L'ESPRESSO DEL 6 GIUGNO 2013

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Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03(conv.in legge 27/02/04 n.46)art.1comma 1-DCB Roma - Austria - Belgio - Francia - Germania - Grecia - Lussemburgo - Olanda - Portogallo - Principato di Monaco - Slovenia - Spagna € 5,10 - C.T. Sfr. 6,20 - Svizzera Sfr. 6,50 - Inghilterra £ 3,80 ESCLUSIVO TUMORI E MALATTIE NELLA GELA DEL PETROLCHIMICO p. 48 INDIFESI DYNASTY ESSELUNGA CAPROTTI JUNIOR LANCIA DURE ACCUSE AL PADRE p.104 POLITICA E POTERE LOTTIZZAZIONE TRA I PARTITI DELLE LARGHE INTESE p. 40 OMICIDI A ROMA. BOOM DI RAPINE E SCIPPI. FURTI IN CASA A MILANO E BOLOGNA. IN TUTTE LE CITTÀ ITALIANE LA CRISI ECONOMICA MOLTIPLICA I REATI. E AUMENTA LA PAURA. MENTRE LE FORZE DELL’ORDINE HANNO SEMPRE MENO UOMINI E MEZZI Settimanale di politica cultura economia - www.espressonline.it N. 22 anno LIX 6 giugno 2013

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SETTIMANALE D'INFORMAZIONE

Transcript of L'ESPRESSO DEL 6 GIUGNO 2013

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politica e poterelottizzazione tra i partiti delle larghe intese p. 40

omicidi a roma. boom di rapine e scippi. furti in casa a milano e bologna. in tutte le città italiane la crisi economica moltiplica i reati. e aumenta la paura. mentre le forze dell’ordine hanno sempre meno uomini e mezzi

settimanale di politica cultura economia - www.espressonline.it n. 22 anno liX 6 giugno 2013

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il sommario di questo numero è a pagina 26

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Tre nostri concittadini. Rami Abou Eisa è nato a Biella nel 1987 da genitori egiziani. Suo padre vive in Italia da 33 anni e ha tre fratelli più piccoli. È

l’unico della sua famiglia a non avere la cittadinanza italiana perché quando i sui genitori l’hanno ottenuta lui era già mag-giorenne. Ha fatto domanda per la cittadi-nanza ad agosto 2007 e non ha ancora ri-cevuto risposta. Non può viaggiare all’este-ro e non può tornare in Egitto perché per il governo egiziano è un disertore non avendo fatto il servizio militare. Ha 25 anni, studia archeologia a Torino come studente extra-comunitario, pur essendo italiano.

Valentino agunu è nato a Roma, nel 1987. I suoi genitori sono venuti in Italia dalla Nigeria sei anni prima che lui na-scesse. Ha tre sorelle nate e cresciute in Italia. Quando lui era in prima media, con la famiglia, è tornato in Africa, per poi trasferirsi a New York. Valentino ora vive in Italia anche se ha perso i requisiti per chiedere la cittadinanza. Ora ha un per-messo di soggiorno per motivi di studio.

Anastasio Moothen è nato a Parma da genitori delle Mauritius. Alla fine delle scuole superiori, non avendo trovato un lavoro, è stato quasi un anno senza per-messo di soggiorno. Non poteva iscriversi all’università, non poteva viaggiare e non poteva partecipare concorsi pubblici.

Molto spesso, di fronte alla paura, di fronte al diverso, di fronte al diverso che genera paura, il buon senso arretra. E se rileggiamo la storia dell’uomo dalla pro-spettiva dei cambiamenti, della introduzio-ne anche di nuovi diritti, comprendiamo quanto, la nostra, sia una storia fatta di conservazione. Eppure il popolo italiano, in un passato recentissimo, è stato vessato da insulti, luoghi comuni, pregiudizi. E che ora sia così disposto ad aprirsi a logiche razziali è cosa singolare.

«Gli italiani sono generalmente di picco-la statura e di pelle scura, non amano l’ac-qua, molti di loro puzzano perché indossa-no lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e di allumi-nio nelle periferie delle città, dove vivono

vicini gli uni agli altri Si presentano di soli-to in due e cercano una stanza con uso cu-cina, dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue per noi incomprensibili, forse antichi dialetti. Mol-ti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina. Fanno molti bambini che fati-cano a mantenere. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco at-traenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo ag-guati in strade periferiche. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare». Così venivano descrit-ti gli italiani nel 1912, in una relazione dell’ispettorato all’immigrazione del congresso Usa, in un documento ufficiale.

A noi può sembrare assurdo, ma tanto più assurdo è il fatto che con le stesse parole, ancora oggi, molti italiani descri-vano gli immigrati che arrivano qui.

oggi sei italiano se hai almeno un genitore italiano. Se nasci da genitori stra-nieri, solo quando compi 18 anni puoi chiedere la cittadinanza. Ma se la tua fami-glia per un periodo non è stata residente in Italia, perdi il diritto a chiederla. Poi, quan-do la chiedi, i tempi per ottenerla sono lunghissimi. Sono un milione i ragazzi nati in Italia, che parlano italiano, che sono italiani ma che non hanno la cittadinanza. Vivono con permessi di soggiorni, se non studiano e non lavorano diventano clande-stini. Sono talenti per il Paese, se perdiamo questi cittadini, perdiamo un valore ag-giunto morale ed economico.

Mi piace ricordare Fiorello La Guardia, figlio di padre pugliese e madre triestina, che nel 1933 diventa sindaco di New York perché lì esiste lo ius soli. A lui New York deve moltissimo: la possibilità che le mino-ranze hanno avuto di dimostrare il loro talento, l’arresto di Lucky Luciano, scatta-to un minuto dopo l’insediamento come sindaco. Neanche per un attimo gli ameri-cani lo hanno considerato non americano perché nato da genitori stranieri. L’America non ha rinunciato a quel talento e a quella possibilità. Perché rinunciarci noi?

Lezione americana sullo ius soli

Rami Abou Eisa, 26 anni, è nato a Biella da egiziani diventati

italiani. Lui no, perché mamma e

papà hanno ottenuto la cittadinanza

quando il loro figlio aveva già 18 anni.

Eppure La Guardia divenne sindaco di

New York, e per tutti era americano nonostante avesse genitori stranieri

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Roberto Saviano L’antitaliano

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Ma come ha fatto la famiglia Riva ad accumulare grazie all’Ilva 8 miliardi di euro (15 mila miliardi di lire) pari a due volte il gettito

dell’Imu sulla prima casa e a circa la me-tà di quello che spende Berlusconi in av-vocati? In una minuziosa memoria difen-siva i Riva spiegano che l’ottimo anda-mento del mercato delle grondaie, unito al buon successo delle posate in acciaio inox modello “Elena”, ha consentito di aumentare i profitti dello 0,01 per cento. Il restante 99,99 per cento dei profitti è dovuto a puro culo. Ma la tesi non ha convinto gli inquirenti, che hanno ordi-nato nuove perizie.

La pista russa Grazie all’intercessio-ne personale di Berlusconi, attraverso la consociata Mediatub l’Ilva avrebbe ven-duto all’amico Putin tubi da gasdotto per un totale di 500 mila chilometri di lun-ghezza. L’ammontare della commessa, pari a dieci volte l’equatore, ha insospet-tito gli inquirenti. Il mistero è stato chia-rito prendendo visione del progetto del nuovo gasdotto “Zig-Zag”, un capolavo-ro dell’ingegneria italo-russa che con-giunge Baku a Ravenna con un percorso molto sinuoso (passa per Stoccolma, Ankara, Chicago, Manila, Sidney, Mum-bai e Pamplona). «Anche dove era pos-sibile procedere per via rettilinea – spie-ga un consulente dell’Eni che ha accet-tato di ricevere i giornalisti nel castello in Borgogna dove si è appena stabilito – siamo riusciti a inventarci suggestivi, arditissimi ricami aerei, ispirandoci alle celebri montagne russe di Eurodisney. Finita l’epoca del gasdotto come banale vettore di combustibile, l’esigenza è usare i tubi come un vero e proprio ele-mento architettonico. Così, per percor-rere un solo chilometro, ne servono al-meno venti di tubo d’acciaio».

La pista ferroviaria Mentre i treni italiani vanno a ramengo e sulle linee secondarie, a causa della manutenzione carente, i macchinisti devono aprirsi la strada a colpi di machete, l’Ilva avrebbe venduto alle Ferrovie dello Stato milio-

ni di chilometri dei nuovi binari “Exca-libur” in acciaio temperato, cromatura a mano, firma e segno zodiacale dell’o-peraio fonditore incisi lateralmente a ogni pezzo. Possono essere montati solo con traversine in mogano, a lisca di pesce come il parquet.

Velocissime, sono adatte solo ai treni ad alta velocità. Ma in attesa di com-pletare il famoso Corridoio 5 della Tav (Lisbona-Novosibirsk: per ora è pronto il tratto che va da Lisbona Termini a Lisbona Tiburtina) e il corridoio 5 bis (sempre Lisbona-Novosibirsk, ma so-praelevato sopra il corridoio 5), i bina-ri Excalibur sono stati montati per prova sulla Saluzzo-Cuneo. Il vecchio interregionale di latta a due vagoni, sfuggendo al controllo del macchinista, ha raggiunto i 340 all’ora e si è disfatto per l’attrito, arrivando a Cuneo in quat-tro minuti contro la consueta ora e mezza. Atterriti ma entusiasti, i pochi pendolari superstiti hanno solo chiesto un pettine e hanno rifiutato l’aiuto dello psicologo.

risparmi Enormi risparmi sarebbero stati possibili grazie alla semplificazione dei processi produttivi. I robusti altoforni trafugati dal Museo della siderurgia di Sheffield non sono mai stati sostituiti in applicazione di una delibera delle Belle Arti. Al posto delle costose ciminiere, il sistema della dispersione “en plein air” del nerofumo, unito al libero rilascio dei pittoreschi lapilli incandescenti, ha fatto di Taranto una città inconfondibile, a metà tra Pompei durante l’eruzione del Vesuvio e Venezia durante i fuochi del Redentore.

La pista saLariaLe In una simulazio-ne aritmetica effettuata, durante il dopo-scuola, dagli alunni di una scuola elemen-tare di Ancona, è risultato che se il salario di 40 mila operai rimane identico per vent’anni, a parità di fatturato la proprie-tà della fabbrica guadagna una caterva di miliardi. Lo studio, destinato a far discu-tere gli economisti di tutto il mondo, è stato accolto con autentica sorpresa negli ambienti politici, sindacali e industriali.

Riva dice grazie alle grondaie

Nella sua memoria difensiva il re

dell’acciaio spiega così i grandi utili

del gruppo. Dovuti anche al successo

delle posate “Elena”, che hanno

fatto aumentare i profitti dello 0,01

per cento. Il restante 99,99 per

cento è puro c...

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Michele Serra Satira preventiva

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Mi è successo nel 2010. Squil-la il cellulare, è una funzio-naria della banca. «Profes-sore, niente da fare per quel fido: lei ha un’ipoteca sulla

casa». «Lo so, è legata al mutuo». «Non quella, ce n’è un’altra: un’ipoteca legale. Firmata l’anno scorso da Equitalia. Non ne sapeva nulla? Normale, accade alla metà degli italiani». Da qui inizia il mio soggior-no nel girone dei dannati fiscali. Scoprendo, dopo un andirivieni tra gli uffici di Equita-lia, un debito di 3 mila euro, per otto multe e una tassa sui rifiuti urbani. Cartelle esat-toriali errate, che avevo già impugnato. O mai notificate, se non con una cartolina imbucata nella cassetta delle lettere, che poi ti costringe a code chilometriche per ritira-re il plico in un ufficio postale. E se nel frattempo avessi posto in vendita la casa? Se avessi accettato una caparra di 50 mila euro? Il compratore, effettuate le visure catastali, avrebbe potuto rescindere il con-tratto, obbligandomi a restituirgli il doppio.

Io però, nella dIsgrazIa, ho ricevuto in sorte un paio di grazie: capisco qualcosa di diritto; ho un affaccio sui giornali. Ram-mento perciò che una legge del 2000 obbli-ga il fisco ad assicurare «l’effettiva cono-scenza» dei suoi atti. Scopro che l’esecuzio-ne immobiliare può attivarsi unicamente per importi superiori a 8 mila euro: Equi-talia non avrebbe mai potuto mettermi l’appartamento all’asta, sicché l’ipoteca non era che uno sfregio, tanto valeva ri-garmi l’auto con un chiodo. E soprattutto denuncio la vicenda sul “Sole 24 Ore”. Apriti cielo. Equitalia reagisce a brutto muso con un controarticolo del loro ad-detto stampa, reagisce inferocito pure il popolo dei vessati (c’è chi ha ricevuto un’ipoteca sull’immobile per multe sulla macchina che aveva ormai venduto), la questione rimbalza anche in tv, io ci vinco perfino un premio giornalistico. E qualche tempo dopo la Cassazione dà ragione alla mia tesi, mentre varie leggi mettono le ga-nasce alle ganasce fiscali.

Ma quante sono le ingiustizie che ci av-velenano la vita? Non le prepotenze di chi si crede il più dritto del Reame, come il

maleducato che ti scavalca nella fila. No: ingiustizie di Stato. E nemmeno le più gran-di, che arrivano a espropriare i tuoi stessi diritti sulla vita e sulla morte. Come la legge sulla procreazione assistita, che proibisce la fecondazione eterologa per garantire al nascituro il diritto di conoscere entrambi i genitori: sicché, per proteggere il bambino, gli impedisce di nascere. O come il reato che castiga chi aiuta l’amico che non ce la fa più, ma che non riesce a farla finita con le proprie mani, perché è ridotto a un vegetale come Welby; in Italia puoi ammazzarti solo se stai bene. Tuttavia sono le piccole ingiustizie, quelle che ti bucano la pelle come una goc-cia cinese. E se non sai difenderti dalle offe-se minori, preparati a riceverne di maggio-ri, diceva Confucio.

per esempIo: tu vivi con qualcuno per vent’anni. Senza sposarti, o perché la legge te l’impedisce se sei gay, o perché non hai voluto trasformare un sentimento in un rapporto burocratico. Poi tiri le cuoia, e a lei (a lui) non resta nulla, neppure la pen-sione. Invece se hai celebrato un matrimo-nio di due giorni, se al terzo giorno – come Cristo – sei salito in cielo, la vedova si becca una pensione di reversibilità. Esempio bis: le contravvenzioni. 160 euro per chi parla al cellulare mentre guida, senza distinguere se sei un cassintegrato o il presidente della Fiat; ma per il primo la multa si porta via un quinto del mensile, per il secondo un quinto della cena. Esempio tris: le tasse sulla casa, quelle che Letta ha messo in so-spensione. Ma il peso sospeso è uguale anche se hai un bel mutuo sul groppone, sicché la proprietà effettiva è della banca. Esempio quater: il furto del motorino. Non basta sporgere denuncia ai carabinieri, devi anche pagare un bollettino per la «perdita di possesso»: cornuto e mazziato.

Discriminazioni e vessazioni ci fanno venire il mal di fegato, ma interrogano al-tresì il nostro senso di giustizia, la nostra idea dell’eguaglianza. E allora ecco una cassetta della posta, raccontateci le piccole ingiustizie che subite. Mettete le vostre rabbie per iscritto, noi poi ci scriveremo sopra. Una parola per l’equità di Stato.

[email protected]

Vessati d’Italia unitevi. E ribellatevi

Dalle ipoteche di Equitalia ai diritti negati alle coppie

di fatto; dalla contravvenzione

uguale per tutti al bollettino per la

perdita di possesso del motorino rubato.

Mille ingiustizie ci avvelenano la vita.

Eccone un ricco campionario

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Michele Ainis Legge e libertà

6 giugno 2013 | | 13

Romanista o laziale? Non è questione di logica, ma di “fe-de”, una fede che trova le ra-dici nella prima maglia indos-sata, nel campione che ha ac-

ceso la nostra fantasia di bimbi, negli amici del patronato. Questa fede ci porta a giudi-care in modo diverso episodi simili. Lo sputo di Francesco Totti a un giocatore danese o il saluto fascista di Paolo Di Canio diventano gesti irresponsabili o innocue “ragazzate” a secondo della nostra “fede”. Questo tifo è l’opposto dello spirito sporti-vo di de Coubertin, ma viene incoraggiato dalle squadre e dai giornali, perché aiuta a vendere biglietti e copie.

PurtroPPo questo tifo da stadio si è esteso anche al dibattito di politica economi-ca. I responsabili non sono solo giornalisti e politici, ma nientepopodimeno che il premio Nobel per l’economia Paul Krugman. Quan-do scriveva nelle riviste accademiche era un economista sopraffino. Da editorialista del New York Times si è trasformato in un ultra manicheo. Per lui ci sono i buoni (coloro che vogliono aumentare la spesa pubblica sem-pre e comunque) e i cattivi (che vogliono ri-durla). Nessun colpo è troppo basso contro i cattivi. Le prime vittime sono stati gli eco-nomisti di Harvard, Reinhart e Rogoff. In uno dei loro articoli più famosi avevano so-stenuto che un elevato debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo riduceva la crescita economica, una tesi che trova d’accordo lo stesso Krugman. Ma la loro colpa è di aver individuato al 90 per cento il livello a cui questo effetto negativo diventa importante, un valore vicino a quello degli Stati Uniti in questo momento e quindi un risultato usato dai “nemici” per limitare la spesa pubblica americana. Da analisi succes-sive è emerso che questa soglia non era poi così chiara e che dipendeva in parte da un imbarazzante errore in excel, errore che è stato individuato perché gli autori stessi avevano consegnato dati e programmi ad altri ricercatori. Ma questo a Krugman non è bastato: li ha accusati di disonestà intellet-tuale e quando, prove alla mano, hanno di-mostrato di aver distribuito i loro dati ben tre anni fa non si è neppure scusato.

Le vittime successive sono stati Alber-to Alesina e Silvia Ardagna, sopranno-minati, in sprezzo al genere, “Bocconi boys”. La loro “colpa” è quella di aver sostenuto che un taglio della spesa pub-blica può avere effetti espansivi, una possibilità già dimostrata 23 anni fa da Francesco Giavazzi e Marco Pagano. Non c’è alcun imbarazzante errore nella loro analisi, ma il loro risultato è sensi-bile alla definizione di politica di auste-rità. E questo basta a Krugman per di-leggiarli, ignorando che il loro risultato principale - che un taglio di spesa pub-blica sia meno recessivo di un aumento delle imposte - è stato confermato.

Purtroppo questa discussione di politi-ca economica “da stadio” oscura un ampio consenso tra gli economisti su cosa si debba fare. In genere un taglio della spesa pubblica ha, nel breve perio-do, un effetto recessivo. Se licenziamo 5 mila guardie forestali siciliane il Pil nazio-nale si riduce di 72 milioni all’anno (i servizi della pubblica amministrazione entrano nel Pil al loro costo, anche se il vero valore prodotto fosse - come proba-bile in questo caso - zero). Questi 72 mi-lioni non spariscono: si traducono in meno imposte o in minor debito. I contri-buenti (che pagano meno imposte) o i creditori (che si trovano con più soldi li-quidi) aumenteranno la domanda e a ruota il Pil. Il processo però non è imme-diato e quindi nel brevissimo periodo ci sarà una riduzione di Pil e maggiore di-soccupazione. Per questo gli economisti preferiscono ridurre il deficit in una fase espansiva dell’economia.

Però, quando un Paese, come l’Italia, dipende dal credito estero per finanziare il proprio debito, una crisi di fiducia, come quella sperimentata nell’estate 2011, può essere devastante. In quel caso, non si può aspettare a ridurre il deficit. Per attenuarne gli effetti recessivi, tale riduzione dovrebbe avvenire principalmente attraverso tagli di spesa invece che aumenti di imposte. Pur-troppo su questo fronte hanno fallito tutti i governi italiani, compreso quello guidato dal vero Bocconi boy, Mario Monti.

Krugman fa comei tifosi di Totti

Il famoso sputo al calciatore danese fu giudicato un gesto

irresponsabile o una ragazzata a seconda

della “fede” da stadio. Con lo stesso tifo il premio Nobel

attacca oggi chi sostiene che in

Italia, per crescere, bisogna tagliare la

spesa pubblica

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Luigi Zingales Libero mercato

a cura di Gianluca Di Feo / Primo Di Nicola

Riservato

6 giugno 2013 | | 15

Soru contro Soru. Il patron di Tiscali, nonché azionista, prima unico oggi di minoranza, de “l’Unità”, ha da poco annunciato il progetto di una piattaforma informatica che metterà in collegamento vertici e base del Pd. L’annuncio in pompa magna è stato fatto un paio di settimane fa a Milano, assieme a Stefano Boeri, ex assessore della giunta Pisapia e in precedenza candidato Pd (sconfitto) alle primarie per Palazzo Marino. Iniziativa due volte interessante. Negli stessi giorni, infatti, “l’Unità” ha varato un progetto molto simile, ideato già da oltre un anno, e condiviso dallo stesso Pd. Insomma, l’imprenditore Soru e il politico Boeri si fanno concorrenza, l’uno a se stesso, tutti e due al loro partito, il Pd. E forse in questa storia pesa più la politica che l’impresa. Prova ne sia il movimentismo dell’inventore di Tiscali sui giornali e all’assemblea del suo partito. R.A.

“007 Missione ordine pubblico e sicurezza”. Non è il titolo dell’ennesima puntata della saga di James Bond, ma più semplicemente il codice con cui la Ragioneria dello Stato ha deciso di iscrivere in bilancio le somme per pagare le spese delle strutture italiane di intelligence civile. Tra tante denominazioni che si sarebbero potute scegliere, sembra proprio che qualche funzionario della Ragioneria si sia divertito a evocare la saga di Ian Fleming. Spulciando tra le carte del ministero dell’Economia – il dicastero che provvede a erogare le somme ai nostri servizi segreti – si scopre che nonostante la spending review, il budget per l’intelligence non verrà intaccato. Anzi, per la voce “sicurezza democratica” si passa dai 585 milioni di euro del 2012 ai 600 per l’anno in corso, per arrivare sino a 615 milioni nella previsione per il 2015. Si torna così ai livelli di spesa previsti prima della crisi finanziaria, quando il Tesoro, alla fine del 2011, tentò invano di portare i nostri servizi segreti sopra quota 640 milioni. P.M.

Che fine ha fatto la rivista Gnosis? Il super periodico della nostra intelligence civile dovrebbe essere pubblicato trimestralmente. Giunti quasi a metà dell’anno, ci dovrebbe essere un numero già in distribuzione e un secondo in procinto di stampa. Invece, niente. Sino a questo momento non c’è traccia nemmeno del primo numero. A quanto pare, il ministero dell’Interno non avrebbe ancora apposto il “visto si stampi” sulla prima edizione 2013. Probabilmente è tutto da rifare, un po’ per i nuovi assetti del governo, un po’ per le fibrillazioni interne alla testata dei servizi segreti. Il volume Gnosis, una volta edito dal Poligrafico-Zecca dello Stato, viene pubblicato dalla casa editrice romana De Luca. Il direttore responsabile è ancora oggi l’ex prefetto Francesco La Motta, già vice direttore dei servizi segreti civili, in pensione da metà marzo. Che, in questi giorni, non ha molto tempo da dedicare a Gnosis: è accusato di peculato e corruzione per la gestione del fondo per gli edifici di culto, da lui diretto fino al 2006. P. M.

Servizi segreti/1007, licenza di aumentare

Servizi segreti/2 Rivista sotto copertura

Trasloco nello scorso weekend per due For-migoni. Definitivamente lasciano gli uffici del commissario straordinario di Expo 2015 al 30° piano del Pirellone. Il primo ogni tanto si faceva ancora vedere. Il secondo, una gigantografia in rapporto 1:1, aveva preferi-to aspettare lì immobile. Da quando il neo-governatore Maroni aveva scelto di chiude-re col passato, i due Formigoni hanno resi-stito il più possibile prima di lasciare i lus-suosi uffici raggiungibili con l’ascensore presidenziale a prova di pass. Ma con la nomina a presidente della Commissione Agricoltura a Roma si sono finalmente de-cisi. Via allora gli arredi personali, tra cui un curioso letto a scomparsa e, soprattutto, la sua sagoma che sorridente accoglieva gli ospiti del Celeste negli appartamenti a lui riservati. La stessa con cui Angelino Alfano, ospite dell’ultimo Meeting di Rimini, si era rifiutato di posare per una fotografia. «Eh no, Roberto. La foto con la tua gigantografia non la faccio». M.Br.

Traslochi

Addio al Formigoni bis

LA GIGAntoGrAFIA DI roberto ForMIGonI neL Suo uFFICIo DI PreSIDente DeLL’exPo

EDITORIA E POLITICA

SORU NON LASCIA E RADDOPPIA

più soldi ai servizi | benefit leghisti | romeo arruola bocchino | polizza di casta | renzi da vinci

16 | | 6 giugno 2013

Riservato

Un prestigioso Skybox per vedere le partite del Milan a San Siro. E una fiammante Audi A6 a carico dell’azien-da, con apposito lasciapassare per usar-la di domenica e permettere a un fami-liare di guidarla. Nella battaglia di po-tere al vertice della Milano-Serravalle saltano fuori i benefit pazzi concessi ad alcuni amministratori. Nel mirino del numero uno Marzio Agnoloni, area Pdl, è finito un leghista doc come il vi-cepresidente Paolo Besozzi. Tutto nasce

da quei benefit che il precedente cda aveva concesso a Besozzi e altri. Il palco per vedere in santa pace la squadra rossonera, costo 28 mila euro per il cam-pionato 2011-2012, doveva servire per tenere i rapporti istituzionali con banchieri e fornitori, ma alle partite ci sono andati soprattutto Besozzi e l’ex ad Federico Giordano, accompagnati da parenti e amici. E l’uso dell’auto blu, nonostante tutte le autorizzazioni del caso, secondo un parere legale chiesto da Agnoloni potrebbe addirittura far temere un procedimento penale. GL. R.

Leghisti / 1 AUTOSTRADA DI SPRECHI

La Lega parla sempre meno piemontese. Nel corso dell’ultimo consiglio federale, non è arrivata la nomina a vice di Maroni per il presidente della Regione Piemonte Roberto Cota. Carica andata ai leader leghisti della Lombardia, Matteo Salvini, e del Veneto, Flavio Tosi. Cota all’asciutto, con una magra consolazione, l’ingresso nel “comitato esecutivo”. All’orizzonte del politico novarese si delinea un altro avvicendamento, quello alla segreteria nazionale della Lega Nord Piemonte. In pole position per la successione l’ex senatore Enrico Montani e la presidente della Provincia di Cuneo, Gianna Gancia, compagna di Roberto Calderoli. F.L.

Leghisti / 2COTA ALL’ASCIUTTO

Banana Republic Guido QuarantaChe Casini le elezioniQualcuno lo ricorderà quando, sui manifesti elettorali di alcuni anni fa, portava sulle spalle il figlio più piccolo e, sorridendo, invitava gli italiani a votare per l’Udc di cui era leader. Bei tempi. Bei tempi anche quando, come Irene Pivetti, è stato uno dei più giovani presidenti della Camera dei deputati. Da allora, sino a tre mesi fa, è comparso in tv quasi come Max Giusti, il conduttore preserale dei “Fatti vostri”: è stato l’ospite ricercato dai telegiornali e dai talk show. Non so quante interviste abbia concesso ai giornali e quante volte, da semplice deputato, si sia alzato a Montecitorio per pronunciare un discorso. Era, insomma, un personaggio politico autorevole e

onnipresente. Ma come disse, sconsolato, il comico Ettore Petrolini: «A me m’ha rovinato la guera», il neosenatore bolognese Pier Ferdinando Casini, anche lui, può commentare «A me m’hanno rovinato le elezioni di febbraio»: infatti, di colpo, ha perso voti, seguaci, potere, carisma, apparizioni televisive e dichiarazioni ai

giornali. Di recente è stato eletto presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, ma la notizia è passata inosservata: è un incarico che, fuori del Palazzo, nessuno sa cosa sia. D’improvviso, a 58 anni, nove volte parlamentare, il neosenatore Casini sembra destinato al prepensionamento. È la politica, bellezza.

Quale migliore scenario delle tele di Pietro da Cortona per celebrare i propri fasti? Questo deve aver pensato il sovrintendente di Roma e conduttore radiofonico Umberto Broccoli, che ha chiamato a raccolta il personale degli uffici ai Musei capitolini. Un appuntamento per fare il bilancio dei cinque anni di lavoro ma non privo di qualche momento di tensione verbale, come il salire dei toni quando alcuni funzionari hanno mugugnato davanti ai picchi del monologo autocelebrativo. Il tutto mentre i turisti gironzolavano per la sala per ammirare le opere del pittore barocco. Broccoli fu nominato da Gianni Alemanno dopo il suo insediamento grazie anche all’amicizia con la moglie Isabella Rauti. Adesso, a prescindere dalle sorti elettorali del suo protettore, si dice certo della riconferma sulla base di “rassicurazioni” che avrebbe ricevuto dal centrosinistra. P. Fa.

Broccoli di stelle

PIER FERDINANDo CASINI. IN ALTo: Lo STADIo DI SAN SIRo Foto

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PaRLamentaRi assenze (in %)1 Antonio ANGELUCCI (Pdl) 98,282 Piero LONGO (Pdl) 98,283 Giacomo PORTAS (Pd) 98,284 Giovanni FAVA (Lega) 96,655 Stefano QUINTANELLI (Sc) 96,656 Silvio BERLUSCONI (Pdl) 94,127 Niccolò GHEDINI (Pdl) 94,128 Mario MONTI (Sc) 94,129 Mariarosaria ROSSI (Pdl) 94,1210 Denis VERDINI (Pdl) 94,1211 Antonio BOCCUZZI (Pd) 93,1012 Umberto BOSSI (Lega) 93,1013 Giuseppe CASTIGLIONE (Pdl) 93,1014 Marco FEDI (Pd) 93,1015 Vincenzo GAROFALO (Pdl) 93,1016 Giovanni MONCHIERO (Sc) 93,10

I dati si riferiscono alle votazioni elettroniche valide svolte in aula dall’inizio della Legislatura. È dunque considerato assente il parlamentare che non partecipa al voto e che non risulta avere impedimenti per cause istituzionali (in missione).

A tre mesi dalle elezioni politiche ben 16 fra deputati e senatori hanno maturato oltre il 90 per cento di assenze in Parlamento.

qualCuno ha visto mario monti?

zerosono i gruppi parlamentari che hanno finora adempiuto ai nuovi obblighi di trasparenza previsti a partire da questa legislatura. Sui siti istituzionali di Camera e Senato, infatti, ogni gruppo parlamentare dovrebbe gestire una propria sezione in cui rendicontare il processo decisionale, la vita politica interna e come vengono spesi i finanziamenti pubblici ricevuti. a cura dell’associazione Openpolis

Parlamento in Cifre

18 | | 6 giugno 2013

Tra gli ex parlamentari “lobbisti” di fresca investitura uno dei più attivi è Italo Bocchino, chiamato a ricoprire il ruolo di responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Romeo, che fa capo all’omonimo imprenditore napoletano recentemente condannato in appello a tre anni per corruzione per aver pilotato appalti a Napoli e Casoria. Ma Bocchino (indagato e poi scagionato proprio nel processo che ha coinvolto Romeo) è solo un tassello della macchina di relazioni che l’imprenditore ha attivato da tempo, soprattutto con le amministrazioni locali, con un’attenzione particolare a Matteo Renzi, da lui finanziato con 60 mila euro alle scorse primarie tramite la Isvafilm del suo gruppo. Successivamente Romeo aveva vinto l’appalto per affiancare l’Anci nella riscossione dei tributi locali quando l’associazione dei sindaci era presieduta dall’attuale ministro per gli Affari Regionali, Graziano Delrio, di strettissima fede renziana. Ma Romeo si avvale anche del supporto del lobbista dalemiano Claudio Velardi, fondatore e capo della società “Reti”, il cui amministratore delegato, Antonio Napoli, ha una partecipazione attraverso una sua azienda proprio nella Isvafim Spa di Romeo. Una “rete” bipartisan che porta a Milano (dove recentemente Romeo ha vinto un superappalto per gli scali di Linate e Malpensa) visto che la giornalista della scuderia di Velardi, Gaia Carretta, oggi all’ufficio stampa di Atm, prima di diventare portavoce dell’ex presidente della Lombardia Roberto Formigoni aveva affiancato proprio Alfredo Romeo come portavoce del gruppo. V.D.

Lobby napoletaneRomeo arruola Bocchino

Marco DamilanoTop eFLop

La Provincia di Napoli sfratta per morosità El Tower spa, società del gruppo Mediaset, che gestisce reti e infrastrutture per la trasmissione dei segnali radiotelevisivi e di telecomunicazione. L’azienda ha in affitto 1.250 metri quadrati di suolo sul Monte Faito, proprietà per metà della Provincia e per metà della Regione Campania, ed è in debito, scrive l’ufficio legale dell’ente locale, di 43.428 euro, dei quali 28.860 relativi al 2012 e 14.568 per il primo trimestre del 2013. Lo scorso 11 marzo è partito un avviso di mora, che aveva concesso a El Tower 20 giorni di tempo per saldare i conti. Sono trascorsi invano, lamentano gli avvocati della Provincia. È in corso, dunque, la procedura di sfratto. Epilogo bizzarro per una società che, si apprende dal sito internet del gruppo Mediaset, «rappresenta oggi il principale operatore nazionale nel settore delle  infrastrutture delle reti di comunicazione elettronica». Fa.Ge.

Morosi eccellentiCome ti sfratto Mediaset

Considerava certa la nomina a coordinatore lombardo del Pdl. E ne andava fiero. Silvio Berlusconi lo aveva rassicurato: «Quel posto sarà tuo». Paolo Romani, che l’incarico lo aveva già ricoperto dal 1999 al 2004, non ha fatto i conti però con Mario Mantovani, attuale coordinatore regionale e vicepresidente in Regione Lombardia. Così il Cavaliere è ritornato sui suoi passi e ha riconfermato Mantovani. Smacco non da poco per Romani che poteva contare su un’amicizia di lunga data con Paolo Berlusconi. Ma anche il Carroccio non avrebbe gradito un cambio della guardia al vertice del Pdl per evitare, soprattutto, contraccolpi e conflittualità visto l’incarico di Mantovani in Regione. Per Romani dunque si potrebbe aprire la strada a una nomina di prestigio, a mò di consolazione, in qualche ente lombardo come ad esempio la presidenza di Fondazione Fiera Milano o l’incarico ben retribuito di amministratore delegato di Fiera Congressi appena lasciato da Maurizio Lupi. M.Br.

aLFREdo RoMEo

TOP ANGELO BAGNASCOIl quotidiano della Cei “Avvenire” ignora (o quasi) la morte di don Gallo, il presiden-te della Cei, al contrario, celebra i funerali del prete di strada, accetta le contestazioni, distribuisce l’eucarestia a Vladimir Luxu-ria. Da severo inquisitore a pastore di una Chiesa che accoglie tutti. Una messa vale mille Family Day.

fLOP pAOLO SORRENTINO Feroci polemiche con i critici sulla man-cata vittoria a Cannes («Forse in Italia non sapete leggere le cose», reagisce il regista, italianissimo), regine delle feste inviperite (erano state riprese in una sce-na e poi tagliate nel montaggio), compar-se scomparse, terrazze spaccate... Il Gran-de Nulla, altro che la grande bellezza, perché, si conclude nell’ultima scena, «alla fine c’è la morte», oh che scoper-ta definitiva, «ma prima c’è stata la vita, e in mezzo il bla bla bla»: come nel film di Sorrentino.

TOP ILARIA BORLETTI BUITONIL’ex presidente del Fai, sottosegretaria alla Cultura in quota Monti, è in testa ai finanziatori privati di Scelta Civica, un assegno da 710 mila euro. Passi per i 700 mila, sorvo-liamo sulle accuse di aver comprato la poltrona, resta la curiosità. Ma quei 10mila euro in più a cosa servono: una mancia?

fLOP ENRICO BONDIAnno orribile per il manager che risanò la Parmalat. Si dimette da commissario di governo sulla spending re-view per selezionare i candi-dati della lista Monti: con quali risultati si è visto. Vie-ne nominato Ad dell’Ilva, dopo due mesi molla, ingan-nato dai Riva. Sforbiciato!

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Guerre berlusconianeNiente Romani in Lombardia

6 giugno 2013 | | 19

Renzi / 1ipoteca paRRiniDi sé ha detto che non è tagliato per fare il segretario del Pd, ma il controllo del partito sta molto a cuore a Matteo Renzi. Che a sorpresa ha deciso di lanciare il suo candidato a segretario del Pd più forte della penisola, quello toscano. Si tratta di Dario Parrini, 39 anni, ex sindaco di Vinci, il paese di Leonardo, candidato renziano alla successione del dalemiano Andrea Manciulli. Famiglia comunista, tra Napolitano e Morando, la scintilla che ha attratto Parrini e Renzi è la celebre frase di Leonardo: «Triste quel discepolo che non supera il maestro». Una frase che simboleggia la rottamazione renziana. Ora la parola spetta alle primarie del Pd, ma Renzi ha già messo la sua ipoteca con Parrini. Nella regione più rossa d’Italia, finora feudo dei dalemiani. m.la.

Renzi / 2Matteo extRalussoÈ il vertice più importante sul mondo del lusso a 360 gradi: l’Ft Business of luxury Summit organizzato dal “Financial Times” nella suggestiva cornice del Palais liechtenstein di Vienna, dal 2 al 4 giugno, ha incluso tra i suoi relatori anche il sindaco di Firenze, matteo Renzi. Con un occhio alla recessione globale e l’altro ai big del lusso, Renzi sarà l’unico politico italiano presente alle tavole rotonde che avranno come protagonisti, tra gli altri, Alexis Babeau, amministratore delegato Kering e braccio destro di François Pinault; Claus Dietrich lahrs, ceo Hugo Boss; Christophe Navarre, ad moet Hennessy; markus langes Swarovski, membro del consiglio esecutivo dell’omonimo gruppo austriaco. A. mat.

Alfredo lascia Silvio. Dopo vent’anni dedicati a Berlusconi, Alfredo Pizzotti non lavorerà più a Palazzo Grazioli, dove ha assistito il Cavaliere come maggiordomo. Nato a marino, ha servito l’ex premier e i suoi ospiti: ministri, capi di Stato, showgirl. Venne anche inserito da Niccolò Ghedini tra i 28 testimoni delle indagini su Ruby con la scorta e il medico curante del Cavaliere. ma ora “la mummia”, come lo chiamavano le ragazze delle “cene eleganti” di Silvio, ha deciso di andarsene. Tra le ragioni, il rapporto con mariarosaria Rossi, la senatrice che ha preso in mano la gestione di palazzo Grazioli. B.C.

Silvio perde la Mummia

E alla fine della Rivoluzione civile Luigi De Magistris venne a più miti consigli. Il sindaco di Napoli, tra l’incudine della sconfitta elettorale con Antonio Ingroia e il martello di 1,7 miliardi di debiti del Comune con i fornitori, è sceso a patti con i partiti e la società civile locale. A farne le spese sono stati cinque assessori della sua giunta. Fra questi, Marco Esposito (Welfare), sostituito da Roberta Gaeta, ex compagna di liceo di De Magistris, e Anna Donati (Mobilità), che ha lasciato le sue deleghe al sindaco restando come

consulente a titolo gratuito. Fra gli entranti ci sono l’ex sindaco Ds di Ercolano, Nino Daniele, e due consiglieri comunali: Francesco Moxedano, ex Idv, e Sandro Fucito (Federazione della sinistra). In totale, gli assessori sostituiti in due anni sono nove con epurati illustri come l’ex pm Giuseppe Narducci e l’ex delegato al Bilancio, Riccardo Realfonzo. Chissà se basterà a placare la vis polemica dell’ex sindaco Antonio Bassolino e a salvare la contestata amministrazione “arancione” da uno scioglimento anticipato. G.Tur.

tregua De Magistris-partitiRiMpasto napoletano

A proposito dei vizietti della Casta, ne spuntano sempre di nuovi. L’ultimo è quello scoperto dai parlamentari del Movimento 5 Stelle della Camera. Si tratta della polizza sulla vita stipulata con una convenzione dai vertici di Mon-tecitorio con Ina Assitalia e Fondiaria Sai e che, in caso di morte dei deputati in carica, paga agli eredi cifre che vanno dai 258 mila euro previsti per gli eletti con oltre 66 anni di età fino agli oltre 516 mila euro per i più giovani con età infe-riore ai 40 anni. Costo complessivo per la Camera, circa un milione di euro. «È un privilegio intollerabile, un servizio

non necessario che va assolutamente cancellato», denuncia il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio che, insie-me ad altri due colleghi del M5S, i segre-tari d’aula Riccardo Fraccaro e Claudia Mannino, ha chiesto con una lettera alla presidente Laura Boldrini di mettere la questione all’ordine del giorno del pros-simo ufficio di presidenza. Per la preci-sione, risultano assicurati 630 deputati, 496 uomini e 134 donne. Le polizze dei primi costano 747.545 euro, quelle del-le seconde 72.467 euro. P.D.N.

privilegi di Montecitorio

oFFensiVa a 5 stelle

LUIGI DI MAIO, VICEPRESIDENTE DELLA CAMERA

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20 | | 6 giugno 2013

Palermo

ora orlando parla siciliano

ChiamParino fuori ruolo

Sarà forse per non far perdere ai palermitani la conoscenza del dialetto siciliano che Leoluca Orlando ha nominato al Comune di Palermo un esperto «della lingua siciliana e dei suoi dialetti». Malgrado sia a titolo gratuito e senza alcun rimborso delle spese sostenute, l’incarico conferito dall’amministrazione comunale di Palermo a un professionista che dovrà offrire la propria consulenza «per eventi, manifestazioni e iniziative del settore servizi educativi del Comune e a supporto delle scuole partecipanti», non ha mancato di suscitare perplessità nella città, stretta nella morsa dei precari. A. Be.

Sergio Chiamparino sta pensando se tornare in politica, candidandosi alla segreteria del Pd. Intanto, da presidente della Compagnia di San Paolo, inizia a perdere pezzi. A meno di un mese dall’elezione nel consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giuseppe Berta, già collaboratore dell’ex sindaco di Torino, ha infatti rassegnato le dimissioni. «Motivi personali», la versione ufficiale. Secondo qualcuno, invece, a pesare sulla decisione sarebbe stato il curriculum di Berta, laureato in lettere, storico e oggi docente associato del dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico in Bocconi. «La vera ragione non è stata dichiarata», conferma un membro dell’organo presieduto da Giovanni Bazoli, «certo il suo profilo, per quanto di alto livello, non è vicinissimo a quel tipo di ruolo». F.L.

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riservato

La novità è che ci pensa il Pdl. È Maurizio Gasparri, noto picchiatore verbale, a fare la respirazione bocca a bocca al paziente Pd con grave sindrome autolesionista. È la piromane da talk show Daniela Santanchè a guidare l’ambulanza per il Pd che si è fatto harahiri. Meno male che c’è il Pdl. Per cosa? Per fare da angelo custode, da guardia del corpo, da casco blu al Pd al governo. Il diavolo questa volta sembra che abbia fatto pure i coperchi.CAro Pd. Nel mondo alla rovescia della politica italiana, una sorpresa infinita, a difendere il partito democratico soprattutto da se stesso, è il partito nemico che fu. È chiaro che da vicini di governo c’è da fare buon viso anche a cattivo gioco, la pelle è pelle e va salvata. Però che affetto, che fior di attenzioni, magari avercele all’interno del centrosinistra. Invece. Chi avrebbe mai previsto che il Pdl si sarebbe fatto carico perfino di temi cari al Pd?CI PenSA BondI. Per esempio, il pio Sandro Bondi. Uno con l’alabarda in tasca pronto per crociate vaticane, battaglie da baciapile: una certezza medievale, non si tocchi la famiglia, che eresia. Dopo un periodo di ritiro, è arrivato vestito di nuovo. Battagliero, ma non per i diritti civili del suo Cavaliere. No. Per il matrimonio tra omosessuali, pure applaudito da Maurizio Belpietro. «Non è uno scandalo anche per un credente come me ritenere coraggioso e giusto quel traguardo finale per l’Italia» ha zufolato il neo-Bondi a “Repubblica”, l’ex uomo sandwich del Family day, mica Nichi il rosso.GrAzIe deBorA. «In questa fase abbiamo anche messo da parte la giustizia, come ha detto Berlusconi. Di più non ci si può chiedere». In effetti. Così la mattina del lunedì delle amministrative, a urne ancora aperte, il neo-compagno Gasparri si genufletteva per rassicurare il Pd che perfino in caso di sconfitta il Pdl non avrebbe affatto affondato il coltello.

Ha sbagliato di grosso la previsione, vista la vittoria capillare del centrosinistra. E qualcun altro ha fatto il lavoro sporco che Maurizio Gasparri si è rifiutato di fare. Ci ha pensato Debora Serracchiani ad affondare il coltello, ma sull’esito favorevole naturalmente: «Abbiamo vinto nonostante il Pd». CroCe roSSA dAnIeLA. Non è stata Debora a giustificare Dario Franceschini, ministro per i Rapporti con il Parlamento, preso in flagrante segnalazione elettorale per far votare la sua compagna al Comune di Roma. L’imbarazzante sms è stato pubblicato da Beppe Grillo sul suo blog. Bene. Ma a spezzare più di una lancia è stata la Croce rossa Pdl Daniela Santanchè che ha mitragliato: «Sono basìta, indignata. Che Franceschini debba essere additato alla pubblica gogna per avere fatto ciò che qualsiasi uomo che ama veramente dovrebbe fare nei confronti della sua donna è qualcosa che fa venire il voltastomaco. Io sto con Franceschini. È un uomo che sa amare». ASPeTTAndo GhedInI. Altro che Domenico Scilipoti o Antonio Razzi. Ecco i nuovi Responsabili del governo di Enrico Letta. Manca solo che Niccolò Ghedini o Denis Verdini sostengano la legge sul conflitto d’interessi. Forse se ci pensassero loro, il Pd ce la potrebbe finalmente fare.

Denise Pardo PantheonChe democratici Gasparri e Santanchè

DANIELA SANtANCHÈ. A SINIStRA: IL SINDACO DI PALERMO LEOLUCA ORLANDO

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6 giugno 2013 | | 23

L’11 aprile Ignazio La Russa, che ogni tanto confessa, disse con l’aria di scherzare: «Il prossimo capo dello Stato sa-rà una donna: si chiama Salva

di nome e Condotto di cognome». Pensa-va alla ministra della Giustizia uscente Severino, che già aveva ben meritato agli occhi di Berlusconi tagliando pene e pre-scrizione della concussione e dicendosi favorevole all’amnistia. Poi invece restò Napolitano che il 7 febbraio disse: «Se mi fosse toccato mettere una firma sull’amni-stia, l’avrei fatto non una, ma dieci volte».

Comunque la battutaccia di La Russa piacque molto al Cavaliere, che promos-se l’amico ‘Gnazio a presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, ora chiamata a decidere su cinque suoi processi per diffamazione e cause per danni. Ma nulla può contro l’eventuale condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale nel processo Mediaset, con automatica interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. Nel qual caso il con-dannato dovrebbe lasciare il Parlamento entro un anno, rinunciare a candidarsi alle prossime elezioni e trascorrere 12 mesi agli arresti domiciliari (gli altri tre anni sono condonati dall’indulto del 2006, che però salterebbe in caso di nuo-va condanna al processo Ruby).

EppurE dal pdl E dal pd si continua a ripetere che una condanna non avrebbe effetti sul governo. Assurdità allo stato puro, visto che difficilmente il centrode-stra terrebbe ferme le mani mentre il suo leader viene defenestrato dal Senato e accompagnato dai carabinieri a scontare la pena a domicilio. Ma, se tutti ostentano sicurezza, significa che nei protocolli se-greti dell’inciucio sul governo Letta è previsto un salvacondotto. Già, ma qua-le? Si è parlato della nomina di Berlusco-ni, magari in tandem con Prodi, a senato-re a vita. Sarebbe uno scandalo: il laticla-vio è previsto dalla Costituzione per chi ha “illustrato la Patria per altissimi meri-ti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Ma soprattutto non sarebbe un salvacondotto: i senatori a vita, se

condannati, scontano le pene detentive e accessorie come i comuni mortali. I falchi del Pdl ogni tanto minacciano una norma che cancelli le pene accessorie, ma diffi-cilmente passerebbe: anche Pietro Maso, ora che ha scontato la pena, potrebbe candidarsi a un ufficio pubblico. E il Pd, votando una legge ad personam per il Caimano dopo averlo riportato al gover-no, perderebbe pure i pochi elettori rima-sti. Anche la grazia, nonostante la manica larga con cui Napolitano la elargisce, sarebbe improponibile: per la Consulta è un “provvedimento umanitario” per le-nire una pena detentiva oltremodo sof-ferta; e in base all’ex Cirielli il Cavaliere, avendo più di 70 anni, le galere non può vederle neppure in cartolina.

l’unico salvacondotto in grado di risparmiare a lui l’interdizione e al gover-no Letta la morte prematura è l’amnistia. Anche se nessuno ha il coraggio di nomi-narla, anzi proprio per questo. La guar-dasigilli Cancellieri insiste ogni due per tre sull’”emergenza carceri”. Specie dopo che l’ha citata un Berlusconi sull’orlo delle lacrime in un passaggio ignorato da tutti del comizio anti-pm a Brescia. Sic-come l’uomo non è un apostolo degli ultimi e dei diseredati, è probabile che l’improvvisa commozione non riguar-dasse tanto gli attuali detenuti, quanto quelli futuri. Soprattutto uno: lui. Del resto, nei dati sulla popolazione carcera-ria, non risulta mezzo evasore fiscale.

Dunque prepariamoci alle prossime mosse: qualche rivolta di detenuti nei mesi estivi; campagne “garantiste” contro il sovraffollamento sugli house organ di destra, seguiti a ruota dai finti ingenui di sinistra; i soliti moniti del Colle; le consue-te giaculatorie cardinalizie. Poi, come per l’indulto bipartisan del 2006, una bella amnistia urbi et orbi, estesa ai reati dei colletti bianchi e alle pene accessorie. Co-sì migliaia di detenuti usciranno per qual-che mese (poi le celle torneranno a riem-pirsi: i delinquenti sono tanti e, per chi non lo è, nessuno ha interesse a cambiare le leggi che producono troppi reclusi). E uno non uscirà dal Parlamento: lui.

Sotto sotto amnistia ci cova

Nessuno ha il coraggio di

evocarla. Ma è l’unica strada

percorribile per mettere Berlusconi al riparo da pene e

processi. E per salvare il governo Letta. Quindi ora

prepariamoci all’emergenza

carceri...

Se ne parla su www.espressonline.it

Marco Travaglio Carta canta

6 giugno 2013 | | 25

6 giugno 2013

a gela, in sicilia, potrebbe scoppiare

un caso simile a quello dell’ilva di

taranto. uno studio che l’espresso ha

ottenuto in esclusiva (servizio a pagina 48)

rivela decine di casi di tumori, malattie e

malformazioni tra chi vive o lavora nell’area del

petrolchimico. la magistratura sta

lavorando per scoprire se ci sia una

connessione tra l’inquinamento

causato dall’impianto e la salute dei

cittadini. per la copertina abbiamo

però scelto un argomento di

stringente attualità: la sicurezza nelle città (pag. 30). dove aumentano furti e

rapine. ma la polizia non ha mezzi e soldi

per contrastare la criminalità

L’altra copertina

Settimanale di politica cultura economia - www.espressonline.it N. 22 anno LIX 6 giugno 2013

cIttà INdIfeSepiù furti e rapine. ma la polizia non ha mezzi p. 30

e dopo taranto

GeLadyNaSty eSSeLuNgacaprotti junior lancia dure accuse al padre p. 104

poLItIca e poterelottizzazione tra i partiti delle larghe intese p. 40

uN Nuovo rapporto eScLuSIvo coNferma La preSeNza record

dI tumorI, maLformazIoNI e maLattIe NeLL’area deL

petroLchImIco. e La magIStratura SI muove

Se ne parla su www.espressonline.it Fo

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26 | | 6 giugno 2013

Questa settimana29 / non dite che va tutto bene di bruno Manfellotto

Primo Piano30 / città indifese Rapine, assalti alle case, furti e scippi. La crisi moltiplica i reati. Mentre le forze dell’ordine fanno i conti con i tagli di Gianluca di feo e Giovanni tizian

Intervista38 / la versione di otto Elogia la nostra economia. Critica i politici attaccati alla poltrona. Un ex ministro tedesco ci giudica colloquio con otto schily di enrico arosio

Attualità40 / le larGhe poltrone Un posto a me e uno a te. Dai ministeri a Finmeccanica, dai servizi segreti agli enti

pubblici. Così Pd e Pdl si dividono gli incarichi che contano di Marco damilano

42 / la lezione di roMa Il politologo commenta il voto colloquio con ilvo diamanti

47 / Grillo sbaGlia rete La politica non si può fare solo sul Web. Parla il capo di WikiLeaks. Neo-candidato di stefania Maurizi

48 / e dopo taranto, Gela Tumori. Malattie. Malformazioni. Provocati dall’inquinamento del petrolchimico siciliano. Ecco i numeri della strage di emiliano fittipaldi

52 / vediaMo se paGa le tasse Anni di favori e privatizzazioni a prezzo di saldo. E un tesoro offshore. Ma ora su Taranto e fisco resa dei conti con lo Stato di vittorio Malagutti

Sommarion. 22 - 6 giugno 2013

5 / per esempio di Altan7 / l’antitaliano di Roberto Saviano9/ satira preventiva di Michele Serra11 / legge e libertà di Michele Ainis13 / libero mercato di Luigi Zingales15 / riservato di G. Di Feo e P. Di Nicola18 / top e flop di Marco Damilano20 / pantheon di Denise Pardo23 / carta canta di Marco Travaglio75 / senza frontiere di Paul Salem154/ la bustina di Minerva di Umberto Eco

Rubriche68

30

48 78

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116 / eMerGenza pianeta Il clima impazzito. Le città coperte di rifiuti. La plastica nei mari. Dieci guasti da riparare di stefano vergine

120 / quelli che l’eco Centinaia di aziende scelgono di produrre in modo sostenibile. Perché conviene di fabio lepore

132 / ho una casa sull’acqua Edifici ecologici sui fiumi o sui laghi. Arriva anche in Italia l’abitare più green di francesca sironi

Speciale Green

54 / toti libera tutti Hanno ceduto uno dopo l’altro i gioielli di famiglia. Adesso è la volta di Gemina. I conti in rosso dei palazzinari romani di Gianfrancesco turano

Reportage58 / io penso diGitale La generazione Z, nata con smartphone e Internet, ha capacità di apprendimento inedite. E moltissimi problemi. Ecco quali di roselina salemi

Mondo68 / Grecia anno zero I numeri sono ancora da disastro post-bellico. Ma il peggio pare alle spalle. Atene vede la fine del tunnel. E torna la speranza di federica bianchi72 / nasce attica valley La crisi ha aguzzato l’ingegno. E nell’high-tech si contano decine di startup di federica bianchi

Cultura78 / in principio fu l’arte Un padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia. Dal titolo che richiama le prime parole della Bibbia. Parla il cardinale Ravasi di alessandra Mammì82 / un italiano a berlino L’architetto Stella, vicentino, ricostruirà il Castello, simbolo dell’identità tedesca. A modo suo. Ed è subito polemica di stefano vastano

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6 giugno 2013 | | 27

86 / Un paese di briganti Il cinismo. La mancanza di speranza. L’illegalità. L’Italia vista da una filosofa colloquio con roberta de Monticelli di enrico arosio

90 / poMpei È Un roManzo Un’archeologa ha ambientato un suo libro nella città distrutta dal Vesuvio. E l’Espresso ne anticipa le pagine di Marisa ranieri-panetta

Scienze94 / processo ai signori del farMaco Medicine innovative che non arrivano. Difficili rapporti coi medici. E sistema informatico in tilt. L’Aifa è in panne. Ecco come di antonino Michienzi e daniela Minerva

errata corrige L’intervista di Alessandra Mammì a Sabrina Ferilli (“l’Espresso” n. 21) per errore è stata firmata Stefania Rossini

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Abbonati e abbonamenti

* Il costo massimo della telefonata da rete fissa è di € 0,1426 al minuto + 6,19 cent di euro alla risposta (IVA inclusa)

L’ultima volta, appena qualche settimana fa a casa loro, con Dario Fo indaffarato tra cento carte e telefonate, Franca Rame mi prese sottobraccio, mi portò nel suo studio e, prima di tirare fuori i faldoni dei lavori di due vite che stava ordinando e pubblicando, mi disse: «Sai, è così agitato perché è spaventato. Non glielo dire, non gli far capire che lo sai, ma ha paura che io muoia». Lo disse ridendo maliziosa, come fanno le ragazze quando ti confidano un segreto buffo. Con quel sorriso, con quello sguardo sul mondo sempre di passione totale ma anche di ironia e leggerezza, la ragazza Franca Rame ci ha lasciato. roberto di caro

Franca Rame 1929-2013

Società126 / fortissiMaMente gatsby Ha incarnato gli anni Venti, ma è anche la più contemporanea delle figure letterarie di enrico arosio132 / french toUch Riflettori puntati sull’elettro-pop francese di stefania cubello133 / visioni plastiche Swatch celebra i suoi primi trent’anni di paolo de vecchi134 / l’app della verità Un codice svela se il capo è autentico o no di alessandro longo

Passioni136 / cinema137 / spettacoli138 / Musica139 / arte140 / libri143 / tecnoshop 144 / Moda146 / la tavola147 / viaggi148 / Motori150 / per posta, per email

copertina: Elaborazione fotografica di Daniele Zendroni. Foto di: A. Penso - OnOff Picure, Corbis (2), Shutterstock

che cosa ci dicono queste elezioniL’astensionismo altissimo, i successi del centrosinistra, le difficoltà del M5S: le opinioni, le interviste e le analisi sul voto. Con i contributi al dibattito dei lettori.sperry, la psichedelia formato poster In mostra per la prima volta in Italia le opere dello statunitense Chuck Sperry, che tra estetica hippy e Art Nouveau, rinverdisce i fasti della California anni Sessanta. Nella sezione Style&Design. l’alta cucina a fuoco vivo Nella gara Focus Homini si fronteggiano chef di prima grandezza per cotture a legna o a carbone. Con risultati sorprendenti. Nella sezione Food&Wine.

Questa settimana su www.espressonline.it

98 / Metti la pasta nella dieta Non è vero che ingrassa. E mantiene in salute. Basta scegliere quella giusta di nicola sorrentino

Tecnologia100 / cosa arriva dopo gli sMs I servizi gratuiti via Internet hanno ucciso il vecchio messaggino. E i gestori telefonici rispondono con prodotti nuovi più evoluti di alessandro longo

Economia104 / tUtto sU Mio padre Giuseppe Caprotti, figlio di Bernardo patron di Esselunga, parla per la prima volta. Della rottura familiare e del duello in corso di luca piana

110/ l’oleodotto della discordia Un nuovo progetto mette a repentaglio i profitti dei treni di Buffett. Che conta su Obama. E sugli ambientalisti di antonio carlucci

112 / sogna il sole Ma va a carbone Le scelte energetiche fatte dall’Europa sono sbagliate, disinformate e costose di leonardo Maugeri

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A llora, riassumendo: ha vinto il Pd e ha perso il Pdl; Beppe Grillo ormai c’era una volta e or non c’è più, e le larghe in-tese di Letta & Alfano stanno

meglio di prima, grazie, anzi godono di ottima salute. A guardare i risultati, sem-bra che sia andata proprio così. E però sarebbe troppo facile ridurre a slogan il senso del voto amministrativo di fine maggio, sette milioni di elettori da Vicenza a Barletta, e ancora molti Comuni in atte-sa di ballottaggio, da Roma a Siena a Im-peria. Perché le cose sono, come sempre, un po’ più complesse.

Cominciamo dal flop di Grillo. Prima, però, breve parentesi sulle gaffe con le quali il giovane avvocato Marcello De Vito, candidato a sindaco di Roma, e il guru del Vaffa-day suo mentore hanno celebrato la débâcle. L’uno ha dato tutta la colpa della sconfitta ai “media” (lui li chiama così, non giornali e tv) che gli avrebbero dedicato poco spazio: non male per un fedele seguace del Conduca-tor che disprezza i giornalisti, li evita co-me la peste e urla cinicamente nelle piaz-ze al solo scopo di costringere le tv a parlare ugualmente di lui. Grillo invece ha spiegato la batosta, due mesi dopo l’irresistibile ascesa alle Camere, pren-dendosela con gli elettori che hanno vo-tato Pd e Pdl. Parafrasando così il Berlu-sconi che definì coglione chi vota a sini-stra. Vale a dire: chi non è con me, è scemo. Niente male come parola d’ordine.

E invEcE gli ElEttori sono molto più accorti di quanto pensino Grillo e Berlu-sconi. Distinguono tra voto politico e amministrativo, escono dal rifugio dell’a-stensionismo per lanciare un segnale forte alla politica, pronti però a rientrarci se l’appello cade nel vuoto; capiscono che il governo del Paese e delle città è cosa com-plessa e faticosa, fatta di leggi e regolamen-ti, di uomini e di apparati, di consenso e di mediazione, e non solo di insulti, vaffa e tweet: in tre mesi di Parlamento, invece, qualcosa non ha funzionato nel program-ma dei grillini o nella loro comunicazione se tutto l’attivismo di deputati e senatori

si è ridotto ad accese discussioni su scon-trini, bollette e note spese.

Roma poi, tanto per citare l’appunta-mento più importante di questa tornata elettorale, è città cinica e disincantata, ha conosciuto bene dittatorelli e tribuni del popolo, e dunque se n’è sempre fidata poco, specie quando immancabilmente passavano dallo strapotere al delirio d’on-nipotenza. E poi questa è pur sempre la quinta di teatro che ha ispirato a Ennio Flaiano “Un marziano a Roma”, no?

ora pErò sarEbbE suicida scambiare una pesante défaillance per la fine di una stagione e pensare che ogni cosa possa ri-prendere da prima dello tsunami. Troppo facile. Perché se è vero che pur avendone l’occasione, e nonostante l’abbrivio delle politiche, la metà degli elettori ha deciso di restarsene a casa invece di incamminar-si verso il seggio e scegliere Grillo, è altret-tanto vero che alla prossima occasione potrebbe succedere il contrario e la rabbia indirizzarsi di nuovo verso il voto di pro-testa invece che verso il non voto.

Nonostante la prova muscolare e la conquista di città e province, infatti, e nonostante la fuga dal M5S, sia il Pdl perdente che il Pd vincitore devono fare i conti con un ulteriore, consistente calo di consensi. E rispetto al fresco voto di feb-braio, non solo rispetto a cinque anni fa. Chi ha mollato la ditta Grillo & Casaleg-gio, insomma, quali che siano le sue ragio-ni e le sue delusioni, non è certo tornato sotto l’ombrello dei vecchi partiti. Dunque non si può fare come se niente fosse acca-duto, e nemmeno scambiare il test di mag-gio per una benedizione popolare del go-verno delle larghe intese.

Mezza Italia non è andata a votare e solo poche settimane fa un quarto degli elettori si è affidato ai giovani a 5 Stelle. Ma una cosa sono i leader, che trionfano e ca-dono, altra le persone, gli elettori, i voti. Che bisogna andare a riconquistarsi, fa-cendo capire di aver imparato la lezione e di essere pronti ad ascoltare i lamenti del Paese per una politica nella quale tanti, troppi non si riconoscono più.

Ma ora non dite che tutto va bene

Dopo la rivincita dei partiti al voto di

maggio, sarebbe suicida pensare che tutto possa

ricominciare come prima. Perché i

leader e i tribuni passano, ma gli

elettori restano. E in tanti, troppi non si riconoscono più in una certa politica

Se ne parla su www.espressonline.it

Bruno Manfellotto Questa settimana

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Primo Piano emergenza sicurezza

città indifeseOmicidi. Ma soprattutto assalti alle case, furti e scippi. La crisi

economica moltiplica i reati. E aumenta la paura. Mentre le forze dell’ordine alle prese con tagli di personale e di fondi

non riescono a fronteggiare l’offensiva della nuova criminalitàDi gianluca Di feo e giovanni tizian

intervento Della polizia in una città Del norD per i controlli anticrimine

città indifese

32 | | 6 giugno 2013

Ogni giorno nella provin-cia di Milano ci sono 13 rapine e 441 furti: nel 2010, prima che la crisi economica esplodesse, le rapine erano meno di nove e i furti 391. Nume-

ri simili, che “l’Espresso” pubblica in esclu-siva, riguardano le altre metropoli: Roma, Napoli, Palermo e persino Bologna. Testi-moniano una nuova emergenza, avvertita più dai cittadini che dalle istituzioni: l’au-mento vertiginoso di reati predatòri, realiz-zati con violenza, come gli scippi o le rapine, oppure con la destrezza di chi sfila portafo-gli e penetra negli appartamenti. Governo e vertici delle forze dell’ordine tendono a minimizzare il problema, riconoscendolo solo nelle vicende clamorose. Le tre esecu-zioni in poche ore a Roma e nell’hinterland laziale di martedì scorso; l’attacco all’oro-logeria Franck Muller in via della Spiga, nel cuore del quadrilatero della Moda; la follia omicida di Mada Kabobo, ghanese senza dimora; il disoccupato calabrese che ha sparato ai carabinieri davanti a Palazzo Chigi. Dietro questi episodi da prima pagi-na c’è uno stillicidio di violenze, spesso minori ma che incidono pesantemente sulla vita quotidiana. E possono sfociare nel de-litto, come nel caso di Giovanni Veronesi, gioielliere ucciso durante una rapina a Brera a fine marzo: l’assassino incensurato aveva eseguito dei lavori nel negozio, ma da mesi era rimasto senza stipendio per man-tenere la famiglia. Circolano meno soldi anche ai piani bassi della malavita, con pusher pronti a impugnare il revolver per conquistare un’altra piazza. I baroni dell’u-sura si fanno più feroci per imporre i paga-menti. Mentre un prestito non restituito può innescare vendette spietate, come si sospet-ta sia accaduto per il fotoreporter ammaz-zato a marzo a Roma. La capitale e il suo hinterland ormai hanno segnato un record: il totale da gennaio 2010 a maggio 2013 è di 111 omicidi, ma solo sei sono riconduci-bili alla criminalità organizzata.

LA GRANDE RAZZIA. «Non abbiamo ancora analisi ufficiali, ma il legame con la crisi economica è evidente», commenta il procuratore di Milano Edmondo Bruti Li-berati: «Un segnale è il ritorno di reati che erano praticamente scomparsi, come i furti all’interno delle auto parcheggiate». Tutti gli indicatori disponibili mostrano il boom, con una crescita proseguita anche nei primi

tre mesi di quest’anno. L’ultimo quadro nazionale del Viminale risale al 2011: in tutta Italia 205 mila furti in appartamento, 150 mila tra scippi e borseggi, 40 mila rapi-ne. La relazione firmata a gennaio dal mini-stro uscente Anna Maria Cancellieri è lapi-daria: nel 2011 gli scippi sono aumentati del 24 per cento, le rapine del 20. Il rapporto tra recessione e ondata delinquenziale è evidenziato anche da un sondaggio realiz-zato a fine marzo da Censis e Confcommer-cio: oggi il 90 per cento degli imprenditori dichiara di non sentirsi sempre sicuro nella zona in cui opera. Ma è il confronto tra il 2010 e il 2012 a evidenziare l’allarme: nel comune di Milano ci sono stati 13 mila furti e 800 rapine in più; a Bologna 100 rapine e 7 mila furti in più. E non è un caso se l’exploit si registra soprattutto nei centri del Nord, dove è più facile trovare soldi: lì secondo il ministero avvengono il 52 per

cento dei furti. Se poi si scende nel dettaglio, si evidenzia il volto di questo nuovo crimine, che predilige le irruzioni in casa puntando le armi contro gli inquilini (raddoppiate nella provincia di Milano, di Roma e di Bologna) o i furti nelle abitazioni (7 mila in più nel Milanese, 2.400 in più nell’area della capitale e in quella di Bologna, rad-doppiati a Palermo). I tecnici li chiamano “reati predatòri”, anche perché spesso colpiscono i più deboli: donne e anziani, bersagli favoriti degli scippi. Mentre le banche non sono più un obiettivo: poco contante e molta protezione hanno fatto crollare i colpi. Ora nel mirino ci sono far-macie e tabaccherie, soprattutto quelle dove si può tentare la fortuna con i giochi.

POVERI E ITALIANI. Le cronache spesso riportano storie di criminali improvvisati, incensurati che dichiarano di essere spinti dalla fame. A Roma un disoccupato è stato arrestato per due razzie negli uffici postali: ha detto di avere perso il lavoro dopo 26 anni e di essere senza soldi per l’affitto. Una volta era un movente poco convincente, adesso non più: il 70 per cento degli imprenditori intervistati da Censis-Confcommercio crede che siano aumentati i furti «compiuti da persone

Primo Piano

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Problemi economici

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1.406 1.630650

1.179 1.01345534.02536.678

454 5.430

407 5.450

Primi tre mesi 2013

RAPINE FURTI

Primi tre mesi 2012

2012

TOTALE REATI

DENUNCIATI

2010

42.861 142 7.238

IN CASA IN STRADADI CUI DI CUI

2.050

1.460

1.591

1.669

2.846

2.420

292

216

174

101

178

136

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26

20

1.514 31.490 8.063

1.008 16.219 6.168

1.649 20.711 8.902

1.486 15.159 7.875

1.725 2.952 1.389

1.429 3.199 799

SCIPPI CON DESTREZZA IN CASA

335 6.441 2.099

186 3.708 1.12136.735 139 6.900

TOTALE

3.375

2.576

3.448

3.502

3.361

3.168

541

449

22.145

19.787

TOTALE

MILANO

101.036

88.612

131.202

118.068

31.341

28.183

27.309

20.244

ROMA

BOLOGNA

NAPOLI

PALERMO

Tutti i numeri dell’allarme

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Primo Piano

in evidenti difficoltà economiche». Gli stranieri, spesso evocati come responsabi-li del boom delinquenziale, risultano de-nunciati come autori solo di un terzo dei reati totali. Nel caso dei furti, la quota sale a metà. Si tratta soprattutto di romeni, ossia cittadini europei, e di clandestini: soltanto il 6 per cento degli immigrati re-golari extracomunitari viola la legge.

TAGLI E PAURA. A Milano per un’ora nessuno ha segnalato ai carabinieri il lungo raid assassino del ghanese con il piccone. Un silenzio inquietante, in cui si intrecciano paura e sfiducia. Tanti sono i reati che non vengono più denunciati, dai furti nelle auto alle biciclette sparite o persino i cellulari rubati. Identica la motivazione: «Sarebbe una perdita di tempo». I casi in cui la rispo-sta delle forze dell’ordine non appare all’al-tezza delle aspettative dei cittadini sono numerosi. E questo non per carenza di im-pegno. Ci sono problemi antichi: la man-canza di coordinamento, un approccio talvolta antiquato e forse pure un addestra-mento inadeguato. Certo è che le promesse sulla sicurezza sbandierate da tutti i politici in campagna elettorale non si sono tradotte finora né in riforme, né in risorse. Anzi, su questo fronte la spending review rischia di avere effetti devastanti. Il blocco all’arruo-lamento delle reclute di polizia e carabinie-ri fa salire l’età del personale, che quindi è

meno idoneo a rincorrere ladri o passare la notte per strada. «Abbiamo una delle poli-zie più vecchie d’Europa, con un’età media di 45 anni», ragiona Nicola Tanzi, segreta-rio generale del sindacato Sap. «Nella poli-zia l’ultimo concorso per agenti aperto ai civili risale al 1996. Ormai sono quasi tutti ex militari di professione. Questo vuol dire due cose: sempre meno donne, sono solo il 12 per cento, e personale che entra in servi-zio già “vecchio”», aggiunge Daniele Tisso-ne, segretario generale degli agenti Cgil. E c’è una carenza di incentivi: «Gli operatori fronteggiano ogni genere di problemi, no-nostante l’accumularsi di ritardi nel paga-mento delle ore prestate per turni di lavoro, spesso massacranti, in regime di straordina-rio, per le missioni e per servizi di ordine pubblico», denuncia Tissone.

Quando il New York Police Department illustra il segreto della “tolleranza zero” che ai tempi di Rudolph Giuliani ha abbattuto il senso di insicurezza della Grande Mela, fornisce solo due dati: prima, due terzi del

personale era in ufficio e il resto per strada; poi la proporzione è stata in-vertita. Ma gli uomini destinati a passare dalle scrivanie alla strada veni-vano addestrati e moti-vati, con premi e possibi-lità di carriera. «Invece l’attuale blocco delle re-tribuzioni ha fatto perde-re, in rapporto all’infla-zione, a ogni operatore circa 80 euro mensili», chiosa Tissone.

RANGHI RIDOTTI. Sen-za rimpiazzi, il buco ne-gli organici ha toccato il 10 per cento: a dicembre 2011 mancavano 27 mila uomini e donne in divisa, quanti basterebbero per presidiare un’intera regione. I numeri com-plessivi però non sono esigui. Nel Lazio si contano 30 mila poliziotti, carabinieri e fi-nanzieri; in Lombardia 26 mila; in Sicilia 25 mila; in Campania 22 mila. Bisogna poi aggiungere le polizie locali – che soprattut-to con Roberto Maroni all’Interno hanno ricevuto un’attenzione particolare – e i soldati dell’operazione “Strade sicure” (ve-di box a pagina 35). «È ora anche di smen-tire un luogo comune: in Italia ci sarebbero troppi poliziotti per numero di abitanti», contesta il segretario del Sap Tanzi: «Falso perché i soli due corpi a competenza gene-rale, polizia e carabinieri, hanno circa180 mila operatori, in linea con la media euro-pea. Finanza, polizia penitenziaria e foresta-le hanno invece competenze specifiche. Piuttosto, bisogna ridurre i corpi e su questo da tempo come sindacato ci battiamo: si produrrebbero risparmi per miliardi». Fa-cile obiettare che sovrapposizioni e duplica-zioni non mancano. Come nella lotta alle mafie, condotta dalla Dia e da reparti spe-ciali di carabinieri, polizia e Finanza. Stesso copione in altri settori, dall’antidroga al contrasto alle frodi, dai controlli sul lavoro nero e persino al traffico di beni archeolo-gici. O i commissariati e le stazioni dell’Ar-Fonte: Elaborazioni su dati Ministero dell’Interno

Rapine denunciate in Italia negli ultimi 5 anni(dati in migliaia con la variazione % rispettoall’anno precedente)

2008 2009 2010 2011 2007

+1,9%

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30

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Fonte: Elaborazioni su dati Ministero dell’Interno

Furti denunciati in Italia negli ultimi 5 anni(dati in migliaia con la variazione % rispettoall’anno precedente)

2008 2009 2010 2011 2007

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Il boom segue la crisi

Mancano 27 Mila uoMini delle forze dell’ordine. l’età Media è di 45 anni: «abbiaMo una delle

Polizie Più vecchie d’euroPa»

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ma che in alcune zone distano poche centi-naia di metri mentre sono assenti in molte periferie. Si fatica poi ad aggiornare le map-pe sul territorio in base ai problemi, schie-rando gli uomini dove servono. Per l’ex ministro Cancellieri, proprio i tagli alle ri-sorse dovevano servire di stimolo per elimi-nare sovrapposizioni e razionalizzare l’atti-vità. Verrà mai fatto?

VOLANTI A TERRA. Le volanti della polizia in giro per le città sono sempre meno. A Roma per ogni turno di sei ore ne escono 66, una ogni 40 mila abitanti. A Milano sono in circolazione 40 pattuglie, a Napoli 52, a Genova 16, a Bologna 11, a Torino 20. Una presenza spesso teorica: su circa 24 mila vetture della polizia, un terzo è in ripa-razione costante. È inevitabile: sono auto che vengono usate senza sosta e le Alfa 159 hanno in media 200 mila chilometri. Il lo-goramento provoca guasti e mette a rischio la vita di chi deve fare inseguimenti a tutta velocità su vetture che meriterebbero la rottamazione. Così tra officina e posti vuo-ti, la pianificazione salta. I sindacati sottoli-neano come i commissariati di Roma hanno un deficit di personale del 35 per cento e gli anni in cui partivano dall’Ufficio Volanti 24 macchine con a bordo tre uomini sono un lontano ricordo. Da molti mesi ne escono

«al massimo 18 per ogni turno e gli uomini da 700 sono passati a 300-400. Nei quar-tieri caldi della capitale si trovano spesso una sola volante e una macchina del com-missariato di zona». Poi bisogna fare i conti con le procedure. Quando l’equipag-gio blocca un ladro o un rapinatore in fla-granza, deve accompagnarlo al commissa-riato più vicino. Poi compilare li documen-ti per il processo per direttissima, in cui gli agenti dovranno presentarsi per ricostruire la dinamica, e in molti casi occuparsi anche della vigilanza del detenuto. Ogni successo impegna la volante per quattro ore o l’inte-ro turno: basta il fermo di due scippatori per lasciare un quartiere senza sorveglianza.

CENTRALINI DIVISI. Risorse limitate, quindi. E con un coordinamento che perde colpi. Quindici anni fa, all’epoca del primo governo Prodi, vennero creati i centralini “interconnessi”. In pratica, polizia e cara-binieri si dividono le zone d’azione. Ma se una persona telefona chiedendo aiuto al centralino del corpo non competente, do-vrebbe essere la centrale a smistare la segna-lazione. Oggi accade che chi aspetta soccor-so viene lasciato in linea per lunghissimi minuti, in attesa che il 113 della questura – per esempio - trasferisca la chiamata al 112 dell’Arma. La soluzione è semplice: il

centralino unico, che riceve le segnalazioni di qualunque emergenza. Ne esiste solo uno e risolve tutti i problemi grazie a una grande centrale operativa: forze dell’ordine, vigili del fuoco, ambulanze, polizia municipale. È stato attivato a Varese, guarda caso, quando Maroni era ministro dell’Interno e adesso copre anche altre provincie lombarde. En-tro metà del 2014 sarà in funzione pure a Milano, in vista dell’Expo. È stato battezza-to “call center laico” e sembra funzionare. «Si sono dimezzate le chiamate inutili», ragiona Marco Cherri, delegato italiano Fo

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Il bollettino quotidiano segnala in media 12 interventi, soprattutto per sequestrare droga e sedare risse. Visto così, l’impegno dei militari nell’operazione “Strade Sicure” non sembra un successo. Contrariamente agli slogan dell’allora ministro Ignazio La Russa, che nell’agosto 2008 impose l’intervento delle forze armate, l’obiettivo era soprattutto un altro: liberare agenti e carabinieri per migliorare la lotta alla criminalità. Gli effetti però non si sono visti. Attualmente i militari schierati sono 4.215, con una maggioranza di personale dell’Esercito. Circa 1.800 soldati presidiano gli “obiettivi sensibili” - case di persone a rischio, ambasciate, sedi istituzionali - e altri mille fanno la guardia ai centri immigrati. Solo 1.500 vengono destinati alle pattuglie in venti città. Dall’inizio dell’operazione alla scorsa settimana, i reparti hanno controllato un milione e 800 mila persone, realizzando più di 20 mila tra arresti e fermi. Il costo indicato nel bilancio della Difesa è di 9 milioni di euro l’anno. Ma è impensabile che così pochi soldati possano rivoluzionare la situazione. Mentre molti sindaci, a partire dal milanese Giuliano Pisapia, non amano vedere le ronde in tuta mimetica nei centri storici. La questione a Milano ha assunto duri toni polemici, con il sostegno del sindaco arancione alla sola protezione degli “obiettivi sensibili”. Molti invece tra i sindacalisti di polizia vorrebbero delegare integralmente ai soldati la sorveglianza dei Cie per immigrati e dei cantieri della Tav in Val di Susa: «Sarebbe il sistema per rendere disponibili centinaia di agenti in più».

Operazione flop

unA PATTuGLIA DEI CARAbInIERI DuRAnTE I ConTRoLLI noTTuRnI

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per l’applicazione del 112 unico europeo per le chiamate d’emergenza. «Funziona perché screma, filtra e localizza le telefona-te e così al secondo livello, cioè alla forza di polizia o al pronto soccorso, arrivano solo quelle necessarie». Un buon risultato, poi-ché il 50 per cento degli squilli ai cinque numeri di soccorso sono segnalazioni a vuoto. Ha però dei costi rilevanti: il preven-tivo per avviare una centrale è di 4 milioni. Perché viene fatto solo in Lombardia? «Deve attuarlo il governo, la spesa spetta all’Interno». Sotto molti aspetti, Milano è un laboratorio. Che dal 2010 ha ricevuto

attenzioni particolari, con più risorse e mezzi. Il comando provinciale dell’Arma li sta sfruttando per rivoluzionare l’approccio al controllo del territorio. Si mandano più militari per strada: oltre il 40 per cento di “carabinieri di quartiere” appiedati, un al-tro 20 per cento tolti dagli uffici e mandati di pattuglia. Anche gli arresti sono cresciuti in proporzione. Si punta molto al legame con le associazioni di cittadini e comunità di immigrati per monitorare il “disagio so-ciale” da cui nascono i reati: tutte manife-stano la stessa situazione, con masse cre-scenti di disoccupati.

SPRECHI OPERATIVI. I sistemi per mi-gliorare la vigilanza ci sarebbero. Ad esem-pio riducendo al massimo agenti e carabi-nieri negli uffici: nel resto d’Europa sono impiegati “civili” a ricevere le denunce scritte. Mentre da noi ci sono ancora cen-tinaia di poliziotti dietro le scrivanie per la burocrazia di passaporti e permessi di soggiorno. In più ci sono quelli che i sinda-cati considerano sprechi: «Ogni giorno oltre 2 mila operatori svolgono servizi di scorta. Personale che potrebbe essere in buona parte recuperato per indagini e controllo del territorio». C’è poi la batta-glia degli stadi: 2.900 partite di calcio all’an-no, che impongono schieramenti massicci per contenere le tifoserie violente. Tra foot-ball e cortei di protesta, moltiplicati per le vertenze sindacali nate dalla crisi, nel 2012 i servizi di ordine pubblico hanno impegna-to - da quanto risulta a “l’Espresso”- com-plessivamente 800 mila tra carabinieri, fi-nanzieri e poliziotti. Altri 251 mila servono per i centri di identificazione degli extraco-munitari: nel 2011 con 62 mila sbarchi per le rivolte nel Maghreb il peso è diventato enorme. Secondo le stime dei sindacati la spesa è arrivata a 700 milioni, fondi sottrat-ti dal presidio delle metropoli. «La sicurez-za deve essere vista come un investimento», conclude Tissone della Cgil. È quello che fanno le banche. «Ogni anno gli istituti di credito spendono 800 milioni per migliora-re la protezione e le rapine continuano a diminuire», spiega Marco Iaconis, coordi-natore dell’Ossif, il centro di ricerca dell’as-sociazione banche italiane sulla criminali-tà: «È la sicurezza partecipata, non si può delegare tutto alle forze dell’ordine». Alcu-ne associazioni di commercianti e di im-prenditori stanno seguendo l’esempio, fi-nanziando la videosorveglianza di intere strade. Una crescente privatizzazione della protezione. E sarebbe amaro se i tagli allo stato sociale alla fine rubassero anche il diritto della sicurezza. n

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«È possibile che la crisi economica abbia provocato l’aumento dei reati predatori, come furti e rapine». Parla il sociologo Marzio Barbagli, autore di alcuni degli studi più importanti sulla criminalità in Italia, serviti in passato anche per orientare l’attività del ministero dell’Interno. Quanto è forte il legame tra recessione e aumento dei reati?«È difficile dirlo con certezza. Dalla fine degli anni Sessanta al 1992 l’aumento dei reati predatori è stato costante. Per poi diminuire fino a due anni fa. A partire dal 2011 la curva è di nuovo ascendente, in tutta Europa». Quanti reati non vengono denunciati? E perché? «Lo spirito civico non c’entra nulla. La poca fiducia nelle forze dell’ordine non è l’elemento cruciale. Non è vero che in Emilia Romagna si denunci di più che in Sicilia. Ci sono reati per i quali la mancata denuncia deriva da tutt’altro. La spinta a denunciare varia a seconda del calcolo costi-benefici che le persone derubate fanno. Se penso di non avere la minima speranza di riavere la merce rubata non perderò ore allo sportello denunce. A meno che non abbia subito il furto del portafoglio o dell’auto per cui sono obbligato a sporgere la denuncia». Migliorare la sicurezza urbana in due mosse: è possibile? «Uno dei problemi che nessuna forza politica ha mai affrontato è l’efficienza delle forze dell’ordine. C’è una cattiva distribuzione delle risorse, ci sono studi noti al Viminale su questo e sul difficile coordinamento delle forze. È un assoluto tabù di cui nessuno parla. L’altra grande questione ha a che fare con il contrasto all’immigrazione clandestina. Abbiamo un sistema di controlli degli irregolari che è inefficiente e frustrante per chi se ne occupa». G.Tiz.

Quando la denuncia è inutile

oPERAzIoNE “StRADE SICURE” IN UNA StAzIoNE. A DEStRA: RILIEVI DoPo LA RAPINA ALLA FRANCk MULLER

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Si definisce «un piccolo contadi-no toscano». Da anni nel suo podere di Asciano, sotto Siena, produce olio d’oliva per sé e per gli amici, che a loro volta lo de-

scrivono come un «bon vivant», un esper-to di vini al cui confronto l’amico Joschka Fischer, già ministro degli Esteri, è un boy scout. L’estate scorsa ha festeggiato gli 80 anni all’Enoteca Italiana, nella Fortezza Medicea, tra gli invitati l’ex cancelliere Gerhard Schroeder. Otto Schily è parte della élite europeista tedesca. Tra i fonda-tori dei Verdi, poi passato alla Spd, ex ministro, avvocato di prestigio, è un gran conoscitore dell’Italia. E da Berlino entra nel dibattito sulle tensioni italo-tedesche (rilanciato da “l’Espresso” n. 19). Ribalta alcuni luoghi comuni con accenti anche personali. E consiglia: più Toscana per tutti. Incluso Matteo Renzi. Herr Schily, ricorderà l’allegoria del pittore romantico Overbeck, “Germania e Italia”: le due fanciulle che si tengono per mano su doppio sfondo, toscano e gotico. Dov’è fini-to l’amore?«Di romanticismo ce n’è meno. Ma in fondo all’anima tedesca la simpatia è ancora molta. Nonostante le riserve men-tali e le percezioni errate. Come il pregiu-dizio che l’italiano abbia un fondo d’in-dolenza. Altro che dolce far niente: io i toscani li vedo lavorare sodo. E sono ri-gidi su certi orari. Non puoi chiamare qualcuno all’una meno cinque perché all’una si siede a desinare. Ci tiene. E fa bene. Dai ritmi toscani noi tedeschi pos-siamo imparare parecchio. Mentre trop-

pi italiani associano a noi solo ordine e precisione. Ah sì? Ricorderei loro i casi del nuovo aeroporto di Berlino e della stazione di Stoccarda, inefficienze gravi, ferite aperte nell’opinione pubblica...».Lei è cavalleresco. Ma sia sincero, questo

incattivimento se lo aspettava?«No, non così. Si esagera. A volte l’odio è figlio dell’amore deluso. In Europa, non solo in Germania, ritorna l’immagine del capro espiatorio, ricorrente in tempi di crisi. Mi preoccupa».

La versione di OttoElogia la nostra

economia. Critica i politici attaccati alla

poltrona. Un ex ministro tedesco ci

giudica. E consiglia al Pd: serve Renzi

cOLLOquIO cOn OttO ScHILy DI EnRIcO AROSIO

OttO Schily, natO a BOchum nel 1932, vive a BerlinO. avvOcatO penaliSta, negli anni Settanta è prOtagOniSta di celeBri prOceSSi per terrOriSmO. tra i fOndatOri dei verdi nel 1980, rOmpe cOl gruppO parlamentare nel 1989, quandO, in cOntraStO cOn le tendenze fOndamentaliSte, paSSa alla Spd. finO al 2005 è miniStrO dell’internO del gOvernO Schröder. da vent’anni ha una tenuta in tOScana, ad aScianO nel SeneSe. nella fOtO a deStra: matteO renzi

Intervista italia - Germania

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“Der Spiegel” ci ha provocato sui “finti po-veri” nei Paesi mediterranei: tanto debito pubblico, tanta evasione fiscale e le famiglie con più soldi in tasca di quelle tedesche. Ma secondo lei Italia, Spagna e Grecia davvero sono uguali?«No, qui bisogna parlar chiaro. Grecia e Italia non sono minimamente paragona-bili. La Grecia non possiede un modello economico: il turismo e i cantieri navali perdono colpi, l’agroalimentare fa nume-ri piccoli. L’Italia, sì, dispone di un model-lo economico e industriale. Seppur sbi-lanciato al centro-nord. Le piccole e me-die imprese, i distretti, i leader di settore, l’orientamento all’export. È una ricchez-za vera. E Mario Monti doveva saperlo».E invece? «È stato il suo grande errore: per le pmi, l’ossatura dell’economia, ha fatto troppo poco. Ha inasprito il carico fiscale senza combattere la burocrazia, nemica della competitività. Nel primo trimestre 2013 in Italia hanno chiuso oltre mille aziende al mese. Una morìa di imprese che in Germania colpisce molto».Si aspettava la delusione Monti? Quarto alle elezioni, con Berlusconi azionista forte di un governo di equilibristi...«Me l’aspettavo, sì». Sui media tedeschi Monti era il preferito di Angela Merkel, il salvatore della dignità italiana dopo il penoso eroe del bunga bunga. Secondo “Die Zeit” poteva darle lezione per cosmopolitismo e competenza economica...«Monti ha una reputazione indubbia, sa esprimere anche simpatia personale. Ma ha i limiti del tecnocrate. Io non ho mai

creduto ai “governi tecnici”, come li chia-mate voi».E all’italiano finto pove-ro ci crede?«Far politica in base alle statistiche non è mai bene. Il debito pri-vato, tra gli italiani, è basso. In Germania stiamo peggio? Sì. E allora? Mi pare un complimento agli ita-liani. Non saremo noi ad aver sbagliato qualcosa? D’altron-de, a causa del rigore tedesco agli italiani

chiedere denaro oggi costa di più, ma la colpa è della politica poco rigorosa di Roma negli anni scorsi. Tra l’altro, mi sbalordisce l’uso martellante della parola spread. I titoli di Stato tedeschi come stella polare. Ne parla chiunque in ogni bar. Diciamolo: l’Italia sorprende sem-pre. Vuole un aneddoto?».Come no.«Dopo la caduta del governo Monti ho visto a Roma un protagonista della vostra economia. No, non le dico il nome. Alla domanda su chi avrebbe vinto le elezioni mi ha risposto: è del tutto indifferente. E perché? Perché qualsiasi governo si formi avrà un solo compito, rispetto al quale ogni altro tema è secondario: riuscire a piazzare le obbligazioni italiane sui mer-cati internazionali».La preoccupano, dalla Lega a Grillo alla Al-ternative für Deutschland, le forze trasver-sali anti Europa e anti euro?«Sì. In Germania c’è pure la vecchia sini-stra di Lafontaine. Ma temo di più la ri-caduta nei nazionalismi. Sarebbe un er-rore fatale verso i nostri figli e nipoti».Se l’immagina un’Italia con la lira?«Vuole scherzare. Non esiste».

Intanto la cancelliera Merkel, mentre da noi le forze antieuropee la ritraggono con l’el-metto prussiano e la frusta in mano, insiste a venire in vacanza a Ischia e in Alto Adige. «Che lei sia attratta dall’Italia non ci sorprende affatto. Lo siamo in tanti. Ogni idillio ha i suoi lati oscuri, ma l’Italia resta uno dei Paesi più europeisti».Un giudizio da élite culturale, meno diffuso tra la gente qualunque.«Oggi in tanti non sanno chi erano De Gasperi o Spinelli, ma queste figure resta-no e pesano».Dov’è la forza del modello Toscana, se c’è? Non nello scandalo Montepaschi...«Ah ah, no di certo. A Siena si è scatena-to il pandemonio. Come minimo ci si è affidati alle persone sbagliate. No, io vedo una Toscana di piccole e medie imprese aperte al mondo. Enogastronomia, non ne parliamo. Equilibrio tra città e territo-rio. Crescente tutela dell’ambiente. Lo vedo ogni mattina dalla mia collina. Se voglio toccar qualcosa nella mia proprie-tà, salta su il Comune, o il comitato am-bientalista, a controllare».Sapranno che lei è stato un leader dei Verdi per dieci anni.«Sono severi ugualmente. E mi sta bene».La Toscana è terra di Letta pisano e di Ren-zi fiorentino.«Renzi non lo conosco ancora, conto di averne presto l’occasione. L’avrei visto bene come leader del centrosinistra alle elezioni. È stato un errore del Pd non puntare su di lui. Davvero, gli italiani cercano figure nuove. Sono stufi dei vec-chi apparatchik. Il ricambio generaziona-le è una cosa seria. Persino nel Partito comunista cinese si scorgono segnali...».Il ritorno di Berlusconi l’aveva previsto? In Germania lo davano per finito.«Mi stupisce molto che tanti italiani si fidino ancora di lui, un prestigiatore del-la politica. Ma gli errori del Pd e di Mon-ti hanno aiutato».Gli italiani preferiscono illusioni e magie ai leader razionali e ragionanti.«Si sa, Berlusconi è uno charmeur. In Italia non sono poi così rari».Direbbe anche lei «i due clown», Berlusconi e Grillo, come ha fatto Peer Steinbrück, lo sfidante di Merkel? «Me ne guardo bene. Non vorrei incrina-re il rapporto che mi lega a Giorgio Na-politano, un amico per il quale nutro la più profonda ammirazione». n Fo

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Stella polare

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Attualità governo / la grande spartizione

Vedi, ai miei tempi noi co-munisti dovevamo fron-teggiare una sola Dc. Ora in questo governo di Dc ce ne sono due, una da una parte e una dall’al-tra...». Parola di Massi-

mo D’Alema, il cui umore è stabilmente segnalato sul brutto tempo da quando è rimasto fuori da ogni organigramma, go-vernativo e istituzionale, dalla presidenza della Repubblica al ministero degli Esteri. Le due Dc, quella di qui e quella di là, sono personificate dai gemelli del gol che guida-no Palazzo Chigi, il premier Enrico Letta del Pd e il suo vice Angelino Alfano, che è

anche ministro dell’Interno e segretario del Pdl, manco fosse Fanfani. Inizialmente presi sotto gamba dagli scettici inquilini del Palazzo: «Dureranno lo spazio di un mattino», profetizzavano vecchie volpi. Finché non hanno cominciato a scegliere, a decidere. E soprattutto a nominare: in Parlamento, nel governo, negli apparati dello Stato, dai servizi segreti alla Polizia. Nelle commissioni e nei comitati. Negli enti pubblici e, naturalmente, in viale Mazzini, alla Rai.

La Grande Coalizione, per ora, naviga a vista. Fatica a trovare un programma e un linguaggio comune perché, come ha am-messo lo stesso Letta nella prima intervi-

stain tv da premier nel salotto di Fabio Fazio, la maggioranza Pd-Pdl (più Scelta Civica) non è nata dopo una lunga trattati-va, come in Germania, ma sulla base di uno stato di necessità. E tuttavia questo è il primo governo politico della storia repub-blicana in cui i partner sono soci alla pari, di uguale grandezza quantitativa e di equi-

Un posto a me e uno a te. Dai ministeri

a Finmeccanica, dai servizi segreti agli enti pubblici, così Pd e Pdl

si dividono gli incarichi che contano

Di marco Damilano

le lArghe poltrone

angelino alfano e enrico letta

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valente presenza politica. Con la Dc, nella prima Repubblica, c’era un partito egemo-ne e gli alleati minori. E nella divisione degli incarichi dominava il manuale Cencelli, che teneva conto dei dosaggi tra correnti all’in-terno dello Scudocrociato. Cose tipo: «Ai dorotei spettano 5,88 ministri e 12,12 sottosegretari; ai basisti 2,85 ministri». «Una volta», ricordava l’inventore Massi-miliano Cencelli, «il ministero dell’Interno

era tutto: distribuiva anche i fondi per gli affari di culto, valeva almeno cinque mini-steri». Stessa storia, più o meno, nella Se-conda Repubblica, con berlusconiani e diessini a occupare le posizioni migliori.

ESORDIO IN PARLAMENTOOggi la regola non scritta, ma già rigoro-samente rispettata, è più elementare, si chiama pari dignità. Ovvero: siamo in

due (Scelta civica conta poco), facciamo una cosa a me e una cosa a te. Una casel-la al Pd e una al Pdl e la pax è rispettata. Anche a costo di trasformare l’auspicata Grande Coalizione, una novità per la politica italiana, in una più familiare Grande Spartizione.

Si è cominciato con le commissioni parlamentari. Se a presiedere gli Affari costituzionali della Camera, strategica Fo

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Attualità

perché scriverà le riforme, c’è Francesco Paolo Sisto (Pdl), al Senato tocca ad Anna Finocchiaro (Pd). E così via: Giustizia (alla Camera Donatella Ferranti, Pd, al Senato Francesco Nitto Palma, Pdl), Difesa (Elio Vito, Pdl, Nicola Latorre, Pd), la com-missione Lavoro con l’insolito tandem Cesare Damiano (Pd) e Maurizio Sacconi (Pdl), la commissione Agricoltura che al Senato è presieduta dal redivivo Roberto Formigoni e alla Camera dal Pd Luca Sani...

Un metodo che funziona, devono es-sersi confidati nella nuova maggioranza. E dunque via con i posti di governo e di sottogoverno. Coppie di sottosegretari Pd-Pdl per ogni casella-chiave. Senza in-fingimenti, senza i travestimenti tecnici di un tempo, stagioni terminate con il tra-monto di Mario Monti: il governo poli-tico nomina i politici, altrimenti che sen-so avrebbe? «E poi con i partiti in crisi finanziaria e con i tagli delle risorse pub-bliche in arrivo servono posti di segreteria e di ufficio stampa per collocare il perso-nale», aggiunge un esperto. Se ministro dell’Economia è per esempio il tecnico Fabrizio Saccomanni, niente paura, vice-ministri sono Luigi Casero e Stefano Fassi-

na, responsabili economici del Pdl e del Pd. Lo stesso meccanismo vale per il mi-nistero degli Esteri: qui il ministro è la fuori-quota Emma Bonino, i vice-ministri sono tre, oltre a Marta Dassù c’è il respon-sabile Esteri del Pd Lapo Pistelli, amico da sempre del premier e rivale a Firenze di Matteo Renzi, e Bruno Archi, ex consiglie-re diplomatico di Silvio Berlusconi e de-putato del Pdl, che ha testimoniato al

processo Ruby sul colloquio tra il Cava-liere e il presidente egiziano Mubarak sulla famosa parentela della ragazza marocchina. Una carriera tutta berlusco-niana, impreziosita, si fa per dire, da un incarico da consigliere diplomatico dell’allora presidente del Senato Renato Schifani. Un’ascesa così strabiliante che ha indignato perfino i più cinici funzio-nari della Farnesina.

«Il rischio è che a Roma nel Pd si legga il risultato del primo turno delle amministrative come la vittoria del Partito con la P maiuscola. E invece è il successo dei partiti: quelli radicati, con una struttura, un’organizzazione, un’identità sedimentata, candidati credibili e riconosciuti». Ilvo Diamanti (in uscita il suo ultimo libro sulle elezioni 2013. “Un salto nel voto”, Laterza) analizza i dati del 26-27 maggio: crollo del Movimento 5 Stelle, crescita dell’astensionismo, vittoria dei candidati del Pd, flop del Pdl e della Lega.La Lega raccoglie percentuali modeste perfino nella sua ex roccaforte di Treviso: eppure fino a qualche anno fa era considerata il modello del partito radicato«Certo, ma ora nel Nord est è schiantata. A Vicenza candidava a sindaco Manuela Dal Lago, votata a Roma come nome di bandiera per il Quirinale, lei ha preso la metà dei voti del sindaco di centrosinistra Achille Variati e la Lega il 4,5. La Lega è sparita in Emilia, si è dimezzata in Veneto,

la crisi l’ha deterritorializzata, si sono allontanati dal territorio e divisi tra Zaia e Tosi, tra bossiani e maroniani. Sono diventati come gli altri: un non-partito senza radici. Come Berlusconi. E come Grillo. Funzionano nelle campagne elettorali nazionali, esaltati da un sistema elettorale come quello del Porcellum, in cui si votano i capi e non i singoli candidati, sono inesistenti in quelle locali». Però il fenomeno Grillo era partito esattamente un anno fa dalle città, quando 5 Stelle conquistò Parma. Non c’è una schizofrenia nelle analisi: due mesi fa i grillini sembravano dover conquistare il mondo, ora sono già finiti...«I sondaggi non ci prendono più perché è cambiato il modello. Metà degli elettori non hanno più un’appartenenza, la prima scelta è votare o non votare, astenersi dalle urne non è più un sacrilegio come un tempo. Dobbiamo abituarci a un Paese dove si può anche non votare come scelta politica. Grillo ha insegnato che si può cambiare

voto senza tradire la propria identità. Ha offerto un terzo polo, una via d’uscita, una strada di fuga, un autobus a chi voleva cambiare senza passare nello schieramento opposto. Ha offerto un canale, come anche il Pdl quando le campagne sono nazionali, fortemente mediatiche. Ma quando si va a livello del territorio si vede che in alcune province dove alle politiche aveva preso il 30 per cento non è neppure riuscito a presentare le liste». E il Pd? A Roma si canta vittoria: la crisi è già finita? «Il Pd vive un paradosso. A Roma è un non-partito. Un partito impersonale: quattro segretari in quattro anni, tra quelli dimissionari e quelli transitori, diviso in correnti. Ed è nel momento di massima difficoltà, stretto tra il governo delle larghe intese e la ferita del voto segreto contro Romano Prodi al Quirinale. Ma a livello locale è l’unico partito rimasto in campo e potrebbe governare, se Ignazio Marino vincesse a

RoCCo GIRLANDA. A DESTRA: GIANNI DE GENNARo. IN BASSo: ILVo DIAMANTI

Grillo, il Pd e la lezione di Roma CoLLoquio CoN iLVo DiAMANTi

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L’IRA DI D’ALEMA Una meraviglia, l’uovo di Colombo: una cosa a me, una a te. E pazienza se gli esclusi dal Patto Letta-Alfano hanno cominciato a spazientirsi. Specie quando negli ultimi giorni promozioni e sposta-menti sono entrati nel vivo. In profondi-tà: dal piano politico al controllo degli apparati dello Stato, servizi di intelligen-ce e forze dell’ordine.

La prima casella pesante è stata asse-gnata a un nome del Pd: il senatore cala-brese Marco Minniti è diventato sottose-gretario con delega ai servizi segreti al posto dell’uscente Gianni De Gennaro.

Una nomina che di certo non ha contri-buito a migliorare l’umor nero di D’Ale-ma, fino a poche settimane fa presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi, il Copasir. Perché, certo, Min-niti è stato a lungo un fedelissimo dell’ex premier, ma poi c’è stata una rottura sanguinosa, culminata con il passaggio di Minniti nelle file avversarie, nel gruppo di Walter Veltroni.

Una cosa a me, una cosa a te. Il via li-bera del Pdl a Minniti ha come presuppo-sto la restituzione della cortesia con la nomina di un capo della Polizia gradito al titolare del Viminale Alfano. E infatti è sparita dal tavolo la candidatura di Fran-co Gabrielli, capo della Protezione civile, amico di Letta (per lui si parla di un ruolo da sottosegretario). E invece avan-zano i nomi nel cuore ad Alfano, che in questa partita vede l’occasione per piaz-zare il primo tassello di una rete di rela-

zioni e di potere autonoma dal tradizio-nale circuito berlusconiano. Alla cerimo-nia di beatificazione del prete palermita-no padre Pino Puglisi il ministro-segreta-rio si è fatto accompagnare dal vice-capo vicario Alessandro Marangoni, che da due mesi occupa il posto dello scomparso Antonio Manganelli. In corsa con lui, c’è il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, apprezzato in area Pdl ma vicino all’altro Letta (Gianni), e il prefetto Elisabetta Belgiorno, sostenuta dal Quirinale, dove si è in allarme per l’idea che i responsabi-li dei servizi di sicurezza finiscano per essere oggetto di trattativa tra i partiti.

La divisione degli incarichi Pd-Pdl non riguarda solo gli apparati dello Stato, ma anche i dipartimenti di diretta dipenden-za della presidenza del Consiglio. Per esempio il Dipe, il dipartimento per le politiche economiche di Palazzo Chigi, e il Cipe, il comitato interministeriale per la Programmazione economica, la strut-tura che indirizza miliardi di risorse pub-bliche per investimenti e infrastrutture (autostrade, ferrovie, linee metropolita-ne, porti): 155 delibere per 20 miliardi di euro solo nel 2012.

Alla guida del Dipe è stato nominato un uomo del premier Letta, Ferdinando Ferrara. Immediata la richiesta del Pdl: allora il segretario del Cipe spetta a noi. Nel governo Monti era il ministro Fabri-zio Barca, il nome che avanza per sostitu-irlo è il sottosegretario alle Infrastrutture Rocco Girlanda. Coordinatore umbro del Pdl, Girlanda è un esperto del ramo, per così dire: fino a un anno fa è stato respon-sabile delle relazioni istituzionali del gruppo Barbetti, azienda umbra leader nelle cementerie, proprietaria, fino a po-che settimane fa, del giornale più diffuso della regione, “Il Corriere dell’Umbria”: amministratore delegato, sempre Girlan-da. In più, è molto legato al coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, perso-naggio potente ma inquieto, perché il triplo incarico di Alfano, vice di Letta, ministro e segretario rischia di escluderlo dal tavolo che conta. Girlanda è un suo protetto, come dimostrano anche le inter-cettazioni delle indagini per i grandi ap-palti del 2009, in cui Verdini interveniva con l’imprenditore-amico Riccardo Fusi per sponsorizzare l’azienda dell’amico interessata alla commessa per la super-strada tra Umbria e Marche, il Quadri-

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Roma, tutte le grandi città e la maggior parte dei comuni italiani. Succede perché ci sono candidati con una storia: essere ex qualcosa a Roma è un fattore di debolezza, impedisce al Pd di sciogliere la sua identità, nelle città vuole dire invece essere riconoscibili, essere cresciuti in un contesto. In Veneto Achille Variati, Flavio Zanonato ma anche Laura Puppato che era sindaco di Montebelluna sono figli di partiti storici».Conclusione: il Pd dovrebbe ripartire dai Renzi, Serracchiani, Marino?«I leader locali del Pd sono già leader nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la campagna elettorale di Vicenza. A Roma dicono: abbiamo vinto. E invece dovrebbero dire: hanno vinto nonostante noi. È la differenza con il Pdl, in cui i retaggi territoriali di An e della Lega sono stati spazzati via. Resiste il marketing berlusconiano, ma sul piano nazionale. Come Grillo. Leader senza partiti: l’opposto del Pd, un partito senza leader». M. D.

il protetto di verdini in corsa

per il comitato che decide su miliardi

di fondi pubbliciLL I C IL DIAMA I

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Attualità

latero. Una tempesta di chiamate. Richie-ste sempre più insistenti. «Riccardo? Sono qui con Rocco che mi domanda... l’avete risolti i problemi o no?», chiedeva Verdini. Alla fine non se ne farà nulla e Girlanda non è mai stato indagato. Ma la sua no-mina a sottosegretario alle Infrastrutture, fortemente voluta da Verdini, ha suscitato imbarazzo nel governo per il conflitto di interessi, neppure mascherato.

AVANZANO LE TRUPPE L’assalto è appena cominciato. Il mini-stro dell’Economia Saccomanni si è in-testato, finora, il più spettacolare spoil system del governo Letta: via in una settimana il Ragioniere centrale dello Stato Mario Canzio, sostituito da Danie-le Franco, provieniente come Saccoman-ni dalla Banca d’Italia; e via il potentis-simo Vincenzo Fortunato, il più longevo (e pagato) capo di gabinetto della storia repubblicana, rimpiazzato dal funzio-nario della Camera Daniele Cabras, figlio dell’ex senatore della sinistra Dc Paolo, che aveva assistito Rosy Bindi al mini-stero della Famiglia nel governo Prodi.

Ma ora Saccomanni è atteso alla prova delle promozioni ai ver-tici di Finmeccanica, la princi-pale impresa italiana control-lata al 32 per cento dal Tesoro. E che la bagarre sia in pieno svolgimento lo prova lo scarno comunicato con cui il ministe-ro di via XX Settembre ha an-nunciato la sera del 28 maggio il rinvio delle nomine nel Con-siglio di amministrazione per «definire procedure trasparen-ti e criteri generali di valutazio-ne volti ad assicurare la qualità professionale e la competenza tecnica dei prescelti». Come dire che la situazione si sta fa-cendo pesante: per decidere i sostituti dell’ex presidente e amministratore delegato Giu-seppe Orsi, arrestato il 12 feb-braio con l’accusa di tangenti per l’aggiudicazione di 12 eli-cotteri Agusta in India, e dell’ex consigliere Franco Bonferroni è in corsa un peso massimo come Gianni De Gennaro, lascia-to fuori dal governo e per la prima volta da decenni (ma

chissà quanto provvisoriamente) senza incarichi, che può vantare un fronte trasversale di sostenitori, da Gianni Letta a Massimo D’Alema: le larghe intese fatte persona. Ma anche il capo dell’Ansaldo Energia Giuseppe Zampini, che ha di recente portato alla guida del-la controllata Ansaldo Nucleare Umber-to Minopoli, ex figiciotto della generazio-ne D’Alema (spedito dal capo in Unione sovietica insieme all’attuale presidente dell’Emila Vasco Errani a un campus con i coetanei del Pcus), poi capo della segre-teria di Pier Luigi Bersani al ministero dello Sviluppo economico, tenace soste-nitore dell’ex segretario del Pd alle pri-marie contro Matteo Renzi.

Zampini, alla fine, potrebbe approda-re alla carica di amministratore delegato se le deleghe saranno di nuovo divise tra un ad di gestione finanziaria, come l’at-tuale Alessandro Pansa, e uno attento alle politiche industriali, lo stesso Zam-pini. Una divisione congeniale al ticket di Palazzo Chigi: Pansa è portato da Letta, Zampini da Alfano. Sempre che il risiko delle poltrone non finisca su un unico tabellone, in arrivo ci sono anche

la presidenza delle Ferrovie al posto di Lamberto Cardia (amministratore dele-gato resterà Mauro Moretti che era già sicuro ministro del mai-nato governo Bersani), la Sogin (società per lo sman-tellamento del nucleare), la Sace (oggi presieduta dall’ex ambasciatore in Usa Gianni Castellaneta, anche lui in corsa per la presidenza di Finmeccanica) e Invita-lia. Nel governo si parla di un comitato di saggi che dovrebbe vigilare sulle can-didature per garantire merito e compe-tenza: ma anche per accentrare a Palaz-zo Chigi il tourbillon dei pretendenti, ridimensionando il peso del ministero del Tesoro che negli ultimi anni l’ha fatta da padrone.

REBUS VIALE MAZZINIIl paradosso è che in questo clima di generale pacificazione, manco a farlo apposta, è iniziata la fibrillazione in viale Mazzini, alla Rai, dove pure le in-tese larghe o larghissime, il consociativi-smo tra i partiti, la lottizzazione sono la regola da sempre. «Calma, non è cam-biato il mondo, è cambiato il presidente del Consiglio», avrebbe detto la coppia Fo

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al vertice Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi quando, all’indomani della fi-ducia al nuovo governo, i segnali della politica si sono fatti sentire di nuovo molto pimpanti. Il commento, sensato, del settimo piano di viale Mazzini non vale però per la Rai dove da sempre un cambio di inquilino a Palazzo Chigi equi-vale a un’era geologica, un passaggio epocale. Infatti l’atmosfera attorno al cavallo morente si è rapidamente surri-scaldata. Ecco l’ex ministro Paolo Romani chiedere un incontro con il dg Rai, udien-za concessa, ma Romani a sorpresa si presenta accompagnato da un altro ex collega, Maurizio Gasparri.

Ed ecco, sul versante opposto, i consi-glieri designati dal Pd Gherardo Colom-bo e Benedetta Tobagi astenersi, prassi inusuale, si vota sì o no, sul bilancio 2012, e dichiarare guerra ai colleghi del Pdl. «Il mondo politico abbia il coraggio di affrontare i nodi della legge Gasparri e del conflitto di interessi, che ammor-bano la vita del servizio pubblico», han-no scritto in una nota. «E il centrosini-stra schieri nella comissione parlamen-tare di vigilanza sulla Rai i giocatori più ricchi d’esperienza, più competenti e politicamente autorevoli». Il gioco si fa duro, entrino in campo i duri.

Per ora, però, a spedire nella mischia uno squadrone è stato il Pdl. Nella com-missione parlamentare sulla Rai saran-no designati Romani, Gasparri, Paolo

Bonaiuti, i capigruppo Renato Brunetta e Renato Schifani, più il senatore Augusto Minzolini, in attesa di reintegro insieme all’ex direttore di Rai Uno Mauro Mazza (si studia la possibile poltrona, forse la direzione di Raisport). E nel cda Rai, a sorpresa, è ritornato il decano Antonio Verro: eletto senatore e rispedito di gran corsa in viale Mazzini, nonostante la contrarietà personale e l’evidente disap-punto dei consiglieri Pdl Guglielmo Rosi-tani e Antonio Pilati (l’imprenditrice Luisa Todini, è data anche in quota Vedrò, il think tank fondato dal premier Letta: ospite degli appuntamenti in Trentino, amica del giovane Enrico e in piena sintonia con la pax lettian-alfaniana). L’ordine per Verro di mollare Palazzo Madama per presidiare il cda è arrivato da Arcore, Verro ne fa un vanto anzi si è già promosso capogruppo, innervo-sendo non poco gli altri consiglieri in quota Pdl. Il suo arrivo è il segno che il Cavaliere anche su viale Mazzini vuole essere pronto al doppio scenario: soste-nere il governo ma prepararsi alle ele-zioni in tempi rapidi.

Dopo il primo turno di elezioni ammi-nistrative, interpretato da Letta e da

Alfano come il primo successo del go-verno, visto il flop clamoroso del Movi-mento 5 Stelle, è tornata irresistibile la tentazione di tornare rapidamente alle urne tra gli esclusi del nuovo equilibrio politico. Nel Pd tra i dalemiani lasciati lontani dalle posizioni che contano, ma anche nell’area che fa capo a Renzi, c’è la voglia di regolare i conti con i grillini, approfittare della loro debacle e recupe-rare i milioni di voti di nuovo in cerca di casa politica. Ma uguale aspirazione coltivano i falchi del Pdl, Verdini in testa, determinanti già nell’inverno del 2012, quando Alfano sperava di candidarsi premier e invece fu costretto a farsi da parte dal ritorno in pista di Berlusconi.

DUE GEMELLI A PALAZZO CHIGIUna storia ricostruita velenosamente da Luigi Bisignani nel libro-intervista con Paolo Madron appena uscito (“L’uomo che sussurra ai potenti”): «Con Schifani, Alfano lavorava a una nuova alleanza senza Berlusconi. Cominciò a farlo nel momento in cui per Berlusconi iniziava la fase più aspra di un calvario politico giudiziario che sembra non finire mai. E in più stringendo un asse con Roberto Maroni, che da ex potente ministro dell’Interno, dopo aver fatto fuori Um-berto Bossi, preconizzava la morte civile del Cavaliere e l’investitura di Alfano come nuovo leader».

Nell’ultima riunione dei gruppi parla-mentari tra Alfano e Verdini sono volate parole di fuoco, l’accusa di alto tradimen-to del Capo resta sospesa. Ma intanto il delfino di Silvio, il ministro-segretario-vicepremier ha trovato un nuovo e ben più potente amico: il gemello di Palazzo Chigi Letta. E farà leva sul rapporto pri-vilegiato con il quasi-coetaneo Enrico per costruirsi una solida dote di potere da portare con sé in vista della stagione post-berlusconiana, quando arriverà.

Intanto nei prossimi mesi andranno a scadenza le poltrone più ambite, le cassa-forti del sistema, Terna e Poste, soprattut-to Enel ed Eni: di un eventuale avvicen-damento di Fulvio Conti e dell’immortale Paolo Scaroni, però, si parlerà solo nella primavera 2014. E a quel punto si vedrà se il ticket Letta-Alfano avrà superato la tempesta e sarà destinato a durare tutta la legislatura. Una sola coalizione, doppia occupazione, doppia spartizione. n

alfano punta a costruire una

rete di relazioni autonoma

dal circuito berlusconiano

marco minniti. a sinistra: luigi gubitosi.

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Il palazzo in mattoncini rossi a dieci passi dai magazzini Harrods è ancora quello. E gli agenti di Scotland Yard che lo sorvegliano giorno e notte, stanno ancora lì

con i loro furgoni e le loro telecamere. È passato un anno, ma Julian Assange è ancora rinchiuso nell’ambasciata dell’E-cuador a Londra. Ed è qui che “l’Espres-so” è entrato per la seconda volta da quando il fondatore di WikiLeaks ha ottenuto asilo politico dal paese sudame-ricano. Assange sembra in forma: lavora tutto il giorno incollato ai suoi computer fino a tarda notte e, tra le altre cose, si prepara a entrare in politica. Alle elezioni che si terranno a settembre è pronto a candidarsi al Senato australiano. Assange, lei ha scritto un libro, “Cypher-punks”, in cui vede Internet come un gran-de strumento sia per l’emancipazione sia per il totalitarismo. Come pensa che la Rete ridisegnerà le democrazie? Rafforzan-do la partecipazione popolare o potenzian-do il controllo sociale attraverso la sorve-glianza?«È molto difficile dirlo, ed è per questo che i tempi in cui viviamo sono interes-santi, perché siamo a un bivio: cosa acca-drà? Parte della traiettoria della nostra società porta a un’utopia felice; parte invece va verso un mondo negativo, una distopia. Ma rimane da vedere se davvero finiremo in una distopia. Ci sono molte ragioni che portano a ritenerlo. La tecno-logia tende di per sé alla centralizzazione, perché è complessa da realizzare e quindi richiede specializzazione e accentramen-to. Guardi alle grandi aziende di Internet:

sono industrie estremamente complesse e di conseguenza tendono a fondersi con lo Stato per preservarsi. Poi, però, la grande tendenza nella direzione opposta è la democratizzazione e la nuova politica che ne risulta come conseguenza. E que-sto è possibile vederlo con Beppe Grillo. Io non so come il suo movimento politico si sia formato esattamente, ma è qualcosa che ha senso: è il risultato di una nuova politica che prende forma molto rapida-mente grazie a Internet e che fa breccia nella barriera delle comunicazioni eretta dai media tradizionali».

Quanto è informato sul movimento di Beppe Grillo?«Non abbastanza. Lo osservo a fasi in-termittenti da tre anni. Il suo successo è innegabilmente impressionante dal pun-to di vista politico e logistico. È uno dei pochi politici italiani che ha supportato pubblicamente me e WikiLeaks durante la tempesta. E questo va a suo credito».Beppe Grillo usa Internet non solo come un megafono per raggiungere l’opinione pubblica, ma anche per prendere decisioni politiche e per capire cosa vogliono i cit-tadini. Lei come guarda a questi tentativi di usare Internet e piattaforme digitali, come ad esempio “Liquid Feedback”, in modo da consultare la Rete e prendere decisioni?«In modo piuttosto scettico. Io non credo che sia necessario dare alla gente quello che la gente pensa di volere in

termini specifici. Le per-sone vogliono essere trattate in modo giusto, vogliono che gli esseri umani a cui sono legate siano trattati con com-passione e rispetto e che le decisioni che le riguar-dano siano prese in mo-do intelligente e non come risultato della stu-pidità o della corruzio-ne. Sebbene io sia con-vinto che la democrazia diretta sia molto impor-tante per controllare gli eccessi dei leader politi-ci, credo che le persone siano impegnate a vive-re le proprie vite e non dovremmo aspettarci che si impegnino nelle questioni specifiche del-la politica o nell’avere a che fare con le burocra-zie e gli affari esteri. Vo-gliono delegare queste funzioni a persone di cui si possono fidare, esatta-mente come quando si arruola un avvocato per andare in tribunale». n

julian assange

Grillo sbaglia ReteLa scelte politiche non si possono fare

consultando il Web. Come dice il comico. Parla il capo di WikiLeaks. Neo-candidato

CoLLoQuIo Con juLIAn AssAnGe dI steFAnIA mAuRIzI

Attualitàpolitica e internet

La versione integrale dell’intervista realizzata a Londra al fondatore di Wiki-Leaks julian Assange è sul nostro sito www.espressonline.it

www.espressonline.it

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Attualità italia dei veleni / il caso sicilia

Angela Averna vive e lavora a Gela, profonda Sicilia, e fa la pediatra. Durante l’intervista la raffineria dell’Eni non la no-mina mai. La chiama, sempli-

cemente, “il Mostro”. Racconta: «Mio figlio va alle elementari. Durante una visita guida-ta al Mostro hanno chiesto a tutta la classe se sapessero perché il simbolo dell’Agip è un cane a sei zampe. Lui ha alzato la mano e ha risposto: “Perché è un cane malformato!”. Ho capito che devo stare attenta a non por-tarmi il lavoro anche a casa». Anche se per lei non è affatto facile: il medico, su circa mille pazienti sotto i 14 anni, conta una cinquantina di bimbi malformati. Percen-tuale pazzesca, perfettamente in linea con lo studio pubblicato dagli esperti del Cnr insie-me al genetista Sebastiano Bianca nel 2002.

La pediatra sorride, amara. «Non abbia-mo ancora né un registro sui malformati né uno sui tumori. Perché ai malati di ipospadie, una deformazione degli organi genitali ma-schili, e a chi nasce senza braccia e senza gambe vanno aggiunti i bambini e le bambi-ne malati di cancro e altri morbi assortiti». Spulciando i casi dell’ambulatorio dell’Aver-na sembra che a Gela ogni famiglia abbia un parente malato, e spesso è un minore. «Negli ultimi 12 mesi ho incontrato una leucemia fulminante, poi un tumore rarissimo al pan-creas. Se l’è beccato la figlia di mia sorella. Secondo il chirurgo che l’ha operata mia nipote è stata la 619 nel mondo, ma in città non è l’unica: abbiamo altri due casi identi-ci». L’elenco della pediatra non è finito: «Ho avuto anche un neonato morto per una malformazione cardiaca a sette mesi, mentre

qualche tempo fa il figlio del mio consulente del lavoro s’è ammalato di un tumore al cervello». Il piccolo ha solo quattro anni: «Un’altra tragedia, ma scommetto quello che vuole che ne seguiranno altre».

A Gela morte e malattia risparmiano po-che, fortunate famiglie. Non si salva nessuno: operai, impiegati, avvocati, casalinghe o professionisti, le malattie sono democratiche e se ne fregano delle classi sociali. L’inquina-mento diffuso sembra ormai un dato acqui-sito, così come le sue conseguenze sulla salu-te della popolazione. L’area della città, insie-me a Niscemi e Butera (108 mila abitanti) è uno dei siti d’interesse nazionale ad alto ri-schio. La devastazione di acque, terra e aria è stata causata secondo esperti e ambientali-sti dal polo industriale che, come si legge in un report dell’Istituto superiore di sanità pubblicato nel 2009, «ha comportato nel corso degli anni una progressiva contamina-zione di diverse matrici ambientali, nelle quali sono stati rilevati livelli estremamente elevati di inquinanti chimici con caratteristi-che di tossicità, persistenza e bioaccumulo». Traducendo, l’Eni ha sparpagliato i veleni in lungo e largo per decenni. Anche i dati epi-

demiologici «hanno evidenziato» ragiona l’Iss «la presenza di patologie in eccesso ri-spetto alle aree limitrofe e alla regione». Eppure il nesso causa-effetto tra inquina-mento industriale e malattie non è stato an-cora provato, né in sede scientifica né in quella giudiziaria: le norme e le leggi italiane sono spesso inefficaci, così l’Eni finora se l’è cavata alla grande.

Presto, però, la musica potrebbe cambiare. Se a Taranto nel mirino della procura è finita l’Ilva e i Riva di Milano, anche nella punta orientale dell’isola di Leonardo Sciascia («Il petrolio? Mi creda, se lo succhiano, se lo succhiano. È così che finisce col petrolio: una canna lunga da Gela a Milano, e se lo suc-chiano», scriveva lo scrittore in un racconto del 1966) i magistrati sembrano aver messo il turbo. In pochi mesi i pm guidati da Lucia Lotti hanno aperto varie inchieste, e oggi sono 14 i processi istruiti per reati gravissimi, da quelli ambientali all’omidicio colposo. Sotto accusa sono finiti dirigenti ed ex quadri di aziende dell’Eni, il colosso statale che controlla il petrolchimico nato per volontà di Enrico Mattei nel 1965.

Qualcuno in città spera che nei confronti dello stabilimento siano prese misure draco-niane, che i pm facciano un salto di qualità sequestrando la raffineria, come avvenuto per il siderugico pugliese. Da un punto di vista economico, sarebbe uno choc: nella sola raffineria - una delle più grandi e strate-giche d’Europa - lavorano circa 1100 perso-ne, altre 500 nell’indotto, ma a questi vanno aggiunti altre migliaia di operai delle ditte esterne. Non solo. A Gela vengono lavorati ogni anni circa 5 milioni di tonnellate di

E dopo TArAnTo

GElA

sono 14 i procEssi pEr GrAvi rEATi, dA quElli AmbiEnTAli All’omicidio colposo. soTTo AccusA diriGEnTi Eni

Nell’area del petrolchimico allarme malattie e tumori. Ecco in esclusiva i dati del disastro. Nel mirino dei magistratiDi emiliano fittipalDi

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greggio pesante e semilavorati proveniente dai pozzi di Gela, Ragusa, Egitto, Libia e Iran, che in Sicilia viene trasformato in benzina, cherosene, gasolio, gas e gpl. Un blocco della produzione rischierebbe di mettere in ginoc-chio l’azienda amministrata da Paolo Scaro-ni, mentre alle ripercussioni sociali si som-merebbero quelle finanziarie a Piazza Affari.

Comune, Regione e ministero dell’Am-biente, infatti, sembrano voler puntare - per ridurre i danni all’ambiente e alla salute - sugli investimenti di recente “imposti” all’E-

ni. Lo scorso gennaio la raffineria ha final-mente ottenuto l’autorizzazione di impatto ambientale che prevede il rispetto di 200 adempimenti. «In ambito emissivo» spiega-no dalla Raffineria «sono stati prescritti li-miti particolarmente restrittivi, il 50 per cento in meno rispetto alle precedenti auto-rizzazioni». L’Eni puntualizza che nell’ulti-mo decennio sono stati comunque effettuati «una serie di interventi migliorativi in campo ambientale, con un investimento che si aggi-ra sui 300 milioni: abbiamo realizzato un

impianto di trattamento dei fumi della cen-trale con la migliore tecnologia esistente, i doppi fondi sui serbatoi di stoccaggio, la copertura del parco coke».

Sarà. Ma i nuovi dati epidemiologici che “l’Espresso” ha consultato in esclusiva foto-grafano una situazione ancora drammatica. Lo studio dell’Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia ancora inedito è intito-lato “Stato di salute della popolazione resi-dente nel sito di interesse nazionale per le bonifiche di Gela”, e consegna - ancora una volta - risultati agghiaccianti. Anche perché le analisi della mortalità e delle malattie Fo

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la sPiaggia di gela, sullo sFondo l’imPianTo dell’eni

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Attualità

sono state fatte su serie storiche assai recenti, «che confermano di fatto» ragiona Fabrizio Bianchi, studioso del Cnr, «il perdurante cattivo stato di salute della popolazione». Le cifre sulla mortalità comprendono il periodo 2004-2011, mentre quella sui ricoveri e le dimissioni ospedaliere va dal 2007 al 2011.

Secondo gli studiosi il rischio degli uomini di Gela di morire rispetto a coloro che vivo-no nei Comuni vicini è più alto del 6,8 per cento, mentre per le donne l’eccesso è stati-sticamente significativo sia sul confronto locale (più 12,3 per cento) sia rispetto ai dati regionali (più 8,2 per cento). L’analisi delle tabelle sulla “mortalità” in alcuni casi sono persino peggiori rispetto a quelle di Taranto. Rispetto alle città più vicine, a Gela i maschi muoiono di più per tutti i tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile (più 159,2 per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5 per cento), alla pleura (più 67,3), alla vescica (più 9,6), per non parlare dell’incidenza del morbo di Hodgkin (più 72,4), del mieloma multiplo (più 31,8) e delle malattie del sistema circolatorio (più 14,2). Alto lo “spread” anche nei confronti delle statistiche regionali: a Gela l’incidenza dei tumori degli under 14 è maggiore del 68,1 per cento, più decessi anche per i tumori al fegato (più 20,9), alle ossa (32,8), al testicolo (più 209,4 per cento) e per le malattie cere-brovascolari (più 36,6).

Sono centinaia gli operai che hanno lavo-rato al petrolchimico ad essere finiti dentro i nosocomi sparsi nella provincia di Caltanis-setta. Molti di loro hanno lavorato all’ex impianto Clorosoda, chiuso a metà degli anni ‘90. Un reparto foderato d’amianto con 52 celle piene zeppe di mercurio, usato per produrre soda caustica e idrogeno: secondo le testimonianze delle tute blu, il metallo veniva raccolto con secchi e mestoli. Il gene-tista Bianca, perito di parte della procura gelese che ha aperto un’inchiesta su 12 de-cessi sospetti indagando 17 dirigenti ed ex dirigenti delle società dell’Eni che hanno gestito negli anni il Clorosoda (le accuse vanno dall’omicidio colposo alle lesioni personali gravi), ha certificato la presenza di tumori ai polmoni, all’esofago e alla tiroide, senza parlare delle malattie cardiovascolari e all’apparato respiratorio. Gli operai so-pravvissuti oggi perdono unghie e capelli, ad alcuni si sono sbriciolati i denti, probabil-mente a causa dell’esposizione prolungata al mercurio.

I padri di famiglia impiegati al petrolchi-

mico, però, non sono le uniche (e per ora presunte) vittime del “Mostro”. Centinaia di figli maschi dei gelesi sono infatti nati mal-formati, colpiti in particolare dall’ipospadia, che secondo Bianchi a Gela «risulta tra le più alte mai viste al mondo». Ma anche le donne che non hanno mai messo piede all’Eni han-no probabilità record di ammalarsi. Secondo le tabelle dell’Osservatorio, oggi anziane, quarantenni e ragazze gelesi finiscono in ospedale per tumori allo stomaco (più 25,1 per cento rispetto a chi risiede nei comuni vicini), alle ossa (più 28 per cento), alla tiroi-de (più 30), al sistema nervoso centrale (più 100,6 per cento), all’utero (più 52,6 per cento) e via elencando.

Per quanto riguarda la mortalità, impres-sionanti risultano i numeri sul tumore alla vescica (più 81,2 per cento), quelli sugli av-velenamenti (più 146 per cento) e del morbo di Hodgkin: in questo caso la percentuale è più alta del 907,3 per cento. «Non sono dati ancora pubblici, preferisco non com-mentarli nel dettaglio», premette Bianchi. «Ma di certo la situazione ambientale è pe-sante. Come a Taranto, anche a Gela servono investimenti importanti per attenuare l’in-quinamento. Oggi per motivi di congiuntura

la raffineria sta producendo meno, ma non basta. Bisogna fare di più». Per ripulire la zona dai veleni, spiegava una ricerca su costi-benefici pubblicata sulla rivista internazio-nale Environmental Health nel 2011, a Gela «i costi della bonifica ammonterebbero a circa 6,6 miliardi di euro. Una cifra molto più alta, dunque, dei fondi allocati per boni-ficare il sito». L’Eni e lo Stato, in pratica, dovrebbero sganciare altri 6 miliardi se vo-lessero ripulire il territorio.

Anche Legambiente spara a zero sull’Eni e le istituzioni. Pietro Lorefice, ex presiden-te della sezione di Gela che da sempre segue le vicende della raffineria, spiega che le sorgenti inquinanti in passato sono state tante e hanno devastato tutto. «Il polo produceva concimi chimici e polimeri, da poco hanno completato la bonifica dei fo-sfogessi, sostanze tossiche e radioattive che temo siano state in passato sversate anche a mare: l’Eni ha da poco tombato 6 milioni di metri cubi di rifiuti, che formano una collina alta una cinquantina di metri. Para-dossalmente, invece di fargli piantare un po’ di alberi, hanno permesso all’azienda di costruire sopra un nuovo impianto fotovol-taico. Peccato che nemmeno un chilowatt Fo

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il molo di Gela. a desTra: rosario CroCeTTa, ex sindaCo della CiTTà e oGGi GovernaTore della reGione siCilia

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dell’energia prodotta andrà a vantaggio dei gelesi». Secondo Lorefice, però, è soprattut-to l’uso del pet-coke ad essere ancora peri-coloso: «Si tratta di un carbone prodotto come residuo della raffinazione, che viene usato come combustibile per la vecchia centrale termoelettrica costruita vicino alla raffineria. La procura nel 2002 vietò l’uso del pet per la presenza nel carbone di zolfo in eccesso bloccando di fatto tutto il com-plesso industriale, ma un decreto del gover-

no Berlusconi ha risolto il braccio di ferro decidendo che il pet va classificato come “combustibile”. A tutt’oggi lo bruciano ancora, visto che da un punto di vista eco-nomico è molto conveniente». E visto che - come ricorda l’Eni - la Corte di Giustizia europea ha sancito che l’uso del pet-coke è del tutto lecito.

Legambiente se la prende anche con chi avrebbe dovuto controllare e difendere il territorio: «L’Arpa Sicilia ha messo qualche

centralina, niente di più. Comune e Regione si sono sistematicamente girati dall’altra parte. Rosario Crocetta? È stato sindaco per due mandati, ma ha fatto solo chiacchiere. Spero che i pm ora vadano fino in fondo, perché gli episodi su cui lavorano sono pun-tuali, ma circoscritti».

A parte ambientalisti e medici dell’am-biente, rispetto ai tarantini i gelesi sembrano meno reattivi davanti al Mostro. Se contro l’Ilva sono nate decine di associazioni com-battive, in Sicilia trionfa la rassegnazione. «Eppure», sospira la pediatra, «noi e i nostri figli continuiamo ad ammalarci. Non solo malformazioni al palato e microcefalie, ma scopriamo di continuo casi di diabete in-fantile e carenze dell’ormone della crescita. Per non parlare di aborti spontanei e infer-tilità». La rabbia è un sentimento che scatta di rado: «Le coppie interiorizzano il dramma, si colpevolizzano, infine si isola-no: qualcuno ha nascosto i figli malforma-ti persino ai nonni».

Mentre per settembre si aspettano i risul-tati delle nuove analisi sull’arsenico (tre anni fa il Cnr scoprì che il sangue del 20 per cento del campione dei gelesi era pieno di veleni, con livelli di metallo superiori anche del 1600 per cento al tasso limite: i nuovi esami - da quanto risulta a “l’Espresso” - proveranno la presenza dell’arsenico inorganico 3 e 5, quello più cancerogeno), e molti non man-giano più il pesce e le vongole pescate sulla costa, tutti guardano alle prossime mosse della procura. Che ha deciso, cosa assai rara, di essere parte nel processo civile che un co-mitato di genitori di bimbi malati ha inten-tato contro l’Eni.

Non sarà semplice ottenere i danni, visto che la connessione tra veleni e la singola malformazione è molto difficile da dimo-strare. Qualche anno fa ci provarono in sede penale i pm di Siracusa che indagavano sul petrolchimico di Priolo, ma prima dell’inizio del processo per avvelenamento fu deciso di archiviare tutto. Dopo qualche mese, però, la stessa procura annunciò che la Syndial aveva offerto 16,5 milioni di euro da girare a 180 famiglie di bimbi nati con malforma-zioni cerebrali e altre anomalie. Anche se nessuno glielo impone, l’azienda apre il portafoglio e paga come fosse direttamente responsabile. La cifra - anche se alta - para-gonata al fatturato totale dell’Eni è irrisoria: nel 2006 l’utile superò i 9,2 miliardi di euro. In Sicilia nessun dirigente del gruppo è mai finito in prigione. n

MORTALITà CAUSA UOMINI DONNE

TuTTe le cause +6,8 +12,3

TuTTi i Tumori +18,3 +21,5

Tumori infanTili +159,2 -52,7

Tumore sTomaco +47,5 +8,9

Tumore pleura +67,3 -20

Tum. sisTema nerv. cenTr. -17,4 +31,3

Tumore mammella —— +7,1

Tumore ovaio —— +14,1

Tumore vescica +9,6 +81,2

morbo di hodgkin +72,4 +907,3

mieloma mulTiplo +31,8 +48,6

malaTTie sisT. circolaTorio +14,2 +13,2

malaTTie cerebrovascol. +40,2 +33,6

avvelenamenTi + 2 +146,7 fonte: elaborazioni su dati dell’osservatorio epidemiologico della regione sicilia 2013

MORBOSITà CAUSA UOMINI DONNE

TuTTe le cause +13,9 +14,6

TuTTi i Tumori +13 +14,8

Tumori infanTili +6,1 -0,6

Tumore sTomaco +45,1 +25,1

Tumore pleura +209,1 -62,3

Tumore ossa +32,2 +28,2

Tumore Tiroide +20,5 +30,0

Tum. sisTema nerv. cenTr. +19,1 +100,6

Tumore uTero —— +52,6

Tumore TesTicolo +17,0 ——

mieloma mulTiplo +113,9 +88

malaTTie sisTema nervoso +53,1 +72,0

malaTTie sisT. circolaTorio +26,0 +41,7

asma 0-14 anni +63,3 +41,2

asma +41,4 +28,4

malaTTie appar. digerenTe +22,1 +34,2

La strage degli innocentiAnalisi della mortalità (anni 2004-2011) e della morbosità (ricoveri ospedalieri) per gli anni 2007-2011 nell’area di Gela. Differenza percentuale rispetto ai comuni limitrofi

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Attualità italia dei veleni / il caso ilva

Certo non è mai stato un senti-mentale, Emilio Riva. Qualche anno fa, ai bei tempi in cui fi-niva sui giornali come un im-prenditore abile e vincente, il

padrone dell’Ilva confessava di «affezio-narsi poco alle persone, niente alle cose». A differenza di tanti suoi colleghi indu-striali, Riva ha sempre amato esibire la sua durezza. Niente guanti di velluto, per lui. Il “rottamatt” milanese che ha fatto i miliardi conosce solo il pugno di ferro. Parole poche, ma forti. E allora, adesso,

riesce difficile credere all’immagine che l’avvocato-amico Marco De Luca cerca di proiettare all’esterno, parlando con la stampa. L’immagine di un vecchio stanco e malato, che dall’isolamento forzato degli arresti domiciliari, non riesce a ca-pacitarsi dell’accanimento di chi ingiu-stamente (dice lui) lo perseguita.

Non si dà pace, Riva, perché nessuno riconosce i suoi meriti sociali, l’aver dato lavoro a decine di migliaia di persone. «Ho sempre investito tutto nell’azienda», fa sapere a sua difesa tramite l’avvocato

De Luca. Lo dice adesso che il gruppo di famiglia, un colosso mondiale dell’accia-io, sembra arrivato al capolinea. Ci sono i sequestri miliardari disposti dalla magi-stratura. Il disastro ambientale di Taran-to con i fumi dell’Ilva che hanno avvele-nato l’aria della città pugliese. E infine le accuse pesantissime, dall’avvelenamento colposo fino alla truffa aggravata e all’in-fedeltà patrimoniale, che hanno travolto tutto il gruppo dirigente dell’Ilva, com-presi Nicola e Fabio Riva, due dei sei figli del patron. I numeri allineati nell’atto

Vediamo se almeno paga

le tAsseAnni di favori e privatizzazioni a prezzo di saldo. E un tesoro

offshore. Ora Riva va alla resa dei conti su fisco e Taranto Di vittorio malagutti

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d’accusa della procura di Milano illumi-nano però una storia diversa da quella che ora, e soltanto ora, viene proposta dalla difesa dell’indagato eccellente. I documenti raccontano di una famiglia che ha accumulato un gigantesco patri-monio all’estero prelevando miliardi dalle casse delle aziende italiane.

Un tribunale, prima o poi, dirà se dav-vero quel tesoro è stato creato frodando il fisco. Un giudice stabilirà se alcuni fi-scalisti dello studio Biscozzi-Nobili, uno dei più importanti e blasonati d’Italia, si sono resi complici di una truffa colossale. Certo è che quei complicati giochi di sponda tra holding nei paradisi offshore erano decifrabili perfino tra le righe degli stringatissimi bilanci delle società dei Riva. “L’Espresso” ne aveva scritto già a ottobre dell’anno scorso. La resa dei conti, anche col fisco, arriva solo adesso, ultima tragica mano di una partita a po-ker che si ripete sempre uguale da decen-ni. Riva contro lo Stato, un giocatore, quest’ultimo, quanto mai debole e incer-to. Si comincia nel 1994, quando l’Iri all’epoca gestita da Romano Prodi vende all’imprenditore milanese l’ex Italsider di Taranto confezionata in una nuova socie-

tà creata ad hoc, l’Ilva laminati piani. Con il senno di poi, ma forse anche di allora, il prezzo dell’affare sembra ridicolmente basso. Il compratore si aggiudica l’accia-ieria pugliese per 1.649 miliardi di lire, pari a circa 850 milioni di euro. Solo che, non appena privatizzata, l’Ilva, sgravata da 7 mila miliardi di lire di debiti rimasti in carico allo Stato, comincia a macinare profitti per decine (se non centinaia) di milioni di euro all’anno. Il copione di Taranto è andato in scena anche a Corni-gliano, l’altoforno genovese a gestione pubblica passato ai Riva nel 1988. Le proteste contro i fumi inquinanti dell’im-pianto hanno finalmente partita vinta nel 2005. L’acciaieria chiude i battenti, ma lo stop viene pagato a peso d’oro. L’impren-ditore milanese riceve come buonuscita la concessione gratuita fino al 2065 dell’area demaniale di Cornigliano, ban-chine del porto comprese: oltre un milio-ne di metri quadrati in tutto. Non è una questione solo italiana. Anche in trasfer-ta all’estero Riva ha saputo giocare al meglio le sue carte. Nella Germania est dei primi anni dopo la caduta del muro il futuro padrone dell’Ilva fa incetta di im-pianti a prezzi di saldo. Nel 1994 conqui-sta l’Eko Stahl, la più importante acciaie-ria dell’ex Ddr, a un prezzo di soli 60 miliardi di lire (poco più di 30 milioni di euro) con la ristrutturazione dell’impian-to pagata quasi per intero dal Land del Brandeburgo. Tutte scommesse vinte, da Taranto alla Germania. E nel frattempo il patrimonio personale di uno degli im-prenditori più ricchi d’Italia cresceva a dismisura, sempre prudenzialmente par-cheggiato in Paesi dal fisco leggero.

In quegli anni, mentre Riva cresce a passo di carica, pochi fanno caso a quel tesoro oltre frontiera. Sui giornali passa il ritratto di un uomo tutto casa e azienda. Burbero, ma in fondo neppure troppo antipatico. Passa sotto silenzio la favolo-sa villa di famiglia a Cap Ferrat, in Costa Azzurra, che non pare esattamente in li-nea con l’immagine ufficiale del capitano d’industria lontano anni luce da ogni mondanità. Nelle rare interviste concesse alla stampa Riva non ha mai smesso di recitare la parte dell’imprenditore che bada al sodo, allergico alle mediazioni,

ostile alle pubbliche relazioni. «Non ho mai accettato raccomandazioni e relazio-ni particolari con nessuno: sindacati, chiesa, partiti politici. Faccio soltanto l’imprenditore», tagliava corto il patron dell’Ilva rispondendo alle domande di Paolo Bricco del “Sole 24 Ore” nell’apri-le di quattro anni fa. Per la verità, grazie alle indagini della procura di Taranto, nei mesi scorsi è affiorata in superficie una realtà un po’ diversa da quella accredita-ta nelle dichiarazioni. Si scoprono tracce di pagamenti e favori a sindacalisti, preti e giornalisti. Bastone e carota. Se qualcu-no in fabbrica si ostinava a protestare, Riva sapeva bene come scoraggiare le voci critiche. Nel 1998 si scoprì l’esisten-za, all’interno dell’immensa acciaieria di Taranto, di una palazzina dove venivano confinati i lavoratori sgraditi, privati di qualunque mansione e incarico. All’oc-correnza, il sedicente imprenditore tutto d’un pezzo sapeva essere di manica larga anche con i partiti. Tra il 2006 (anno di elezioni politiche) e il 2007, Riva versa 245 mila euro a Forza Italia e 98 mila euro a Pier Luigi Bersani, destinato a di-ventare ministro dello Sviluppo economi-co nel governo Prodi.

Contributi bipartisan, regolarmente denunciati, sborsati da un imprenditore che nel 2008, quando si profila la reces-sione e anche le indagini sull’avvelena-mento dell’aria di Taranto, si decide per la prima volta a investire denaro fuori dai confini dell’attività siderurgica. Paga 120 milioni di euro per partecipare al salva-taggio dell’Alitalia, operazione voluta da Berlusconi e gestita da Intesa Sanpaolo, all’epoca guidata da Corrado Passera, che di lì a poco, questa volta come mini-stro, sarà chiamato a gestire i primi mesi dell’emergenza Ilva.

Quest’ultima avventura non ha dav-vero portato fortuna al padrone di Taran-to. La vecchia compagnia di bandiera adesso rischia di nuovo il fallimento tra perdite e debiti per centinaia di milioni. E per di più, nel marzo scorso, la holding di famiglia dei Riva ha sottoscritto per 16 milioni di euro un prestito obbligaziona-rio di Alitalia. Secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza, quei soldi arri-vavano da uno dei trust offshore di Jersey. Un altro affare che è finito nel gran cal-derone delle accuse di evasione fiscale. L’ultima mano di poker dei Riva. n Fo

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l’IMprendItore eMIlIo rIva. nella pagIna accanto: l’IMpIanto Ilva dI taranto

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Attualità Politica e affari

Toti libera tuttiHanno ceduto uno dopo l’altro vari gioielli di famiglia. E ora è la volta di Gemina. I conti in rosso dei palazzinari romani

Di gianfrancesco turano

I fratelli Pierluigi, Claudio e Stefano Toti, elencati in ordine di apparizio-ne anagrafica, si sono divisi le lauree (giurisprudenza, ingegneria, archi-tettura, rispettivamente) e i mestieri

in azienda. In comune hanno il tifo per l’As Roma e l’obiettivo di evitare che il loro business edilizio-immobiliare faccia la fine delle attività dell’ultimo grande presidente romanista Franco Sensi, divorato a pezzi e a fuoco lento dagli istituti di credito dopo essersi immolato a maggior gloria dei co-lori giallorossi. Quasi un contrappasso dantesco se si pensa che la tenuta Leprigna-na, una volta di Sensi, è finita in mano proprio ai Toti per un progetto di sviluppo che prevede ville su 120 ettari.

Nel capitolo sport l’annus horribilis cal-cistico è stato in parte riscattato dalle soddi-sfazioni sportive della società di famiglia, la Virtus Pallacanestro arrivata alle semifinali dei playoff nonostante una severa cura di-magrante sugli ingaggi. Ma se si parla di affari, la Silvano Toti deve pensare piuttosto alla salvezza che a scudetti e coppe europee.

Negli ultimi anni, i Toti hanno dovuto li-berarsi, in successione, della galleria Colon-na in centro a Roma (ottimo affare), della partecipazione in Banca Antonveneta (di-screto affare), di quella in Banca Leonardo (affaruccio), della quota comprata ai tempi della Capitalia di Cesare Geronzi e passata sotto Unicredit (affare pessimo) e del palaz-zo della Luiss ai Parioli ceduto per 117 mi-lioni con grande scorno di Francesco Gae-tano Caltagirone ad aprile del 2012. In quegli stessi giorni è stata venduta la parte-cipazione in Rcs e adesso si parla del gioiel-lino Gemina senza che la situazione finan-ziaria sia migliorata in modo sensibile. Piut-tosto il contrario (box a fianco).

Un marziano a Roma può pensare: a parte la galleria Colonna e la Luiss, che c’entra tutta questa banca e finanza con un costruttore e immobiliarista? Semplice. I

Toti si sono adeguati al modello creato da Enrico Cuccia. L’imprenditore prende soldi a prestito dalle banche delle quali, in cam-bio, diventa azionista. Oltre a questo, c’è il colore locale.

I Toti sono da decenni parte integrante di un impasto inconfondibile fatto di feste al circolo Canottieri Aniene (l’ultima a febbra-io per celebrare il presidente Giovanni Ma-lagò vincitore della corsa al Coni), di com-parsate in tribuna autorità all’Olimpico, con l’amaro calice servito dalla Lazio in finale di Coppa Italia, e di rapporti molto bipartisan che vanno dal Pd al Vaticano passando per il regista occulto della finanza capitolina di qua e di là dal Tevere, Giampietro Nattino, consultore della Prefettura affari economici della Santa Sede e azionista totalitario della holding Silvano Toti attraverso le sue due fiduciarie Finnat e Fedra.

I tre fratelli guidati dal maggiore Pierluigi, cavaliere del Lavoro dal 2003 e cavaliere della Roma dal 2005 con cerimonia officia-ta in Campidoglio dal sindaco Walter Vel-troni, rappresentano a buon diritto il declino di un modello fatto di banca e impresa in-trecciate fra loro e collegate alla politica at-traverso il canale di consenso che passa per le gradinate di uno stadio. In realtà, l’ingres-so nella Roma è stato più volte annunciato e sempre smentito. I creditori del gruppo immobiliare vedono con raccapriccio un impegno nel settore più rovinoso dell’im-prenditoria globale e, anche per questioni di bella figura contabile, hanno ottenuto che la Virtus basket venisse tolta dal controllo della Silvano Toti e piazzata sotto la più anonima Finanziaria Nord Est con intesta-zione delle azioni in mano alla solita Finnat. In questo modo si evita di aggiungere qual-che altro milione di euro di perdite ai circa 240 milioni di rosso aggregato degli ultimi tre anni.

Dopo l’arrivo degli investitori americani nel capitale dell’As Roma si è riparlato dei

Toti nella gara per l’area del nuovo stadio. Ma hanno perso contro Luca Parnasi, peral-tro loro socio nel progetto di sviluppo Bufa-lotta-Porta di Roma.

Oltre a Parnasi, i Toti sono o sono stati in affari con tutta la buona società palazzinara romana, dai Caltagirone ai Marchini ai fratelli Abete. Hanno incominciato ben prima che lo stesso termine palazzinaro ve-nisse coniato. Durante il fascismo, il capo-stipite Silvano Toti ha lavorato con l’inge-gnere Antonio Lamaro in uno dei primi progetti di case popolari. Il Clam (case La-maro affitto mite) è stato il predecessore nell’Era Fascista della legge sull’edilizia agevolata del 1962 che segnò la grande ab-buffata mattonara sul territorio nazionale e nella capitale.

Un po’ meno popolari sono i progetti in corso nell’area milanese di Citylife. I Toti sono partiti in grande stile assieme alla Fon-sai. Poi i Ligresti hanno dovuto mollare la presa e i Toti hanno limitato la loro presenza alle Torri di lusso di Citylife.

Anche a Roma, che rimane il cuore delle

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Nonostante una campagna di cessioni e di ridimensionamento generale, la situazione contabile della holding Silvano Toti resta molto critica. I dati dell’ultimo consolidato (2011) parlano di un debito netto a quota 850 milioni di euro (587 milioni verso le banche), quasi raddoppiato rispetto a cinque anni prima e con un rapporto sul patrimonio di 3,9 che è sinonimo di disastro. Nel 2012 non c’è nulla che abbia migliorato la situazione. L’operazione più significativa è stata, ad aprile dell’anno scorso, la cessione del 5,2 per cento di Rcs Mediagroup a Giuseppe Rotelli. Una classica partita da salotto buono dove, per garantire ai Toti e ai loro creditori i 53 milioni del valore di carico del pacchetto, Rotelli ha dovuto comprare a oltre il doppio della quotazione corrente di mercato. Adesso è il turno di Gemina, che nel 2010 i Toti avevano dichiarato strategica insieme, appunto, al pacchetto Rcs. La Silvano Toti custodisce il 12,8 percento di Gemina, la holding che controlla gli Aeroporti di Roma e che i Benetton, soci di maggioranza, vogliono fondere in Atlantia. Se vendessero ora a prezzi di mercato, i Toti incasserebbero 275 milioni di euro con una plusvalenza di 55 milioni di euro. Una boccata di ossigeno equivalente a un paio di anni di interessi passivi.I Benetton non hanno grande interesse, in termini di mercato, ad acquistare la quota dei Toti. Ma è molto probabile che la questione sia gestita con logiche differenti dagli istituti di credito più coinvolti nella partita Toti ossia Unicredit, azionista anche di Gemina, Intesa e Monte dei Paschi di Siena che, acquistando Antonveneta, ha ereditato anche il carico finanziario di quella banca verso i Toti. Nello stesso modo Unicredit, assorbendo Capitalia, ha ereditato l’esposizione maturata dai Toti ai tempi di Cesare Geronzi.

C’era una volta il salotto buonojordan taylor della Virtus roma ai play off. a sinistra: pierluigi toti

attività, è arrivato il momento di rivedere in modo critico una certa grandeur, la stessa che ha portato a costruire e regalare all’am-ministrazione dell’amico Veltroni, juventino ma grande aficionado della Virtus Basket, il Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghe-se, realizzato a imitazione dello storico pal-coscenico shakesperariano. O a realizzare con la Lamaro appalti il complesso parroc-chiale dedicato a José María Escrivà de Ba-laguer, allora beato e oggi santo con delega all’Opus Dei, e l’altrettanto pio Campus Biomedico di Trigoria.

Restano in piedi, fra le mille difficoltà del periodo, progetti di peso come le Torri dell’Eur, la riqualificazione dell’area degli ex Mercati Generali all’Ostiense e il Mil-lennium, un megacentro commerciale-resi-denziale sulla Roma-Fiumicino. La fiducia delle banche sarà decisiva. Del resto, appa-re obbligata. Un fine poco lieto farebbe male a tutti. n

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Reportage

io penso digitaLe La generazione Z, nata con smartphone e Internet, ha capacità di apprendimento inedite. E moltissimi problemi. Ecco qualiDi roselina salemi - Foto Di lorenzo maccotta

un bambino di sette anni digita in una piscina di roma tra una vasca e l’altra. a destra: asialena pignatti morano verneret, 2 anni, pure di roma,guarda i cartoni animati in streaming

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Reportage

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Camere connesseDurante “Ludica Milano 2013” una bambina di 9 anni gioca una partita di “Laser-tag”, guerra di tecnologia digitale con impulsi ai raggi infrarossi. Sopra: un’adolescente romana di 14 anni controlla il profilo Facebook in camera da letto. A sinistra: Anita, 10 anni, alle prese con la tecnologia nel suo appartamento nella capitale

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Reportage

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Tra bambole e iPadDall’alto a sinistra in senso orario: Michela Lucidi, 9 anni, nella sua stanza; Giovanni, 11 anni, impegnato in un videogame; una bambina di 6 anni nella sua stanza tra bambole e iPad; un ragazzo di 10 anni pure assorto in una sfida elettronica; due bambini prima dell’inizio di una partita di “Lasera-tag” alla Fiera di Milano. Tutti i bambini ritratti rientrano nella definizione di “nativi digitali puri” (va dagli zero ai 12 anni). Gli adulti tecnologici invece vengono chiamati “immigranti digitali”

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Reportage

rancesco e Valeria ricorda-no ancora con divertito stupore il giorno in cui Andrea, il loro primo figlio, che adesso ha tre anni, ha preso in mano un foglio di carta. Aveva meno di otto mesi, e con il minuscolo dito cercava di far scorrere il foglio da sinistra verso destra come in un touchscreen. Delusissimo perché non suc-cedeva niente, ha tentato di allargare la fi-gura muovendo il pollice e l’indice, cioè trattando il foglio come uno schermo. Altra delusione. Forse si stava chiedendo a che cosa serve un foglio di carta. Il fratellino Tiziano, sedici mesi, cammina appena, ma quanto a tecnologia non ha esitazioni, si dirige verso un tavolino basso, prende l’i-pad, lo sblocca e trova la sua applicazione preferita. Andrea e Tiziano sono più che nativi digitali, termine coniato nel 2001 da Marc Prensky per indicare i bambini nati e cresciuti con Internet. L’arrivo dell’iPad nel 2010 segna un’altra fase del cambiamento: la generazione touchscreen. I tablet sono grandi e luminosi, è facile usarli per colora-re e disegnare: bastano le dita. I bambini li adorano, e i genitori più critici si chiedono se questa osmosi con la tecnologia renderà migliori i loro figli o brucerà senza scampo le loro tenere sinapsi.

Andrea e Tiziano sono figli di Francesco Sacco, 46 anni, esperto di innovazione, docente dell’Università Bocconi di Milano e dell’Università dell’Insubria di Varese, co-fondatore di Impara Digitale, cooptato da Lista Civica per i temi connessi alla tecno-logia, nonché proprietario di innumerevoli gadget utili al gioco e al lavoro (penne che registrano mentre scrivi, programmi di traduzione dalla dettatura al computer). Osservando i suoi bambini, arriva alle stes-se conclusioni di scienziati come Sandra Calvert (Università di Georgetown) e Geor-gene Troseth, psicologa dello sviluppo

(Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee): «I nativi digitali stanno svilup-pando capacità e metodi di apprendimento completamente diversi. La mia generazione aveva grossi libretti di istruzioni, quella dopo molto più snelli, quella di adesso, zero. La conoscenza avviene in modo pratico e intuitivo. La tv è statica, e non permette una delle cose più importanti per i piccoli: lo scambio di informazioni. Tiziano è in grado di trovare sul mio cellulare le icone dei suoi giochi preferiti e cerca nella cronologia i filmatini dell’Uomo Ragno che gli piaccio-no. Colora sull’iPad e compone i puzzle. Nessuno gli ha spiegato niente. Certo, con-tinua a provare e riprovare, tanto che ho dovuto mettere un filtro per bloccare even-tuali danni da sperimentazione sul mio iPad, ma penso che questi bambini faranno la differenza, nel futuro saranno “makers”, produrranno da soli gli oggetti che deside-rano». Il caso Sacco è particolare. In casa sua regna la domotica. Non ci sono più te-lecomandi: televisione 3D e luci, tutto è centralizzato e regolato attraverso l’iPad.

Andrea alza e abbassa le tapparelle, mentre la tata filippina non ci riesce, e Tiziano pro-va già ad accendere la tv.

Una rivoluzione. Paolo Ferri, che insegna Tecnologie didattiche e Teoria e tecniche dei Nuovi Media all’Università di Milano-Bi-cocca, ha introdotto il termine “nativi digita-li” in Italia, ed è radicale. Noi siamo gli ultimi gutenberghiani, sostiene, in fondo non c’è stato niente di totalmente nuovo dopo l’in-venzione della stampa. Ci sono voluti cinque-cento anni. Il suo saggio, “Nativi digitali” (Bruno Mondadori), è del 2011 e sta per uscirne un aggiornamento in e-book. C’è chi agita lo spauracchio della tecno-dipendenza, ma il cambiamento va avanti. «Siamo davan-ti a un’intelligenza nata dal mutamento del contesto sociale, passato da un sistema alfa-betico-gutenberghiano a uno digitale televi-sivo», spiega Ferri.

Secondo le prime, già contestate classifi-cazioni, nella macro categoria dei “nativi”, o “generazione Z”, ci sono tre grandi aree: “nativi digitali puri” (tra 0 e 12 anni ) “mil-lennials” (tra 14 e 18 anni) e “nativi digitali

F

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spuri” (18-25 anni). Tutti gli altri, compreso il supertecnologico professor Sacco, sono “immigranti digitali”, bravissimi, ma con un handicap: sono passati dalla penna alla tastiera, arrivando ai tablet con un approc-cio utilitaristico: la tecnologia mi serve. I Digital Kids invece si divertono, hanno un’esperienza precoce degli schermi interat-tivi - videogiochi, cellulari, computer - e di Internet. Nelle loro camerette, i media digi-tali sono sempre più presenti. L’89 per cento delle famiglie usa il computer (contro il 40 del 2005), ma i numeri rendono l’idea fino a un certo punto. Ferri, che ha condot-to una ricerca su cinquanta bambini di tre classi fra i 7 e i 9 anni - c’erano da testare le app di Geronimo Stilton, il famoso e ama-tissimo topo investigatore - si è portato dietro il figlio Davide (10 anni) come beta tester e peer tutor. «È stato istruttivo», racconta, «vedere come funzionava bene il rapporto tra pari. Lui spiegava il gioco, ed era più utile di qualsiasi adulto. Confes-so che mi fa da consulente». Che cosa è venuto fuori dalla ricerca? «I bambini

considerano il mondo digitale come espan-sione di quello reale, non c’è quasi diffe-renza né contrasto, trovano normale in-teragire, inventare varianti del gioco (noi parliamo di artigianato cognitivo). Il touch si può usare in diverse posizioni, anche stando sdraiati per terra, ed è più semplice del notebook. Le piccole dita corrono veloci sulla tastiera virtuale. Mio figlio ha scelto un gioco di Spiderman su App store a 6,60 euro, e mi ha fatto capire che la console portatile rischia di essere superata: costa ed è meno comoda».

Insomma, i nativi condizionano il merca-to. Sono multitasking, in grado di distribu-ire l’attenzione su quattro-cinque dispositi-vi contemporaneamente: studiano, ascolta-no la musica, rispondono agli sms e guar-dano Facebook sul pc, senza difficoltà. To-nino Cantelmi, psichiatra, docente di Psico-logia dello sviluppo alla Lumsa, la definisce “tecnoliquidità”: si creano grandi gruppi di amici impegnati su testi diversi, che possono scambiarsi battute, mostrare foto o mail, condividere messaggi. E divertirsi. Lo studio deve essere interattivo. I genitori non li ca-piscono, proprio perché la loro mente è di-versa. E qui arriviamo alle due questioni cruciali. Prima: la tecnologia deve essere il-

limitata o razionata saggiamente? Fa bene? Fa male? Michael Rich, direttore del Centro sulla salute infantile dell’Ospedale pediatri-co di Boston, ci mette in guardia: «Molte app per bambini sono progettate in modo da stimolare il rilascio di dopamina, neuro-trasmettitore associato al piacere, per spin-gerli a non interrompere il gioco». Hanna Rosin su “The Atlantic” dedica un lungo reportage all’apprensione dei genitori che tentano di controllare l’uso dei tablet. C’è chi concede mezz’ora al giorno, chi un’ora durante il fine settimana, chi il mercoledì e il sabato, chi soltanto in aereo e durante i lunghi viaggi in auto. Marc Prensky è dell’i-dea di lasciar liberi i bambini: «Le proibi-zioni riflettono i nostri pregiudizi».

Seconda questione: che cosa succederà a scuola? «Per far transitare il sistema italiano verso il digitale servirebbero 6-9 miliardi di euro. Sembrano tanti, ma una portaerei ne costa uno e mezzo. Quanto a risorse disponibili, ce la battiamo con la Grecia, la Romania e il Portogallo. Solo il 7 per cento delle classi ha Internet. Per attrezzarne una ci vogliono quindicimila euro, per una scuola intera duecentomi-la», calcola Ferri. Eppure non si può re-stare indietro. Dice Sacco: «Che cosa fai? Prendi questi bambini e li metti davanti a una penna e a un foglio di carta? Sarebbe come se a noi avessero dato un calamaio». C’è chi si batte per rincorrere il nuovo, formare gli insegnanti, c’è chi vede scomparire un mondo. E la scrittura? L’ortografia? Ferri è quasi eretico: «Po-tremmo considerare la scrittura manua-le come il disegno.». Una cosa è certa: la differenza tra i nativi e gli “altri” sarà sempre più netta. Alla domanda ricor-rente su come riconoscere gli immigran-ti digitali, Cantelmi risponde: «Sono quelli che fanno la coda al check-in».

Roselina Salemi

Molti genitori vorrebbero vietare o limitare l’uso della tecnologia. Alcuni esperti rispondono: meglio lasciare i bambini liberi di scegliere

valerio massimo colanti, 9 anni. a sinistra: un bambino durante la festa di compleanno a “vigamus”, museo dei videogioco di roma

Mondo

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n. 22 - 6 giugno 2013

Ogni quarto d’ora in Spagna una famiglia viene sfrattata. E le autorità intendono andare avanti con questo ritmo finché si arriverà al numero di 30.034 case che le banche hanno requisito nel 2012 a chi non poteva pagare il mutuo, secondo l’Ordine dei Revisori Legali.Dietro i numeri si nascondono persone senza casa, senza lavoro e con un debito privato che è il doppio del Pil. Tanto che da gennaio sono stati più di venti i suicidi collegati agli sfratti. L’ultimo, è quello di Antonio Martiz, 42 anni, che si è impiccato a La Ñora (Murcia) il 14 maggio. Per fermare il dramma è nata la Pah (Piattaforma delle vittime dell’ipoteca), i cui membri sbarrano il passo agli agenti e impediscono gli sfratti. Da pochi mesi, la Pah ha anche copiato dall’Argentina del dopo-dittatura «el escrache», cioè la protesta davanti alla casa o all’ufficio del potente in questione. Lo sanno bene, tra gli altri, il banchiere Emilio Botin e la vicepremier, Soraya de Santamaría.Ad aprile, la Pah ha portato in Parlamento, con un milione di firme, un’iniziativa di legge popolare. Il governo conservatore del Partido Popular ha però preferito approvare una riforma più soft, che sospende per due anni gli sfratti nei casi più disagiati ma che per la Pah e l’opposizione (che ha votato contro) è «insufficiente». E la stessa Bce ha appena richiesto alla Spagna «un pacchetto di misure più ampio» per risolvere il problema. Una soluzione alternativa è quella adottata dal governo socialista dell’Andalusia: esproprio delle case alle banche se l’inquilino è a rischio di esclusione sociale e una multa fino a 9 mila euro se gli istituti di credito non riaffittano gli immobili. A Huelva, il 23 maggio, c’è già stato il primo esproprio.

Tommaso Koch

Spagna20 suicidi per gli sfratti

«Senza maggiore rispet-to verso gli operai serbi, l’inserimento di qualche capo-reparto locale al posto degli italiani e au-menti salariali, temo che questo incidente non sarà l’ultimo. E neppure il meno grave». Parla Zoran Mihajlovic, nu-mero due dell’Unione dei sindacati indipen-denti, dopo che nella fabbrica Fiat di Kraguje-vac i lavoratori hanno danneggiato una trenti-na di 500L. Col caccia-tive hanno tracciato sulla carrozzeria scritte come: “Italiani tornate a casa” e “aumenta-teci lo stipendio”. L’episodio arriva al culmine di tensioni crescenti tra azienda e tute blu. Il sindacato, di solito benevolo verso l’azienda, stavolta alza la voce: «Quanto accaduto non si può giustificare, ma a volte in fabbrica si registra un trattamento degradante verso operai già sotto forte pressione fisica e psichica a cau-sa dei ritmi serrati di produzione». Nella

fabbrica lavorano 2.400 tute blu pagate in media 320 euro netti, cifre inferiori al sala-rio medio. La responsabile delle relazioni esterne dell’azienda Aleksandra Rankovic si trincera dietro un «no comment». Nata da una joint-venture tra il Lingotto e il governo di Belgrado, nella “Mirafio-ri serba”, saranno prodotte quest’anno tra le 110 e le 150 mila 500L. Stefano Giantin

Serbia

Lotta di classe alla Fiat

GuatemalaNiente giustizia per gli indigeni

LO STABILIMEnTO DOvE SI PRODUcOnO LE fIAT A kRAgUjEvAc In SERBIA

Era già stata definita una «sentenza storica» quella che aveva condannato l’ex dittatore del Guatemala José Efrain Rios Montt, 86 anni, a 80 anni di prigione per il massacro di 1.771 indigeni Ixil (l’accusa era genocidio). Ma la Corte Costituzionale ha annullato il verdetto per vizi di forma e disposto che il processo riprenda dalla fase dibattimentale. Nessuna giustizia per gli indigeni che continuano a subire angherie e soprusi denunciati anche dalla chiesa cattolica. Le ripetute minacce hanno ad esempio costretto il missionario spagnolo padre Juan Manuel Arija a lasciare il Paese dopo 11 anni di battaglia contro le multinazionali delle miniere che, per estrarre argento, contaminano l’ambiente. In risposta ai cortei pacifici di protesta, il governo ha ordinato lo stato d’assedio e permesso l’uso delle armi contro i manifestanti. Francesca Sabatinelli

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Mondo grande crisi / la svolta

greciaanno zero

I numeri sono ancora da disastro

post-bellico. Ma il peggio pare alle spalle. Atene

vede la fine del tunnel. E rinasce

la speranzaDi feDerica bianchi Da atene

La metà dei negozi lungo i viali che si dipanano da piazza Sintagma, di fronte al palazzo rosa del Parla-mento, sono vuoti e scuri come i portafogli della gen-te. Alcune vetrine sono se-

gnate dalle tracce appiccicose dello scotch con cui fino a poco tempo fa erano attac-cati i vecchi e coraggiosi cartelli “affittasi”. Tentativi senza successo. I commercianti che hanno resistito, con i prodotti illumi-nati e gli sconti perpetui, rivendicano la propria esistenza come la conquista di una vita. Forse hanno ragione. Perfino le tre vetrine della Ferrari ai piedi del quartiere

chic di Kolonaki quest’anno hanno tra-slocato. I residenti vorrebbero farlo ma non possono: il valore delle loro case è precipitato a tal punto che il costo di acquisto di un appartamento è inferiore a quello di costruzione. Ogni vendita è un massacro. Negli ospedali ai dottori non sono più riconosciuti gli straordina-ri e ai disoccupati sono rifiutate le cure mediche gratuite.

Atene è una capitale bombardata. Ha combattuto con armi impari una guerra inaspettata durata cinque anni e l’ha persa. Il numero di chi ha ancora la forza di protestare contro le misure di austerità imposte dalla Germania e dal Fondo mo-netario internazionale si è assottigliato. La ricchezza del Paese è stata defalcata di un quarto in meno di duemila giorni. Dician-nove trimestri consecutivi di recessione. È sparita ogni traccia di denaro facile. La svalutazione interna si è compiuta.

Eppure proprio tra le macerie si intra-vedono i segni di un nuovo inizio. Con pochi soldi in tasca ma finalmente qual-che speranza di un cambiamento perma-nente. Di quel rinnovamento atteso da anni. Mentre conta ancora le perdite, la capitale guarda al domani attraverso le lenti ottimiste dei sopravvissuti. Perché è solo chi ha perso tutto che non ha paura di rischiare.

Proprio lì dove sono cadute le boutique di abbigliamento, spuntano i barroccini di souvlaki, dove con un panino da due euro

ragazzi si divertono in un nightclub di atene. a destra: il porto del pireo

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*Stima **Obiettivo �ssato dall’Unione Europea. Fonte:Eurostat

Rapporto debito pubblico/Pil della Grecia dal 2008 al 2020

2008

2009

2010

2011

2012

2013*

2020**

Debito in calo

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s Esattamente un anno fa, alla fine di maggio del 2012, “L’Espresso” dedicò la copertina alla crisi greca e ai rischi di default del Paese che avrebbe potuto travolgere anche noi

ci duri la giornata. Prezzi contenuti e mar-gini bassi, spopolano i caffè all’aperto dove, a forza di condividerla, la sfortuna è meno amara. Come ninfee nella palude della crisi, fioriscono centinaia di centri di distribuzione gratuita di beni di ogni ne-cessità - dal riso ai sandali, dalle medicine a un posto letto. La solidarietà sta avendo la meglio sulla disperazione. Xenia Papa-stavrou ha creato “Boroume, in greco “Possiamo”, con l’idea di sfruttare il web per rendere accessibili gli avanzi dei risto-ranti alle organizzazioni che ne hanno bisogno. Oggi, senza sprechi e senza soldi, il network di Boroume mette insieme 400 mila pasti al giorno. Alex Friantis, 52 anni, da proprietario di due ristoranti, villone in periferia e macchina con autista, è diven-tato Alex il nullatenente, 4 mila euro di reddito l’anno. Eppure passa le giornate a confezionare e distribuire pacchi di cibo

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Mondo

secco regalati dai greci d’America. «Siamo qui per aiutarci l’uno con l’altro», aggiun-ge Alex: «Nessuno potrà mai sconfiggere il popolo greco».

Sono sempre più numerosi coloro che concordano con lui. Il simbolico gesto di tregua è arrivato dai ministri finanziari europei un paio di settimane fa: per la prima volta dall’inizio della crisi del debi-to, dopo avere incassato dal governo la promessa del licenziamento di 15mila impiegati del pubblico impiego, i creditori hanno deciso di concedere ben due delle tranche estive dei fondi di sostegno. Il giorno successivo l’agenzia di rating Fitch ha innalzato il giudizio sul Paese da CCC a B-, ancora lontano dal livello dei Paesi virtuosi ma comunque un tantino meno peggio. La borsa di Atene guadagna da inizio anno il 140 per cento. I rendimenti delle obbligazioni decennali sono passate dal 27 al 7,9 per cento tanto che il premier greco Antonis Samaras ha annunciato che il prossimo anno la Grecia riprenderà a vendere debito.

La retorica della “Grexit”, ovvero l’u-scita di Atene dall’euro, si è trasformata in quella della “Grecovery”, della ripresa, per dirla con il volubile linguaggio dei mercati finanziari. La percezione è che i bombar-damenti stiano volgendo al termine. Che, come nazione, perché è impossibile negare che in migliaia rimarranno stecchiti sul campo, la Grecia non solo rimarrà nell’eu-ro ma ce la farà a risollevarsi.

Non tutti condividono l’eccesso di otti-mismo. «Non si può dire che, con le ele-zioni alle porte, alla Merkel non faccia comodo una storia greca di successo, e la cosa giova anche alla sopravvivenza del nostro governo», commenta Nick Malkoutzis, vicedirettore di Kathamerini, il principale quotidiano greco: «Forse il “sentiment” è cambiato. Ma dire che la ripresa dell’economia sia dietro l’angolo è prematuro». L’economia dovrebbe conti-nuare a contrarsi nel 2013 di un ulteriore 4 per cento e la disoccupazione a crescere

fino a sfiorare il 30 per cento della forza lavoro, il 65 per cento nel caso degli under 25. Chi ha potuto ha già lasciato il Paese. Secondo le stime, nel 2012 in 34 mila sono partiti per la Germania, il doppio dell’an-no precedente. Gli investimenti nel settore privato sono ancora tenuti alla larga da una burocrazia mostruosa e da un sistema giudiziario opaco. Nonostante la task force europea, la lotta all’evasione fiscale non ha raggiunto il successo sperato. Il settore bancario dovrebbe terminare la ricapitalizzazione alla fine dell’estate ma ci vorrà ancora un semestre perché ripren-da a prestare denaro ai piccoli imprendi-

tori e alle nuove iniziative.Eppure, come una vedova che ha smes-

so il lutto, la si può ricominciare a guarda-re questa Grecia stanca, se non addirittura a corteggiare. C’è chi ne ha già approfitta-to. Hellenic Petroleum, la principale raffi-neria petrolifera del Paese, e Frigoglass, un’azienda privata che fornisce contenito-ri frigoriferi a clienti del calibro di Coca Cola, hanno emesso le prime obbligazioni aziendali del dopocrisi rispettivamente a un tasso dell’8 e dell’8,25 per cento. Sono andate a ruba. Se il settore bancario sarà lento nel riprendere la sua funzione credi-tizia «esploderà il numero delle aziende

È booM di borsa, non si parla più

di uscita dall’euro e il paese torna sui Mercati finanziari 2008

2008 2009 2010 2011 2012 2013*

2012 2013*180

200

220

240233,2 -0,16

0

-3,25-3,52

-6,91

-6,0

-4,0

193,8

183,5

Prodotto interno lordo (miliardi di euro) Variazione del Pil (%)

I° quadrimestre42,3

I° quadrimestre45,4

Balzo all’indietro del deficit

la cancelliera tedesca angela merkel e, a destra, il ministro delle finanze greco yannis stournaras.

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La primavera è stata particolarmente mite in Grecia. Ma l’estate si annuncia come la più torrida degli ultimi anni. Un’estate da record, soprattutto per il numero dei turisti in arrivo che dovrebbero uguagliare, se non superare, i volumi del 2008, l’anno del boom prima della crisi. Tra giugno e settembre potrebbero sbarcare quasi 17 milioni di uomini e donne in bikini. «L’anno scorso chi aveva paura che i greci avrebbero assunto un atteggiamento negativo con i turisti si è dovuto ricredere», spiega Andreas Andreadi, il numero uno di Sete, il principale organo turistico greco. Adesso è tornata la fiducia in un Paese dove il turismo impiega un abitante su cinque. E con la fiducia dovrebbe arrivare circa un 20 per cento di turisti inglesi e russi in più e un 15 per cento addizionale di tedeschi, francesi e scandinavi. Per gli austriaci la Grecia è addirittura diventata la destinazione preferita. «Il clima quest’anno è molto positivo», commenta un’entusiasta Anna Anifanti, direttrice dell’Associazione ellenica delle agenzie turistiche: «Il motivo è che la grande incertezza sul destino della Grecia si è oramai dissipata e i greci hanno smesso di lamentarsi». Il Paese è ora percepito come più “sicura” dell’Egitto e, secondo Sete, perfino più stabile di Spagna e Italia. Così rispetto all’anno scorso sono stati acquistati un milione di biglietti aerei in più che dovrebbero controbilanciare un turismo interno ancora molto debole, dimezzato rispetto al 2008. La vera novità dell’estate 2013 saranno i turchi: in circa 200 mila dovrebbero affollare non solo le isole ma anche la capitale. Atene, in particolare, sta vivendo un momento magico. Sarà l’esotismo della crisi, la raffica di articoli che hanno affollato le prime pagine dei giornali degli ultimi anni, i prezzi in calo, ma quest’estate la capitale greca potrebbe ricevere oltre 300 mila turisti in più del solito. E poi ci sono le crociere: un vero boom, anche se non portano particolare ricchezza nei porti dove sostano le navi. Tranne alcune eccezioni nelle isole trendy come Santorini, Mikonos, Rodi e Creta, il problema rimane proprio la spesa pro capite. Ostinatamente bassa. E un calo dei prezzi medio di circa il 15 per cento causato dalla svalutazione interna del Paese farà sì che difficilmente i ricavi supereranno quelli del 2011. Per questo motivo a essere particolarmente corteggiati sono i turisti russi (quest’anno dovrebbero raggiungere il milione) e cinesi (circa 70 mila, ancora pochi, ma in drastico aumento rispetto ai 15 mila di cinque anni fa), considerati i Paperoni del momento, con una capacità di spesa compresa tra gli 800 e i mille euro a testa rispetto a una media di 640 euro per i turisti delle altre nazionalità, canadesi e americani inclusi. Il principale intoppo restano i visti d’ingresso che vengono rilasciati con il contagocce da un Paese che, economicamente sfinito, non intende lasciare spazio all’immigrazione clandestina. F.B.

greche che ricorrerà alle obbligazioni aziendali per raccogliere fondi», spiega dalla periferia della capitale il neo ammi-nistratore delegato di Frigoglass Torsten Tuerling: «Gli investitori sono incoraggia-ti dal fatto che rispetto a un anno fa la si-tuazione è molto cambiata. Allora c’erano rivolte, lacrimogeni e caos. Adesso un governo credibile e pace nelle strade. Allo-ra gli investitori ci chiedevano solo dei nostri piani per l’uscita dall’euro. Adesso delle strategie di crescita».

Perfino la glaciale cancelliera tedesca Angela Merkel comincia a parlare di fon-di per la ricostruzione. Nell’effervescen-

*Stima**Stima Eurostat2008

2008 2008 2009 2010 2011 2012 2013**2009 2010 2011 2012 2013*

2012 2013*180

200

220

240233,2 -0,16

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-3,25-3,52

-6,91

-6,0

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-15,6

-10,7-9,5

-10

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303

8

23

64

27

-4,0

193,8

183,5

0

Prodotto interno lordo (miliardi di euro) Variazione del Pil (%)

I° quadrimestre42,3

I° quadrimestre45,4

De�cit (%) Debito (in miliardi di euro) Disoccupazione (in %) Disoccupazione giovanile (in %)

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7,5

15,0

22,5

30,0

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35

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2502008 2008 2013 2008 20132012

275

300

325

Tutti in riva all’Egeo

Turisti in arrivo Anno Arrivi2007 15.165.2652008 15.938.8062009 14.914.5372010 15.007.4932011 16.427.2472012 15.517.6222013 (stima) 16.500.000

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Mondo

tesettore dell’high tech sono già arrivati: l’Europa si impegna a raddoppiare le cifre raccolte dagli invetsitori privati. Per le in-frastrutture pubbliche, quei ponti e quelle autostrade che dovrebbero facilitare la crescita dell’industria manifatturiera e l’arrivo di investimenti esteri, sono in cammino. L’Occidente non vuole lasciare campo libero alle avances di russi e cinesi che stanno già valutando le loro opzioni nell’ambito del programma di privatizza-zioni imposto dall’Europa. Dopo aver piazzato a fatica un terzo delle quote del gestore pubblico delle scommesse Opap a un consorzio di acquirenti a lui vicini (per lo più a un prezzo considerato troppo basso dall’opposizione di sinistra), il pre-mier Samaras starebbe ora in una posizio-ne migliore. Sul tavolo c’è la vendita ai russi della Gazprom della società pubblica del gas Depa, sempre che la Ue la autoriz-zi. Intanto il mese scorso è volato in Cina per convincere Pechino a investire oltre che nel porto del Pireo anche nelle ferrovie e nell’aereoporto Venizelos di Atene.

Quest’anno se il Paese riuscirà, come sembra, a raggiungere la parità di bilancio al netto degli interessi sul debito, licenzia-menti nel pubblico a parte, non ci sarà bi-sogno di ulteriori misure di austerità. In alcuni settori, come quello immobiliare, le tasse scenderanno. «I valori delle case sono crollati del 50-70 per cento di pari passo con il denaro nero in circolazione: un feno-meno che accade solo in tempo di guerra», racconta Kosmos Theodorides, nel suo ufficio della Polis Realty a Kolonnaki: «Ma io ho aperto sette nuove agenzie dal 2007 ad oggi. I margini non sono quelli di prima, negli uffici niente lampade Guzzini. Però il mercato si sta stabilizzando. E da quest’au-tunno inizierà il tempo dei buoni affari».

A intercettare l’atmosfera di possibilità è stata anche Andria Mitsakos, scintillante pierre globtrotter di origine greca, che ad Atene ha trasferito da New York la residen-za e da Milano la piccola produzione di accessori in pelle. «A chi ha soldi e talento la Grecia offre infinite possibilità», raccon-ta avvolta in un foulard di seta davanti alle sue finestre che incorniciano il Partenone: «Il segreto è produrre qui, dove tutto costa poco e la manodopera è abile, e poi vende-re all’estero. L’Atene di oggi è come la Pari-gi degli Anni Venti». Alla ricerca di ogni scusa per dimenticare. Festeggiare. Rico-minciare. n

Alexandra e Nikos, fidanzati, sono il volto del successo della Nuova Grecia. Trentenni, bel-li, dinamici. Lei ha lasciato un lavoro nella finanziaria greca

Marfin, ben pagato ma «troppo statico», per coordinare la parte commerciale di Taxibeat, la start up greca più cool del momento. Lui si è dimesso da Upstream, la ormai ex start up di strategie di marketing su telefoni portatili, dove aveva lavorato sette anni, per fondarne con il compagno di scrivania una tutta loro, Workable.

A unire Alexandra e Nikos è quell’entu-siasmo quasi infantile di chi sente di essere all’inizio di qualcosa di grande. E quel qualcosa qui ad Atene è la nascita inattesa di un distretto high-tech destinato a dare uno scossone alle abitudini mentali e alle tradizioni decennali di un popolo conser-vatore. «I greci sono sempre stati piccoli imprenditori», racconta Nikos Moraitakis nella caffetteria del suo ufficio in periferia: «Il negozio, la bottega, il lavoretto. Ma non hanno mai osato pensare in grande. Questo è il momento di creare imprese nuove. Questo è il momento di lanciarsi».

La mancanza di prospettiva per una carriera attraente all’interno di grandi im-prese, il tradizionale percorso pre-crisi di ingegneri e programmatori, e la necessità di investimenti iniziali molto contenuti hanno dato avvio nell’ultimo triennio a un vero e proprio boom di start up in questa Attica Valley. «Se fino a tre anni fa era molto dif-ficile racimolare 25mila euro per lavorare a un prototipo adesso se hai una buona idea è facilissimo trovarne 50 mila tanto per iniziare. E se poi il prototipo funziona non è difficile ottenere un’altra tranche da 200

mila euro», spiega nel suo ufficio di Mona-stiraki George Tziralis, nemmeno quaran-tenne e con “Openfund 2” già uno dei maggiori venture capitalist della città: «Or-mai ci sono in giro circa 60 milioni di euro da investire nel settore. E più concorrenza tra venture capitalist di quella che vorrem-mo». Attenzione poi a cercare un buon programmatore o un ingegnere informati-co: o sono all’estero rincorrendo alti gua-dagni o sono tutti al lavoro. Introvabili. L’high-tech è forse l’unico settore greco a disoccupazione zero.

Ingegnere per formazione, Tziralis aveva provato a lanciare una sua start up qualche anno fa. Fallito il progetto - ma guai a con-siderare il fallimento come un concetto negativo - ha capito che la sua vocazione era quella di individuare potenziali prodot-ti di successo, trovare i finanziamenti per realizzarli e aiutarli a crescere. Così è stato uno dei primi a riconoscere un paio di anni fa in Taxibeat, l’idea dell’imprenditore quasi-cinquantenne Nikos Drandakis, un prodotto vincente. «Ho studiato ingegne-ria ma per anni mi sono occupato dell’a-zienda di calzature di famiglia», spiega Drandakis nel suo ufficio di Monastiraki, nel cuore della capitale, sorseggiando un

nasceattica Valley

La crisi ha aguzzato l’ingegno. E nell’high-tech si contano decine di

startup: una scommessa sul futuroDi feDerica bianchi Da atene

nel settore ci sono sessanta Milioni da inVestire. e i gioVani

si buttano: “per Vincere dobbiaMo

pensare in grande”6 giugno 2013 | | 73

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frappé in jeans e maglietta: «Quando poi è fallita a causa della concorrenza cinese e di nostri errori personali mi sono butatto nell’informatica». Erano gli anni Novanta. Da allora ha lavorato prima in azienda e poi da solo, come consulente informatico, blogger e visiting professor di social media all’università di Atene. «Ero alla ricerca di un’attività tutta mia», racconta adesso. L’idea è nata più o meno in famiglia. Il fratello, tassista, da sempre si è lamentava dei radio taxi, costosi sia per i tassisti che per i passeggeri. Trovare un tassista, uno cortese poi, non è mai stato semplice in Grecia. L’avvento degli smartphone ha fornito la soluzione e ha sbaragliato le al-ternative, mettendo in contatto diretto utenti e tassisti tramite la tecnologia gps. Testata con successo sul mercato greco dove già produce utili, oggi l’applicazione per smartphone ha raggiunto Rio de Janei-ro, San Paolo, Parigi e questo mese sarà lanciata a Città del Messico. Avrebbe volu-to sbarcare anche a Milano ma non ha trovato «un referente locale che mi convin-cesse, che potesse garantirmi la sua comple-ta dedizione al progetto». Sguardo mite, ma temperamento deciso, Drandakis ha le idee chiare e guarda lontano: «Con la nostra tecnologia potremo rivoluzionare non solo questo settore ma tanti altri ambiti. Voglio far crescere la nostra società e non vender-la al primo acquirente». L’ambizione vera è la quotazione in Borsa, una volta che ci saranno le condizioni di mercato.

Taxibeat funziona perché risolve un problema a cui la gente aveva semplicemen-te finito per abituarsi, un caso frequente nei paesi dell’Europa del Sud. «Il primo van-taggio competitivo della Grecia è che essen-do una nazione con un’economia vicina sia a quella dei Paesi sviluppati sia a quella dei Paesi in via di sviluppo riesce a interpretare i bisogni di entrambi», spiega Tziralis: «Il secondo è il sistema educativo: per materie dove occorre solo studiare è ottimo, nono-stante tutte le critiche di oggi».

Il successo di Taxibeat ha stimolato l’in-teresse di banche e investitori privati e of-ferto terreno fertile a decine di nuovi im-prenditori in erba. «Quando lavoravo all’Oreal non riuscivo mai ad avere il tempo per prenotare una visita medica specialisti-ca», racconta Elefteria Zurou, 30 anni: «Alla fine, come al solito, era mia madre che doveva farsene carico». Da qui l’idea di una piattaforma virtuale che in un Paese disorganizzato come la Grecia facilitasse un incontro più facile tra pazienti e dottori e, al tempo stesso, permettesse una valuta-zione delle prestazioni erogate. «“Docto-ranytime” è un’attività imprenditoriale, certo», continua Zurou che nell’azienda ha investito i suoi risparmi di giovane profes-sionista: «Ma è anche un’attività di utilità sociale. Un passo in avanti nella moderniz-zazione della Grecia e nella semplificazione della vita dei suoi abitanti».

Non per tutti gli Zuckerberg in erba gli inizi sono stati semplici. E non è solo que-

stione di coraggio. Il ministero dell’Istruzio-ne non ci pensava proprio ad accettare le dimissioni di Alex Christodoulou, profes-sore di informatica, 36 anni, quando decise l’anno scorso di cambiare vita e dedicarsi a “Locis”, un’applicazione che aiuta i turisti a trovare luoghi e locali in sintonia con i propri gusti grazie alle indicazioni degli abitanti locali. Il gesto non aveva preceden-ti. Ci sono voluti mesi per capire che faceva sul serio. A quel punto è arrivata la contro-proposta: «Almeno fatti licenziare così la tua posizione diventa una di quelle che l’Europa ci ha chiesto di tagliare». n

LA sede di tAxibeAt Ad Atene. sotto: iL FondAtore deLL’AziendA HigH-teCH niKos drAndAKis

6 giugno 2013 | | 75 Se ne parla su www.espressonline.it

O la va o la spacca, il rischio di Hezbollah

La rivolta contro il regime di As-sad in Siria minaccia di indebo-lire la posizione strategica di Hezbollah e ciò sembra aver portato l’organizzazione a deci-

dere che l’offesa è la miglior difesa. Così ha destinato migliaia di uomini a combattere a fianco delle forze di Assad, ha rovesciato il governo in Libano e ha minacciato Isra-ele con l’apertura di un fronte sul Golan. È una strategia che mira a rafforzare il regime di Assad, controllando l’opposizione poli-tica interna e utilizzando deterrenti per impedire a Israele di agire. Resta da vedere se la strategia produrrà dei risultati o se invece non farà altro che sollecitare le risor-se dell’organizzazione fino a un punto di rottura. È chiaro, in ogni caso, che gli Hezbollah considerano quello attuale un momento in cui o la va o la spacca.

Nei primi mesi della rivolta siriana, quando la reazione del regime alle pacifiche dimostrazioni a favore delle riforme è stata una brutale repressione, agli Hezbollah è convenuto non sostenere apertamente il governo in uno scontro contro un movi-mento che s’inquadrava nella “primavera araba”. La trasformazione della crisi siria-na in un conflitto armato, l’emergere nell’opposizione di gruppi legati ad al-Qaeda come Jubhat al-Nusra e il sostegno che l’opposizione ha saputo raccogliere presso i Paesi del Golfo, la Turchia e l’Oc-cidente hanno offerto invece all’organizza-zione una giustificazione davanti all’opi-nione pubblica e quindi la possibilità di intensificare l’impegno in Siria. Viste le nuove circostanze, Hezbollah non starebbe interferendo in una lotta al cui centro c’è la democrazia, ma contrastando gruppi jiha-disti stranieri affiliati ad al-Qaeda e la loro minaccia di conquistare la Siria e il Libano.

Il recente attacco aereo israeliano su Damasco ha rafforzato questa teoria. Se-condo Sayyed Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah, l’attacco israeliano dimo-strerebbe che la ribellione armata contro il regime di Assad è allineata con un “com-

plotto sionista” contro l’“Asse della Resi-stenza” formato da Siria, Iran e Hezbollah.

L’attacco israeliano, il cui obiettivo erano alcuni sistemi missilistici iraniani destinati apparentemente a Hezbollah, ha colpito anche una posizione della guardia presi-denziale siriana. Gli israeliani, rimastati fi-nora in generale neutrali rispetto al conflit-to siriano, hanno con questo attacco tra-smesso un severo avvertimento al regime di Assad riguardo a possibili trasferimenti di sistemi di batterie antiaeree e di qualsiasi altro tipo di arma di distruzione di massa agli Hezbollah. Il regime di Assad ha detto che avrebbero risposto «nei tempi e con le modalità di sua scelta». Nasrallah invece è passato all’offensiva dichiarando che, co-me risposta all’attacco, la Siria avrebbe portato avanti la consegna a Hezbollah di sistemi di armamento d’importanza critica «in grado di rovesciare l’equazione milita-re». Il Golan, una zona tranquilla negli ul-timi quattro decenni, starebbe per diventa-re, ha affermato inoltre Nasrallah, teatro di azioni di resistenza. Nel Golan sono già avvenuti degli scontri armati e se la Siria dovesse davvero tentare di consegnare a Hezbollah armi in grado di ribaltare lo scenario, il rischio è che ciò si trasformi in una miccia per una guerra con Israele.

La strategia di HezboLLaH rispetto a Israele consiste in una calcolata combinazio-ne di bluff e deterrenza. L’organizzazione non vuole dare a Israele l’impressione di es-sere debole o vulnerabile e vuole trarre un vantaggio propagandistico dal mostrarsi

pronta ad affrontarlo. Al tempo stesso, però, non può permettersi una guerra totale con-tro Israele mentre è impegnata su un altro fronte a difendere il regime di Assad. È un gioco di mosse sottili molto pericoloso che potrebbe portare facilmente alla guerra.

Negli ultimi due anni, Hezbollah ha partecipato in Libano a un governo che si era “dissociato” dal conflitto siriano come linea ufficiale. Contribuendo a deporlo a marzo, Hezbollah ha invece abbandonato ogni parvenza di dissociazione. Ciò ha sbriciolato quel che di terreno comune re-stava tra le fazioni politiche libanesi. Il Li-bano è ora politicamente alla deriva: i principali partiti non sono in grado di tro-vare un accordo su una legge elettorale, su una data per le elezioni o sulla formazione di un nuovo governo. Nel frattempo, l’im-pegno di Hezbollah in Siria sta acuendo le tensioni settarie. Gli scontri tra quartieri sunniti e alawiti a Tripoli, che hanno pro-vocato morti e feriti, minacciano di esten-dersi a vaste aree della città settentrionale.

aLL’iNterNo deLLa stessa comunità degli Hezbollah, il numero in costante au-mento dei giovani sciiti libanesi sacrificati in Siria, invece che nella prima linea contro Israele, sta creando malessere. La presa di Hezbollah sulla comunità resta tuttavia ben salda. Nasrallah è riuscito a convincere la maggioranza dei cittadini che se Hezbol-lah e i suoi alleati non sconfiggono gli jihadisti sunniti radicali in Siria, potrebbero ritrovarseli in Libano a perseguire la comu-nità sciita.

Il regime di Assad è stato di aiuto per gli interessi di Hezbollah per molti anni. Ora che il regime vacilla, gli Hezbollah sono stati costretti a impegnarsi direttamente in Siria per mantenere in piedi il ponte strate-gico con l’Iran. Tuttavia, inimicandosi a morte la maggioranza sunnita siriana e affrontando al tempo stesso Israele, la Turchia e buona parte del mondo arabo sunnita, Hezbollah potrebbe stare facendo un passo più lungo della gamba.

traduzione di Guiomar Parada

Sostenere Assad per tenere in piedi

l’asse con Siria e Iran. Ma la strategia

di Nasrallah irrita il mondo arabo

sunnita. E Israele

Paul Salem Senza frontiere

Mondo

Cultura

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n. 22 - 6 giugno 2013

Doveva essere un appuntamento festoso: una stella internazionale della danza come Sylvie Guillem, quarantotenne, francese, scoperta giovanissima dal grande Nureyev (considerata così importante che, quando nel 1989 si trasferì da Parigi a Londra, ci furono interpellanze parlamentari) accetta di debuttare in un titolo di Forsythe, “Steptext”, con Maggiodanza di Firenze. L’istituzione da tre anni è

diretta da Francesco Ventriglia, 35 anni, coreografo ex scaligero. L’appuntamento, dal 10 al 13 giugno al Comunale, è confermato, ma le campane suonano a morto perché la compagnia è destinata a chiudere i battenti. Lo ha deciso il commissario straordinario della Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino, Francesco Bianchi, pur definendo la decisione «dolorosissima», per far tornare i conti, ora in rosso, della Fondazione. Difficile trovare margini di trattativa. Funerale con la banda, dunque, per una istituzione che nel secondo Novecento ha scritto la storia della danza

in Italia ed ha avuto per direttori Evgenij Poljakov, Carole Armitage, Vladimir Derevjanko. La protesta di danzatori è dilagata in ogni modo, dai social network a un Flash Mob che ha raccolto la solidarietà di moltissimi domenica 26 maggio, in piazza della Repubblica a Firenze. Il programma della serata permette di capire il livello di qualità cui sono arrivati i fiorentini: “Quattro temperamenti” (Hindemith) di Balanchine; le Sechs Tanze (Mozart) di Kylan , “Le Noces” (Stravinsky) di Foniadakis e appunto “Steptext” su musica di Bach. Sergio Trombetta

DanzaSylvie Guillem canto del cigno

Imperdibile il Festival delle Colline Torine-si, rassegna di ricerca e non solo, che dall’ 1 al 21 giugno (festivadellecolline.it) presenta diciotto spettacoli, uno per ogni anno di vita. Due anteprime assolute: “Gratte-Ciel” e “A questo mondo perfetto”; il primo, sogni e delusioni tra Primavera araba e colonialismo, di Sonia Chiambretto con regia del francese Hubert Colas; il secondo, mistica proiezione di foto di Alex Majoli, con musiche dal vivo di Fabio Barovero. In prima europea l’attesissimo lavoro dei Motus “Nella tempesta”, e tante prime nazionali. “Rooms for error” da Cechov dell’intimo e destabilizzante Teatro nelle case di Cuocolo e Bosetti, da Berlino l’esi-larante e inquietante “B Science Fiction performance, Money- It came from outer space” di Chris Kondek e Christianne Kühl, dalla Tate la lezione spettacolo della tedesca Hit Steyerl e il libanese Rabuh Mrouè, “Zero Probability”, sulle stragi dimentica-te della guerra civile in Libano.

Fibre Parallele con “Lo splendore dei supplizi” guarda al nostro stato di colpevo-li costretti a un castigo incorporeo, Fanny ed Alexander in “Discorso Giallo” si occu-pano della tv pedagogica dal maestro Man-zi alla De Filippi, e ancora “Ferocemadre-

guerra”, progetto sperimentale sul concet-to di dolore, e il rumeno Jocuri in “Curtea din spate” sul testo dell’israeliana Edna Mazya ispirato a uno stupro. Anche le ri-prese sono di grande interesse con “SPAM” del geniale argentino Spregelburd con il giovane Gleijeses, Guidi e Montanari in

“Poco lontano da qui”, i Ricci/Forte in “Imitationofdeath”, l’installazione perfor-mance “Eco” di Schino, “Biografia della peste”per la regia di Tarasco, “Li Lingua Imperi” di Derai e “The dead” da James Joyce dei forlivesi di Città di Ebla.

Anna Abate

ravasi spiega l’arte di dio | cuore italiano a berlino | J’accuse de monticelli | amore e morte a pompei | noir d’estate

Festival di teatro

sul palco in collina

UN’IMMAGINE DI “THE DEAD” DI jAMES joyCE DI CITTÀ DI EBLA, GRUPPo DI TEATRo DI FoRLÌ

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In prIncIpIo fu

l’Arte

Cultura

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La Santa Sede ha un suo padiglione alla Biennale di Venezia. Dal titolo che riprende le prime parole della Bibbia. E qui il cardinal Ravasi spiega le ragioni e le speranze del progettoDi alessanDra mammì

Roma,14 maggio: Gian-franco Ravasi, cardi-nale nelle inedite vesti di commissario, pre-sentando il padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia av-

verte: «Questo è solo un germoglio, non un albero forte di rami e radici». Ma la sala stampa vaticana, colma di giornali-sti d’ogni nazionalità pronti a racconta-re il debutto della Santa Sede nell’arte contemporanea, è prova vivente che più che un germoglio, il sacro padiglione sembra uno di quei «piccoli passi per l’uomo ma balzo per l’umanità». O, senza esagerare, un piccolo balzo limi-tato alla parte creativa e cattolica dell’umanità. Perché non è un mistero che Arte e Fede dopo secoli di appas-sionato amore abbiano divorziato da tempo e ormai non si parlano quasi

più. Da quanto tempo è difficile dirlo, ma di sicuro le incomprensioni già cominciano con le avanguardie stori-che e i disarmonici volti cubisti o le distorsioni espressioniste che lasciano perplessi clero e fedeli (e le opere fuori dalle chiese). Del resto, si chiesero i cattolici: se l’arte non insegue il bello e non celebra l’armonia del creato come può entrare nel tempio di Dio? Non ci entrò più infatti se non in modo episodico (la cappella di Vence di Ma-tisse, quella di Rothko a Houston nel Texas o i neon di Dan Flavin nella Chiesa Rossa di Milano). E il rapporto dell’arte contemporanea con la Chiesa prese più che altro derive sarcastiche, se non blasfeme (dal papa Wojtyla colpito da un meteorite di Cattelan alla rana crocefissa di Kippenberger).

Ma il germoglio che pianta Ravasi non vuol essere episodico. Nasce da una preoccupazione da tempo sentita dalle menti più illuminate, a comincia-re da Paolo VI che già nel 1973, nel discorso che inaugurava la collezione moderna dei Musei vaticani, si chiede-va: «L’arte religiosa è frutto d’altra e ormai sorpassata stagione dello spirito umano oppure può esserlo anche di questa nostra moderna stagione? È possibile un’arte religiosa attuale, mo-derna, figlia del nostro tempo e gemel-la dell’arte profana che ancora assilla e incanta l’occhio e anche lo spirito dell’uomo del nostro secolo?»

Già quarant’anni fa accanto alla nostalgia del Michelangelo della Sisti-na, del barocco tutto, dell’unità di in-tenti tra arte e Chiesa e di quel-l’«incantesimo tra i più suggestivi e stimolanti dell’umana civiltà» (ancora Paolo VI), si intuiva la preoccupazione per l’effetto «stridente» (l’aggettivo è di Ravasi) che colpisce occhi e senti-

mento alla vista di candide e minimali chiese firmate da grandi archistar, ma poi arredate da parroci che le impu-pazzano con vetrate, madonne e pre-sepi di artigiani locali. Non è questione di gusto. È la stessa leadership cultu-rale della Chiesa che quell’effetto «stridente» mette in discussione. Ra-vasi, in qualità di presidente del Pon-tificio consiglio della Cultura, lo sa bene. Sa che «il culto cattolico, a dif-ferenza di quello protestante, ha un apparato indispensabile allo spazio sacro. Ha bisogno di altare, battistero, tabernacolo e di uno spazio costruito secondo leggi di funzionalità acustica perché tutto questo è necessario tanto all’area sacra che all’assemblea dei fedeli». Sa che nelle chiese ci si aspetta la rappresentazione di immagini, rac-conti, volti e umane vicende perché,

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Cultura

come lui stesso dice, «la narra-zione è strutturale al cristiane-simo che ha come centro l’incar-nazione. Dio che di sua natura è eterno e trascendente, si fa storia e muore».

Ma sa anche che la strada per ricucire un dialogo è tutta in salita. A cominciare dal rappor-to con l’artista che non è più pittore, scultore ed esecutore di messaggi altrui. Ma è creatore assoluto di forme e di linguag-gio, almeno dal giorno in cui Duchamp, firmando un orinato-io, lo trasformò in opera d’arte. Difficile piegare questo signore, abituato a essere libero fino all’a-narchia, alle esigenze del culto. Difficile immaginare che lavori come i suoi antenati controrifor-mati con il protocollo iconogra-fico dettato dai manuali degli ordini ecclesiastici. Del resto, simmetri-ca e contraria è poi la diffidenza del clero «dovuta» racconta Ravasi, «a una educazione e formazione, compresa la mia, troppo preoccupata a tutelare il passato peraltro ricchissimo che a capi-re i nuovi linguaggi».

Da qui una diffidenza verso un’arte priva di iconografie certe, costruita con tecniche poco tradizionali e peraltro costosissima. Tutti argomenti che fan-no partire un fuoco amico contro og-getti troppo stravaganti per l’opinione del clero comune. Opere voluttuarie che distolgono il denaro da opere di bene e di carità, quelle sì necessarie e missione primaria della Chiesa. «Ma il

povero non ha diritto alla bellezza? Non ha diritto ad accedere a un tempio degno che parli anche i linguaggi della sua quotidianità? C’è un proverbio in-diano che recita: “Se hai due pezzi di pane, uno dallo ai poveri. L’ altro ven-dilo per regalare due giacinti ai poveri”. E in India la povertà sanno molto bene cosa sia», dice il cardinale mentre i suoi più stretti collaboratori, a cominciare dal professor Antonio Paolucci (qui curatore del padiglione) e dai direttori esecutivi (Micol Forti e Pasquale Iaco-bone), spiegano che neanche un euro dei 750 mila spesi per la Biennale è uscito dalle casse del Vaticano. Tutto è stata reso possibile dalla generosità

degli sponsor. Ma in fondo taci-tare la polemica demagogica e poverista è facile. Basterebbe ricordare quanto ogni giorno rende al Vaticano la sola Cap-pella Sistina. Ben più duro sco-glio invece è quello che riguarda l’autonomia dell’artista. Perché all’interno di una Chiesa, l’arti-sta del tutto autonomo non può essere ma se non è del tutto au-tonomo tradisce lo spirito stes-so della contemporaneità che lo vuole intellettuale e non artigia-no, innovatore e non esecutore.

Che fare? Il cardinale risponde: «Pre-metto che le opere presentate a Venezia non sono esempi di arte liturgica. Non sono state eseguite per essere collocate in un’abside o decorare un altare. Sono lì per aprire una nuova possibilità all’interno del culto stesso. Un inizio di dialogo. Un germoglio, appunto. Per questo non si è voluto puntare sull’ico-nografia. Non abbiamo detto “il tema è il crocefisso o l’immagine della Ma-donna”. Né indicare dei simboli come Luce o Acqua perché vedevo in agguato un rischio new age. Ho scelto come punto di incontro un testo: la Genesi, i primi undici capitoli della Bibbia dedi-cati al mistero delle origini, all’ingresso

“Le opere presentate

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del Male nella storia, alla speranza e ai progetti degli uomini dopo la devasta-zione simbolicamente rappresentata dal diluvio. Il testo sacro come compo-nente fondamentale dell’esperienza religiosa e grande codice dalla cultura occidentale. Un tema religioso che ac-coglie domande universali. E un titolo emblematico “In principio”».

Un principio, appunto. Un diverso piano di confronto. Dove non si chiede più un’arte devozionale, finalizzata a commuovere e indurre alla preghiera i fedeli ma una risposta intellettuale,

carica di contenuti esistenziali e con-sapevole degli sconquassi che agitano il nostro mondo. Un racconto in tre scene. Atto primo: «la Creazione che prende forma tramite la Parola nel soffio dello Spirito generando tempo, spazio e ogni forma di vita». Atto se-condo: «De-creazione: la contrapposi-zione dell’uomo al progetto di Dio attraverso forme di distruzione etica e materiale». Atto terzo.«Ri-Creazione: la nuova umanità e la speranza di una creazione rinnovata». Così illustra il cardinale i suoi temi insistendo che la

spiritualità è parte del processo creati-vo contemporaneo.

E racconta di quando Benedetto XVI (altrettanto convinto della necessità di recuperare quel visivo braccio secolare che tanto diede alla Chiesa nei secoli passati) si fermò incantato di fronte a un’opera di Kounellis in mostra ai Musei Vaticani. Un attaccapanni anni Trenta su cui è appeso un vecchio e logoro cappot-to nero , sullo sfondo di una parete dora-ta. «Metafora delle umane spoglie che la morte abbandona in questo mondo men-tre l’anima si disperde nell’oro dell’aldi-là», fu la suggestiva interpretazione del papa emerito. Il quale non aveva letto il titolo dell’opera “Tragedia civile” né colto il piglio politico di quell’omaggio ai martiri di ogni fascismo. O forse al con-trario lo aveva letto e proprio per questo si era fermato. n

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È introdotto dal trittico sulla Genesi di Tano Festa, che Ovidio Jacorossi ha donato ai Musei vaticani, il primo padiglione della Santa Sede a Venezia (Sala d’Armi dell’Arsenale, 31 maggio - 24 novembre). Forse per i tre artisti che si sono cimentati sarebbe stato più semplice avere tra le mani un tema (tipo crocefisso o via Crucis) piuttosto che un testo complesso come la Genesi. Perché rappresentare la creazione, il disastro e la rinascita non è semplice anche se provvisti di video proiezioni, installazioni e materiali d’ogni genere. Eppure ecco gli audaci che hanno accettato la sfida.

Studio Azzurro. Con potenza di mezzi visivi e sonori e proiezioni multi-schermo l’ormai storico gruppo milanese ha affrontato la parte più difficile: la Creazione. A ragazzi sordomuti il compito di raccontare coi soli gesti la ricchezza di piante e animali che popolano il creato mentre la nascita del regno umano è affidata alla memoria di detenuti del carcere di Bollate che recitano a ritroso l’albero genealogico con i nomi di padri, nonni, trisavoli come fosse un mantra.JoSef KoudelKA. L’uomo che ha fermato la storia con l’immagine di un orologio da polso che si sovrappone ai carri armati che

entrano a Praga nel 1968, il grande fotografo che ha raccontato in bianco e nero le aree più devastate del mondo, è qui testimone della distruzione culturale ed ecologica del pianeta, con 18 foto di grandi dimensioni che denunciano i disastri della guerra e dell’inquinamento chimico e morale.lAwrence cArroll. A lui, artista degli assemblage e del recupero e riscatto estetico di materiali di scarto, è affidata la luce in fondo al tunnel, un filo di speranza nel Mondo Nuovo che risorga dal disastro. E la sua opera posta alla fine del percorso si chiama non a caso “Another life”.

Parola all’immagine

TANO FESTA: “SENzA TiTOLO”. A SiNiSTRA: ChiESA di PAdRE MiSERiCORdiOSO di RiChARd MEyER A ROMA. NELL’ALTRA PAGiNA: LA CATTEdRALE dELLA RESuRREziONE di ÉVRy di MARiO BOTTA

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Cultura

I tedeschi ancora non l’hanno capito bene, ma il centro di Berlino assume-rà, nei prossimi cinque anni, forme e colori italiani. «Ho aperto nel cuo-re di Berlino un cortile-piazza ana-

logo a quello del cortile degli Uffizi a Firen-ze». Brillano gli occhi di Franco Stella, ar-chitetto vicentino settantenne, quando de-scrive le geometrie classiche e i portali che adornano lo Schloss Forum (il foro del Castello), una delle tre “piazze all’italiana” ritagliate nella pancia di quella che sarà la ricostruzione del mastodontico Castello. Si tratta dell’edificio che per 500 anni fu la residenza degli Hohenzollern, la dinastia che più d’ogni altra ha segnato i destini della Germania, causando sciagure all’Eu-

ropa intera. Il prossimo 12 giugno Joachim Gauck, il presidente della Repubblica fede-rale, porrà la prima pietra del vecchio-nuovo Castello berlinese. E così quella che fu fucina e simbolo dei demoni del militari-smo prussiano, diventerà il segno di una nuova identità politica, sociale e culturale della Germania del Ventunesimo secolo.

Non è un caso se è toccato a un architet-to italiano, originario della città di Palladio, riconciliare i tedeschi con questo particola-rissimo edificio del loro passato. «Il Castel-lo», spiega Stella, «risorgerà esattamente dove era e, almeno nei volumi e facciate, come era». Detto così, il progetto suona come una banale scelta estetica. In realtà l’opera di Stella rimescolerà a fondo le

prospettive della capitale, e della storia te-desca. A differenza di Roma, Parigi o Lon-dra infatti, «a Berlino è nato prima il castel-lo», ha scritto lo storico Wolf Siedler, «e solo dopo, intorno a esso, la città». Ecco la centralità del potere; il movimento vertica-le dall’alto verso il basso, che ha dato vita al centro urbano. La Porta di Brandeburgo e il viale Unter den Linden, il Duomo o l’I-sola dei Musei, tutto a Berlino ha la faccia rivolta verso il Castello degli Hohenzollern. Ripristinarlo ora nella sua veste originale (un’officina di scalpellini sta forgiando, tra arieti e aquile, Fortune e Giganti, tutti e 3 mila gli stupefacenti stucchi delle facciate) «significa restituire al centro di Berlino la sua identità urbana», continua Stella, «e ai berlinesi un’iniezione di memoria storica». Ed è questa la riconciliazione dei tedeschi con la loro storia, la vera posta in gioco nella ricostruzione dello Schloss.

Si tratta di una storia che parte dal 1443, quando un principe del Brandeburgo, Frie-drich, detto “Dente di ferro”, fondò sulle

Un italiano a berlino

L’architetto Stella, vicentino, ricostruirà il Castello simbolo dell’identità

tedesca. A modo suo. Ed è già polemicadi Stefano vaStano da berlino

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sabbie della riva del fiume Sprea un piccolo borgo. Toccò a Federico il Grande, dal 1701 re di Prussia e vincitore di diverse guerre, costruire la città definita “Gloria Preus-sens”. E al suo architetto Andreas Schlüter tradurre la nuova Gloria prussiana in ar-chitettura, facendo del Castello un gioiello barocco. Da allora nella dinastia prussiana s’innesta la “Magie der Macht” (la magia del potere), per dirla con Max Weber, il virus che portò l’imperatore Guglielmo II a inci-tare dal balcone dello Schloss, nell’agosto del 1914, i tedeschi alla Grande Guerra, la madre delle catastrofi del secolo. Poi nel dicembre del 1950, i governanti dell’ex Rdt, la Germania dell’Est, fecero saltare in aria il Castello, definito da loro «spettro della nostra peggiore storia». Al suo posto, nel 1976, fu eretto il Volkspalast (il Palazzo del popolo, sede del Parlamento) che rimase su quella piazza, ribattezzata nel frattempo Marx-Engels Platz, per 32 anni, fino a quando venne demolito dalle autorità della Germania riunificata.

Rimase la nostalgia del Castello vero: di dimensioni impressionanti. I due lati mag-giori dell’edificio erano lunghi 180 metri. Con la cupola che un altro architetto, Frie-drich Stüler, montò sopra l’edificio, nel 1850 l’altezza raggiunse, con corona e croce all’apice, i 70 metri. Le due ali mino-ri (a quella a est Franco Stella darà ora una linea moderna) erano di 120 metri. Quelle dimensioni Stella ha l’intenzione di ripristi-narle. E una volta rimesso in piedi l’edificio, i suoi quattro piani avranno una superficie di 41 mila metri quadrati. Facile capire quindi che date le dimensioni (storiche e spaziali) la decisione di ricostruire quel colosso non è stata facile.

Le polemiche, le proteste, le denunce perfino, sono cominciate praticamente all’indomani del 4 luglio 2002, giorno in cui i deputati del Bundestag hanno votato sì alla ricostruzione. Certo, nella Germania del XXI secolo, governata da Angela Mer-kel (che, guarda caso, ci abita di fronte), lo Schloss avrà funzioni e anche un nome di-

versi rispetto al passato. Quando riaprirà i portali (si prevede nel 2018), tedeschi e turisti ammireranno sulla piazza del Castel-lo, l’Humboldt Forum: un complesso cul-turale denominato così in omaggio ai fra-telli Alexander e Wilhelm von Humboldt, illuministi eccelsi, scienziati e diplomatici berlinesi. «Il nuovo Castello», spiega Man-fred Rettig, presidente della Fondazione Schloss-Humboldt-Forum, «sarà museo d’arte, laboratorio di ricerca e centro-stu-di». Al contribuente tedesco sarà costato circa 600 milioni di euro, ma ne vale la pena. Perché, spiega Stella, «sarà il Castello il vero centro di Berlino mentre il nuovo Humboldt Forum sarà la figura architetto-nica che ridarà ai berlinesi la loro città».

Basta un’occhiata ai disegni di Stella per capire come e quanto il rapporto tra berli-nesi e Schloss sarà più disteso e sotto il segno di cultura e partecipazione. Al pian ter- Fo

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Cultura

reno, ecco un’Auditorium per concerti, con spazi per conferenze e mostre. Al primo piano, i volumi e le sale lettura della Zentral Bibliothek di Berlino. Al secondo, i tesori (oltre 500 mila reperti) del museo etnologi-co. E al terzo le meraviglie del museo dell’ar-te asiatica. Nelle sale di un maniero in cui monarchi tramarono guerre di conquista «entrerà», dice il presidente Rettig, «der Geist der Weltkultur», lo spirito della cul-tura mondiale. Come dire, l’incarnazione di quel “Geist” illuminista sognato da Kant e da Hegel, professore quest’ultimo all’Humboldt Universität (a due passi dallo Schloss). Alla cancelliera piace la metamor-fosi hegeliana del nuovo centro di Berlino. «Con l’Humboldt Forum», ha detto, «Ber-lino si presenterà al mondo come la capita-le di una nazione aperta alle culture altrui». Una capitale cosmopolita, capace di ristrut-turare, senza arrossire di vergogna, le sue glorie prussiane. Meglio di così quindi il malefico spirito dello Schloss non si poteva esorcizzare. Il suo nome e spirito sono mutati. Ma le forme, «il volto barocco», dice Stella,«rinascerà invece in tutte le sue parti e profili».

Il fatto che fosse un italiano a rifare il Castello, cercando di ripristinare le sue forme originarie, ha scatenando proteste e gelosie. Stella fa notare che la sua creatura «esprimerà una modernità ricca di memo-

ria». E che poi, ironia della sorte, questo a Berlino (vedi box sotto) è l’ultimo dei ca-stelli non ancora ricostruiti in Germania. Già, ma un Ventunesimo secolo “liquido e virtuale” sopporta i remake dei monumen-ti? «L’intera storia dell’architettura», ri-sponde Stella, «è fatta di ricostruzioni e ci-tazioni». «Monumenti del calibro dello Schloss», continua, «sono troppo impor-tanti per essere reinventati, e l’architetto non deve approfittarne per imporre un qualche edificio moderno buono per qual-siasi luogo».

I suoi avversari come rispondono? Co-minciamo con Daniel Libeskind (che a Berlino ha firmato lo Juedisches Museum): «Architettura e storia non tornano mai

indietro. Paragonata al castello di Stella persino Dallas è più autentica»; Ole Schee-ren, archistar che lavora con il grande Rem Koolhaas dice: «Ricostruire un castello barocco al centro di Berlino è ridicolo». Hans Kohlhoff che nella capitale ha firma-to diversi grattacieli ha auspicato «progetti più coraggiosi» e poi è ricorso contro Stella per vie legali. Il settimanale “Der Spiegel” ha sentenziato: «Berlino avrebbe meritato di più». Magari quel castello, squadrato e in mattoni rossi, progettato dallo studio berlinese di Malvezzi & Kühn. Peccato che anche questa intrepretazione post-moder-na non rispettava i termini del concorso del Bundestag: ricostruire cioè la residenza degli Hohenzollern con tre facciate origina-li, nelle linee barocche e dimensioni dell’e-poca. Quel che per l’appunto ha fatto Stella. E non per vincere il concorso, ma per convinzione. «La facciata», ribadisce, «è un elemento irrinunciabile del valore civico e artistico del Castello». La realtà, protesta il vicentino, è che «nell’architettura contem-poranea la facciata è sparita, e nelle nostre città l’abitante ha prevaricato il cittadino». Non si deve solo al trapianto della “pelle barocca” se l’operazione di Stella ha vinto. Sono le forme così pulite e quasi archetipe del Castello ad aver convinto la giuria. n Fo

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La Germania sta ricostruendo i suoi manieri più belli. A 40 chilometri da Berlino risorgerà, nel 2014, una delle residenze più importanti degli Hohenzollern: il Castello di Potsdam. È da qui che Federico II il Grande, stanco della Corte berlinese, governò sui destini della sua Prussia. Nel giro di otto anni, dal 1744 al 1752, il barone Georg von Knobelsdorff costruì la nuova reggia, il gioiello del rococò tedesco. Bruciata nel 1945, fatta esplodere nella ex Rdt nel 1960, nel 2005 l’amministrazione di Potsdam ha deciso di ricostruirla così com’era sulla Markt Platz. «Mi avvicinerò il più possibile all’originale», ha detto l’architetto Peter Kulka iniziando, nel 2010, i lavori. La facciata, le statue e gli stucchi (se ne sono conservati 600) saranno quelli originali. Compreso lo scalone centrale del castello. All’interno non ci saranno gli appartamenti né lo studio di Friedrich (quello in cui, primo in Europa, il sovrano tedesco riconobbe l’indipendenza degli Usa). Ci saranno invece il nuovo Parlamento e gli uffici dei 150 deputati regionali del Brandenburgo. Ci sono voluti 120 milioni per ricostruire lo Schloss di Potsdam. A cui Hasso Plattner, l’imprenditore del gruppo informatico Sap, ne ha aggiunti 20 per far risplendere sulla reggia il suo originale tetto in rame. Anche le residenze e i giardini dei Welfen (da cui il nome dei guelfi) tornano a nuova vita. Distrutto nel 1943 dalle bombe degli inglesi, dal 14 maggio ha riaperto ad Hannover Schloss Herrenhausen. Per 21 milioni di euro è stata la Fondazione Volkswagen a ristrutturare il Castello nelle facciate e volumi originali dell’architetto Georg Laves. Al pian terreno ora c’è un Auditorium (270 posti), per concerti e conferenze. Al primo piano, c’è la “Fest Saal”, la grande sala dei banchetti dei tempi di Sofia, figlia di Elisabetta Stuart e madre di Giorgio I d’Inghilterra. Riaperti anche i magnifici giardini: Sofia ci passeggiava col filosofo e bibliotecario di corte, Gottfried Leibniz.

Tra Hohenzollern e Leibniz

PotSDAMER PLAtz A BERLINo

Là dove monarchi progettavano guerre di conquista ci saranno un edificio e una piazza all’insegna della tolleranza

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Cultura

Non è detto che il detective sia un poliziotto, può essere an-che un cuoco, un filosofo, un giornalista. Non è detto che il genere Noir domini intera-

mente le vicende e l’intreccio di una storia, si può mescolare con altri generi narrativi. Tuttavia c’è una questione fondamentale che distingue il Noir da tutto il resto, cioè dalle spy-story e dai polizieschi: è la questione dei mezzi at-traverso cui si scopre un delitto o si ar-riva all’assassino. Ciò che è fondamen-tale nel Noir è l’indagine e la ricerca perché questo genere poggia sul senso di mistero e non su quello di rivelazione come accade nel giallo dalla logica strin-gente, o nel thriller giudiziario.

«Compiere un delitto è semplice», scri-veva Raymond Chandler. Lo scrittore ame-ricano sosteneva che chi uccide lo fa in un momento di forte tensione, con il primo oggetto a portata di mano. E secondo lui, gli omicidi troppo elaborati di cui si erano occupati i mostri sacri come Sherlock Hol-mes o Poirot, dimostravano che i loro cre-atori non sapevano di cosa stavano parlan-do. Chandler era netto in questo, ritenendo che la differenza che introduce il romanzo hard-boiled, da cui il Noir prende ispirazio-ne, è quella che restituisce l’omicidio «alle persone che lo commettono per delle ragio-ni, e non per fornire un cadavere all’intrec-cio dello scrittore». Era il 1944 e il termine Noir, nel senso in cui lo conosciamo noi oggi, non esisteva ancora. Fu un critico ci-nematografico francese, Nino Frank, nel 1946 a usare per la prima volta il termine Noir per indicare i film americani tratti spesso dai romanzi di Chandler, Hammett, Spillane. È qui che il cinema si impossessa immediatamente del termine e comincia a percorrere una strada che da “Il mistero del

falco” di John Huston continua fino agli anni Cinquanta con pellicole che definisco-no il genere, nel quale si sono cimentati i grandi registi, da Billy Wilder a Howard Hawks, da Fritz Lang a Stanley Kubrick. Ma il Noir prosegue nel cinema, come nel romanzo il suo cammino per arrivare al presente, cercando di mantenere quella che

il critico americano Jon Tuska definiva «un punto di vista dal sottosuolo, ma anche, invariabilmente, il risultato di un confronto col nichilismo». Ecco che il Noir classico dell’investigatore privato cinico e etica-mente irreprensibile, che nella memoria di tanti ha l’aspetto di Humphrey Bogart, cedeva il passo a una sottile inquietudine contemporanea dove è piuttosto l’atmosfe-ra Noir a nutrire di fascino un genere lette-rario che sembra non morire mai. E il me-glio della produzione contemporanea di quel genere viene offerta ora ai lettori del-l’“Espresso”, collocando le vicende narrate nella storia. Si parte infatti con Margaret Doody e il suo ormai classico “Aristotele i veleni di Atene”, con il celebre filosofo nel ruolo di investigatore, si prosegue con “Odore di chiuso” di Marco Malvaldi e così via per sedici uscite tra Alessandro Persinotto, Anne Perry e tanti altri. n Fo

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centro l’indagine, non il delitto. E dove il detective

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l’Espresso in edicolaDi AlessAnDro Agostinelli

MaRgaRet DooDy, L’autRiCe Di “aRistoteLe e i veLeni Di atene”

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La vergogna di dirsi italiani». «Lo sfascio che produce altro sfa-scio». «Questo Paese non rifor-mabile». Un raggio di sole illu-mina un alto soffitto dietro al

volto intenso di Roberta De Monticelli, in collegamento Skype da Berlino. Raggio di sole sui toni aspri e il pessimismo dolente di un’intellettuale (ordinario di Filosofia della persona all’Università San Raffaele) che di questa Italia depressa e frustrata sta facen-do una malattia. «Sto qui in Germania fe-licemente e dolorosamente», dice, quasi fosse in esilio. La ricordavamo appassiona-ta nelle piazze di “Se non ora quando” e Libertà e Giustizia, severa nelle apparizioni televisive da Gad Lerner su La7, sfiduciata negli ultimi interventi giornalistici. Ora, con un pamphlet filosofico-politico, “Sull’idea

di rinnovamento”, edito da Cortina, in li-breria a giugno, fa capire che non cambierà nulla, nel declino italiano (civile, etico, istituzionale) se la domanda di giustizia non sarà domanda di verità, se il “noi” demago-gico non maturerà in tanti “io” maturi. Fenomeno a 5 Stelle incluso, al quale la fi-losofa milanese, che pur lo segue con inte-resse, non perdona forzature e volgarità.È finito il tempo del distacco sdegnoso? I filo-sofi devono tornare a parlar chiaro, nel senso di parlar politico?«Dopo quasi 15 anni a Ginevra, tornata in Italia mi sono sentita quasi forzata a non finger più che la società civile non esista, anche se al filosofo potrebbe far comodo. “La cieca e dissennata assenza” degli intel-lettuali italiani, diceva Piero Calamandrei. Parlava dell’acquiescenza muta, che divie-ne complicità. Ecco: non più».Un’Italia depressiva. Assenza di speranza. Indifferenza. Il grido “Sono tutti uguali”. Lei si muove per reagire a una frustrazione?«Io mi muovo con Kant: “Se la giustizia scompare non ha più valore la vita degli uomini sulla Terra”. Questa esigenza trava-lica il soddisfacimento dei nostri bisogni fondamentali, quella che chiamiamo la giustizia sociale. Qui si va più in là. Si tratta del bisogno di senso delle nostre vite. È il caso di occuparsene». Gli slogan sul “tutti uguali” provengono dagli astensionisti come dai 5 Stelle. Ma l’appiat-timento su “noi” e “loro” è accettabile?«No, non lo è. È il risultato di uno scettici-smo generale che sconfina nel cinismo. La questione morale attraversa la cultura ita-liana da Guicciardini a Leopardi fino al pensiero azionista e oltre. L’assenza di di-stinzioni si radica proprio nel non prendere sul serio l’esperienza morale di ciascuno. Ma non ci possiamo permettere di ignora-re le emozioni e le distinzioni». Beppe Grillo, il vero innominato del suo libro,

affiora in vari punti. Ma il rinnovamento tocca anche il Pd in crisi generazionale, il Pdl condi-zionato dai processi di Berlusconi. Lei ha colto la novità dei 5 Stelle, ma è come se già fosse un po’ delusa.«Sì e no. Oscillo. C’è il principio “un voto una testa”, la politica fondata sull’esperien-za vera di ciascuno. Una dose di democrazia diretta. L’idea del controllo di cittadinanza, che ha un fondo illuministico. Il cittadino che legittima il potere. Dall’altro lato, l’e-spansione della comicità. Lo sparlare, il calunniare tipico degli italiani che, come lamentava Leopardi, è più del suddito che del cittadino. Grillo, che nasce come un “consumer advocate”, parte anche da questo. Non dimentichiamo quello che è un dato di fatto: con poche eccezioni, la stampa italiana è assai poco indipendente. La Rete dà parola ai non aventi parola».Alla Rete lei riconosce pregi come la diffusio-ne orizzontale dell’informazione. Ma denuncia stereotipi e prepotenze. Scrive di “banalità beota e turpiloquente”. Se ne abusa troppo?«Gli italiani sono particolari. Siamo cacia-roni ma approfondiamo meno di altri. La banalità, il turpiloquio è indice del livello di emotività. Manca la capacità di vera atten-zione. L’urlo, in politica, può attirare. Ma l’indignazione che si scarica subito non approfondisce. Però non vorrei risultare più anti-grillina di quanto mi senta».E quanto si sente?«Mi fanno simpatia, nonostante tutto. Si può aver paura dell’opinione massificata in Rete, ma l’urlo è l’ultima cosa che ti resta quando le parole sono ridotte a una melma priva di senso. La via buona del grillismo riguarda il ricondurre la politica entro ar-gini morali».Per Simone Weil “le collettività non pensano affatto”. Lei usa la metafora del prato: sono i singoli fili d’erba che verdeggiano e cambiano il prato intero. Diffida del “noi”?

Cultura

UN PAESEdi comPliciGià Calamandrei

denunciava omertà e acquiescenze alle illegalità. Oggi una

filosofa parla di “società di briganti”.

E dice: non ci stocoLLoqUIo con RoBERtA DE

MontIcELLI DI EnRIco ARoSIo

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«Indubbiamente diffido del “noi”. Il discor-so di Casaleggio è facilmente liquidabile. Bisogna distinguere tra la capacità della Rete di generare spazio pubblico e diffon-dere informazioni, e la pretesa di creare pensiero collettivo. Il soggetto collettivo, da Hegel in poi, ha portato più danni che altro. Sono d’accordo con Simone Weil: il vero male non è il male, ma la mescolanza tra bene e male. La Rete opera sotto una realtà, quella italiana, che è una società consortile. In Italia non si scoperchia, non si fa luce; c’è omertà, scambio di favori. Occorre passare da sudditi a cittadini, dal consiglio di facol-tà fino alla grande politica».Lei parla di “società di briganti”.«In Italia la differenza tra uno Stato e una società di briganti non esiste più. Non esiste più se legalità vuol dire impunità per i fuo-rilegge, responsabilità vuol dire consorte-ria; libertà vuol dire egoismo; rinnovamen-to vuol dire Angelino Alfano».

Al deficit di giustizia lei contrappone la neces-sità di ricostruire fiducia reciproca. “Ottenere giustizia”, scrive, vuol dire “non ottenere nulla per sé ma luce per tutti”. Come tornare a rico-noscere l’altro in un Paese smarrito e rissoso?«L’attuale asserita pacificazione, l’embras-sons-nous di governo è il contrario assolu-to della possibilità di ritrovare fiducia. Avere giustizia è far sì che tutti sappiano la verità. È una richiesta di catarsi. Quella che in Italia manca persino nell’analisi della storia del Novecento. Sia lo scetticismo morale sia la retorica (anche della Resisten-za) almeno tenevano vivo il senso delle di-stinzioni. I vili e gli eroi. I giusti e gli ingiusti». Non fugga nella Storia. Non parlava del gover-no di emergenza, il governo Letta?«È la disperazione. Dobbiamo consociarci, ci dicono. Ma per che cosa?».Per fare cinque-sei riforme urgenti condivise. «Le faranno? Non sono così esperta di politica. Ma l’accordo tra diversi significa

che alcuni meccanismi fondamentali della democrazia sono stati messi in in stand-by. Dalla delega dell’agenda politica a una convenzione di saggi al blocco delle attività parlamentari. La democrazia è svuotata. Il governo sta facendo ciò che dovrebbe fare un Parlamento. Io starei attenta a modifi-care la Costituzione, conosciamo bene quelli che ci stanno mettendo mano. Modi-ficare la giustizia, ma nell’interesse di chi?».Già le danno della giustizialista...«Lo so bene. Ma la parola giustizialismo esiste solo nella lingua italiana, non altrove. Abbiamo politici e opinionisti che quotidia-namente proclamano che la politica non c’entra niente con la morale. Sono cose da pazzi. È così che siamo diventati una socie-tà di briganti».Nessuna chance per il governo Letta, per rico-struire un poco di fiducia condivisa?«Distinguerei premessa filosofica da giudi-zio politico. La premessa è che è impossibi-le accordarsi tra guardie e ladri e conside-rare questo accordo politico».Guardie e ladri?«Sì. Il terzismo è criminale, questa è la mia opinione. Una comunità deve saper vedere le differenze, riconoscere i suoi grandi e i suoi perduti. Ce lo insegna Dante quando vede Medusa, l’incantatrice, che fa tutti eguali. Se scalziamo questa distinzione tra il bene e il male, siamo al peggio del peggio. Stiamo ai fatti: noi abbiamo alle spalle una stagione politica dannosa, che ha ridotto il Paese in condizioni gravi: economia, salute, ambiente, istruzione, etica. Fare un patto su questo, noi ci mettiamo d’accordo, tu non vai in galera e ne usciamo in qualche modo, per me è inaccettabile. E dico no. Nel modo più radicale». n Fo

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«Beppe Grillo era partito bene. Poi sono arrivati gli urli e le banalità»

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Cultura

«Il fuoco gigantesco scaglia-to in alto dal Vesuvio, co-minciava a espandersi, e man mano che si allargava formava una specie di om-

brello che oscurava il sole.La paura attanagliò tutti. I terremoti,

che si susseguivano senza sosta, ora av-venivano al buio. Era notte a Pompei, nel pieno di una soleggiata giornata estiva.

Si spaccavano muri, si sbriciolavano mosaici, mentre travi, pilastri, statue, ar-

madi crollavano con gran frastuono. La città sembrava ghermita da artigli invisi-bili che cercavano di strappare le case dalle fondamenta. La spaventosa oscurità che la avvolgeva era resa ancora più terri-bile dalla grandine fitta e bruciante di pomici bianche, brandelli di lava e cenere.

Le vittime dei crolli erano già tante; altri morivano per lo spavento o per-ché colpiti dalle pietre che piovevano insieme ai lapilli. In poche ore quei materiali mai visti prima, espulsi dal

PomPeie fu notte aUn’archeologa ha

scritto un libro ambientato nella

città distrutta dal Vesuvio.

Qui L’Espresso ne anticipa

alcune pagine Di Marisa ranieri-Panetta

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ventre del vulcano, avevano formato cumuli capaci di inclinare i tetti e di far precipitare le coperture meno re-sistenti, travolgendo chi li aveva scel-ti come protezione.

Le aperture dei soffitti, fino ad allora privilegi di case aristocratiche per far entrare luce e acqua piovana, facilitava-no l’accumulo dei materiali vulcanici nel centro delle abitazioni. Chi non poteva più stare al piano terra o raggiungere i locali sotterranei saliva ai piani superio-ri, per poi restarvi intrappolato.

Troppo tardi molti pompeiani decise-ro di fuggire, di allontanarsi comunque da quel luogo di morte; ma pietre e po-mici si depositavano rapidamente in qualunque spazio aperto - vie, cortili, giardini, piazze - rendendo sempre più difficili anche gli spostamenti più brevi e procurando ustioni e ferite a quanti cercavano di muoversi.

Nella corsa frenata dai materiali vul-canici, il luogo più sicuro sembrava sempre quello che ancora non era stato raggiunto e spesso, cercando di cambia-re direzione, si finiva per tornare sui propri passi senza rendersene conto. Molti, usciti dalle porte che si aprivano nelle Mura, avevano cercato scampo nelle necropoli. Almeno i morti, pensa-vano, sarebbero stati risparmiati dalla rabbia divina; e comunque, meglio la-sciare la vita in compagnia di chi li aveva preceduti nell’Averno.

Dovunque si trovassero, adulti, anzia-ni, ragazzi, sotto i colpi delle braci erano in preda al terrore: le ceneri offuscavano la vista e ostacolavano il respiro. I pom-peiani si sentivano braccati, alla mercé di un nemico che non potevano e non sapevano combattere, mentre la città era stretta dalle fiamme. Il verde dei giardini domestici e degli orti moltiplicava il fuoco: le viti, i platani, le siepi di bosso e di alloro, gli alberi da frutto, ardevano in un attimo e le fiamme si propagavano tutt’intorno.

In tanti, muniti di lanterne, cercavano comunque di muoversi, provocando a loro volta incidenti: affondavano negli strati di ruvida pomice e quando i sussulti del terreno facevano perdere loro il già

precario equilibrio investivano altri di-sperati, provocando ferite e bruciature. Alcuni si strappavano di dosso le vesti infuocate, altri si coprivano con spesse coperte peggiorando la visibilità e la respirazione.

Se qualcuno avesse potuto vedere la città dall’alto, avrebbe scorto un paesag-gio impressionante. Ogni via, ingombra di travi e intonaci, era ridotta a un tap-peto instabile e vischioso: persone e animali cadevano, si rialzavano, entra-vano e uscivano da case e cortili. E ovun-que incendi che divampavano, e lanterne che sembravano lucciole impazzite.

Tutti urlavano, piangevano: disperati, feriti, sporchi di fuliggine, vagavano senza meta. Gli scoppi del vulcano e i crolli erano così assordanti da coprire le voci, le richieste di aiuto. Se a qualcuno

capitava di imbattersi in un vicino di casa - e riusciva a riconoscerlo - chiede-va notizie di un parente; ma nessuno dava retta a chi lo scuoteva per un brac-cio e gli strillava qualche nome nell’orec-chio, come un popolo di sordi che bran-colava nel buio.

Ogni tanto, per caso, si ritrovavano mariti, madri, figli, ma più spesso le famiglie erano disperse. In tanti prega-vano. Avevano la forza di credere an-cora in un prodigio divino e si rivolge-vano a Venere, che avrebbe dovuto aver cara Pompei. Oppure a Iside, a Giove, ad Apollo.

Il fiume Sarno non era più in grado di offrire una via di fuga, il suo letto si era riempito di materiali vulcanici. In una stazione fluviale, in direzione della via di Stabia, i frequentatori occasionali si erano riuniti per incontrare, senza saper-lo, una morte spaventosa.

C’erano persone di ogni età: vite, espe-rienze, storie, che si erano incrociate per la prima e ultima volta. Una donna aveva con sé un vero tesoro in gioielli, tra cui un bracciale a forma di serpente che all’interno portava inciso: IL PA-DRONE ALLA SUA SCHIAVA. Ma accanto a lei non c’era il generoso aman-te, solo sconosciuti. Afferrò la prima mano che trovò per cercare conforto mentre spalancava la bocca per il terro-re: il cedimento del piano superiore stava per seppellirli insieme». n Fo

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Pompei è insieme simbolo di sciagura e di bellezza. Nel 79 dopo Cristo la città fu sommersa da una pioggia di lapilli e caligine prodotti dal Vesuvio che la distrusse, carbonizzò la maggior parte dei suoi abitanti e produsse un’enorme nube scura che si propagò dal Tirreno fino alle sponde africane del Mediterraneo. Sappiamo datare quell’evento terribile anche per una lettera di Plinio il Giovane e per una moneta dedicatoria a Tiberio. Eppure i dati storici non bastano a raccontare la bellezza di uno dei siti archeologici contemporanei più importanti del mondo: serve la letteratura. L’archeologa e collaboratrice dell’“Espresso”, Marisa Ranieri Panetta ha preso questo scenario catastrofico e, fissandone con perizia narrativa le vicende apocalittiche, ha saputo descrivere minutamente i dettagli della tragedia umana nel romanzo “Vesuvius” in uscita con Salani. È un romanzo storico che rifugge la fiction artefatta di certi best-seller americani. Sulla scorta di circostanziate basi documentali l’autrice reinventa invece personaggi realmente esistiti all’epoca e li mette in scena nelle loro azioni controverse, nei loro sentimenti, alla prova dei loro desideri. In “Vesuvius” ci sono donne forti e tenere come Flavia, uomini saggi come il medico Veio e esseri umani stremati dalla prove di sopravvivenza come Lucio Ceio. Siamo di fronte a un libro che cerca di comunicare sottilmente quanto anche la cura di un territorio sia fondamentale per non deturpare, oggi più che mai, per mano di sconsiderate azioni umane, la bellezza che l’antichità ci ha trasmesso. Alessandro Agostinelli

Apocalisse di bellezza

MaRISa RaNIERI PaNETTa E La COPERTINa dEL SuO ROMaNzO. NELLa FOTO GRaNdE: uN’IMMaGINE dI POMPEI

Scienze

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n. 22 - 6 giugno 2013

L’anoressia nervosa è un disturbo caratterizzato da un persistente rifiuto di mantenere il peso corporeo normale o anche quello minimo per l’età e la statura,

dal terrore di ingrassare anche quando si è sottopeso, da alterazioni gravi del modo con cui si percepisce il proprio corpo, visto comunque troppo grasso. Il trattamento è medico-psicologico nelle fasi acute, quando la magrezza eccessiva si accompagna a complicazioni gravi, come l’aritmia cardiaca, e psicologico nelle altre fasi. Il disturbo ha spesso un andamento cronico e, se non trattato, nel 6-11 per cento dei casi può anche essere letale. I trattamenti hanno spesso successo, ma alcuni pazienti cronici non migliorano. Un articolo uscito su “Lancet” presenta ora i risultati preliminari di un trattamento sperimentale, eseguito in sei casi gravissimi di anoressia nervosa cronica, resistenti da anni a ogni tipo di cura, con frequenti ricoveri in rianimazione e a rischio di vita. Questi pazienti dell’Ospedale di Toronto sono stati sottoposti a un intervento di stimolazione cerebrale profonda, l’inserimento di elettrodi in un’area specifica del cervello con stimolazione cerebrale usata nel morbo di Parkinson e in altre malattie, per tentare di modulare l’attività anomala di specifici circuiti cerebrali. I risultati sono stati incoraggianti: tre dei sei pazienti, a nove mesi, erano migliorati, con diminuzione dell’ansia e miglioramento di umore e appetito. La storia della medicina ha talora mostrato risultati inattesi resi possibili da esperimenti coraggiosi che sollevano grandi problemi etici. Ma è sempre necessario sottoporre a controlli rigorosi tutte le procedure innovative in campo medico, prima di autorizzarne l’uso, anche in via sperimentale.

professore di Psichiatria, direttore del Centro Oms di Ricerca sulla salute mentale,

Università di Verona

PsichiatriaDiamo una scossa all’anoressia di Michele Tansella

Le impronte digitali? Non sono roba da spie. Ormai l’intelligence di tutto il mondo guarda oltre e cerca sistemi di identificazio-ne più rapidi e accurati. Perché il mostruo-so giacimento di fingerprints accumulato dagli Stati Uniti - l’Homeland Security ne ha schedate 156 milioni, l’Fbi 110 milioni, la Difesa altri 9,5 - servirà a incastrare i criminali ma non aiuta a fermare i terroristi. Così tutti i servizi segreti americani si stan-no dando da fare. In prima fila c’è la Dia, l’intelligence militare, che con i tagli alla Difesa teme di perdere l’esperienza raccolta al fronte in Iraq e Afghanistan e chiede tecnologie innovative e meno costose.Il controllo dell’iride è economico e veloce: l’ideale per sorvegliare viaggiatori e lavo-ratori. Lo sguardo però non lascia tracce e quindi non permette a 007 e detective di

risalire agli autori di un crimine. Le loro ricerche invece sono concentrate

sul riconoscimento facciale, un campo dove dominano i privati: Facebook, Google e Apple hanno lanciato algoritmi per dare un nome ai volti. L’Fbi invece vuole abbinare l’identificazione delle facce con quella delle impronte: è il cardine del Next Generation Identification, un programma da un miliar-do e 200 milioni di dollari affidato alla Lockheed. Mancano sistemi affidabili per i volti, soprattutto nel caso di foto non riprese frontalmente. La soluzione è quel-la di varare algoritmi che ragionano come la mente umana: non puntano a confron-tare l’intero volto ma solo alcuni tratti caratterizzanti. Forma della testa, attac-catura dei capelli e ovviamente il naso. Gianluca di Feo

Hi-tech anticrimine

Giù la faccia

PesticidiQuant’è Stupida Quell’apei ricercatori dell’Università di dundee, in scozia, hanno studiato gli effetti sulle capacità cognitive delle api di due pesticidi molto diffusi, il coumaphos e i nicotenoidi. e hanno visto che le api esposte a queste sostanze perdono la capacità di apprendere informazioni essenziali per la sopravvivenza,

come la relazione tra il profumo di un fiore e la possibilità di raccoglierne il polline. Un danno ancora più rilevante quando i pesticidi vengono usati in combinazione tra loro, «e che potrebbe renderle incapaci di procurarsi il cibo», sottolinea Geraldine Wright, autrice della ricerca. Paola emilia cicerone

indagine sull’agenzia italiana del farmaco | alimentazione | bambini

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Sistema informatico in tilt. Difficoltà con le Asl. Ritardi nel garantire le medicine. L’Agenzia del farmaco è paralizzata. Ecco perchédi Antonino Michienzi e dAnielA MinervA Foto di AdAM voorhes

Scienze sanità

ProceSSoai signori dell’Aifa

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L’Agenzia è chiusa a riccio, come se non sentisse che infuria la tempesta fuori dal palazzo di via del Trito-ne a Roma dove ha sede. L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), di fatto, pochi

sanno cos’è. Ma è sulla vita di tutti che in-cidono i suoi sì o i suoi no, come anche le sue difficoltà e il suo essere, come dicono molti, ormai un gigante. Perché l’Agenzia, il cui direttore generale e presidente del consiglio di amministrazione sono nomina-ti dal ministero della Salute, ha il compito di dare l’ok all’immissione in commercio dei nuovi farmaci, di definirne il prezzo, di sorvegliarne la sicurezza una volta che sono finiti in mano ai malati. Insomma maneggia la nostra salute e circa 26 miliardi di euro l’anno, perché a tanto ammonta la spesa farmaceutica nel nostro Paese, i tre quarti della quale è a carico del Ssn. Dovrebbe funzionare come un orologio, ma soprat-tutto essere una casa di vetro dove tutto ciò

che accade è ben visibile dai cittadini. E in-vece sembra oggi paralizzata, affaticata da elefantiasi burocratica e da scelte sulle quali infuriano polemiche, magari fatte a buon fine ma di certo risultate in ritardi e ulteriori aggravi burocratici. Così come sembra incapace di comunicare con i medi-ci, le aziende e i malati. Insomma, con tutti gli stakeholder del sistema-farmaci italiano. Siamo andati a vedere cosa succede a via del Tritone. La nuova sede, a due passi da Fon-tana di Trevi e nel cuore del potere romano, che costa quasi quattro milioni di euro l’anno di affitto e ha sostituito nel 2010 un’anonima palazzina situata nella perife-ria di Roma: costava la metà, era discreta e a due passi dalla metropolitana. Ma non rendeva plasticamente il potere dell’Agen-zia che la fiscalità generale fa funzionare dotandola di 80 milioni di euro l’anno, e dove lavorano oggi circa 400 persone (era-no 250 nel 2009.

Eppure, non c’è nessuno disposto a parla-re open verbis con “l’Espresso” nel fortino di

via del Tritone. E già questo sorprende. Di-versi tecnici dell’Aifa da noi interpellati sparano a zero contro le inefficienze e la to-tale mancanza di trasparenza. Ma poi, vo-gliono restare anonimi. Tuttavia, rimangono i fatti. E il primo è la questione criminale dei tempi per la registrazione dei medicinali in-novativi (vedi grafici qui sotto), dilatati dal rimbalzo dei dossier tra una commissione e l’altra: servono dai dodici ai quindici mesi per avere l’autorizzazione dall’Aifa dopo che le autorità europee hanno dato il via libera, e già non si capisce a cosa serva una simile duplicazione; poi c’è bisogno di un altro anno per entrare nei prontuari delle Regioni, e di questo l’Agenzia non ha responsabilità. Ma il dato è drammatico: circa 300 giorni di attesa per i pazienti italiani. Per le aziende è un danno spaventoso, per i malati è una tragedia. Ne dà notizia un rapporto di Far-mindustria, l’associazione delle aziende far-maceutiche di qualche settimana fa, ma la situazione non è cambiata da quando “l’E-spresso” ha denunciato questi ritardi nel novembre scorso dando voce a medici e as-sociazioni di malati. E da quando il direttore generale dell’Aifa, professor Luca Pani, ci rispose che i confronti con gli altri paesi eu-ropei non reggono in quanto l’Aifa si occupa anche di definire i prezzi. Il che, però, non diminuisce il disagio dei malati.

Nel fare i confronti con l’Europa, Far-mindustria annota oggi come le procedu-re negli altri paesi Ue siano meno farragi-nose, certamente anche a livello di regioni e ospedali oltre che a livello centrale, ma anche e soprattutto che altrove è chiaro cosa sia innovativo, quali siano le regole che sovraintendono ad approvazione e prezzo. Dal punto di vista dei malati, ciò che conta è che le medicine davvero

Processoai signori dell’Aifa

Numero di farmaci approvati nel 2009dall’Agenzia Europea

Germania

Gran Bretagna

Francia

Spagna

Italia

0 10 20 30 40 50

46

39

22

21

14

Fonte: Farmindustria-Ims

Fanalini di coda Tempo di accesso al mercato (in giorni)

Germania

Gran Bretagna

Francia

Italia

Spagna

Tempo addizionaledi accesso in tutte

le regioni

38

61

221

300

314

0 100 200 300 400 500

Fonte: Farmindustria-Ims

Lungaggini

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Scienze

nuove, che apportano un maggiore bene-ficio clinico di quelle in commercio, in settori importanti come l’oncologia, le malattie infettive, metaboliche e del cer-vello, siano messe a disposizione di chi soffre il più rapidamente possibile, mentre le altre possono aspettare. Ma come indi-viduare i farmaci realmente salvavita per i quali non si può aspettare? Fino a qual-che anno fa i tecnici dell’Agenzia usavano un algoritmo, che poi è sembrato inade-guato e per questo lo si è abbandonato per andare alla ricerca di un nuovo più poten-te strumento che le consenta di farlo te-nendo conto delle caratteristiche del far-maco e dello scenario della malattia. Ma nonostante i reiterati annunci questa macchina magica è ancora ferma ai box. Nelle scorse settimane l’Agenzia ha dato il via a una consultazione pubblica sul sistema. L’Aifa, però, è un palazzo dai vetri oscurati, e l’accesso all’algoritmo è concesso soltanto a chi ne faccia esplicita richiesta alla direzione generale che si ri-serva il diritto di valutare e rifiutare le ri-chieste. Un metodo che non piace. «I far-maci innovativi sono un settore di immen-sa importanza per la salute pubblica in cui si concentrano interessi enormi: non do-vrebbe esserci alcuna opacità che alimen-ti sospetti», è la critica più ricorrente dei soliti anonimi, che si accompagna a forti dubbi sull’efficacia dello strumento: nes-suna agenzia regolatoria europea adotta un simile approccio. E quei tecnici anoni-mi ci assicurano che la definizione è anco-ra di là da venire.

Mentre i ritardi si accumulano e aziende e associazioni di pazienti chiedono all’Aifa una sola cosa: semplificare, ridurre i tempi. «Che non significa sacrificare la sicurezza», precisa Gian Mario Baccalini, presidente di Aschimfarma, l’associazione che riunisce i produttori di principi attivi: «Lamentiamo l’aggravio burocratico rispetto alle altre agenzie regolatorie europee. Un sistema di autorizzazioni molto più complicato, che allunga i tempi, li rende incerti e ci mette in una posizione di debolezza nella competizio-ne globale. Specie ora che molte Big Pharma, deluse delle performance dei produttori asiatici, stanno ritornando in Europa». Si tratta di contratti milionari che darebbero respiro a un settore che è stato messo alle strette dai paesi emergenti.

Nessuno dubita che l’Aifa voglia agire nell’interesse del bene collettivo. Ma mol-

ti chiedono trasparenza. E non solo.C’è persino una richiesta di commissaria-

mento dell’Agenzia avanzata il 3 aprile scorso con una lettera della Società Oftalmo-logica Italiana, presieduta da Matteo Piovel-la, indirizzata agli allora ministri della Salute, Renato Balduzzi, e dell’Economia, Vittorio Grilli, e per conoscenza a Mario Monti: «Riteniamo che Aifa non sia in grado di svolgere adeguatamente i suoi compiti isti-

tuzionali», si legge. A conclusione di una rissa tra la Società e l’Agenzia durata mesi a proposito di un farmaco, messo a punto e autorizzato per alcune forme di cancro, uti-lizzato anche per curare malattie gravi dell’occhio. La diatriba è complessa, ma di fatto è accaduto che lo scorso ottobre l’Aifa ha deciso che non deve essere utilizzato perchè c’è il rischio «di gravi reazioni avver-se» e, soprattutto, perché è disponibile un Fo

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Porte in faccia a Silvio Garattini, perché accusato di avere rapporti troppo stretti con le aziende del farmaco. Se non fosse successo davvero, sembrerebbe una barzelletta. Ma è andata proprio così: il paladino della ricerca indipendente, austero come nessun altro nel denunciare gli eccessi dell’industria era stato, a giusta ragione, nominato membro del Consiglio di amministrazione di Aifa. Ma poi è stato costretto a uscirne: il regolamento dell’Agenzia, infatti, impedisce di far parte del consiglio a chi appartiene a organizzazioni che ricevono sovvenzioni o sponsorizzazioni dalle aziende farmaceutiche, anche se da queste attività non riceve alcun profitto personale. Garattini è direttore dell’Istituto Mario Negri, un centro che, come decine di altri in Italia, fa ricerca anche in collaborazione con aziende. Quindi è fuori.Tant’è. Le regole si rispettano. Ancor più quando riguardano un’istituzione super partes sulla quale non possono profilarsi ombre. Per questo in tutto il mondo è invalsa l’abitudine di rendere rigorosamente pubblico ogni potenziale conflitto di interessi dei membri delle agenzie regolatorie. Un’abitudine che non sembra aver fatto ancora breccia in Italia. Sul sito dell’Aifa non c’è traccia di dichiarazioni di questo tipo. Per trovare quella del direttore generale Luca Pani bisogna rivolgersi all’Agenzia europea dei medicinali, sul cui sito si trova la Public declaration of interests del direttore che afferma, il 3 agosto 2012, di non avere rapporti con le industrie né brevetti. Sul sito dell’agenzia europea, invece, non è più disponibile una precedente versione della dichiarazione di Pani (che “l’Espresso” aveva nei mesi scorsi scaricato) datata 1 novembre 2012, dalla quale risultavano precedenti rapporti di consulenza retribuita con diverse aziende (da Pfizer a Janssen-Cilag, Gsk, Eli-Lilly, tra le altre). Il direttore, poi, che nella sua vita ha fatto a lungo il ricercatore, risulta inventore di sette brevetti farmaceutici ( http://www.faqs.org/patents/inventor/pani-6/ ) tutti rilasciati prima del suo ingresso in Aifa. Questo gli fa onore e dimostra la sua qualità di scienziato. E nessuno ritiene incompatibili con l’attuale posizione in Aifa i suoi precedenti rapporti di consulenza, ovvi per un farmacologo. Sarebbe però bello avere maggiore trasparenza sui curricula complessivi dei signori del farmaco.

Al cittadino non far sapere...

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altro prodotto più mirato a queste patologie. La decisione è legittima e motivata, ma gli oculisti insorgono, sostanzialmente, perché l’Aifa ha deciso senza tenere in conto il loro parere. E si legge nella lettera: «Non è a co-noscenza dei dati dell’Agenzia europea», sembra che agisca con «superficialità e man-cata conoscenza del problema».

Che abbiano o meno ragione, gli oftalmo-logi non sono gli unici a lamentare di non essere presi in considerazione: i diabetologi fanno altrettanto e dello stesso tenore è la posizione della Consulta delle società scien-tifiche per la riduzione del rischio cardiova-scolare. Insoddisfatti sono anche gli oncolo-gi dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) che in una lettera inviata agli associati si dicono inascoltati oltre che esclu-si dal Comitato consultivo area oncologica dell’Aifa, il gruppo di specialisti che suppor-ta le scelte dell’Agenzia nel campo dei farma-ci antitumorali.

Gli oncologi sono in agitazione anche per un altro e ben più grave motivo. All’inizio dell’anno, infatti, l’Agenzia ha deciso un nuovo affidamento dei suoi servizi informa-tivi. Cineca (un consorzio pubblico di uni-versità senza scopo di lucro controllato dal ministero dell’Università e della Ricerca che per anni ha funzionato come un orologio) è stato sostituito dalla multinazionale Accen-ture in un contratto da 10 milioni di euro per tre anni. Con gara d’appalto regolare. Ma il passaggio dal vecchio fornitore al nuovo è gestito in maniera tutt’altro che impeccabile. A fine 2012 scade il vecchio contratto. Il nuovo gestore non ha ancora approntato i nuovi sistemi. Ma si stacca comunque la spina a una Rete attraverso cui passano fiumi

di informazioni vitali: vanno in tilt le richieste di sperimentazioni ai comitati etici che si ri-trovano dall’oggi al domani senza il sistema attraverso cui condividevano i pareri con gli altri comitati, con l’Aifa e con le aziende. «Abbiamo subito ritardi», racconta Ilaria Riela, della segreteria amministrativa del comitato etico dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano.

E vanno in tilt le prescrizioni di farmaci innovativi. Sono medicinali che costano un occhio della testa e funzionano soltanto in malati con caratteristiche molto precise. Per questo il loro impiego viene registrato e monitorato: solo così si può verificare che i farmaci siano somministrati unicamente ai pazienti giusti salvaguardando la loro salu-te e le casse pubbliche. I medici sono chia-mati a compilare schede e inviarle all’Aifa: fino a qualche mese fa per via informatica, e già si lamentavano di come questo sottra-esse tempo all’attività clinica. Oggi devono farlo a mano e spedire per fax. Con inevita-bili ritardi e con una colpevole sottrazione di tempo ai malati a vantaggio delle scartof-fie. L’Agenzia in un comunicato del 15 febbraio assicurava che tutto sarebbe anda-to a regime entro aprile. Ma, ci aggiorna il presidente dell’Aiom Stefano Cascinu, «sia-mo ancora in alto mare e non si vede con-clusione certa del problema».

Non solo. Il buco nel sistema informativo «è anche un potenziale danno economico», fa notare l’oncologo: «Tra i farmaci sottopo-sti a monitoraggio ce ne sono alcuni per i quali vige un sistema che consente allo Stato di ottenere il rimborso del prezzo di quei medicinali quando non abbiano ottenuto gli effetti sperati». Da sei mesi è caos, il flusso delle richieste di rimborso da parte delle Regioni alle aziende è in panne. E questi soldi rischiano sul serio di andare persi. Un bel gruzzolo di cui nessuno conosce l’am-montare esatto. n

L’appuntamento è per il prossimo 3 giugno quando verrà emesso il francobollo che celebra i dieci anni di attività dell’Agenzia. Che, così, tiene fede agli obiettivi fissati nel Piano di attività 2013, dove l’iniziativa era inserita nel capitolo dedicato al potenziamento dell’informazione e della comunicazione indipendente. Peccato, però, che, mentre il francobollo ha il vento in poppa, di informazione indipendente non se ne vede l’ombra. Perché non c’è traccia delle iniziative editoriali che, fino a qualche anno fa, avevano lo scopo di fornire un punto di vista indipendente ai medici che sono continuamente, e legittimamente, informati dalle industrie farmaceutice. Il “Bollettino di informazione sui farmaci” era la pubblicazione che meglio rispondeva a quest’idea. «Cercavamo di comunicare l’incertezza della medicina senza alcun interesse di parte come solo un’istituzione pubblica può fare», ricorda Antonio Addis, in passato responsabile per l’informazione scientifica dell’Agenzia e oggi membro della sua Commissione tecnico scientifica: «Nella massima indipendenza e trasparenza abbiamo affrontato temi spinosi, cercando di dare ai clinici strumenti per una scelta consapevole che li mettesse nelle condizioni di somministrare ai pazienti la terapia giusta». Quella più efficace e meno dannosa, dunque, e non quella meglio propagandata dalle aziende. Il “Bollettino”non costava un euro ai contribuenti: veniva finanziato attraverso un prelievo del 5 per cento sulle spese sostenute dalle aziende farmaceutiche per realizzare congressi. Ma dal 2009 l’Aifa ne ha sospeso le pubblicazioni. Stessa sorte è toccata a altre iniziative editoriali e alle attività di formazione a distanza che avevano coinvolto oltre 160 mila utenti tra medici, farmacisti, infermieri e altri operatori sanitari. In realtà, il tentativo di sostituire il Bif e le altre pubblicazioni con una rivista di analogo livello c’era stato. Non più di due anni fa l’Agenzia aveva pubblicato un bando europeo per l’affidamento del progetto grafico-editoriale di una nuova rivista: “Il Farmaco”: un bimestrale con una tiratura totale di 520 mila copie che sarebbe dovuta costare circa 1,5 milioni di euro. Ma poco dopo aver deciso la nomina del vincitore del bando, l’agenzia ha fatto marcia indietro e lo ha revocato. A.Mic.

Ah, il francobollo!

luca pani, direttore generale dell’aifa. a sinistra: stefano cascinu, presidente dell’aiom

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Non tutte la paste so-no uguali, ma tutte sono frutto di un processo tecnologi-co studiato minu-

ziosamente. E in ogni passaggio si conservano o si perdono le qualità organolettiche del pro-dotto. Che, per essere al meglio, deve innanzitutto essere di gra-no duro, con una giusta selezio-ne della miscela di grani. Per questo, un elemento discrimi-nante è anche il suo contenuto in glutine. Infatti, anche se po-tremmo pensare alla pasta co-me una semplice fonte di car-boidrati, è nella quota di pro-teine che risiede la qualità nu-trizionale ed organolettica; e un buon contenuto in glutine della frazione proteica garantisce un prodotto che al termine della cottura manterrà un’ele-vata elasticità e consistenza, limitando al minimo la perdita di amido (con conseguente ri-duzione dei valori nutriziona-li) nell’acqua di bollitura.

La buona pasta, non solo non fa in-grassare. Certamente, in quanto fonte di carboidrati, va tenuto in considerazione il suo apporto calorico. Ma cominciamo col dire che i carboidrati devono essere il primo ed il più importante dei macro-nutrienti. Il 55-60 per cento circa delle calorie totali di una dieta dovrebbe pro-venire dai carboidrati. Perché pasta e affini, nonostante il significativo appor-to calorico, predispongono molto meno al sovrappeso delle proteine e lipidi. E

questo perché i carboidrati vengono smaltiti molto rapidamente dal nostro organismo e, in presenza di bassi appor-ti di altri macronutrienti, le calorie che esse apportano vengono più facilmente disperse sotto forma di calore piuttosto che essere accumulate. Ma non tutti i carboidrati sono uguali. Gli zuccheri semplici e raffinati (quelli dei dolci) sono nocivi, perché quando consumati in ec-cesso favoriscono un rapido accumulo di energie. Quelli complessi, invece, co-

me l’amido (il costituente principale della pasta) sono i migliori, e questo in ragione del loro ridotto indice glicemico: un basso indice glicemico si traduce in una più prolungata sazietà, un peso migliore, un minore rischio di diabete. Meglio ancora se ai carboidrati si asso-cia un buon consumo di fibre alimenta-ri: di fatto un prodotto integrale è sicu-ramente raccomandabile per la nostra salute. Anche grazie alla buona funzio-ne intestinale, operata direttamente dalla fibra ed indirettamente da quella quota indigerita di amido che, raggiun-gendo la parte terminale dell’intestino, favorisce la crescita di una flora micro-bica benefica.

Esistono paste con alto contenuto di fibre, a basso indice glicemico, che rallen-tano l’assorbimento dei carboidrati, ridu-cono il picco glicemico ed apportano un maggior senso di sazietà. Queste paste possono apportare anche meno di 300 calorie x 100 g., contro le 350 circa di una pasta normale. La pasta Kamut, invece, di gran moda, non è una varietà di grano, ma il nome di un marchio registrato per commercializzare una varietà di grano: il Khorasan. Viene coltivato esclusivamen-te con metodo biologico e con lo standard più alto di qualità. Confrontato con altri tipi di grano apporta più proteine e una percentuale maggiore di alcuni sali sele-nio, zinco e magnesio. Ha una migliore digeribilità, ma i celiaci devono fare at-tenzione perché ricca di glutine. Chi è affetto da questa intolleranza può consu-mare una pasta aglutinata o quella fatta con farine di riso e mais (ne esistono an-che di tipo integrale).

Senza dimenticare che la pasta al dente è più digeribile di quella scotta, come lo è una pasta lunga rispetto alla classica pastina. Tutto cio perché la digestione inizia in bocca con la masti-cazione e nella saliva è presente un en-zima, la ptialina, che permette una mi-gliore digestione degli amidi della pa-sta. Se una pasta è al dente (e lunga) siamo costretti a masticare di più e quindi la digeriamo meglio. n

Scienze alimentazione

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Metti la pasta nella dietaCi sono tipi a basso indice glicemico. E con moltissime fibre. Senza glutine. Di riso e di mais. Ecco come scegliere lo spaghetto giustoDi nicola sorrentino

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Salute Scienze

sopra: un branco di salmoni selvaggi. sotto: la stanza multisensoriale al gaslini di genova

Ogm

Salmone bio-tech

un futuro più sereno può anche passare per una stanza speciale, in cui trovare risposte attraverso stimoli sensoriali a eventuali deficit. È la proposta del “locale su misura” per prematuri, bimbi con malattie genetiche o paralisi infantili gravi creato all’ospedale gaslini di genova. su modello dell’olandese “snoezelen”, studiato per favorire lo sviluppo di questi bimbi, come racconta paolo moretti, direttore dell’unità operativa di medicina Fisica e riabilitazione. Cos’è questa strategia di recupero?«l’ambiente multisensoriale, che può essere impiegato non solo nei bambini ma anche negli adulti, nasce per favorire la riabilitazione di bambini con grave disabilità cognitiva, sensoriale e motoria. lo scopo è quello di sostenere lo sviluppo senso-

psico-motorio facilitando il controllo delle emozioni, il rilassamento, l’orientamento spaziale e temporale, l’interazione con l’ambiente, il linguaggio di comunicazione non verbale».Quali percorsi proponete?«all’interno di questa stanza il bambino può mettere in azione tutti e cinque i sensi e può fare interagire al meglio quelli che funzionano, stimolando eventuali carenze. Questo avviene attraverso una serie di effetti luminosi, musicali e uditivi, di forme, aromi e superfici tattili. il percorso non viene fatto autonomamente dal piccolo, sempre accompagnato da un terapista e spesso anche da un genitore. proprio il terapista, sulla base delle carenze specifiche del bimbo e sulle necessità di recupero, attiva quindi gli apparecchi che possono aiutarlo e sono disponibili nella stanza. Fondamentale è che il progetto terapeutico venga studiato specificamente per ogni bimbo». Federico Mereta

PediatriaUna stanza tutta per luiColloQuio Con Paolo Moretti

altro che una mano santa contro il mal di schiena: le iniezioni epidurali di steroidi per sopportare i dolori aumentano il rischio di fratture alla colonna vertebrale. È quanto sostiene uno studio dell’Henry Ford Hospital di Detroit presentato al congresso della north american Spine Society di Dallas. i ricercatori guidati da Shlomo Mandel hanno analizzato l’incidenza di fratture a livello vertebrale su un totale di 6 mila pazienti sottoposti a trattamenti contro il mal di schiena. Metà dei malati, tra i diversi trattamenti, aveva ricevuto anche somministrazioni di steroidi per via epidurale. iniezioni che si sono però dimostrate associate a un aumentato rischio di fratture: più 29% per ogni somministrazione rispetto a chi non si era sottoposto al trattamento. i risultati, spiegano gli esperti, sottolineano l’importanza per i medici di informare i pazienti del rischio che corrono sottoponendosi a queste cure e di condurre screening sulla salute delle ossa prima di prescrivere le iniezioni. Soprattutto nelle persone che soffrono di osteoporosi. anna lisa Bonfranceschi

mal di Schienaattenti a quelle iniezioni

Ci sono voluti più di dieci anni e decine di milioni di dollari, ma l’Aquabounty oggi vede il traguardo più vicino. Il suo super-salmone, il primo animale geneticamente modificato per crescere il doppio di quello naturale nella metà del tempo e destinato all’alimentazione umana ha ottenuto dal-la Food and Drug Administraton il via li-bera ambientale. L’agenzia, infatti, ha detto che il salmone ogm non dovrebbe avere un impatto significativo sull’am-biente; la proposta ora sarà sottoposta al giudizio dei cittadini per sessanta giorni, scaduti i quali la commercializzazione potrebbe essere davvero vicina.

Il nuovo pesce è un salmone nel quale è

stato inserito il gene dell’ormone della cre-scita e questo gli permette di svilupparsi in due-tre anni contro i tre-quattro dei pesci naturali. Gli animali modificati sono solo femmine sterili che crescono in vasche chiuse,e per questo non potranno mai accop-piarsi e generare prole con specie selvatiche.

Secondo molti ambientalisti e associa-zioni di consumatori sarebbe un prodot-to inutile. Altri invece ricordano che il consumo di acidi grassi omega 3, racco-mandato ai cardiopatici per abbassare il rischio cardiovascolare, è in continuo aumento, così come quello di pesce, oggi sempre più scarso nei bacini naturali. agnese Codignola

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Tecnologia

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n. 22 - 6 giugno 2013

L’elezione del Presidente della Repubblica ha mostrato un uso dei social media e in particolare di Twitter tale da spingere alcuni commentatori a preoccuparsi per l’influenza sui rappresentanti in Parlamento. L’uso dei social media nel caso in questione è stato duplice: contestativo di alcune scelte e propositivo di altre. In particolare, la scelta del Pd di sostenere Franco Marini nel primo turno di scrutinio è stata contestata mentre la scelta del M5S di sostenere Rodotà ha riscontrato successo anche nella base dei democratici. Già questo uso duplice dei social media denuncia un luogo comune apocalittico: i social network non servono soltanto a protestare ma anche a proporre. Un’ulteriore considerazione può venire dall’assunzione di una generale predisposizione sfavorevole verso Marini (che infatti in Abruzzo non è stato rieletto) e favorevole verso Rodotà (che di solito riempie aule e piazze intervenendo sui suoi temi). Una predisposizione favorevole che lo stesso Pd ha testimoniato chiedendogli di candidarsi alle ultime europee o di intervenire durante la campagna elettorale per le politiche. Dunque, il cosiddetto “popolo del Web” probabilmente ha espresso un sentire diffuso ben al di là del Web. Denunciando così un altro luogo comune apocalittico: chi è in Rete, cioè noi tutti ormai, non vive sulla Luna. Di fronte a tutto questo, i parlamentari non potevano certo rimanere reclusi nel Palazzo e non tener conto di ciò che emergeva nelle loro cerchie sociali. Soprattutto se si trattava di richieste che alcuni tra gli stessi parlamentari avevano a loro volta avanzato e che solo un gruppo dirigente autoreferenziale non ha saputo cogliere. I social media in questo caso sono stati niente di più che uno specchio fedele di altro, della debolezza della politica e in particolare del Pd. @antonio_tursi

Non solo cyberChi è in Rete non vive sulla Lunadi ANTONiO TURSi

Sono lontani i tempi di “Me at the Zoo”, il primo video pubblicato su YouTube otto anni fa, nel quale uno dei suoi co-fondatori si faceva riprendere davanti alle gabbie in una clip molto amatoriale. Il sito che ha globalizzato il concetto di contenuti generati dagli utenti (nonché gratuiti, cioè finanziati attraverso la pubblicità) sta lavorando a una serie di canali a pagamento. Per circa due dollari al mese, a partire da una decina di Paesi, i visitatori di YouTube potranno abbonarsi ad alcuni canali “premium”, che evidentemente ritengono di riuscire a

spiccare grazie all’offerta dalla massa di video free. Si parla di contenuti per bambini, musica, intrattenimento. Per chi li produce sarà un modo per ampliare e differenziare le proprie fonti di reddito; per YouTube si tratta di un ulteriore passo in un territorio dominato negli Usa dalle piattaforme di streaming Netflix e Hulu. Anche se, per il sito di videosharing, l’advertising resta e resterà la base del proprio business: 1,3 miliardi di dollari di ricavi pubblicitari l’anno scorso; e quest’anno dovrebbe arrivare a 2 miliardi. Carola Frediani

GiornalismoCosì si proteggono le fonti anonime

Lo STAND DI YoUTUbe ALL’ULTIMo MIPCoM, LA FIeRA AUDIovISIvA DI CANNeS

business digitali | tWitteR e politica | RepoRting | messaggistica

Tutelare l’anonimato delle fonti è sempre più importante per il giornalismo investi-gativo. Così la rivista americana “New Yorker” ha lanciato Strongbox, una cas-setta della posta digitale sicura e anoni-ma, sviluppata tra l’altro da Aaron Swartz, l’attivista suicidatosi lo scorso gennaio. Si tratta di una piattaforma on line cui la gola profonda può accedere attraverso la rete Tor, che rende impossi-bile tracciare il pc dell’utente facendo

rimbalzare la sua connessione per il mondo. Una volta caricato, il file viene criptato e inviato a un computer che sta su una rete separata da quella della rivi-sta. I giornalisti potranno accedere ai materiali a loro volta attraverso un pc sicuro connesso via Vpn, una rete priva-ta protetta. Il file può essere quindi sca-ricato su una pennetta e infine dev’esse-re aperto e decriptato su un altro porta-tile non connesso a Internet. C.F.

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Tecnologia personal media

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Mentre navighiamo su Facebook con il cellu-lare, troviamo una foto che ci interessa: ci clicchiamo sopra con il dito e facciamo par-tire la chiamata con la

persona ritratta nell’immagine. Oppure ci arriva una telefonata sul nostro numero di cellulare e con un clic possiamo trasformar-la in una videochiamata ad alta definizione. Già che ci siamo, mandiamo al nostro in-terlocutore una foto che abbiamo sul nostro album di Facebook e poi coinvolgiamo nella stessa conversazione un altro amico, rendendola una videoconferenza a tre. Il tutto magari senza nemmeno bisogno di un clic: con un comando vocale o un gesto davanti allo schermo del cellulare.

Comunicheremo così, con il nostro cel-lulare, in un futuro prossimo: sono d’accor-do esperti, operatori e big come Google, Facebook. Tutte le ultime novità in fatto di servizi di chat e telefonia sul cellulare vanno in questa direzione: verso un’integrazione di diversi modi di comunicare. La parola scritta, la voce, il video, lo scambio di foto, i social network. Tutto concentrato in una stessa conversazione.

Ci credono molto anche gli operatori mobili ed è ovvio: è la loro ultima chance di tornare padroni delle chiacchiere tra i pro-pri clienti. Pensiamoci: l’ultima volta che gli operatori hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare è stato con il lancio degli sms, negli anni Novanta. Poi le novità sono venute tutte da big della Rete come Google, Apple, Facebook, Skype (che è di Microsoft). Ma anche grazie ad aziende ancora indipendenti, come Viber, fondata da ex dipendenti di Yahoo!, e la cipriota Whatsapp, che poche settimane fa ha rifiu-tato un’offerta di un miliardo di dollari da Google. Tutto questo mentre gli operatori, seduti sugli allori, continuavano a spremere la miniera degli sms: con margini di guada-gno stratosferici, perché un sms ha un costo industriale di meno di un centesimo di euro ma costa al consumatore molto di più.

Fine della pacchia: a decretare il declino degli sms è un recente studio di Informa

Telecoms & Media, secondo cui i messaggi scambiati ogni giorno con i servizi internet sono saliti ormai a quota 41 miliardi, nel mondo: sono più del doppio rispetto agli sms. Gli utenti di quei servizi sono stati 3,5 miliardi, contro i 586,3 milioni di persone che hanno mandato almeno un sms nel 2012. Il motivo è semplice. Non solo la chat è molto più interessante degli sms, ma è anche di fatto gratis: non è una cosa che l’utente paga a parte. Gli basta sottoscrive-re un canone per Internet mobile, che peral-tro diventa sempre più economico. Oppure collegare il proprio telefonino da un luogo dove c’è il Wi-Fi.

Soffre quindi il business degli operato-ri, soprattutto in Olanda e Spagna. I rica-vi da sms in Spagna sono calati a 785,5 milioni di euro nel 2011, ben lontani dai fasti del 2007, quando erano a 1,1 miliar-di di euro. In Italia gli sms sono ancora in auge, un po’ perché i nostri utenti sono meno giovani e più tradizionalisti e un po’ perché gli operatori si sono affrettati a reagire con offerte aggressive: dando sms illimitati o quasi a fronte di un canone mensile. Gli sms mandati dagli italiani sono aumentati quindi, ancora, nel 2012. Ma, certo, ormai gli operatori possono solo sognarsi i margini che facevano una volta sul singolo sms venduto.

Non c’è tregua per loro. I big di internet giocano al rialzo. Solo negli ultimi tempi: Facebook ha inserito nella chat la possibili-tà di telefonare via internet (in VoIP), Apple ha permesso le videochiamate (Facetime) ovunque (prima solo su Wi-Fi, adesso anche su reti mobili degli operatori). Da ultimo Google, a maggio: ha rivoluzionato il proprio servizio Hangout (chat e video-chiamate con fino a dieci persone in con-temporanea). Ora è un’applicazione su cellulari iPhone, Android e funziona anche su computer. Si integra con Gmail e con il social network Google+. Vive sulla cloud di Google: quindi, ritroveremo intatte le nostre conversazioni anche se cambiamo dispositivo; le foto ricevute sono accessibi-li sempre, via internet.

Come si vede, le novità di Facebook, Apple e Google vanno nella stessa dire-

I servizi gratuiti via Internet stanno uccidendo il vecchio “messaggino”. E i gestori telefonici rispondono con nuovi prodotti più evolutiDi ALESSANDRO LONGO

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zione: abbattere le barriere tra i servizi e integrare tutti i mezzi di comunicazione. Vic Gundotra, il responsabile del prodotto Hangout, ha spiegato che l’obiettivo è pro-prio quello di consentire agli utenti di fare tutto, con tutti, tramite un solo servizio: «Alcune app invece richiedono l’uso dello stesso sistema operati-vo (chiaro il riferimen-to a iMessage e Faceti-me di Apple); altre permettono le video chiamate ma non di scambiarsi foto». Han-gout deve ancora com-pletare il percorso ver-so l’applicazione “uni-versale”. A conferma che è questa la tenden-za per i servizi di chat Internet, «la principale critica contro Hangout è che ancora non per-mette di fare chiamate a numeri normali o di mandare sms, a diffe-renza di Skype. E il fat-to di non funzionare sui Windows Phone e sui Blackberry», dice Nitesh Patel, analista di Strategy Analytics, noto osservatorio spe-cializzato in telefonia mobile.

Gli operatori sono sulla stessa strada, ma decisamente in affanno. Hanno provato a lanciare applicazioni analoghe, come Tu-Me di Telefonica in Spagna (chat, video, scambio foto) o la recente Libon della francese Orange, che consente anche di fare chiamate VoIP a prezzi scontati verso i normali numeri di telefono. Operatori giapponesi provano a inserire la possibilità di giocare con altri utenti su Internet, nella stessa applicazione di messaggeria.

«Ma queste app degli operatori hanno poche chance di diventare popolari come quelle dei colossi di Internet», dice Patel. In Italia, Telecom ha provato un approccio diverso, come le app Tim Social e Tim Cloud, che consentono di mettere su Inter-net tanti file personali e quindi condividerli all’interno di un network di utenti che hanno lo stesso servizio. Qualcun altro ha provato invece a fare accordi con i colossi. Facebook quest’anno ha creato una versio-ne della chat Facebook Messenger persona-lizzata per l’operatore 3 Italia, che in prece-denza aveva stretto invece un accordo con

Skype (ormai tramontato). Un segno tra i tanti delle difficoltà in cui si dibattono i gestori di telefonia, che prima facevano il bello e il cattivo tempo.

L’orizzonte più ambizioso a cui gli ope-ratori lavorano è una nuova tecnologia: Rich Communications Systems. Peccato lo facciano da anni con scarsi frutti. In teoria, è una rivoluzione: servizi di comunicazione totale (voce, video, foto, chat) funzionanti su tutti i cellulari, senza bisogno di installa-re niente. Senza applicazioni, insomma: tutto integrato nel cellulare, alla stregua dei comuni sms. Ma finora pochi operatori l’hanno fatto: in Germania e in Spagna, per esempio, con l’iniziativa Joyn. Con il grosso limite che il servizio funziona solo tra uten-

ti di operatori che l’hanno lanciato. «Abbia-mo testato Joyn con un gruppo di utenti, che però non sembrano averlo apprezzato. Faremo un’altra sperimentazione a settem-bre», dice Claudio Sironi, responsabile in-novazione di Telecom. «Gli operatori devo-no insistere con i servizi integrati e conver-genti», dice Pamela Clark-Dickson, autrice dello studio di Informa. «Il canadese Rogers Wireless ha inventato l’identificativo unico associato a un numero di telefono, utilizza-bile per accedere a tutti i servizi dell’opera-tore su cellulare o su pc, con chat e VoIP». Una strada possibile.

«Telecom lavora a un futuro in cui la comunicazione mobile sarà parte delle altre cose che stiamo facendo, senza soluzione di continuità», sostiene Sironi. «Se vedo la foto di una persona o il suo profilo su un social network deve bastare un clic per av-viare una videochiamata o per scambiare un file, su qualunque cellulare. Adesso inve-ce spesso siamo costretti ad aprire un’altra applicazione», dice Sironi.

Telecom, come altri operatori, confida in particolare nell’Html5, la nuova ver-sione del linguaggio che è alla base del Web. «Con l’Html5 gli utenti potranno comunicare tra loro direttamente da una pagina web, con il browser, senza dover installare niente», continua. I cellulari non supportano ancora Html5, ma è l’e-strema speranza per gli operatori telefo-nici di respingere l’attacco di Google e gli altri colossi del Web. n

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GOOGLE HANGOUT. Rinnovato a maggio, ha chat, videochiamate fino a dieci partecipanti, scambio di foto. Basta un account di posta Gmail per usarlo. IMESSAGE E FACETIME. Gli utenti di prodotti Apple hanno alcuni servizi integrati nei cellulari, senza app esterne. Con un clic si mandano messaggi gratis e con immagini (iMessage) o si avvia una videochiamata (Facetime). Funziona solo tra iPhone o iPad.WHATSAPP. Circa 200 milioni di utenti e una popolarità crescente. Niente registrazioni: l’utente accede al servizio dando il proprio numero di cellulare. Funziona

su iPhone, Android, Windows Phone, Blackberry. Whatsapp è di un’omonima azienda con sede a Cipro.SKYPE Ha quasi un miliardo di utenti. Ampia gamma di funzioni: chat, chiamate vocali e video, scambio di file, possibilità di chiamare (pagando) i numeri normali. Appartiene a Microsoft.VIBER. Ha 200 milioni di utenti. È su Android, Windows Phone, Blackberry, iPhone e da maggio anche su computer. Permette chat e chiamate vocali (gratis tra utenti Viber, a pagamento verso numeri normali). Azienda fondata da due ex di Yahoo!.FACEBOOK MESSENGER. Il popolarissimo social network ha appena cominciato a integrare sistemi di comunicazione vocali (VoIP) nella propria chat, dove è possibile anche scambiare messaggi, foto. Va su tutti i tipi di cellulari e computer, ma la gamma di funzioni varia a seconda del dispositivo.

E tu preferisci WhatsApp o Facetime?

a SInIStRa: GlI uFFICI dI FaCeBOOk a tOROntO. SOttO: nIklaS ZennStROm, COFOndatORe dI SkyPe

Economia

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n. 22 - 6 giugno 2013

Test allo sportelloMutui fantasma Pochi sanno che tre anni fa l’allora ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, ha istituito il Fondo prima casa, 50 milioni di euro per i giovani precari con figli minorenni in cerca di un’abitazione. Il fondo consente di avere un prestito agevolato. Ma il marchingegno, di fatto, non ha funzionato granché: finora solo 101 coppie in tutta Italia sono riuscite a usufruirne.“L’Espresso” ha svolto un’indagine sul campo, presentandosi in una dozzina di agenzie bancarie romane. E scoprendo che nessuna propone al cliente i tassi più bassi previsti dalla legge. A Unicredit, che ha aderito al protocollo ministeriale, la funzionaria responsabile dei mutui propone varie opzioni, ma non il mutuo agevolato. Spiega che del Fondo non ha mai neanche sentito parlare. Identica risposta all’agenzia di Mps, dove ammettono di non aver mai applicato il tasso agevolato. Terzo tentativo con Intesa San Paolo. Le carte del cronista sono in regola: meno di 35 anni, Isee sotto i 35 mila euro, contratto precario, niente immobili. La legge spiega che si può chiedere un mutuo fino a un massimo di 200 mila euro, mentre la casa non deve superare i 90 metri. Niente da fare: anche Intesa non ne fa cenno. E la storia si ripete in tutte le altre agenzie visitate. Un vero peccato: il Fondo aiuterebbe molto chi non può chiedere un normale mutuo: lo Stato fa da garante per i richiedenti e la banca non può chiedere altre garanzie. Inoltre, lo Stato tutela i mutuatari nel caso in cui uno di loro o entrambi perdano il lavoro. Qualora trascorrano 100 giorni senza che vengano pagate le rate, la banca può chiedere la garanzia del Fondo e avviare la procedura per il recupero della quota del credito fino a 75 mila euro. I vantaggi teorici sarebbero enormi. Per un mutuo a tasso fisso di 170 mila euro a 30 anni oggi le banche chiedono in media una rata mensile di 973 euro, che con il Fondo scenderebbe a 794 euro.

Peter D’Angelo

L’82 per cento. È la quota del reddito complessivo Irpef assicurata dai redditi dei lavoratori dipendenti e dei pensiona-ti. Con buona pace del principio di pro-gressività stabilito nel dettato costituzio-nale. Nel 2012 (quindi redditi 2011) i dipendenti hanno dichiarato 422 miliar-di e 904 milioni di euro (52,83 per cento del totale) e i pensionati 233 miliardi e 863 milioni (29,22 per cento). Gli auto-nomi si sono invece fermati a 34 miliardi e 674 milioni (4,33), i redditi da impresa a 30 miliardi e 105 milioni (3,76), quelli da partecipazione a 34 miliardi e 953 milioni (4,37) e gli “altri” a 43 miliardi e 958 milioni (5,49).

Le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi dello scorso anno, pubblicate sul sito del Dipartimento finanze, sono state analizzate da “Fisco Equo”, la rivista te-lematica dell’ Associazione per la legalità e l’equità fiscale. «La percentuale di lavo-ratori dipendenti e pensionati», scrive Lelio Violetti, membro della Lef ed ex responsabile dell’ufficio studi della Sogei, «è in realtà ancora più alta, se si conside-ra da un lato che la prima abitazione (valore 8,5 miliardi) non concorre alla formazione dell’imponibile e dall’altro

che i redditi da lavoro autonomo, impre-sa e partecipazione sono al lordo dei contributi previdenziali, mentre quelli dei salariati sono al netto». A rendere l’Irpef sempre meno progressiva hanno concor-so tre scelte del fisco: la ritenuta alla fonte sui redditi da capitale, l’imposta sostitutiva applicata tra il 2008 e il 2011 ai soggetti cosiddetti “minimi” (commer-cianti e professionisti sotto i 30 mila euro) e l’opzione della cedolare secca per i proprietari di appartamenti affittati.

Stefano Livadiotti

Fisco iniquo

C’è reddito e reddito

Manager in pensioneGuarguaglini sfida Finmeccanica

CAPROTTI DYNASTY | buffeTT e l’OleODOTTO | eNeRGIA: DOVe SbAGlIA l’euROPA

A 76 anni Piefrancesco Guarguaglini non pensa proprio di ritirarsi. Dopo aver superato senza conseguenze il terremoto giudiziario che lo ha investito, l’ex capo di Finmeccanica torna sul mercato per fare concorrenza al colosso della difesa che ha guidato per un decennio. L’ingegnere di Castagneto Carducci a giugno 2012 ha creato la Gpm3, di cui è presidente e detiene il controllo assoluto (99 per cento), mentre l’1 per cento è in mano a Jacopo Baronti, classe 1981. Entrambi siedono nel consiglio, a fianco di Marina Grossi, moglie di Guarguaglini ed ex Ad di Selex Sistemi Integrati, controllata di Finmeccanica. Inizialmente Gpm3 doveva concentrarsi sulla fornitura di servizi di consulenza. Ma qualche settimana fa i soci hanno cambiato statuto. E allargato il raggio d’azione alla «commercializzazione di prodotti e servizi nel campo dell’alta tecnologia». Lo stesso mestiere di Finmeccanica e Selex. Camilla Conti

Distribuzione percentuale per tipo di reddito sul totale nel 2011

Lavoro dipendente+Pensione82%

Lavoro autonomo+Impresa+Partecipazione12%

Altri redditi6%

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Ho deciso di raccontare la verità su mio padre perché sono stufo di essere descritto come uno stupido, forse anche un po’ ladro... Giu-seppe Caprotti parla con voce tranquilla. Mostra qualche imbarazzo solo quando deve entrare nei dettagli più personali del suo duello con il papà Bernardo, proprietario dei

supermercati Esselunga, uno degli uomini più ricchi d’Italia e una specie di leggenda dell’imprenditoria nazionale.

È la prima volta che Giuseppe, 52 anni, accetta un’intervista da quando, dodici mesi fa, è iniziato lo scontro che ha portato la sua famiglia di tribunale. Di più: finora non aveva mai rivelato la sua versione dei fatti sulla clamorosa lite con il padre che, nel 2004, lo allontanò dall’impresa di famiglia, di cui era l’erede designato. La posta in palio della battaglia legale è il controllo di un colosso con 20 mila dipendenti e un giro d’affari da 6,5 miliardi di euro. Ma nel racconto di Giuseppe questo è solo l’atto finale di un rapporto segnato da vertiginosi alti e bassi. Dalle lettere traboc-canti d’affetto che Bernardo scriveva al figlio in villeggiatura fino alla perizia psichiatrica che gli fece fare a sorpresa, quando muo-veva i primi passi in azienda. «Quando tornai in ufficio, il diret-tore del personale mi chiese di consegnargli il referto. Rifiutai. Ma le pare, confesso qualche difficoltà d’inserimento e mio padre mi fa mandare dallo psichiatra?», ricorda Giuseppe.

Caprotti senior un personaggio lo è certamente. A 87 anni d’età, va in ufficio tutte le mattine, ama pranzare in mensa con gli impiegati ma fa fuoco e fiamme contro i sindacati. È consi-derato una specie di campione dell’alta borghesia brianzola, capace di regalare alla Pinacoteca Ambrosiana un dipinto di scuola leonardesca acquistato all’asta da Sotheby’s e di arruola-re il regista Giuseppe Tornatore per girare un film sull’Esselunga,

in cui lui stesso recita vestito da fornaio. Ma è noto in tutta Italia soprattutto per gli attacchi ai concorrenti delle Coop ros-se, sfidati con un libro - “Falce & Carrello” - regalato a migliaia di persone e promosso con ogni mezzo tra gli scaffali dei suoi 141 supermercati.

L’antefatto della dynasty dei Caprotti risale al 1996. Con l’o-biettivo di preparare per tempo ogni questione legata alla succes-sione, Bernardo gira le quote dell’azienda al primogenito Giusep-pe e alle sorelle Violetta e Marina Sylvia, che attraverso lo schermo di una fiduciaria diventano i proprietari dell’Esselunga. Si tiene l’usufrutto sulla metà delle azioni e il diritto di voto nell’assemblea della società, in modo da continuare a comandare. Passano quin-dici anni, segnati dai fatti che vedremo. Poi il blitz: nel febbraio 2011 Bernardo si riprende le azioni di Giuseppe e Violetta, i due figli nati dal primo matrimonio. Non si preoccupa di avvisarli: i due fratelli se ne accorgono solo dopo qualche mese, quando la fiduciaria a cui erano intestati i titoli smette di mandar loro ogni comunicazione. Bernardo non ha rivelato i motivi del suo gesto nemmeno nei documenti dell’arbitrato che ne è seguito. Nei fatti è come se l’intestazione ai primi due figli fosse sempre stata fittizia, una circostanza che rischia di causare un colossale procedimento fiscale (vedi l’articolo a pagina 109). «Anche per questa ragione per noi è fondamentale mettere in chiaro le responsabilità di tutta questa vicenda», dice Giuseppe, spiegando la decisione sua e della sorella Violetta di fare causa al padre.QUEI POMERIGGI CON MINAGiuseppe parte da una premessa: «A mio padre sono profonda-mente riconoscente, per tutto quanto ci ha dato e per le grandi soddisfazioni dei diciannove anni che ho passato in Esselunga». A dispetto del benessere di una famiglia di imprenditori da gene-razioni, i suoi primi ricordi non sono però sempre rosei. Ber-

Economia dynasty

Tutto su mio

PAdREGiuseppe Caprotti, figlio di Bernardo, patron di Esselunga, parla per la prima volta: la difficile convivenza, le accuse, il caso Walmart e la rottura. Un duello che continua Di luca piana - Foto Di Maurizio caMagna per l’espresso

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nardo e la mamma di Giuseppe si separano quando lui ha appena due anni. Con Violetta, nata da poco, viene affidato al papà e cresce accudito dalle bambinaie. «Anche se è stato un padre as-sente, sempre preso dal lavoro, ha saputo regalarci momenti di grande gioia. Ricordo i viaggi che facevamo d’estate. E le dome-niche passate ad ascoltare Mina, Jannacci, Sinatra», racconta. Casa Caprotti è però anche un luogo di liti, i cui contraccolpi non è facile dimenticare. I protagonisti sono Bernardo, i fratelli Guido e Claudio e la loro mamma, Marianne, i cui dissidi sono stati raccontati da “l’Espresso” nel numero del 20 dicembre 2012: «Durante un litigio Bernardo iniziò a spingere nonna Marianne per le spalle e la buttò letteralmente fuori casa, nono-stante lei cercasse di resistere. Il clima diventò pesantissimo e lei fu costretta a trasferirsi da alcuni conoscenti». UN MOTIVO PER ODIARMI Man mano che si avvicina la maggiore età, le attenzioni di Ber-nardo aumentano. Al figlio quindicenne scrive: «Ti voglio bene e sono qui per aiutarti, come tu aiuterai me quando sarò vecchio e tu sarai più gagliardo di me». Il momento sembra arrivare quan-do Giuseppe, laureato in storia alla Sorbona di Parigi, entra nel regno del padre, l’azienda. «Ricordo discussioni infinite per difen-dere le mie idee. A volte i fatti hanno dato ragione a me, in altre occasioni ci aveva visto bene lui», rievoca Giuseppe. Pian piano il rapporto fra i due si fa sempre più difficile. Il figlio sale nelle ge-rarchie aziendali ma, racconta, quasi smettono di parlare delle questioni importanti. Comunicano soprattutto per lettera. Ber-nardo gli riconosce diversi meriti: in una circolare interna del maggio 2001 spiega che del successo dei nuovi megastore cittadi-ni «va dato merito al Dottor Giuseppe», che sull’esempio ameri-cano ha saputo puntare sui prodotti non alimentari e avviato la scommessa del biologico. Il “Dottor Giuseppe”, però, riceve lava-te di capo da ragazzino imberbe. Il 13 marzo 2001 scrive nel modulo utilizzato da tutti per segnalare a Bernardo gli spostamen-ti del giorno successivo che parteciperà a un convegno sull’indu-

stria del “grocery”. Neanche andasse a giocare a bocce. Ber-nardo gli risponde vergando a penna: «Questa è bella! Vorrei vedere il materiale: invito (a pagamento?), interventi di chi, presenze, relazione». Ancora oggi, Giuseppe riesce a spiegare le reazioni di suo padre solo con una citazione dalle “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar: «Dice più o meno così: “Eravamo troppo diversi perché potesse trova-re in me quel continuatore docile che avrebbe usato i suoi stessi metodi e fatto i suoi stessi errori. Ma era obbligato ad accettar-mi. Ed era un’eccellente ragione per odiarmi”».SI PRENDA UNA VACANZA La svolta risale al 9 gennaio 2004. Giuseppe è amministratore delegato da un anno e mezzo. Ha cambiato alcuni manager. Ha aperto ai sindacati. Ha commesso l’errore di rilasciare un’intervi-sta a un settimanale, che l’ha chiamato “Mr Esselunga”. La mattina viene convocata una riunione dei dirigenti nel quartier generale, alle porte di Milano. All’esterno sono parcheggiate quattro Mercedes nere. Ma la riunione non ci sarà: è solo una scusa per assicurarsi che tutti siano presenti. Bernardo chiama Giuseppe e gli comunica che tre dirigenti sono stati licenziati. Il motivo? Tutto è partito sei mesi prima con un report interno di cinque pagine, scritto da un manager della vecchia guardia, ricco di allusioni ma povero di riscontri oggettivi, dove vengono venti-lati possibili favoritismi nei confronti di alcuni fornitori. Dalle finestre tutti osservano i tre fatti salire sulle auto nere, uno dopo l’altro. La quarta Mercedes resta vuota. Una scena da processo staliniano. Il giorno dopo Giuseppe va dal padre. «Gli chiedo se l’ultima automobile era per me. Mi risponde, ridendo: “Non an-cora”. Dopo qualche settimana la sua segretaria mi suggerisce di prendermi una vacanza. Al rientro vengo parcheggiato in una società esterna. Continuo a chiedere chiarimenti ma non mi viene

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BernArdo CAprotti. A deStrA: un SuperMerCAto eSSelungA

6 giugno 2013 | | 107

mai fornita alcuna prova di comportamenti disonesti da parte dei tre dirigenti. Poco dopo leggo sui giornali che mi ha tolto tutte le deleghe. Da allora non ho più messo piede in azienda», racconta. IL RISCATTO DEL CAPOBANDA Incapace e un po’ ladro, è dunque la sentenza - immotivata e inappellabile - su Giuseppe, che nel tempo viene ripetuta più volte. In una nota internadell’ottobre 2005 Bernardo parla te-stualmente di una «banda del Dottor Giuseppe». E in “Falce & Carrello” scrive che sotto la gestione del figlio aveva trovato spazio un «ciarpame manageriale» di cui per fortuna «fu facile liberarsi». È da allora che Giuseppe si rimprovera un errore: «La sua opera di demolizione psicologica mi ha paralizzato per al-cuni anni. Non sono stato abbastanza forte da troncare i rap-porti e ho sbagliato ad accettare di continuare a ricevere lo sti-pendio». Nel frattempo, però, ha condotto un minuzioso lavoro di ricostruzione per capire i motivi della rottura. Ha steso un

elenco con le 158 persone, dai manager alle semplici segretarie, che dopo di lui sono stati allontanati dagli uffici: «Alcuni erano in Esselunga da 37 anni. Ci sono il suo av-vocato di sempre e il suo braccio destro fin dagli esordi, Paolo De Gennis. Non crede che siamo un po’ troppi per una banda di ladri che operava nell’ombra?», sorride. Una soddisfazione è stata ricevere una raccomandata dall’autore del report inter-no all’origine dei primi tre licenziamenti, un dirigente di nome Gianni Lembo. Poco dopo aver cambiato impiego, ha scritto a Giuseppe di aver fatto presente al padre che «quando era lei a dirigerla, l’area commer-

ciale veniva gestita secondo criteri molto più precisi e puntuali».Non è l’unico documento con cui si presenta all’intervista. Per

corroborare la sua verità, ha raccolto dai cassetti di famiglia atti, lettere, persino gli appunti dello zio Guido, che «per primo, con l’amico Marco Brunelli e Bernardo, ha avuto l’idea di creare l’Esselunga e che purtroppo è scomparso da poco. Già trent’anni fa zio Guido biasimava l’abitudine di Bernardo di non risponde-re alle richieste di spiegazioni e di dividere i familiari in clan», racconta, illustrando le memorabilia di famiglia. LA STRAFOTTENZA DI ZUNINO A Giuseppe interessano soprattutto le prove di quello che lui chia-ma «il putsch del 2004». Bernardo si è vantato più volte di aver rimesso in sesto l’azienda dopo la gestione del figlio. I bilanci dell’Esselunga in quegli anni per Giuseppe fanno però nascere vari dubbi. Il primo riguarda i premi promozionali che i fornitori pagano a seconda dei volumi di vendita raggiunti dai loro prodot-

ti. «Ci sono 36,4 milioni di euro di premi che sono stati contabilizzati nel 2004 ma che, in realtà, erano relativi al 2003», spiega. Il se-condo dubbio riguarda un’altra voce che ha fatto impennare i conti del 2004 – un proven-to straordinario di 23,9 milioni da “parteci-pazioni in imprese controllate” - sulla quale ha chiesto invano spiegazioni. «Mio padre mi ha accusato, sono parole sue, di aver “ammaccato i bilanci”. In realtà, i sessanta milioni di queste due voci hanno l’effetto di migliorare i conti del 2004 e di affossare quelli del 2003», analizza Giuseppe.

SUL PIAZZALE SONO PARChEggIATE qUATTRO mERCEDES NERE. vI SALgONO TRE mANAgER LICENZIATI. «LA qUARTA È PER mE?», ChIEDE gIUSEPPE

Dipendenti Numero Fatturato Utile ante imposte punti vendita in milioni di euro in milioni di euro

Coop 52.799 1.468 11.600 183,70

EssElUNga 19.685 141 6.445 356,84

Carrefour ItalIa 16.528 450 5.405 0,03

auChan ItalIa (1) 18.654 328 5.158 - 0,01

(1) Il gruppo auchan opera anche con le insegne Sma, Cityper, Simply

fonte: fonte: r&S Mediobanca, dati riclassificati relativi ai bilanci 2011

Caprotti re dell’utile

108 | | 6 giugno 2013

Le sorprese sono numerose. I documenti inediti rivelano che dal 1998 il gruppo aveva sottoscritto contratti derivati per 560 milioni di euro, su cui nel 2002 iniziava a registrare ingenti perdite. Spiega Giuseppe: «Erano tutte operazioni effettuate prima che diven-tassi amministratore delegato e delle quali io e Violetta, che pure eravamo in consiglio, non abbiamo mai saputo nulla. Possiamo solo presumere che fossero avallate da Bernardo e dal direttore finanziario Carlo Alberto Corte Rappis». Per inciso: lo stesso dirigente che, con Caprotti senior, qualche anno prima aveva patteggiato una pena per una storia di tangenti alla Guardia di Finanza. Un altro incartamento documenta come Bernardo avesse prestato 130 milioni di euro a Luigi Zunino, l’immobiliarista che aveva il compito di muoversi nella giungla delle approvazioni per costruire i nuovi supermercati. Lo stesso Bernardo, a un certo punto, temeva che Zunino potesse fallire, lasciandolo in un mare di guai. E, in un memorandum ri-servato datato 19 marzo 2003, si lamentava dell’atteggiamento «strafottente» dell’immobiliarista: «Non ho dormito tre mesi nel timore di aver esposto l’azienda a un colossale dissesto».VOLEVA VENDERE Non c’era nessun furto, dunque. E nessuno, neppure Bernardo, è esente da errori quando si gestisce un colosso. Ma quel che colpi-sce è il tratto umano. Giuseppe ricorda un pranzo del dicembre 2003, pochi giorni prima delle Mercedes nere: «Ci troviamo per festeggiare il mio compleanno. Lui parla tutto il tempo, senza dirmi nulla di quanto sta preparando. Quando rientriamo in uf-ficio, cominciamo a discutere. Alza la voce, come fa sempre perché tutti lo sentano, e grida: “Se non esci da qui, chiamo le guardie”. Gli rispondo che dovrebbe vergognarsi». Anche per i fatti succes-sivi servirebbe un romanzo. Giuseppe ha scoperto che nel 2007 Bernardo ha donato un milione di euro a testa ai dirigenti che avevano avuto il compito di licenziare i primi tre manager. Soldi prelevati dai suoi conti personali, non da quelli dell’azienda. Di

recente, poi, è entrato in contatto con un fornitore che gli ha raccontato come un emissario dell’Esselunga, all’epoca del putsch, gli avesse offerto di aumentare i suoi contratti in cambio di una bugia: doveva raccontare di essere stato vittima di un tentativo di estorsione da parte degli uomini di Giuseppe, che volevano fare la cresta sull’acquisto di verdure.

Un passaggio decisivo è la sfiorata vendita dell’Esselunga al gruppo americano Walmart, nel 2005. «In pubblico Bernardo diceva sempre che non avrebbe venduto mai. Ma quell’anno mi ha fatto sottoscrivere un accordo fiduciario, depositato dal no-taio, per procedere alla cessione dell’azienda: prevedeva una donazione di una parte delle mie azioni, i corrispettivi che ciascu-no avrebbe ricevuto dalla vendita, il conferimento degli immo-bili in un trust in favore dei miei tre figli e una procura per dare a lui modo di concludere», racconta Giuseppe. Proprio su questo documento saltò tutto: «Io ero disponibile a una procura che servisse esclusivamente a vendere, lui insisteva per un mandato più generale che gli avrebbe dato modo di fare qualsiasi cosa, anche accedere al mio conto in banca». Nelle risposte alle lettere di spiegazioni che Giuseppe gli scrive, il padre a volte è concilian-te. A volte picchia duro. Il 9 dicembre 2010 dice al figlio che

vorrebbe sue notizie: «Non so se la tua av-versione nei miei riguardi te lo impedisca. Penso che questa situazione sia per te pesan-te, forse non quanto è per me». Cinque mesi più tardi, l’11 aprile 2011, dimentica di averlo chiamato “capobanda”: «Io non ho mai sentito dire che tu sei un disonesto. Certamente queste dicerie sono una conse-guenza della tua propaganda». In questa ultima lettera ci sono alcuni riferimenti molto personali. Manca una notizia fonda-mentale: due mesi prima Bernardo si è ripre-so le quote dell’Esselunga di Giuseppe e Violetta. Una mossa per la quale il figlio ancora non trova un perché: «Ora però so che non posso vantare l’esclusiva del tratta-mento che ho ricevuto. Lui vuole essere e restare onnipotente». n

Economia

violetta caprotti in un supermercato

C’è un risvolto fiscale che può valere decine di milioni di euro nella battaglia legale per il controllo dell’Esselunga. Tutto nasce dalle norme tributarie che regolano i redditi che provengono dai dividendi che una società paga ai propri azionisti. L’imposta sul reddito delle persone fisiche (l’Irpef), in questo caso, si applica soltanto sul 40 per cento dei proventi garantiti dai dividendi. La situazione cambia nel caso di un’intestazione fittizia - o di un cosiddetto “portage” - delle quote azionarie di una società, come il fisco potrebbe sostenere nel caso di Esselunga, visto il modo in cui Bernardo Caprotti si è ripreso le azioni intestate nel 1996 ai figli. I guadagni realizzati in questi anni su quelle partecipazioni avrebbero dovuto essere dichiarati sotto una dicitura diversa, quella di “redditi diversi”. Che vanno interamente nella base imponibile su cui calcolare l’Irpef, e non solo in misura limitata al 40 per cento. La Supermarkets Italiani (come si chiama la holding di Essleunga) non ha sempre distribuito un dividendo in maniera regolare. Ma ci sono anni in cui i soci si sono visti staccare una super cedola. Un esempio è il 2006, quando è stato pagato un dividendo straordinario di 368,8 milioni di euro. E in questo caso, la differenza fra la tassazione dei dividendi e quella piena non è poca cosa.

Il fisco accende un faro

110 | | 6 giugno 2013

Un presidente, un miliardario, una ferrovia e un oleodotto. A seconda della decisione che il presidente prenderà sull’oleo-dotto, il miliardario potrà di-

ventare ancora più miliardario perché i suoi treni produrranno più profitti. Ecco la storia che nei prossimi mesi rischia di infuo-care due dibattiti in una volta: quello sulle politiche di Obama per l’ambiente e quello dei rapporti del presidente con i suoi finan-ziatori. La miccia sarà il sì o il no alla co-struzione del Keystone XL Pipeline, un tubo lungo 2.700 chilometri che dal confine con il Canada dovrebbe trasportare petrolio fino alle raffinerie di Port Arthur, in Texas.

L’oleodotto parte molto a nord, in Cana-da, per l’esattezza nello Stato di Alberta, dove quasi all’inizio del circolo polare arti-co ci sono le sabbie bituminose. È una mi-niera a cielo aperto dalla quale si ricava petrolio trattando un terreno sabbioso imbevuto di bitume. Questo petrolio ha come destinazione naturale le raffinerie degli Stati Uniti, che acquistano il 99 per cento di tutta la produzione canadese de-stinata all’esportazione. La TransCanada, una società che ha già costruito un lungo tubo che da Haridsty, in Canada, arriva fino a Steele City, in Nebraska, e poi si al-lunga a est raggiungendo Patooka, in Ili-nois, ha progettato una seconda pipeline che dovrebbe arrivare dal Canada sino alle coste texane bagnate dal Golfo del Messico con un rotta molto più diretta attraverso gli stati del Montana, del South Dakota e del Nebraska.

Se in Canada non ci sono stati molti problemi sul tracciato dell’oleodotto, il progetto in terra americana ha scatenato un inferno di proteste ambientaliste guida-te dagli attivisti del Sierra Club. Michael

Brune, il direttore esecutivo dell’organizzazione, è riuscito a portare in una gelida giornata dello scorso febbraio decine di migliaia di persone a manifestare a Washington, davanti alla Casa Bianca, con lo scopo di convince-re l’amministrazione Obama a bocciare anche la seconda ipote-si di tracciato in terra statuniten-se, in particolare il passaggio del tubo in Nebraska. Secondo il progetto, l’oleodotto avrebbe dovuto attraversare l’area delle Sand Hills che copre la regione acquifera di Ogallala, la fonte di acqua potabile e per irrigazione di decine di milioni di persone. La sola idea di una perdita di petro-lio in questa zona ha fatto sì che la Casa Bianca decidesse per il blocco dei lavori, motivato dalle norme che richiedono il permes-so dei Dipartimento di Stato quando infrastrutture di questo tipo arrivano da una Stato stra-niero, e una nuova progettazione con obbligatorio studio di impat-to ambientale.

Oggi, Keystone è completo in terra canadese e attende i per-messi del governo federale per il tratto che va dal confine sino a Steele, in Oklahoma. Invece il tratto tra Steele e Port Arthur ha ottenuto i permes-si necessari ed è già stato costruito per due terzi dei 780 chilometri di lunghezza: i lavori furono inaugurati personalmente da Barack Obama.

Le polemiche tra i sostenitori della neces-sità di completare al più presto l’opera e coloro che invece vorrebbero cancellarla o

quantomeno far passare il tubo in una zona non sensibile dal punto di vista ambientale hanno anche compreso la discussione su quanti posti di lavoro questa impresa potrà creare. I sostenitori ritengono che ci saran-no oltre 20 mila nuovi impieghi, i contrari parlano di qualche dozzina. Alla fine è in-tervenuta in prima persona la TransCanada dicendo che per la costruzione servono

Economia usa / progetti controversi

Quell’oleodotto non s’ha da farE

Oggi portare il petrolio con i suoi treni è un affare per Warren Buffett. Domani tutto potrebbe finire. Ma gli ambientalisti...

Di antonio carlucci Da new york

Warren Buffett

6 giugno 2013 | | 111

3.500 lavoratori diretti, mentre per far funzionare l’oleodotto che potrà trasporta-re 830 mila barili di petrolio al giorno sa-ranno sufficienti 35 addetti.

In attesa della decisione finale, prevista tra la fine dell’estate 2013 e l’autunno, il petrolio canadese e quello americano dei Bakken Field del North Dakota viaggiano in ferrovia fino alle raffinerie. Rotaie, sta-zioni, locomotori, vagoni, più tutte le infra-strutture appartengono al miliardario War-ren Buffett, che ha comprato nel 2010 la società Burlington Northern Santa Fè, co-nosciuta come Bnsf, per 26,5 miliardi di dollari. Per l’acquisizione Buffett ha utiliz-zato la sua società cassaforte, la Berkshire Hathaway, che già possedeva il 25 per cento delle azioni della Bnsf e che offrì 100 dollari per azione per il controllo totale. Buffett ha così messo le mani su un’infra-struttura ferroviaria che dispone di una rete lunga oltre 50 mila chilometri: dal Golfo del Messico alla Califonia, dalla re-gione dei Grandi Laghi ai porti del Pacifico degli Stati di Washington e Oregon. La

Bnsf è la seconda società ferroviaria specia-lizzata nel trasporto di merci sia per esten-sione degli impianti sia per fatturato.

Negli ultimi anni, il Canada ha pompato sempre più oro nero dai suoi giacimenti e ha intensificato lo sfruttamento delle sabbie bituminose. Gli Stati Uniti hanno lanciato quella strategia che vuole il paese autono-mo dal punta di vista energetico e hanno accelerato l’estrazione, soprattutto di gas. Per queste ragioni, la domanda di trasporto dell’oro nero fino alle raffinerie o ai porti dove viene caricato sulle petroliere per es-sere inviato in altri paesi, è così alta che non

può essere interamente soddisfatta dalle strutture ferroviarie made in Usa. Nell’ulti-mo anno l’invio di petrolio via ferrovia è aumentato del 44 per cento, tanto da obbli-gare tutte le società ferroviarie a nuovi in-vestimenti. Una manna per l’economia americana: gli economisti calcolano che per ogni dollaro investito in binari, vagoni, stazioni se ne generano altri tre in investi-menti correlati.

Il fatturato dei treni di Buffett è miglio-rato anno dopo anno: nel 2010 venivano trasportati 321 mila barili al giorno e la previsione per l’anno prossimo è di 700 mila barili al giorno. Il trasporto via ferro-via costa dai 20 ai 28 dollari al barile, mentre quello via oleodotto è più basso: dai 3 ai 5 dollari in meno rispetto al treno. Il boom di Bnsf, grazie alla domanda maggiore dell’offerta, si è allargato alle società che costruiscono vagoni adatti a contenere il petrolio grezzo e una delle società più importanti, Union Tank Car, appartiene sempre a Buffett.

Il miliardario è diventato il bersaglio preferito della stampa conservatrice che lo indica come il burattino che manovra non solo le manifestazioni degli ambientalisti ma anche il presidente Barack Obama avendolo convinto a rallentare, se non a fermare per sempre, la costruzione dell’o-leodotto.

Se non esistono prove di pressioni del miliardario sul presidente (è noto invece il sostegno politico di Buffett a Obama, a cominciare da una politica fiscale che faccia pagare di più ai ricchi, e alcuni finanziamen-ti nel corso degli ultimi anni alle sue cam-pagne elettorali). La polemica è stata così forte, che Buffett ha deciso di uscire allo scoperto con un comunicato con il quale ha smentito di aver mai parlato con il presi-dente o con membri del governo dell’oleo-dotto Keystone. E ha aggiunto: «Non ho alcuna qualifica per avere opinioni che possano aiutare nelle decisioni non essendo un ingegnere, né un geologo».

Ma tutti attendono comunque la deci-sione finale del governo federale e della Casa Bianca. E quel giorno, le polemiche saranno ancora molto forti. Se Keystone sarà bocciato la destra accuserà il presi-dente di essere un campione del crony capitalism, il capitalismo degli amiconi, se invece sarà bandiera verde per la pipeline saranno gli ambientalisti a prendersela con la Casa Bianca. n Fo

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STATI UNITI

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Oleodotto KeystoneesistenteProposta di ampliamento

Dal Canada al Golfo del Messico

Il costo vIa ferrovIa è dI 20-28

dollarI a barIle. quello vIa tubo è

InferIore dI 3-5 dollarI

112 | | 6 giugno 2013

La scorsa settimana, i leader europei hanno espresso forti preoccupazioni per l’alto co-sto dell’energia in Europa e per l’impatto che questo può

avere su famiglie e imprese. Ancora una volta, però, sono rimasti fermi a una politica europea dell’energia che sembra un libro di propositi e slogan astratti ripetuti dietro un muro d’ipocrisia da chi conosce superficialmente i problemi dell’energia e – soprattutto – ritiene di vivere in un’oasi di benessere in cui è possibile permettersi molti lussi. Faccio solo alcuni esempi.

Ancora oggi, sotto la spinta della Ger-mania e con la complicità di tutti gli altri paesi, l’Europa mette al centro delle sue politiche lo sviluppo delle energie rinno-vabili. Ma in tempi di crisi, le rinnovabili rappresentano un fardello sempre più pesante da sostenere per i cittadini europei che, perlopiù ignari, ne pagano l’alto costo nelle loro bollette elettriche: nella sola Germania, questo costo per i contribuenti è stato di 17 miliardi di euro nel 2012. Tuttavia, mentre l’Unione europea confer-ma imperterrita questa politica, il vecchio carbone espugna i benefici ambientali prodotti dalle rinnovabili.

Nel 2012, le esportazioni di carbone statunitense verso l’Europa sono cresciute di quasi il 25 per cento, trovando come acquirenti più forti imprese britanniche e – guarda caso - tedesche. Negli Stati Uniti si prevede che l’export di carbone verso l’Europa aumenti di un altro 30 per cento quest’anno, complici i prezzi stracciati del carbone americano.

Peccato che il carbone sia la fonte di energia non solo più inquinante, ma an-che più dannosa per emissioni di anidride carbonica. Peccato che il suo revival, unito alla bassa domanda di elettricità e

ai costi stracciati dell’elettricità da rinno-vabili nei momenti di picco di una gior-nata, stia mettendo in crisi molte cen-trali elettriche alimentate a gas natura-le, costringendo a prevederne la chiusu-ra o il congelamento in molti paesi eu-ropei. Peccato, infine, che le centrali a gas siano non solo più pulite di quelle a carbone, ma anche integrabili con le rinnovabili, in quanto possono com-pensare immediatamente la caduta di produzione elettrica da fonti intermit-tenti come sole e vento quando sole e vento non ci sono.

Ma dall’Europa non è uscita una sola parola su queste contraddizioni e nella “verde” Germania la rinascita del carbone passa sotto silenzio, mentre l’industria te-desca è quasi completamente esentata dal pagare l’extra-costo elettrico delle rinnova-bili per non perdere competitività , cosicché l’intero fardello ricade sulle famiglie tede-sche (a differenza dell’Italia, dove il fardello lo pagano tutti).

Non contenti, i politici europei conti-nuano a stravedere per i biocarburanti, dopo aver a lungo sbagliato a definirne le qualità (non si erano accorti che i biocar-buranti detti di prima generazione com-portavano più danni che benefici), e sen-za aver capito che una loro produzione

intensiva comporta consumi di acqua, di fertilizzanti, impoverimento della terra e costi che – ancora una volta – l’Europa non può permettersi.

Nel frattempo, però, la Ue sembra pre-occupata, almeno a parole, dal divario di costo dell’energia europea rispetto a quel-lo statunitense, che offre un vantaggio competitivo enorme all’industria manifat-turiera americana. Purtroppo, il vantaggio è incolmabile. L’America è l’Arabia Saudi-ta del carbone, la più economica e sporca tra le fonti di energia, e grazie alla rivolu-zione dello shale gas (che in Europa non sarà possibile, nonostante alcune aspetta-tive malfondate - vedi box a destra) ha prezzi del gas che oggi sono poco più di un terzo di quelli europei. Così in Europa avanza un’altra idea superficiale: puntare a importare più gas dagli Stati Uniti e da altri paesi, così da abbassare il costo del gas europeo. Tuttavia, negli Usa le autoriz-zazioni a esportare gas sono concesse con il contagocce, poiché più gas si esporta, più ne sale il prezzo interno. Difficilmente entro il 2020 gli Usa esporteranno più di 80 miliardi di metri cubi di gas (grossomo-do l’intero consumo italiano di un anno), e gran parte di quel gas andrà verso l’Asia dove i prezzi sono molto più remunerativi di quelli europei. Non solo. Per produrre gas in grande quantità, l’industria ameri-cana ha bisogno di un prezzo interno di almeno 5 dollari per MBtu (l’unità di mi-sura usata nel settore per valutare il meta-no a parità di potere calorifero), ed è probabile che presto arrivi a quei livelli. Per valutare il costo di esportazione, a questo prezzo (materia prima) vanno ag-giunti almeno 3,5 dollari di costo di capa-cità (liquefazione del gas), più altri 2 dol-lari di costo trasporto e perdita di volumi. Risultato: nel migliore dei casi, l’acquiren-te europeo del gas americano non avrà un

L’Europa sogna il sole ma va avanti a carbone

Si punta sulle rinnovabili, ma a

parole. Si progettano gasdotti, ma il gas non c’è. Processo

alle politiche energetiche del

Vecchio Continente

Leonardo Maugeri

Economia

6 giugno 2013 | | 113

grande vantaggio rispetto a un prezzo medio del gas di circa 11 dollari per MBtu che viene pagato oggi alle frontiere euro-pee. Ma l’illusione è forte, anche perché – ripetendo un copione consueto - l’Unio-ne Europea usa dati vecchi: in particolare, per analizzare il mercato americano del gas ha usato i dati del 2012, quando il gas negli Usa costava la metà di oggi. L’illusio-ne di poter importare più gas da nuove

fonti a prezzi più vantaggiosi va oltre gli Stati Uniti e trascina con sé un’altra idea balzana per i consumatori europei: quel-la di costruire più infrastrutture di rigas-sificazione e trasporto in Europa. L’Italia ha dato il meglio di sé nella sua interpre-tazione di questa idea, proponendosi come hub (snodo) europeo del gas. Que-sto significa costruire nuove infrastruttu-re che saranno perlopiù sottoutilizzate,

visto che gran parte del nuovo gas disponi-bile nel mondo andrà verso i mercati asiatici e quello che rimarrà non sarà molto econo-mico poiché i costi di liquefazione stanno aumentando in modo vertiginoso. Qualcu-no, però, quelle infra-strutture le pagherà: chi? I soliti cittadini, che se le vedranno spalmate in bolletta, come le rinnovabili, i Cip 6 e tanto altro ancora. L’unico ap-pello sensato uscito

dal vertice europeo è quello di connet-tere i gasdotti esistenti in Europa e rea-lizzare finalmente un mercato integrato del gas. Ma è un tema di cui si parla da almeno dieci anni, e se ne continua soltanto a parlare. Per il resto, nessuna idea nuova e nessuna ammissione di ipocrisia e errore che possano far spe-rare in un corso diverso delle cose.

leonardo [email protected]

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Se ne parla su www.espressonline.it

Anche se l’Europa decidesse di aprire le porte al fracking, o fratturazione idraulica - la tecnologia che ha consentito agli Stati Uniti di produrre enormi quantità di gas e petrolio da formazioni non convenzionali - l’Europa non potrebbe mai replicare una “rivoluzione shale” di stile americano.Questo non tanto per le possibili opposizioni ambientali a una tecnologia che molti ritengono devastante (a mio parere con troppe esagerazioni) o per la mancanza in Europa di diritti privati di sfruttamento del sottosuolo. No, il problema c’è, anche se ancora nessuno ci ha fatto davvero caso.

Il problema è che se anche esistessero grandi formazioni shale a basso costo in Europa – cosa alquanto dubbia – sarebbe necessario perforarle di continuo a ritmi impressionanti, perché la produzione di ogni singolo pozzo shale decresce drasticamente in pochi mesi. Nel 2012, negli Stati Uniti sono stati messi in produzione oltre 4 mila nuovi pozzi di shale oil, quando nel mondo intero (con l’eccezione di Stati Uniti e Canada) il numero dei pozzi di petrolio e gas – convenzionali e non - portati in produzione è stato di circa 3.900 unità (di cui poco più di 100 in Italia). Inoltre, la maggior parte dei pozzi shale

americani è stata perforata in Stati come Texas e North Dakota, con bassissima densità di popolazione e lunga storia di perforazione intensiva. In Nord Dakota oggi è necessario portare in produzione più di mille pozzi l’anno solo per mantenere i livelli produttivi raggiunti alla fine del 2012.L’Europa (e l’Italia) non solo non hanno i mezzi tecnici per affrontare un processo così pervasivo, ma non potrebbero mai accettare l’intensità che questo implica, ossia una perforazione senza precedenti di migliaia di pozzi ogni anno in aree densamente popolate come quelle del nostro continente. L. M.

Ed è impossibile la rivoluzione shale

UNA mINIErA DI CArboNE. NELLA pAGINA A FIANCo: LEoNArDo mAUGErI

Speciale Green

Terra NostraLa pLaSTica NeGLi oceaNi, Le meGaLopoLi, L’SoS cLima. iL piaNeTa È iN affaNNo. ma GLi uomiNi STaNNo cambiaNdo. ecco comea cura di daNieLa miNerva Fo

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116 | | 6 giugno 2013

Speciale Green Mappa dei rischi

EMERGENZA PIANETA6 giugno 2013 | | 117

Aumento dei consumi, urbanizzazioni selvagge, predominio dei combustibili fossili, spostamen-to della produzione in Paesi poveri e poco rego-lati. Un mix di cause con conseguenze letali per gli abitanti del pianeta. Soprattutto per quelli che vivono in nazioni particolarmente vulnera-bili ai cambiamenti climatici. Come gli Stati

Uniti, flagellati negli ultimi anni da tempeste, uragani e altri eventi di violenza insolita, tra cui il tornado che il 20 maggio ha devastato Oklahoma City causando decine di vittime. Quest’an-no l’Onu ha deciso di celebrare la Giornata Mondiale dell’am-biente, in programma come sempre il 5 giugno, nella capitale della Mongolia, Ulan Bator, balzata negli ultimi anni in cima alle classifiche dei posti più inquinati al mondo a causa del boom minerario che ha coinvolto la nazione. Risultato: oltre all’aumen-to del Pil, è stata registrata una diminuzione delle piogge in buona parte del Paese. Un’autentica sciagura per chi vive di allevamento. «La Mongolia sta affrontando sfide enormi a causa dei cambia-menti climatici: ci sono rischi per la sicurezza alimentare, per i tradizionali gruppi nomadi e per le forniture d’acqua», ha ricor-dato il direttore esecutivo Programma ambiente delle Nazioni Unite, Achim Steiner. Non a caso, al centro della Giornata Mon-diale dell’Ambiente quest’anno ci sarà il cibo. Con lo slogan “Pensa. Mangia. Rispamia”, l’Onu ha lanciato una campagna contro lo spreco di alimenti. Basterà? Di certo, quella alimentare è solo una delle grandi emergenze ambientali. Ecco le più gravi.MEGA ISOLA DI PLASTICA. È la più grande discarica di rifiuti al mon-do, lontana dagli occhi umani e per questo poco considerata. Un ammasso di plastica e spazzatura di vario genere, la cui superficie stimata equivale al doppio di quella degli Stati Uniti. Insomma, una delle più grandi minacce all’ecosistema oceanico. Le Nazioni Unite hanno calcolato che la cosiddetta isola di plastica, in realtà costituita da due aree presenti nell’Oceano Pacifico, tra la California e il Giap-pone, causi ogni anno la morte di un milione di uccelli e 10 mila animali marini. Colpa dei rifiuti gettati in acqua, dagli scarti delle navi fino agli accendini lasciati in spiaggia, frantumati dall’effetto del mare e scambiati infine per cibo dalla fauna marina. Una soluzione al problema per ora non è stata trovata. Anzi, recentemente si è ini-ziato a parlare di una seconda isola di plastica, questa volta non in mare ma nei Grandi Laghi dell’America settentrionale, il più grande spazio di acqua dolce al mondo. Un gruppo di ricercatori della Uni-versità del Wisconsin-Superior ha scoperto che nel Lago Erie, uno dei cinque della zona, ci sono fino a 1.700 milioni di particelle di plastica per miglio quadrato. Una proporzione persino più alta di quella riscontrata nel Pacifico.RIFUGIATI AMBIENTALI. La Convenzione delle Nazioni Unite per ora non li riconosce ufficialmente. Eppure, da qualche anno, i casi di ri-fugiati ambientali sono in netto aumento. Si tratta di quelle persone costrette a lasciare il proprio Paese a causa dei cambiamenti climati-ci. La vicenda più nota riguarda gli abitanti delle Carteret Islands, minuscolo arcipelago del Pacifico, i cui 1.500 abitanti hanno già

Il clima impazzito e le città assediate da smog e rifiuti. Poi le specie che scompaiono e i mari inquinati. Ecco le dieci piaghe da sanare. SubitoDI STEFANO VERGINE

EMERGENZA PIANETADiscarica di Olososua

a Lagos, in Nigeria

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Speciale Green

iniziato ad abbandonare la loro terra natale. A causa del riscaldamen-to climatico il livello dei mari si sta infatti alzando. E così i terreni degli atolli, bagnati dall’acqua di mare, perdono fertilità lasciando gli abitanti senza cibo. Secondo gli esperti, rischi del genere riguardano nel breve periodo anche gli abitanti delle Maldive, di Kiribati, di Tuvalu e delle Isole Salomone. Secondo uno studio di Norman Myers, docente di scienze ambientali all’Università di Oxford, nel 2050 le persone costrette a emigrare a causa dei cambiamenti climatici po-trebbero essere 250 milioni. ANOMALIE CLIMATICHE. Un mese di maggio così freddo non si vede-va da tempo in Europa. Il più gelido degli ultimi 50 anni, hanno calcolato gli esperti. Ma non è andata così solo nel Vecchio Continen-te. Noaa, l’agenzia metereologica degli Usa, ha catalogato questo marzo come il 43esimo più freddo degli ultimi 119 anni negli Stati Uniti. Eventi che confutano la tesi del riscaldamento climatico? Non proprio. Secondo la stessa Noaa, che ha condotto una ricerca sul tema insieme a scienziati di università inglesi e americane, a causare queste anomalie climatiche nell’Emisfero settentrionale è l’inedito livello di scioglimento dei ghiacci al Polo Nord, ridottisi dell’80 per cento rispetto a 30 anni fa. Semplificando al massimo, più aumenta

la quantità di energia solare che finisce nel Mar Glaciale Artico, più aumentano le possibilità di eventi climatici estremi in Europa e Nord America. Insomma, continuando di questo passo dobbiamo aspet-tarci sempre più ondate di calore, nevicate pesanti e inondazioni. CICLONI, URAGANI E ALLUVIONI. L’Ipcc, il gruppo intergovernativo istituito dalle Nazioni Unite per monitorare i cambiamenti climatici, lo aveva detto già nel 2007: «A causa dell’aumento delle temperatu-re di superficie delle acque marine, cicloni e uragani diventeranno più intensi, con venti e piogge di maggiore forza». Le vittime principali sono le popolazioni che vivono in zone tropicali, ma il resto del mon-do non ne è immune, soprattutto se a questi eventi si aggiunge la siccità. Basti dire che, secondo i calcoli della George Washington University, dal 1980 al 2011 è triplicato il numero di disastri natura-li che hanno colpito gli Stati Uniti causando danni per più di un mi-liardo di dollari ciascuno, passando da una media di due all’anno a sei. L’Italia non è immune a questa tendenza, e le alluvioni verificati-si negli ultimi anni sembrano provarlo. Secondo gli esperti, la causa è da ricercare nell’aumento della temperatura unito alla natura montuosa del nostro Paese. Quando una massa d’aria calda incontra una montagna, l’aria sale infatti verso l’alto, si condensa in nuvole e ritorna a terra sotto forma di piogge particolarmente violente. INQUINAMENTO URBANO. L’inquinamento di Pechino? Peggio quello di Ahwaz, in Iran. Secondo l’ultimo rapporto sull’inquinamento at-mosferico pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, le zone più inquinate al mondo non sono le megalopoli di cui si sente abitualmente parlare. Non che a Pechino, Bangkok o Città del Mes-sico l’aria sia pulita, ma ci sono posti dove le cose vanno addirittura peggio. Città più piccole, quasi tutte in Asia, e non propriamente protagoniste di un boom economico. Oltre ad Ahwaz, tra i cinque posti dove l’aria è più inquinata figurano Ulan Bator (Mongolia), Sanadaj (Iran), Ludhiana (India) e Quetta (Pakistan). Secondo l’Or-ganizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento dell’aria causa ogni anno la morte prematura di oltre due milioni di persone. FIUMI AVVELENATI. Da anni è soprannominato il fiume biologicamen-te morto. Eppure ci è voluta la tragedia di Dacca, in Bangladesh, dove il crollo di un complesso industriale ha causato la morte di oltre 600 lavoratori, per far tornare l’attenzione sul Buriganga, uno dei corsi d’acqua più inquinati al mondo. Così come per molti altri fiumi

Sono scomparse le mezze stagioni? Secondo una ricerca condotta a livello internazionale per le assicurazioni Axa da Ipsos, nove italiani su dieci, soprattutto le donne, si dichiarano sicuri che il clima negli ultimi vent’anni sia cambiato. Ma qui, più che altrove, si guarda al fenomeno con una certa preoccupazione. Tra le conseguenze che spaventano di più ci sono infatti l’aumento delle temperature, la siccità e le piogge anomale, che causano inondazioni. Tra le soluzioni possibili, invece, gli italiani pensano soprattutto agli incentivi per la produzione di energia pulita: la misura è ritenuta una priorità dal 64 per cento degli intervistati. Quanto alle colpe, i connazionali puntano il dito verso la politica: per l’87 per cento degli intervistati sono da attribuire alle scelte fatte dal governo. F.L.

Piove: in Italia è colpa del governo

In 30 annI È trIPlIcato Il numero dI dISaStrI naturalI. e In euroPa abbIamo avuto Il maGGIo PIù freddo In oltre mezzo Secolo. aSPettando l’eState PIù calda

grande barriera corallina, australia. in alto: oklahoma dopo il tornado. nell’altra pagina: laguna inquinata sull’atollo FakaiFou, nel paciFico

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che attraversano il Bangladesh, il Buriganga ha subìto lo sviluppo sfrenato delle concerie locali al servizio delle multinazionali dell’ab-bigliamento. Acido solfidrico, cromo e piombo hanno avvelenato le acque e la salute delle persone che abitano queste terre. Una situazio-ne comune a diversi paesi asiatici, dall’Indonesia alla Cina passando per India e Filippine, tutte nazioni che con la globalizzazione hanno visto aumentare la produzione industriale e parallelamente i livelli di inquinamento. Anche l’Italia, seppur in crisi economica, mantiene il suo primato nel settore. Il Sarno, in Campania, è comunemente con-siderato il fiume più inquinato d’Europa. Colpa della densità di po-polazione della zona, ma soprattutto degli scarichi abusivi delle in-dustrie locali. BARRIERA CORALLINA AUSTRALIANA. La Grande Barriera Corallina australiana ha visto dimezzare la quantità di coralli negli ultimi 27 anni. I calcoli sono stati fatti dall’Istituto australiano di scienze ma-rine (Aims), secondo cui nei prossimi 10 anni potrebbe registrarsi un ulteriore dimezzamento. Situata davanti alle coste del Queensland e definita dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, è la più grande bar-riera corallina al mondo. Ma non è l’unica a rischiare. All’ultima Conferenza Internazionale sul tema, tenutasi nel luglio scorso, è stato infatti ricordato che almeno un quarto delle barriere coralline mondiali sono già state danneggiate. Il problema è che questi delica-ti ecosistemi, che coprono solo l’1,2 per cento della superficie terrestre, sono fondamentali per la biodiversità marina mondiale. Si calcola che siano da uno a tre milioni le specie che vivono nell’ambiente offerto dalle barriere coralline, e quasi un quarto delle specie marine mondiali dipendono da queste meraviglie naturali. RIFIUTI ELETTRONICI. Il simbolo di questa emergenza ambientale è Agbogbloshie, un sobborgo di Accra, la capitale del Ghana. Insieme a quella di Lagos, in Nigeria, è considerata la più grande discarica africana di rifiuti elettronici, punto d’arrivo di computer, televisori, cellulari ed elettrodomestici di vario genere usati nei paesi ricchi del mondo. Ad Agbogbloshie migliaia di persone li bruciano all’aria aperta per ricavarne rame, oro, nickel, silicio e ferro, da rivendere sul mercato nero. Un commercio totalmente illegale, visto che la legisla-

zione internazionale proibisce l’esportazione di rifiuti elettronici verso i Paesi che non fanno parte dell’Ocse. Eppure tutto questo prosegue da anni, in Africa e in Asia. Secondo ricerche accademiche e inchieste giornalistiche, l’escamotage utilizzato da chi controlla questo traffico miliardario consiste nell’etichettare i rifiuti come beni di seconda mano. Se il carico supera la dogana, il gioco è fatto. LAND GRABBING. Negli ultimi 10 anni sono passati di mano 83 mi-lioni di ettari di terra agricola. È come se qualcuno avesse comprato metà dell’Europa occidentale. Solo che il 70 per cento delle terre è stato acquistato tra Africa Orientale e Sudest Asiatico, luoghi in cui di fame si soffre di più. E sono finite nella pancia dei Paesi più ricchi, dove la popolazione aumenta e la ricchezza pure. Lo chiamano land grabbing, accaparramento di terre, fenomeno in crescita esponenzia-le. Le cause? La popolazione mondiale cresce, così come la domanda di cibo. Il riscaldamento globale fa diminuire la produttività agricola. I biocarburanti sono sempre più richiesti. L’ultimo rapporto della International Land Coalition, un gruppo di organizzazioni interna-zionali che ha catalogato le grandi operazioni avvenute dal 2000 a oggi, dice che in cima alla classifica dei compratori c’è la Cina. Seguo-no da Arabia Saudita, India, Gran Bretagna e Stati Uniti. L’Italia è il secondo Paese in Europa dopo il Regno Unito. Quest’anno l’Onu ha messo la questione al centro della Giornata Mondiale dell’Ambiente.ANIMALI A RISCHIO ESTINZIONE. Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Viste sotto la lente economica, sono le peggiori nazioni europee. Ma il cosiddetto Club Med può vantare anche un primato positivo. È infatti la zona dell’Ue che ospita la maggior parte della biodiversità del continente. Peccato che parecchie specie siano a rischio estinzione. L’allarme è stato lanciato a inizio maggio dall’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn), secondo cui il maggior numero di animali e piante minacciati si trova proprio nell’area del Mediter-raneo. Il 35 per cento delle specie europee a rischio vive in Italia, ha calcolato l’Iucn. Colpa dell’attività umana e dei cambiamenti clima-tici. In totale sono 200 le specie a rischio estinzione presenti nella Penisola. Tra queste, parecchi animali: dalla lucertola delle Eolie alla lepre italica, dal carpione del Garda all’anguilla europea. n Fo

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Speciale Green Imprese

Quelli che l’ECOLa parola d’ordine è: sostenibilità ambientale. Sempre più imprenditori ci credono. Perché conviene. E permette di distinguersi dagli altri. Azzerando i rifiuti, abbattendo gli scarti, consumando meno energia. Con l’aiuto della tecnologiaDi fabio lepore

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Non è solo una questione di marketing. Per le impre-se la sostenibilità ambientale e sociale sta diventan-do un obiettivo strategico imprescindibile. Soprat-tutto in momenti difficili come quelli che attraver-sano le aziende italiane, nel mercato interno e in

quello internazionale. E così, secondo i dati del rapporto “Greenitaly” di Unioncamere, 360 mila imprese industriali e terziarie tra il 2009 e il 2012 hanno continuato a investire in prodotti e tecnologie green. Nello stesso periodo, il valore degli investimenti ordinari si è invece contratto di oltre sei punti percentuali. Intanto, la voglia di rendere eco-sostenibile il busi-ness continua anche nel 2013. «Ce lo confermano i segnali che stiamo registrando negli ultimi mesi. Adottare una strategia green ha per le imprese una duplice valenza: anzitutto permette di distinguersi e qualificarsi rispetto ai competitor e poi, nello stesso tempo, consente di trovare elementi di economicità e ri-sparmio nel processo produttivo», spiega Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere: «Ad esempio, quando nel settore della ceramica si riescono a dimezzare i consumi ener-getici rispetto a 20 anni fa raddoppiando la produzione, è evidente che il risparmio energetico diventa un fattore com-petitivo. Non solo per la qualità del prodotto, ma anche per i conti aziendali». In alcune regioni italiane il giro d’affari generato dall’onda green si fa sentire più che in altre. Nella sola Lombardia, ad esempio, stando alle ultime rilevazioni della Camera di commercio di Milano, si concentra il 16 per cento del business nazionale: 8 miliardi di euro. «La green economy può diventare così un fattore importante su cui puntare per la ripresa. A risultare vincente è sempre la con-venienza», prosegue Gagliardi. «Gli effetti sul mercato ini-ziano a farsi sentire», gli fa eco Carlo Sangalli, presidente dell’ente camerale meneghino. Riferendosi al fatto che au-menta, parallelamente, il numero di clienti attenti, sensibili e sempre più informati sulle tematiche ambientali. Secondo l’ultima indagine del progetto europeo Life Promise e coor-dinata da Ervet, un consumatore su tre dichiara di aver scelto con maggiore frequenza prodotti eco-sostenibili.

I grandi gruppi hanno capito e interpretato la tendenza da tempo, in realtà. Specie quelli per cui l’attenzione all’ambiente è un tutt’uno con l’identità del marchio. È il caso di Timberland, che da più di vent’anni offre la possibilità ai suoi 5.600 dipen-denti sparsi nel mondo di svolgere 40 ore ogni anno, pagate dall’azienda, di vero e proprio volontariato. Vi partecipano tutti: dai dirigenti agli impiegati. L’ultimo appuntamento, in Italia, si è svolto alla Scuola per l’infanzia Barabino di Milano. «Per l’EarthDay Timberland 2013, assieme a Legambiente e agli alunni di sei classi, ci siamo occupati di riqualificare l’area verde dell’istituto. In queste situazioni spariscono i ruoli e le gerarchie e prevale l’obiettivo comune: impegnarsi in un’attivi-tà che sia socialmente utile», racconta il country manager Luca Ghidini. L’impegno di Procter & Gamble verso una produzione eco-sostenibile ha invece come obiettivo finale l’azzeramento dei rifiuti derivati dalla produzione. Uno sforzo di proporzioni immani, se si pensa che il colosso del largo consumo di Cincin-nati raggiunge oggi circa 4,6 miliardi di consumatori in 180 paesi. «Ci sono sistemi di riciclaggio ben definiti per materiali come carta, plastica e vetro, ma il nostro portafoglio di pro- Fo

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Cresce in tutto il Paese la sensibilità nei confronti della raccolta differenziata e del riciclaggio dei rifiuti. «Stando ai dati dell’Ispra dello scorso anno, in Italia si è arrivati a una quota di raccolta differenziata complessiva (organico, imballaggi, elettronici) di poco superiore al 35 per cento», spiega Walter Facciotto, direttore generale Conai, «è ancora meno della metà di quanto prevedono le direttive europee e la legge nazionale, ma dimostra comunque un trend di crescita sostenuto e incoraggiante. A fare da traino in questi anni, anche per le altre frazioni di raccolta, è stato proprio il nostro sistema di recupero degli imballaggi». Il consorzio, che garantisce il riciclo dei rifiuti di imballaggio a livello nazionale, grazie a un accordo con l’Anci ha convenzioni con più di 7 mila Comuni. E, nel 2012, ha recuperato più di otto milioni di tonnellate di materiali: il 74 per cento di quelli immessi nel mercato.Rispetto alla differenziata, in generale, l’Italia procede però ancora a velocità diverse da regione a regione. Con il Nord che supera mediamente il 40 per cento, il Centro che oscilla tra il 20 e il 25 e il Sud che in alcune zone non riesce a oltrepassare la soglia del 10 per cento. «Questa situazione è determinata soprattutto dalle carenze nell’organizzazione della raccolta, non è certamente un problema di mancanza di attenzione al tema da parte dei cittadini. In generale, l’importante è che venga stabilito al più presto un percorso univoco per raggiungere gli obiettivi di legge», sottolinea il manager Conai. A partire dal problema del colore dei cassonetti. «A differenza di quanto succede ad esempio in Spagna, in Italia non è ancora stato definito un colore unico per ciascun materiale su tutto il territorio. La stessa disparità esiste sui sistemi di raccolta adottati. Ognuno tende a fare da sé, anche se da tempo si conoscono i metodi di raccolta più efficaci per il riciclo», conclude Facciotto. F.L.

Riciclare riciclare riciclare

in alto: Contenitori di olio eSauSto e SaCChetti Per la raCColta diFFerenziata. nell’altra PaGina: Pannelli Solari in una Centrale elettriCa

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dotti è così ampio da risultare un insieme diversificato di rifiuti che necessitano di soluzioni sostenibili specifiche», spiega Forbes McDougall, che guida il program-ma globale di P&G per la riduzione degli scarti industriali. Il primo importante risultato l’azienda l’ha annunciato ad aprile, quando i “rifiuti zero” sono diven-tati una realtà all’interno di 45 impianti produttivi. «Siamo riusciti a superare di due miliardi il nostro target del 2012, senza chiedere ai consumatori di accetta-re compromessi di costo o performance. Il nostro è un approc-cio che mira a un miglioramento ambientale, ma economica-mente sostenibile», aggiunge Lens Sauers, vice presidente Global Sustainability.

Filosofia condivisa da un altro grande gruppo, alimentare e tutto italiano, Barilla. L’azienda di Parma, infatti, ha deciso di fare della sostenibilità la leva per raddoppiare entro il 2020 il fatturato. Già oggi più di tre miliardi di euro. Le premesse di

questa sfida sono racchiuse nelle perfor-mance ambientali del bilancio di sosteni-bilità, che sarà presentato l’11 giugno all’Università Bocconi. Qualche anticipa-zione: i dati mostrano che la Barilla, nel 2012, ha ridotto del 25 per cento le emis-sioni di anidride carbonica e ha raggiunto una quota di confezioni riciclabili pari al 96 per cento. Migliora anche il consumo d’acqua per prodotto finito: se nel 2008 ne venivano usati 2,1 litri ogni chilo, la quantità oggi si è ridotta di mezzo litro.

Un altro ambito in cui le aziende stanno investendo per raf-forzare la propria identità ambientale è quello energetico. Per il gruppo Fiamm di Montecchio Maggiore, specializzato nella produzione di accumulatori per avviamento, l’ultima riprova di quanto paghi essere green è arrivata poche settimane fa. Quan-do le sue batterie al cloruro di sodio sono state selezionate da Bombardier, la multinazionale canadese leader mondiale nei trasporti, per la nuova piattaforma di monorotaie “Innovia

Monorail 300”. Un approccio eco-soste-nibile alla mobilità che sarà adottato da molte metropoli in tutto il mondo. Da Nord a Sud, lungo la Penisola: ad esempio a Montesarchio, in provincia di Beneven-to, dove nella sede degli Oleifici Mataluni - proprietari, tra gli altri, dei marchi Dan-te, Topazio e Olita - i pannelli fotovoltai-ci rivestono l’80 per cento della superficie coperta del complesso industriale: 160 mila metri quadri, dotati anche di un impianto di trigenerazione per la produ-zione di energia elettrica a metano, vapo-

Speciale Green

Heike Schnell, stilista tedesca di origine peruviana, nel 2007 ha deciso che anche in palestra bisogna rispettare l’ambiente. E ha lanciato la linea Wellicious (www.wellicious.com), che utilizza solo materiali naturali, in buona parte vegani, non esposti a erbicidi e pesticidi, produce vicino a dove vende, in Europa, per abbattere la sua impronta CO2, e utilizza packaging riciclabile. Le sue collezioni sono in vendita anche in Italia. E quella per il 2013 è ispirata al potere misterioso e rilassante della luna.

Palestra impatto 0La pIattafOrma mOnOrOtaIa InnOvIa mOnOraIL 300. a LatO: un ImpIantO prOCtEr&gambLE. nELL’aLtra pagIna: CLaudIO gagLIardI. SOttO: OLEIfICIO mataLunI

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re e refrigerazione. L’ultimo progetto messo in campo dalla Mataluni si chiama e-Gotham e sfrutta la potenzialità delle microreti per il miglioramento della gestione energetica. «Per un impianto industriale come il nostro, i consumi energetici incido-no in maniera significativa sul costo economico e ambientale. Per questo, il tema dell’efficienza energetica è ai primi posti nella lista delle esigenze di innovazione aziendali. L’obiettivo è quello di passare a una gestione attiva dell’elettricità, come input della produzione, al pari dei materiali e della manodopera», spiega l’amministratore delegato Vincenzo Mataluni. Non man-cano casi di energia green anche in comparti con lavorazioni tradizionalmente “pesanti”, come la meccanica. Nel distretto torinese dell’automotive, una dei pionieri è stata la Mollebale-

stra, storico produttore di sospensioni per veicoli industriali. Grazie all’installazione di 2.600 pannelli solari, dal 2008 l’azien-da riesce infatti a soddisfare con quella prodotta dal sole più del 20 per cento dell’energia totale consumata per le lavorazioni e a ridurre ogni anno le emissioni di CO2 di 300 tonnellate. Mo-tori grandi e piccoli, come quelli dei tosaerba Grin. Nata nel 2006 con una spiccata propensione alla sostenibilità ambienta-le, l’azienda lecchese produce macchine dotate di un sistema in grado di risolvere il problema dello smaltimento dell’erba. Il manto tagliato viene infatti polverizzato e si trasforma in un concime naturale per il prato. «Abbiamo anche un’attenzione particolare rispetto alla scelta dei motori. Già oggi proponia-mo un modello di tagliaerba elettrico, ma la nostra divisione di ricerca e sviluppo sta lavorando da tempo allo studio di nuove motorizzazioni», aggiunge Daniele Bianchi, responsa-bile commerciale e marketing di Grin.

Big a parte, la voglia di essere “eco” ha contagiato anche player più giovani e dalle dimensioni più contenute. Secondo un’indagine di Fondazione Impresa, una piccola azienda manifatturiera su tre negli ultimi due anni ha adottato nuove tecnologie per ridurre l’impatto ambientale. Capita così che più start up si uniscano e, grazie alla collaborazione con aziende più mature e con i centri di ricerca universitari, diano vita a progetti focalizzati sulle tematiche ambientali. Ne è un recente esempio Casazera, un prototipo di abitazione realizzato integrando soluzioni costruttive low cost e tecnologie innovative ed eco-sostenibili. Progettata e costruita da una cordata di sette società coordinate da DE-GA Spa e in colla-borazione con il Dipartimento energia del Politecnico di Torino, Casazera è un modulo prefabbricato in legno ideato per essere inserito nell’intelaiatura di strutture industriali dismesse, riportate alla vita abbattendo lo spreco di risorse e di energia. Anche la ri-qualificazione urbana viaggia a tutto green.

ha collaborato Raimonda Boriani Foto

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Non solo quelli costruiti di recente. Anche i vecchi condomini cambiano pelle e decidono di tingersi di verde. Scegliendo di usare energia da fonti rinnovabili. A oggi è questa la strada intrapresa da 90 mila stabili riforniti da E.ON, tra i principali operatori energetici sul mercato italiano e mondiale, e amministrati da professionisti che fanno parte dell’associazione Anaci: il numero dei condomini che utilizza l’offerta “100 per cento energia rinnovabile E.ON”, negli ultimi quattro anni, è infatti quasi raddoppiato. «L’accordo con l’Anaci, che abbiamo riconfermato a fine maggio, sottolinea gli ottimi risultati sinora raggiunti, ma puntiamo a sensibilizzare al tema dell’eco-sostenibilità energetica un numero sempre maggiore di utenti dotandoli anche di strumenti pratici di lavoro». dice Luca Alippi, direttore generale di E.ON Energia. Con il progetto “Abitare biotech”, assieme al Politecnico di Milano, E.ON e Anaci stanno lavorando all’elaborazione di nuove linee guida per la gestione green degli edifici. Work in progress. F. L.

Cento per cento rinnovabile

360 mila imprese tra il 2009 e il 2012

hanno investito in prodotti e sistemi eco. e una piccola su tre ha ridotto

l’impatto ambientale

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Speciale Green Architettura

Dimenticate i cantieri, le ruspe, il consumo di suolo e le spiagge sventrate per far posto a nuove case. Il futuro, sostenibile, dell’architettura, è sull’acqua. Lo dimo-strano decine di progetti in costruzione in tutto il mondo, dalla Cina, alle Maldive, all’Europa, finalmen-

te anche in Italia, anche se solo in forma di prototipo. Il successo è dovuto alle esigenze e alle paure del nostro tempo: l’innalzarsi del livello del mare, il sovraffollamento delle città, l’erosione delle coste. Eredi delle barche-abitazioni in cui da secoli vivono comu-nità di Londra, Amsterdam, San Francisco, le nuove abitazioni galleggianti hanno poco a che vedere con le chiatte ormeggiate sulla Senna: sono strutture leggere di legno, vetro e acciaio, auto-sufficienti e modulari. In poche parole più attraenti.

In Finlandia sono iniziati i lavori per realizzare il primo villaggio interamente acquatico d’Europa: da 10 a 100 mini-condomini galleggianti con appartamenti dai 52 ai 93 metri quadri ciascuno. Ad Amburgo uno dei più attesi progetti in costruzione si chiama “Waterhouses”: cinque palazzi, tra cui una torre di nove piani, costruiti come palafitte su un piccolo specchio d’acqua. L’energia per riscaldare gli interni sarà geotermica o solare e i consumi ri-dotti al minimo. Koen Olthuis, l’architetto olandese che ha fon-

dato “Waterstudio”, è chiamato in tutto il mondo. Il suo obiettivo è rendere le case galleggianti non solo sostenibili ma anche economica-mente accessibili, con il sogno di sostituire gli slum delle megalopoli (il 90 per cento delle quali - ricorda - si trova sul mare) con comunità vivibili e moderne. Sull’acqua.

Del fatto che il futuro dell’edilizia, anche in Italia, non sia solo terrestre ma possa estendersi a fiumi, laghi e mari calmi, sono convinti due giova-ni architetti napoletani, Marina Cor-rente e Claudio Persico. La loro “Ca-sa minima sull’acqua” è stata ripresa da Timberland per la campagna de-dicata ai modelli “Earthkeepers”, protettori della Terra. «L’abbiamo immaginata come un’abitazione temporanea, mobile, come un cam-per o una tenda», racconta Corrente: «Una casa autosufficiente che si pos-sa spostare autonomamente oppure smontare e ricostruire altrove». Il prototipo ha una struttura di legno e di una leggera lega metallica, che so-

stiene una piattaforma all’aperto e un piccolo abitacolo completo. «Da tempo lavoriamo sul concetto di “minimo”», spiega Persico: «Come modo per calibrare gli spazi alle vere esigenze dell’uomo, ridimensionandoli alle sue necessità». Inizialmente il progetto era quello di realizzare addirittura una semplice zattera “attrezzata”, «poi abbiamo pensato che fosse troppo “essenziale”», racconta Corrente: «E abbiamo aggiunto il monolocale. Ma il concetto di uno spazio aperto come quello di una zattera è rimasto, e il passag-gio tra dentro e fuori non è definito». Il tetto del mini-appartamen-to, ad esempio, su cui si trovano dei pannelli solari, si può aprire di notte per guardare le stelle e chiudere alle prime gocce di pioggia.

L’idea del duo napoletano è che la casa-catamarano possa di-ventare una soluzione estendibile, abitata da più persone: le piattaforme galleggianti, se avvicinate l’una all’altra, potrebbero diventare una piazza, alimentata dall’energia del sole e delle onde. «La scelta di vivere sull’acqua da noi è considerata ancora un lusso», commenta Persico: «Ma non deve essere per forza così». La strada è ancora lunga però. Lo stesso Olthuis, nonostante le intenzioni, ad oggi ha firmato soprattutto progetti rivolti a clienti milionari, come le ville galleggianti alle Maldive. Suo è anche il disegno per dare agli Emirati Arabi Uniti la prima moschea flut-tuante del mondo, entro il 2015. Pronti per Waterworld.

Allo Speciale ha collaborato Emanuele Coen

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gli architetti marina corrente e claudio persico

Edifici galleggianti e ecosostenibili. Su fiumi, laghi e mari. Dalla Finlandia ad Amburgo. E ora anche in Italia Di frAnCESCA Sironi

Società

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n. 22 - 6 giugno 2013

Dove non arriva un’ideologia iconoclasta, può bastare l’incuria. O la stupidità. In Belize un bulldozer ha da poco distrutto un sito archeologico maya: serviva della ghia-ia per costruire una strada. È sempre più dura la vita delle bellezze del mondo, e l’Unesco lancia l’allarme e aggiorna la sua lista dei patrimoni dell’umanità a rischio. Grazie ai talebani è rimasto ben poco, ad esempio, dell’area della valle di Bamyan, in Afghanistan. Ma nel mondo sono in peri-colo, per l’Onu, una quarantina di siti. La guerra in Mali incombe su Timbuctu, ma

altrove la minaccia la porta una ricostru-zione (la Cattedrale di Bagrati in Georgia) o la natura stessa (l’erosione a Chan Chan, in Perù). E se è vero che, rispetto a prima, oggi esistono strumenti più efficaci per proteggere questi siti, dall’altra parte è en-trato ingombrante sulla scena il turismo di massa. Così a rischiare un lento degrado sono anche luoghi famosissimi come la Città Vecchia di Gerusalemme o, secondo alcuni esperti, la Muraglia Cinese, Machu Picchu e il complesso dei templi di Angkor, in Cambogia. Daniele Castellani Perelli

Idee | stIlI dI vIta | personaggI | Mode | talentI | teMpo lIbero

Patrimonio Unesco

Meraviglie sotto tiro

C’è Cico, cagnolino incrocio Breton abbandonato a Parma. Asia, meticcia dal pelo nero, maltrattata e lasciata in strada in Sicilia. E poi tanti altri, cani e gatti, su Mysocialpet.it, il portale dedicato agli animali domestici in cerca di adozione. Il cuore è Trovapet, il motore di ricerca che consente di individuare, da Nord a Sud, l’animale da adottare. Inoltre, sul portale si trovano notizie, clip, informazioni, curiosità, suggerimenti di veterinari e il vademecum delle

attività pet friendly: dai pet shop alle farmacie, dalla toelettatura agli hotel. E perfino Astropet, consigli zen per umani e animali a cura di Paolo Dog. Ma la vera anima è social: su Facebook e Twitter tutto è commentabile. Del resto, cani e gatti sono diventati cittadini di Facebook a tutti gli effetti. Sul social network, infatti, 100 milioni di iscritti su oltre un miliardo non sono esseri umani. Tra cui Beast, il cane del fondatore Mark Zuckerberg.

Emanuele Coen

Vita da cani su Facebook

l’altra Casta è bella come la prima: occhioni blu, fisico mozzafiato, labbra da sogno. Insomma, il marchio di fabbrica della famiglia. dopo laetitia, la Francia scopre ogni giorno di più la sorella minore Marie-ange. Mannequin anche lei, 22 anni, è stata testimonial della marca d’abbigliamento Mango prima e reebok poi. da un anno ha legato il proprio nome a vichy ma, seguendo le orme della sorella maggiore, Marie-ange ha deciso di avvicinarsi a cinema e tv. l’esordio è avvenuto nel 2010 con il film “Mineurs 27”, giallo dai risvolti sordidi in contrasto con la sua immagine solare. a cui è seguito “des vents contraires”.In tv, invece, Casta junior ha ricevuto molte critiche positive per l’interpretazione in “punk”, trasmesso di recente su arte. ora sta girando per France 3 “Ceux de 14”, serie televisiva in sei episodi ambientati nel periodo della prima guerra mondiale. «ero la cocca della famiglia, visto che mio fratello benjamin ha 14 anni più di me e laetitia 12», dice. È stata proprio la celebre sorella a presentarla a un’agenzia di modelle: Marie-ange sognava di disegnare, ma il mondo della moda l’affascinava di più. e a chi le chiede come si fa a non essere considerata soltanto la “sorella di”, risponde con franchezza: «esistono famiglie di avvocati e medici, perché non può essercene una di attori e modelle?». Carriera a parte, la passione per l’arte la accompagna da sempre, come dimostra la galleria d’arte che possiede a parigi, nel sesto arrondissement. Alessandra Bianchi

PerSonaggi

È arrivataun’altra Casta

gIovane CuCCIolo weIMaraner. In alto, da sInIstra: uno deI teMplI del CoMplesso dI angkor wat, In CaMbogIa; MarIe-ange Casta

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Bombardata di strass e dia-manti, la bionda Daisy di Carey Mulligan trilla civet-tuola: «Essere una bella oca giuliva! Non c’è niente di meglio per una ragazza di questi tempi». Specie se

a corteggiarla, di un amore tormentato e a lungo silente, è il magnate del momento, Jay Gatsby, interpretato da Leonardo Di Caprio nel filmone del momento, “Gats-by”, appunto, di Baz Luhrmann. Il Gran-de Gatsby nato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald, l’eroe dei Venti Ruggen-ti che si muove, smanioso e mondanissi-mo, tra gangster e governatori, ballerine e puttane, «incantato dalla inesauribile varietà della vita». E tutti a chiedersi, nel libro, nel filmone: ma chi è veramente Gatsby? Qual è l’origine della sua fortu-na? Come dice un invitato delle sue feste

mirabolanti nella villa da moghul inurba-to sul mare di Long Island: «Quale Gats-by? Il principe, la spia o l’omicida?».

Domande che, in qualche misura, ci poniamo anche noi, spettatori e consu-matori del 2013. Perché Gatsby attira, turba, diverte ancora oggi? Tanto che il kolossal hollywoodiano sta generando una quantità di ricadute, nell’estetica, nella moda, nel turismo, nella stessa ri-scoperta letteraria di Fitzgerald? Una prima risposta potrebbe essere questa: in tempi ardui, il sogno consola dalla realtà. E le feste pazzesche a ritmo di charleston, l’estetica stessa dei Roaring Twenties, nella visione da fantasmagoria pop di Luhrmann, con il suo stile iperbolico, un fumettone di colori, vestiti e gioielli, ci fa evadere in quello che gli americani chia-mano dreamscape: un paesaggio onirico. Che incanta e, insieme, consola.

Società Grandi miti

Ha incarnato gli anni Venti,

ruggenti e feroci. Ma è anche la più

inquieta e contemporanea

delle figure letterarie. Perché

dietro ai suoi sogni e sconfitte ci sono luci e ombre del

nostro tempoDi Enrico Arosio

fortissimamente gatsby

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Come dice un gentiluomo chic, il fo-tografo Costantino Ruspoli, nato a New York da padre asso dell’aviazione e nonno diplomatico: «Luhrmann lo tro-vo un po’ kitsch, magari preferisco i fratelli Coen. D’altra parte, già mio nonno trovava kitsch D’Annunzio. Ma è indubbio che il Great Gatsby seduce per gli eccessi degli anni Venti, è un ar-chetipo del sogno americano. Il deside-rio di riuscire e di apparire: vestiti, auto, droghe, le frenesie dei balli, il sesso alle-gro. Il vero Gatsby non può essere che americano. In Italia è inutile cercarlo, qui diventano divi mediatici le figure trash come Corona e Belèn».

Solo americano: sarà così? Più avanti incontreremo pareri diversi. Intanto ri-cordiamo che “The Great Gatsby” uscì nel 1925. L’anno in cui Anita Loos pub-blicò “Gentlemen Prefer Blondes”. Due

anni dopo usciva “The Jazz Singer”, il primo film sonoro, e Lindbergh trasvola-va l’Atlantico. Quattro anni dopo, la Grande Crisi. Otto anni dopo, Hitler al potere. È importante. L’allegro furore di Gatsby anticipava disastri e tragedie.

Oggi, forse, in piena crisi economica, abbiamo nostalgia delle spensieratezze e speranze del pre-crisi. E la figura di Gats-by è adatta perché è duplice. Da un lato l’eroe di Di Caprio, attore di forte fascino personale, incarna la speranza («È l’uo-mo più carico di speranza che io abbia mai incontrato», confessa il narratore della vicenda, il suo vicino di casa “pove-ro” e “casto”). Dall’altro, il romanzo fi-nisce con una osservazione sul «futuro orgiastico che anno per anno indietreggia

davanti a noi». Nella speranza di Gatsby, incarnata nella luce verde della casa di Daisy (ma verde è il colore dei dollari), c’è già il presagio dello sfacelo. In termini economici, parrebbe un memento sulle crisi ricorrenti del capitalismo d’assalto. Come vediamo tuttora: nelle bolle immo-biliari, nei crack bancari, negli up and down della speculazione finanziaria glo-bale. Gatsby è, in questo, un modello di tycoon ancora attuale. L’origine del suo denaro è misteriosa e chiacchierata: alcol e proibizionismo, farmaci e droga. C’è chi lo accusa di sodalizio con il gangster di Chicago, quel Meyer Wolfsohn che già nel nome Fitzgerald (il quale ebbe simpa-tie per il primo Mussolini) collocava nel demi-monde ebraico. Un po’ come acca-de oggi, quando, in chiave populista, si cerca il capro espiatorio.

Esistono i Gatsby oggi? Chi sarebbe- Foto

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ElizaBEth dEBiCki E lEonardo di Caprio in duE immagini dEl Film “gatsBy” di Baz luhrmann

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ro? Qui la questione si fa spinosa assai. E le risposte divergono. Se interpelliamo un americanista come il professor Luigi Sampietro dell’Università di Milano, la risposta indica gli oligarchi russi: «Ricor-diamo le origini oscure del personaggio. È un luogo comune antico, che ritrovia-mo nei miti, Mosè, Romolo e Remo, Napoleone. Oggi rivedrei Gatsby non in un magnate del computer genere Bill Gates, piuttosto in un oligarca russo, tipo Roman Abramovich: da comunisti a stramiliardari, con elementi ludici come la squadra di calcio». Ma Sampietro sottolinea in Fitzgerald la chiave roman-tica: «Gatsby è costruito sul modello del cavaliere medievale. Il corteggiamento infelice di Daisy ha la sua radice nel codi-ce cavalleresco. Con la differenza che, se nel Medioevo l’aristocrazia corrisponde-va al possesso dell’oro, qui il possesso è sostituito dall’esibizione, l’esibizione del lusso più sfrenato».

Se invece chiediamo a un economista a indirizzo antropologico, come Giulio Sapelli, la risposta va in una direzione lievemente diversa. Sapelli distingue: «Prima c’era il tycoon di inizio secolo, studiato da Veblen nella teoria della lei-sure class, raccontato da “L’età dell’inno-cenza” di Edith Wharton, che imitava la nobiltà europea. Negli anni Venti il rife-rimento all’Europa si va perdendo: il sogno americano si sviluppa con forza propria. Oggi la formula Gatsby si può ritrovare in un magnate come il messica-no Carlos Slim, in cui emerge anche il ruolo di amante dell’arte e filantropo. C’è un po’ di Gatsby in certi top manager bancari miracolati dalle stock option, o tra i titani della finanza immobiliare. Personaggi che guadagnano in un anno quanto una famiglia in una generazione». È la dimensione dell’owner capitalist, il capitalista proprietario.

La lettura di Sapelli ci riporta indietro alla celebre frase di Brecht nell’“Opera da tre soldi”, che è del 1928, l’anno pre-cedente il Venerdì Nero di Wall Street: «Che cos’è una rapina in banca rispetto alla fondazione di una banca?». Brecht offriva una lettura marxista, che oggi ri-fiutiamo come estrema. Ma chi può ne-gare che vi sia, nell’odierno capitalismo finanziario, un elemento di rapina? Non occorre ricordare i casi Enron o Global Crossing. Pensiamo in questi giorni alle

accuse di mega evasione fiscale agli accia-ieri Riva. Attenzione, però. Degli acciaie-ri Riva si dimostrerà, magari, la miseria umana. Mentre in Gatsby (non solo in Di Caprio) dominava il fascino. Non è un dettaglio. È una profonda differenza.

Il fascino degli anni Venti contiene anche una quota di eleganza. Il fascino che promana non solo da un gioiello Tiffany ridisegnato in omaggio al film,

ma da certi autori rilanciati, per esempio, da Adelphi: Somerset Maugham, Jean Rhys, “Il falco pellegrino” di Glenway Wescott, una storia francese come “Da-vid Golder” di Irène Némirovsky. Fascino sconosciuto alla gran parte dei tycoon di oggi protagonisti di ascese e cadute. Che si chiamino Riva, o Ligresti, o Zunino. La cronaca italiana appare piccina. Margi-nale. Povera di glamour.

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«Mi piace il periodo che va dal 1925 al 1935, perché credo sia stato il decennio in cui tutti gli aspetti dell’esistenza umana sono stati rivoluzionati. Basta pensare al taglio dei capelli da maschietta, alle gonne che si sono accorciate, all’eliminazione dei corsetti. O a Francis Scott Fitzgerald e a Zelda, alle prime Garbo e Dietrich, al Bauhaus e all’art déco. Il cambiamento nella musica, nella danza, nella pittura, nell’architettura e negli stili di vita sono stati epocali e diffusi a tal punto che ancora oggi viviamo gli esiti di quelle esperienze». Walter Albini aveva spiegato così il punto di partenza della sua moda. Lui, il primo degli stilisti, che amava vestirsi proprio come uno di quei personaggi della Lost Generation d’inizio secolo vitale e ribelle agli schemi, lui apripista di una moda italiana che si sarebbe affermata nel mondo. È del 1973 la sua collezione primavera-estate “Grande Gatsby”, presentata a Londra con successo di stampa e pubblico. Arriva l’anno successivo, nel 1974, il film “Il grande Gatsby” con Robert Redford e Mia Farrow,

che codifica nel nostro immaginario gli anni Venti, folli e ruggenti. I costumi di Theoni V. Aldredge inevitabilmente conquistano l’Oscar, ma c’è molta moda italiana in questo film, come aveva preannunciato “Time Magazine” nel 1973, indicando Albini come più importante rappresentante in Europa della rivisitazione dei Twenties e del “Gatsby look”. D’altronde sono gli anni della rivoluzione Chanel, della “Garçonne”, dal romanzo di Victor Margueritte che nel 1922 dà nome e carattere al modello di donna emancipata capace di trasformarsi grazie agli abiti e alla grinta, compagna di divertimento o piacere a seconda del momento e dell’umore. Abiti corti, fluidi, che esaltano gambe nervose pronte al ballo e si sfilano velocemente. La nuova versione cinematografica di Baz Luhrmann con Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan torna a raccontarci quel way of life impastato di entusiasmi, di rivalsa e desiderio, di inquietudine e di speranza. Di feste folli e assolute. Catherine Martin ha voluto abiti di Prada e Brooks Brothers, e gioielli

La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria

A qualcuno ricorda Abramovich. Ad altri Carlos Slim o Eike Batista. Eppure corteggia Daisy secondo un modello cavalleresco

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In generale, il tycoon alla Gatsby fatica a reincarnarsi in figure di oggi. Gli si av-vicina vagamente un tipo come il develo-per Donald Trump, progettista di torri, esibizionista di donne e gioielli. C’è qual-che traccia nell’inglese Richard Branson, assurto da famiglia modesta a magnate del gruppo Virgin, dalla musica alla well-ness fino al turismo aerospaziale. Nell’i-dea di leisure extraterrestre, Branson ha un tratto visionario che riecheggia l’ec-centrico Howard Hughes, il miliardario volante, non a caso incarnato dallo stesso Di Caprio in “The Aviator”, il film di Martin Scorsese. Ma Hughes finì i suoi

giorni nel buio della psicosi.Un Gatsby latinoamericano potrebbe

essere Eike Batista, l’uomo più ricco del Brasile. È il presidente della holding Ebx, che fece i primi soldi nelle miniere d’oro e oggi controlla società nei settori mine-rario, energetico, logistico. Già sposato alla modellona Luma de Oliveira, ha due figli dai nomi megalomani, Olin e Thor, ed è un vitalista vero: corridore, nuotato-re, motonauta da primato, amante dei jet executive, committente di yacht dei can-tieri Lürssen, la marca tedesca preferita dagli sceicchi.

Gli sceicchi, per contro, con Gatsby

c’entrano poco: troppe differenze cultu-rali. Gli sceicchi comprano le donne come oggetti; Gatsby era un seduttore roman-tico. Fitzgerald teneva molto al lato ro-mantico. Come scriveva Alberto Savinio, nella “Nuova Enciclopedia”: «Sul terre-no della ricchezza accumulata abitano uomini cronicamente romantici». Inten-dendo il romanticismo come «il tempo eroico della mente: quello in cui l’uomo è animato da un desiderio immenso e indeterminato». Il desiderio di stupire, il desiderio di riconquistare Daisy, che lo porterà alla rovina. Perché a uccidere Gatsby, per errore (non era Gatsby il Fo

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di Tiffany, per rendere indimenticabili i due protagonisti. L’abito chandelier di una delle collezioni Prada più memorabili, che Daisy indossa nella scena della festa che dà inizio alla fine, insieme alla piccola cappa di pelliccia, serve a raccontarci la storia tanto quanto espressioni e parole della protagonista. E il costume da bagno con bretelle e calzoncino lungo sulla coscia,

ritaglia il corpo di Di Caprio dell’ultima scena rendendolo struggente eroe romantico. Miuccia Prada ha selezionato 40 pezzi dall’archivio Prada e Miu Miu e li ha reinterpretati insieme a Catherine Martin per animare le scene dei party nel film. Con la consapevolezza che nessuno dei pezzi era pensato per richiamare atmosfere di quegli anni, ma - come ha

affermato la stessa Prada - «il film di Baz li ha resi più Venti delle immagini d’archivio». La moda è sempre veloce nel captare l’aria d’intorno e, in questo caso, l’interesse per un periodo che ha visto la donna rivendicare in modo sfrontato la sua indipendenza. Ma non si tratta solo di registrare come moda e immaginari cinematografici si alimentino reciprocamente: piuttosto, anche questa volta la rappresentazione abbagliante di quegli anni trascende la qualità del film e degli interpreti. Sono le sequenze delle feste a creare il cortocircuito. Perché la moda è circolare e guarda il passato, usa la nostalgia per rinnovarsi, esatta nella sua camaleontica capacità di ridisegnare atmosfere note attraverso sfumature inedite, strumento unico per ricostruire un’epoca. Non è solo questione di “ispirarsi a”: i processi con cui la moda si progetta e mette a punto prevedono anche scatti inventivi. Che rileggono e aggiornano quel “Gatsby look” che insegue ed è inseguito dalle ossessioni del fashion design.

Maria Luisa Frisa

DA sinistRA: iL miLiARDARio HoWARD HugHEs in unA Foto DEL 1930; RomAn ABRAmoviCH; DonALD tRumP; siR RiCHARD BRAnson; iL BRAsiLiAno EikE BAtistA, tRA gLi uomini Più RiCCHi DEL PiAnEtA. soPRA: CAREy muLLigAn in “gAtsBy”

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colpevole, era Daisy) è il benzinaio, ovve-ro il proletario che incarnerà i drammi della Grande Depressione. E se riguardia-mo le foto della prima festa degli Oscar, l’Academy Awards dinner del maggio 1929, nelle cronache di “Vanity Fair”, 300 invitati in ghingheri nel Roosevelt Hotel di Hollywood, della Depressione non appare traccia; e invece era lì accan-to, tra i camerieri.

Una nuova Depressione la viviamo oggi, in Italia. Con i suoi epifenomeni ben noti: corruzione, cinismo, volgarità, im-poverimento, ansia del futuro. Sono se-gnali che gli osservatori più preoccupati (Eugenio Scalfari, per dire, o Gustavo Zagrebelsky) chiamano di imbarbari-mento. Ebbene, un connoisseur come Philippe Daverio ravvisa proprio in Gats-by «una figura barbarica». Molto lonta-na «dall’Italia, dal cattolicesimo di san Carlo Borromeo, con la sua cultura dell’understatement». Dice Daverio: «Per i barbari l’oro è peso, mentre per i greci l’oro è leggerezza, come nelle coro-

ne d’alloro. Conta il materiale, non il valore». E aggiunge: «Gatsby è una storia americana e barbarica. Noi italiani oscil-liamo tra gli opposti: i cromatismi anti-lussuosi della nostra moda di alta qualità, e le figure caricaturali, da Trimalcione fino al “cumenda” di provincia in Lam-borghini». Così come gli anni Venti da un lato ce li ripropone l’Adelphi, dall’altro ci prova il reuccio del gossip Alfonso Si-gnorini, con “Amore folle amore”, bio-grafia romanzata di Francis e Zelda

Fitzgerald. L’Italia è un pendolo incessan-te tra alto e basso. Per questo diverte ma inquieta. O inquieta ma diverte.

Il Gatsby italiano, forse, non può esi-stere. E se, giunti alla fine di questo arti-colo, vi chiedete come mai non sia citato nemmeno una volta quell’uomo potente con la B che ha governato più volte la nostra Repubblica, tra eccessi e processi, bluff e vanità, forse sarete d’accordo: davvero non valeva la pena, davvero è un’altra storia. n

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Scott Fitzgerald amava viaggiare, e i suoi luoghi favoriti sono entrati a far parte del suo universo letterario, a partire dal Grande Gatsby. Quest’estate il mondo del turismo propone molte idee per rivivere il fascino dell’età del jazz. Si può partire da Villa St-Louis, a Juan-Les-Pins, la grande dimora Art Déco che lo scrittore affittò nel 1926: oggi è l’Hôtel Belle Rives e la proprietaria Marianne Chauvin-Estène ha mantenuto lo stile dell’epoca e ha messo a punto il “Forfait Gatsby”, con soggiorno, colazione sulla terrazza panoramica, cocktail Zelda e auto a noleggio per esplorare la Grande Corniche (doppia da 377 euro, tel. +33 4 93610279, bellesrives.com). La colonna sonora è quella del Jazz à Juan, festival che dal 12 al 21 luglio rievoca atmosfere anni Venti. In auto, come amava fare la carismatica coppia a bordo di una

Renault blu, si raggiunge l’Hotel Excelsior di St. Raphaël per un drink, La Garoupe, spiaggia di Antibes frequentata anche da Cole Porter, e La Colombe d’Or, il caffè nel borgo di Saint Paul de Vence dove si ritrovavano artisti e intellettuali, oggi relais con ristorante. Imperdibile anche il Bar Américain dell’Hotel de Paris di Montecarlo: ogni sera si esibisce un trio jazz. Da ascoltare sorseggiando un gin fizz o un mint julep, i cocktail favoriti di Francis Scott Fitzgerald. Le atmosfere raffinate che fanno da sfondo al film di Baz Luhrmann vanno cercate oggi in Australia e negli Stati Uniti, magari scegliendo gli alberghi che Hotels.com ha selezionato nelle vicinanze dei set cinematografici (tel. 800 917957, http://it.hotels.com): i favolosi party nella villa di Gatsby sono stati girati al San Patrick’s Seminary, a Sydney, collegio di fine Ottocento in stile gotico; appena fuori città c’è la centrale elettrica a carbone di White Bay, sfondo che ha ricreato la Long Island del primo

dopoguerra. Sulla vera Long Island, invece, il regista ha girato scene nel Castello di Oheka, splendido albergo costruito nel 1915 dal finanziere Otto Kahn, utilizzato per i suoi favolosi giardini (tel. +1 6316591400, oheka.com): si può prenotare il Gatsby Package, con due giorni nella Chateaux room, picnic nel parco e drink ispirato ad atmosfere proibizioniste. E poi c’è New York e il mitico Hotel Plaza, inaugurato nel 1907 tra Fifth Avenue e Central Park: nel suo bar gli incontri tra il narratore del film, Nick Carraway, e Jordan Baker, la donna che corteggia. Anche qui, proposta a tema: notti nell’elegante Fitgerald Suite, menu con ricette d’antan elaborate dallo chef Todd English, e nel pomeriggio Fitzgerald Tea for the Age. Omaggio a Gatsby e alla sua filosofia: «Non si può ripetere il passato? Ma certo che si può».

Luisa Taliento

In viaggio con Zelda La sua è una storia americana e

insieme barbarica. Assolutamente poco

italiana, però: noi oscilliamo sempre

tra tragico e comico

il castello di oheka, a long island

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Al polemico Liam Gallagher po-trà anche non piacere. Ma “Get lucky”, il singolo che ha antici-pato il ritorno dei Daft Punk con il nuovo album “Random access

memories”, con il cantato di Pharrell Wil-liams e la chitarra di Nile Rodgers, è al primo posto nelle classifiche digitali di 55 paesi, America inclusa. E conferma il suc-cesso del duo electro-house parigino, noto anche per nascondere la sua identità sotto stilosissimi caschi da robot e abiti disegnati da Hedi Slimane («I robot fanno parte dello show, non importa vedere che cosa c’è dietro. Sono sicuramente più interessanti di noi», hanno dichiarato i due all’“Observer”). I Daft Punk sono uno dei gruppi dance più influenti degli ultimi vent’anni, come si era capito fin dal primo disco “Homework” (1997). Star del pop da Madonna a Kylie Minogue a Kanye West sono state influen-zate dallo stile Daft Punk, che adesso firma-no “RAM”, registrato in cinque anni tra Parigi, New York e Los Angeles. Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Chri-sto compiono l’ennesima evoluzione, con-segnando un lavoro che mette al centro la dance da club anni Settanta-Ottanta, filtra-ta e attualizzata secondo il loro verbo. Ospitano il pioniere della disco Giorgio Moroder, ma anche la star dell’indie rock

Julian Casablancas e produttori guru della house Todd Edwards e Dj Falcon.

Con loro il “French touch” (il fenomeno elettro-pop francese di fine anni Novanta) torna a farsi sentire con i suoi vecchi e nuovi protagonisti. Jean-Benoît Dunckel, l’altra metà degli Air, il duo di Versailles pionieri del nouvel beat, sta portando avanti l’attività solistica già avviata nel 2006 con il progetto parallelo Darkel. Ha trovato nella fascinosa cantante e dj ingle-se Lou Hayter, nota come tastierista del gruppo pop londinese New Young Pony

Club, il partner ideale con cui sperimenta-re nuove possibilità stilistiche. Insieme hanno dato vita al duo elettronico Tomor-row’s World, ora al debutto con l’album omonimo per l’etichetta francese Naïve. «Quasi tutti i brani sono stati registrati a Parigi d’inverno. Ecco perché l’album suona un po’ sinistro e tetro, ballardiano», commenta Hayter. Sono appena tornati con il nuovo album “Bankrupt!” (Glassno-te Records) anche i Phoenix, figliocci della prima ondata French touch. Nati nei primi

anni Novanta come ba-cking band degli Air, il quartetto pop di Versailles ha ottenuto riconoscimen-to internazionale nel 2009 con l’album “Wolfgang Amadeus Phoenix”, vinci-tore di un Grammy. La stretta amicizia con gli Air li ha portati a esperienze comuni, in particolare con Sofia Coppola per cui han-no firmato la colonna so-nora del film “Il giardino delle vergini suicide”. Le loro musiche figurano an-che in altri film della regi-sta, compreso il nuovo “The bling ring”. Ma il fenomeno del momento è Woodkid, nome d’arte del musicista, illustratore e re-gista francese Yoann Le-moine, 30 anni. È al debut-to con l’album “The gol-den age” (Universal) di cui il primo singolo “Iron” conta oltre 20 milioni di visualizzazioni su YouTu-be: il carattere cinematico del suo stile, che mischia tastiere elettroniche e

un’orchestra di 30 elementi, immagini in bianco e nero tra narrazione epica e cita-zioni da Elia Kazan a Edward Hopper, deriva proprio dall’attività principale di Lemoine. Tra le nuove leve del french touch c’è infine Vincent Belorgey, in arte Kavinsky, scoperto con “Drive”, film di Nicolas Winding Refn, e il brano “Nightcall”, colonna sonora diventata un cult del cinema contemporaneo. Ac-clamata star della club culture, è ora al debutto con l’album “OutRun” (Record Makers). n

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Il ritorno impetuoso dei Daft Punk

riaccende i riflettori sul fenomeno

elettro-pop francese. Tra vecchi e nuovi

protagonisti Di stefania cubello

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È stato un fenomeno di costume senza precedenti nel mondo delle lancette, che ha coinvolto però anche la moda, il design e la tecno-logia. Nel corso del 2013 Swatch

compie il 30° anniversario dalla fondazione, festeggiando con eventi che si affiancano alle nuove collezioni. Due all’anno - diverse, ma ugualmente animate dallo spirito del marchio - dal 1983 a oggi. Swatch vive da sempre sulla sorpresa e sull’innovazione. E quella di sfornare orologi come accessori, intercambiabili e moltiplicabili, è solo una delle idee che ne hanno decretato il successo. Oggi, a Nicolas Hayek - primo presidente del gruppo industriale che ne ha preso il nome - sono succeduti i figli Nick e Nayla, cui spetta il compito di dirigere quella che è diventata la più grande concentrazione mondiale di marchi d’orologeria. Perché al di là dell’utilizzo della plastica e del colore, dell’imbattibile prezzo inizialmente fissato a 50 franchi svizzeri e dell’aver scritturato artisti e designer di grido, il successo del fe-nomeno dell’orologio nato come “usa e getta” e diventato oggetto da collezione è legato alla trasformazione dell’intera orolo-geria svizzera. Oggi Swatch Group è un co-losso che comprende una ventina di marchi (tra cui Omega, Breguet, Rado, Longines, Hamilton e Tissot).

L’orologio Swatch nasce nel 1983 come risposta elvetica all’assalto delle produ-zioni made in Japan e dell’avvento dell’e-lettronica, un binomio che aveva piegato, soprattutto per la forte competitività sui prezzi, la tradizionale industria Swiss made. L’intuizione di un orologio sempli-

ficato nella produzione; al quarzo, ma funzionante con lancette; di plastica, ma di forma classica, fece riprendere talmente vigore all’industria che intorno a Swatch si venne a creare appunto il più potente grup-po d’orologeria al mondo. Con cifre di bilancio davvero notevoli: il fatturato 2012 ha superato il muro degli 8 miliardi di franchi svizzeri (oltre 6 miliardi di euro) e rappresenta un aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente, con un utile netto e dividendi rispettivamente in cresci-ta del 26 per cento e del 17,4 per cento. Se a questo si aggiungono le 2 mila nuove assunzioni dello scorso anno, si ha il qua-dro di un’impresa in ottima salute e grandi prospettive per il 2013. Le possono garan-tire i recenti investimenti, tra cui la nuova

fabbrica Eta di Grenchen, sempre in Sviz-zera, e l’acquisto di Harry Winston. E vi contribuisce anche Swatch che, per il tren-tesimo anniversario, ha lanciato una colle-zione molto simile, con la sua plastica trasparente e gli ingranaggi a vista, a certe fortunate serie degli anni Ottanta. All’epo-ca Nicolas Hayek chiese ai banchieri sviz-zeri finanziamenti per produrre un orolo-gio di plastica in un milione di esemplari. Non lo presero sul serio: non potevano immaginare che trent’anni dopo si sarebbe sfiorato il miliardo di pezzi. Cifra record che oggi potrebbe essere superata, proprio grazie alla serie celebrativa. n

visioni Ingranaggi a vista, trasparenze, forma

classica. Per celebrare i suoi primi trent’anni, Swatch ritorna alle origini

Di PAOLO DE VECCHinew gent laquered, 1300 original special. in basso: ironY cHrono 2013

SocietàAnniversari

plastiche

il numero fortunato di swatch? sembra essere il 51, visto che è all’origine del successo del marchio, trent’anni fa, e lo ritroviamo oggi come elemento tecnico di un prototipo (lo swatch system 51), che verrà commercializzato da ottobre. il numero corrisponde agli elementi che formavano il movimento al quarzo dei primi modelli, una semplificazione rispetto alla settantina normalmente necessaria. Ma, con il system 51, il marchio svizzero si è superato: lo stesso numero di componenti, ma per un movimento automatico la cui costruzione ne richiede di solito almeno un centinaio. aumenta la portata innovativa di questo orologio l’assemblaggio completamente automatizzato e fissato da una sola vite centrale. il prezzo è ancora da stabilire, ma sembra che si potrà stare dentro i 150 euro. da sempre, per swatch, la semplificazione è sinonimo di ottimizzazione dei costi.

Magia del numero 51

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La moda italiana comincia a com-battere il falso con l’aiuto dei consumatori. Che adesso posso-no usare il cellulare per scoprire se un capo è autentico oppure

no. Funziona così la piattaforma web Certilogo, di un’omonima azienda ita-liana, da qualche giorno adottata anche da Versace dopo essere stata scelta da Lanvin, Museum, Add, Blumarine. Un servizio che non ha veri e propri uguali nella moda: consente al compratore di verificare (sul Web e sul cellulare, al ne-gozio o da casa) se un prodotto acqui-stato o da acquistare è contraffatto.

«Dalla data del lancio, 300 mila uten-ti hanno usato il servizio 500 mila volte, in 136 paesi. E uno su tre è italiano», spiega Daniele Sommavilla, responsabi-

le Global Sales di Certilogo. Fe-nomeno in crescita, sia per nume-ro di utenti che per gamma di marchi che adottano il sistema (funziona solo su capi di marchi che aderiscono all’iniziativa). Il compratore deve trovare infatti il Certilogo Code (sorta di etichetta intelligente con un codice), e inse-rirlo sul sito di Certilogo o sulla sua app. Può anche limitarsi a fotografare il Code con un cellu-lare e l’app gli darà subito il re-

sponso, dopo aver consultato un data-base: un messaggio dirà se il capo è au-tentico o fasullo.

«L’Italia ha sempre avuto il più alto numero di utilizzatori, ora è stata supe-rata da Cina e Giappone», spiega Som-mavilla: «È utile non solo prima dell’ac-quisto, per evitare fregature, ma anche dopo. L’app ci dice che siamo stati ingan-nati su eBay? Ci consente di ricevere un rapporto dettagliato, che certifica la contraffazione, e di inviarlo a Paypal, Mastercard e Visa per ottenere un rim-borso. Il 45 per cento ha riavuto i soldi indietro. Per noi è anche l’alba di un nuovo patto, più consapevole e traspa-rente, con la marca di moda». Si esce dunque dall’opacità (quel capo che costa così poco, sarà autentico?) oppure no? L’incertezza per il consumatore è spesso motivo per non acquistare. «Con questo servizio, certo, può finire per decidere di comprare lo stesso una replica che costa meno. Ma quando l’app dà la certezza che il capo è autentico, si moltiplica il piacere dell’acquisto». E il made in Italy ringrazia: secondo il Censis, il falso provoca sette miliardi di euro di danni al sistema Paese e impedisce la creazione di 110 mila nuovi posti di lavoro a tem-po pieno. n

Società Frodi

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Un codice svela se il capo è autentico o no. Così un’azienda

italiana prova a combattere i falsi

alessandro longo

l’appdella verità

Una foto al tartufo e l’app sul cellulare ti dice se è autentico. È una nuova tendenza che muove i primi passi. In ambito alimentare c’è il servizio della toscana QrQuality, adottato a fine 2012 sui tartufi delle Crete senesi. È un’etichetta coperta da una superficie argentata. L’utente la gratta per svelare un codice Qr, che poi può leggere tramite lo smartphone per scoprire se il prodotto è autentico. La contraffazione, in ambito alimentare, è un danno non soltanto per l’industria, ma anche per la salute dei consumatori. «Diventeranno più consapevoli con l’uso della tecnologia, che permette loro di controllare la bontà e l’origine di un prodotto», prevede Giovanni Boccia Artieri, sociologo dell’Università di Urbino, esperto di servizi digitali. «Prima o poi questi sistemi potranno dirti dove è stato realizzato un capo di abbigliamento, e in quali condizioni di lavoro. Saranno strumenti per un consumo più sostenibile, responsabile ed etico. Gli stessi utenti gestiranno i database con le informazioni: è alle porte una sorta di Wiki-Consumo».

Tartufo intelligente

UnA moDeLLA SFILA Con Un ABIto VerSACe; Un PUnto VenDItA LAnVIn neL CUore DI LonDrA

Passionin. 22 - 6 giugno 2013

6 giugno 2013 | | 135

Duemilatredici gallerie, la metà asiatiche, una ressa umana di visitatori nonostante la pioggia e i temporali, la presenza di super star come Kate Moss, una vip room tutta vetri con vista sul porto, sculture luminose e installazioni stupefacenti. Insomma un successo. Consacrato dall’impegno produttivo dei galleristi, soprattutto cinesi, che hanno speso soldi ed energie per accogliere il nuovo ospite. È partita decisamente bene questa nuona avventura della fiera di Basilea, che ha piantato le tende nel continente asiatico. Hong Kong Basel (23-26 maggio) non è una succursale. È la porta d’Oriente del mercato artistico occidentale. E se l’Occidente può approfittare dell’arrivo sulla scena di collezionisti danarosi ed emergenti, l’Oriente con la benedizione di Basilea sa di poter solidificare i suoi valori di mercato nell’intero pianeta, esplosi con il boom dell’arte cinese fine anni Ottanta. “Hong Kong welcomes Art World” titola il “New York Times”, che commenta come proprio questa città, considerata un deserto artistico fino a qualche anno fa, è ora l’avamposto della più potente fiera al mondo. Ed ecco l’improvviso upgrading di buoni galleristi locali, fianco a fianco a Gagosian, White Cube, Ben Brown; l’innalzamento dei prezzi di artisti cinesi che sfidano Murakami, Richter e Koons; e anche la presenza di ben nove gallerie italiane approdate nello stupefacente Hong Kong Convention and Exhibition Center.

Hong Kong BaselAlla Fiera dell’Estdi alessandra mammÌ

cinEmA | spEttAcoli | ArtE | musicA | libri | modA | dEsign | tAvolA | viAggi | motori

“IMpOsITION sYMpHONY” DI sTElIOs FAITAKIs

136 | | 6 giugno 2013

Passioni Cinema

IPOCRISIA. BUGIE. AmORI SPEntI.

CHE UnA “GRAndE BEllEzzA” nOn BAStA A SAlVARE

Tutto splende, all’inizio di “La gran-de bellezza” (Italia e Francia, 2013, 142’). Sullo sfondo d’una architettura rinascimentale, dei turisti giapponesi si lasciano in-

cantare da Roma. Uno di loro ne vuol cat-turare la bellezza che s’adagia morbida sotto la luce dell’estate: punta la macchina fotografica, sta per scattare, e d’improvviso crolla. Non c’è splendore che sfugga all’e-vento ultimo d’ogni vita.

Lo sa bene Jep Gambardella (Toni Ser-villo), scrittore di fama che da quarant’anni non scrive più un libro. Oggi, compiuti i sessantacinque, intervista donne e uomini celebri per una rivista di grande prestigio. E soprattutto passa le notti nei salotti che contano, con gente che conta. Il cinismo è padrone dei suoi discorsi. Nulla vale per lui, in primo luogo il merito, l’impegno, la se-rietà, l’entusiasmo, la dignità. Giunto a Roma poco più che ventenne da una picco-la isola del Sud, tutto questo s’è lasciato alle spalle. Ma ancora ne soffre la nostalgia. E appunto un “nostos”, un ritorno a casa doloroso e impossibile è quello che ora vorrebbe compiere, sentendo più vicino l’evento ultimo della sua vita.

Niente attorno a lui ha senso: non la ricchezza volgare di faccendieri e mafiosi, non la superfluità umbratile di vecchi prin-

cipi e principesse, non quel che resta di antiche soubrette televisive, non il potere irreligioso di cardinali in limousine, non le furbizie isteriche di artisti da marketing. E di questa mancanza di senso Jep fa un alibi della sua stessa nullità. Che cosa riuscirebbe a riportarlo indietro, agli inizi colmi di speranza della vita? Una parvenza nuova d’amore per Ramona (Sabrina Ferilli)? L’amicizia quasi vera per Romano (Carlo Verdone), anche lui scrittore, per quanto oscuro? La ieraticità decrepita e muta di una “santa” che viene dall’Africa e che so-miglia a Teresa di Calcutta?

Non c’è bellezza nella Roma splendida

di Sorrentino. La volgarità e il cinismo ne sono padroni, come lo sono di Jep, che tuttavia ne ha orrore. In ogni caso, non ha vie d’uscita. O ha la sola che la vita garan-tisce a tutti. Lui l’attende. L’attende come fosse il suo nostos, un ritorno a casa e alla grande bellezza di un amore intenso e dolce dei vent’anni. Ma sopra le immagini luminose di quella bellezza emerge la de-crepitezza della santa africana. Il suo cor-po e il suo viso si tendono nello sforzo di salire una scala che dovrebbe garantirle l’indulgenza per sfuggire alle fiamme dell’inferno. E a noi sembrano lo spasimo stesso della morte. ★★★★✩

Film di Roberto Escobar

CiniCa roma

Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn, Danimarca e Francia, 2013, 90’ ★✩✩✩✩Mammà (Kristin Scott Thomas) non gli vuol bene, ma lui (Ryan Gosling) a lei ne vuole anche troppo. Uno psicanalista risolverebbe. Winding Refn però esagera e ci costruisce su una storiaccia buia fra puttane, spacciatori e poliziotti con l’hobby di mozzare avambracci. Sangue come se piovesse. Gosling ha due espressioni: una di fronte, l’altra di nuca. E non è il solo.

Epic - Il mondo segreto di Chris Wedge, Usa, 2013, 102’, animazione, 3D ★★★✩✩

Mary Katherine, diciassettenne, è alla ricerca del padre, uno scienziato scomparso mentre indagava sui Leaf Men, esserini benefici che vivono nei boschi. Ridotta per magia alla loro

dimensione, la ragazza si trova gomito a gomito con insetti fantastici, allegri lumaconi e crudeli nemici della foresta. Wedge è lo stesso di “L’era glaciale”, girato con Carlos Saldanha.

AltRi Film

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PassioniSpettacoli

Educatamente, simpaticamente e oserei dire quasi affettuosamente, sarebbe il caso di chiedere alla produzione di “Cucine da incu-bo” qual è il senso del reality che portano in scena ogni mercoledì sera alle 21.55 su Fox Life. Il co-pione di base, adattato per il tele-pueblo italico dall’originale ame-ricano “Kitchen nightmares”, prevede che uno chef di rango soccorra un ristorante che rischia di chiudere e che in pochi giorni riesca a modificarne il Dna convertendolo in locale carico di clienti e soddisfazioni. Un percorso garantito da Antonino Cannavac-ciuolo, cuoco di prima classe e di bella figura catodica: sia per l’impatto del corpo gigante, sia per il disgusto che comunica quando entra nel ristorante da resuscitare. Carico di mestiere, Big Antonino castiga le inettitudini gestionali e culinarie, insulta con lo sguardo la pornografia della scarsa igiene e non di-sdegna di far di conto per rattoppare i debiti. Un miracolo, per i gestori dei locali, i quali passano dall’aria funeral di chi sta per chiu-dere alla samba di chi brinda allo scampato pericolo. Tutto bene, dunque? Tutto giusto e divertente? Beh, sarebbe assurdo non rico-

noscere che Cannavacciuolo brilla quando si dedica a un cuochino diciannovenne per migliorarne le performance. E altrettanto empatico, il signor chef, è quando ulula contro il proprietario di un localaccio laziale un doveroso: «Robbè, in questo momento tu stai avvelenando la gente!». Solo che alla fine, dopo tutto questo dire e fare, spunta il già citato dubbio sul senso del programma. Non sarebbe meglio, insomma, se si aiutas-sero i ristoratori inetti ad abbassare la sa-racinesca, spingendoli di corsa verso me-stieri alternativi? Servirebbe a ricordare che il pressapochismo non premia, sul la-voro, anche se è sempre in auge nella fan-tastica Italia. www.gliantennati.it

Fenomeno raro, almeno in Italia. Raro che una bella pièce teatrale diventi un film altrettanto gradevole e per giunta con gli stessi attori e poi torni a teatro sull’onda del successo meritato al cinema. Accadde molti anni fa con “La stazione” di Umberto Marino, è accaduto con “Ben Hur” di Gianni Clementi, a teatro, diventato “Benur” al cinema diretto da Massimo Andrei, divertentissimo, senza alcun debito di sangue nei confronti della pièce, nel senso di una sua indipendenza filmica, e ora tornato sulle scene con gli stessi tre interpreti che hanno metabolizzato i personaggi con una naturalezza empatica: Elisabetta De Vito, Paolo Triestino, Nicola Pistoia anche regista. Non è un caso se molti spettatori tornano a rivederli. Spinaceto: Maria, la sorella, stira, rammenda e cucina mentre risponde al telefono ansimando orgasmi per una chat; Sergio, il fratello ex stuntman, tira a campare facendo il centurione al Colosseo e l’imbianchino controvoglia. E poi arriva Milan, ingegnere bielorusso di genio ma clandestino e dunque sfruttato come bestia da lavoro, dal Colosseo all’idraulica, alle ristrutturazioni, al maneggiare brugole Ikea. Si ride, molto, per battute, situazioni, tempi comici perfetti e poiché nessuno sembra sollevare il ditino ammonitore, si è liberi di riflettere sul destino di Milan e dei due ospiti borgatari. Nessun debito di sangue dicevo, anche se le parole, a teatro e al cinema, sono proprio le stesse e dunque la sceneggiatura procede fluida. A parte poche varianti. A teatro, per Sergio, un figlio omosessuale che vuol fare il ballerino ma «sempre meglio frocio che laziale» e il

finale: al cinema un futuro di speranza con Milan e famiglia integrati in un bar con vista Colosseo; a teatro, assai più amaro e realistico, aperto su Milan ferito mentre scappa dalla polizia. E poi chissà.

Roba da non credere. Una banca che dà il mutuo anche ai giovani con lavoro a tempo determinato? Parrebbe. Ubi Banca lancia questa mirabolante promessa in un mercato ingessato. Lo fa avvalendosi di un delicato cartoon con una coppia di “inseparabili” che cerca casa e la trova, alfine, componendosi a forma di cuore. Tutto idilliaco compreso il claim : “L’amore è una casa meravigliosa”. Approfittando del fermo immagine, però, abbiamo malignamente voluto soffermarci sulla minuscola dicitura di legge che compare in calce. Lì sta scritto che entrambi gli uccellini devono lavorare da almeno 18 mesi e che la banca si riserva di chiedere ulteriori garanzie.

Insomma, giovani precari in cerca di un tetto, moderate gli entusiasmi e comprate una penna a mamma e una a papà che, vedrete, serviranno.Azienda: Ubi BancaProdotto: Mutuo casa giovani coppie 2013Agenzia: Touch Italy (Omnicom Group)Creatività: Team Touch ItalyProduzione: PlaystosPianificazione: InMediaToPUNCTUM: La lumaca concorrente

TeleSpotdi Davide Guadagni

TeleReality di Riccardo Bocca

si salvi chi chefTeatroCenturione da palcoscenicodi riTA Cirio

138 | | 6 giugno 2013

Passioni Musica

Dopo la Prima Sinfonia diretta da Semyon Bychkov, con la Terza Sinfonia in re minore proposta da Michael Tilson Thomas, l’Au-ditorium di Santa Cecilia si è riaperto, anzi, spalancato a Gustav Mahler. Come sempre avviene per la grande musica, la durata cronometrica - per l’esattezza un’ora e 40 minuti, di questo monumento sonoro splen-didamente diretto non corrispondeva affat-to a quella di ascolto. «La mia sinfonia sarà qualcosa che il mondo non ha mai ascolta-to: tutta la natura vi riceve una voce e rac-conta un segreto così profondo del quale forse in sogno si può avere un’idea»: non sono farneticazioni egotistiche, ma parole di chi è tanto consapevole della loro verità da offrirne un’immagine scandalosa in senso evangelico. Il suono iterato e tremulo di una cornetta da postiglione che fiorisce nel cuore di un “molto lento: che cosa mi raccontano gli animali della foresta”, sorta di passeggiata nell’Eden di uno stupefatto Adamo bambino, appartiene a una realtà troppo ineffabile per poter venire conosciu-ta e fruita dall’uomo. Ci provano il contral-

to Katarina Karneus e il coro accademico di voci bianche e femminili su parole dallo “Zarathustra” di Nietzsche e dal “Corno magico del fanciullo”, ma invano. Contrav-

venendo a Beethoven che aveva fatto della voce umana il culmine e la conclusione della Nona Sinfonia, Mahler affida agli ar-chi della sola orchestra il compito di avere l’ultima parola in un radioso, interminabile finale. Non aveva forse detto Schopenhauer che «il senso intimo di ogni musica ci passa davanti come un paradiso a noi ben fami-gliare, e tuttavia eternamente lontano»?

Lirica di Giovanni Carli Ballola

l’eden di mahler

Il primo storico Billboard Awards per la musica dance vinto dal dj-produttore David Guetta, il ritorno dei Daft Punk con un nuovo disco di massimo culto elettro-pop, i Phoenix lanciati alla

conquista degli Stati Uniti d’America. Segnali che testimoniano lo stato di salute del pop “gauloise”. Senza bisogno di recarsi Oltralpe, dal 5 all’8 giugno basterà salire la scalinata

di Trinità dei Monti e andare a Villa Medici, sede romana dell’Accademia di Francia, per averne conferma. Il festival Villa Aperta dedicato alla musica “actuelle” (quarta edizione) spalanca i suoi meravigliosi giardini e la loggia di stampo rinascimentale alle nuove

tendenze che attraversano l’ethno-rock, il pop e l’elettronica. Il 5 giugno, saranno due artiste della nouvelle chanson a dividersi la scena: Laetitia Sadier, già voce degli Stereolab e Claire Diterzi, con il progetto video musicale “Le salon des refugées”, ideato a Roma nel 2010 durante la sua “residenza” a Villa Medici. La seconda serata vede protagonisti il Mali e il Marocco con il desert rock dei Terakaft e la “sufi trance” dei leggendari Master Musicians of Jajuka cari a Paul Bowels. Il 7 giugno i giardini della Villa ospiteranno Arnaud Rebotini con la sua dance retro-futurista ed Erol Alkan, star della scena clubbing londinese. Ospiti della serata anche i Krisma, lo storico duo hard-pop di Maurizio Arcieri e Christina Moser, di ritorno dagli sperimentali anni Ottanta. Serata di chiusura a tutto rock con Christine and the Queens, rivelazione dell’ultima edizione del festival Printemps de Bourge e gli inglesi Klaxsons, star delle principali kermesse europee.

Il concerto di Alberto Dentice

Avanguardia in Villa

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TILSON ThOMAS. SOTTO: I TERAKAFT. A DESTRA, DALL’ALTO: PERFORMANCE DI MARCO BERNECChIA PER LA BIENNALE DEL MEDITERRANEO; NAGASAwA, “BARCA”; PERRAULT, STAzIONE DI PIAzzA GARIBALDI A NAPOLI

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La costruzione di opere in Italia è molto più lunga che in altri paesi d’Europa. La realizzazione di una metropolitana in una città con una lunga storia inciampa a volte, for-tunatamente, nei reperti delle stra-tificazioni archeologiche. Napoli per la sua metropolitana ha messo in luce una lunga storia. A ogni scavo, reperti dell’epoca preistori-ca, greca, bizantina, medievale e aragonese. Nonostante questi ritrovamen-ti, la città ha una metropolitana esistente e funzionante. Con interventi di importanti architetti e designer. È in corso di comple-tamento la stazione Garibaldi progettata dal francese Dominique Perrault. L’inter-vento rappresenta un altro segno del dialo-go ormai stretto fra contemporaneo e storia a Napoli. Piazza Garibaldi, cuore pulsante della città, misura 400 per 160 metri. Quan-to emerge a prima vista è il complesso in metallo perforato della copertura, una su-perficie prismatica cangiante alla luce. La struttura si raccorda con una forte impron-ta paesaggistica contraddistinta da una

sequenza ordinata di alberi. Il miracolo di Perrault è quello di aver portato la luce naturale fino al nodo di scambio dove tro-vano luogo le aree per caffè, negozi e spazi di servizio. Far emergere una stazione dalle profonde viscere della città partenopea non è semplice. La complessità del progetto è dovuta in questo caso anche alla necessità di regolare le “interferenze” della stazione metropolitana con la circumvesuviana e la ferrovia. Quando nel 2000 si mise mano alla riorganizzazione dei trasporti regiona-li in Campania, si decise l’avvio di un gran-de progetto che va oltre le banali infrastrut-ture. Roma e altre città sono avvertite.

Mare nostruMMediterranea 16. Biennale dei Giovani artisti del Mediterraneo. 6 giugno - 7 luglio. ancona.Ogni due anni in un posto diverso (questa volta è la bellissima Mole Vanvitelliana di Ancona). Ogni due anni con un numero maggiore di artisti. Sempre più nomade e libera, ma fedele al comune denominatore: il Mediterraneo. Inteso come mare, come cultura, come territorio, come origine di ogni civiltà e dunque di ogni avanguardia. Qui degnamente rappresentata da oltre 200 giovani artisti, otto curatori e un titolo indulgente: “Errors Allowed - gli errori sono ammessi”. Per fortuna, vista la complessità degli undici capitoli tematici. Si va da “Vanishing Utopias” a “End of modernism”, passando per “Archeology of the Present” o “Crisis of Representation”. Al lavoro ragazzi!

seGnali di aMiciziade l’allemagne. 1800-1939. Fino al 24 giugno. Hall napoleon. louvre. ParigiCoi venti di crisi che ci attraversano, la Francia s’interroga sul più potente dei suoi vicini. Lo fa a modo suo, ovvero colto e intelligente, attraverso capolavori da Friedrich a Klee che disegnano l’animo e il volto della Weltanschauung tedesca. Tappa dopo tappa ecco l’apollineo dei Nazareni, il dionisiaco in Von Stuck, il paesaggio struggente di Friedrich, l’arte degenerata e quella di regime. Il tutto per ricordare quel trattato di amicizia franco- tedesco firmato nel 1963 da De Gaulle e Adenauer. Viva l’Europa!

ART BOXdi Alessandra Mammì

la funzione dello spazio personale, attivata dal corpo, è connessa all’arte di Hidetoshi nagasawa (1940) che trova il suo strumento nella definizione del vuoto, quello che nel 1972 emerge stringendo tra le dita una materia morbida che permette di realizzare una forma scultorea tradotta poi in oro. Questo prezioso interstizio spaziale tra le carni e tra i corpi è l’inizio sia del suo viaggio via terra, dalla Manciuria dove è nato all’asia e poi all’europa, sia della sua avventura nel territorio definito da materie diverse, leggere o pesanti. dal 1968 la sua ricerca coinvolge gli elementi naturali e percorsi come scale e stanze che diventano veicoli di partecipazione e di meditazione. l’arte (al Macro, roma fino al 15 settembre) diventa esercizio fisico e spirituale di una purificazione esemplificata dai continui incontri tra pietre e metalli, legni e carte. È una scrittura ambientale che costruisce percorsi e architetture in cui immergersi e trovare un baricentro personale ed emotivo. non una scultura morta ma attiva e vitale, che si nutre della dialettica tra materie e colori, come il bianco e il nero tipici della calligrafia orientale, oppure tra elementi contrastanti come la barca e l’albero. Gli insiemi si presentano allora quali cascate e salti che permettono all’osservatore di passare da una condizione all’altra, disegnando una propria esperienza. uno srotolarsi interiore che, come sui lunghi fogli cinesi, mostra una condizione nascosta dell’essere che mentre entra in se stesso, contemporaneamente ne esce.

ArteScultura vivadi GerMano celant

Architettura di Massimiliano Fuksas

nodo di luce

PassioniArte

140 | | 6 giugno 2013

Passioni Libri

Bianca è un’adolescente rimasta orfana per via dell’incidente d’auto dei genitori. Con-fusa, caotica, problematica, sensibile, è uno di quei personaggi borderline che Roberto Bolaño tratteggia con mano sicura, e a cui fa vivere fino in fondo il loro incontrover-tibile destino in “Un romanzetto lumpen” (traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi, pp. 119, € 14). Bianca lavora come parruc-chiera, il fratello in una palestra. Un giorno questi si porta a casa due amici più vecchi, che s’installano nell’appartamento. “Il bo-lognese” e “il libico” lavoravano nella me-desima palestra: due sbandati. Si crea un quartetto improbabile con la tv come bari-

centro. La notte a turno i due ospiti entrano nel letto della ragazza e fan-no l’amore con lei, senza che Bianca sappia bene chi sia, visto che i due si somigliano. La storia, raccontata in prima per-sona dalla protagonista, ha un andamento cata-

tonico. Quasi in trance Bianca rie-voca quel momento della sua vita in cui si è smarrita, senza più tro-vare via d’uscita dal labirinto dei suoi atti e pensieri. Bolaño è magi-strale nel dare al racconto questo tono ipnotico, svuotando e insieme riempiendo dall’interno i suoi per-sonaggi. Poi arriva Maciste, un campione di culturismo, attore di film di successo, diventato cieco, a suo modo anche lui un rottame. I quattro concepiscono il piano di derubarlo accedendo a una sua fantomatica cassafor-te. Bianca si prostituisce con Maciste, e in-tanto cerca il denaro. Pian piano il rappor-to con il gigante s’infittisce. Bianca è inca-pace di veri sentimenti, non ha stabilità emotiva; oscilla di continuo e vive, come un vero adolescente, nell’istante. Solo in questa dimensione temporale concepisce idee, sogni, immaginazioni, fantasie; per questo non distingue realtà e sogno (sogna molto e racconta i suoi sogni). Appare insieme sentimentale e cinica, risoluta e indecisa.

Non sa mai cosa vuole fare, e tuttavia agisce come se lo sapesse. Memorabile la scena in cui masturba Maciste, che vuol sapere di che colore sia il suo sperma. La ragazza è cieca come il suo amante: niente passato, niente futuro, solo un continuo presente. Alla fine, scossa da un movimento interiore si scrolla imprevedibilmente tutto di dosso. L’intuizione di un istante, che può perderla, ora invece la salva. Una scaglia di geniale narrazione scaturita da quell’immenso calderone di vite-non-vite che Bolaño si portava dentro come uno stigma.

Il romanzo di Marco Belpoliti

Destino cieco

A vent’anni dall’uccisione a Palermo di don Pino Puglisi, assassinato su ordine dei capimafia di Brancaccio Giuseppe e Filippo Graviano, la Chiesa lo ha beatificato riconoscendolo come primo martire della criminalità organizzata. Due libri che arrivano quasi contemporaneamente in libreria raccontano la vita di questo sacerdote che si oppose alla sopraffazione mafiosa che travolgeva il quartiere in cui era la sua parrocchia. E la gente iniziava a seguirlo: soprattutto i ragazzi. La ricostruzione della vita di don Pino Puglisi, con le testimonianze di familiari, amici, ex allievi, insegnanti e magistrati viene fatta come in una lunga cronaca da Mario Lancisi nel “Don Puglisi, il vangelo contro la mafia” (Piemme, pp. 318, € 17,50). L’autore ripercorre il cammino del prete assassinato. Lancisi mette insieme, una dopo l’altra, la testimonianza di chi lo ha conosciuto, fin da bambino,

fino a quando è arrivato a Brancaccio. Un racconto più intimo, rivelando e sviscerando quindici anni di amicizia con il sacerdote, lo fa invece Francesco Deliziosi nel “Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso” (Bur-Rizzoli pp. 389, € 11). Questo nuovo libro è una revisione di un vecchio testo aggiornato con le sentenze giudiziarie che sono arrivate per gli autori e i mandanti del delitto e con il processo di beatificazione. Deliziosi, nella sua ricostruzione minuziosa inserisce anche documenti inediti o poco conosciuti. E ne fa un lungo racconto che potrebbe apparire come una fiction, ma è la triste realtà dei fatti di Palermo.

Il saggio di Lirio Abbate

così si racconta un martireA volte, entrando in certi musei, troppo grandi, troppo famosi, con troppe opere d’arte esposte in interminabili teorie di sale, proviamo una sensazione di sconforto. O forse questa sensazione è dovuta al fatto che l’immagine, specie se bella, rimanda all’eternità, ha a che fare con la trascendenza. Insomma chi di noi, visitando gli Uffizi (o il Louvre), non ha pensato di trovarsi fuori luogo? Ora Francesco M. Cataluccio, filosofo, studioso di letteratura, ha scritto una sua personalissima guida, “La memoria degli Uffizi” (Sellerio), al celebre museo fiorentino. Ci andava da bambino, ogni domenica, accompagnato dal padre. Vale la pena di leggerlo, per il tono tra aneddotico e dotto, e per i preziosi consigli su cosa e perché guardare. W.G.

Uffizi a misura di bambino

ROBERtO BOLAÑO

6 giugno 2013 | | 141

PassioniLibri

“Sto bene, è solo la fine del mondo” (Lon-ganesi, pp. 304, € 14.90) di Ignazio Taran-tino è incastonato tra una dedica e una postfazione. La dedica, impaginata timida-mente nella pagina di sinistra, dice: “Alla mia famiglia, che il tempo mi ha restituito”. La postfazione si intitola “Dopo la fine del mondo” e racconta in una paginetta in corsivo come è nato il romanzo. Perché di romanzo si tratta, anche se autobiografico: e per una volta il senso di fastidio del lettore davanti alla copertina che lo definisce “un grande romanzo d’esordio” è ingiu-stificato. Giuliano, il prota-gonista, è il figlio minore di una famiglia numerosa me-ridionale, dominata da una madre bigotta e da un padre depresso. Il mondo del bam-bino finisce il giorno in cui la madre abbandona la devo-zione tradizionale, con i suoi eccessi che l’autore fa ben

vedere attraverso gli occhi del piccolo pro-tagonista, e si lascia irretire da una setta. La madre trascina tutta la famiglia nel gorgo della “Società” che promette la salvezza dall’Apocalisse imminente. E il bambino cresce lacerato tra l’affetto per lei, il deside-rio di obbedirle, e il rimpianto per la vita dei coetanei: la scuola, lo sport, le feste, l’amo-re, la musica dei Rem citata nel titolo...

Molti anni e molte traversie più tardi il mondo di Giulia-no finisce una seconda volta, e a distruggerlo è lui: si fa cacciare dalla setta e parte verso il Nord, la libertà, nuo-ve passioni, una nuova vita. Ci vogliono anni perché Ignazio possa raccontare la storia di Giuliano con il pa-thos dell’autobiografia e il distacco di un romanzo, con la rabbia della denuncia e l’affetto di chi rivive il dram-ma alla luce del “lieto fine” che lo incornicia.

Il libro di Angiola Codacci-Pisanelli

apocalisse bis

Non voglio dire di averli letti proprio tutti. Ma ogni volta che Bollati Boringhieri ha riportato alla luce un romanzo dell’ironica, tenera e crudele Elizabeth von Arnim (in una quindicina d’anni siamo arrivati a quota 20 e ormai ce n’è uno solo ancora da tradurre) la tentazione di entrare nelle sue pagine è stata forte. E quasi mai me ne sono pentita. D’altra parte la von Arnim, cugina della più famosa Katherine Mansfield, moglie di un fratello di Bertrand Russell, amica di H. G. Wells e di E. M.Forster ha conquistato in Italia un numero crescente di lettori (e soprattutto lettrici) con le sue storie ricche di riferimenti autobiografici, ambientate perlopiù nell’Inghilterra post vittoriana, fra ville e giardini incantevoli, amori complicati e che hanno per protagoniste donne in cerca di libertà, alle prese con una società misogina. In “Una principessa in fuga” (pp. 253, € 16,50), forse il più ironico dei suoi romanzi, il tema della liberazione dalle convenzioni

sociali viene raccontato attraverso la ribellione della principessa tedesca Priscilla. Non potendone più della soffocante vita di corte la ragazza scappa con l’anziano istitutore e con un’infida cameriera e dopo un viaggio rocambolesco arriva in un paesino della campagna inglese, che le appare come il luogo dei sogni. La ricerca di un’esistenza idilliaca, fatta di buone letture e opere di bene, si rivela però un’impresa tragicomica. Il cottage acquistato è un tugurio, la cameriera non sa cucinare e nel tentativo di beneficare i paesani Priscilla combina solo disastri. I bambini fanno indigestione di dolci, il giovane conte malaticcio che si è invaghito di lei rischia di morire di polmonite. E una vecchietta a cui ha donato troppi soldi finisce con la gola tagliata da un ladro. Nel finale questa Cenerentola alla rovescia rientra nei ranghi, a dimostrazione che non è certo con le fughe in avanti che una donna può diventare padrona di se stessa.

La lettura di Chiara Valentini

Sogni da principeSSa

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Come dire di Stefano Bartezzaghi

compiti patentati

È dieci anni che ogni automobilista italiano si confronta con un’innovazione che deve qualcosa sia al primordiale marketing dei dadi da brodo sia al meccanismo “a scalare” di molti game show: la patente a punti. Efficacissima almeno subito dopo la sua introduzione, imitata in altri settori e anche all’estero, ha costituito un espediente-pilota rispetto al problema delle trasgressioni di massa. Ci sono infatti regole a cui le persone non si attengono. Rispetto dell’autorità, fiducia, timore nelle punizioni, senso del dovere non bastano più, semmai siano bastati, a indurre gli individui a comportamenti corretti, anche laddove non si tratta di galateo e forma ma l’infrazione alle norme ha conseguenze sostanziali, sino al tragico. Bisogna fare in modo che stare alle regole convenga ed è così nata la cultura dell’incentivo, secondo lo schema: (1) devi fare i compiti, (2) non li farai; (3) però se non li farai ti toglierò una caramella; (4) ecco i compiti; (5) tieniti pure le caramelle. Il sostanziale infantilismo del meccanismo di deterrenza non è il solo tratto che rende la patente a punti un emblema della contemporaneità tanto perfetto. C’è anche il dominio del computabile. Lo si capisce considerando quali solo le infrazioni che hanno sottratto più punti agli automobilisti in questi dieci anni: superamento dei limiti di velocità, mancato uso delle cinture di sicurezza e passaggio con il semaforo rosso. Sono state presentate come le più frequenti infrazioni degli italiani, ma sarebbe stato più corretto dire: «Le più frequentemente rilevate». Tagliare la strada agli altri, non usare le frecce per svoltare, parlare al telefono o mandare sms mentre si guida, distrarsi per regolare la musica o il navigatore e, soprattutto, non rispettare la distanza di sicurezza (vera causa di molti guai): sono tutte infrazioni meno rilevabili, che si trasformano perciò in infrazioni meno rilevanti. Nel nostro mondo ciò che non è computabile tende a essere considerato inesistente, e di conseguenza innocuo.

Anagramma: La patente a punti = penalità punta te.

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La penna è uno scannerFunziona come un evidenziatore, ma il risultato non è affatto una sottolineatura: se si passa IRISPen Express 7 su un foglio scritto, infatti, si digitalizza il testo che può essere subito lavorato su un pc. Si alimenta con una porta USB, riconosce 30 lingue, è compatibile con Windows Office. Costo: 99 euro. Info: www.iriscorporate.com

Home cinema d’effettoIl meglio dell’audio senza rinunciare al design. È la filosofia dell’impianto di home cinema BeoLab 14 di Bang & Olufsen: i diffusori satellite sono di dimensioni contenute con cover intercambiabili, il subwoofer ha linee scultoree. Da 2.995 euro. Info: beostores.bang-olufsen.it

Video fra le ondeAction Cam, la videocamera Sony pensata per l’avventura, è l’ideale per gli appassionati di surf e non teme l’acqua. Supporto di montaggio, cinturino e galleggiante permettono una perfetta aderenza alla tavola, mentre il meccanismo di inclinazione garantisce riprese mozzafiato. Costo: a partire da 330 euro (accessori compresi). Info: www.sony.it

a cura di Letizia Gabaglio [email protected]

PassioniTecnoshop

fascino ibridoDell XPS 12 è un ultrabook, ma è anche un tablet. Basta un giro di display e si passa da un pc, adatto per lavorare al meglio, a una tavoletta ideale per il divertimento. Il sistema operativo è Windows 8 Pro, la tecnologia Intel Smart Connect aggiorna e-mail, social network e app preferite, anche quando l’ultrabook è in stand by.

Costo: 1.199 euro. Info: www.dell.com/it

Pazzi per il gamingAOC ha realizzato un monitor pensato per i videogiocatori incalliti: e2461Fwh. Il display 23,6’’, retroilluminato Led, ha un tempo di risposta di soli 2 millisecondi, ideale per visualizzare immagini nitide

anche durante sequenze di azione molto intense. Costo: 189 euro. Info: www.aoc-europe.com

Prestazioni sotto controlloL’orologio Runtastic RUNGPS1 combina un Gps a un computer sofisticato: misura distanza, velocità, altitudine e navigazione per sport come jogging, ciclismo, vela, sci, e visualizza la frequenza cardiaca attraverso la fascia cardio in dotazione. Costo: 149,80 euro. Info: www.sportxtreme.it

Gioiello di fotocamera Molto più piccola e leggera delle altre compatte, Optio LS465 di Pentax non rinuncia alla tecnologia: 16 megapixel effettivi, zoom ottico 5X con copertura che arriva a quella di un grandangolare da 28mm e un pulsante per la registrazione di filmati HD. Costo: 79 euro. Info: www.fowa.it

La barra della musicaSamsung HW-F750 è lo speaker che si collega a smartphone e tablet tramite Bluetooth. Grazie all’amplificatore a valvole integrato offre un suono potente e naturale. Lo speciale sensore del giroscopio garantisce la migliore qualità sonora sia se la barra è posta in orizzontale sia in verticale. Costo: 749 euro Info: www.samsung.it

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Artigiani, pescatori, camerieri, vigili del fuoco, operai, impiegati: sono i protago-nisti della nuova campagna primavera-estate 2013 del brand Piazza Italia, l’a-zienda di Nola che fa capo ai fratelli Antonio e Luigi Bernardo. Dal 1993, producono ed esportano nel mondo ab-bigliamento uomo, donna e bambino. Il claim della campagna, on air da fine maggio, è “Io faccio la mia parte”: i testi-monial sono stati fotografati a Genova, quasi tutti sul posto di lavoro. Un tema non estraneo al fotografo che ha realiz-

zato gli scatti, Carlo Furgeri Gilbert: qualche hanno fa ha curato infatti una mostra fotografica sul lavoro in fabbrica per la Fondazione Pirelli. Con questa pubblicità, ideata da Diaframma Adv sotto la direzione sciando da parte il prodotto. Da un lato, creativa di Stefano Ginestroni, Piazza Italia punta ancora una volta i riflettori sulla gente comune, lala lezione creativa di Oliviero Toscani, dall’altro, la denuncia neppure troppo sottintesa del lavoro che per molti italia-ni non c’è più. Antonia Matarrese

Ecologica e di tendenza: la nuova Twizy Momodesign Limited Edition nasce dalla collaborazione fra Renault e il centro stile Momodesign, brand italiano legato al mondo delle due ruote. Giocata sui contrasti fra nero e silver, arricchita da dettagli come le cover dei retrovisori in tinta Black Piano, l’urban crosser 100 per cento elettrico, maneggevole come

uno scooter ma confortevole come un’automobile, è disponibile esclusivamente nella versione 80km/h, che si guida dai

16 anni in su. Vera particolarità, l’equipaggiamento di serie composto da vari accessori-moda: un piumino nero in nylon spalmato, guanti in tessuto tecnico idrorepellente con interni in pile, una messenger bag in nylon hi-tech con zip termosaldate e bordino argento. La Twizy

Momodesign è disponibile presso tutta la rete vendita Renault a 7.900 euro

Iva inclusa invece dei 9.900 euro perché Renault anticipa gli eco incentivi (escluso il canone noleggio batteria). A. Mat.

Nel 2008 disegnò i costumi in stile art-déco per lo Sticky & Sweet Tour di Madonna. Oggi Riccardo Tisci, direttore creativo della maison Givenchy, ha realizzato, con l’atelier del Palais Garnier dell’Opéra National de Paris, gli abiti di scena per il “Bolero” di Ravel, in programma fino al 3 giugno. Ad affiancarlo, un team di grandi nomi internazionali fra cui Marina Abramovic, che ha curato le scenografie, e i coreografi Sidi Larbi Cherkaoui e Damien Jalet. «I costumi esprimono due facce della mia personalità: l’oscurità e il romanticismo», racconta Tisci: «Volevo che i ballerini avessero la sensazione di essere nudi, così li ho vestiti con tute aderenti color carne decorate con pizzo bianco, che disegna la struttura dello scheletro umano».

Nasce da una collaborazione con Domus Academy, Naba e Iulm, il concorso internazionale per aspiranti sceneggiatori promosso da Slowear, azienda italiana di abbigliamento che distribuisce i marchi Incotex, Zanone, Glanshirt, Montedoro. Il tema da sviluppare è lo “slow style” e tutti i partecipanti potranno raccontare momenti di vita slow tratti da esperienze personali, oppure interpretare idealmente un mondo che privilegia l’andamento lento. I lavori saranno valutati da una giuria internazionale. È possibile iscriversi fino a tutto giugno sul sito www.slow-lifestyle.org.

Pizzo biancoper Bolero

Vita slow in concorso

Campagne

scatto operaio

uN’IMMAGINe DeLLA NuOVA CAMPAGNA DI PIAZZA ITALIA. SOTTO: IL BOLeRO DI RAVeL ALL’OPeRA DI PARIGI; ReNAuLT TwIZy

Come ti vesto l’urban car

Foto

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Passioni Moda

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Etno chicMaglia in cotone e lurex decorata da

motivo geometrico (710 euro), pantalone skinny in suede con pietre dure (prezzo su

richiesta), zeppa in suede e plexi (780 euro). Tutto di Iceberg (tel. 02 782385,

www.iceberg.com).

Sguardi fiammantiFrontale in acetato e aste in metallo per gli occhiali da sole della collezione Hogan Eyewear (tel. 02 77225700, www.hogan.com). Disponibili in rosso o in blu, costano 180 euro.

Contrasti di colore Per lui, camicia (250 euro) e pantaloni (390 euro) in cotone della collezione Ralph Lauren Black Label (tel. 02 7788721, www.ralphlauren.com).

Ore prezioseMovimento meccanico a carica automatica, calendario annuale, quadrante opalescente argentato, bracciale in oro con maglie a gocce: sono le principali caratteristiche dell’orologio Patek Philippe (www. patek.com). Prezzo su richiesta.

Tuffi fashionBoxer in nylon turchese con profili a contrasto e ricamo personalizzato della collezione Harmont&Blaine (www.harmontblaine.it). In vendita a 100 euro.

Fruscio da sera Abito lungo in chiffon verde acqua con petali in pizzo della collezione Alberta Ferretti (tel. 02 760591, www.albertaferretti.com). Prezzo su richiesta.

a cura di Antonia Matarrese

Arcobaleno ai piediSandalo a gabbia in camoscio multicolor firmato Cesare Paciotti (tel. 02 76013887,

www.cesare-paciotti.com). Costa 576 euro.

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A pochi minuti da Dogliani, picco-la, orgogliosa capitale dell’Alta Langa e porta verso la Liguria, dove fra colline e crinali i vigneti danno spazio ai boschi di noccio-

le, si trova quella che ormai è riconosciuta come la miglior tavola della zona: La Cocci-nella, a Serravalle Langhe. Ne hai sentito dir

bene da tutti, ma quando finalmente la provi la trovi superiore a quanto aspettassi. Tant’è che, nonostante sia fuori dalle rotte turistiche più battute, non è scontato soprat-tutto nei weekend conquistare un tavolo in questa “trattoria”, condotta con sperimen-tato mestiere dai tre fratelli Dellaferrera, i gemelli Alessandro e Tiziano, in sala, e Mas-

simo, più giovane, in cucina. L’ambiente, ordinato e sobrio, è quello delle trattorie d’un tempo, bancone del bar all’ingresso, portici-na che dà sulla sala con i tavoli ben apparec-chiati, il profumo di buono che ti saluta dalla cucina. Ti siedi - amuse-bouche, pane e grissini, lettura delle carte di piatti e vini - e subito ti rendi conto della caratura del loca-le. Che si materializza negli assaggi. C’è un più che raccomandabile percorso-pesce, con il fagottino di trota e gambero rosso ripieno di seirass, ormai un piccolo classico, e ciò che il mercato del giorno ha suggerito: per esem-pio, crudi fragranti, crema di fagioli con cappesante e calamaretti, tagliatelle con gamberi, pescatrice, polpetti e carciofi. L’oc-chio e la mano sul pesce Massimo se li è fatti negli anni trascorsi nella cucina dei Balzi Rossi. E poi ci sono le riletture intelli-genti, misurate, anche estrose, di ricette anti-che: il tonno di galletto con fondente di pe-peroni e maionese al basilico, gli gnocchi di patate e nocciole ripieni di Castelmagno, i tajarin - perfetti - con il ragù d’agnello e verdure novelle, gli immancabili plin al sugo d’arrosto, il piccolo fritto di scamone impa-nato con asparagi. La carta è varia, le cottu-re sono precise, gli ortaggi di stagione segna-no ogni piatto, ai formaggi e ai dolci (croc-cante al Gianduja con granita al Barolo Chinato, semifreddo agli amaretti di Mom-baruzzo) è davvero difficile rinunciare, in cantina c’è il meglio del Piemonte (con vec-chie annate) e tanto altro. E i prezzi sciocca-no i “cittadini”: degustazione 42 euro, alla carta meno di 50 dall’antipasto al dolce.Trattoria La CoccinellaSerravalle Langhe (Cn)Via Provinciale 5tel. 0173.748220Chiuso martedì, mercoledì a pranzowww.trattoriacoccinella.com

[email protected]

Al Borgo - BellunoVia Anconetta 8 - tel. 0437.926755Chiuso: martedì e lunedì seraImmerso nel verde, poco distante dal centro della città, ristorante di tradizione familiare in un’elegante villa d’epoca. Accoglienza cordiale e servizio gentile per gustare specialità locali. Gnocchi di zucca e un bel tagliere di salumi tra i piatti. Qualche buona bottiglia e conto sui 30 euro.

La Collina – Palmi (Rc)Bivio S. Elia 17 - tel. 0966.410130Chiuso: mercoledìSempre fedele alla propria linea nel tempo l’offerta di questo locale, espressione classica e rassicurante di una semplice cucina del territorio che però non riserva sorprese. Pietanze di carne o di pesce e classiche verdure di stagione. Piacevoli i dolci. Circa 30 euro.

Altre tavole

a serravalle,riletture intelligentidi piatti antichipiemontesi.dai tajarin ai plin al sugo

La Tavola di Enzo Vizzari

tre fratellinelle langhe

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Nell’area del Porto Antico è stato da poco inaugurato il Wow!, il primo Science Centre d’Italia, destinato a ospitare mostre temporanee interattive scientifico-tecnologiche. La prima, visitabile fino al 7 luglio, è “Brain: il mondo in testa”, dedicata alla ricerca scientifica sul cervello, che utilizza effetti speciali, simulazioni virtuali e riproduzioni in 3D (www.wowscienza.it). Non distante, si può dormire alla Locanda di Palazzo Cicala, di fronte al Duomo di San Lorenzo, con camere luminose, design contemporaneo e vista sulla tranquilla piazza Scuole Pie (doppia da 145 euro, www.palazzocicala.it). Ottimi “mandilli de sea”, sottilissime lasagne al pesto,

si gustano alla Trattoria Vico Palla, che propone anche torte con carciofi di Albenga. Vale la pena di assaggiare il cioccolato della confetteria Vedova Romanengo, nei fondi di Palazzo Branca Doria, dove sono stati ritrovati affreschi del Seicento (www.visitgenoa.it). Luisa Taliento

Scienza e gusto al porto di Genova

All’Arena di Verona a giugno comincerà un grandioso Festival del Centenario (1913-2013), con tante opere verdiane per celebrare i 200 anni del compositore. Ma non poteva mancare, a fine cartellone, l’opera Roméo et Juliette di Charles Gounod. Il pellegrinaggio di turisti in via Cappello, nel centro della città scaligera, continua senza sosta per visitare la casa dei due sfortunati amanti. Chi voglia portarsi via qualche goloso souvenir, può fare tappa nella pasticceria di Gianni Tomasi, un po’ fuori dal centro (corso Milano 16a, tel. 045 574017). Vi troverà il laboratorio di un membro dell’Accademia maestri pasticceri, pluri-premiato per il famoso Nadalin e per tante delizie della tradizione veneta. Con qualche sensuale specialità afrodisiaca: la torta Valentino, con frutto della passione e cioccolato al peperoncino, o i classici Sospiri di Romeo da abbinare ai Baci di Giulietta, mignon al cacao e nocciola. Per innamorati (dei dessert). Gigi Padovani

Oltre Romeo e Giulietta

È piccola, storica (1843), famosa per i suoi alambicchi altissimi. E gloriosa: per i “veri” scozzesi quella originaria del fiordo di Dor-noch è un’etichetta bandiera, forse il “single malt” di casa più amato. Per rafforzare il legame, Glenmorangie ha scelto di “fidan-zarsi” con un’altra delle passioni nazionali: il golf. Per tre anni sarà partner dell’Open Championship, il più antico dei tornei major (dal 1860), l’unico dei quattro non ambien-tato negli Usa, e che ha visto trionfare in era moderna Ballesteros, Nick Faldo, Tiger Woods e in due edizioni memorabili i divi di casa Sandy Lyle e Paul Lawrie. Da quei ma-gici green Glenmorangie partirà quest’estate anche alla conquista dell’Italia, con un fitto programma di eventi. Antonio Paolini

whisky

scotch golf

Viaggi

C’è un’oasi in Europa che non conosce confini, un vero giardino, quasi una cooperazione verde sul confine tra Germania, Lussemburgo e Francia. Il più grande di questi complessi è il “Giardino dei Sensi” nella cittadina di Merzig, nel Saarland, un Land (Stato federato) della Germania che confina con la Lorena, il Lussemburgo e la Renania-Palatinato. Ci sono 11 giardini costruiti e voluti come ispirazione per i sensi: ascoltare, vedere, odorare, sentire e persino gustare, perché anche i fiori possono essere assaggiati. Ultimato il tour dei sensi prendete una bicicletta e, seguendo le indicazioni, attraversate il Saarland, che offre sentieri, adatti anche alle famiglie, lungo le valli fluviali, e poi tour frontalieri in Francia e Lussemburgo o salite faticose sulle vette dell’Hunsrück. Potete anche pedalare sulla pista ciclabile lungo il fiume Saar. Il Saarland è il regno delle escursioni. Anche a piedi. Negli ultimi cinque anni, quattro sentieri di questo territorio si sono aggiudicati il riconoscimento di sentiero escursionistico più bello della Germania. Tra i più affascinanti c’è la salita Saar-Hunsrück, 180 chilometri da fare in più giorni, mangiando in una villa romana, riposando in un castello barocco e ascoltando jazz prima di andare a dormire. A Nennig c’è il mosaico più grande e meglio conservato a nord delle Alpi, nei resti di una villa romana. Dall’archeologia del passato remoto a quella del recente passato. Poco distante dalla capitale Saarbrücken c’è l’acciaieria Alte Völklinger Hütte, inaugurata nel 1873 e chiusa nel 1986. Ora è un interessante parco tematico e patrimonio Unesco.

Luoghi da scoprire di Giovanni scipioni

Un’oasi al confine dei sensi

Passioni

A SINISTRA, DISTILLeRIA GLeNmORANGIe. IN ALTO: meRzIG; NeLL’ALTRA PAGINA: I fRATeLLI DeLLAfeRReRA

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Bisogna riconoscerlo: i nomi delle ultime Renault sono divertenti e, non ricorrendo ai numeri come fanno altri, rendono difficile fare confusione tra un modello e l’al-

tro. Zoe, Twizy, ora Captur. Le prime due si rivolgono ai fan della mobilità pulita, la terza invece è tradizionale in quanto a moto-ri e un po’ meno nell’aspetto. La casa france-se la definisce “urban crossover” - lasciando da parte l’orgogliosa avversione agli angli-smi della cultura transalpina - perché la ritie-ne una miscela tra Suv, monovolume e berli-na. L’aggettivo “urban”, invece, la vettura se lo meriterebbe grazie alle dimensioni, che sono contenute, uscendo, la Captur, dalla stessa piattaforma della Clio. Il look della macchina, per contro, non è esattamente metropolitano. La grinta del muso e i 20 centimetri che distanziano il suolo dal fondo

sono più da campagna che da centro storico. L’assenza della trazione integrale spazza comunque via ogni malinteso. La Captur cavalca una delle mode del momento, quella delle auto compatte ma con un abitacolo spazioso e più alte delle classiche utilitarie del segmento B. Assai più piacevole dal vivo che in fotografia, la francesina ha una carrozzeria un poco ridondante, con curve e bombature a inseguirsi senza sosta e un tetto sensibil-mente curvilineo. La posizione di guida è rialzata e sul display si può controllare l’in-quinamento esterno: se c’è la fogliolina, vuol dire che l’aria intorno è pulita. Nella sfida tra motori, il diesel da 90 cavalli se la vede con due interessanti alternative a benzina: il piccolo tre cilindri abbinato al cambio ma-nuale a cinque marce e il quattro cilindri da 120 cavalli perfettamente a suo agio col cambio automatico/sequenziale, che di mar-

ce ne ha sei. Ma è davanti al passeggero, la più utile e divertente delle chicche: il maxi scomparto che si apre a scorrimento, come il cassettone di una moderna credenza, con una capacità di 11 litri. Scorre parecchio pure il divano posteriore, così si può sceglie-re se farne beneficiare le gambe degli ospiti in seconda fila o il bagagliaio.

La “M”, rossa e maiuscola, è malandrina quando fa capolino su una Bmw. Perché vuol dire che quella Bmw è più cattiva del solito. Cattivissima è, infatti, la nuova Gran Coupé M. Dal muso con le maxi prese d’aria agli enormi cerchi in lega da 20 pollici, sulla tedescona la grinta abbonda ovunque, senza tuttavia stravolgerne la linea aggressivamente chic. Per domare l’otto cilindri a “V” da 560 cavalli, accarezzati dalla lussuosa pelle degli avvolgenti sedili, bisogna tuttavia privarsi di una somma piuttosto

impegnativa, visto che il prezzo ufficiale è di 136.950 euro. Le prestazioni dell’esagerata bavarese sono, com’è ovvio, prepotenti. Arriva ai 100 orari in 4”2 secondi e raggiunge i 250 chilometri orari di velocità massima. Con il pacchetto - opzionale - M Drivers, si sale fino ai 306 all’ora. Oltre all’eleganza e ai muscoli, la Gran Coupé, che è lunga oltre cinque metri, ha pure un grande bagagliaio, per giunta ampliabile abbattendo i sedili. Metti che ci sia da dare una mano a un amico che trasloca.

Elegante e aggressiva

Prezzo: 20.550 euroCilindrata: 1.197 centimetri cubiMotore: 4 cilindri benzinaPotenza massima: 120 cavalli Velocità massima: 192 km/oraAccelerazione da 0 a 100 km/ora: 10”9 secondiCambio: automatico a 6 marce Consumo medio: 18,5 km/litro Emissioni di CO2: 125 grammi/kmLunghezza: 4,12 metriBollo annuale: da 227,04 a 249,92 euro

Renault Captur Energy TCe EDC

Paese Furti ogni 10 mila vetture

Brasile 130

Sudafrica 115

Cile 92

Argentina 74

Nuova Zelanda 69

Cina 50

Canada 44

Francia 37

Australia 35

Italia 31

La top ten dei furti riferita al 2011. Elaborazione LoJack pubblicata da InterAutoNews.

Mappa dei furti

Auto di Maurizio Maggi

francesina da città

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Da Taiwan sbarca il primo scooter Kymco con il motore 400. Si chiama Xciting 400i e ha un prezzo abbordabile (5.450 euro), destinato a salire un po’, l’anno prossimo, quando arriverà la versione con Abs. L’elegante “ruote basse” orientale ha un solo difetto: il parabrezza ripara pochino. Tra gli accessori c’è quello più alto: per proteggersi bisogna pagare, insomma. Per il resto, l’Xciting 400i è ben fatto e non si fa mancare nulla, comprese le sfiziosissime luci diurne a led e l’originale gruppo ottico posteriore, anch’esso a led, ma originalmente disposti su tre linee orizzontali. Piacevole la strumentazione analogico-digitale, utili il freno di stazionamento, la presa a 12 Volt e il sellone a sblocco automatico: sotto ha un vano da 47 litri, che ospita comodamente il casco integrale e altri oggetti, ed è persino dotato di lucina di cortesia calibrata da un sensore di luminosità esterno.Tra gli spunti tecnici ambiziosi si segnalano i dischi freno a margherita, morsi da pinze radiali per una frenata poderosa, dietro anche troppo. Bene l’abitabilità e il comfort, senza ombra di vibrazioni; stabile la ciclistica, con sospensioni efficaci e la forcella da moto vera. Ottimo il nuovo motore monocilindrico G5-SC, fluido e silenzioso. Maurizio Tanca

PassioniMotori

«E se ci facessimo un’auto sportiva?». «Scordatela!». Dialogo classico, secco e un po’ frustrante sull’asse lui-lei. E non c’è quasi mai verso di spuntarla, se lei non ne vuol sapere. Almeno finora... Perché adesso il maschio “alfa” italiano, smanettone e limitato nelle sue ambizioni da signore forse troppo razionali, ha un nuovo alleato, la Toyota. I genietti del marketing del gigante giapponese hanno infatti deciso di puntare sulla madre di tutte le armi del corteggiamento classico: un bel mazzo di fiori. Che potrà non bastare, ma aiuta. Al punto che la nuova campagna commerciale (esplicitamente battezzata “Fattela perdonare”…) per la grintosa GT86 prevede, con il recapito a domicilio dell’auto, anche quello di un bel bouquet alla gentile consorte, per “ammorbidirla” e smorzarne il prevedibile dissenso. Sul sito GT86.toyota.it è infatti possibile scegliere il colore del mazzo di rose e persino scrivere un bigliettino con dedica personalizzata che accompagnerà l’omaggio floreale. E visto che ormai senza il Web non si fa niente, l’iniziativa troverà spazio anche su social network e piattaforme come Facebook, Twitter e YouTube. Giusto per informare: la GT86 è una coupé da 200 cavalli e costa circa 30 mila euro. L’auto di nicchia di una marca leader nelle ibride e che in Europa vende soprattutto la Yaris. Marco Scafati

Insieme al nuovo sito Internet Vespa.com, che ambisce a diventare un magazine con interviste a big dell’arte, della musica e del design e dare tanto spazio al vintage, debutta la Vespa più chic di sempre. Prenotabile online, si chiama 946 e costa 9 mila euro. L’incredibile prezzo può pure salire, con sella e manopole in vera pelle, portapacchi cromato, cupolino. Prodotto dalla Piaggio a Pontedera, nella “collezione 2013” c’è solo in bianco e in nero. Ha fanali a led, controllo elettronico della trazione ed esibisce alluminio a go-go (manubrio, reggisella, pance laterali). Il motore è un classico 125. Ma il motore, su un affare così, passa in secondo piano.

Due ruote

Vintage black and white

SportiveConvincila con un fiore

Prezzo: 5.450 euroCilindrata: 399 centimetri cubiMotore: monocilindrico 4T, 4 valvolePotenza massima: 36 cavalliVelocità massima: oltre 140 km/orariConsumo medio: 24 km/litroCapacità serbatoio: 12,5 litri Peso col pieno: 209 chilogrammiAltezza sella da terra: 81,5 centimetriBollo: da 42,51 a 48,64 euro

Kymco Xciting 400i

MotoIl fascino discreto delle luci a led

TOyOTA GT86. A DeSTrA: KyMCO XCITInG 400I. In BASSO: VeSPA 946. neLL’ALTrA PAGInA, DALL’ALTO:

renAuLT CAPTur; BMw M6 GrAn COuPÉ

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LettereQuanto costa una vita? 1.900 euroIl figlio ucciso dal terremoto. E il padre dice: «Una vita risarcita con 1.900 eu-ro». Nonostante appelli, articoli, lettere, e a un anno dal sisma dell’Emilia, il Parlamento non è stato in grado di mo-dificare il Testo Unico che regola i risar-cimenti Inail per gli infortuni e le morti sul lavoro. Una legge vecchia di cin-quant’anni. Ma quanto si vuole aspetta-re ancora a cambiarla?

marco bazzoni email

L’importanza della prevenzione sismicaDell’articolo “Un Paese sull’orlo del si-sma” (“l’Espresso” n. 20) condivido il messaggio fondamentale riguardante la necessità e l’urgenza della prevenzione si-smica, che si attua attraverso misure di rafforzamento delle costruzioni e la messa a punto di adeguati piani di emergenza. Temi sui quali il Dipartimento sta lavoran-do da quasi vent’anni, troppo spesso pur-troppo in perfetta solitudine. In merito all’articolo devo però precisare che le mi-gliaia di schede della banca dati del Dipar-timento della Protezione civile (Dpc) non sono affatto riservate come scritto. Al contrario, essendo uno strumento utile alla pianificazione di emergenza a livello comunale, il Dpc le ha sempre messe e continua a metterle a disposizione degli enti locali che nel tempo ne hanno fatto richiesta (tra l’altro, tutti i comuni della Provincia dell’Aquila nel 2007). L’ultimo aggiornamento di queste schede, che tiene conto dei dati del censimento Istat 2001, è stato distribuito a tutte le Regioni nell’ot-tobre 2008, nel corso di una riunione del Tavolo di Protezione Civile delle Regioni, nell’ambito degli Indirizzi e criteri per la micro zonazione sismica elaborati dal Dpc congiuntamente con la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome (sul sito del Dpc, a questo link http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_pub.wp?contentId=PUB1137, è disponibile il documento nel quale si trova la descrizio-

ne del contenuto del Dvd distribuito, tra cui gli scenari comunali). Mi permetto di rilevare, inoltre, una certa confusione nei contenuti scientifici, soprattutto quando si parla di “allerte” date per attivare le “reti di soccorso”: non essendoci, allo stato, nessuno strumento in grado di for-nire al sistema di protezione civile delle previsioni deterministiche (che indichino quando, dove e con quale intensità avver-rà il prossimo terremoto) le azioni preven-tive di protezione civile che possono esse-

re intraprese non sono altro che quelle messe in campo in ordinario, alle quali dovrebbe affiancarsi una seria politica di prevenzione strutturale.

franco gabrieLLi

Tirrenia, risponde onoratoL’articolo “Il traghetto è cosa mia” (“l’E-spresso” n. 21) non rispecchia la realtà dei fatti. Io vorrei rincari sui traghetti: falso, perché le tariffe traghetto Moby sono vincolate dall’Antitrust, quelle Tirrenia

Per Posta | Per e-mail | le oPinioni dei nostri lettori | n. 22 - 6 giugno 2013

Cara Rossini, sento tanto parlare di femminicidio, di uomini che uccidono mogli, fidanzate e amanti. Era una parola che ai miei tempi non c’era. Come non c’era tanta attenzione per questo tipo di omicidi. Ai miei tempi c’era soltanto una bambina umiliata e disperata. Ero diventata diligente a scuola, ubbidiente a casa degli zii che mi ospitavano e che mi accompagnavano di tanto in tanto a trovare mio padre in carcere. Nessuno mi diceva con chiarezza perché era lì, e io mostravo, anche a me stessa, di non saperlo. Ma lo sapevo bene: mio padre aveva ucciso mia madre in una notte che ha segnato la mia vita e quella di mio fratello. Avevo cinque anni e i ricordi sono confusi nel caos, nelle omissioni, nei volti degli sconosciuti arrivati a casa, con in primo piano quello di una donna in divisa che mi portava via accarezzandomi la testa. Da allora sono stata guardata da tutti con una commozione che somigliava alla pietà. Mio padre fu condannato soltanto a sette anni di carcere perché il suo delitto venne considerato “dettato da motivi passionali e di onore”. Dissero che mia madre lo stava tradendo o comunque così lui pensava. Erano gli anni Cinquanta e questo era possibile, e persino accettato socialmente. Tanto che mi fecero tornare a vivere con lui quando uscì dal carcere. Era diventato un uomo cupo, silenzioso, grande lavoratore, con me sempre mite. Ma io mi sentivo doppiamente orfana, della madre che non avevo più e di un padre che me l’aveva sottratta. Me ne andai da casa appena possibile e rividi quell’uomo soltanto sul letto di morte. Non mi chiese mai perdono. Oggi ho quasi settant’anni e guardandomi indietro mi riconosco la capacità di aver reagito al meglio possibile: mi sono sposata con un uomo buono, ho avuto due figli e una vita di lavoro soddisfacente. Ma la ferita di quella bambina è rimasta intatta, mentre la vita scorreva. Per questo sono felice che finalmente si parli tanto di questi delitti e vorrei chiedere a lei e a tutte le giornaliste di non smettere, di farne una ossessione benefica. Mi perdonerà se non mi firmo per intero, ma sono nonna di quattro nipoti. ada

cara ada, la sua lettera non ha bisogno di commenti. È perfetta così e potrebbe essere il dolente manifesto della persistenza di questa piaga umana e sociale che è la violenza di genere. il delitto d’onore che ha segnato la sua vita è stato abolito nel 1981. oggi è cambiata la motivazione, segnata non più dal potere indiscusso quanto dallo smarrimento del ruolo maschile di fronte all’autonomia della donna. ma non è cambiato l’orrore. grazie della sua confidenza.

Mio padre aveva ucciso mia madre

Risponde Stefania [email protected]

l’Espresso: Via C. Colombo, 90 - 00147 Roma. E-mail: [email protected]

6 giugno 2013 | | 151

dall’Antitrust e dai li-miti posti dalla con-venzione. Vorrei tagli

sulle rotte Tirrenia: falso perché le rotte Tirrenia sono regolate dalla convenzione con lo Stato. Al contrario è stata Moby a rinunciare alla remunerativa rotta Geno-va-Porto Torres per obbligo dell’Anti-trust, lasciandola a Tirrenia. Vorrei tagli di personale su Tirrenia e lotto contro l’unificazione dei contratti di lavoro: falso. In Tirrenia esistono almeno due importanti contratti di lavoro, uno per i marittimi su rotte in convenzione e un altro per marittimi in rotte fuori conven-zione molto meno remunerativo (e più basso di quello applicato dalla Moby). Sin dal mio ingresso in Tirrenia ho spinto per l’ adeguamento dei contratti a livello più alto, in questo osteggiato dal mana-gement Cin-Tirrenia e da Clessidra. Le mie affermazioni sono comprovate dalla mia storia: all’indomani della mia acqui-sizione della Toremar, ho regolarizzato contratti di lavoro per 200 marittimi. Dall’articolo si evince che la società di consulenza Blu Peter è stata assunta da noi: falso. La società Blu Peter è stata voluta da Clessidra. Neppure io capi-sco chiaramente quali sono le vere in-tenzioni di Clessidra. Posso solo ipotiz-zare che la Cin-Tirrenia susciti appetiti sui suoi asset di enorme valore. Come dire che vale più da morta che da viva. La mia ottica armatoriale è per il lungo periodo, quella di un fondo è di realiz-zare e uscire al più presto, con una lauta plusvalenza.

vincenzo onorato

I limiti a rincari e tagli di rotte che l’ar-matore Onorato dice di dover rispettare in forza dalla convenzione valgono solo per il periodo invernale, non per quello estivo, che invece è fuori convenzione ed è quello remunerativo: ed è in previsione dell’imminente estate, dove anche la piccola concorrenza della “flotta della regione sarda” non ci sarà, che Moby sperava di ottenere l’allineamento delle tariffe Tirrenia alle sue, più alte, e alcuni vantaggi sull’esercizio delle rotte. Come da proposta fatta ai soci, e che la Blu Peter ha analizzato. (P.P.)

Quel battesimo non s’ha da fareSono amareggiato per il contenuto diffa-matorio dell’articolo “Nunzia, il battesi-mo non s’ha da fare” (“l’Espresso” n. 21) che riguarda la piccola Emanuela Barone. Sin da subito è bene chiarire che la piccola è mia parrocchiana, figlia di una coppia che abita a 500 metri dalla Chiesa. Per cui, la celebrazione del battesimo spettava a me e a nessun altro; è legittima e non ha alcun profilo di anomalia. Sono parroco a San Giovanni da 13 anni e conosco vizi e virtù di tutti. Sono felice di aver celebrato questo battesimo perché ritengo che una famiglia cattolica non può mai mancare i benefici dei sacramenti della Chiesa. È bene aggiungere, inoltre, che se i genitori della piccola avessero voluto battezzarla in un’altra chiesa, ad esempio alla parroc-chia San Nicola Vescovo di Ceppaloni o alla Cattedrale di Benevento, sarebbe stato indispensabile e necessario il mio nullao-sta. Chi ha scritto e imbeccato questo ar-ticolo lavora per dividere e non per unire, per creare dissidi e squilibri nel comune di Ceppaloni. Dispiace leggere del collega don Renato Trapani che rilascia dichiara-zioni del tipo “mi hanno detto”. Può un sacerdote andare appresso alle chiacchiere di paese e della gente? E poi perché i miei parrocchiani avrebbero dovuto conse-gnargli, e rapidamente, il certificato della madrina prima di chiedere a me il nullao-sta? Chi ha scritto l’articolo si è reso pro-tagonista della divisione di due sacerdoti che hanno come missione la pace e la gioia del proprio popolo. Riguardo, inve-ce, la vicenda della signora Nunzia De Girolamo è falso che mi abbia consegnato un certificato dove dichiarava di essere nubile; ha soltanto fatto da testimone di battesimo alla piccola Emanuela. La si-gnora De Girolamo è arrivata con la fami-glia dinanzi alla chiesa e all’interno ha se-guito, accanto ai genitori e alla zia, la cele-brazione. Per cui altre ricostruzioni sono false, tendenziose e diffamatorie.

Jean Marie robert esposito Mpazayino

Sacerdote della Parrocchia San Giovanni Battista di Ceppaloni

Confermiamo il contenuto dell’arti-colo. (S. N.)

L’espressovia c. colombo, 90, 00147 roma. e-mail: [email protected]@espressoedit.it

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152 | | 6 giugno 2013

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“Le mille bolle blu” è uno dei tanti successi di Mina: meraviglioso gioco di parole su un’ariosa base orchestrale che arrivò quinto al Festival di San Remo nel 1961. Un episo-dio leggero che fotografa perfettamente lo spirito del tempo. A quello spirito ha voluto richiamarsi Gino Castaldo che ha ideato un concerto spettacolo intitolato appunto “Mille bolle blu”: un viaggio musicale attra-verso le canzoni che hanno costruito il nostro immagi-nario negli anni ‘60 e ‘70. Brani che, ad ascoltarli oggi, ci fanno sognare e ci fanno rivivere emozioni che crede-vamo sopite. Una meravi-gliosa macchina del tempo per attraversare nuovamen-te la stagione più creativa della musica pop. A condur-

ci alla riscoperta di alcune delle pagine più belle della nostra storia musicale sono la voce calda e cristallina di Nicky Nicolai e l’estro del sax di Stefano Di Battista. Accan-to a loro la Big Band composta da 13 ele-menti. In “Mille bolle blu” questo incredibi-le ensemble passa in rassegna alcune gemme che hanno segnato un’epoca, non solo della musica italiana: da “Se stasera sono qui” di

Tenco a “These Boots Are Made For Walking” di Nancy Sinatra, da “Se tu ragazzo mio” di Gabriella Ferri a “All My Loving” dei Beatles, passando per un inedito medley che mette assieme “Se telefonando” di Mina e “Smoke On The Wa-ter” dei Deep Purple.

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Miole Le Campore-Oricola (L’Aquila); Puntoweb (copertina): via Variante di Cancelliera snc Ariccia (Rm); Legatoria Europea (allestimento): Ariccia (Rm)Responsabile trattamento dati (d.lgs.30.06.2003, n.196): Bruno Manfellotto

Certificato ADS n. 7442 del 10/12/2012

n. 22 - anno liX - 6 GiuGno 2013TIRATuRA COPIE 286.500

154 | | 6 giugno 2013

Mi pare si sia riaccesa la di-scussione sulla trasmissio-ne del cognome ai figli. Pie-ro, figlio del signor Verdi e della signora Bianchi, si

dovrà chiamare Piero Verdi, Piero Verdi Bianchi, Piero Bianchi Verdi o addirittura Piero Bianchi? Noi caratterizziamo la discendenza secondo la linea paterna, ma niente vieterebbe di caratterizzarla in chiave matrilineare, come avviene in altre culture. In fondo “mater semper certa est” mentre il padre deve solo aver fiducia nella sua signora. A meno di ammettere, come suggeriva Silvia Vegetti Finzi giorni fa sul “Corriere”, che dare ai figli il co-gnome del padre sia in fondo l’unico modo di risarcire il genitore maschio ri-conoscendogli almeno un diritto legale.

La più ovvia sembra la soluzione spa-gnola, per cui il Rodrigo nato da Juan Lopez e da Juana Gutierrez si chiamerà Rodrigo Lopez Gutierrez. Ma se poi sposerà una Carmen Lozano Almeida come si chiamerà la loro figlia? Nel 1952 avevo incontrato un prete che si chiama-va don Laurentino Herran Herran Her-ran Herran perché nato da un padre Herran Herran e da una madre Herran Herran. Se non fosse stato prete e avesse poi (per accidente improbabile ma non impossibile) sposato una donna col suo stesso cognome, i figli si sarebbero chia-mati Herran Herran Herran Herran Her-ran Herran Herran Herran?

Per porre fine a questa fuga “in infini-tum” credo che la legge spagnola prescriva per i figli il primo cognome del padre e il primo cognome della madre e dia, dal 1999, la facoltà di scegliere quale debba essere il primo. Non so se la cosa la deci-dano i genitori o i figli arrivati alla mag-giore età, ma immagino cosa succederebbe da noi. Poniamo che Giulio Verdi Cavour sposi una Giuliana Neri Garibaldi, e Giu-liana fosse fiera di portare il cognome di quel nonno materno celeberrimo. Perché i suoi figli dovrebbero perderlo? Ma anche il padre avrebbe qualche diritto a voler ricordato il suo avo non meno illustre. E potrebbe il figlio Franceschiello, arrivato

all’età adulta, decidere di chiamarsi Fran-ceschiello Cavour Garibaldi, o France-schiello Garibaldi Cavour?

Data comunque la possibilità di sceglie-re come primo nome o quello del padre o quello della madre, chi decide? Se sarà la coppia, ci saranno molte occasioni di di-vorzio post parto, se lo decide il figlio e sceglie di anteporre il cognome del padre, ve la vedete voi la madre, che si lamenterà per il resto dei suoi giorni di non essere stata abbastanza amata? In caso contrario potrebbe accadere che il padre infuriato (se non è sposato con comunione dei beni) diseredi il figlio irriconoscente.

Si penSi inoLtre che i cognomi dovreb-bero testimoniare non solo della discen-denza dai genitori e dai nonni ma anche della preterita presenza dei bisnonni, dei trisnonni e così via. Avrete talora pensato che, poiché si nasce da due genitori, e cia-scun genitore da altri due, per cui ciascuno di noi ha quattro nonni, se le cose fossero andate secondo la logica genealogica, ciascuno dovrebbe avere otto bisnonni, sedici trisnonni e così via per cui, risalendo alle origini la terra avrebbe dovuto essere popolata non da 7 miliardi bensì da 7 alla X, a seconda di quante siano le generazio-ni che ci separano da Adamo ed Eva. Evidentemente c’è una soluzione a questo paradosso, e la lascio immaginare ai miei lettori più acuti, ma questo non toglie che, se i cognomi dovessero essere anche solo approssimativamente trasparenti dal pun-to di vista genealogico, dovremmo averne almeno alcune decine.

Di questo passo la soluzione più equa-nime sarebbe che i genitori scegliessero di dare ai figli un cognome del tutto nuovo. Ma come se la caveranno nella vita i rampolli di genitori eccentrici che avesse-ro scelto per loro non Battipaglia o Cefalù bensì Hitler, Berlusconi, Mata Hari, Bin Laden o Pol Pot (il che non sarebbe inve-rosimile visto che ci sono oggi genitori che hanno chiamato i figli Benito, Lenino o Sciuellen?)

Non ho una soluzione in tasca e - per-plesso - consegno queste mie riflessioni a chi mi legge.

Herran Herran Herran Herran

Dare ai figli il doppio cognome, del padre e della

madre, è complicato. Quale sarebbe il primo?

Chi deciderebbe? E come regolare il

progressivo raddoppio? Meglio forse dargliene uno nuovo. Purché non

troppo eccentrico

Se ne parla su www.espressonline.it

Umberto Eco La bustina di Minerva