono dall’offrire la propria attività sul mercato. A ben vedere, l’economia

reale si distingue profondamente dal modello teorico della concorrenza perfetta in cui si

presuppone un’informazione comune per tutti i produttori e consumatori presenti sul mercato.

Nella realtà degli scambi commerciali, i consumatori non sono disposti a procurarsi

informazioni dettagliate per assenza di risorse fondamentali come il tempo e denaro, mentre le

imprese non hanno alcun incentivo a fornire gratuitamente sul mercato informazioni riservate.

Da ciò deriva che i produttori e i consumatori si ritrovano a dover fronteggiare una distribuzione

non simmetrica delle informazioni. A titolo esemplificativo, tali situazioni sono estremamente

comuni negli appalti di opere pubbliche, nei servizi farmaceutici e/o sanitari, ovvero nel settore

bancario laddove gli istituti di credito, sfruttando la loro posizione di dominio informativo

rispetto ai risparmiatori, sono in grado di imporre clausole contrattuali sfavorevoli (c.d.

25 A. Amendola, N. Boccella, C. Imbriani, Microeconomia. II edizione, Edizioni Universitarie di Lettere Economia

Diritto, Milano, 2005, 254 e ss. in cui vengono indicati come possibili forme di intervento diretto dello Stato al

fine di correggere gli effetti delle esternalità l’introduzione di una tassa, la fissazione di uno standard ambientale,

la previsione di sussidi alla produzione e, infine, la definizione di permessi di inquinamento negoziabili.

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selezione avversa o informazione nascosta). Invero, il mercato dei capitali rappresenta

l’esempio paradigmatico di mercato in cui a causa di informazioni insufficienti e/o costose, la

generalità della popolazione preferisce evitare di intraprendere operazioni di investimento

aventi ad oggetto strumenti o prodotti finanziari. Anche in tale contesto, quindi, si manifesta un

cattivo funzionamento del mercato dovuto ad un’insufficiente allocazione delle risorse

disponibili. Più esattamente, da un lato, i consumatori commettono errori nelle proprie decisioni

di consumo in quanto non sono in grado di comprendere fino in fondo la qualità dei beni e

servizi che acquistano. Dall’altro, i produttori possono incorrere in errori nelle proprie scelte di

produzione atteso che gli stessi tendono ad ignorare il livello di output considerato ottimale dal

mercato di riferimento. Per tali motivi, le asimmetrie informative vengono viste dalla scienza

economica come sinonimi di inefficienze allocative sia nello scambio che nella produzione di

beni e servizi, che necessitano dell’intervento dello Stato al fine di provvedere ad

un’allocazione più ottimale delle risorse26.

Con riferimento, infine, all’ultima ipotesi di fallimento del mercato rappresentata dalla

presenza di elevati livelli di disoccupazione, parte della scienza economica afferma che il livello

di piena occupazione delle forze lavoro è difficilmente raggiungibile da un sistema economico

basato sulla concezione ottimistica della mano invisibile. Le crisi del sistema capitalistico che

si sono manifestate dal diciannovesimo secolo in poi e, in particolare, la Grande depressione

degli anni Trenta del Novecento, hanno infatti dimostrato che le forze auto-riequilibratici del

mercato non riescono a superare una situazione di stabile sottoccupazione. La prassi empirica

dimostra invero che, in seguito ad una crisi economica, le logiche di mercato sembrano attestarsi

su un nuovo equilibrio che, almeno nel breve periodo, lascia immutato il livello di

disoccupazione derivante dal precedente andamento negativo del ciclo economico. In tale

ottica, gli economisti hanno additato come possibili soluzioni a tale disfunzione del libero

mercato una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, ovvero l’intervento dello Stato tramite

l’utilizzazione della spesa pubblica. La prima ipotesi considera, in particolare, la rigidità dei

salari verso il basso una delle principali cause della mancata offerta di pieno impiego

nell’economia capitalista. Soltanto in presenza di una maggiore libertà nel mercato del lavoro,

si consentirebbe al tasso di disoccupazione di scendere, favorendo al contempo una maggiore

crescita della domanda aggregata di beni e servizi. Quanto alla seconda ipotesi, invece, alcune

scuole di pensiero affermano che l’iniezione di spesa pubblica attraverso investimenti pubblici

possa compensare eventuali vuoti deflazionistici, aumentando la domanda di lavoro nel sistema

economico. A ben vedere, il prodotto interno lordo di una nazione cresce in presenza di una

26 Ivi, pp. 247 e ss.

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maggiore offerta di beni e servizi pubblici, ovvero di un aumento di investimenti statali, come

la costruzione di infrastrutture pubbliche. La maggiore domanda di beni e servizi così creata

artificialmente dallo Stato comporta in nuce la necessità di nuove forze lavoro da occupare nel

sistema economico. Viceversa, in caso di un eccesso di domanda rispetto all’offerta di pieno

impiego, lo Stato potrebbe ridurre la spinta inflazionistica riducendo la spesa pubblica, ovvero

aumentando la pressione fiscale. In altri termini, l’intervento dello Stato nell’economia viene

considerato un rimedio sia all’inefficienza del libero mercato nel garantire un equilibrio di piena

occupazione, sia alla presenza di shock inflazionistici27.

Il padre di quest’ultima teoria sulla spesa pubblica è unanimemente individuato in John

Maynard Keynes, uno dei più grandi economisti del Novecento al cui genio è dedicato il

prossimo capitolo.

2. LA VISIONE DI JOHN MAYNARD KEYNES

L’economista inglese Keynes, dopo aver raggiunto la fama mondiale con l’opera The Economic

Consequences of Peace di critica del trattato di pace che mise fine alla prima guerra mondiale28,

iniziò a studiare il fenomeno della disoccupazione presente nel Regno Unito durante i primi

anni Venti del Novecento. Secondo Keynes, non era accettabile che il sistema economico

inglese si trovasse in equilibrio nonostante l’elevato tasso di disoccupazione presente in quel

tempo, pari ad oltre l’11,4 percento della forza lavoro complessiva. La disapprovazione per la

congiuntura economica britannica allora presente costrinse Keynes a confutare perfino la tesi

del suo maestro a Cambridge, l’economista Alfred Marshall, in base alla quale l’equilibrio di

pieno impiego era un risultato raggiungibile spontaneamente da qualsiasi sistema economico.

La crescita inesorabile della disoccupazione spinse, infatti, Keynes a scrivere che lo Stato

avrebbe dovuto intervenire nell’economia attraverso due politiche economiche considerate

imprescindibili: la riduzione dei tassi di interesse mediante l’emissione di obbligazioni statali e

l’investimento nella costruzione di opere pubbliche al fine di impiegare le forze lavoro

inoccupate29.

27 F. Reviglio, op. cit., p. 28 e ss. 28 Cfr. J.M. Keynes, The Economic Consequences of the Peace, Hartcourt Brace & Howe, New York 1920, in

particolare pp. 240 e ss. dove l’autore, nel criticare le condizioni di pace imposte dagli Alleati alla Germania e

all’Austria, afferma testualmente che “[..] il pericolo che abbiamo di fronte è la veloce compromissione dello

standard di vita delle popolazioni europee fino al punto che per qualcuno significherà la vera e propria morte per

fame. [..] Nella crisi costoro potrebbero rovesciare i rimasugli di organizzazione e sommergere la civiltà stessa”.

29 N. Wapshott, Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna, trad. dall’inglese di G. Carlotti

Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2012, p. 39.

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La gestione parzialmente pubblica dell’economia era vista da Keynes come un modo sia

per risolvere la drammatica questione della disoccupazione, sia per salvaguardare il sistema

capitalistico dalle critiche dei socialisti e comunisti. Ed invero, secondo l’economista inglese,

la prassi empirica aveva dato prova del fatto che il libero mercato, lasciato a sé stesso, non è in

grado di garantire risultati ottimali, o comunque tollerabili da una società civile. Sul punto, è

sufficiente riportare un breve passo in cui si evince chiaramente quale fosse la posizione di

Keynes agli inizi del 1920:

“Prevedo che, a meno che i governatori della Banca d’Inghilterra non scelgano presto la via della

saggezza, il sistema su cui si basano funzionerà talmente male che saranno travolti da eventi inarrestabili

che odieranno assai più dei rimedi blandi e limitati che hanno oggi a disposizione”30.

In altri termini, secondo Keynes, durante cicli economici particolarmente avversi, il

libero mercato doveva lasciare il passo all’intervento pubblico delle autorità competenti al fine

di ristabilire condizioni economiche ottimali. Non era necessaria l’emanazione di nuove leggi,

atteso che lo Stato poteva limitarsi a risolvere periodi di recessione mediante la riduzione dei

tassi di interesse, ovvero aumentando la spesa pubblica per investimenti produttivi. Investire

denaro pubblico in progetti come la costruzione di case popolari, la manutenzione della rete

elettrica o lo sviluppo della rete stradale avrebbe rappresentato un modo certo per abbattere la

disoccupazione. Inoltre, lo stimolo al sistema economico in tal modo adottato, a giudizio di

Keynes, avrebbe riportato la fiducia della collettività nel sistema impresa31.

Keynes sosteneva che il laissez-faire era diventato anacronistico e che l’impresa privata,

dovendo affrontare un ambiente sempre più denso di minacce, non poteva essere lasciata priva

di aiuti. Gli eventi susseguitisi dopo il primo conflitto mondiale mettevano, invero, in luce la

necessità di adottare nuove ricette economiche per risolvere i mali del sistema economico.

Avverso le teorie ottimistiche sul libero mercato, Keynes affermava che:

“non è vero che gli individui possiedono una libertà naturale normativa nelle loro attività economiche.

Non esiste un accordo che conferisce diritti perpetui a coloro che Hanno o a colore che Acquistano. Il

mondo non è governato dall’alto in modo che l’interesse privato e sociale coincidano sempre. Non è una

corretta deduzione dai Principi dell’Economia asserire che l’egoismo sia di solito illuminato; più spesso

gli individui che agiscono separatamente per promuovere i loro propri fini sono troppo ignoranti o troppo

deboli per ottenerli. L’esperienza non dimostra che gli individui, quando formano un’unità sociale, sono

sempre meno lucidi di quando agiscono separati”32.

30 J.M. Keynes, Collected Writings, vol. 19: Activities 1922-29: The Return to Gold and Industrial Policy,

Macmillan for the Royal Economic Society, London 1981, pp. 158 e ss. 31 Ivi, p. 220 in cui Keynes affermava testualmente che “Con gli investimenti interni, persino se mal consigliati o

gestiti in maniera stravagante, pe lo meno il paese otterrà un miglioramento equivalente. Il progetto di edilizia

pubblica peggio pensato e più balordo immaginabile ci lascia comunque qualche casa”. 32 J.M. Keynes, The End of Laissez-Faire, Hogarth Press, London, 1926, p. 40

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Tale critica al liberismo economico non veniva comunque portata alle estreme

conseguenze, atteso che lo stesso Keynes aveva premura di affermare che il suo piano non era

identico a quello dei marxisti e/o dei socialisti. A differenza di questi ultimi, infatti,

l’economista inglese non affermava la necessità che all’impresa privata venisse sostituito lo

Stato. A ben vedere, Keynes sosteneva soltanto che l’intervento pubblico era necessario per

colmare le lacune che in quel momento le imprese private avevano creato nel sistema

economico33.

Invero, l’appartenenza di Keynes al Partito Liberale britannico consentiva allo stesso di

parteggiare per la cosiddetta “middle way”, ossia la via di mezzo tra il capitalismo e il

socialismo, rifuggendo dalle correnti ideologiche sia del conservatorismo che della

socialdemocrazia. La lotta alla disoccupazione rappresentava la giustificazione primaria per

abbandonare il culto illimitato del libero mercato e stimolare la domanda aggregata di beni e

servizi mediante l’aumento della spesa pubblica34.

2.1 La formulazione della General Theory

Nonostante la bontà degli intenti che Keynes voleva perseguire attraverso gli stimoli

della spesa pubblica, il suo pensiero era ancora privo di un fondamento teorico in grado di

contrastare le critiche che gli economisti classici gli rivolgevano. Nello specifico, una delle

preoccupazioni primarie di Keynes era quella di riuscire a dimostrare come un intervento dello

Stato nell’economia, mediante ad esempio l’aumento della spesa per investimenti pubblici, non

avrebbe comportato una crescita generalizzato del livello dei prezzi, ma una situazione di

equilibrio economico con il massimo impiego delle forze lavoro. L’economista inglese

sosteneva, infatti, che se l’economia di mercato veniva lasciata a sé stessa, si poteva raggiungere

un equilibrio “claudicante”, in quanto caratterizzato da una notevole quota di disoccupati. A tal

proposito, la congiuntura economica vissuta dalla Gran Bretagna e dall’America nel periodo

33 Ivi, p. 47 dove l’autore sottolinea che “la cosa importante per il governo non è fare cose che gli individui fanno

già, e farle un po' meglio o un po' peggio, ma fare quelle cose che al momento non sono fatte da nessuno”. 34 Per una applicazione delle teorie keynesiane alla congiuntura economica attuale, caratterizzata da una diffusa

domanda di beni e servizi si v. P. Ciocca, La banca che ci manca. Le banche centrali, l’Europa, l’instabilità del

capitalismo, Donzelli Editore, Roma, 2014, spec. p. 123 in cui l’autore afferma testualmente che “la via maestra

per alimentare una domanda carente – in Germania, in Europa, in Italia – è naturalmente quella degli investimenti:

investimenti in valide, utili, opere pubbliche, di cui ogni paese sempre difetta. È privo di senso sacrificare queste

spese includendole nel conteggio dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni sottoposto ai vincoli

europei. Come chiarito da Keynes, essendovi risorse di lavoro e capitale inutilizzate, attraverso l’incremento del

reddito esse generano il risparmio che le finanzia. Se redditizie, dischiudono economie esterne e produttività nello

stesso settore privato, promuovendo la crescita di lungo periodo. Hanno un forte effetto moltiplicativo del reddito

e dell’occupazione”.

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1920-30 dimostrava come l’equilibrio con pieno impiego predicato dalla concezione ottimistica

del mercato fosse nient’altro che un’utopia35.

La giustificazione teorica all’utilizzo della spesa pubblica venne trovata nel cosiddetto

concetto del moltiplicatore. Secondo Keynes, qualora la decisione di intervenire pubblicamente

nell’economia non è sostitutiva di altre spese, ma si aggiunge alla quota di domanda aggregata

già in essere, allora l’aumento del livello di occupati “non si ferma lì”. Invero, ulteriori posti di

lavoro verranno creati come conseguenza del fatto che una quota dei nuovi stipendi corrisposti

si tramuterà inevitabilmente in un aumento dei consumi privati. In tale ottica, nessun shock

inflazionistico si verifica: l’incremento dei consumi viene, infatti, bilanciato dall’aumento della

produzione tramite l’impiego delle forze lavoro inoccupate. In altri termini, la forza lavoro in

precedenza non impiegata nel sistema produttivo consentirebbe di soddisfare la domanda di

nuovi beni e servizi stimolata dalla spesa pubblica senza creare un aumento generalizzato del

livello dei prezzi. Questi ultimi potrebbero aumentare soltanto qualora le maggiori spese per

investimenti pubblici venissero decise in un sistema economico caratterizzato dal pieno utilizzo

delle risorse (umane e artificiali) del paese36.

Il meccanismo del moltiplicatore non implicava benefici soltanto sul versante

occupazionale, bensì anche per quanto riguardava l’equilibrio delle finanze pubbliche. Secondo

Keynes, infatti, la maggiore spesa pubblica avrebbe, da un lato, comportato un notevole

risparmio di risorse statali per il pagamento dei sussidi di disoccupazione, e dall’altro maggiori

entrate fiscali come conseguenza dell’incremento della base imponibile della tassazione sul

lavoro37.

A ben vedere, il pareggio di bilancio nell’ottica keynesiana non poteva essere raggiunto

se non aumentando il reddito nazionale, ovvero garantendo un elevato livello di occupazione

delle forze lavoro:

“è un grossolano errore credere che ci sia da scegliere tra i progetti per aumentare l’occupazione e quelli

per riportare in equilibrio il Bilancio, cioè che bisogna avanzare adagio e con cautela con i primi per

non compromettere i secondi. Anzi, è il contrario”38.

Convinto di aver quindi trovato la tanto agognata base teorica all’interventismo pubblico

nell’economia, il 4 febbraio 1936 Keynes pubblicava The General Theory of Employment,

Interest and Money. Fin dall’incipit dell’opera, l’economista inglese affermava che la sua opera

era principalmente indirizzata contro il pensiero degli economisti classici. Ed invero, i suoi

35 N. Wapshott, op. cit., 115 e ss. 36 J.M. Keynes, The Means of Prosperity, Macmillan, London, 1933, p. 6 e ss. 37 Ivi, p. 15 38 Ivi, p. 16

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“attacchi teorici” erano diretti sia ai suoi conterranei Arthur Pigou e Alfred Marshall, sia

soprattutto ai rivali storici della Scuola austriaca, ossia Mises, Robbins e Hayek39.

Quanto alla Scuola austriaca, Keynes affermava, innanzitutto, che tale corrente di

pensiero era malata da una sorta di “miopia” del mondo reale. In particolare, sebbene tutti

vorrebbero che l’economia funzionasse secondo i dettami illustrati nella teoria classica

dell’economia, tuttavia l’economista inglese affermava che “presumere che [l’economia] lo

faccia sul serio significa illudersi che le nostre difficoltà possano sparire da sole”. La teoria

classica dell’economia cercava di dare una chiave di lettura del sistema economico fuorviante,

atteso che i postulati che venivano presi in considerazione per spiegare le dinamiche delle forze

di mercato non rispecchiavano il mondo degli affari reale40.

In secondo luogo, in riferimento al dilemma della disoccupazione, Keynes sosteneva

che gli economisti classici si sbagliavano a considerare le richieste sindacali di aumento degli

stipendi la causa principale del numero elevato dei senza lavoro. La disoccupazione cronica, a

detta dell’economista inglese, si poteva risolvere mediante l’utilizzo della spesa pubblica. La

teoria del moltiplicatore implicava, infatti, che ogni sterlina spesa in investimenti produttivi

valeva molto più di una singola sterlina, in quanto una volta inserito nel sistema economico, il

denaro veniva speso più volte. Di conseguenza, tale circolo virtuoso, stimolando un’economia

stagnante, avrebbe consentito un maggiore impiego di forze lavoro41.

Infine, per quanto riguardava il tema delle libertà individuali minacciate

dall’interventismo pubblico, Keynes era consapevole del fatto che un ampliamento del ruolo

del governo nell’economia si poteva risolvere in una riduzione della sfera giuridica di

movimento degli individui. Tuttavia, come affermato anche dalla teoria classica moderna, il

libero gioco delle forze economiche non poteva coprire tutti i bisogni di una collettività.

Pertanto, in determinate situazioni, al fine di garantire un ordinato sviluppo della società, era

imprescindibili imporre dei controlli e/o dei divieti alle libertà economiche. Sulla base di questa

convinzione, l’economista inglese aggiungeva che per tutelare l’indipendenza di pensiero e di

azione dei singoli fosse necessario garantire il massimo impiego possibile delle forze lavoro.

L’intervento pubblico giudicato opportuno al fine di risolvere la disoccupazione, ovviamente,

non si sarebbe tradotto in una negazione totale dell’iniziativa e della responsabilità privata.

Invero, in parallelo allo spazio che un sistema economico doveva riservare allo Stato, secondo

Keynes era altresì importante garantire ampi spazi di manovra agli individui:

39 N. Wapshott, op. cit., 135 e ss. 40 J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, London 1936, p. 34 e ss. 41 Ivi, p. 19 e ss.

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“l’individualismo, se emendato dai suoi difetti e abusi, è la migliore salvaguardia della libertà personale

nel senso che, diversamente da qualsiasi altro sistema, amplia notevolmente lo spazio per l’esercizio

della scelta personale”42.

L’economista inglese puntualizzava che parteggiare per un parziale intervento pubblico

nell’economia non si doveva intendere ipso iure come socialismo e/o socialdemocrazia. In

effetti, una volta corrette le storture presenti nel sistema economico attraverso l’intervento

pubblico, il libero gioco delle forze di mercato, e le teorie proprie dell’economia tradizionale,

sarebbero tornata in auge. L’intento di Keynes nella General Theory era soltanto quello di

attribuire alla spesa pubblica un fondamento intellettuale in grado di salvare il sistema

capitalistico dai mali che lo stavano inglobando43.

Nel commentare la situazione economica che gli Stati Uniti vivevano in seguito alla

Grande depressione, Keynes si preoccupava infatti di affermare che non era consigliabile

immettere denaro nell’economia se quest’ultima non si trovava effettivamente nella parte basse

del ciclo. Soltanto in tale ultimo caso, era razionale aumentare l’intervento pubblico nel sistema

economico al fine di superare in tempi brevi situazioni di recessione. Il sistema capitalistico, a

differenza dei sistemi politici socialisti, implica un ruolo attivo dello Stato nell’economia

limitato alla presenza di determinate contingenze. In caso contrario, l’aumento artificiale della

domanda aggregata mediante maggiori spese pubbliche si risolve in un aumento generalizzato

del livello dei prezzi44.

3. IL PENSIERO DI FRIEDRICH AUGUST von HAYEK

Il filosofo austriaco Friedrich August von Hayek si appassionò di economia leggendo i

manuali Principi di economia politica (1871) e Il metodo nella scienza economica (1883) di

Carl Menger, fondatore della Scuola economica austrica e primo a teorizzare il concetto di

utilità marginale, ovvero l’idea che l’aumento della quantità di un bene riduce di conseguenza

il valore di quest’ultimo. Ferma la convinzione nel libero gioco delle forze di mercato, la Scuola

austrica, in particolare, considerava fondamentale lo studio dell’andamento dei prezzi, e delle

alternative a cui i consumatori devono far fronte quando decidono di acquistare merci

concorrenti (c.d. costo opportunità).

42 Ivi, p. 379 e ss. 43 Ibidem, in cui l’autore affermava testualmente che “Se gli investimenti statali nelle opere pubbliche riescono a

favorire un volume aggregato di output corrispondente al pieno impiego per quanto è possibile, la teoria classica

da qui in poi torna valida. A parte la necessità di controlli centrali per favorire un aggiustamento tra la propensione

al consumo e quella a investire, non vi sono più ragioni di prima per socializzare la vita economica”. 44 J.M. Keynes, discorso all’American Political Econonomy Club, citato in Collected Writings, vol. 13: General

Theory and After, Part I, p. 462.

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La studio teorico dell’economia tramite l’analisi del prezzo dei beni e servizi era

particolarmente confacente alla congiuntura economica in cui viveva Hayek, caratterizzata da

una inflazione galoppante. In effetti, in seguito al primo conflitto mondiale, la quantità di

moneta stampata dai governi per finanziare la guerra e la scarsità di materie prime avevano

indotto in Austria e in Germania un innalzamento generalizzato dei beni e servizi, anche di

quelli di prima necessità come pane ed elettricità. La facoltosa famiglia Hayek si era ritrovata

a subire una perdita di valore dei propri risparmi tale da ridurla al lastrico e nel solo arco del

1922 lo stesso Hayek ricevette circa duecento aumenti di stipendio al fine di compensare il

repentino deprezzamento della valuta45.

In tale contesto, si comprende come Hayek iniziò ad avere a cuore il tema della stabilità

dei prezzi come chiave per lo sviluppo economico di una società. Tuttavia, essendo allievo della

Scuola austriaca, Hayek riteneva che qualsiasi tipo di turbolenza del sistema economico,

dall’inflazione alla recessione, per passare alla piena occupazione, sarebbe venuta meno

attraverso l’agire delle forze naturali del mercato, mediante un processo puramente spontaneo

incentrato sul noto laissez-faire. La fiducia nel libero mercato non consentiva alcuno spazio ad

un intervento dello Stato nell’economia46.

A titolo esemplificativo, un intervento pubblico di riduzione dei tassi di interesse veniva

visto come uno strumento in grado di alterare l’equilibrio naturale che in un’economia di

mercato si crea tra i risparmi degli individui e l’investimento in beni strumentali (es. macchinari

industriali). In particolare, lo squilibrio derivava dal fatto che la disponibilità di maggiore

quantità di denaro “a buon mercato” comportava un aumento della domanda di beni produttivi

tale da superare il livello di quelli acquistabili realmente dai risparmi delle famiglie. Tale

situazione conduceva, nel medio periodo, ad una sorta di impasse: da un lato, se lo Stato

decideva di abbassare ulteriormente in tassi di interesse per stimolare maggiori investimenti

reali, la maggiore quantità di denaro immesso nel mercato avrebbe inevitabilmente comportato

una inflazione; dall’altro, se lo Stato optava per un innalzamento dei tassi di interesse, la

riduzione degli investimenti privati, giudicati non più convenienti, avrebbe causato una

recessione ancora peggiore rispetto a quella che in prima istanza aveva giustificato l’intervento

pubblico sul livello dei tassi di interesse47.

45 N. Wapshott, op. cit., p.31 e ss. 46 L. Von Mises, F.A. von Hayek, E. Mantoux, L. Lachmann, M.N. Rothbard, I.M. Kirzner, La Scuola Austriaca

contro Keynes e Cambridge, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000, in cui si afferma che l’intervento pubblico

nell’economia avrebbe causato errori ben più gravi e profondi rispetto a quelli di un semplice operatore economico

privato. 47 N. Wapshott, op. cit, p. 47.

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In conformità alla linea di pensiero in esame, Hayek sosteneva che nel tempo tutti i

mercati, anche quello del denaro, si attestavano su una posizione di equilibrio in cui la domanda

e l’offerta si equivalevano. L’incontro spontaneo tra l’offerta dei produttori e la domanda dei

consumatori veniva incarnato dal meccanismo dei prezzi. Ne consegue che, qualsiasi modifica

artificiale del livello dei prezzi avrebbe prodotto conseguenze negative per il sistema

economico. In effetti, a giudizio del filosofo austriaco, la tendenza all’equilibrio naturale del

mercato sarebbe stata compromessa ogniqualvolta lo Stato avesse deciso di intervenire

nell’economia, comportando: (i) inflazione in caso di riduzione dei tassi di interesse e del costo

del denaro, ovvero (ii) recessione in caso di innalzamento dei tassi di interesse48.

In altri termini, la posizione di Hayek nei confronti di un intervento pubblico

nell’economia era marcatamente pessimistica. Sebbene lui stesso affermasse che una crisi del

sistema economico poteva essere sventata da una politica statale di stimolo della domanda

aggregata, tuttavia nel lungo periodo qualsiasi manipolazione pubblica degli elementi su cui si

basa l’economia capitalistica avrebbe comportato disorganizzazione e turbolenze economiche.

Nelle conclusioni dell’opera The Paradox of Saving, infatti, Hayek concludeva affermando a

chiare lettere che “la complessiva convenienza [dell’intervento pubblico] per allievare la

disoccupazione tramite opere pubbliche e così via è assai discutibile alla luce di questa

analisi”49.

3.1 La confutazione delle tesi di Keynes

Una delle prime occasioni in cui Hayek ebbe modo di contrastare apertamente le tesi

avanzate dal suo rivale accademico Keynes avvenne in occasione di un ciclo di seminari che il

filosofo austriaco tenne alla London School of Economics. In tale occasione, difatti, Hayek

confutò le teorie economiche di Keynes e della Scuola di Cambridge, gettando le basi della

cosiddetta controrivoluzione monetarista che nella seconda metà del Novecento si sarebbe

contrapposta alle dottrine keynesiane50.

Quanto al modo per aumentare la produzione, Hayek affermava che l’unica via

concretamente praticabile era rappresentata dall’impiego di capitali privati per l’acquisto di

beni strumentali intermedi. Nella gestione di un’attività economica, in particolare, gli

imprenditori investono nell’acquisto di beni strumentali intermedi (macchinari, utensili) per

48 Ivi, p. 48. 49 F.A. Hayek, The “Paradox” of Savings, tradotto da N. Kaldor e G. Tugendhat, prima pubblicato sulla rivista

“Economica” del 1931, vol. 11, e poi inserito nei Collected Works, vol 9: Contra Keynes and Cambridge, p. 118

e ss. 50 N. Wapshott, op. cit., p. 73

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produrre beni e servizi in grado di soddisfare la domanda di consumo finale delle famiglie.

L’investimento in beni strumentali intermedi si giustifica in quanto una maggiore efficienza del

ciclo produttivo conduce inevitabilmente ad un aumento di prodotti finali da offrire ai

consumatori. In tal modo, gli imprenditori procrastinano i loro profitti al momento della vendita

dei beni prodotti, mentre i consumatori decidono di risparmiare oggi per avere successivamente

più risorse da impiegare in consumi. Questo meccanismo capitalista di produzione, a giudizio

di Hayek, può funzionare soltanto qualora le famiglie decidono di consumare la parte della

ricchezza totale dedicata al consumo corrente. Al fine di non disturbare la produzione, gli

incrementi del livello di consumo necessitano, come contraltare, nuovi risparmi pregressi.

Secondo il filosofo austriaco, l’aumento artificiale della domanda mediante l’utilizzo della

spesa pubblica avrebbe portato ad una alterazione dell’equilibrio naturale del libero mercato:

“l’unica maniera per mobilitare in permanenza tutte le risorse disponibili è perciò non usare

stimoli artificiali, sia durante una crisi che dopo, ma lasciare che sia il tempo a impartire una

cura permanente”51.

Facendo tesoro della tremenda inflazione che aveva vissuto dopo il primo conflitto

mondiale, Hayek sottolineava il fatto che il denaro dovesse operare come una sorta di fattore

neutrale rispetto alle dinamiche presenti nel sistema economico. Invero, come l’aumento o la

diminuzione dei redditi degli individui, anche la modifica del livello di moneta presente nel

sistema economico permette agli operatori economici di modificare, di conseguenza, il livello

generale dei consumi. A titolo esemplificativo, la decisione del governo di aumentare la

quantità di moneta presente nel sistema economico attraverso l’incremento della spesa pubblica

consentirebbe alla collettività di riferimento di usufruire di maggiore disponibilità liquide da

spendere. Di converso, una riduzione coattiva della moneta in circolazione mediante, per

esempio, una politica monetaria restrittiva avrebbe come risultato una contrazione della

domanda aggregata di beni e servizi. In altri termini, a giudizio di Hayek, la modifica della

quantità di moneta in circolazione da parte dello Stato comportava la produzione di esternalità

negative in determinati settori dell’economia: “l’aumento della quantità di moneta significa

soltanto che qualcuno dovrà cedere parte del suo prodotto addizionale ai produttori di nuova

moneta”52.

Pertanto, anche in presenza di un’economia depressa, la soluzione paventata dai fautori

del laissez-faire era quella di lasciare che il tempo riequilibrasse il ciclo economico. Le logiche

51 Cfr. F.A. Hayek, Prices and Production and Other Works: F.A. Hayek on Money, the Business Cycle, and the

Gold Standard, Ludwig von Mises Institute, Auburn 2008, disponibile al seguente indirizzo:

http://mises.org/books/hayekcollection.pdf, p. 272 e ss. 52 Ivi, p. 288 e ss.

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di mercato avrebbero fornito spontaneamente la cura ai malesseri del sistema economico. In

una tale ottica, le comode soluzioni indicate da economisti come Keynes non potevano ritenersi

accettabili53.

Per quanto interessa la presente sede, nel commentare l’opera di Keynes sulla teoria

della moneta, Hayek ebbe modo di affrontare, tra le altre cose, il tema caro all’economista

inglese dei mezzi con cui combattere la disoccupazione nelle fasi avverse del ciclo economico.

In particolare, nel commentare la nota proposta keynesiana di intervento pubblico nel governo

dell’economia, il filosofo austriaco attribuiva un prezzo ben preciso a tale modus operandi,

ovvero la produzione di un’inflazione galoppante. Quest’ultima rappresentava un costo che, in

virtù dell’esperienza negativa che Hayek aveva vissuto sulla propria pelle, non poteva

giustificare qualsiasi tipo di intervento pubblico nel sistema economico. La fiducia nelle forze

ri-equilibratrici del mercato non lasciava spazio ad una sostituzione degli investimenti privati

mediante l’utilizzo della spesa pubblica54. In altri termini, riprendendo testualmente le parole

di Hayek:

“[..] qualsiasi tentativo di favorire un aumento degli investimenti affinché equipari il risparmio che è già

necessario per mantenere il vecchio capitale avrebbe esattamente gli stessi effetti di qualsiasi altro

tentativo di aumentare gli investimenti oltre i risparmi netti: inflazione, risparmio forzoso, produzione

male indirizzata e, alla fine, una crisi”55.

L’incapacità di conoscere completamente le forze che animano il sistema economico

spingeva Hayek ad affermare che la gestione deliberata dell’economia non avrebbe risolto le

fasi avverse del ciclo economico, ma piuttosto avrebbe aggravato la produzione di effetti

negativi nell’economia reale. A detta del filosofo austriaco, la recessione che il mondo

occidentale viveva nel 1930 era stata creata proprio da un’espansione autoritaria del credito.

Pertanto, l’iniezione di moneta da parte del governo di uno Stato non si poteva tradurre se non

in una cura dell’economia mediante gli stessi fattori che avevano, in prima battuta, causato un

rallentamento degli stadi di produzione. Questi ultimi, essendo stati alterati dalla mano

pubblica, potevano ritornare a garantire condizioni di equilibrio soltanto se lasciati alle libere

forze di mercato. La conclusione pessimista di Hayek era che gli economisti classici non erano

in grado di formulare delle misure semplici che, come indicavano gli economisti cosiddetti

“interventisti”, avrebbero risolto tutti i mali dell’economia. In altri termini, la fede nella

concezione ottimistica del mercato implicava, in nuce, la necessità di attendere che le

53 Per una critica delle concezioni di Keynes si veda H. Lewis, Tutti gli errori di Keynes. Perché gli Stati continuano

a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie, Ibl Libri, 2010. 54 F.A. Hayek, Reflections on the Pure Theory of Mr. J.M. Keynes, II part, in Economica, febbraio 1932, pp. 22-

44. 55 F.A. Hayek, Collected Works, vol. 9: Contra Keynes and Cambridge, op. cit, 193 e ss.

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turbolenze presenti nel sistema economico si assestassero spontaneamente su un nuovo

equilibrio56.

Nella sua opera The Pure Theory of Capital, ultimo lavoro puramente economico prima

del salto nel mondo della filosofia politica, Hayek confutava, in primo luogo, l’assunto base

della General Theory di Keynes secondo il quale la disoccupazione si poteva ridurre in un

contesto recessivo con risorse produttive inutilizzate. Tale situazione, a detta di Hayek, non

poteva rappresentare il punto di partenza normale per una teoria che aveva la presunzione di

raggiungere un’applicazione generalizzata. Secondo il filosofo austriaco, Keynes non aveva

preso adeguatamente in considerazione le logiche sottese ai prezzi di mercato, relegandole ad

un ruolo secondario e subordinato alla presenza di un sistema economico caratterizzato dal

pieno impiego57.

In secondo luogo, Hayek sosteneva che il suo rivale avesse sbagliato nel non considerare

gli effetti a breve termine delle politiche interventiste sul lato della spesa pubblica. Questo

comportamento rappresentava una grave negligenza per un economista che, a detta di Hayek,

dovrebbe avere il dovere morale di non limitarsi a valutare il breve periodo, ma osservare “gli

effetti di lunga durata che sono passibili di passare inosservati all’occhio non esercitato”. In

altri termini, nella General Theory, Keynes si era svestito dei suoi panni da scienziato

dell’economia, per indossare quelli di un miope affarista dedito alle questioni quotidiane di

taglio estremamente pratico, eludendo questioni fondamentali come gli effetti a lungo termine

di politiche espansive su prezzi e produzione58.

Infine, Hayek si opponeva all’affermazione di Keynes secondo la quale la

disoccupazione si poteva ridurre attraverso aumenti della spesa pubblica, in quanto la domanda

aggregata di beni in un sistema economico si equivaleva con la domanda di forza lavoro.

Secondo il filosofo austriaco, tale equivalenza non era confermata dell’analisi empirica del

mondo degli affari:

“la correlazione tra domanda aggregata e impiego totale può soltanto essere approssimativa, ma essendo

la sola su cui abbiamo dati quantitativi è accettata come l’unica connessione causale che conta”59

Alla luce di tale incertezza, Hayek concludeva sottolineando la pericolosità di tutte quelle ricette

economiche, come quella additata dall’economista inglese, che si basavano sull’aumento della

56 F.A. Hayek, Monetary Theory and the Trade Cycle, Jonathan Cape, London, 1933, 19 e ss. 57 F.A. Hayek, The Pure Theory of Capital, University of Chicago Press, Chicago, 2009, p. 5 e ss. in cui l’autore

ribadisce la sua fede nella funzione che i prezzi di mercato svolgono in un’economia di mercato basata sulla

scarsità delle risorse. 58 Ivi, p. 441 59 Ivi, p. 471; si veda anche F.A. Hayek, The Pretence of Knowledge, 11 dicembre 1974, discorso in occasione

della cerimonia di conferimento del Premio Nobel, reperibile al seguente indirizzo:

https://mises.org/library/pretense-knowledge.

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spesa pubblica. Il sistema economico non poteva essere modificato a piacimento dallo Stato

senza provocare indubbi effetti negativi sia al benessere collettivo di una società, sia alle libertà

individuali, personali e politiche, consolidate nelle democrazie occidentali60.

3.2 The Road to Serfdom

L’idea che spinse Hayek a pubblicare The Road to Serfdom si rinveniva nel desiderio di

combattere gli effetti negativi dell’economia pianificata non con i tradizionali ragionamenti

economici in difesa della concezione ottimistica del mercato, ma attraverso una sorta di “nuova

strategia processuale” basata sulla salvaguardia delle libertà personali dei singoli. Il nuovo

angolo visuale di Hayek, infatti, non era più quello prettamente economico, bensì quello più

raffinato dell’argomentazione politico-filosofica. In particolare, secondo il filosofo austriaco,

la sostituzione del libero mercato con l’economia pianificata, negando le libertà economiche

dei singoli, avrebbe inevitabilmente condotto ad un regime totalitario. A detta di Hayek, se

l’intervento pubblico dello Stato nell’economia superava un certo limite, il circolo vizioso dei

controlli pubblici crescenti si sarebbe tradotto, in primis, in una negazione totale del libero

funzionamento del mercato. In secondo luogo, come insegnato dalla storia recente, tale

negazione delle libertà economiche avrebbe fatto venir meno anche le libertà personali e

politiche che, in assenza di un libero mercato incentrato sulla proprietà privata e sulla libera

iniziativa privata, non erano configurabili61.

Sebbene l’Hayek filosofo convenisse con Keynes che uno dei problemi più insidiosi di

quel tempo era rappresentato dalla disoccupazione e, più in generale, dai modi con cui

combattere gli andamenti avversi del ciclo economico, tra i due c’era una divergenza di vedute

sul ruolo che lo Stato avrebbe dovuto adottare. Secondo Hayek, il libero mercato non doveva

lasciare il posto a quel tipo di interventismo pubblico nell’economia indicato da Keynes, atteso

che i mali dell’economia potevano superarsi mediante altre strade meno invasive62.

Tuttavia, la posizione di Hayek non era più radicalmente contraria a qualsiasi tipo di

intervento statale nell’economia, ma lasciava uno spiraglio al ruolo che quest’ultimo poteva

avere al fine di risolvere la disoccupazione:

60 Come emerge dalla lettera che Hayek scrisse al suo collega Lippman, citata in Gary Dean Best, “Introduction”

in W. Lippman, The Good Society, Transaction Publishers, Piscataway, 2004, il filosofo austriaco stava

intraprendendo un nuovo percorso di ricerca per dimostrare ai suoi “amici” progressisti che gli esperimenti

progressisti avrebbero portato inevitabilmente al fascismo, mentre soltanto all’interno di un regime capitalista era

possibile far prosperare sistemi democratici. Gli sviluppi di tale pensiero portarono, in effetti, Hayek a pubblicare

il suo celeberrimo The Road to Serfdom il 10 marzo 1944 in Inghilterra. 61 F.A. Hayek, Collected Work, vol 2: The Road to Serfdom, p. 137 e ss. 62 Ivi, p. 148 e ss.

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“[l’intervento pubblico nell’economia] potrebbe portare a restrizioni molto più serie alla sfera

concorrenziale, e se sperimentiamo in questa direzione dovremo stare attenti a dove mettiamo i piedi se

vogliamo evitare di rendere l’attività economica sempre più dipendente dalla direzione e dal volume

della spesa pubblica”63.

Alla luce di tale estratto dell’opera The Road to Serfdom, si comprende come Hayek

sollevasse la questione di ponderare bene un eventuale aumento della spesa pubblica, ma non

vietasse in toto il ricorso a tale espediente per risolvere gli effetti negativi del ciclo economico.

Ed invero, nel continuare la velata l’apertura verso l’intervento pubblico, il filosofo austriaco

affermava che tale via:

“non è l’unica né, a mio parere, la più promettente maniera per affrontare la gravissima minaccia alla

sicurezza economica. In ogni caso i necessarissimi sforzi per garantire la protezione contro queste

fluttuazioni non portano al genere di pianificazione che costituisce una tale minaccia alla nostra

libertà”64.

In altri termini, Hayek aveva maturato il convincimento che l’utilizzazione della spesa

pubblica in investimenti produttivi per risolvere la piaga della disoccupazione non conduceva

al circolo vizioso in base al quale la maggiore presenza dello Stato nell’economia avrebbe

comportato la graduale rinuncia delle libertà individuali dei singoli. Ciò nonostante, la spesa

pubblica era comunque da considerare come una sorta di extrema ratio, giacché tale misura: (i)

non garantiva la produzione di effetti positivi duraturi; (ii) alterava l’efficiente allocazione delle

risorse tipica dei sistemi di mercato; (iii) conduceva inevitabilmente alla creazione di una

inflazione strisciante65.

Allo scopo di contenere tali conseguenze negative, Hayek sosteneva la necessità di

fissare a priori determinati principi generali come limite all’intervento dello Stato

nell’economia. A titolo esemplificativo, il filosofo austriaco citava l’esempio della Germania

nazista, in cui individui mossi da idee socialiste avevano, in un certo qual modo, aperto la strada

al movimento di Hitler66.

La strada verso la schiavitù poteva essere evitata soltanto mediante la fissazione di un

confine insuperabile tra libero mercato e intervento statale. Secondo Hayek, tale confine si

doveva rinvenire nel principio di legalità, ossia nella predisposizione di norme generali e

astratte aventi ad oggetto la tutela della sfera di libertà del singolo da qualsiasi ingerenza

indebita. In tale ottica, la presenza di monopoli commerciali o la concessione arbitraria di aiuti

di Stato a determinati settori industriali, ledendo a vario titolo la posizione dei consumatori,

63 Ibidem. 64 Ibidem. 65 Ivi, p. 214 66 Ivi, p. 58 e ss.

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rappresentavo misure in palese contrasto con il principio di legalità. Di converso, l’attribuzione

a tutti i cittadini di misure di sostegno avverso lo stato di povertà, non discriminando la

posizione dei singoli nella società, non contrastava con i dettami sottostanti al principio di

legalità67.

4. PRIME CONSIDERAZIONI

4.1 La necessità dell’intervento pubblico in un’economia capitalista

Giunti alla fine di questo breve excursus sul ruolo della spesa pubblica nel sistema

economico, pare opportuno esprimere delle prime considerazioni tendenti a sottolineare alcuni

aspetti che si ritengono cruciali nell’annoso dibattito sull’intervento dello Stato nell’economia.

L’analisi del ruolo macroeconomico della spesa pubblica nel libero mercato, alla luce delle

visioni di due grandi pensatori della scienza economica come John Maynard Keynes e Friedrich

August von Hayek, sembra far emergere la convinzione che un’economia capitalista non può

prescindere dall’apporto offerto dalla mano pubblica. Entrambe le scuole di pensiero a cui

appartengono Keynes ed Hayek affermano, infatti, che lo Stato non può non avere un ruolo nel

funzionamento del libero mercato. Quello che divide tali economisti, tuttavia, è rappresentato

dal quantum di compiti che l’apparato pubblico dovrebbe assumere al fine di garantire

un’efficiente allocazione di risorse nel sistema68.

Come indicato nelle pagine precedenti, Keynes credeva che lo Stato sarebbe dovuto

intervenire pesantemente nell’economia ogniqualvolta gli effetti negativi della parte bassa del

ciclo economico creavano livelli insostenibili di disoccupazione. L’economista inglese, difatti,

era un ottimista che credeva nel ruolo positivo che lo Stato poteva svolgere per assicurare un

futuro migliore alla collettività. Viceversa, il suo rivale-collega Hayek incarnava l’ideologia

pessimista e piena di incognite circa la capacità dell’uomo di risolvere i problemi circostanti.

Quanto all’economia, la sacralità del libero gioco delle forze del mercato, a detta di

quest’ultimo, non poteva essere violata dall’intervento di agenti esterni. Il mondo degli affari

reali avrebbe smesso di funzionare in maniera adeguata qualora le concezioni ideali sul

benessere della società avessero imposto allo Stato di intervenire nel sistema economico. I

malesseri dell’economia come la disoccupazione dovevano essere affrontati senza il ricorso di

67 Ivi, p. 148 68 C. Scognamiglio Pasini, Keynes e la crisi del nuovo millennio, Treves Editore, 2009 in cui l’autore afferma che

dalla pubblicazione dell’opera La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, passando per le analisi di Malthus,

Ricardo, Stuart Mill, Stanley Jeyons, fino ad arrivare a Keynes, nessun fautore del libero mercato ha mai predicato

l’assoluta libertà dei comportamenti individuali e/o delle organizzazioni economiche.

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alcun supporto esterno, attendendo sic et simpliciter un riequilibrio degli aggregati economici

spontaneo.

Probabilmente, le profonde divergenze tra Keynes e Hayek erano riconducibili non alla

fiducia/sfiducia nel libero mercato, atteso che entrambi erano sostenitori dell’economia

capitalista, ma piuttosto all’ambiente circostante in cui gli stessi si erano ritrovati a vivere. La

disoccupazione inglese per Keynes e l’iperinflazione austriaca per Hayek avevano

rappresentato, invero, dei fattori in grado di influenzare profondamente l’ottica dei due studiosi

nei confronti sia dell’economia, sia del ruolo che nel sistema economico deve avere l’intervento

pubblico.

In tale contesto, a parere di chi scrive, l’utilizzazione della spesa pubblica come

strumento di stabilizzazione socioeconomica rappresenta un elemento imprescindibile. Al di là

dei noti fallimenti del mercato, le disfunzionalità del sistema economico conducono alla

produzione di effetti che, se lasciati a sé stessi, potrebbero creare conseguenze nefaste per

l’ordinato vivere della società. L’esperienza empirica recente ci dimostra, difatti, che

l’economia capitalista moderna, se non adeguatamente limitata dall’intervento e/o controllo

pubblico, tende, da un lato, verso la creazione di situazioni di duopolio e/o cartelli deleteri per

i consumatori finali, e dall’altro alla presenza di elevati tassi di disoccupazione.

Quanto al primo effetto, è sufficiente citare il caso dell’economia statunitense in cui,

nonostante la salvaguardia di adeguati livelli di concorrenza risale allo Sherman Act del 1890,

attualmente le quote di mercato in svariati settori dell’economia sono in mano a pochissime

società. Il cambiamento di prospettiva dei policy makers circa gli asseriti effetti benefici dei

cartelli e l’influenza dei gruppi di interesse nella predisposizione di normative ad hoc hanno

ridotto notevolmente l’enforcement governativo a tutela del diritto della concorrenza. Le forze

di mercato si sono quindi adeguate di conseguenza, conducendo al consolidamento di posizioni

dominanti in settori del mercato fondamentali come il trasporto aereo, la produzione di carne

da allevamento, il servizio di intermediazione creditizia e il settore farmaceutico. Come indicato

nel primo capitolo, l’affermazione crescente di duopoli rappresenta un tipico fallimento del

mercato, atteso che qualsiasi riduzione di adeguati livelli concorrenziali si tramuta in una

minore qualità dei prodotti finali e in un aumento generalizzato del livello dei prezzi.

In riferimento, invece, al problema della disoccupazione, le due grandi crisi recessive

dell’ultimo secolo, rispettivamente la Grande depressione del 1929 e la crisi finanziaria del

2007, hanno mostrato come il libero mercato conduce ciclicamente a dei periodi di recessione

caratterizzati da un elevato numero di senza lavoro. In assenza di interventi governativi, tale

situazione può perdurare per periodi eccessivamente lunghi, rischiando di causare crisi sociali

ben più gravi. A ben vedere, è noto il rischio che incorre una società democratica in presenza

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di una quota elevata della popolazione senza mezzi di sussistenza adeguati a garantire

un’esistenza libera e dignitosa. Sul punto, la storia ci insegna che l’assenza diffusa di lavoro

può spingere parte della società civile ad intraprendere percorsi rivoluzionari, ovvero ad

aumentare l’influenza della criminalità organizzata. Per questo motivo, gli economisti non

classici si sono sempre domandati come affrontare la questione del livello ottimale di

occupazione, concludendo che nel breve periodo l’unica ricetta in grado di modificare trend

recessivi gravi è costituita dall’intervento governativo. Nello specifico, le due maggiori scuole

di pensiero che a vario titolo hanno propugnato soluzioni pubbliche “dall’alto” per risolvere

crisi economiche si rifanno alle ricette keynesiane sulla domanda aggregata, ovvero alle teorie

monetariste di Milton Friedman69.

Sulla scorta di quanto precede, si può affermare che la fragilità dell’economia capitalista

necessita del costante apporto della mano pubblica al fine di attenuare le inefficienze che si

creano durante il libero gioco delle forze di mercato. Una società libera difficilmente potrebbe

vedere tutelate le proprie conquiste in tema di diritti e libertà se le derive anticoncorrenziali

degli operatori economici e il caos delle rivoluzioni di massa prendessero il sopravvenuto

sull’ordine precostituito. In tal senso, soltanto ponderati interventi pubblici di natura regolatoria

e/o con finalità anticongiunturali possono rappresentare reali presidi di difesa della sfera di

libertà dei singoli70.

4.2 I limiti della spesa pubblica

L’utilizzo della spesa pubblica come strumento per alleviare le storture del libero

mercato non deve, tuttavia, essere visto come una sorta di panacea in grado di estirpare dal

mondo reale ogni inefficienza allocativa. Lo Stato non può essere additato come un’entità

onnisciente tale da prevedere con esattezza come stimolare adeguatamente l’economia e

garantire elevati livelli d’impiego. Inoltre, come gli altri agenti economici che operano nel

sistema economico, anche lo Stato deve affrontare il nodo della scarsità delle risorse. In altri

69 L’economista Milton Friedman, fondatore della teoria monetarista, affermava infatti che l’aumento della spesa

pubblica propugnato da Keynes al fine di stimolare un’economia caduta in depressione non era la soluzione

ottimale, in quanto fasi avverse del ciclo economico necessitano soltanto di una disponibilità maggiore di denaro

per ritornare a stadi produttivi ottimali. In altri termini, il livello naturale di occupazione poteva essere raggiunto

attraverso un giusto livello di moneta nel sistema, senza ricorrere ad aumenti della spesa pubblica per investimenti. 70 Per un’analisi del capitalismo come condizione necessaria ma non sufficiente delle libertà individuali si v. M.

Friedman, Efficienza economica e libertà, Vallecchi, Firenze, 1967, pp. 28-29, il quale testualmente affermava che

“la storia ci dice soltanto che il capitalismo è una condizione necessaria della libertà politica. Ma non è una

condizione sufficiente. L’Italia fascista, la Spagna franchista, la Germania in varie epoche degli ultimi settant’anni,

il Giappone anteriormente alla prima e alla seconda guerra mondiale, sono tutti esempi di società che non si

possono evidentemente definire politicamente libere. Eppure – in ciascuna di esse l’intrapresa privata era la forma

predominante di organizzazione economica. È, quindi, ovviamente, possibile il caso di assetti economici che sono

fondamentalmente capitalistici e di assetti politici che non sono liberi”.

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termini, gli interventi pubblici nel governo dell’economia incontrano lo stesso limite che

famiglie e imprese affrontano nel decidere rispettivamente il livello di consumi e della

produzione, ossia la disponibilità di risorse finanziarie limitate. Ed invero, da un punto di vista

quantitativo, la spesa pubblica incontra come limite la tassazione e il debito pubblico.

Quanto al primo limite, come noto, la tassazione rappresenta il principale strumento

attraverso il quale lo Stato ottiene le risorse finanziarie necessarie per perseguire finalità

collettive. I cittadini sono obbligati in base a disposizioni di legge a cedere una percentuale del

proprio reddito alla Pubblica amministrazione al fine di finanziare l’offerta di beni e servizi

pubblici. L’ammontare delle somme così ottenute costituisce, quindi, il limite che lo Stato deve

rispettare nello svolgimento delle sue funzioni. Da ciò deriva che, anche qualsiasi intervento

governativo volto a contrastare fasi avverse del ciclo economico deve sottostare a tale vincolo

di bilancio. In altri termini, lo Stato può aumentare la spesa pubblica per stimolare l’economia

reale soltanto se gode di disposizione liquide pronte ad essere utilizzate in tal senso. In

mancanza di tale surplus finanziario, l’apparto pubblico deve cercare di individuare altre

strategie per risollevare un’economia ferma. In tale contesto, l’aumento della pressione fiscale

per sopperire ai bisogni pubblici dovrebbe essere visto come una extrema ratio, praticabile

soltanto quando il livello di tassazione già esistente non supera una percentuale del reddito dei

cittadini considerata accettabile71. Ferma l’affermazione di Milton Friedman in base alla quale

gli individui sanno meglio dei politici come spendere i propri soldi72, si ritiene infatti che livelli

eccessivi di tassazione alimentano sprechi pubblici e riducono in maniera eccessiva le sfere di

libertà dei singoli.

In riferimento invece al limite del debito pubblico, lo Stato potrebbe decidere di

intervenire nel sistema economico per risolvere fasi recessive facendo ricorso non agli introiti

fiscali, ma indebitandosi attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico. Sebbene tale

soluzione possa rappresentare una mossa vincente nel breve periodo, come indicato nel primo

capitolo, il ricorso al debito pubblico provoca due conseguenze negative: (i) aumento delle

somme da destinare al pagamento degli interessi pubblici; (ii) spiazzamento degli investimenti

privati. L’importanza di questi effetti negativi è direttamente proporzionale alla mole del debito

pubblico pregresso che uno Stato può avere accumulato negli anni. Più precisamente, in

presenza di un debito pubblico eccessivo, lo Stato si potrebbe trovare, in primo luogo, nella

spiacevole condizione di destinare una quota importante del proprio bilancio al pagamento degli

71 Cfr. sul punto l’articolo di G. Stazi, Etica fiscale e fabbrica delle tasse non vanno più d’accordo, MilanoFinanza,

27 novembre 2019 in cui si riporta come la tassazione italiana sia tremendamente aumentata dal 1964 al 2012,

passando dal 24,7 percento al 43,9 percento del Pil italiano. 72 R.J. Gordon, Milton Friedman’s Monetary Framework: A debate with His Critics, University of Chicago Press,

Chicago, 1974.

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interessi pubblici sul debito. In secondo luogo, l’immissione costante di titoli del debito

pubblico nel mercato mobiliare potrebbe diminuire grandemente la quota di risorse da destinare

al settore privato, nonché la possibilità di assicurare il raggiungimento di elevati standard di

sviluppo economico. Di converso, un debito pubblico di entità ridotta consentirebbe, in astratto,

all’apparato governativo maggiori spazi di manovra nel sistema economico, senza produrre

eccessivi effetti negativi per quanto riguarda il pagamento degli interessi sul debito e la

riduzione della mole di investimenti privati.

Last but non least, per quanto riguarda il limite qualitativo della spesa pubblica, si rileva

che l’intervento governativo nell’economia non può spingersi fino al punto di far venir meno

la libera iniziativa privata nel campo economico. Come affermato dalla totalità dei patrocinatori

dell’economia capitalista, la spesa pubblica deve intervenire soltanto in quei settori in cui il

libero mercato non è in grado di funzionare adeguatamente. A ben vedere, non essendo

sottoposto a logiche concorrenziali, il settore pubblico tende a presentare diffuse inefficienze e

sprechi che, se non adeguatamente limitati, possono raggiungere livelli insostenibili per una

società civile. Per questo motivo, l’utilizzo della spesa pubblica per risolvere i

malfunzionamenti del mercato deve essere impegnato, per dirla alla Hayek, “sapendo dove

mettere i piedi”. Il ricorso agli investimenti pubblici per ridurre la disoccupazione, per esempio,

viene considerato accettabile soltanto se non si traduce in una pianificazione pressoché totale

delle attività economiche. Queste ultime, come noto, rappresentano il substrato delle libertà

individuali, in assenza delle quali non sarebbe configurabile uno stato democratico. In effetti,

le libertà insite nella società privata devono essere viste come una difesa della posizione del

singolo nell’ordinamento giuridico avverso il rischio di esercizio arbitrario dei poteri

amministrativi pubblici. Ne consegue che, il superamento del limite qualitativo da parte della

spesa pubblica potrebbe imporre alla collettività costi inutili e, soprattutto, una privazione delle

fondamentali libertà individuali e politiche dei singoli73.

Tanto premesso, si comprende come l’affermazione in base alla quale la spesa pubblica

rappresenta uno strumento imprescindibile in un’economia capitalista debba essere riletta alla

luce dei limiti sopra indicati. Più esattamente, il livello della tassazione, la mole del debito

pubblico e il rispetto delle libertà economiche rappresentano, a ben vedere, dei limiti

invalicabili all’intervento dello Stato nell’economia. Una politica economica che, allo scopo di

correggere le inefficienze dell’economia capitalista moderna, deliberatamente non tenesse

73 G. Pecora, Il liberalismo anomalo di Friedrich August von Hayek, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, 77 e ss

in cui l’autore afferma, tra le altre cose, che il motivo profondo del liberal-liberismo si rinviene nella difesa della

proprietà privata come strumento per salvaguardare le libertà del singolo, in particolare le opportunità di scelta

rinvenibili esclusivamente nella posizione di dominus.

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conto di tali limiti, si tradurrebbe, in una sorta di eterogenesi dei fini, in una negazione dei

principi basilari su cui si basano l’economia di mercato e le democrazie liberali dell’occidente74.

4.3 Il monito di Hayek

In tempi non sospetti il filosofo austriaco Hayek aveva predetto che una spesa pubblica

incontrollata avrebbe condotto ad un circolo vizioso tale per cui l’aumento dell’intervento

governativo nell’economia si sarebbe tradotto in una progressiva eliminazione delle libertà

individuali dei singoli. Onde prevenire tale risultato, la soluzione offerta da Hayek prevedeva

la fissazione di determinati principi generali che lo Stato avrebbe dovuto osservare prima di

decidere di intervenire nel tessuto economico attraverso, per esempio, misure di sostegno del

ciclo economico. Tali principi di diritto avrebbero consentito di distinguere a priori tra

interventi governativi giudicati legittimi rispetto ad interventi non compatibili con i canoni di

legalità in precedenza fissati. In mancanza di tale precauzione, la progressione limitazione delle

libertà economiche avrebbe comportato una parallela riduzione degli spazi di libertà ed

indipendenza dei singoli, fino ad arrivare, nei casi più gravi, all’avvento di Stati totalitari75.

Tuttavia, come indicato nel breve commento epistolare all’opera The Road to Serfdom

che Keynes inviò ad Hayek nel 1944, quest’ultimo non riuscì mai ad indicare la linea di

demarcazione tra intervento pubblico e libero mercato superata la quale si apriva la strada ad

una società illiberale76. Soltanto nella parte finale della sua vita Hayek arrivò ad affermare che

lo Stato avrebbe dovuto gestire esclusivamente quelle componenti della società, come il

servizio della difesa nazionale, che nessuno altro sarebbe stato in grado di offrire nel libero

mercato. Tutti gli altri servizi dovevano essere privatizzati, perfino l’emissione della moneta.

In altri termini, mentre gli economisti dovevano comportarsi come dei giardinieri, limitandosi

a fornire un ambiente adatto alla crescita, la società privata doveva sostituire quasi

completamente il governo, i gruppi di interesse e i partiti77.

Pur senza caldeggiare le ultime affermazioni dell’Hayek filosofo del libertarismo, non

si può non condividere il rischio indicato più volte nell’opera The Road to Serfdom che un

74 Sul punto, è doveroso il richiamo alle magistrali riflessioni di B. Leoni, Freedom and the Law, D. Van Nostrand

Company, New Jersey, 1961, spec. p. 105 in cui l’autore affermava, tra le altre cose, che “no free-trade system

can actually work if it is not rooted in a legal and political system that helps citizens to counteract interference

with their business on the part of other people, including the authorities”. 75 F.A. Hayek, The Road to Serfdom, an Address before the Economic Club of Detroit, 23 aprile 1945, p. 6 76 Lettera di J.M. Keynes a F.A. Hayek, 28 giugno 1944, pubblicata in J.M. Keynes, Activities 1940-1946. Shaping

the Post-War World: Employment and Commodities, Donald Moggridge, vol. 27, 1980 of the Collected Writings

of John Maynard Keynes, in cui l’autore affermava testualmente che “You admit here and there that it is a question

of knowing where to draw the line. You agree that the line has to be drawn somewhere, and that the logical extreme

is not possible. But you give us no guidance whatever as to where to draw it”. 77 Si veda sul punto l’intervista di Thomas W. Hazlitt ad Hayek nel 1977, pubblicata su Reason nel luglio 1992,

disponibile al seguente indirizzo: https://reason.com/1992/07/01/the-road-from-serfdom-2/

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eccessivo intervento dello Stato nell’economia possa comportare un annullamento sia delle

libertà economiche, sia delle sottostanti sfere di libertà degli individui. Al fine di garantire uno

sviluppo virtuoso della società, si dovrebbe piuttosto assicurare un ambiente caratterizzato da

una prevalenza di società private che si contendono, sulla base del libero gioco della

concorrenza, quote di mercato, relegando lo Stato al compimento di circoscritte funzioni

essenziali.

In conclusione, pur sostenendo l’importanza della spesa pubblica per la sopravvivenza

di una società civile basata sull’economia di mercato, si ritiene che una sfida ben più importante

sia quella a favore delle libertà individuali dei singoli avverso il rischio degli estremismi

presenti, purtroppo, anche nel nostro caotico presente. Nel condividere a malincuore il pensiero

di Luigi Tivelli secondo il quale i sostenitori del libero mercato sono soltanto “pochi matti

isolati”, non ci resta quindi che fare affidamento su iniziative culturali come la Scuola di

Liberalismo per diffondere il verbo del liberalismo in un mondo intriso di populismo78.

78 L. Tivelli, Gli effetti della decadenza delle élite sullo sviluppo di mercato, in Meno Stato più società, a cura di

L. Dini, A. Marzano, Il periscopio delle idee, 2016

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