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* Relazione presentata agli Incontri pratesi su Lo sviluppo lo- cale, Artimino, 12-16 Settembre 2005, Dal distretto industriale allo sviluppo locale - Versione provvisoria. Daniela Adorni è ricercatrice presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino; Stefano Magagnoli è ricercatore pres- so il Dipartimento di Economia dell’Università di Parma. L'esperienza di decentramento istituzionale in Italia e lo sviluppo locale * Daniela Adorni Stefano Magagnoli WP 3/2005 Serie: Storia Economica

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* Relazione presentata agli Incontri pratesi su Lo sviluppo lo-cale, Artimino, 12-16 Settembre 2005, Dal distretto industrialeallo sviluppo locale - Versione provvisoria.

Daniela Adorni è ricercatrice presso il Dipartimento di Storiadell’Università di Torino; Stefano Magagnoli è ricercatore pres-so il Dipartimento di Economia dell’Università di Parma.

L'esperienza di decentramento istituzionale in Italia e lo sviluppo locale*

Daniela AdorniStefano Magagnoli

WP 3/2005

Serie: Storia Economica

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I. I termini della questione

1. Questa relazione* è un primo tentativodi riflettere organicamente sul tema deldecentramento istituzionale in relazione alproblema dello sviluppo locale in un’otti-ca temporale di lungo periodo (partendocioè dall’unificazione del Regno d’Italia1),e tentando di intrecciare tra loro più pianidi analisi: dalle vicende che riguardano gliassetti istituzionali della nazione (sospesicostantemente all’interno del dibattito tra

accentramento e decentramento) a quelleche riguardano invece la concreta attivitàdegli enti politici periferici.2. La domanda iniziale da cui partire do-vrebbe essere secca: la politica delle istitu-zioni locali “conta” o no nell’accompagna-re, agevolare e amplificare i processi di svi-luppo locale? Ovviamente se partissimoda tale quesito - da quella che ci sembra ladomanda “giusta” e che ancora anima ildibattito sui fattori influenti dei processidi sviluppo - saremmo chiamati a seguire

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L’esperienza di decentramento istituzionale

* Il presente contributo è frutto di un’elaborazione teorica e un percorso di ricerca metodologicamenteunitario da parte degli autori. In particolare, però, Daniela Adorni ha scritto il secondo paragrafo (La lun-ga traiettoria del rapporto centro/periferia dall’età liberale al fascismo), mentre Stefano Magagnoli il primoe il terzo (I termini della questione e Gli anni della Repubblica: sistema delle autonomie e sviluppo locale).1 Proponendo uno schema di lettura cronologicamente così esteso pare opportuno evidenziare che il no-stro campo di osservazione è suddivisibile in tre macro-periodi, a loro volta contenenti altre sottoparti-zioni: i) età liberale: caratterizzata dalla presenza di élites notabilari locali, strettamente collegate al centrodello Stato da rapporti personali o politici. È una fase della storia d’Italia punteggiata dalla ristrettezza delsuffragio e dei circuiti del potere, con una scarsissima presenza di partiti organizzati su base nazionale (so-lo verso la fine del periodo, con i socialisti e i popolari, si assisterà a qualcosa di parzialmente differente).È evidente come per questo periodo (compreso tra l’Unità e l’avvento della dittatura fascista) ogni anali-si dei problemi delle istituzioni, del potere e dello sviluppo locali non possa prescindere da una marcataattenzione per lo studio della fisionomia e dei rapporti tra le élites, che spesso fanno divenire il controllodel governo locale la principale posta in gioco del confronto e dello scontro che tra esse avviene. Tenen-do peraltro conto che le stesse istituzioni (loro composizione e loro politiche) possono anche essere viste- in parte - come lo “specchio” dei rapporti di forza e delle relazioni che si sviluppano entro il circuito del-le élites; ii) regime fascista: la più recente storiografia ha mostrato come la lettura tradizionale del fascismo- inteso come regime saldamente ancorato al centro, ed espressione di una prassi politica che aveva can-cellato ogni varco di autonomie delle periferie - incorporasse un difetto ottico non secondario. Difatti, purconfermando che il processo di riscrittura dei gangli organizzativi del telaio istituzionale italiano (e quin-di anche di una profonda torsione cui vengono sottoposti i rapporti tra le diverse sfere istituzionali) è undato assolutamente incontestabile (e misurabile su più variabili), l’apporto di questi studi ha però postoin evidenza come il peso delle singole élites locali non venga sostanzialmente eliminato dall’avvento delnuovo regime politico, che anzi proprio dei precedenti equilibri di forza tenta di avvalersi nella sua ope-ra di penetrazione capillare del tessuto politico e sociale italiano, mettendo in opera un’imponente opera-zione di fascistizzazione forzata. Anche per questo periodo - allora - non appare per nulla secondario ilcompito di ricostruire l’ordito dei rapporti di potere locale per comprendere in quale modo si (ri)com-pone il flusso delle decisioni politiche tra centro e periferia, e di come gli interessi economici locali rag-giungono (e con quale efficacia) il centro dello Stato; iii) Stato repubblicano: periodo in cui si assiste aun’altra profonda torsione degli equilibri, con l’impianto del sistema dei partiti di massa, che per quasimezzo secolo rappresentano il vero punto di potere del sistema italiano. Si tratta indubbiamente di unapresenza “ingombrante” sia al vertice dello Stato sia al livello dei singoli governi locali, che porta alla suamassima espansione il rapporto - storicamente sempre presente - tra politica ed economia. Nondimeno, lanecessità di tenere bene in considerazione questo elemento caratteristico del contesto italiano ha portatoperò alla rarefazione di altre piste di ricerca che tentassero di decifrare - nei diversi contesti locali - la ma-glia sempre più complessa dei rapporti tra i vari attori: politici, istituzionali, economici.

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un percorso logico ed espositivo ben de-terminato, incanalato nel solco della dis-cussione teorica sullo sviluppo e le istitu-zioni, terreno di riflessione ricco di contri-buti, ma che forse, in quanto storici, ri-schierebbe di porci non marginali difficol-tà argomentative, e di non consentirci disviluppare sino in fondo il nostro percorsodi riflessione.3. La domanda iniziale (“contano”?)2 vie-ne quindi parzialmente ripensata, introdu-cendo la variabile di tempo, fattore indi-spensabile per la riflessione dello storico.“Ripensamento” che non significa nascon-dersi dietro un filo di lana, bensì di impo-stare il ragionamento secondo le coordina-te epistemologiche del nostro “mestiere”,ben consapevoli tuttavia di quale sia lospessore di alcune delle domande del pre-sente in tema di politiche di sviluppo (de-vono essere locali o nazionali? settoriali oterritoriali? redistributive o realizzative dibeni pubblici?).4. La domanda da cui partiamo è dunquela seguente: nella storia italiana post-unita-ria in che modo hanno “contato” le politi-che delle istituzioni locali nell’accompa-gna-re/sostenere/amplificare i processi disviluppo locale? Si è trattato - come talunisostengono - di un’ordinaria attività ammi-nistrativa (e quindi poco significativa e an-cor meno efficace)? Oppure no, e le istitu-zioni locali hanno invece rivelato un dina-mismo e una capacità di fare del tutto im-pensati, circostanze che fanno dunque ri-tenere che il loro ruolo (anche solo in viapresuntiva) sia stato invece particolarmen-te rilevante?

5. Accanto a questa domanda, cui si offri-rà una risposta fenomenologica riflettendosu ciò che concretamente le istituzioni lo-cali hanno fatto nel secolo e mezzo di sto-ria post-unitaria, si pone una seconda que-stione che riguarda gli equilibri del telaioistituzionale italiano: è esistita una correla-zione diretta tra il livello di dinamismo (edi capacità di fare) delle istituzioni locali eil grado di decentramento istituzionaledello Stato italiano?6. Prima di addentrarci nel vivo delle que-stioni è opportuno chiarire che più che una“lezione” queste note sono in realtà il frut-to di un percorso di riflessione ancora inprogress3 che prende le mosse dalla rilettu-ra critica, con occhiali selettivi, della vastaproduzione storiografica (soprattutto diparte contemporaneistica) sui temi del de-centramento e delle istituzioni locali realiz-zata nel corso degli ultimi decenni, cui an-che gli autori si sono trovati in passato acontribuire. Una produzione ampia cheperò - si badi bene - corrispondeva a obiet-tivi di ricerca assai differenti, e che rendedunque necessaria un’estrema attenzioneinterpretativa per essere utilizzata all’inter-no di queste considerazioni.7. Un secondo punto preliminare riguardala comune provenienza disciplinare degliautori; da quella scuola storica (la contem-poraneistica italiana) che attribuisce unruolo importante e fattivo, diremmo quasideterminante, alle istituzioni (sia centraliche locali) nei processi del cambiamento,concetto composito che incorpora diversilivelli: quello sociale e politico, culturaleed economico. Tale approccio non consi-

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2 Un quesito che sposterebbe peraltro l’asse della risposta sul terreno concreto del “fare politico” (qualeche fosse la risposta essa avrebbe dirette implicazioni pratiche con la sfera della definizione delle politichedell’oggi).3 Anche se va detto che uno dei due autori è avviato su questa pista di lavoro già da alcuni anni, lavoran-do come storico economico insieme al “gruppo” degli economisti di Parma.

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dera ovviamente scontato che il loro ruolosia stato comunque dinamico o protagoni-sta. Può essere vero anche il contrario, edè questo il motivo che rende necessariauna circostanziata indagine empirica, chesi basa tuttavia su un perno solido: le isti-tuzioni hanno sempre all’interno della so-cietà locale (costruzione umana che com-prende diversi livelli) un ruolo importante.Tanto più se parliamo di quelle politiche(comuni e province), immerse in un siste-ma di relazioni plurali (polo di mediazionetra gli interessi locali e di relazione/nego-ziazione nei confronti delle istituzioni edelle politiche nazionali), dotate di alcuniimportanti poteri discrezionali e cogenti.Ciò non comporta in nessuna maniera l’a-desione a un metodo teleologico (siccomele cose stanno così, è già scritto che le isti-tuzioni “contino”), ma semplicemente af-fermare che se questi sono gli àmbiti delleloro funzioni - che ne definiscono la “po-sizione” nel contesto locale - lo studio del-la loro attività diventa indispensabile percomprendere cosa davvero abbiano fatto, equanto le loro politiche abbiano o menocontribuito al cambiamento e allo sviluppolocale, o se addirittura lo abbiano inveceostacolato.8. Quest’impostazione accetta quindi sen-za “stupore” o “meraviglia” l’esistenza diun ruolo significativo delle istituzioni loca-li nei processi di sviluppo locale; una con-statazione che anche il paradigma distret-tuale (dopo una lunga fase in cui avevaescluso quasi del tutto l’influenza di politi-

che intenzionali - centrali o locali che fos-sero - non riconducibili al monolite dellesedimentazioni di lunga durata) ha inizia-to a fare propria4, aprendo spazi a un ulte-riore irrobustimento della collaborazionemultidisciplinare di ricerca, che, in passa-to, ha registrato una scarsa presenza deglistorici. Tra gli altri è questo uno dei nostriscopi: presentare alla discussione un per-corso di ricerca “aperto” per sollecitare lariflessione su nuovi possibili scenari dianalisi del ruolo delle istituzioni nei pro-cessi di sviluppo locale (e quindi anche al-l’interno delle società distrettuali).9. Un’ultima considerazione introduttiva.In questa relazione si parlerà soprattuttodelle diverse terminazioni del sistema isti-tuzionale italiano (comuni, province, pre-fetture e infine regioni), sia nel loro “fare”cose concrete per il sistema locale sia per illoro importante ruolo di cerniera negozialetra gli interessi delle comunità locali e l’at-tività dello Stato centrale.I motivi di tale scelta si possono così rias-sumere:- dovendo inscrivere la questione dell’ap-porto istituzionale allo sviluppo locale al-l’interno del tema del decentramento è im-portante concentrarsi su quei corpi istitu-zionali direttamente interessati dalle suealtalenanti e secolari vicende.- la particolare natura della storiografiautilizzata, orientata prevalentemente versolo studio degli enti locali territoriali, mettea disposizione certi e non altri elementi diconoscenza. Una scelta certo parziale5,

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4 Giacomo Becattini, Il bruco e la farfalla. Prato: una storia esemplare dell’Italia dei distretti, Firenze, LeMonnier, 2000; Luigi Federico Signorini, Introduzione, in Id. (a cura di), Lo sviluppo locale: un’indaginedella Banca d’Italia sui distretti industriali, Corigliano Calabro, Meridiana Libri, 2000; Gabi Dei Ottati,Concertazione e sviluppo nei distretti industriali, in Augusto Ninni, Francesco Silva e Sergio Vaccà (a curadi), Evoluzione del lavoro, crisi del sindacato e sviluppo del paese, Milano, Franco Angeli, 2001.5 Artefice in alcuni casi della “mutilazione” delle potenzialità analitiche con l’esclusione dal campo di in-dagine di altri corpi istituzionali operanti nel contesto locale.

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che, volta in chiave propositiva, può peròstimolare la formulazione di nuove piste diindagine per ampliare la quantità e la qua-lità delle istituzioni locali di cui studiarel’attività.- la terza motivazione - la più forte - è infi-ne radicata nella convinzione che all’inter-no dell’architettura istituzionale interme-dia6 gli enti locali territoriali (ma soprattut-to il comune) abbiano avuto un ruolo di-verso da quello di altre istituzioni, cui hacorrisposto la capacità potenziale di realiz-zare politiche per una più vasta generalitàdi interessi locali.Questa considerazione - in cui diverso epiù vasta generalità non devono essere au-tomaticamente abbinati al concetto quali-tativo di migliore o a quello quantitativo dimaggiore - è basata su due ordini intrec-ciati di motivazioni:1) gli elementi scaturiti da numerosi studidi caso mostrano che i comuni italiani, sindall’unificazione nazionale, esercitano unruolo importantissimo nella mediazionedegli interessi locali; nella promozione deiprocessi di modernizzazione; nella produ-zione di economie esterne o politiche perintegrare l’economia locale all’interno dimercati sempre più estesi e articolati, so-stenendone in vari modi la crescita dicompetitività;2) la sistematizzazione di tali riscontri mo-stra perché la progettualità e gli interventidelle istituzioni locali politiche vadano, anostro avviso, osservati con una particola-re lente di osservazione:i) il governo comunale è collocato funzio-

nalmente all’interno del sistema istituzio-nale pubblico ed è dotato di funzioni re-golative che possono essere fatte valere co-gentemente nei confronti di altri attori(singoli e collettivi); sino agli anni ’70 puòdeterminare un’autonoma politica fiscale(prerogativa che lo responsabilizza difronte ai cittadini circa la politica di spe-sa); spesso le sue politiche “forzano” lanormativa, estendendosi a campi di inter-vento che formalmente non gli apparten-gono;ii) l’attività dei comuni, specialmente inoccasione delle congiunture più difficili etormentate (la “grande” crescita urbana acavallo tra 8 e 900; i due dopoguerra delNovecento; gli anni del boom e del suc-cessivo riassestamento), diventa più inten-sa ed è caratterizzata da interventi strategi-ci a lungo termine, esercitando peraltro unruolo di supplenza delle funzioni delloStato (questo è vero in modo particolareper i due dopoguerra). Ciò produce l’in-cremento della loro autorevolezza (intesacome capacità di percepirsi ed essere per-cepiti dagli altri attori come “punto di co-agulo” del contesto locale, “crocevia” na-turale delle scelte che riguardano gli inte-ressi, economici e non, della comunità lo-cale), condizione che consente di ampliareulteriormente lo spettro degli interventiextra legem;iii) il governo locale riesce tanto più a raf-forzare la propria autorevolezza quantopiù è capace di produrre “equilibrio” nelcontesto locale; o meglio quanto più le suepolitiche sono percepite dagli attori/elet-

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6 È importante precisare che il nostro paradigma può dirsi “sintonizzato” con quella parte della teoria eco-nomica che ha definito e sistematizzato l’esistenza dell’architettura istituzionale e delle istituzioni inter-medie, componente importante delle politiche locali di sviluppo. Cfr. Alessandro Arrighetti e Gilberto Se-ravalli, Istituzioni e dualismo dimensionale dell’industria italiana, in Fabrizio Barca (a cura di), Storia delcapitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli, 1997 e A. Arrighetti e G. Seravalli (a cura di),Istituzioni intermedie e sviluppo locale, Roma, Donzelli, 1999.

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tori locali (si usa questo termine perché ta-li attori possono o meno “premiare” con ilproprio consenso la politica di equilibrio,conferendo stabilità alla compagine politi-ca che guida il governo locale) come un’a-zione efficace per ricostituire un equilibrioperduto o conseguirne uno nuovo, ridu-cendo/annullando/mediando le naturalicondizioni di conflitto esistenti in ognirealtà sociale.iv) questa peculiarità7 è anche determinatadal fatto che la sua collocazione istituziona-le consente al comune di “vedere” di più emeglio di altri attori istituzionali locali.Con tale termine si indica la condizione didisporre di un numero maggiore di rela-zioni (locali e nazionali), che gli permetto-no di rendere sempre più solida e necessa-ria la propria funzione di mediazione, di“apprendere” più rapidamente di altrisoggetti, e dunque di percepirsi (e di esse-re percepiti) come un “perno” del sistemalocale la cui capacità di intervenire e rego-lare si colloca in una prospettiva tempora-le molto estesa;v) quest’ultima condizione offre al comu-ne la potenzialità di fare di più (e poten-zialmente meglio): sia nel campo dellaproduzione di beni pubblici che in quellodelle politiche di regolazione/programma-zione. Ma soprattutto gli mette a disposi-

zione la potenzialità di produrre innova-zioni politiche anche particolarmente rile-vanti, capaci di incidere significativamentesu punti strategici della vita della città edel suo sviluppo, giocate interamente a li-vello locale, senza il sostegno dell’inter-vento centrale o addirittura malgrado lasua resistenza8.10. Per concludere questo decalogo preli-minare vorremmo infine tentare di scio-gliere un’altra questione concettuale, cherappresenta il secondo termine del titolodella relazione: che cosa si intende concre-tamente quando si utilizza la nozione “svi-luppo locale”? Così, pur rischiando di for-zare i termini della definizione (soprattut-to in una sede come Artimino, in cui diqueste tematiche si discute da parecchi an-ni), abbiamo ritenuto necessario compieretale tentativo (ringraziando Fabio Sforziche ci ha aiutati in questa messa a fuoco),quanto meno per chiarire l’accezione concui tale concetto è utilizzato in questa re-lazione.Per “sviluppo locale”, prima ancora chedefinire un processo concreto, intendiamoun modo di leggere e interpretare il cam-biamento economico che assume comeunità d’indagine i luoghi, piuttosto chel’impresa o il singolo settore. In Italia lasua genesi può essere rintracciata nel para-

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7 Che in certi luoghi può essere detenuta anche da altri attori, pensiamo ad esempio ai casi di CompanyTown: la Fiat a Torino è uno degli archetipi principali.8 È Marco Cammelli a focalizzare l’attenzione su tale questione prendendo in esame alcuni aspetti inno-vativi della politica amministrativa del comune di Bologna all’inizio degli anni Sessanta, sottolineando co-me tutto ciò sia reso possibile “grazie all’azione congiunta di un solido sistema politico, che assicura (d’in-tesa con la minoranza consiliare) il necessario consenso, e di una forte capacità di utilizzare in modo inedi-to gli strumenti giuridici, finanziari e amministrativi allora disponibili”. Le autonomie tra sistemi locali e re-ti: profili istituzionali, in M. Cammelli (a cura di), L’innovazione tra centro e periferia. Il caso di Bologna,Bologna, Il Mulino, 2004, p. 11; i corsivi sono nostri. Per alcune riflessioni sull’innovazione delle politichenel contesto regionale emiliano si veda S. Magagnoli, Una ricetta efficace per lo sviluppo regionale: beni pub-blici, coordinamento e redistribuzione in Emilia Romagna nel secondo dopoguerra, in corso di stampa negliAtti del Convegno Tra vecchi e nuovi equilibri economici. Domanda e offerta di servizi in Italia in età mo-derna e contemporanea, Torino 12-13 novembre 2004.

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digma distrettualistico, corrente di pensie-ro che recupera la lezione marshallianadell’organizzazione territoriale dei feno-meni economici come principio fonda-mentale del rapporto fra economia e so-cietà, contrapponendosi al più tradiziona-le principio di distribuzione spaziale. Gli effetti di questa prospettiva analiticaportano all’affermazione che lo sviluppo sirealizza in un luogo, non in un’impresa néin un’industria, attraverso le modalità concui una società locale si specializza pro-gressivamente in un’industria, cioè nellaproduzione specializzata di una certa clas-se di beni che soddisfano bisogni (o desi-deri) di gruppi di consumatori situati al difuori del mercato locale, sparsi nel “restodel mondo”: nei mercati regionale, nazio-nale, mondiale.Le componenti di questo processo di spe-cializzazione (che porta allo sviluppo) nonsono legate soltanto all’organizzazioneproduttiva e al livello tecnologico applica-to, ma comprendono anche l’apporto del-le politiche istituzionali. Possiamo così af-fermare che lo “sviluppo locale” è unacombinazione di diversi fattori, così comesi presentano in un dato luogo e in un da-to tempo (con questo si afferma anche, im-plicitamente, che la “miscela” dei fattori èvariabile a seconda del luogo, e a secondadel tempo). Affermando che le politicheistituzionali costituiscono un fattore im-portante diventa perciò rilevante l’apportonon solo del livello di innovazione che siproduce in àmbito produttivo e del gradodi conoscenze tecniche e professionali (co-dificate o implicite) utilizzate, ma anche

della capacità di innovazione delle politi-che e della formazione “tecnico-ammini-strativa” degli “amministratori delegati”dei comuni (sindaci, assessori, ecc.). An-che le istituzioni locali, cioè, per esserecompetitive e offrire il proprio apporto al-lo sviluppo del sistema locale, devono in-vestire in innovazione e in formazione delcapitale umano.Il verificarsi di queste circostanze, abbina-to al parallelo sviluppo dei fattori omolo-ghi in campo produttivo, porta ad entrarein quel circolo virtuoso che può determina-re (ma su questo può incidono anche fat-tori esterni al o non direttamente mano-vrabili dal sistema locale: politiche nazio-nali, andamento dei mercati, ecc.) l’inne-sco di un processo di sviluppo.All’interno di questo ragionamento faccia-mo rientrare la tradizionale categoria dellapositiva “atmosfera industriale” che sta-rebbe alla base del successo economicodei distretti. “Atmosfera” che preferiamoperò declinare col nome di “circolo vir-tuoso” determinato dalla capacità compe-titiva di quelle istituzioni locali che riesco-no a produrre grandi quantità di innova-zione politica9. Da questo punto di vista,ovviamente, l’atmosfera è causa dello svi-luppo (paradigma distrettuale), ma nellostesso tempo il prodotto di politiche istitu-zionali tendenzialmente innovative.Lo sviluppo è un processo per sua naturanon equilibrato sia in relazione al territo-rio che al tempo, poiché si forma in alcuniluoghi, ma non in altri; in alcuni luoghiprima e in altri dopo, mentre in altri tardaa formarsi o non si forma affatto. E nei

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9 Quali forme concrete possa o debba prendere l’innovazione, in quali beni pubblici debba cioè declinar-si questa capacità è ovviamente tutt’altra questione, che rimandiamo a ulteriori approfondimenti, abba-stanza convinti però di due cose: 1) che non necessariamente si deve trattare di interventi direttamentecollegati alla sfera economica (anche un particolare ospedale, o un teatro, piuttosto che la realizzazione diun parco pubblico possono esplicitare il livello dell’innovazione); 2) che non si tratta mai di interventi sin-goli, ma piuttosto di un’articolata miscela di differenti politiche.

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luoghi dove si forma lo sviluppo può im-boccare una molteplicità di sentieri, di-pendenti quindi dal modo con cui società,economia e istituzioni si compenetrano lo-calmente e interagiscono col “resto delmondo”, alle diverse scale in cui si manife-stano opportunità e vincoli di natura so-ciale, economica e politica.Con “sviluppo locale” (ma si potrebbeproporre - vista la natura non solo econo-mica dei processi cui allude - di utilizzareun altro sintagma: cambiamento ad esem-pio?) si intende quindi un processo di tra-sformazione - di sviluppo - geograficamen-te localizzato in un’area territoriale che sidefinisce a partire dalla natura e dall’in-tensità del fenomeno, e che dunque, nellasua accezione metodologica comportal’applicazione di un paradigma d’indagineche ponga capo ai luoghi, che si configura-no così come unità di analisi per la misu-razione degli effetti del processo di svilup-po (non solo in campo economico, ma so-prattutto sociale e politico) come pure diquella parte delle politiche prodotte daltessuto istituzionale locale (composto daistituzioni pubbliche e private, locali e in-termedie, sociali ed economiche) che l’a-nalisi storica individua come un importan-te fattore di sviluppo.

2. La lunga traiettoria del rapporto cen-tro/periferia dall’età liberale al fascismo

Per l’età liberale e per il fascismo, fatte ledebite distinzioni tra i due regimi, la real-tà istituzionale al cui cospetto ci si trova èquella dello Stato unitario, che ha solo ter-minali periferici da esso strettamente di-pendenti, con un mero decentramento bu-rocratico/amministrativo, e non quella delcosiddetto Stato composto, dove gli entiterritoriali sono espressione delle popola-zioni e hanno poteri di indirizzo politico,con un decentramento politico/istituzio-nale10.È opportuno dunque mettere in chiaroche, quando si parlerà di comuni (e lostesso vale per le province il cui profiloistituzionale è tuttavia di ancor più diffici-le lettura), proprio a questo contesto si do-vrà fare riferimento, cioè ad un’architettu-ra istituzionale in cui il meccanismo difunzionamento del sistema politico com-plessivo ha marginalizzato e ridotto il cam-po di azione delle politiche locali11. Tenen-do ferma la “distinzione esplicita tra l’a-zione delle istituzioni centrali e di quelledecentrate”12 e al fine di tentare “una veri-fica dell’influenza delle due forme di rego-lazione sull’intensità e la traiettoria dello

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10 È ciò che, in altri termini è stato definito il passaggio dall’ordinamento funzionale garantistico dello Sta-to liberale, il cui centro gravitazionale è costituito dal momento funzionale-accentratore dell’aministra-zione all’ordinamento strutturale dello Stato democratico-repubblicano, imperniato su un sistema istitu-zionale diffuso localmente, cfr. Enrico Caperdoni, Angelo Lassini, Giorgio G. Negri, Governo locale: qua-le potere?, Milano, Mazzotta, 1980, pp. 39-40.11 Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1967; RobertoRuffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano, Giuffrè, 1971; SabinoCassese, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 1983; Marcello Fedele (a cura di), Il sistema politicolocale. Istituzioni e società in una regione rossa: l’Umbria, Bari, De Donato, 1983; S. Cassese, Prospettivedegli studi di storia locale, in Mariapia Bigaran (a cura di), Istituzioni e borghesie locali nell’Italia liberale,Milano, Franco Angeli, 1986; Guido Melis, Società senza Stato? Per uno studio delle amministrazioni peri-feriche tra età liberale e periodo fascista, in “Meridiana”, 1988, n. 4.12 Alessandro Arrighetti e Gilberto Seravalli, Sviluppo economico,convergenza e istituzioni intermedie, Uni-versità degli Studi di Parma, Facoltà di Economia, Istituto di Scienze Economiche, Working Paper, n. 8.

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sviluppo delle economie locali”, dato ilcontesto cui si è fatto cenno, il nostro dis-corso non potrà non partire proprio dallaprima delle due istanze regolatrici ma faràanche tesoro di quella serie di acquisizioniche ci provengono dai più recenti studi distoria economica, di politologia e di storiaamministrativa i quali dimostrano comel’esistenza di uno Stato nazionale effettiva-mente accentratore e burocratico non ab-bia affatto significato la cancellazione deiruoli e delle funzioni dei poteri locali, mapiuttosto, come si vedrà, abbia disegnatouna mappa relazionale tra centro e perife-ria del tutto originale. A tale proposito vale la pena riprenderel’osservazione formulata da Romanelli piùdi quindi anni fa a proposito del sintagma“potere locale” dove l’aggettivo “locale”,“rinviando a un potere altro, in qualchemodo superiore, dirige tutta la nostra at-tenzione sulla relazione che corre tra l’unoe l’altro. Una relazione che, lo sappiamo,nel secolo XIX si fa più densa e ravvicinata,in rapporto a processi di unificazione cul-turale, commerciale, politica, dei quali l’o-mogeneità normativa pretesa dal modernoStato amministrativo non è che un aspet-to”13. Alla luce di queste osservazioni, larelazione di non reciprocità, anzi, l’oppo-sizione binaria, tra centro e periferia si ri-vela così del tutto opinabile14, e comunquetutta da verificare a partire dalla messa indiscussione sul piano concettuale e sul pia-no storico-empirico di almeno due stereo-

tipi tra loro simmetrici e, al tempo stesso,complementari: quello dello Stato accen-tratore, omologante, liquidatore dei poterilocali e quello di “comunità locale” total-mente altra rispetto allo Stato e alla socie-tà nazionale (la “piccola patria” municipa-le). Grazie ai più recenti studi di storia am-ministrativa, economica, sociale, urbana,culturale condotti su scala locale, tale let-tura dicotomica è stata severamente messain discussione per lasciare il posto all’in-dagine sulla costante interazione tra “cen-tri” e “periferie” al rapporto cioè tra ciòche appartiene a processi più generali edha caratteri omogenei ai cicli della politica,dell’economia e della cultura nazionale einternazionale e ciò che invece è unico eappartiene in maniera esclusiva al luogostudiato. A ciò si aggiunga che viene asciogliersi anche la dicotomia (apparente)tra dinamica top-down nella sfera politica(il processo di formazione dello Stato na-zionale ha proceduto dall’alto, annetten-dosi le comunità locali, di cui ha tenutoscarsamente in considerazione l’ethos el’ethnos) e dinamica bottom-up nella sferaeconomica (lo sviluppo economico italia-no è stato un processo dal basso, quandoc’è stato, mentre sono in gran parte falliti itentativi di produrlo dall’alto15). Infatti,ciò che si pone in essere è un differenterapporto tra le due sfere all’interno diun’indagine relazionale attenta ai flussi, al-le circolarità di poteri e saperi (e ai “luo-ghi” e alle figure in cui tale circolarità si

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13 Raffaele Romanelli, La nazionalizzazione della periferia. Casi e prospettive di studio, in “Meridiana”,1988, n. 4, p. 13 ss.14 In questa direzione, per una critica dei postulati imperniati sulla dicotomia centro/periferia, si veda ilpionieristico lavoro di Sidney Tarrow, Tra centro e periferia. Il ruolo degli amministratori locali in Italia ein Francia, Bologna, Il Mulino, 1977 e ancora R. Romanelli, Il comando impossibile, Bologna, Il Mulino,1988.15 A. Arrighetti e G. Seravalli, Sviluppo economico,convergenza e istituzioni intermedie, cit. “Questi tenta-tivi - si aggiunge - non solo non hanno avuto risultati, ma ne hanno spesso minato le basi, rendendo omo-genee istituzioni intermedie formali e accentuando così la loro distanza dalle istituzioni informali”.

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manifesta) così come anche ai conflitti. In-somma, ai “sistemi locali” nella loro inte-razione con le politiche sovranazionali enazionali. Ed è su questo terreno cheemerge con pregnanza il ruolo delle istitu-zioni centrali e periferiche, anzi è proprioattraverso questa chiave di lettura chesembra possibile restituire valore, al di làdei più vieti stereotipi, sia all’iniziativa del“centro” sia a quella dei poteri locali con-centrati nell’istituzione municipale. Dellaprima, infatti, che certo in molte occasionie a causa dell’obiettivo uniformatore svol-se un ruolo di freno se non addirittura disoffocamento del dinamismo di alcuni si-stemi locali, si potrà apprezzare la realeportata di quella “modernizzazione forza-ta” o “dall’alto” che mutò in misura signi-ficativa equilibri e ritmi di sviluppo in real-tà apparentemente immobili. Della secon-da si potrà verificare la qualità del suo de-clinarsi in una miriade di soluzioni diffe-renti e originali, del suo modellarsi per co-sì dire extra legem nel volgere a propriovantaggio quei margini di azione che lepur strette maglie del potere centrale la-sciava aperti. Ma c’è di più. Come suggeri-to da quel più giovane filone di storiogra-fia amministrativa cui va il merito di averesaputo “contaminarsi” in maniera profi-cua con la storia sociale, ciò che è stato ne-cessario rimettere in discussione è propriol’effettività dell’accentramento ammini-

strativo (o almeno lo scollamento tra ilprogetto centralista e la sua concreta at-tuazione), in una parola, la lettura, se nonesclusivamente certo fortemente, centrali-stica e prefettizia della storia dell’ordina-mento italiano in età liberale. Lo studiodei sistemi locali non più intesi come luo-ghi di “una socialità comunitaria inequivo-cabilmente anti o pre-statalistica”16, è cosìdivenuto cruciale non tanto a ribaltarel’immagine di uno Stato prefettizio, mapiuttosto a verificarla sul terreno dell’ef-fettiva articolazione dei poteri. Svincolan-dosi dalle tradizionali analisi condotte apartire dai modelli alti, questo filone sto-riografico, sottolineando le forti disomo-geneità periferiche, le larghe sfere di vitasociale sottratte al diretto controllo politi-co del centro, la permanenza di spazi viavia sempre più ampi di autonomia e dicontrattazione del potere locale, è giunto amettere definitivamente a nudo le disso-nanze e lo scarto esistenti tra tendenzeomologanti e realtà sociali17. La qual cosaha naturalmente condotto ad un radicaleripensamento del concetto stesso di cen-tro, dove per “centro” si fa riferimento al-lo Stato-autorità che - nel pieno rispettodella tradizione étatiste italiana - si incarnanell’esecutivo e nelle sue burocrazie. Uncentro che, più che nelle strutture e neiprocessi decisionali, risulta frammentato efluttuante nella sua progettualità, non solo

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16 R. Romanelli, La nazionalizzazione della periferia. Casi e prospettive di studio, in “Meridiana”, 1988, n. 4,p. 15.17 Era questa la via indicata già nel 1980 dai saggi raccolti nel n. 45 (dicembre 1980) di “Quaderni stori-ci” dedicato a L’indagine sociale nell’unificazione italiana e curato da R. Romanelli e nel 1988 da alcunicontributi contenuti nei numeri 2 e 4 di “Meridiana” dedicati, rispettivamente ai Circuiti politici e ai Po-teri locali che correggevano l’impostazione classica di Ragionieri (Accentramento e autonomie nella storiadell’Italia unita, in “La Regione”, Firenze, n. 1, 1963). In particolare, cfr. R. Romanelli, La nazionalizza-zione della periferia, cit. pp. 13-24 e Stefano Sepe, Amministrazione e nazionalizzazione. Il ruolo della bu-rocrazia statale nella costruzione dello Stato unitario (1861-1900), in Marco Meriggi e Pierangelo Schiera (acura di), Dalla città alla nazione: borghesie ottocentesche in Italia e in Germania, Bologna, Il Mulino, 1993,p. 312.

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per un limite intrinseco (dalla scarsa con-sistenza delle sue capacità progettuali di-scende infatti un’applicazione elastica del-le norme da parte di una burocrazia senzacorpo né testa, ma in grado di massimizza-re il suo ruolo), ma anche perché schiavodella sostituzione della normale dialetticatra indirizzo-controllo (Stato) e autono-mia-responsabilità (poteri locali) con con-trattazioni e negoziati18. Più centri dun-que, tanti quanti gli inputs delle burocra-zie centrali; più modi di operare del cen-tro, tanti quante le burocrazie periferichee le pratiche amministrative; più sistemilocali, tanti quante le infinite varietà dellesituazioni locali, delle loro élites, del lorogrado di autogoverno; più modi di intera-gire tra centro e poteri locali, tanti quantirisultavano dall’incontro/scontro tra que-sti ultimi, i poteri locali, e - per dirla anco-ra con Romanelli - questo “centro debole”all’interno di un ordinamento accentrato,che era sì in grado di condizionare e con-trollare le periferie locali, ma, proprio per-ché debole, utilizzato da periferie taloramolto forti quale mediatore tra particolari-smi e riparo ai propri privilegi19. In questachiave - di cui la differenziazione semanti-ca per primo colta da Cassese tra ammini-strazione e sistema amministrativo fornisce

irrinunciabile strumento di comprensio-ne20 - “centro e periferia si compongonocome terminali di uniformità in contesticaratterizzati da crescente complessità.L’uniformità che il ‘centro’ deve pur con-servare, in proporzioni e qualità più o me-no rilevanti, si coniuga con una differen-ziazione capillare dei sistemi e dei sottosi-stemi cui il nesso centro/periferia dà cor-po”. Quanto detto aiuta a guardare con occhiodiverso quelle che a grandi linee possonoessere considerate le principali tappe deldispiegarsi dell’azione centrale nei con-fronti delle “periferie” tra la tarda età libe-rale e fascismo: il complesso “pacchetto”di riforme amministrative varato in età cri-spina, la legge sulle municipalizzazioni equella sull’edilizia popolare (Luzzatti) nel1903, le leggi “speciali” per il Mezzogior-no (con la loro lunga gestazione a partiredal 1896 con il Commissariato civile per laSicilia fino agli istituti del primo dopo-guerra), i “risanamenti” delle grandi cittàvoluti da Mussolini tra gli anni ’20 e gli an-ni ’40, la riforma podestarile del 1926, lastatizzazione della figura del segretario co-munale nel 1928, i testi unici del 1931 sul-la finanza locale e del 1934 per la nuovalegge comunale e provinciale. Con ambi-

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18 Cfr. S. Cassese, Centro e periferia in Italia. I grandi tornanti della loro storia, in “Rivista trimestrale di di-ritto pubblico”, 1986, n. 2.19 Cfr. R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a cura di) Storia dello Stato italiano dall’unità a og-gi, Roma, Donzelli, 1995, ma anche Fabio Rugge, Le nozioni di città e cittadino nel lungo Ottocento. Trapariforme sistema e nuovo particolarismo, in M. Meriggi e P. Schiera (a cura di), Dalla città alla nazione,cit.; Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995), Roma, Carocci, 1997. 20 L’amministrazione come struttura permane relativamente uniforme, pur a fronte di un consolidato e svi-luppato decentramento; mentre, invece, l’amministrazione come sistema si va sempre più differenziando.Cfr. S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, cit. Successivamente, anche M. Cammelli ha messo inrisalto la differenza specifica, in termini di concetto e materialità storica, tra “amministrazione” e “siste-ma amministrativo”: cfr. Mezzogiorno e sistema amministrativo: le istituzioni della diversità, in “Meridia-na”, 1988, n. 4, p. 103 ss.; Governo locale e sistema amministrativo nel Mezzogiorno, in “Il Mulino”, 1990,n. 3, pp. 429-430. Su questi temi cfr. anche CeSICoL/Associazione culturale Relazioni. Politiche locali,2000, n. 1, consultabile on-line all’indirizzo http://www.cooperweb.it/cesicol/percorsi.html.

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guità e contraddizioni a volte stridentiquesti provvedimenti - tutti, come si è det-to, ispirati da una inequivocabile volontàlivellatrice anche quando destinati a sub-aree del paese e tutti concepiti sul “neu-trale” terreno amministrativo - hanno do-vuto interagire con i luoghi “periferici”della decisione politica, i municipi, con lasfaccettata vitalità delle società locali e del-le loro istituzioni, con ritmi di crescita e dimaturazione scanditi dalla differenza daluogo a luogo, costanti ma sovente pocodecifrabili. Il molteplice e l’irriducibilità aun unicum, per lungo tempo addotti a giu-stificare l’impraticabilità di un’iniziativastatale diversificata e l’accanimento nellascelta uniformatrice, vengono prepotente-mente in primo piano nel momento del-l’incontro/scontro tra il tempo delle istitu-zioni centrali e i tanti tempi dei sistemi lo-cali. Dove la differenza va ricondotta allaevidente circostanza che “in ogni sottosi-stema prendono luogo peculiari ‘modalitàdi aggregazione’ e ‘modalità di rappresen-tazione’ della ‘domanda politica’ che ri-chiedono particolari ‘modalità di relazio-ne’ con le istituzioni politiche e ammini-strative”21. Ma quanto detto, in particolare le consi-derazioni sul “centro debole”, frammenta-to e fluttuante quanto a progettualità e“vittima” della continua contrattazionecon i poteri locali, aiuta anche a dare cor-po a considerazioni più generali sulla na-tura del sistema politico italiano ben oltrela fase storica di cui ci stiamo occupando.

E ciò in un duplice senso. In primo luogo, indagini più ravvicinatesulle élites locali quali protagoniste dellepratiche negoziali tra centro e periferia perl’allocazione di risorse materiali e simboli-che hanno condotto a ridefinire il temadelle identità municipali in relazione alladimensione nazionale mettendo a fuocoquel processo22 per cui quelle élites sem-pre più consapevolmente traggono dallacostruzione di un rapporto “forte” con ilproprio territorio le risorse politiche perlegittimarsi a livello nazionale. Un proces-so questo che attraversa anche il periodofascista, per antonomasia negatore di ognimargine di autonomia locale e fautore diprocessi di omologazione culturale coat-ta23.In secondo luogo, e in stretta connessionecon quanto appena detto, affermare che ilgoverno locale riconduce nei circuiti poli-tici centrali la massa dei problemi e degliattori locali piuttosto che articolare lo Sta-to sul territorio, ha significato comprende-re quanto esso finisca col modificare, perquesta via, la selezione degli inputs/out-puts del sistema politico. Il governo locale,seguendo il filo di questo ragionamento,tende a porsi in definitiva tanto quale fat-tore di turbativa quanto agente di stabiliz-zazione dell’ordine politico del sistema edè proprio in considerazione di questa pre-rogativa che è impossibile studiare i pro-cessi di formazione della classe politicacentrale e di selezione delle decisioni stra-tegiche senza tenere conto che essi debbo-

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21 M. Cammelli, Mezzogiorno, cit., p. 103.22 Si tratta di quel processo che Meriggi definisce “il bisogno di partecipare alla modernità nazionale conuna forte identità municipale” (cfr. M. Meriggi, Introduzione a M. Meriggi e P. Schiera (a cura di), Dallacittà alla nazione, cit., p. 15)23 Stefano Cavazza, Piccole patrie: feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, Bologna, Il Mu-lino, 1997; Loreto Di Nucci, Fascismo e spazio urbano. Le città storiche dell’Umbria, Bologna, Il Mulino,1992.

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no inesorabilmente misurarsi con i circuitilocali e la rete delle loro domande simbo-liche, politiche e culturali24. Per concludere questa breve introduzionemetodologica, la direzione in cui auspi-chiamo si possano muovere le ricerche re-lative alla fine Ottocento e alla prima me-tà del Novecento è quella di un rinnovatointeresse per la dimensione “locale” bendiverso da quello del passato tutto chiusonella asfittica dicotomia centro/periferia,ma piuttosto inteso sia a disegnare unamappa di particolarismi, soprattutto citta-dini (a conferma della inadeguatezza delparadigma omologante del sistema ammi-nistrativo), sia anche a guardare nelle pie-ghe dei poteri locali, spaziando dall’analisidei conflitti politici e amministrativi per ladistribuzione delle risorse dei bilanci co-munali e per l’accesso ai finanziamenti na-zionali fino all’indagine sul ruolo degli uf-fici tecnici comunali, come luogo chiavedella progettazione e amministrazione del-

lo spazio urbano25. Al centro le politichemunicipali26 con il loro raccordarsi alleistituzioni locali di tipo economico, finan-ziario, formativo, assistenziale, culturale,quale materializzazione non solo delle re-lazioni orizzontali tra gruppi sociali, maanche di quelle verticali tra amministrazio-ni locali e Stato, ma al centro anche la retedi rapporti che si instaura tra i comuni ita-liani, attraverso organismi istituzionali co-me l’Associazione nazionale dei comuniitaliani (ANCI), fondata nel 1901 e finaliz-zata alla tutela degli spazi di autonomiadei municipi, ovvero attraverso frequentiscambi informali di informazioni e proget-ti che alimentano la circolazione dei sape-ri urbani27. A differenza di quanto può in modo appa-rentemente più agevole essere fatto per l’e-tà repubblicana, per l’età liberale ed il fa-scismo si rende particolarmente comples-so un tentativo di periodizzazione. I dueregimi pur nelle ovvie diversità, offrono

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24 Ciò sia perché il circuito locale può essere sede di tendenze suscettibili di generalizzazione, sia perchépuò costituire il laboratorio per la sperimentazione di una sovrimposizione, di una ricombinazione e diuna rielaborazione delle strategie globali, in funzione della crescita del potere della classe politica di go-verno. 25 Aurelio Alaimo, L’organizzazione della città. Amministrazione e politica urbana a Bologna dopo l’Unità,Bologna, Il Mulino, 1990; Carlotta Sorba, L’eredità delle mura. Un caso di municipalismo democratico, Par-ma 1889-1914, Venezia, Marsilio, 1993; Cristina Bianchetti, Pescara, Roma-Bari, Laterza, 1997; Il governodelle città nell’Italia giolittiana. Proposte di storia dell’amministrazione locale, a cura di Cesare Mozzarelli,Trento, 1992; S. Magagnoli, Élites e Municipi. Dirigenze, culture politiche e governo della città nell’Emiliadel primo ‘900 (Modena, Reggio Emilia e Parma), Roma, Bulzoni, 1999. Sugli uffici tecnici: D. Boquet e F.De Pieri, Public works and municipal governament in two italian capital cities: comparing technical bureau-cracies in Turin and Rome, 1848-88, in “Modern Italy”, 2002, n. 7, pp. 143-152.26 In quest’ambito particolare attenzione alle politiche prodotte dalla subcultura cattolica e da quella so-cialista; cfr. Pier Luigi Porta (a cura di), Milano e la cultura economica nel XX secolo. 1. Gli anni 1890-1920,Milano, Franco Angeli, 1998; Giandomenico Piluso, Piccole banche e sistemi locali in Lombardia dall’U-nità al miracolo economico, in Luciano Cafagna e Nicola Crepax (a cura di), Atti di intelligenza e sviluppoeconomico: saggi per il bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, Bologna, Il Mulino; Cristina Accorne-ro ed Elena Della Piana, Il regio Museo industriale di Torino tra scienze sociali e diffusione del buon gusto,Torino, Crisis, 2001; Giulio Sapelli, Comunità e mercato. Socialisti cattolici e governo economico municipa-le agli inizi del XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1986.27 Oscar Gaspari, L’Italia dei municipi. Il movimento comunale in età liberale (1879-1906), Roma, Donzel-li, 1998.

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agli occhi di chi si accinge ad indagare te-mi quali quello del decentramento istitu-zionale e dello sviluppo locale, un quadroestremamente fluido vuoi per l’architettu-ra costituzionale, vuoi per l’assenza di vo-ce di una “domanda” dal basso, vuoi perla prolungata mancanza di soggetti politicicollettivi deputati a interpretare quella do-manda e ad esercitare un controllo sullepolitiche attivate. Le stesse date di emana-zione delle leggi comunali e provinciali,che potrebbero costituire primi punti diriferimento, vanno comunque intrecciatecon le vicende del suffragio elettorale e,ancor di più, con il significato in terminisociologici del passaggio da uno Stato mo-noclasse a uno Stato pluriclasse, e a unoStato (almeno tendenzialmente) corporati-vo. Passaggi questi ultimi che, lungi dal-l’essere letti unicamente sul terreno dellastoria istituzionale, molto hanno a che ve-dere con il lento e tardivo slancio econo-mico del paese, con il faticoso e disomoge-neo emergere di élites modernizzanti (inopposizione ai o da cooptare nei tradizio-nali circuiti notabiliari), con l’andamentonon lineare della triangolazione Stato-entilocali-capitale privato nel porre in essere lecondizioni dello sviluppo. Il modo miglio-re, dunque, per accingersi a una ricercache possa condurre a considerazioni gene-rali sul come e sul quanto abbiano contatole politiche delle istituzioni locali nell’ac-compagnare i processi di sviluppo localedurante il Regno sarebbe quello di poteredisporre e ragionare su un numero ap-prezzabile di indagini a tutto campo susingole realtà (non necessariamente coin-cidenti con le unità amministrative). Diqueste indagini tuttavia a tutt’oggi conti-

nuiamo ad avvertire la mancanza. Non re-sta dunque che provare a enucleare, lavo-rando su una produzione storiograficaorientata su obiettivi ben differenti, alcuninodi e momenti che possano rendere piùevidente il progressivo modificarsi delruolo delle istituzioni locali nella corniceistituzionale italiana e che possano aiutarea misurare il loro protagonismo, reale o inpotenza che fosse. Il primo passo da compiere è certamentequello di una rivisitazione critica del gran-de equivoco che caratterizzò nel corso del-l’Ottocento (ma solo nell’Ottocento?) ildibattito sulla questione della posizionegiuridica dei comuni e quindi della loroautonomia. La potestà regolamentare at-tribuita ai comuni - insieme con l’elettivitàdei consigli comunali - veniva infatti indi-viduata come uno dei tratti fondamentalidell’autonomia comunale. In verità è assaidifficile asserire che questi due elementipossano essere indice di autonomia comu-nale: in particolare, per quel che concernel’autonomia normativa, occorre infatti nondimenticare che, sotto il profilo giuridico,“il potere di emanare norme giuridicheequiparate a norme della legislazione sta-tale non è sufficiente a definire l’autono-mia locale, poiché tale potere appartiene atutti gli enti pubblici aventi una strutturaautoritativa”28. In effetti, è indiscutibile che il primo pe-riodo della nostra storia unitaria abbia vi-sto un vero e proprio “diritto comunale”(che spesso ha costituito un’anticipazionedi legislazione statale sopravvenuta quasisempre tardi e non sempre bene) e che icomuni - soprattutto quelli dell’Italia set-tentrionale e centrale - fossero, almeno fi-

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28 M.S. Giannini, pp. 39-41. Il potere normativo dei Comuni ancora nel 1920 sarebbe stato individuatonella dannunziana “Carta del Carnaro” come “diritto di autonomia pieno” e perciò ritenuto “aberrante”e di impossibile applicazione dai teorici dello Stato fascista.

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no agli inizi del XX secolo, i più operosicreatori di istituti giuridici29. Sino a quan-do si era avuta la vigenza della costituzio-ne liberale, lo Stato si occupava di pochecose e lasciava all’iniziativa dei comunitutto ciò che non formasse oggetto di unproprio interessamento diretto30. Vi eranomaterie per le quali già allora il comuneaveva attribuzioni che coincidevano con leattribuzioni dello Stato delle quali le prin-cipali erano la pubblica sicurezza e lo sta-to civile, si trattava però di materie nellequali il comune secondo la costruzione deiteorici, si presentava come una circoscri-zione territoriale dello stato a cui era pre-posto il Sindaco, ufficiale del governo.Quindi la tesi prevalente era che per que-ste materie il comune fosse non tanto untitolare di attribuzioni quanto un esercen-te di attribuzioni dello Stato. Vi erano poimaterie, come quella dell’igiene, nelle qua-li nessuno sapeva con precisione dove fi-nissero le attribuzioni dello Stato e dovecominciassero quelle del comune. Nellematerie di sicura attribuzione al comunegli organi di controllo intervenivano anchesostitutivamente con grande energia allor-ché le amministrazioni comunali omette-

vano di provvedere nei casi di competenzail cui esercizio fosse obbligatorio (il cano-ne concreto per individuarle era l’inclusio-ne nell’elenco delle cosiddette spese obbli-gatorie). All’infuori di questi casi e nei ca-si di attribuzioni che “volontariamente” ilcomune si fosse assunto, lo Stato lasciavaai comuni medesimi ampio margine diazione, limitandosi al controllo dell’op-portunità dell’iniziativa sotto l’aspettoeconomico, patrimoniale e di convenienzaper la generalità. Questo accadeva nontanto per rispetto dei principi, quanto per-ché si trattava di materie sulle quali lo Sta-to non aveva opinioni o non voleva assu-mere atteggiamenti propri31. Per dare unquadro di quanto rapidamente si dilatasse-ro gli ambiti della normazione comunale,basti pensare in quanto breve tempo essagiunse a comprendere l’assunzione di nuo-vi servizi pubblici e la loro accurata rego-lamentazione, passando in tal senso dallamera disciplina di beni pubblici (ad esem-pio, acque come bene pubblico) a una di-sciplina dinamica (cioè relativa alla gestio-ne) quando quei beni, grazie a un miglioruso, divenivano oggetto di sfruttamentoeconomico organizzato32. Se è vero che tra

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29 Vi furono regolamenti comunali di edilizia i quali contenevano prescrizioni che erano più avanzate diquelle della legge urbanistica del 1942; erano in vigore regolamenti di polizia rurale sull’uso delle acque esull’uso dei pascoli comunali i quali certamente contenevano norme più appropriate di quelle che sareb-bero state poi emanate nelle leggi statali sulle acque pubbliche e sugli usi civici; istituti come i pubblicimacelli, i mercati generali, i mercati speciali, i depositi generali, i vivai e semenzai pubblici, le scuole di ri-abilitazione per minorati, le cattedre di istruzione agraria, i preventori e gli ambulatori, alcuni istituti as-sistenziali per gli anziani o per persone socialmente sottoprotette, ebbero tutti la loro origine in iniziativecomunali. 30 La legge comunale e le altre leggi fondamentali davano ai comuni alcune incombenze che si potrebbe-ro chiamare attribuzioni di base. Erano anch’esse poche: lavori pubblici di interesse locale, l’edilizia, lapolizia locale urbana e rurale, i mercati e il commercio locale, l’istruzione elementare, la vigilanza sui nu-merosissimi enti locali di beneficenza operanti nei settori più svariati.31 Già la legge sarda del 1948 elencava le materie soggette alla potestà regolamentativa dei comuni che sitrovavano poi raccolte nei Regolamenti di polizia urbana e nei Regolamenti di polizia rurale.32 Ad esempio servizi portuali come il facchinaggio, dei trasporti urbani con i primi omnibus, degli ac-quedotti, delle pompe funebri cui faceva puntualmente seguito l’espansione della normazione relativa aicimiteri e le sepolture.

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il ’48 e il ’59 i settori in cui la potestà re-golamentare ebbe uno sviluppo fortissimocoinvolgendo anche i comuni più piccolifurono quelli più strettamente legati all’e-sperienza dell’Impero francese cioè igiene,sanità, ornato, ciò è attestato sia dal fioriredi norme igienico-sanitarie sempre piùprecise e dettagliate, sia da una disciplinaedilizia sempre più particolareggiata cheproduceva norme sull’urbanistica, cheprevedeva il parere vincolante del comunee della commissione d’ornato, che prefigu-rava i primi parziali piani regolatori. E ciòtenendo conto che, poiché le opere previ-ste entravano negli effetti della dichiara-zione di pubblica utilità, ne discendevauna dettagliata regolamentazione delleespropriazioni, come ad esempio dimostrail regolamento di Genova del 1851. Il fat-to poi che in questo scorcio di tempo si as-sistesse al primo avvio di rilevanti processidi inurbamento, fece sì che nei regolamen-ti comunali fossero presenti anche normeche avevano per oggetto il mondo del la-voro, sia i soggetti del rapporto, sia i luo-ghi del lavoro. Il passaggio da un’econo-mia agricola artigianale-mercantile a eco-nomie (proto)industriali tipico di metàOttocento, richiedeva infatti l’aggiorna-mento dei vecchi regolamenti per lo piùimperniati sulla dimensione familiare o ar-tigiana delle aziende: di qui il divieto di in-sediamenti industriali nocivi in alcune zo-ne dell’aggregato urbano, l’obbligo del lo-ro insediamento in periferia, la prescrizio-ne di maggiori garanzie sanitarie, l’inaugu-razione del sistema delle licenze di stabili-mento (almeno nei comuni a maggiore svi-luppo industriale) a garanzia della colletti-vità e dell’osservanza delle disposizioni dei

regolamenti urbani. Ma anche la ridefini-zione delle norme sui settori produttivipiù tradizionali, con elenchi di attività no-cive comprendenti settori fino a quel mo-mento non compresi (soda caustica, polve-ri da sparo, zolfi, tintorie, saponifici, con-cerie) tutti respinti alla periferia. Senzacontare che furono proprio le nuove con-dizioni sociali e lavorative a incoraggiare lanascita di scuole tecniche per iniziativa deiprivati della cui regolazione il comune sisarebbe incaricato. Anche in tema di fi-nanza locale, la legge comunale del 1859avrebbe inglobato norme introdotte dagliusi locali e regolamentate dai comuni giànel 1848 (gioatico, tasse su animali da sel-la e da soma, occupazione suolo pubbli-co), sicché, in via generale, essa non pre-sentò nessuna restrizione sostanziale al-l’autonomia normativa ai comuni, nel pie-no rispetto della tradizione liberale33 e nel-la convinzione che fossero proprio l’avviodel processo di unificazione e la nuova le-gislazione statale a dare linfa e vitalità aicomuni (lo stesso si pensò dopo il 1865). Ilcorpo di leggi del 1865 rappresentò unabattuta d’arresto nella evoluzione dellanormazione comunale non tanto perché lalegge fosse diversa da quella del 1859quanto perché essa fu attuata con altrospirito e altri intenti, come dimostra l’in-gente numero di circolari emanate dal MI

tra il 1860 e il 1880 aventi per oggetto gliistituti dei regolamenti comunali. La leggedel 1865 (in particolare nell’allegato A)sancisce il principio dell’uniformità dei co-muni (così come quella delle province) inpresenza di un’eterogeneità sociologicadei comuni molto grande34. A partire daquella data, guardando più che alle leggi

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33 La quale tradizione, per dirla con Constant, al disotto dei tre poteri dello Stato ne individuava un quar-to: il potere municipale.34 Dimostrata da un nutrito corpo di dati statistici elaborati in tempi diversi e in occasioni diverse, da me-

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alla concretezza dei fatti, si può dire che icomuni subirono una costante e continuadiminuzione qualitativa nelle loro funzio-ni: a fronte di un accrescimento quantita-tivo delle attribuzioni (soprattutto nei co-muni urbani), sul piano qualitativo il co-mune ne perse molte a vantaggio dello Sta-to o di enti pubblici diversi. La spiegazio-ne sta nell’espansione delle attribuzionidello Stato: a mano a mano che lo Stato li-berale monoclasse si andava trasformandoin uno Stato democratico pluriclasse la le-gislazione statale invadeva il campo cheprima era proprio ma non riservato dellalegislazione comunale. Tale processoespansivo fu continuo e costante e l’esem-pio forse più vistoso lo si avrebbe avutonel campo delle municipalizzazioni. Quanto all’elettività essa “è solo un mododi conferimento della titolarità di un uffi-cio e può essere indice di autonomia soloquando il corpo elettorale è esteso alla to-talità dei componenti il gruppo cui l’entepubblico, cioè il comune, è rappresentati-vo”. Nel caso italiano, sino alle riforme del1888 e del 1898, “i Comuni italiani furonoenti rappresentativi non delle collettivitàlocali ma dei notabili locali cioè enti rap-presentativi di subcollettività a base censi-taria”35: si trattava infatti di una situazionedi suffragio ristretto per la quale, piuttostoche autonomia, sembra più calzante la piùsemplice formula organizzatoria di au-toamministrazione. Merito della legge cri-spina del 1888, che estese l’elettorato am-ministrativo e istituì l’elettività del sindaco(almeno in alcuni comuni), fu quello dispezzare la comunità dei notabili e di at-tribuire cittadinanza politica ad una co-

munità più aperta e soprattutto in dinami-ca espansiva come attesta l’approdo nel1912 al suffragio semiuniversale. Solo apartire da quella data l’ente comune sa-rebbe divenuto ente rappresentativo dellacollettività comunale (cioè una, per quan-to ancora rudimentale, istituzione demo-cratica), eppure il lento e faticoso passag-gio da enti di autoamministrazione di unaaristocrazia censitaria ad enti rappresenta-tivi dell’intera collettività non ha significa-to affatto attribuzione al comune di auto-nomia. Se è vero che non vi è autonomialocale se non vi è piena elettività, non è ve-ro il contrario. L’equazione elettività-de-mocraticità-autonomia non risulta infattivalida poiché un ente rappresentativo puòessere pienamente democratico ma tal-mente legato da norme di legge da trovar-si di fatto in una posizione subordinata ri-spetto al Governo e allo Stato. I cenni fatti alle questioni della normazio-ne locale e della elettività servono a dimo-strare come entrambi questi fattori nonpossano essere considerati tratti distintividell’autonomia locale. Con tale espressio-ne si deve intendere piuttosto la formadell’autonomia politica applicata agli entilocali territoriali; storicamente, per i co-muni, il passaggio obbligato fu quello dal-la posizione di enti ausiliari dello Stato al-la posizione di enti indipendenti in quantorappresentanti di una collettività altra ri-spetto a quella statale legittimati a darsi unindirizzo di politica amministrativa diver-so da quello che si dava lo Stato attraversoi suoi organi costituzionali. Questo passag-gio, compiuto in nome dell’autonomia po-litica e indipendentemente dal declino

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morie pubbliche, da relazioni prefettizie, da analisi fatte in occasione delle inchieste amministrative - il tut-to andrebbe rielaborato dagli storici.35 In realtà il principio di elettorato attivo ed elettorato passivo sulla base del livello del censo era stato su-perato per le elezioni politiche con la riforma del 1882.

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della potestà normativa e dal raggiungi-mento della piena elettività, si avrebbeavuto con l’adozione, specie nei comunidel centro-nord, dei criteri di politica am-ministrativa della municipalizzazione, del-la tutela dei contadini, della diffusionedell’istruzione tecnica, della tutela dell’in-fanzia e della vecchiaia delle classi sotto-protette, anche quando l’indirizzo politicoscelto dal parlamento era diverso o addi-rittura in contrasto con tali indirizzi. Dun-que vi fu. Anche se, come tutti i processi,non è possibile collocarlo in una fase pre-cisa ma appartiene a una dinamica di lun-go periodo che ha certamente nel riformi-smo crispino una prima e fondamentalescansione.Veniamo dunque all’età crispina segnalatada Rotelli come cerniera nel passaggio dal-lo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse.Essa è caratterizzata da uno sviluppo de-centrato del tutto peculiare. Si dirà in se-guito dei prodotti del riformismo ammini-strativo di questa fase della storia d’Italia,per il momento però è importante sottoli-

neare almeno un aspetto a volte trascuratooppure preso in esame solo incidental-mente. Si tratta dei processi di innovazione buro-cratica interni alle amministrazioni dei co-muni e delle province36, solo in parte resivisibili istituzionalmente dalla stabilità ri-conosciuta al segretario comunale. Purnon abbandonando un’idea degli impiega-ti da self-government di stampo liberista,nelle amministrazioni si profilava ormai uncambiamento del tipo di lavoro37. E persvolgere tale lavoro era sempre meno utileil docile, ma inesperto impiegato degli an-ni successivi all’unificazione, mentre appa-riva necessario disporre di un personalepiù esperto38. Accanto al segretario comu-nale “sempre più dominus della macchinacomunale”39 in quei vivaci laboratori chefurono i municipi italiani a partire dell’ul-timo ventennio del XIX, cominciano ad af-fermarsi nuove figure. Sono soprattutto iruoli tecnici ad essere promossi e valoriz-zati, in coincidenza sia con l’intensificarsidell’intervento dello Stato in una pluralità

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36 Se negli anni ’70, l’aumento degli organici o la forte mobilità interna avevano caratterizzato la fase incui il Comune diventava soggetto e referente di nuove funzioni amministrative e sociali, negli anni ’80 -parafrasando la famosa affermazione di D’Azeglio - fatti gli uffici, occorreva fare gli impiegati.37 Mutavano così il sistema di accesso, i meccanismi concorsuali, i titoli di studio necessari; si assisteva al-l’incremento delle retribuzioni e alla differenziazione della progressione nelle carriere; si affermava l’in-terdipendenza tra adeguato trattamento economico dei dipendenti e consolidamento delle funzioni del-l’ente comunale anche come organismo portavoce e interprete della realtà locale.38 Nel sistema rinnovato di check & balance istituzionale, tra rappresentatività qualificata del sindaco, “go-vernatività” accentuata del prefetto e giurisdizione nuovissima della giunta provinciale, la figura di più al-to profilo rimaneva il segretario comunale, che iniziava a consolidare definitivamente il proprio ruolo au-torevole di referente privilegiato in ambito amministrativo locale e che, attraverso un forte associazioni-smo di categoria, si batteva per il riconoscimento di una più compiuta “funzione pubblica” di un ceto an-cora “culturalmente” legato ad un profilo privatistico; cfr. M.L. D’Autilia, L’impiegato comunale e provin-ciale dell’Italia liberale tra lavoro privato e funzione pubblica, in Marco De Nicolò (a cura di), op. cit., p.208. Della stessa autrice si veda anche, in proposito, Lo sviluppo storico dell’impiego pubblico locale dal-l’Unità all’Italia repubblicana, in Giancarlo Rolla (a cura di), Il personale comunale e provinciale, Torino,UTET, 1996.39 Francesco Saverio Carpinelli, Il lavoro negli enti locali in età liberale, in Angelo Varni e G. Melis (a cu-ra di) Le fatiche di Monsù Travet. Per una storia del lavoro pubblico in Italia, Torino, Rosenberg & Sellier,1997, p. 69.

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di materie, sia con il dilatarsi delle funzio-ni urbanistiche dei municipi, quando iprocessi di inurbamento (che sottopongo-no il territorio dei centri medio-grandi aforti pressioni sociali e speculative) e i pro-cessi di industrializzazione della città (cheimpongono il rapido adeguamento ai cri-teri della cultura industriale) faranno delgoverno del territorio urbano una compo-nente oltremodo significativa dell’attivitàdelle amministrazioni. Si tratta di quella“leva di intellettuali che elegge le meta-morfosi dell’assetto urbano a oggetto fon-damentale della propria ricerca: sociologi,ingegneri e architetti, economisti d’ispira-zione industrialista, medici igienisti, ope-ratori che con crescente autorevolezzas’insediano nello scenario ideale dell’epo-ca in veste di opinion makers”40. Compe-tenze tecniche al servizio delle ammini-strazioni locali che, nel quadro di unamaggiore attenzione verso i bisogni dei cit-

tadini, sperimentano forme nuove di ge-stione della complessità sociale all’insegnadi un deciso pragmatismo e dell’estraneità,in linea di massima, alle dominanti spintepolitiche. Sullo sfondo le opzioni culturalie scientifiche del positivismo che genera-vano quei “saperi speciali” i quali a lorovolta fornivano legittimazione e strumentiall’agire amministrativo. Il vero banco diprova di questi “saperi speciali” sarebberostate le municipalizzazioni - di cui essi col-sero l’opportunità in termini di industria-lismo municipale41 -, ma fu proprio in etàcrispina che figure come quella dell’inge-gnere impegnato nelle infrastrutture citta-dine suggellò la sua importanza strategi-ca42. L’avvio del processo di industrializza-zione, all’ombra della scelta protezionista,favorì infatti la nascita di un nuovo tipo dicittà e impose la creazione di reti tecnolo-giche urbane43. “Dai trasporti, all’acquapotabile, dalle fogne allo smaltimento dei

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40 M. Ronconi, Un socialismo dal volto urbano: l’Umanitaria e il problema delle municipalizzazioni (1900-1915), in La municipalizzazione in area padana: storia ed esperienze a confronto, a cura di Aldo Berselli,Franco Della Peruta e A. Varni, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 634.41 F. Rugge, “Saperi speciali” e “cultura della municipalizzazione” agli inizi del secolo. Ipotesi di ricerca, inL’esperienza delle aziende municipalizzate tra economia e società, Atti del seminario di studi storici per l’80°di fondazione dell’ASM, Brescia, 2 dicembre 1988, Brescia, Sintesi editrice, 1990, pp. 143-153.42 Cfr. Gian Carlo Calcagno, La figura dell’ingegnere tra Sette e Ottocento, in Istituto Veneto di Scienze,Lettere ed Arti, Ingegneria e politica nell’Italia dell’Ottocento: Pietro Paleocapa, Atti del Convegno di stu-di promosso a ricordo del Centocinquantesimo anniversario di rifondazione dell’Istituto Veneto di Scien-ze, Lettere ed Arti e nella ricorrenza del Bicentenario della nascita di Pietro Paleocapa, Venezia, 6-8 otto-bre 1988, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1990, ma anche Gli ingegneri in Italia tra‘800 e ‘900, a cura di Andrea Giuntini e Michela Minesso, Milano, Franco Angeli, 1999 e A. Giuntini, Lacreazione della rete infrastrutturale urbana nell’esperienza italiana. Vincoli economici, politici e tecnologici(secoli XIX e XX), w.p.43 Per una definizione di “servizi tecnici a rete”, in connessione all’idea di Networked City, cfr. The De-velopment of Large Technical Systems, ed. by R. Mayntz and T.P. Hughes, Frankfurt am Main, CampusVerlag-Boulder, Westview Press, 1988 e Technology and the Rise of the Networked City in Europe andAmerica, ed. by G. Dupuy e J.A. Tarr, Philadelphia, Temple University Press, 1988. Sull’approccio meto-dologico alle reti, cfr. anche i due volumi, che raccolgono una serie di studi su scala territoriale e urbana,frutto del gruppo di lavoro formatosi in vista del convegno internazionale di storia economica del 1994 aMilano: European Networks, 19th-20th Centuries. New Approaches to the Formation of a TransnationalTransport and Communications System. Proceedings Eleventh International Economic History Congress,Milan september 1994, ed. by Albert Carreras, A. Giuntini e M. Merger, Milano, Università Bocconi, 1994

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rifiuti, dalla distribuzione del gas a quelladell’elettricità […] in ritardo rispetto aigrandi paesi europei, anche l’Italia rinno-va il proprio patrimonio infrastrutturale,creando una rete di servizi che rappresen-tano uno dei veicoli più convincenti in di-rezione della modernizzazione del paese”,sicché i termini del processo di progressi-va maturazione del sistema economico esociale delle città - sia dei grandi agglome-rati sia di quelle di taglia inferiore - (comeanche del paese) possono essere colti pro-prio a partire dall’osservazione delle reti diinfrastrutture e di servizi urbani create edel loro funzionamento. Certamente lacrescita infrastrutturale urbana non pre-sentava caratteri omogenei in tutta la peni-sola, ma l’“intensità dal cambiamento e letipologie che si evidenziano […] anchemolto difformi da area ad area, […] so-stanzialmente appaiono riconducibili aduna tendenza comune”44. Divenuta terre-no di sperimentazione e di intervento del-la nuova progettualità tecnica, la città pro-tagonista doveva dotarsi di un complessosistema di norme e regolamenti per “go-vernare” la sfida lanciata dal pubblico dei

servizi (di qui il nuovo rilievo assegnato airegolamenti municipali), doveva riuscire acoinvolgere capitali, doveva disporre diqualificate competenze professionali. Diconseguenza, fu necessario ridefinire com-piti, funzioni e poteri d’intervento dell’en-te locale, dare vita a un nuovo genere dipotere politico locale in grado di assume-re, rispetto al passato, maggior carico diresponsabilità per venire incontro agli ef-fettivi bisogni delle comunità urbane. E seè vero che “le istituzioni municipali rap-presentano uno dei luoghi tipici, in cui leclassi dominanti si innestano, si consolida-no ed agiscono a tutela dei propri interes-si di ceto, mantenendo al tempo stesso lapropria egemonia sull’insieme della socie-tà civile”, in quella fase, la capacità di do-tare il comune di attrezzature collettive as-sunse un valore strategico per l’azione po-litica. Non a caso sarebbero state le forzepolitiche più vicine alle esigenze di semprepiù ampi settori di cittadinanza - cattolicie socialisti - a farsi, giunte al potere neimunicipi, le prime e le migliori interpretidi quella strategia. La questione dell’infrastrutturazione se-

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e Les réseaux européens transnationaux, XIX-XX siècles: quels enjeux?, sous la direction de A. Carreras, A.Giuntini e M. Merger, Nantes, Ouest Editions, 1995. Un utile bilancio degli studi condotti in Italia in que-sto settore è in A. Giuntini, La modernizzazione delle infrastrutture e dei servizi urbani in Italia. Temi, ri-sultati e obiettivi della ricerca storica, in Scienza tecnica e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, acura di Carlo G. Lacaita, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. ; e in Fulvio Conti, Servizi pubblici e infra-strutture urbane in Italia fra Ottocento e Novecento: un bilancio degli studi, in Il Comune democratico. Ric-cardo Dalle Mole e l’esperienza delle giunte bloccarde nel Veneto giolittiano (1900-1914), a cura di RenatoCamurri, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 201-216. Altre indicazioni si trovano nella raccolta di schede Go-verno municipale e infrastrutture urbane, a cura di F. Conti e A. Giuntini, in “Passato e presente”, 1993,n. 29, pp. 153-170. Per un panorama completo ed aggiornato delle opere di storia urbana in Italia, intesanel senso più ampio del termine, si rimanda a Carla Giovannini, Italy, in European Urban History. Prospectand Retrospect, ed. by R. Rodger, Leicester-London, Leicester University Press, 1993, pp. 19-36. Il con-cetto di servizi a rete è stato sviluppato per la prima volta nella storiografia italiana nel saggio di D. Cala-bi, I servizi tecnici a rete e la questione della municipalizzazione nelle città italiane (1880-1910), in Le mac-chine imperfette. Architettura, programma, istituzioni nel XIX secolo. Atti del convegno Venezia ottobre1977, a cura di P. Morachiello e G. Teyssot, Roma, Officina Edizioni, 1980, pp. 293-316.44 A. Giuntini, La creazione della rete infrastrutturale urbana, cit.

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condo i due dettami che componevano lostandard della realtà urbana - igiene e de-coro45 - si connetteva d’altro canto con ilriconoscimento di un ruolo non solo eco-nomico alle opere pubbliche che coinvol-geva ampi strati delle classi dirigenti post-unitarie e che aveva in Nitti il più lucidoteorico. Si trattava di una concezione del-lo Stato quale agente della modernizzazio-ne del paese in parte diversa rispetto aquella che aveva caratterizzato la prima fa-se dell’esperienza unitaria quando, con lepur scarse risorse disponibili, venne postaall’ordine del giorno la costruzione dellegrandi infrastrutture - ferrovie innanzitut-to, e poi strade - come elemento essenzia-le per l’unificazione reale della penisola.Se infatti in quella fase il significato prin-cipale delle opere pubbliche atteneva es-senzialmente all’attività economica (chetrae vantaggio dalla maggiore mobilità, ef-ficienza e dimensione dei mercati) nel cor-so del tempo, sia pure in maniera ancoraconfusa, i protagonisti dell’interventopubblico avrebbero intuito come “le ope-re pubbliche partecipa[ssero] a un’opera-zione complessiva per attribuire un senso,e talvolta una giustificazione, alla grandeesperienza collettiva dell’unificazione delPaese, e poi alla vita della nazione che ne

seguì”. Di questo nuovo modo di sentirel’impianto di Bagnoli in età giolittiana furealizzazione emblematica e al tempo stes-so mise in luce il ruolo che le amministra-zioni locali erano chiamate a svolgere46. Per venire al “pacchetto” di riforme am-ministrative varato in età crispina, qualchenotazione ulteriore va fatta a propositodella già citata nuova legge comunale eprovinciale per quanto attiene alla parte diriforma dell’elettorato amministrativo47.Essa, almeno per la parte preparatoria dirilevazione statistica, introduceva alcunielementi di novità: in primo luogo venivaaccettato il principio della classificazionedei comuni (e quindi una loro diversifica-zione), in secondo luogo, al fine di traccia-re un quadro sociologico dei consigli co-munali, venivano introdotte nuove catego-rie legate alla produzione48. La qual cosarappresentava il riconoscimento di unasempre più accelerata differenziazione so-ciale che il centro accettava di assumerecome indicatore della tipologia dei comu-ni. Certo, tutto restava confinato alla di-mensione analitica e nei nuovi consigli co-munali sarebbe rimasta maggioritaria (esovrarappresentata) la presenza delle cate-gorie non direttamente legate alla produ-zione (proprietari, professionisti e addetti

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45 F. Rugge, Introduzione a Profili speciali, II, in Le riforme crispine. Amministrazione locale, Archivio ISAP,n.s. 6, Milano, Giuffrè, 1990, p. 783.46 Assillati da croniche deficienze finanziarie, gli enti locali raramente potevano fare ricorso a risorse pro-prie e dovevano quindi avvalersi di sovvenzioni, oppure mutui, da parte del sistema bancario - principal-mente le Casse di risparmio - ma, assai più di sovente, della Cassa Depositi e Prestiti o, dagli anni ’20 inpoi, dal Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche e l’Istituto per le imprese di pubblica utilità. 47 Essa si collocava appieno nel dibattito coevo tra il fronte di coloro (Torraca) che puntavano ad una rap-presentanza organica (in relazione proprio al carattere amministrativo del comune) che sostituisse al con-flitto tra partiti una “amministrazione di collettività” e quello di coloro i quali criticavano la separazionetra politica e amministrazione (Marcora) affermando (specie in relazione ad alcuni settori di intervento co-me scuola, sanità e beneficenza) che l’amministrazione doveva essere considerata una funzione politica(cfr. Loredana Leoni, Il personale elettivo, in Le riforme crispine. Amministrazione locale, cit., p. 792).48 6 per i mestieri di carattere artigianale; 4 per il commercio e servizi; 3 per l’agricoltura; 1 per l’industria(addetti alle industrie esclusi gli operai); 1 generica (operai non addetti all’agricoltura).

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al pubblico impiego), ma con quella nuo-va classificazione si rendevano visibili si-gnificative differenze sia tra aree geografi-che, sia tra comuni con sindaco elettivo enon, sia nelle proporzioni tra le tre catego-rie tradizionali (argomento quest’ultimosu cui si è soffermata ampiamente la lette-ratura storica e politologica dedicata allosfasamento tra evoluzione del quadro eco-nomico-sociale ed evoluzione della rap-presentanza politico-amministrativa). Instretto rapporto con la riforma dell’eletto-rato amministrativo stava poi la novità del-l’elettività del sindaco nei comuni capo-luogo o con popolazione superiore ai 10mila abitanti sulla quale non è qui il casodi dilungarsi in quanto le norme della leg-ge dell’89 attenevano soltanto al sistema dinomina o meglio di copertura dell’ufficio,problema non risolto nel 1865. Vale la pe-na però sottolineare come l’affermarsi del

principio della elettività del primo cittadi-no, per quanto limitata ai casi su menzio-nati, metteva in crisi la tradizionale visio-ne49 di un sindaco riguardato soprattuttosotto il profilo elettoralistico cioè comefulcro della rete organizzativa perifericadelle correnti politiche presenti in parla-mento in funzione di sostegno e di ripro-duzione del ceto politico parlamentare50.Quanto al sistema dei controlli sull’attivitàdei municipi che la legge poneva in essereè senza ombra di dubbio vero che la crea-zione della GPA rappresentò una confermadi quella concezione (immodificata nellesue linee essenziali sino all’avvento del fa-scismo51) che poggiava sulla condizione disubordinazione degli “enti autarchici”52

nello Stato amministrativo accentrato53 eper la quale il controllo sugli atti di comu-ni e province non era altro che l’altra fac-cia dell’autarchia54, ma il sistema che veni-

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49 Quella del 1865 ma non quella del 1859 che voleva il sindaco unicamente come amministratore e quin-di scelto dal potere esecutivo in funzione di un corretto coordinamento tra potere governativo e poterelocale.50 F.G. Scoca, La figura del sindaco dal 1848 ad oggi, in I comuni, Atti del congresso celebrativo del cen-tenario delle leggi amministrative di unificazione, a cura di M.S.Giannini, Padova, Neri Pozza, 1967, p.63; L. Leoni, Il personale elettivo, cit., p. 792.51 Durante il fascismo, infatti, il controllo prefettizio assunse una maggiore estensione, in quanto giunse acomprendere l’esame di legittimità e di merito sugli atti del podestà, del preside e del rettorato. Il prefet-to muniva del visto di esecutività, e non più del visto di legittimità come avveniva in passato, le delibera-zioni non soggette all’approvazione della Giunta Provinciale Amministrativa, sempre che le riconoscesseregolari (Cfr. Il fascismo e le autonomie locali, a cura di Sandro Fontana, Bologna, Il Mulino, 1973).52 Si rinvia al concetto di autarchia formulato da Laband, per cui Comuni e Province sono “organi del-l’amministrazione indiretta dello Stato, dotati di personalità propria, che esplicano la loro attività primie-ramente nel loro interesse e, secondariamente, anche nell’interesse dello Stato che coincide col loro e nonse ne distingue” (Laband, Le droit public de l’Empire allemand, vol. I, Paris, 1900).53 Il fatto che, in quanto tali, gli enti autarchici perseguissero interessi coincidenti a quelli statali e ema-nassero atti amministrativi con contenuto ed efficacia equiparati a quelli statali implicava di per sé l’as-soggettamento di tali atti a un esteso controllo di legittimità (vigilanza) e a un penetrante controllo di me-rito (tutela). Tali controlli rappresentavano “lo strumento attraverso il quale lo Stato centrale, in ossequioal principio di unitarietà dell’azione amministrativa (sono atti amministrativi solo quelli emanati dallo Sta-to), omogeneizza gli atti degli enti locali equiparandoli a quelli propri” (P.S. Pugliano, Il controllo sugli at-ti degli enti locali. Tra conferma dell’autarchia e riconoscimento delle autonomie locali, working paper con-sultabile, all'indirizzo http://www.amcorteconti.it/pugliano.htm).54 “Concepiti non come soggetti esponenziali delle collettività locali ma come soggetti strettamente legatiall’amministrazione statale e dei quali lo Stato si serve per fini di decentramento burocratico mascherato

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va costruito, basato sul principio di sepa-razione tra ente locale e controllore, finivacol garantire maggiore stabilità ed equili-brio55. Come segnalato da molte ricerchesu casi locali, la contabilità comunale si fe-ce più precisa e corretta, supportata daquadri statistici e da preventivi realistici eattendibili. Sicché a partire dall’innovazio-ne crispina, i comuni cominciarono a vive-re un periodo di consolidamento dei pro-pri bilanci, talora raggiungendo il pareg-gio, talora l’attivo. Un’ultima notazione va fatta, parlando dicontrolli, a proposito della figura più criti-cata del sistema amministrativo italiano eassurto a emblema negativo del più miopeaccentramento, il prefetto. Senza entrarequi nel merito di questa polemica e trala-sciando le pur fondamentali differenze trai diversi sistemi prefettizi dell’Italia libera-le e fascista (legate alla diversità del ruoload essi assegnato dai ministri dell’Interno,alla diversa interpretazione che ciascunodi essi dette di quel ruolo e al mutare del-l’autopercezione del corpo) occorre preci-sare almeno un punto relativo alla posizio-ne del prefetto nei confronti delle ammini-strazioni locali. Come tecnico, il prefettocon i suoi organi coadiutori non fu mai ne-mico delle amministrazioni comunali, anzi

in certi periodi e in certi luoghi egli assun-se le vesti di consigliere soprattutto perquelle piccole amministrazioni i cui appa-rati burocratici non erano idonei a risolve-re complicati problemi giuridici semprepiù complessi con l’affermarsi del sistemabinario56. Sotto il profilo politico il prefet-to, indipendentemente dagli uomini titola-ri, per la natura stessa dell’ufficio si pone-va come freno alle libertà comunali: nelmomento in cui una pratica comunale ac-quistava valenza politica, il prefetto diven-tava istanza decisionale tendente a sovrap-porsi all’istanza decisionale del comune.Era il gioco delle forze politiche, il peso ela compattezza della forza politica rappre-sentata dal comune, a determinare il risul-tato del dualismo tra istanza decisionaleprefettizia e istanza decisionale comunale. Un ulteriore punto occorre toccare a pro-posito del periodo crispino, quello che piùvolte in ambito storiografico è stato defini-to il nodo cruciale del rapporto tra Statocentrale e enti territoriali, quello della fi-nanza locale. Come è noto, però, affronta-re il nodo della finanza locale e del suo co-ordinamento con la finanza statale signifi-ca imbattersi immediatamente nell’assolu-ta insufficienza dei mezzi finanziari per fa-re fronte ai crescenti bisogni pubblici che

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sotto le forme del decentramento istituzionale” gli enti locali riformati dalla legge crispina subivano uncontrollo di merito più statale (cfr. S. Sepe, Il sistema del controllo ed i vari controlli sui comuni, in I co-muni, cit., p. 182).55 La funzionalità del meccanismo si affievolirà con l’aumentare delle funzioni affidate dallo Stato agli en-ti locali (dove spesso non si capisce se gli EL le esercitino come proprie o per conto dello Stato) rispettoalle quali proliferarono i controlli atipici cioè affidati a organi differenti da quelli che in via normale at-tuavano la vigilanza su comuni e province (soprattutto i ministeri) Questo è tanto più vero dopo il 1919.(cfr. S. Sepe, Il sistema del controllo, cit., pp. 188-190).56 Se infatti nella prima fase della Costituzione liberale l’organo locale dello Stato era il prefetto (le altreamministrazioni come quella militare o finanziaria pur avendo organi locali incidevano sostanzialmenteben poco nella vita dei Comuni) progressivamente lo stato cominciò a munirsi di altri organi locali a cir-coscrizione territoriale costruendo un apparato periferico che curava le competenze dello Stato a livellolocale. Di qui la confusione delle competenze nel sistema dei controlli aggravatasi con i cosiddetti controlliatipici.

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gli enti locali erano chiamati a soddisfarecome anche nell’enorme sperequazionedella distribuzione del carico tributario lo-cale. Questioni entrambe non risolte dalriformismo crispino e per la prima volta af-frontate in maniera organica e consapevo-le nel 1901 con il progetto Wollemborg incui verrà affermato il principio dell’indi-pendenza tributaria dei comuni da attuaremediante l’attribuzione a essi dell’impostasui terreni e fabbricati e di un settore del-l’imposta di ricchezza mobile con la con-temporanea soppressione di alcuni tributilocali ritenuti duplicati e l’abolizione dellebarriere daziarie. In questo ambito e spe-cie per l’età crispina, notevoli passi inavanti sono stati compiuti grazie a quellericerche che hanno avviato indagini piùapprofondite sui bilanci dei singoli comu-ni utili a leggere, attraverso l’analisi dellepolitiche di spesa, come l’amministrazionelocale intendeva farsi carico del processodi crescita comunale, quali fossero i settoriprioritari di intervento e quanto in questascelta pesavano le nuove attenzioni allarealtà sociale e alla promozione di un suomiglioramento. Evidenziare le voci di bi-lancio che risultano più significative, an-che sul piano quantitativo, è servito inoltrea conoscere la funzione sociale del comu-ne (cioè il suo investimento in lavori pub-blici, istruzione, igiene e sanità, ma anchepersonale) poiché la ripartizione internadella spesa è un ottimo indicatore della fi-sionomia delle scelte politiche locali. In viagenerale, riguardo alle spese, si può affer-mare che la loro crescita si concentrò neglianni ’70 e ’80, cui seguì una fase di stabi-lizzazione negli anni ’90 quando con la leg-

ge crispina furono posti freni e controllitendenti sia a selezionare le scelte dei co-muni sia a stabilire una stretta interdipen-denza tra la loro capacità impositiva e l’ac-censione delle spese facoltative57. Va inol-tre segnalato che, relativamente al non tra-scurabile aspetto del rapporto tra speseobbligatorie e spese facoltative, proprioqueste ultime, destinate per lo più a inter-venti produttivi e su cui maggiormenteavrebbe potuto esercitarsi un’espansione,si presentavano in costante calo nel decen-nio ’89-’98. Così presentato il dato avvalo-rerebbe senza dubbio l’idea della “stretta”registratasi in questo periodo a svantaggiodelle municipalità, mettendo in conto chese, come si è detto, la legge dell’89 pro-dusse un effetto stabilizzante sull’anda-mento delle spese, essa produsse anche unsensibile incremento nel carico di speseobbligatorie in connessione alle nuovefunzioni attribuite ai comuni dalla legisla-zione e al susseguirsi di interventi statali icui oneri erano scaricati sui comuni58. Taleconstatazione, per quanto valida in via ge-nerale, andrebbe tuttavia rivisitata provan-do ad attenuare il valore negativo in essacontenuto anche alla luce di quanto si èdetto a proposito del nesso centro/perife-rie come interazione negoziale e relazionedi reciprocità. In ogni caso meriterebbe ul-teriori verifiche sul campo, poiché fuori daogni giudizio di valore aiuterebbe a megliocomprendere la fisionomia delle élites lo-cali e a ricostruire sul metro di analisi lo-cali le situazioni economiche e politiche acui possono essere riferite le scelte delleamministrazioni locali e le loro strategieper la crescita e lo sviluppo del territorio59.

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57 Una ripresa della spesa si sarebbe avuta a partire dalla seconda metà degli anni ’90.58 Oneri che, come evidenzia la maggioranza degli studi, oltre a condizionare le finanze dei municipi, im-plicitamente ne limitavano l’autonomia.59 Un esempio può forse essere utile. A Siena in età crispina, nel settore dell’istruzione, le spese obbliga-

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Per tornare alla questione da cui si era par-titi - il nodo della finanza locale - i proble-mi di bilancio erano e rimasero la ricor-rente ossessione di tutte le amministrazio-ni all’interno delle quali la discussione sipolarizzò sul valore e sulla necessità di ri-correre o a incrementi di tassazione oppu-re alla contrazione dei debiti. Nonostantele contrastanti affermazioni di principiol’effettiva politica di bilancio non poté farea meno di usare entrambi gli strumenti60.In particolare, riguardo alla fiscalità comu-nale, le principali voci erano rappresentatedal dazio di consumo e dalle sovraimpostesui terreni e sui fabbricati61. Nella secondametà degli anni ’80 le richieste dei pro-prietari di un’attenuazione della fiscalitàmunicipale sulla proprietà trovarono sod-disfazione, a fronte del periodo 1871-1885in cui l’incremento del 50% delle addizio-nali comunali sull’imposta su terreni e fab-bricati aveva significato la partecipazione

delle élites proprietarie alle spese per l’in-frastrutturazione e la creazione di servizinei centri urbani. Insieme a “quello perce-pito attraverso la voce ‘proventi diversi’che segnalava (a partire dalla metà deglianni ’90) l’ingresso del governo dell’eco-nomia dei centri urbani nella nuova e piùmoderna fase della gestione dei pubbliciservizi”62, il gettito del dazio di consumo -in genere il principale strumento di prelie-vo fiscale la cui iniquità era largamente no-ta e dibattuta - fu in progressiva espansio-ne. E, in corrispondenza con l’aumentodella fiscalità municipale sui consumi, au-mentarono anche i canoni per abbona-mento che l’erario chiedeva ai comuni, atestimoniare una ulteriore subordinazionedelle politiche finanziarie dei municipi agliinteressi tutelati dall’amministrazione del-lo Stato63. Se la questione si chiudesse inquesto modo, ci si ritroverebbe ad avvalo-rare quella visione più volte in questa sede

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torie erano per la quota preponderante assorbite dall’istruzione elementare (di gran lunga inferiore quel-la per le scuole tecniche e professionali) ma rimasero a lungo al di sotto delle spese facoltative destinatealla banda, alla biblioteca o all’università. Questa semplice osservazione molto ci dice sugli interessi e sul-la sensibilità dell’élite cittadina segnalando il notevole significato attribuito alla cultura come cemento de-cisivo per la riproduzione delle classi dirigenti, ma anche il cauto allargamento dell’istruzione elementare.Ed è sicuramente più proficua dal punto di vista euristico di conclusioni ricavate da quel modello inter-pretativo che partendo da assiomi generali e ormai dati per scontati finisce, questo sì, con l’azzerare lacomplessità del panorama delle municipalità italiane. Parimenti, il fatto che sempre a Siena, in controten-denza con quanto avveniva in questo periodo storico nella maggior parte del paese, la politica dei lavoripubblici fosse molto sottotono, limitata a interventi di secondaria importanza e a opere di abbellimentonon può essere spiegato se non tenendo conto del ruolo vitale e forte giocato in questo settore dal Mon-te dei Paschi il quale fu protagonista diretto delle maggiori iniziative edilizie cittadine ma il cui decisivocontributo nella messa in atto di altre minori fu ottenuto grazie agli stimoli e alle pressioni delle autoritàmunicipali. 60 Negli anni ’90 molti comuni convertirono verso la Cassa depositi e prestiti molti dei debiti contratti conistituti bancari ottenendo in tal modo un indubbio beneficio perché il tasso di interesse praticato dallaCassa era in molti casi consistentemente minore.61 Mentre altre come la tassa sui domestici, sulle vetture e le tasse di esercizio, non raggiungevano una di-mensione consistente e anche la tassa di famiglia, sia pure in incremento, non rappresentò un cespite de-cisivo.62 Paolo Frascani, Le entrate, in Le riforme crispine. Amministrazione locale, cit., p. 898.63 In base al sistema di divisione delle entrate fiscali tra Stato e comuni, il dazio di consumo era tutto per-cepito dai comuni i quali, da soli o in consorzio dovevano poi versare all’erario un canone stabilito per ab-bonamento e rinnovato con scadenza quinquennale.

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criticata secondo la quale gli spazi dell’agi-re municipale si restringono quanto più siafferma la vocazione centralista delle isti-tuzioni nazionali. Tuttavia la realtà si pre-senta molto più complessa in quanto i da-zi di consumo diventarono strumento dipolitiche di protezionismo municipale omeglio, la manovra sui dazi offrì alle diri-genze municipali la possibilità di favorirele industrie cittadine a danno di quelle fo-restiere. Questa circostanza64 consente diricostruire il contraddittorio manifestarsidegli interessi delle località e di analizzarein maniera più differenziata il gioco traclassi economiche e gruppi di governo. Es-sa infatti rivela la novità di un’attenzionedelle classi politiche municipali nei con-fronti dello sviluppo, o meglio di un ribal-tamento dei rapporti di forza nel governodell’economia locale: il sistema notabiliareche aveva in qualche modo egemonizzatoil ceto imprenditoriale era ormai al tra-monto e almeno alcuni settori dell’impren-ditoria cominciano ad acquisire posizionidi preminenza e di forte compenetrazionecon la classe politica municipale. L’analisicondotta da Frascani sulle entrate dei co-muni ha dato conto con estrema chiarezzadi quali dinamiche si stessero attivando neimunicipi italiani. La tassazione veniva gra-duata secondo tecniche di dosaggio delletariffe che avevano anche l’obiettivo diproteggere gli spazi di mercato delle indu-strie locali (soprattutto manifatturiere oartigianali). Questo protezionismo munici-pale solitamente tendeva a proteggere isettori manifatturieri tecnologicamentemeno dotati ma capaci di contare per pre-

senza numerica e per ruolo sociale nellascena politica locale. Si trattava di un com-plesso mosaico di segmenti produttivi inalcuni casi già complementari alla grandeindustria, ma nella maggior parte dei casimessi in crisi dall’aumento dei costi dellematerie prime e della manodopera. Il pro-tezionismo municipale si poneva così a so-stegno di interessi di particolari segmentidell’industria locale in concorrenza con gliomologhi di altre realtà territoriali (sulprotezionismo municipale pesavano ancheesigenze di controllo sociale). All’internodelle singole realtà locali si sarebbe poiaperta, proprio sulla manovra tariffaria, labattaglia tra settori di produzione che pre-mevano sul ceto politico municipale.Diversa la situazione dei grandi centri ur-bani segnati dalla trasformazione indu-striale. Qui gli imprenditori impegnati nel-la costruzione e nel consolidamento del-l’industria di base piuttosto che invocareuna finanza municipale vincolistica, chie-devano l’adesione a programmi di politicafinanziaria sensibili al tema della defisca-lizzazione delle materie prime e della pro-gressiva attenuazione della fiscalità suiconsumi. La politica degli sgravi sulle ma-terie prime si accompagnava inoltre nellerealtà industriali a un più ampio program-ma di defiscalizzazione dei costi di produ-zione che andava dall’esenzione per i com-bustibili ad uso industriale fino all’esoneroper i materiali di costruzione delle caseoperaie. Qui insomma, si conciliava l’abo-lizione di ogni vincolo per la produzioneindustriale con la detassazione dei consu-mi popolari65.

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64 Essa peraltro rappresentare “un duplice insulto ai dogmi dell’Italia liberale in quanto nega[va] il prin-cipio dell’unità dello Stato tanto come comunità nazionale che come mercato” (F. Rugge, Introduzione, cit.,p. 782) e consente di mettere a nudo caratteristiche e limiti del liberalismo italiano tardo-ottocentesco.65 Esemplare il caso di Milano che nel 1898 inglobò nella sua cinta daziaria l’intera struttura industrialesviluppatasi nei sobborghi attraverso la riduzione delle voci tassate e la drastica esenzione della tariffa dei

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Municipalizzazioni

Riscoperta dagli storici grosso modo dapoco più di una ventina d’anni come nodocentrale delle vicende dell’Italia che si in-dustrializza e si avvia sulla strada della mo-dernità, l’esperienza della municipalizza-zione italiana si compone di tante storie lo-cali, ognuna con una identità e un percor-so propri, all’interno di un quadro nazio-nale dotato di riferimenti comuni. Di mu-nicipalizzazioni, o meglio, di assunzionediretta dei servizi pubblici locali da partedei comuni, in realtà in Italia si discutevaalmeno dall’ultimo decennio dell’Otto-cento su riviste nazionali, fogli comunali ein congressi che per quanto di limitata ac-cessibilità attestavano il crescente interes-se a un confronto serio e fattivo sulla ma-teria. Il dibattito coinvolgeva trasversal-mente in un circolo virtuoso sia studiosi diprofessione, interessati a fornire delle ri-sposte sul ruolo costituzionale e ammini-strativo del comune nel passaggio dalloStato di diritto allo Stato amministrativo,sia amministratori elettivi, interessati aipotesi di governo tecnico delle città e im-pegnati a sperimentare sul campo soluzio-ni originali che ponessero il municipio alcentro dei processi di mutamento sociale

ed economico delle comunità locali, siaampi settori della burocrazia direttiva deicomuni, quegli intellettuali-funzionariportatori oltre che di “saperi speciali” diconcrete pratiche di governo municipale.Faceva da sfondo a tale dibattito, imper-niato in definitiva sul ruolo propulsivo chei municipi erano in grado di svolgere in fa-vore dei propri cittadini, della mancanzadi un regime speciale che favorisse mag-giore libertà di azione e di iniziativa deipoteri municipali. Questo, almeno formal-mente, fino al 1903 quando fu varata lalegge sulla municipalizzazione. Le domande che bisogna porsi riguardoalla legge del 1903 sono essenzialmentedue: quale fu il carattere delle esigenze al-le quali si credette di provvedere? Qualifurono gli scopi che indussero il legislato-re a sottoporre la municipalizzazione auna penetrante disciplina di settore?1) Alla data della legge, la municipalizza-zione non era in Italia fenomeno di taleampiezza da richiedere con urgenzaun’apposita regolamentazione. La legisla-zione precedente conteneva già il ricono-scimento più o meno esplicito dell’istitu-to66. Dunque si poteva benissimo inseriredisposizioni aggiuntive nel TU delle leggicomunali e provinciali battendo la strada

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prodotti di base per la produzione industriale. E del caso di Milano, esemplare l’effetto di propagazione:“i segnali che provenivano dalle aree più industrializzate del paese ed esprimevano gli orientamenti piùmaturi nell’ambito della grande industria in tema di governo locale dell’economia venivano negli stessi an-ni approfonditi e rielaborati in contesti economici e sociali profondamente diversi […] I successi dell’e-sperienza milanese, particolarmente felici nel definire un sistema di regole di governo dell’economia loca-le basate su obiettivi di programmazione e di sviluppo economico, erano evocati a pochi anni di distanzaanche nella discussione preparatoria alla legge speciale per Napoli del 1904” (cfr. P. Frascani, Le entrate,cit., pp. 920-921). Negli obiettivi di quell’intervento, secondo precise suggestioni provenienti da Nitti, sileggeva un vero e proprio modello di sviluppo fondato sull’esistenza di una zona franca per le localizza-zioni industriali e una defiscalizzazione dei consumi popolari (nuovi insediamenti nelle zone già indu-strializzate-costruzione di case operaie-aumento degli standard di consumo).66 La legge comunale e provinciale del 1889 ammetteva che i comuni potessero avere beni e stabilimenti;nell’elencare le entrate comunali parlava di rendite (certo della proprietà fondiaria ma non erano esclusieventuali redditi industriali). In più, riprendendo l’articolo 14 del RD 6 luglio 1890 autorizzava l’esercizio

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di una normazione meno complessa. Il di-battito in parlamento diede conto del per-ché si scelse invece di giungere a una leggeorganica sulle municipalizzazioni: agli ini-zi del ’900 la situazione del paese riguardoalla gestione dei principali servizi pubblicidella città in maggiore espansioni si pre-sentava gravissima; l’esercizio delle grosseimprese di pubblici servizi era disciplinatoda contratti antichissimi che assicuravanoai privati privilegi inammissibili; per di piùsi registrava l’assoluta prevalenza delle im-prese straniere nelle concessioni dei servi-zi urbani. In tale senso, il caso più graveera quello delle società private concessio-narie dei servizi del gas cui erano di fattoconcessi poteri e diritti di monopolio an-che qualora il servizio di illuminazione po-tesse essere un giorno prestato con mezzidiversi dal gas. Nel momento in cui diven-ne possibile ed economicamente conve-niente utilizzare l’energia elettrica per l’il-luminazione pubblica e privata, i comunicercarono di sbarazzarsi dei monopoli masi trovarono di fronte alla reazione deiconcessionari privati che davanti ai tribu-nali ordinari chiesero il rispetto dei patticontrattuali. La disputa che si accese in-torno a questa giurisprudenza (che a voltericonobbe le richieste dei privati e altre af-fermò il diritto dei comuni di svincolarsidai contratti) ebbe il merito di catalizzarel’attenzione degli studiosi e della pubblicaopinione. I contratti in questione erano inrealtà contratti accessivi a una concessio-ne, quindi atti amministrativi da ritenersirevocabili in qualsiasi momento il pubbli-co interesse l’avesse richiesto. Inoltre, nonera in discussione il regime di monopolio

poiché le attività regolate da tali contratti(cioè i pubblici servizi dati in concessione)erano di natura particolare riguardandoappunto il pubblico interesse. Mancavadunque qualsiasi motivo per mantenere leattività in regime di gestione privata e anzivi erano ottime ragioni per trasferire il mo-nopolio comunale dalle società concessio-narie alle autorità locali che potevano assi-curare un esercizio più conveniente e ri-spondente agli interessi della collettivitàche di tale servizio fruiva. Infine, la gestio-ne da parte dei municipi di attività così re-munerative e prive di rischi avrebbe con-tribuito a risolvere il problema delle finan-ze comunali. 2) Quanto agli scopi della dettagliata di-sciplina di settore quale fu la legge 103 del1903, occorre premettere che le norme esi-stenti erano ritenute carenti perché relati-ve alla gestione diretta solo di pochi e se-condari servizi e dunque non adatte a di-sciplinare le imprese di carattere industria-le che si voleva i comuni assumessero. Oc-correva quindi dare ai comuni il potere diassumere la gestione diretta dei servizi an-che quando questi erano già concessi aprivati imprenditori e quindi occorreva re-golare condizioni, termini e modalità dellafacoltà di riscatto dei comuni stessi. In so-stanza bisognava autorizzare le municipa-lità a contrarre mutui con la Cassa deposi-ti e prestiti o con altri istituti anche quan-do le spese da erogare eccedevano il limi-te legale della sovrimposta comunale. Nelmomento in cui si permettevano i riscatticonsentendo un aggravio dell’indebita-mento dei comuni, occorreva circondaredi cautele l’esercizio della nuova attività

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in economia di quei servizi che per la loro natura si adattassero a questo sistema di gestione. Per alcuni diquesti servizi vi erano anche norme più particolari che autorizzavano in modo espresso l’assunzione daparte del comune della gestione diretta: mercati (legge del 1898), macelli (regolamento generale sanitariodel 1901), trasporti funebri (regolamento di polizia mortuaria del 1892).

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attraverso una puntuale disciplina del pro-cedimento di assunzione dei servizi e at-traverso una rigorosa determinazione de-gli organi, dei modi e delle forme di ge-stione dell’attività intesa alla prestazionedel servizio. Le cautele e le garanzie piùminute che vennero predisposte per leggesi rivelarono fin da subito eccessive e mol-ti ritennero che i freni posti ai comuniavrebbero reso inutile l’emanazione dellalegge67 e che pochi comuni sarebbero ri-usciti ad arrivare fino alla fine del com-plesso iter. In realtà, a parte l’anno 1904 incui poche furono le deliberazioni di assun-zione del servizio che giunsero al pareredella Commissione reale (anche se alcuneimportanti, come quella del servizio inter-no dei vaporetti di Venezia e quella dellacostruzione delle case popolari a Milano),già nei primi mesi del 1905 il fenomenoaumentò di proporzioni68. La municipaliz-zazione si estese dunque quasi ovunque econ risultati apprezzabili in termini di di-minuzione del prezzo dei beni erogati e diaumento costante dei consumi. Neppure irigidi controlli, in definitiva, danneggiaro-no in modo serio la gestione economica

dei servizi e la prudenza dei comuni (so-prattutto nell’Italia centro-settentrionale)nello scegliere le imprese da esercitareconsentirono di superare impacci comequello previsto dalla stessa legge e relativoal sistema di riscatto per cui l’indennità diriscatto doveva compensare il concessio-nario anche del profitto cessante per effet-to della municipalizzazione. Queste brevi note sugli aspetti tecnico-amministrativi che portarono all’adozionedella legge 103, devono però essere inte-grate da qualche considerazione generalesul portato storico, in termini di moder-nizzazione dei contesti locali e in terminidi sedimentazione di una cultura della mu-nicipalità che avrebbe travalicato l’età li-berale e il fascismo stesso. La legge sullamunicipalizzazione fu al tempo stesso ef-fetto e causa di un nuovo concetto di ser-vizio pubblico. Quanto al suo essere effet-to, si è già detto come sul piano pratico laquestione dell’assunzione da parte del co-mune di pubblici servizi fosse non solo giàprevista dalla legge precedente, ma anchepraticata da ancor più lungo periodo69.Quanto al suo essere causa, occorre rivol-

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67 In particolare, riguardo al procedimento, il vaglio della deliberazione comunale di assunzione in ge-stione diretta del servizio da parte della GPA, del prefetto, della Commissione reale per il credito comu-nale e provinciale, del referendum della giunta degli elettori e il vaglio del regolamento speciale dell’a-zienda alla quale si intendeva affidare la gestione del servizio da parte della GPA e del prefetto che lo ren-deva esecutivo.68 Altri 9 progetti ebbero parere favorevole (es. case popolari di Prato, impianti idrotermoelettrici di To-rino); 6 erano in fase istruttoria. Ai primi del 1904 le municipalizzate erano 26, al 30 giugno del 1906 era-no 53, al 1 gennaio del 1908 erano 74. Da tale data il movimento proseguì con ritmo costante: al 1 gen-naio 1910 erano 105, al 1 gennaio del 1913 erano 136.69 Il caso dei canali milanesi e della Congregazione degli utenti della fossa interna, istituzione titolare deldiritto d’uso del canale urbano, è a questo proposito esemplare come esperienza pionieristica di munici-palizzazione che ha come protagonista fino al 1884 uno di quei consorzi di utenti in ambito urbano (laCongregazione appunto, nata a metà del ‘700) assai trascurati dalla storiografia di settore a causa della lo-ro progressiva scomparsa nel corso del XIX secolo interpretata come passaggio obbligato della “moder-nizzazione”. Nel 1884 la congregazione decise il suo scioglimento, di fatto “liquidata” dagli stessi poterimunicipali, e cedette il controllo al comune all’interno di un progetto di concentrazione nelle mani delmunicipio della gestione della rete dei canali secondo lo spirito che già aveva animato l’azione del con-sorzio, quello cioè di un vero e proprio servizio pubblico di carattere comunale. La vicenda esemplifica

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gere soprattutto l’attenzione al versantepolitico70. Come nel suo scritto del 1902dedicato proprio a La municipalizzazionedei pubblici servigi, Montemartini, massi-mo teorico delle municipalizzazioni delprimo ’900, rimarcava, tra le condizioniessenziali che determinavano l’impresa co-munale stavano quelle politiche. Rispettoa queste egli scriveva: “solo coll’avventodella democrazia nell’impresa politica,colla conseguente conquista dell’autono-mia locale, col trionfo di quel complessodi aspirazioni che va sotto il nome di mu-nicipalismo, il sistema delle municipalizza-zioni troverà le sue condizioni propizie disviluppo”. Dunque esisteva una relazionediretta tra l’affermazione del “municipali-smo” e lo sviluppo delle aziende comuna-li. Ed era proprio tale relazione che quali-ficava politicamente la comparsa dei servi-zi pubblici municipalizzati, “promossi nonsolo per favorire lo sviluppo ma anche perrimuovere gli ostacoli allo sviluppo postidalle imprese private che gestivano queiservizi in regime di monopolio”71. Comeancora Montemartini indicava, quella dicombattere il monopolio, di sottrarre i

consumatori allo “sfruttamento” degli im-prenditori privati era essa stessa la verafunzione pubblica del municipio. In so-stanza un unico obiettivo, quello di darepronta ed efficace risposta alle esigenzedelle collettività cittadine, accomunava lalotta dei comuni sia contro il monopoliodello Stato nella gestione della cosa pub-blica sia contro il monopolio dei privatinei servizi urbani. Restava estraneo alla valutazione dei con-temporanei un risvolto importante dellalegge stessa quello cioè di un sempre piùambiguo carattere che i municipi comin-ciarono da quell’epoca a manifestare: se dauna parte essi infatti abbracciavano formedi imprenditorialità orientata verso i prin-cipi dell’agire economico privato, dall’altraparte l’appartenenza alla sfera pubblica licondizionava pesantemente in nome del-l’esigenza di perseguire comunque l’idealedi utilità collettiva. Da questa ambiguitàderivava alle aziende municipali uno statuspeculiare: se riuscivano a imporsi a quelleprivate grazie alla propria natura pubblica,erano però anche costrette a subire limiti,come quello territoriale, che ne pregiudi-

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anche la rilevanza assunta in questo passaggio di mano di quelle “nuove” figure di cui più volte si è det-to: protagonista dell’operazione fu l’ingegnere municipale Emilio Bignami Sormani il quale fin dal 1868nei suoi scritti a proposito dei canali milanesi parlava di servizio pubblico in un quadro che poneva la que-stione igienica a fattore di legittimazione dell’intervento municipale e della “liquidazione” della Congre-gazione stessa e che si costruiva intorno al rafforzamento del ruolo della polizia urbana sul territorio (cfr.A. Ingold, Inchiesta, riforma, gestione: i consorzi di utenti delle acque alla fine del secolo XIX, relazione alconvegno internazionale di studi Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea, Ales-sandria, 26-27 novembre 2004).70 Sul versante economico e finanziario si è detto che uno dei principali motivi che spinsero al varo dellalegge derivava dalla necessità di disciplinare un’attività comunale tradizionale con un’altra, crescente, insettori nuovi, che aveva portato a conflitti di interesse molto duri con l’imprenditoria privata. Le attivitàeconomiche dei comuni infatti erano andate espandendosi dai tradizionali settori di intervento (mercati,macelli, trasporti funebri e pubbliche affissioni) a servizi dove l’iniziativa privata, per via dell’alta redditi-vità, considerava estremamente interessante intervenire: acquedotti, energia elettrica, trasporti, telefoni.71 O. Gaspari, Dal monopolio, alla municipalizzazione, alla liberalizzazione dei servizi pubblici: le tappe diun processo di sviluppo nel quadro della storia del movimento comunale, relazione alla Seconda Conferen-za Nazionale dei Servizi Pubblici Locali - L’innovazione al servizio dei cittadini (Officine del Gas AemSpa-Bovisa - Milano 3-4-5- ottobre 2000), ma anche Id., L’Italia dei municipi, cit.

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cavano la redditività economica. Anche lecaratteristiche industriali delle aziendemunicipalizzate risentirono di questa loronatura strettamente pubblicistica. Esse as-sunsero infatti la forma di unità produttivemonoservizio, operanti generalmente inambiti territoriali corrispondenti a quelliamministrativi dei comuni. Le loro conno-tazioni, insomma, si configurarono più vi-cine a quelle di soggetti di erogazione diservizi, che a vere e proprie imprese. Laprevalente competenza era, quindi, techni-cal oriented con un assetto organizzativovolto a garantire un bisogno collettivo me-diante un servizio caratterizzato da ade-guate specifiche tecnico-ingegneristiche.Necessariamente la conseguenza fu l’affer-marsi di imprese “organiche” all’ente loca-le e solo funzionalmente separate da essoal fine di sfruttare al massimo la valenzatecnocratica che le permeava e contraddi-stingueva.Su un altro piano, poi, l’attività economicamunicipale rispondeva a esigenze politi-che: quella “civica rinascenza” che Monte-martini vedeva svilupparsi nell’Italia diinizio secolo, sulla scorta dei più consoli-dati esempi del liberalismo europeo e sta-tunitense, in qualche modo subiva con lalegge del 1903 un tentativo di incanala-mento. Essa infatti, nelle intenzioni del go-verno doveva accrescere, insieme al benes-sere sociale, il controllo dello Stato sugli

enti locali, bloccando i fermenti anti-istitu-zionali presenti nelle richieste dell’opposi-zione. Insomma l’operazione giolittiana inqualche modo poteva essere letta comeuna normalizzazione di quella “primaveradei municipi” che coinvolgeva sindaci epersonalità di diversi schieramenti politici,e che, dopo il varo della legge, li vedevasempre più convintamente uniti a collabo-rare, al di là di schieramenti ideologici edappartenenze partitiche, nell’ANCI (ma an-che nell’Unione statistica delle città italia-ne - USCI - che realizzava indagini statisti-che su base comunale, una sorta di ISTAT

municipale avviata a Firenze nel 1905,vent’anni prima dell’istituzione statisticadello Stato, e che operò fino al primo do-poguerra) in nome dell’autonomia comu-nale e dall’idea di affermare il ruolo deicomuni72. In effetti, all’indomani della leg-ge - come opportunamente è stato a suotempo sottolineato da Giannini73 - vi fu chiritenne chi ritenne che un nuovo stermina-to campo di azione si aprisse all’attività deicomuni e chi parlò dei comuni del futurocome gestori di grandi imprese pubblichenell’interesse della collettività. Si trattavatuttavia di mere illusioni poiché la legisla-zione statale successiva disciplinando i di-versi settori, tolse praticamente ai comunila possibilità di municipalizzare se non inalcuni e ristretti campi. Formalmente lanorma del 1903 non era abrogata, mate-

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72 Il primo frutto di questo spirito di collaborazione nel campo delle municipalizzazioni fu il “Consorziofra i comuni assuntori del servizio delle pubbliche affissioni” costituito a Roma nel 1908 nel corso di unariunione presieduta dal sindaco radicale Ernesto Nathan e formato da 40 comuni di tutta Italia guidati daun comitato composto dai rappresentanti delle città di Roma, Milano, Genova, Bologna e Livorno L’an-no seguente, nel 1909, si costituiva a Brescia un comitato, composto tra gli altri dal deputato Ugo Scalo-ri, l’ing. Carlo Tarlarini, assessore al comune di Milano, Dario Ferrari, sindaco di Cremona, l’ing. Giu-seppe Orefici, presidente delle Aziende municipalizzate di Brescia (ASM) per promuovere una Federazio-ne delle aziende municipalizzate italiane (FAMI), iniziativa formalizzatasi poi nel 1910 con un congressosvoltosi a Verona.73 Cfr. M.S. Giannini, I comuni, in I comuni, cit., pp. 33-36.

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rialmente era svuotata dall’interno di pra-tica possibilità di applicazione. Vicendeeguali o simili si avverarono in quasi tutti isettori; la legislazione statale sulla sanità,sui trasporti, sull’uso delle acque, sull’agri-coltura, sull’urbanistica, sulla polizia, ecc.,svuotò dall’interno la possibilità di legife-rare mediante regolamenti comunali quan-do addirittura questi non dovettero esseremodificati e adeguati alle nuove leggi suprecise richieste dell’autorità di controllo.Ciò accadde per precise ragioni: i) tecni-che (il comune era divenuto troppo picco-lo per potere svolgere adeguatamente unacerta attività); ii) sociali (non si poteva am-mettere che solo in un comune esistesserotaluni servizi sociali e altri no); iii) econo-miche (minor costo della gestione a livellosovracomunale; di quelle politiche si è giàdetto).L’afflato dello spirito comunale di cui haparlato Giuliano Pischel74 si spense con ilritorno a tutto tondo del modello accen-tratore per assecondare lo sforzo bellico,poi esasperato dalla dittatura di Mussolini.Non vi fu certo un ritorno al passato, ma illascito più importante di questa fase fu ilsedimentarsi di quella cultura dell’impren-ditorialità pubblica nel cui lessico origina-rio stavano polarità come funzione/biso-gno, profit-to/interesse pubblico, utile fi-nanziario/benessere sociale. Una cultura -come ha osservato Rugge75 - che in qual-

che modo sarebbe riemersa, pur nella di-versità del modello operativo, nelle impre-se statali nate tra le due guerre.

Fascismo

La più recente storiografia sui fascismi lo-cali ha “delineato l’immagine di un totali-tarismo sempre più incompiuto”76 a con-ferma delle più generali interpretazioni te-se a sottolineare il sostanziale fallimentodell’esperimento totalitario fascista, inca-pace di trasferire sul campo la propria na-tura teorica e produttore di esiti tutt’altroche originali. La “teoria fallimentare”, tut-tavia, sembra talora fagocitare una piùpuntuale analisi della pluralità di scenariprodotti dall’azione del partito sulle diffe-renti situazioni locali. Se da un lato, infat-ti, è possibile rintracciare una robusta li-nea di continuità rispetto al passato, con lapermanenza di logiche e pratiche tradizio-nali, dall’altro però, in molti contesti, delfascismo è possibile verificare la spinta in-novatrice la cui sostanza risiede nelle fina-lità ultime del suo intervento. Volto questonon soltanto all’obiettivo di spezzare equi-libri fondati sui tradizionali circuiti nota-biliari locali ma, più in generale, a darecorpo a una specifica “modalità fascista”di integrazione ideologica delle masse77. Se si guarda alla dimensione locale, il qua-

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74 G. Pischel, La municipalizzazione in Italia ieri, oggi, domani, Roma, Confederazione della municipaliz-zazione, 1965, p. 34.75 F. Rugge, All’origine dell’impresa pubblica. L’esordio della municipalizzazione, in “Amministrare”, 1986,f. 2.76 Massimo Lodovici, Fascismi in provincia: orientamenti e ipotesi di ricerca, in “Memoria e Ricerca” 1993,n. 1, p. 137.77 In tal senso, ricondurre l’esperienza del fascismo a uno statalismo ereditato dal periodo liberale e por-tato ad estreme conseguenze, significa trascurare quella differenza “genetica” per cui lo statalismo “si ap-paga di mantenere gli individui atomizzati e dispersi, il totalitarismo esige organizzazione” (cfr. EmilioGentile, La via italiana al totalitarismo, Bologna, Il Mulino, p. 105) e significa anche sottovalutare la por-tata innovatrice di alcuni processi che col fascismo si innescarono.

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dro che si presenta è quello di una realtàdisciolta in un pulviscolo di dinamiche dif-ferenti, da zona a zona, ma anche all’inter-no della stessa periferia per periodi diver-si. Lotte tra fazioni interne al partito, lottecontro altri gruppi di potere, parziale o in-tegrale cooptazione delle vecchie élites di-rigenti e infine scontri con prefetti e pode-stà, dipingono uno scenario caotico e dif-ficilmente trascrivibile in coordinate inter-pretative utili a comprendere quali e quan-ti fermenti si agitano nella periferia e a co-struire un’ipotesi generale sul ruolo delpartito all’interno della sfera politico-am-ministrativa locale. Tuttavia, accantonan-do la consolidata tesi di un fascismo peri-ferico debole, esclusivamente di facciata esfibrato dalla rinuncia “a una proiezionelocale del modello totalitario”, ci si puòaccorgere di come in molti contesti pro-vinciali “esso conservava […] un’elasticitàed una presa sulla società che ne facevauno strumento importante di coordina-mento della vita politica locale”78 e di co-me la dialettica in conflitto fra prefetti,

podestà e federali rappresentasse una no-vità rilevante rispetto al regime liberale. Ladimensione nella quale essa trova posto,infatti, si dilata, ma soprattutto è segnatadal prepotente emergere e dal consolidar-si di nuove figure sociali e nuove strutturedi potere, che condizionano, gestiscono eintervengono sulle capacità amministrati-va dell’ente locale con notevoli differenzerispetto al passato.D’altro canto “non bisogna ritenere che ilfascismo giunto al potere abbia affermatola propria volontà di controllo sugli entilocali con una legislazione straordinaria,innovatrice rispetto a quella vigente. Alcontrario, esso utilizzò pienamente la leg-ge comunale e provinciale vigente (RDL 4febbraio 1915 n. 148) che in fatto di scio-glimento delle amministrazioni comunaliaveva già dato ottima prova negli anniprecedenti”79 e che consentì un parzialeattendismo in materia80. La sola eccezionefu il RDL del 30 dicembre 1923 in modifi-ca del testo del 1915, il quale però si limi-tava ad aggiustamenti parziali, di carattere

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78 Marco Palla, Firenze nel regime fascista, Firenze, Olschki, 1978.79 L. Ponziani, Il fascismo dei prefetti: amministrazione e politica nell’Italia meridionale 1922-1926, Catan-zaro, Meridiana Libri, p. 33.80 “Da questo punto di vista, anzi - argomenta Ponziani -, vi era stata una sostanziale complementarietàtra movimento fascista e governo, nel senso che all’attacco squadristico contro le amministrazioni sociali-ste aveva di regola fatto seguito il formale decreto di scioglimento”. Nel 1923 quindi il fascismo proseguìnella logica già appartenuta alla fase liberale di utilizzare per le disciolte amministrazioni i regi commissa-ri straordinari, funzionari di nomina governativa per lo più provenienti dall’amministrazione dell’interno,confidando così nella burocrazia tradizionale quale canale di accesso al controllo delle amministrazioni lo-cali. E al tempo stesso potenziò le funzioni prefettizie in vista delle amministrative che avrebbero sancitoil trionfo delle liste fasciste. Insomma, così come accadde nell’amministrazione centrale con le riforme DeStefani del 1923 1924 che non fecero che rafforzare gli elementi di autoritarismo già presenti nell’ordina-mento liberale, anche nelle amministrazioni locali una vera e propria riforma fascista in questi anni non vifu. Lo stesso Federzoni con una serie di circolari ribadiva ai prefetti come la normalizzazione fascista nondovesse passare attraverso pressioni esercitate dall’autorità governativa sulla rappresentanza locale mapiuttosto attraverso un accorto esercizio da parte dei prefetti dei sempre maggiori poteri assegnatigli permanipolare le popolazioni in funzione elettorale (cfr. Circolari di Federzoni ai prefetti del 27 novembre1924 e del 27 gennaio 1925, ma ancor prima circolari di Mussolini ai prefetti del 13 giugno 1923 e dell’11agosto 1923). Si evidenziava così l’avvio di quel percorso di creazione del “prefetto fascista”, vera e pro-pria interfaccia a livello periferico del capo del governo, destinato a culminare con la legge dell’aprile del

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prevalentemente tecnico, che non altera-vano la sostanza del regime vigente81. Furono gli anni dal 1926 al 1934 a rappre-sentare la vera svolta in senso fascista deirapporti centro/periferia e ad avviare nelcampo delle autonomie locali la progressi-va integrazione autoritaria della società lo-cale nelle politiche centrali dello Stato82.La riforma podestarile del 1926 formal-mente non annullava la caratteristica delcomune quale ente dotato di personalitàgiuridica, ma nella sostanza sanciva l’inge-renza diretta del potere centrale sugli or-gani della periferia coma dimostra la cir-costanza per cui la prima infornata di po-destà fu in concreto l’immissione in talecarica dei commissari straordinari. Comepiù volte ebbe modo di rimarcare Feder-zoni, l’indipendenza amministrativa deicomuni non era affatto messa in discussio-ne: i comuni, argomentava il segretario delPNF, non erano infatti enti autonomi, poi-ché l’autonomia come potestà di darsi leg-gi non era in realtà mai esistita, bensì entiautarchici cioè organi dello Stato (conpropria personalità giuridica), semplicicircoscrizioni amministrative i cui indirizzidi governo e i cui fini dovevano armoniz-

zarsi con quelli dello Stato. Il che serviva agiustificare l’eliminazione del principioelettoralistico e il ritorno alla “designazio-ne di capacità”, per ristabilire il caratterefunzionale dell’autonomia in opposizionea quello politico che aveva fatto del comu-ne oggetto di conquista da parte dei parti-ti politici. Un criterio guida, questo dellaseparazione tra politica e amministrazioneche la riforma podestarile, nell’ibridismodella figura posta a capo del municipio,avrebbe fatto vacillare e solo parzialmentesoddisfatto con la creazione della consulta. Le finalità contenute nella creazione dell’i-stituto podestarile, erano molteplici e nonsi limitavano al solo intendimento di co-struire una classe amministrativa localecompetente. Le parole di Federzoni di po-chi mesi precedenti al varo della riforma,rivelavano la precisa esigenza di difenderelo Stato “contro la tendenza disgregatricee localista che mirava a fare del comuneuno strumento di conquista e di distruzio-ne dello Stato medesimo”83; nella sostanza,dunque, la riforma podestarile mirava asancire costituzionalmente l’annientamen-to di qualunque prospettiva pluralista delpotere locale, abolendo il principio eletti-

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1926 e la circolare del 5 gennaio 1927 che ne avrebbero fatto il punto cardine alla periferia - in posizionedi totale primazia su tutte le altre cariche e autorità provinciali, compresi i segretari provinciali del PNF -della costruzione del regime.81 Piuttosto, vi era in quella forma di parziale decentramento prevista che spostava l’azione amministrati-va dal ministero al prefetto e da questi al sottoprefetto (presentata come la miglior soluzione per dare “lo-calmente sviluppo e compimento a quegli affari diretti a soddisfare bisogni locali”) una sostanziale ridefi-nizione del ruolo del prefetto, nonché si preconizzava il ritorno ad un organo monocratico nella direzio-ne del comune al fine di eliminare le lotte tra partiti personali.82 Un’ulteriore accelerazione nella politica di compressione delle autonomie locali la si ebbe dal 1928 al1934: con la statizzazione dei segretari comunali (1928), l’accentuazione del sistema dei controlli, la rifor-ma dell’amministrazione provinciale, il riordino della GPA che sancì il privilegio della componente buro-cratica e di partito nella sua composizione.83 Il fatto che i comuni fossero, in quel 1925, saldamente nelle mani dei fascisti aveva poca importanza,poiché “c’era bisogno di strumenti legislativi che, sanzionando il predominio fascista nei comuni, lo inse-rissero entro la nuova compagine istituzionale che il regime andava costruendo” (cfr. Ettore Rotelli, op.cit., p. 85).

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vo che era uno, ma non l’unico e non l’in-dispensabile, criterio dell’autonomia di unente84. La figura del podestà, così come la riformala concepì, non si discostava da quella delsindaco liberale dell’origine, in quantoquest’ultimo, come il podestà, veniva scel-to dal prefetto in base a criteri fiduciari emeritocratici, e otteneva la sua confermaufficiale con un decreto regio; e forti ana-logie con la prima fase unitaria e l’idea chefu della Destra storica del “governo mora-le dei savi” vi erano anche nel principioetico contenuto nella riforma: la volontà dicostituire una classe dirigente “material-mente e moralmente forte”, capace di gui-dare gli enti locali con serietà e competen-za85. Il vincolo ottimatizio, dettato dal pre-stigio sociale del candidato, ebbe comeconseguenza la rinascita - in molti casi -della classe aristocratica da tempo ormaisostituita da un ceto borghese e imprendi-toriale. Ma questo non fu sempre vero: ilpercorso di progressivo annullamento del-le prerogative di autoamministrazione de-gli enti locali e di integrazione autoritariadella società locale nelle politiche centralidello Stato, infatti ebbe esiti diversi a se-conda dei diversi contesti in cui fu calato86.In particolare, si verificarono casi in cui in-teressi e comunità locali si mostrarono ca-paci a fare fronte alle pretese egemonichedel potere pubblico. Qui infatti, le éliteslocali pur mirando alla restaurazione degliequilibri consueti e alla salvaguardia delle

tradizionali egemonie furono spesso co-strette ad un dinamismo in grado di defi-nire nuovi equilibri sociali (Calabria). Inaltri casi, invece, si trattò di mera ripropo-sizione degli assetti più conservatori, nel-l’intento di azzerare l’esperienza di forteprotagonismo assunta dai municipi tra lafine dell’Ottocento e l’età giolittiana e so-prattutto di cancellare ogni sussulto di lot-ta di classe come ad Arezzo, o come in Ro-magna. In ogni caso, la figura centrale cheimpersonò la crisi della gestione privatadei poteri municipali fu quella del pode-stà, sia che divenisse il vero trait-d’uniontra dirigismo fascista e interessi locali, siache fosse mera espressione delle rinnovatepretese della nobiltà o della proprietà ter-riera: in entrambe le versioni, infatti, lafunzione podestarile scavalcò quella delpartito, di fatto esautorato di un reale po-tere politico. Per converso, i casi dellemaggiori città siciliane dove i podestà fu-rono per lo più “esponenti di un’aristocra-zia vecchio tipo, poco sensibile ai proble-mi di una macchina amministrativa spessoinceppata per i gravi deficit di bilancio e lalimitatezza delle entrate dei grandi comu-ni”87 o il caso napoletano, in cui quella delpodestà nulla fu se non semplice caricaonorifica a tutto vantaggio del ripristinonei luoghi del potere decisionale di unaclasse ormai obsoleta. Anche quest’ultimatipologia tuttavia offre spunti di riflessioneassai importanti nella misura in cui mettein evidenza la soglia oltre la quale il regime

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84 M.S. Giannini, Autonomie locali e controlli statali, pp. 123-128.85 Non a caso il richiamo andava alla florida stagione municipale del medioevo utile a rafforzare i precet-ti teorici della riforma: così come il podestà medievale, il podestà fascista doveva avere ruolo di mediato-re nelle lotte fra fazioni e famiglie avverse, doveva essere il garante super partes della cittadinanza, come siespresse Federzoni, “essere espressione sincera, diretta, grezza, degli interessi locali”.86 Cfr. M. Lodovici, Fascismi in provincia, cit.87 Salvatore Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, in Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi, La Sicilia,a cura di Maurice Aymard, Torino, Einaudi, 1987, p. 441.

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non osò spingersi nel suo progetto di sta-tizzazione dei poteri municipali. Anzi,proprio l’esperienza partenopea evidenziaun tratto assai interessante relativo alla ti-tolarità del potere reale e all’effettività delsuo esercizio. Se infatti la sfera politica,appannaggio delle strutture del PNF e deiceti nuovi, e la sfera amministrativa, nellemani delle tradizionali classi dirigenti libe-rali (soprattutto della componente aristo-cratica), agivano autonomamente l’unadall’altra e non sembravano costituire levere élites sociali, erano i poteri economi-ci a giocare un ruolo di primaria impor-tanza e a innescare meccanismi di trasfor-mazione socio-economica della città deltutto estranei al binomio politico-ammini-startivo. Il fatto è che il rapporto che que-ste élites economiche intesserono con ilpotere centrale (e viceversa) fu contrasse-gnato da un osmosi su base clientelare, im-perniata sulla “modernizzazione passiva”,sulle prebende governative indirizzate, at-traverso il canale dei nuovi enti pubblici,al settore industriale. Con la conseguenzadi una drammatica dipendenza di que-st’ultimo dall’impegno finanziario delloStato (particolarmente drammatica dopola recessione degli anni Venti), di una pro-gressiva radicalizzazione dei processi diconcentrazione e verticalizzazione econo-mica e finanziaria, di un granitico consoli-damento della struttura diarchica oligopo-lio-Stato, ma soprattutto di una devastan-te penalizzazione del tessuto produttivointermedio, vero cuore pulsante dell’eco-nomia locale.Altrettanto interessante dal punto di vistadella casistica locale è il caso calabrese in

cui, come si è detto, il campo di tensionecreato dalla compresenza di spinte allamodernizzazione e di resistenze degli inte-ressi tradizionali generò un processo ditrasformazione sociale che vide come pro-tagonisti nuovi ceti e nuove professioni eche annunciò una riorganizzazione ammi-nistrativa imperniata sulla selezione dipersonale politico professionale. In talecontesto, il podestà Bianchi portò un’im-pronta tutta particolare al fascismo locale,facendosi da un canto portatore delleistanze di rottura culturale e di cambia-mento sociale proprie di quei ceti in asce-sa di cui egli stesso era esponente e mo-strandosi d’altro canto all’altezza di tra-ghettare attraverso i classici circuiti clien-telari le vecchie classi dirigenti liberali nelfascismo. Con l’esito ultimo di riformularein profondità il rapporto-centro-periferia.La riprova del “successo” del fascismo ca-labrese (e in definitiva del successo del fa-scismo tout-court in Calabria, come dimo-strato dal poco entusiasmo con cui lì furo-no accolti gli alleati) si ha sul versante eco-nomico. Proprio in quanto strettamentecollegato alle forze modernizzanti endoge-ne, l’intervento pubblico all’insegna deldirigismo e del modello tecnocratico as-sunse la valenza di profonda e radicale tra-sformazione delle consolidate gerarchieproduttive: la geografia economica dell’in-tero territorio venne ridisegnata, consoli-date primazie cittadine furono rovesciate,nuove gerarchie e nuove funzioni urbanetrovarono slancio. L’esito sarebbero statiprocessi di sviluppo capitalistico e di mo-bilità sociale del tutto inediti88. Diverso ancora il caso di città come Terni

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88 Se nei casi appena menzionati, il fascismo comportò una presenza inedita dello Stato nella gestione del-la cosa pubblica, nell’esperienza lucana (pur con le debite differenze dovute ad una situazione di parten-za assai variegata sia sul piano produttivo sia su quello sociale tra diverse aree di quel territorio) la gestio-ne delle Amministrazioni comunali rimase nelle mani delle vecchie consorterie. E ciò non solo per il pro-cesso di selezione della dirigenza municipale operato dal fascismo a tutto favore del modello ottimatizio

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e Piombino89, con la loro dimensione in-dustriale incentrata sul modello della “fab-brica totale”90 e con il ruolo centrale in es-se inevitabilmente svolto dalle grandi so-cietà industriali (con i loro vasti patrimoniimmobiliari) e dagli gli stessi imprenditori(pronti a guidare e influenzare i percorsidi crescita collocandosi accanto agli ammi-nistratori pubblici). Qui il fascismo, in vir-tù del legame che univa i ceti industriali alregime, lasciò a questi ultimi la gestionedell’intera città e dei conflitti politici e so-ciali in essa presenti. Il caso torinese, invece, è emblematicodelle difficoltà incontrate dal fascismo nel

processo di conquista dell’amministrazio-ne civica. Qui sarebbe stata la podesteriadi Thaon di Revel (1929 al 1935) a fare ladifferenza. Essa infatti si precisò come unmomento “alto” dell’esperienza podestari-le, un esempio illustre non solamente dicorretta amministrazione ma di energicoslancio amministrativo, dotato di efficien-za e di “spirito imprenditoriale”91. Porta-tore di quello spirito tecnocratico ardente-mente voluto da esponenti del fascismocome Massimo Rocca il quale “reclamavala formazione di consigli tecnici (conosciu-ti anche come gruppi di competenza)”92

che dovevano servire come collegamento

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per cui i possibili candidati erano cooptabili esclusivamente nelle famiglie più abbienti, che da sempre par-tecipavano alla vita politica dei piccoli comuni d’appartenenza, ma anche perché il regime evidentementeritenne che il controllo politico della Basilicata non fosse indispensabile e lasciò quindi ampia autonomianella gestione delle amministrazioni comunali intervenendo solo nei casi in cui i dissidi interni creavanocondizioni di autentica ingovernabilità. In questo senso, la Basilicata rappresentò un’eccezione al resto delSud con la sola variante del materano dove la fascistizzazione del territorio avvenne in maniera del tuttosimile alla Puglia dove, a fronte della presenza della grande impresa agricola industrializzata e quindi diun proletariato rurale molto numeroso e combattivo, il fascismo cercò e trovò l’appoggio degli agrari.89 La peculiarità di queste “città industriali” è quella di essere centri che fino alla fine dell’Ottocento sitrovavano ai margini del reticolo urbano italiano, di carattere esclusivamente rurale, privi di rilevanti fun-zioni economiche e amministrative in cui fu l’insediamento di grandi complessi industriali a determinarele prime trasformazioni. Per una più completa definizione di questo modello di città nell’ambito del si-stema urbano italiano cfr. A. Ciuffetti, La città industriale. Un percorso storiografico, Perugia, Giada/CRA-CE, 2002, pp. 26-41.90 Sul significato di “fabbrica totale”, cfr. L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo industriale e città so-ciali in Italia, Milano, Feltrinelli, 1979.91 Thaon di Revel possedeva enormi e indubbie qualità, a partire dalla sua lucida conoscenza delle que-stioni economiche, fino ad arrivare alle capacità organizzative che trovarono nella civica amministrazioneil terreno adatto per esplicitarsi, capacità che si manifestavano anche nell’adesione a imperativi tecnocra-tici. “Nella elaborazione dei più importanti atti di amministrazione che si concretano nelle deliberazionipodestarili - annotava in una delle sue prime relazioni alla Consulta - ho creduto indispensabile non va-lermi soltanto della collaborazione degli organi burocratici, sia pure ottimi, di cui l’Amministrazione Ci-vica torinese è dotata. Per ogni questione di particolare rilievo non ho mancato di valermi della collabo-razione sia di tecnici appositamente chiamati a riferire sia di rappresentanti delle Organizzazioni sindaca-li interessati alla soluzione della questione”. Sulla podesteria di Thaon di Revel, cfr. la tesi di laurea (in viadi completamento) di Matteo Bozzi (Università di Torino, Facoltà di Lettere) che qui ringrazio. Più in ge-nerale, cfr. Emma Mana, Dalla crisi del dopoguerra alla stabilizzazione del regime, e V. Sgambati, Il regimefascista a Torino, entrambi in Storia di Torino, vol. VIII, Dalla Grande Guerra alla Liberazione, a cura di Ni-cola Tranfaglia, Torino, Einaudi, 1988; L. Angeli, L’istituto podestarile. Il caso di Torino in prospettiva com-parata, Tesi di laurea, a.a. 1996-1997.92 Roland Sarti, La modernizzazione fascista in Italia, in Il regime fascista, a cura di Maurizio Vernassa e Al-berto Aquarone, Bologna, Il Mulino, pp. 271-272.

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tra il vertice politico e la burocrazia, manel concreto erano chiamati a risolverecon un’“esperienza di carattere tecnico” iproblemi del lavoro e dell’amministrazio-ne pubblica, Revel si servì di consigli tec-nici per studiare e risolvere numerose que-stioni: dallo smaltimento dei rifiuti cittadi-ni alla riforma del regolamento edilizio.Agnelli, come la maggior parte degli indu-striali torinesi, reputava il podestà Thaondi Revel una sponda interlocutoria fonda-mentale e ciò in un contesto, quello delladimensione politica cittadina, attraversatodall’esplicita ostilità da parte del partito,del prefetto e anche di Mussolini nei con-fronti del mondo economico e finanziariotorinese, alla sua preminenza e alla sua au-tonomia. Prudente e accortamente attentoal sostanziale beneficio per la città rappre-sentato dalla grande industria, il podestà,pur plaudendo, in linea con le direttive ru-raliste del regime, a tutte quelle iniziativeche avrebbero potuto valorizzare il patri-monio naturale e agrario della provincia, siguardava bene dallo snobbare il ruolo del-l’attività industriale e anzi “individua inessa una funzione di motrice e di volanoper lo sviluppo parallelo e diversificatodell’economia della provincia”93. Tutela erilancio dell’industria meccanica, dell’in-dustria elettrica, dell’industria della mo-da94, della nascente industria radiofonica,dell’industria cinematografica95. Ma non

solo. La questione scolastica ed educativa- la parte morale della sua amministrazio-ne - assorbì moltissime energie del pode-stà. Non solo la creazione di nuovi asili in-fantili la cui gestione volle passasse diret-tamente nelle mani del comune - poichéera giusto che il “Comune, che fa frontealla massima parte delle spese, si assumapure l’onore della diretta gestione”96 e so-prattutto affinché fosse il comune a “siste-mare l’educazione pre-elementare dei no-stri bimbi in modo consono ai bisogni e al-la dignità delle tradizioni educative dellanostra Città”, non solo le pressioni eserci-tate sul Ministro per l’Educazione Nazio-nale per ottenere posti integrativi nei liceie nelle scuole superiori. Ma anche e so-prattutto la cura e l’attenzione per l’istru-zione agricola, per quell’Istituto superioredi Agricoltura, a cui lo legava il vissutopersonale e a cui guardava come mezzoperché Torino potesse “esercitare la suainfluenza, non soltanto come centro d’at-trazione industriale sugli operai, ma anchecome centro di irradiazione verso la regio-ne agricola piemontese a cui deve fargiungere la voce e l’autorità della sua tra-dizione politica, colturale e spirituale edella sua attuale potenza economica”. Tut-to era nelle corde del podestà che si battéper questi obiettivi tenendo l’influenza delpartito e ancor più del prefetto ai marginidell’amministrazione cittadina97. Di

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93 M. Casasanta, Il gruppo dirigente del PNF a Torino. 1919-1939, Tesi di dottorato, pp. pp. 289-290. In ciòsi riallacciava alle posizioni espresse da Ugo Spirito nel corso degli anni ’30 in polemica con il ruralismodi Serpieri e in nome di una “industrializzazione a oltranza” e della “corporazione proprietaria”.94 E lo dimostrano il caso di via Roma e l’appoggio di Revel alla nomina dell’industriale calzaturiero tori-nese Silvio Ferracini a Presidente dell’Ente Nazionale della Moda.95 Proprio sul principio degli anni Trenta, il podestà avvertiva l’esigenza di rinverdire gli antichi fasti cit-tadini, riproponendo Torino come sede privilegiata del cinema, e per questo cominciò a condurre, trami-te intermediari, serrate trattative con imprenditori cittadini, in particolare con il Barone Mazzonis, tra gliindustriali, tra i più ferventi fascisti.96 Per le citazioni tratte dalla rivista “Torino” 1930, n. 2, cfr. la tesi di M. Bozzi, cit., pp. 87-88.97 Dopo che egli abbandonò l’incarico per andare a Roma come Ministro delle Finanze nel 1935, si assi-

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un’amministrazione che in breve tempocominciò a costituire punto di riferimentoper altre podesterie e per altre istituzioni:una straordinaria macchina informativache toccava i più svariati problemi riguar-danti le scelte e la conduzione dell’ammi-nistrazione locale98. Senza proseguire nel-l’elenco dei numerosi campi d’attività neiquali l’amministrazione civica guidata daRevel s’impegnò, occorre sottolineare co-me - e il caso del rifacimento di via Romalo avrebbe dimostrato - che la sua pode-steria fu condotta all’insegna dell’efficien-za, termine che sarebbe entrato a far partedel normale lessico quotidiano99, simbolodi una modernità che il regime fascista ri-vendicava, e per certi versi a ragione, non-ostante i fallimenti100. Di questa moderni-tà, della faccia modernizzatrice del regime,in campo economico, sociale, artistico Re-vel si fece interprete a capo dell’ammini-strazione di una città profondamente fred-da verso il fascismo. Molto del suo succes-so, al di là delle qualità personali fu dovu-to probabilmente alla sua seria ostinazionea vedere nel comune non la semplice sededi funzioni burocratiche e notarili, ma - inlinea con la dottrina dominante - una cel-lula dello Stato in grado di farsi minuscolaguida dello Stato stesso, promotore di mo-dernizzazione non solamente locale, manazionale, con la speranza di poter essereun esempio per altri comuni e, natural-

mente, far grande il regime.Ci si è soffermati così a lungo su questi ca-si, che certo non esauriscono il panoramadelle municipalità italiane sotto il fasci-smo, per sottolineare ancora una volta co-me anche in periodo fascista il rapportocentro/periferie fosse contrassegnato dareciprocità e da negoziazioni e come, an-cor più in periodo fascista, la dinamicità omeno delle amministrazioni locali nel sol-lecitare iniziative e progetti di crescita lo-cale dipendesse ampiamente dagli uominiche lavoravano nelle istituzioni municipa-li, dei podestà così come anche delle loroburocrazie. E che in definitiva una valuta-zione ponderata sul ventennio non puòprescindere da questo dato, da una fluidi-tà e da un policentrismo che non riguar-dava solo il livello centrale. Per quel che concerne la finanza locale, diportata storica è l’abolizione delle cintedaziarie (DL 20 marzo 1930) a compensarela quale però, per non compromettere legià precarie condizioni degli enti locali, siistituirono nuove imposte su alcuni generidi largo consumo (vino, carne, gas, mate-riali da costruzione). Nonostante la ten-denza accentratrice, si riconobbe inoltreche “la esclusiva sovranità tributaria dellostato poteva ben conciliarsi con l’utilità diconcedere al comune l’autonomia finan-ziaria: comunque non poteva portare l’ac-centramento nello stato di funzioni ad es-

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stette in città “all’instaurazione di un rapporto privilegiato tra partito e amministrazione che mai in pre-cedenza era stato così stretto” (M. Casasanta, Il gruppo dirigente del PNF, cit., p. 347).98 Al podestà di Genova, che ne aveva fatta richiesta, si davano informazioni sul prezzo del pane: “cal-miere pane umidità tollerata fino 31 % lire due stop umidità 28% lire due e venti” (Archivio storico co-mune di Torino, Affari gabinetto, b. 535, f. 69, 1930; al podestà di Foggia sull’imposta sul consumo di car-ni, a quello di Palermo sull’imposta del consumo di bevande, tutti riferimenti tratti dalla tesi di M. Bozzi,cit.).99 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, pp. 225-226.100 Non si può infatti dimenticare che i campi di intervento del regime, se pur in molti casi si presentanocome immagini di una modernità mancata, rappresentano comunque i canali lungo i quali sìindirizzò lamodernizzazione repubblicana, e dunque meritano la massima attenzione.

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so non necessarie, che insomma l’unifica-zione della finanza dello stato con quellalocale avrebbe reso meno agevole la vitadel primo e condotto ad un dispendio diforze per l’intervento livellatore dello statonella grande varietà di istituzioni locali”101.In via generale, il fascismo si mosse nelladirezione della limitazione della libertà diimposizione e della restrizione delle spese.Ma ciò non avvenne attraverso un inter-vento legislativo, ma attraverso il sistemadei controlli così come delineato nel 1928dalle commissioni Pironti e Berio: raziona-le classificazione degli enti locali con rela-tiva determinazione dei fini che essi avreb-bero dovuto perseguire (spese obbligato-rie e limitazione delle spese facoltative aservizi di pubblica utilità); trasferimentodi alcuni oneri dai comuni alle province eallo Stato (istruzione, viabilità, spedalità);riorganizzazione del sistema tributariosenza nuove imposte; costituzione di unfondo di integrazione dei bilanci deficitariprevia soppressione della compartecipa-zione ad alcuni tributi statali; riordino deibilanci degli enti locali e delle connesse re-sponsabilità sotto il controllo del ministe-ro delle finanze. Principi questi che il TU

sulla finanza locale del settembre 1931 so-lo in piccola parte tradusse in atto. Si deve inoltre tener conto che all’introdu-zione del sistema podestarile il fascismoaccompagnò “l’adozione di speciali ordi-namenti amministrativi nel caso di realtàmunicipali dotate di specifiche peculiarità

mostrando di volersi allontanare dal cano-ne di uniformità tipico dell’ordinamentoliberale e insieme di corrispondere a certeistanze del primo fascismo che suggeriva-no di risolvere i problemi nazionali graziead una amministrazione competente e aduna crescente specializzazione tecnica”102. Naturalmente il Mezzogiorno fu terrenoprivilegiato di questo tipo di intervento inperfetta continuità con quanto sperimen-tato nel primo ventennio del secolo e sullascia del dibattito in età giolittiana sullespeciali forme istituzionali e amministrati-ve richieste per l’amministrazione delle ca-pitali. A Napoli nell’agosto del 1925 fu in-trodotto l’istituto dell’Alto Commissario:l’organismo, dotato di personalità giuridi-ca si profilava molto simile al Regio com-missariato civile per la Sicilia del 1896, eaveva il mandato di promuovere e coordi-nare tutte le attività dirette al sollecito mi-glioramento delle condizioni economichee sociali e al riordinamento e incrementodei pubblici servizi. Esso accentrava tuttal’attività funzionale del governo ed era permolti versi affine al Governatorato intro-dotto a Roma nell’ottobre dello stesso an-no103. Senza contare che fu proprio il fa-scismo, sulla scorta della revisione territo-riale delle province attuata a partire dal1926, a privilegiare “un tecnicismo cheproponeva la legislazione e l’amministra-zione demandata ad organi decentrati re-gionali”104.Fatte salve le considerazioni sull’istituto

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101 Celestino Arena, La finanza locale, in Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione Eco-nomica, vol. V, Finanza, parte II, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1946.102 M. Giannetto, Centralismo e autonomie nella riforma fascista degli enti locali, in “Jahrbuch für Euro-päische Verwaltungsgeschichte”, 1998, n. 10, p. 141.103 “Gli amministratori di entrambi dipendevano direttamente dal ministro dell’Interno ed erano svinco-lati dalla funzione di vigilanza e tutela esercitata dal prefetto sulle amministrazioni locali, consentendo diinstaurare un ordinamento ancor più accentrato nel Ministero dell’Interno di quanto non fosse accadutonei comuni podestarili” (cfr. M. Giannetto, Centralismo e autonomie, cit., pp. 141-142).104 U. Chiaramonte, Autonomie locali e decentramento durante il fascismo, in “I sentieri della ricerca”, giu-

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podestarile e sulle “amministrazioni spe-ciali”, resta tuttavia il fatto che il principiocardine dello sSato fascista fu quello dellastatizzazione e nel settore delle municipa-lizzazioni gli effetti non tardarono a farsisentire. Pischel ricorda che durante il fa-scismo iniziò la produzione della “legisla-zione occulta” contro le aziende municipa-lizzate - così definita da Massimo SeveroGiannini - perché pur non riguardandoledirettamente andava a limitare fortementele loro capacità. In realtà il regime fascistanon fece che proseguire, naturalmente ina-sprendola, quella concezione centralistadel potere pubblico propria del periodo li-berale e presente nella stessa legge del1903. Come si è accennato, infatti, la legis-lazione sulle municipalizzazioni era natacon un duplice obiettivo, uno ufficiale, re-golamentare l’attività economica comuna-le, e un altro non palesato, aumentare ilcontrollo dello Stato sugli enti locali. L’au-mentato controllo si tradusse nell’obbligodi compiere una successione di atti tale daostacolare pesantemente le capacità di ini-ziativa economica dei comuni e delle loroaziende, con effetti molto gravi per lo svi-luppo delle municipalizzate. A questo pe-ricolo molti comuni ovviarono con un’ap-plicazione delle norme che stava “sullefrange della legalità” - secondo una felice

espressione di Giannini - sfruttando i mar-gini di movimento che la legge del 1903implicitamente accordava priva com’era diuna disciplina di sostanza e facendo ricor-so sia all’autonomia normativa e organiz-zativa sia all’autonomia negoziale. Il fasci-smo non attaccò frontalmente le munici-palizzate se non in quanto considerateespressione dei partiti democratici105 e lasua legislazione si mosse in maniera con-traddittoria: di fatto ridusse quei marginidi manovra cristallizzando il dettato dellalegge giolittiana, ma al tempo stesso operòuna serie scelte e di innovazioni nelle pro-cedure che snellirono i tempi delle muni-cipalizzazioni. Dopo i primi anni, la situazione si stabiliz-zò e furono poche le aziende comunali chescomparvero, ancor meno le nuove, maquelle esistenti riuscirono a sopravvivere.A un’indagine del 1926, dopo il periodo1915-1918 che aveva rappresentato unastasi nel movimento delle municipalizza-zioni e il suo riavvio all’indomani del con-flitto, esso risultò interessare 82 comuni(158 servizi municipalizzati) la maggiorparte dei quali centri urbani al di sopra dei100 mila abitanti quasi tutte con marginidi utile piuttosto rilevanti106. Con i RRDD 4febbraio e 30 dicembre 1923 fu soppressala Commissione reale per il credito comu-

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gno 2005, n. 1, p. 75. Gli organismi cui si fa riferimento erano i Consigli regionali dell’Economia pubbli-ca e le Amministrazioni regionali dell’Economia pubblica.105 “Adagio anche con le municipalizzazioni. Questo è un residuo del vecchio socialismo amministrativo”affermò Mussolini nel discorso dell’Ascensione (26 maggio 1927).106 Dopo aver privato i comuni di ogni margine di autonomia, non poteva permettersi di disperdere i “pa-trimoni cittadini” che aveva ereditato e si vide quindi obbligato a rinnovare, seppure a un livello molto in-feriore, persino quella lotta contro i monopoli che era una delle principali missioni delle municipalizzateindividuate da Montemartini: “Il compito assuntosi dal fascismo è la difesa delle Aziende comunali con-tro i reiterati e potenti assalti delle imprese private. Concepite da esso come organismi prettamente indu-striali se ne giova per difendere la comunità dagli eccessi delle coalizioni e degli aggruppamenti monopo-listici delle imprese private che per difetto di concorrenza vanno rapidamente formandosi in tutti i paesievoluti”.

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nale e per le municipalizzazioni. Il RD 15ottobre 1925107 raccolse poi tutta la legisla-zione in materia di assunzione diretta deipubblici servizi da parte dei comuni e del-le province. Si semplificarono le procedu-re di municipalizzazione e anche il rappor-to di lavoro delle aziende subì una impor-tante modificazione, trasformandosi dapubblicistico a contrattuale. Per altro ver-so le municipalizzate in quello stesso pe-riodo conseguono un positivo vantaggionormativo nel quadro dell’ordinamentocorporativo. Infatti, in base alla relativaLegge 3 Aprile 1926, n. 563, le municipa-lizzate ottennero il riconoscimento dellaloro personalità giuridica ai fini della sti-pulazione dei contratti collettivi di lavoroda parte della loro Federazione nazionalefascista della aziende municipalizzate (RD

3 Aprile 1927, n. 507). L’aspetto positivodi questo fatto nuovo - oltre che nella giàdetta trasformazione del rapporto di lavo-ro da pubblicistico a contrattuale - stavanella realizzazione di un organismo di co-ordinamento nazionale delle aziende chediventò anche, inevitabilmente, di difesadei loro interessi ed in definitiva dell’isti-tuto stesso della municipalizzazione108. Ingenerale, in questo periodo ci si preoccu-pò in particolar modo di disciplinare l’a-spetto sostanziale dell’attività offerta con iservizi comunali, ma nonostante le pesantirichieste degli industriali privati, il fasci-smo conservò le aziende comunali, com-prese quelle elettriche, sottoposte a unaparticolare pressione. Sull’altro piatto del-la bilancia pesavano però i processi di sta-

tizzazione: così ad esempio i servizi telefo-nici e i comuni si ritrovarono nella condi-zione di potere impiantare reti telefonicheproprie ma solo come concessionari (RD 8febbraio 1928); in materia sanitaria il co-mune fu trasformato in soggetto ammini-strato dallo Stato e perse alcuni caratteriche avevano giustificato l’affidamento delservizio alla competenza comunale. In ge-nerale tutta la legislazione a sfondo corpo-rativo trasformò l’organo gestore del servi-zio comunale in una figura quasi del tuttopriva di autonomia e costretta a compor-tarsi come operatore privato. Molti servizidivennero servizi obbligatori (nettezzapubblica), altri si trasformarono in servizidi carattere tecnico del comune (fognatu-re) o di protezione sociale, altri ancora as-sunsero il carattere di servizi igienico-sani-tari che dovevano essere esercitati dai co-muni. Di contro, servizi che avevano as-sunto il carattere di municipali o munici-palizzabili furono sottratti alla disciplinagenerale delle municipalizzazioni e affidaticon atti normativi speciali a organismianomali (centrale del latte, aziende agrico-le comunali, aziende di turismo, enti co-munali di consumo, delle case popolarissi-me, ecc.).Un ultimo punto di rilievo da ricordareparlando del rapporto centro/periferie inperiodo fascista è certamente quello dellevariazioni territoriali dei comuni. Già la le-gislazione crispina, conferendo al governola facoltà di modificare le circoscrizioni co-munali, aveva previsto l’accorpamento deipiccoli comuni nell’intento di sottrarli agli

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107 Testo Unico 2578 del 1925.108 In definitiva, le norme del 1923 e del 1925 non rappresentarono un grosso mutamento: con l’elimina-zione della commissione reale i poteri in materia di municipalizzazioni furono concentrati nelle mani deiprefetti e delle GPA; il referendum fu mantenuto ma solo se alla proposta di municipalizzazione si fosseopposto almeno un ventesimo degli elettori comunali o un terzo dei consiglieri in carica. Il potere di as-sunzione diretta fu esteso anche alle province.

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interessi di fazioni locali e la distinzione tragrandi e piccoli. Il successivo progetto Ru-dinì sulla divisione dei comuni in classi,consorzi di comuni, referendum non andònemmeno in discussione per la caduta delgoverno presieduto dallo stesso marchesesiciliano. Con il fascismo si registrarononotevoli innovazioni nella normativa inmateria di variazioni territoriali per favori-re sia la riunione volontaria dei comuni siala formazione di consorzi per la gestionedei pubblici servizi109. Riprendendo la pro-cedura prevista dalla legge comunale eprovinciale del 1915 (art. 119), il decretodel ’23 (all’art. 8) stabiliva che poteva esse-re dato o ampliato il territorio esterno diun comune qualora fosse dimostrata l’in-sufficienza di esso in rapporto all’impian-to, all’incremento o al miglioramento deiservizi pubblici o risultasse che l’insuffi-cienza fosse di impedimento allo sviluppoeconomico del comune. Analoga facoltà diampliamento veniva data nel caso in cui leopere portuali, marittime fluviali o lacualidovessero estendersi oltre il territorio delcomune. All’ampliamento si provvedevacon l’aggregazione di comuni conterminio, quando fosse necessario, con il distaccoda essi della parte di territorio ritenuta suf-ficiente per l’esecuzione delle opere o pergli impianti, i servizi o le industrie rispon-denti all’importanza di efficienza del portoo degli stabilimenti pubblici e per l’incre-mento economico. Quanto alle variazioni

territoriali coattive, anche qui i passi avan-ti furono notevoli e in direzione ben diffe-rente da quella della legislazione prece-dente: l’elemento determinante non erapiù quello della esiguità della popolazioneo della mancanza di mezzi per sostenere lespese comunali, ma la necessità di espan-sione. L’interesse pubblico che veniva alcentro non era più l’eliminazione dei co-muni piccoli o piccolissimi privi di vitalità,ma l’accrescimento di quelli che dimostra-vano necessità di sviluppo (principio ana-logo all’espropriazione per pubblica utili-tà). Ovviamente si ponevano limiti che dis-incentivano l’eventuale esasperazione delleespansioni territoriali: la necessità dell’ap-provazione definitiva dei progetti, l’aggre-gazione solo in caso di necessità, il distac-co di territorio solo nella porzione ritenu-ta sufficiente110. Tuttavia l’elemento dimaggiore e dirompente novità connesso al-la questione delle variazioni territoriali sitrova nel TU della legge comunale e pro-vinciale del 1934. Qui, per la prima volta,un intero capo (il primo del titolo II “Il Co-mune”) è dedicato al territorio. Esso è ri-conosciuto ufficialmente come elementocostitutivo del comune sia pure come ele-mento secondario e derivato rispetto ai fe-nomeni naturali e sociali che lo determina-no (popolazione e risorse economiche) etutte le norme (8 articoli) sono dedicate al-le variazioni territoriali. Con queste normeil territorio è trattato come elemento giuri-

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109 RD 30 dicembre 1923 per la riforma della legge comunale e provinciale.110 Diverso il carattere delle norme contenute nel RD 17 marzo 1927 con cui si dava la possibilità al go-verno entro due anni dalla data di entrata in vigore di procedere a una revisione generale delle circoscri-zioni comunali. Tale legge molto spesso causò difficoltà in sede di applicazione oltre a disagi e lotte tra nu-clei comunali accorpati ma eterogenei, impossibilità di estendere alle frazioni tutti i servizi (specie sanitàe igiene pubblica) che finivano per restare appannaggio solo del centro maggiore. A correttivo di questedifficoltà venne l’intervento del MI che con circolare del 1929 raccomandò la cura secondo criteri di rigo-rosa uniformità degli interessi anche delle frazioni e consigliò la creazione di delegazioni comunali e di uf-fici di stato civile almeno nelle frazioni più importanti (M. Troccoli, Le variazioni territoriali dei comuni,in I comuni, cit., p. 158).

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dico, ma anche come elemento naturale edi fatto: aumentando o diminuendo il ter-ritorio il comune stesso aumenta e dimi-nuisce, non resta cioè modificato in ciò cheha ma in ciò che è, nella sua essenza.

3. Gli anni della Repubblica: sistema delleautonomie e sviluppo locale

Una prima necessità che si pone, per par-lare del tema delle autonomie locali e del-lo sviluppo locale negli anni della Repub-blica, è di definire una prima ipotesi di pe-riodizzazione di una fase storica lunga or-mai un sessantennio, solcata da numerosipunti di svolta e trasformazione.Si tratta a nostro avviso di un passaggioobbligato, tanto più necessario quanto piùci si intenda interrogare sui cambiamentiistituzionali che stanno investendo attual-mente la dimensione locale. Come è statoinfatti sottolineato, l’analisi delle istituzio-ni locali e del loro attuale funzionamentomostra infatti difficoltà crescenti: “non èchiaro il senso e la portata dei mutamentidella società e dei relativi attori, né la rela-zione con lo sviluppo economico locale eneppure l’assetto istituzionale che, a regi-me, dovrà stabilirne le forme e delinearnel’organizzazione”111. Difficoltà del tuttocomprensibili, amplificate dalla mancanzadi un percorso di riflessione che, attraver-so il gioco di chiaro-scuro tra passato epresente, permetta di cogliere con preci-sione la natura dei cambiamenti istituzio-nali che hanno caratterizzato le vicendedell’Italia repubblicana.Va subito detto che per gli scopi di questarelazione non è possibile fare ricorso, se

non in chiave molto generale, alle perio-dizzazioni utilizzate dagli storici economi-ci e contemporanei, che ovviamente han-no messo a punto i propri schemi cronolo-gici in relazione ai fenomeni (politici, eco-nomici, sociali) che intendevano interpre-tare. Per avvicinarsi alla questione del de-centramento istituzionale, in relazione alproblema dello sviluppo locale, è dunquenecessario ipotizzare una nuova grigliacronologica, capace di dare conto delle ef-fettive scansioni dei fenomeni.Schematicamente, con alcuni margini diprovvisorietà soprattutto per gli anni cheseguono l’attivazione delle regioni (perio-do quasi del tutto inesplorato dagli studistoriografici), potremmo così definire cin-que grandi fasi:1. Fase costituente (1943-1948): il proble-ma delle autonomie è in primo piano al-l’interno del dibattito politico nazionale,saldandosi strettamente con i diversi pro-getti di riassetto dello Stato italiano.2. Lunga stagnazione “centrista” (1948-inizio anni ’60): è il periodo della “Costi-tuzione dimenticata” (non solo nel campodegli assetti istituzionali); le scelte costitu-zionali di decentramento non solo non so-no applicate, ma scompaiono addiritturadall’agenda dei governi italiani.3. Stagione del riformismo (primi anni ’60-1972): il riformismo sociale si salda ai temidella programmazione economica, dellademocratizzazione politica, e della defini-tiva realizzazione delle forme di decentra-mento/autonomia previste dalla Costitu-zione, con l’attivazione delle regioni e lariscrittura di alcuni dei cardini più impor-tanti del rapporto centro/periferia112.4. Quindicennio che segue l’attivazione

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111 M. Cammelli, Le autonomie tra sistemi locali e reti, cit., p. 9.112 Si pensi ad esempio a una cosa apparentemente formale, ma dal grande impatto sostanziale: il passag-gio dalla tutela prefettizia sugli atti dei comuni al vaglio del Comitato regionale di controllo.

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delle regioni e che si estende sin verso la fi-ne degli anni ‘80, quando maturano nuoveipotesi di riforma dei termini del decentra-mento istituzionale (1972-1989).5. Dopo la 142: nuova stagione di riforme(in cui sono incorporati processi ancora vi-vi nella cronaca: la Bicamerale, la modificadel titolo quinto operata dal centro-sinistra,la riforma costituzionale del governo Berlu-sconi).

Dopo la seconda guerra mondiale la que-stione del decentramento istituzionale en-tra in una nuova e intensa fase di discus-sione. Anzi, più che dopo, già durante glianni di guerra, con le esperienze delle “Re-pubbliche partigiane”113 e con l’attività deipartiti antifascisti, i quali, dopo l’8 settem-bre 1943 iniziano a tratteggiare le proprie

ipotesi di riforma strutturale dello Stato114.Un rapporto, quello tra idealità resisten-ziali e tensioni autonomistiche, assai stret-to, ma mai sufficientemente sottolineato115.Quali sono gli snodi che caratterizzanoquesto periodo? Il primo, e più importan-te, è rappresentato dal profondo cambia-mento politico e istituzionale che si pro-duce tra il 1943 e il 1948: la sconfitta delladittatura fascista, la dissoluzione del ruolodella monarchia, l’impianto dei partiti po-litici di massa (che nell’opposizione alladittatura e nella guerra di liberazione ac-quisiscono quell’autorevolezza che avreb-be loro consentito di prendere in mano lesorti della nazione), la costruzione di un si-stema democratico parlamentare, la defi-nitiva sanzione del suffragio universale e lapromulgazione della Costituzione.

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113 La bruciante esperienza della guerra di liberazione, che avrebbe reso impraticabile un’eventuale “ri-conversione di pace” dell’ideologia fascista, si riverberò infatti anche sul terreno politico-amministrativo.Emblematica fu infatti l’attività che il movimento di liberazione sviluppò nelle cosiddette “zone libere”,dove si tentò di abbinare all’azione militare un parallelo processo di democratizzazione imperniato sul-l’autogoverno e sulla creazione di un’amministrazione civile che, pur con tutti i limiti causati dall’insuffi-ciente ramificazione dei CLN e dei partiti politici, potesse divenire un interlocutore credibile per gli allea-ti angloamericani.114 Ancora prima della fine del conflitto, infatti, si era fatta strada nel ceto di governo, e in particolare ne-gli ambienti tecnicamente più avvertiti, la consapevolezza che i profondi rivolgimenti politici, istituziona-li e civili associati alla caduta del regime fascista e all’imminente conclusione delle operazioni belliche, ren-devano possibile e forse necessario un incisivo intervento sul disegno complessivo delle istituzioni e del-l’amministrazione pubblica italiane. Si trattava della necessità di teorizzare un nuovo modello istituziona-le che colmasse il vuoto lasciato dal brusco e repentino crollo del sistema di potere fascista e rendesse pos-sibile una svolta istituzionale e politica di portata copernicana: netti, diffusi e condivisi erano infatti il sen-timento e la volontà di sancire un’effettiva discontinuità con il precedente regime e con la sua intelaiatu-ra istituzionale, sociale, politica ed economica. Era una necessità che, per molti motivi, si coniugava allaforte contrapposizione politica che le forze antifasciste manifestavano nei confronti dell’esperienza fasci-sta. L’appartenenza e la comune esperienza antifascista, resistenziale e ciellenistica divennero uno straor-dinario collante per la tenuta di una proposta politica coordinata, la quale, pur nel quadro di notevoli dif-ficoltà strategiche, assunse tratti e caratteristiche di unitarietà e condivisione. Già nel 1944, pertanto, ilpresidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, aveva affidato a Ugo Forti, giurista di fama, la presidenza di unaCommissione per la riforma dell’amministrazione pubblica, cui era stato delegato il compito di elaborare,rimanendo tuttavia su un terreno squisitamente tecnico, un piano organico di riforma amministrativa, lacui attività si sarebbe poi saldata a quella della Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione del-lo Stato - sempre presieduta da Forti - istituita all’interno del Ministero per la costituente.115 Claudio Pavone, Autonomie locali e decentramento nella Resistenza, in Massimo Legnani (a cura di),Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, Bologna, Il Mulino, 1975.

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In questo quadro d’insieme, che sembre-rebbe costituire una cornice adeguata peril ripensamento di un telaio istituzionaleche vede l’autonomia locale fortementecompressa dallo Stato centrale, si debbo-no segnalare due processi importantissimiche avranno un peso rilevante nelle suc-cessive vicende del decentramento istitu-zionale, del ruolo giuridico attribuito alleistituzioni locali nel nuovo tessuto istitu-zionale (e dunque delle potenzialità di in-tervento loro concesse nel campo delle po-litiche di sviluppo locale), ma anche delleopportunità concrete di “conquistare”spazi inediti di intervento, normativamen-te non previsti quando non impediti, che igoverni locali si troveranno di fronte neglianni dell’immediato dopoguerra.Tali processi sono rappresentati dall’As-semblea Costituente e dal processo di ri-costruzione del paese: la prima permettealle forze politiche di mettere mano allarevisione dei meccanismi organizzatividello Stato e di definirne gli assetti futuri;il secondo, nel concreto operare per la ri-costruzione materiale, diviene anche unasorta di “banco di prova” per sperimenta-re - in alcune aree territoriali - modalitàinedite di concepire il ruolo delle istituzio-ni locali e, soprattutto, sostanzialmentedifformi dagli assetti giuridici sanciti dallaCostituzione repubblicana e della legisla-zione ordinaria116.

Dal dibattito tra le forze politiche presen-ti alla Costituente emerge un quadro dicontrapposizioni talora sostanziali: unodei punti di massima divaricazione riguar-da la natura da attribuire al processo di va-lorizzazione (e rivitalizzazione dopo laparabola fascista) delle istanze istituziona-li locali (che pure è obiettivo condiviso).Scartata sin da subito (con un compro-messo preventivo) qualsiasi ipotesi di solu-zione federale (che avrebbe comportato lanegoziazione dei rispettivi margini giuri-sdizionali tra Stato ed enti decentrati; ipo-tesi sostenute in alcune aree del paese daimovimenti autonomistici117), il dibattito sipolarizza sostanzialmente su due fronti: sideve realizzare un processo di decentra-mento amministrativo (e per ciò stesso in-quadrato in un contesto di attribuzione difunzioni delegate all’interno di una com-pagine statuale accentrata) o dare luogo aun vero e proprio decentramento politico(autonomia, cioè, che avrebbe comportatol’attribuzione di effettiva potestà politica elegislativa)?Due fronti su cui si innestano le numeroseposizioni emerse nei lavori dell’Assem-blea, che oscillano tra i diversi gradi inter-medi tra l’uno e l’altro polo, e ancora allaricerca di una definizione degli effettivisoggetti su cui “costruire” il nuovo telaiodelle istituzioni locali118.In realtà, il dibattito della Costituente, più

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116 Si tratta di un aspetto importante delle nostre considerazioni, perché ci consente di inquadrare le no-stre riflessioni sul concreto operare delle istituzioni all’interno di uno schema che tiene insieme sia la di-mensione formale dell’analisi (il quadro normativo di competenze entro cui operano) sia quella sostanzia-le (le politiche realmente prodotte).117 Si veda al riguardo l’antologia curata da Claudia Petraccone, Federalismo e autonomia in Italia dall’U-nità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1995, in particolare la parte quarta, Dall’indipendentismo siciliano al fe-deralismo leghista; sul separatismo siciliano si veda Giuseppe Carlo Marino, Storia del separatismo sicilia-no, 1943-1947, Roma, Editori Riuniti, 1979.118 Si insiste su quest’ultimo punto perché alcune di queste posizioni rappresentano un fattore costantedel dibattito sull’organizzazione istituzionale italiana sviluppatosi dal momento dell’unificazione sino atempi molto recenti. La paventata soppressione dell’amministrazione provinciale (come pure la limitazio-

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che incentrarsi sul problema concreto del-le autonomie (reso peraltro molto vivo dalfatto che i comuni italiani si trovano forzo-samente in prima linea nell’emergenza del-la ricostruzione), finisce in fretta per inca-nalarsi nel cul de sac della discussione delprogetto regionalista di Gaspare Ambrosi-ni, esponente della DC e rappresentante dispicco degli ideali autonomistici propri delpopolarismo sturziano119. Il dibattito è ser-rato, e vede progressivamente cambiare(anche in modo sostanziale) le posizionidelle diverse forze politiche120, sino alla ra-tifica di una soluzione di compromesso na-ta però già esausta, e soprattutto svuotatadi ogni capacità di innovazione del tessutoistituzionale italiano.Quando ciò avvenne, peraltro, le stesseforze politiche che l’avevano sostenuta ocombattuta, avevano sostanzialmente mu-tato le proprie posizioni. Gli uni, i comu-nisti, si sarebbero convinti, radicati ormainella propria “marginalità” politica regio-nale, della straordinaria importanza deldecentramento regionale (che cominciaro-no di lì a poco a sostenere con fervore econvinzione). Gli altri, i democristiani, re-sisi conto della reale forza elettorale di cuipotevano disporre, blandirono invece la

proprie convinzioni sul decentramento,facendosi interpreti di una politica più“consona”, per così dire, a una forza mo-derata che governava il paese con quasi il50 per cento dei consensi.In questa fase il paese sembra però mar-ciare con due passi diversi: mentre infatti,da una parte, nella Costituente, si svilup-pava il dibattito sui futuri assetti istituzio-nali in, l’attività legislativa dei governi diunità nazionale realizzava un affrettatoquanto pasticciato ripristino della norma-tiva preesistente; una sanzione di continui-tà che tanto sul piano formale che sostan-ziale non cambiava granché gli equilibri ri-spetto alla legge comunale emanata in etàliberale (1915), successivamente ripresa eadattata a uno Stato autoritario da partedel fascismo (1934).Non vanno certamente sottostimati i nettisegnali di discontinuità e di rinnovamentoche vengono introdotti (come ad esempiola reintroduzione della elettività delle cari-che in un contesto democratico e di suf-fragio universale e il ritorno al normalefunzionamento democratico di giunte econsigli), ma non si può sottacere che lanascita della vita repubblicana non è ac-compagnata dall’esplicita sanzione di una

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ne o l’amplificazione del suo ruolo) è forse uno degli elementi più ricorrenti di tale dibattito, senza peral-tro dimenticare come il tema del regionalismo (e del federalismo) - ancora oggi tutt’altro che sopito - ap-prodi nei lavori della Costituente sull’onda quasi secolare di proposte, studi e ideali che affondano le pro-prie radici nel pensiero di Carlo Cattaneo e Marco Mighetti.119 Va sottolineato come lo stesso Sturzo, escluso dall’Assemblea Costituente, possa fare sentire la propriavoce proprio attraverso il progetto di Ambrosini, a lui strettamente legato sul piano umano e politico, sucui esercita profonde influenze circa i criteri e i contenuti della proposta.120 Schematicamente, possiamo affermare che la maggiore contrapposizione è quella che si verifica tra laDemocrazia Cristiana e i partiti di ispirazione marxista, inizialmente “sospettosi” verso il progetto di de-centramento regionale, che contrastava con la loro visione di uno Stato centrale “forte”, cui faceva da co-rollario un sistema di autonomie locali (imperniato per lo più, almeno nella visione comunista, sul ruolodei comuni) che avrebbero dovuto divenire le cellule primarie del sistema istituzionale. Va però detto chetutta la strategia togliattiana in materia è condizionata pesantemente dal timore per ogni riforma costitu-zionale (tra cui le regioni) che introduca organismi estranei al controllo diretto di una volontà popolareunitaria (e quindi nazionale) organizzata dal momento-partito (che è il terreno su cui il PCI, in questi an-ni, profonde il suo massimo sforzo).

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nuova legge comunale e provinciale, laquale, per il suo oggetto e la sua stessa na-tura rappresenta la legge del rapporto trala società e lo Stato; la legge che ogni nuo-vo regime politico si dà in funzione delcollegamento che intende stabilire con lacomunità nazionale diffusa sul territorio.Al punto - come ha osservato Ettore Ro-telli - che ciascuna legge comunale e pro-vinciale qualifica il sistema politico-istitu-zionale al quale appartiene121.Tali indicatori di discontinuità non sonotuttavia tali da compensare la persistenzadell’intima natura della legislazione che di-sciplina le autonomie locali122.Le difficoltà della ricostruzione - la ricercadelle cui soluzioni è addossata in primabattuta proprio ai governi locali - rappre-sentano però il “fatto nuovo” di questi an-ni, l’evento che produce una sempre piùmarcata divaricazione tra l’impianto nor-mativo del decentramento e la realtà con-creta, che vedrà i governi municipali, incerti casi anche intenzionalmente, sempre

più attivi nel sostenere i processi di cam-biamento e di sviluppo.Dopo la seconda guerra mondiale il gover-no municipale assume via via nuove prero-gative rispetto all’età liberale e fascista, chesi esplicitano in una sempre più ampia emarcata presenza in ogni settore della vitapubblica. Chiamata a rispondere ai biso-gni della ricostruzione, o sospinta ad assu-mere un più preciso rilievo politico (abbi-nato all’allargamento dello spettro del pro-prio campo d’azione) così come auspicatodai partiti della sinistra123, l’amministrazio-ne comunale “cambia pelle”, amplia gliàmbiti del proprio intervento e si apprestaa divenire soggetto attivo nell’imminenteprocesso di sviluppo economico. Si trattadi una condizione caratteristica dei “rossi”comuni emiliani (così come di quelli tosca-ni, anche se con sfumature a nostro avvisorelativamente differenti), ma che è possibi-le ritrovare - mutatis mutandis - anche inaltre zone del nord Italia caratterizzate dadifferenti egemonie politiche124.

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121 E. Rotelli, Il martello e l’incudine. Comuni e Province fra cittadini e apparati, Bologna, Il Mulino, 1991,p. 169. Rotelli segnala con insistenza questa anomalìa, mostrando come nella storia dell’Italia unita a ognicambiamento di regime politico si sia accompagnata l’emanazione di una nuova legge comunale e pro-vinciale (1865 - unificazione del Regno in uno Stato monoclasse; 1888 - trasformazione in uno Stato plu-riclasse; 1915 - avvento della sua natura liberal-democratica; 1934 - adattamento a uno Stato autoritario).Solo nel 1990 la Repubblica democratica viene a finalmente a disporre della sua specifica legge comuna-le e provinciale. Vi è tuttavia da osservare che nella storia d’Italia l’emanazione di ogni nuova legge co-munale e provinciale corrisponde alla ratifica normativa di una situazione di fatto già maturata. Se mai puòapparire epidermicamente bizzarro (ma il tema è ancora tutto da esplorare) il grande ritardo con cui sigiunge alla 142/1990, almeno se comparato ai tempi delle precedenti riforme.122 Che continua infatti a essere ispirata a criteri di accentramento, tenuto in vita dal rigido sistema deicontrolli, dall’attribuzione di competenze scarse e residuali alle rinate province e da un ordinamento del-la finanza locale che ancora la imbriglia nelle maglie di quella statale.123 Possiamo citare come emblema di questa intenzionale propensione a mutare - in quantità e qualità - lanatura del ruolo del governo locale il pensiero di Giuseppe Dozza, tra i più attenti esponenti comunisti alproblema delle autonomie locali negli anni della ricostruzione. Cfr. G. Dozza, La politica municipale deicomunisti, in “Rinascita”, 1947, n. 5 (ora in I comunisti in Emilia-Romagna. Documenti e materiali, a curadi Pier Paolo D’Attorre, Bologna, Graficoop, 1981). Sull’attività dell’amministrazione Dozza cfr. LucaBaldissara, Per una città più bella e più grande. Il governo municipale di Bologna negli anni della Ricostru-zione (1945-1956), Bologna, Il Mulino, 1994.124 Carlo Trigilia, Grandi partiti e piccole imprese. Comunisti e democristiani nelle regioni a economia dif-fusa, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 180 ss.; E. Rotelli (a cura di), Tendenze di amministrazione locale nel

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Il comune - là dove ricorrono determinatecircostanze - diviene così sempre più sog-getto partecipe alla crescita economica e alcambiamento sociale del territorio ammi-nistrato, attraverso politiche che intenzio-nalmente si pongono l’uno come l’altroobiettivo. Ma non solo: il “comune dei cit-tadini” (per mutuare una terminologiadella vulgata politica dell’epoca) inizia afarsi carico di nuove mediazioni, differen-ti da quelle svolte nell’Italia delle élites edel notabilato, immerso in un sistema direlazioni sociali e politiche sempre più ra-mificato. Il modello di rapporti tra centroe periferia che inizia a delinearsi agli albo-ri dell’età repubblicana appare infatti sem-pre più articolato, configurando strette re-lazioni tra i governi locali e un orizzontecomunicativo/relazionale più vasto, il qua-le, oltre all’ordito istituzionale dello Stato,fa riferimento soprattutto al sistema deipartiti di massa, divenuti essi stessi impor-tanti soggetti di mediazione, comunicazio-ne e relazione tra centro e periferia.Si potrebbe quindi aggiungere che, al di làdi quelli che sarebbero stati gli esiti del di-battito costituzionale, la vera innovazioneche si produce nel quinquennio 1943-1948 è rappresentata dalla straordinarietàdella congiuntura postbellica, che “chia-ma” prepotentemente in causa le istituzio-ni locali125 addossando loro, sul concretoterreno dell’emergenza, questioni del tuttoesorbitanti la sfera delle loro “competen-ze”. Provocatoriamente, si potrebbe osser-vare che si tratta di un processo di “de-centramento” di fatto; una sorta di con-

quista “sul campo” delle funzioni di go-verno dettata da una congiuntura partico-lare cui si associa la relativa debolezza del-lo Stato centrale: due condizioni che la-sciano aperti spazi, e che i comuni gover-nati da determinate forze politiche (strate-gicamente orientate in una certa direzio-ne) iniziano progressivamente a “occupa-re”.Ma quali forme concrete assume questa“conquista sul campo”? Quali sono glistrumenti con cui i comuni interpretanoquesto loro ruolo? Quali i bisogni che in-tendono soddisfare?La risposta a tali quesiti, per brevità diesposizione, non può che essere schemati-ca: nel primo decennio post-bellico le gra-vi emergenze della ricostruzione chiamanoi comuni italiani a un intervento a “tuttocampo” (dai lavori pubblici per ammortiz-zare la disoccupazione alla richiesta di sus-sidi per cure sanitarie; dalla richiesta di al-loggi alla riparazione delle opere igienichecittadine); una situazione che pone i singo-li governi locali di fronte a un bivio: accet-tare la “sfida” posta dalle circostanze sto-riche (che comporta elevati investimenti inprotagonismo e innovazione politica), op-pure imboccare una strada apparentemen-te meno rischiosa e non impegnare l’am-ministrazione locale oltre i limiti di ciò chele è imposto dalla normativa (percorso chenon comporta particolari investimenti, eche è giustificabile sul piano formale comerispetto delle funzioni meramente “ammi-nistrative” dell’ente locale).Alcuni studi che hanno indagato la con-

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dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1981 (il volume è il primo studio organico sui comuni negli anni della ri-costruzione; vi figurano analizzati i governi locali di Milano, Pavia, Trento e Andria, oltreché un’indaginecomparativa tra le politiche scolastiche dei comuni di Torino e Trento); L. Baldissara, Poteri locali delNord-Est. Municipalità e finanza locale a Modena e Padova (1930-1960), in “Rassegna di storia contempo-ranea”, 1997, n. 1.125 Diversi saranno i gradi di “risposta”, ma questo attiene più alla concreta fenomenologia che non allatendenza generale.

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creta attività dei comuni “rossi” emilianinel periodo della ricostruzione126 (è questoforse l’unico contesto regionale italiano dicui si possa disporre, per questo periodo,di una sufficiente letteratura storica), mo-strano che la “sfida” viene raccolta, e che igoverni comunali intendono farsi caricoattivamente dei problemi attraverso un’a-zione politica ad alta innovazione (nel sen-so che “sconfina” su terreni normativa-mente estranei all’attività dei comuni, o al-meno al modo con cui essa viene pratica-ta) che è tuttavia costantemente in rotta dicollisione con le istituzioni centrali.I cardini concreti di queste politiche - con lacui realizzazione le forze politiche che gui-dano le istituzioni locali intendono realizza-re un obiettivo duplice: a) legittimarsi comeforza capace di governare la “cosa pubbli-ca”; b) sostenere la ripresa/crescita econo-mica come sistema diretto per migliorare lecondizioni di vita dei ceti popolari che rap-presentano il loro interlocutore sociale - sipossono riassumere nel modo seguente:1. Realizzazione di una politica fiscale lo-cale127 che corrisponda a quattro obiettividi fondo: a) criteri di equità e progressivi-tà (spostamento del carico tributario dalprelievo indiretto a quello diretto e patri-moniale); b) sostegno all’“industria dellaricostruzione” e al sistema produttivo ingenere (attraverso esenzioni parziali o to-tali dal pagamento del dazio di consumoper alcune tipologie di materiali utilizzati,in senso lato, in campo edilizio); c) soste-

gno alla domanda dei ceti medi e popolari(introduzione dell’esenzione dal pagamen-to dell’imposta di famiglia per un’ampiaquota di cittadini, già beneficiati dalla di-minuzione delle imposte indirette); d)creazione di un sufficiente bacino di ali-mentazione dei bilanci comunali (uscitistremati dal quinquennio bellico e voracidi nuove risorse finanziarie per sosteneregli oneri della ricostruzione) imperniatoperò sulla tassazione dei redditi più eleva-ti e dei patrimoni (immobiliari e terrieri).2. Costruzione/ricostruzione di beni pub-blici strettamente necessari per la ripresaeconomica e per l’assestamento delle con-dizioni di vita materiale di paesi e città. Ri-entrano in questa categoria gli interventi -e sono numerosi - per il ripristino del fun-zionamento di mercati bestiame, mercatiortofrutticoli e macelli (beni pubblici fon-damentali per consentire ai sistemi econo-mici locali una più rapida ripresa dell’atti-vità) come pure per la riattivazione di si-stemi fognari e acquedotti. Accanto a que-sti interventi - cui normalmente corrispon-de l’ampliamento delle vecchie sedi o l’a-deguamento tecnologico delle strutture -va segnalata l’opera diffusa di rifacimentodelle infrastrutture viarie (o nel caso delleamministrazioni provinciali della rete diferrovie secondarie in concessione) e deiprimi progetti di loro potenziamento.3. Prima ideazione di una vera e propriapolitica scolastica, costantemente sviluppa-ta nel corso degli anni, sino a divenire uno

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126 L. Baldissara, Per una città più bella e più grande, cit.; S. Magagnoli, Tra dopoguerra e ricostruzione. Lepolitiche amministrative del comune di Castel Maggiore (1946-1956), Modena, Mucchi, 1994; Id., Zola Pre-dosa: dall’agricoltura all’industria. Politiche istituzionali e sviluppo economico nel secondo dopoguerra, Zo-la Predosa, Comune di Zola Predosa, 2004; Alberto Rinaldi, Distretti ma non solo. L’industrializzazionedella provincia di Modena (1945-1995), Milano, Franco Angeli, 2000; Id., La sinistra e l’industria diffusa:il ruolo delle istituzioni locali, in P.P. D’Attorre e Vera Zamagni (a cura di), Distretti, imprese, classe ope-raia. L’industrializzazione dell’Emilia-Romagna, Milano, Franco Angeli, 1992.127 Obiettivo di grande rilievo, ove si tenga conto che negli stessi non vi è traccia di analoghe politiche daparte dello Stato nazionale; cfr. Mario G. Rossi, Il problema storico della riforma fiscale in Italia, in “Italiacontemporanea”, 1988, n. 170.

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dei punti qualificanti del progetto di go-verno del sistema delle autonomie localidella regione128. Tale politica, nel primo de-cennio post-bellico, offre risposte sia alleesigenze di formazione primaria (obiettivoancora tutto da conseguire, specie nellearee rurali, e cui si offre risposta con la dif-fusione capillare dell’edilizia scolastica:spesso edifici “monoaula” che riescono pe-rò a “catturare” la dispersione degli alunni)sia a quelle di formazione tecnica (riattiva-zione degli istituti professionali, ove esi-stenti, e “sperimentazione” di alcune nuo-ve possibilità quali i “cantieri-scuola”129.Tutto ciò, ovviamente, avviene all’internodella stringente logica dell’emergenza, cherappresenta il vero “motore” decisionaledi questa fase. Si tratta perciò di provvedi-menti che rispondono più a fattori “ester-ni” che non “interni” alla volontà politicadelle istituzioni, i motivi delle cui scelteappaiono largamente condizionati da cir-costanze che inibiscono ogni possibile ipo-tesi di pensare prima ancora di strutturareuna vera e propria strategia politica.Difficile scorgere in questi anni un’inten-zionalità progettuale da parte delle istitu-zioni locali, alle prese con una congiuntu-ra particolarmente difficile. Eppure, è pro-prio in questo primo quinquennio, in ungioco continuo di approssimazioni succes-sive, che le istituzioni locali definisconocon sempre maggiore precisione un veroprogetto di governo locale, dall’orizzonte

temporale esteso e in grado di acquisireun’esplicita fisionomia all’interno di unastrategia politica più complessiva di tra-sformazione della società.In questo primo quinquennio di emergen-za, in altre parole, gli amministratori dan-no luogo a politiche d’immediata rispostaalle emergenze, che permettono loro di"imparare facendo”: da un lato, colmandole proprie lacune tecniche in materia am-ministrativa (un problema che viene ini-zialmente affrontato con un’azione di sup-porto/formazione da parte del partito co-munista e in parte da quello socialista e de-gli amministratori dei comuni capoluogonei confronti di quelli “periferici”); dall’al-tro, iniziando a tratteggiare l’ossatura diuna strategia di governo della società checoniughi pragmatismo e ideologia, defi-nendo, in questo processo di learning bydoing, la propria identità di partito co-struttore di alleanze, capace di individuareistanze progressivamente sempre più com-plesse di saldatura del blocco sociale rin-novatore e di allargare - proprio per questofine - il ventaglio delle politiche concrete,specifiche, di settore, senza smarrire la co-scienza del progetto di trasformazione130.Queste considerazioni sono tanto più vere(e verificabili) nelle aree più direttamentecolpite dalla permanenza del fronte, e in-vestite dall’onda lunga di una conflittuali-tà sociale particolarmente acuta. In questerealtà, le istituzioni locali conquistano la

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128 S. Magagnoli, Scuola, cultura e società: un modello integrato di “welfare culturale”, in Id., Nora LilianaSigman e Paolo Trionfini (a cura di), Democrazia, cittadinanza e sviluppo economico. La costruzione del wel-fare state a Modena negli anni della Repubblica, Roma, Carocci, 2003.129 Si tenga conto che sono proprio i cantieri-scuola a rappresentare una delle esperienze più pregnantidel dopoguerra modenese. Ideati e finanziati dal comune l’anno precedente l’emanazione della legge264/1949, diventano uno degli strumenti più efficaci per la formazione/riqualificazione della manodope-ra e per il parziale assorbimento della disoccupazione. Cfr. S. Magagnoli, Modena sociale. Le politiche delComune per costruire benessere e solidarietà (1945-1995), Comune di Modena-Progetto Europa, 1999.130 P.P. D’Attorre, I comunisti in Emilia-Romagna nel secondo dopoguerra: un’ipotesi di lettura, in I comu-nisti in Emilia-Romagna, cit., p. 14.

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propria autorevolezza non solo attraversole politiche che producono interventi con-creti, ma anche con la capacità di propor-si come soggetto di mediazione nei conflit-ti sociali e del lavoro, finendo così per es-sere percepita dagli altri attori locali comeil soggetto - l’istituzione - in grado di im-pedire il precipitare della situazione, e diripristinare una situazione di equilibrio.Tentando di schematizzare gli aspetti rile-vanti di questa fase (su cui è necessario in-sistere perché è in questo quinquennio chevengono adottate le scelte, e non solo nelcampo dell’organizzazione istituzionale,che avrebbero caratterizzato la vita dellanazione nei successivi decenni), potrem-mo affermare quanto segue:- La Costituzione introduce un modello diregione che, sebbene sostanzialmente di-midiato nella sua reale natura autonomisti-ca rispetto alle proposte originarie, avreb-be dovuto rappresentare una leva suffi-cientemente robusta per invertire la ten-denza secolare dell’accentramento, e costi-tuire il perno fondamentale di un sistemadelle autonomie elevato al rango effettivodi governo.- Parallelamente, però, il legislatore rein-troduce le norme che disciplinavano ilrapporto centro/periferia nei precedentiregimi, con la sola correzione dell’elettivi-tà delle cariche, condizione non sufficien-te per sancire, da sola, una reale attribu-zione di autonomia.- Una novità è invece rappresentata dal-l’impianto dei partiti politici di massa al-l’interno del sistema democratico, i qualiramificano la propria presenza e, in molticasi, danno luogo a un modello di relazio-ni centro/periferia che fuoriesce dagli

schemi istituzionali codificati.- La ricostruzione diviene, invece, il fattoreesogeno che “incentiva”, per così dire, leistituzioni locali a quel crescente protago-nismo che si traduce nella “crescita” deimargini del suo intervento; questa con-giuntura - in determinate aree territoriali -si salda senza soluzione di continuità ai pri-mi effetti del boom economico, quando ilsistema produttivo locale, per soddisfare lacomparsa di nuove esigenze (abitazioni,aree per gli insediamenti industriali, infra-strutture di comunicazione, servizi sociali escolastici, ecc.), dirige le proprie richiesteproprio verso quelle istituzioni che - af-frontando l’emergenza - hanno conquistato“sul campo” autorevolezza, intraprenden-za e capacità di fare. In questo modo, leistituzioni locali assumono nuovamente - apartire dalla seconda metà degli anni ’50 -un ruolo strategico nella produzione di po-litiche che, questa volta in modo più con-sapevole e intenzionale, danno risposta alleesigenze di crescita dei sistemi produttivi.- Tutto ciò fa sì che le politiche degli entilocali abbiano un impatto favorevole suiprocessi dello sviluppo, pur non essendo ifattori che ne determinano il principio.Nessuna politica istituzionale locale - in sée per sé - ha la capacità taumaturgica di in-nescare un processo di sviluppo là dove ilsistema produttivo non abbia già in sé lecondizioni per poterlo iniziare. Tuttavia,pare plausibile affermare131 che l’azioneistituzionale locale permette: i) di accele-rare la dinamica dello sviluppo, permet-tendo anche di superare alcuni ostacoliiniziali; ii) di migliorare i margini di tenu-ta della competitività del sistema locale(pensiamo soprattutto agli ammortizzatori

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131 Scontate ovviamente tutte le difficoltà di un’esaustiva misurazione quantitativa, dettate dal complessointreccio degli interventi (spesso numerosissimi e differenziati nella natura) e dall’asincronìa tra di essi e ipossibili/probabili effetti (ad esempio: quanti anni occorrono perché un’area di insediamento artigianalepossa essere concretamente efficace? due o venti?).

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impliciti introdotti dai sistemi di welfaremunicipale132); iii) di accentuare la tenutasociale del sistema con politiche di redi-stribuzione indiretta del reddito133.Dopo la lunga fase politica che attraversal’esperienza centrista e cui corrispondeper circa un quindicennio l’atteggiamentodi inadempienza costituzionale degli ese-cutivi nazionali134, il tema del decentra-mento istituzionale riconquista una posi-zione di spicco nel dibattito politico na-zionale nella svolta tra anni ’50 e ’60, allesoglie di quel decennio in cui prenderannocorpo nel paese numerosi tentativi di ri-forma.Negli anni del boom economico, infatti, difronte ai primi gravi squilibri sociali e ter-ritoriali provocati dal processo di svilup-po, le forze politiche iniziano a discuteredi programmazione economica, mentre iltema della regione riaffiora nella culturaeconomica italiana come modulo dell’in-tervento programmato: dalla concezionedi regione politica (organismo di potereperiferico sancito dalla costituzione comecompromesso tra i partiti) si giunge così adibattere della nozione di regione econo-mica135.In realtà, molte delle spinte che si verifica-no nel corso degli anni ’60 per dare con-creta attuazione al disegno regionalisticonon possono essere colte appieno se non si

considera che esse sono il prodotto con-giunto di più spinte contrapposte (le qualifanno peraltro trasparire, in una filigranadi segno opposto, le motivazioni - tuttepolitiche - che stanno a base del preceden-te “congelamento”): la volontà dei gruppipolitici più strettamente legati alle grandiforze economiche di aprire una fase di rin-novamento politico e sociale (e ricambiopolitico) di un sistema tradizionale ormaiin crisi; la domanda - presentata dalle clas-si dirigenti periferiche escluse dalle levedecisionali - di acquisire margini di coge-stione politica (si pensi ad esempio alle ri-vendicazioni autonomistiche di Sicilia eAlto Adige, che, al di là di letture tradizio-nali che hanno loro assegnato la natura difenomeni marginali e di matrice ambigua ereazionaria136, si configurano come sintomireali di insoddisfazione nei confronti dellepolitiche del governo centrale); l’ambizio-ne strategica sostenuta dalle sinistre (ma inparticolare dai comunisti) di realizzare unariforma istituzionale che permetta il rico-noscimento delle capacità di governoespresse a livello locale, in determinatearee del paese, ormai da un quindicennio,permettendo alle autonomie locali toscaneed emiliane, ad esempio, crescenti marginidi manovra per affrontare più efficace-mente il proprio disegno di governo dellasocietà locale e sostegno allo sviluppo.

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132 Per un caso di studio emblematico nel contesto emiliano-romagnolo si veda S. Magagnoli, N.L. Sig-man e P. Trionfini (a cura di), Democrazia, cittadinanza e sviluppo economico, cit..133 Ad esempio, i servizi pubblici, che, in determinati contesti, hanno permesso di mantenere contenuto ilcosto del lavoro e di aumentare - parallelamente - il senso di appartenenza identitaria al sistema; con be-nefici diretti anche per le forze politiche fautrici di tali interventi, premiate dalla stabilità del consenso po-litico.134 Inadempienza che abbraccia molti aspetti della vita politica e sociale italiana, ma che in questa sede ri-cordiamo soprattutto perché sterilizza sine die la realizzazione dell’ordinamento regionale, che pure èespressamente sancita dalla ottava e nona disposizione transitoria della costituzione repubblicana.135 Paola Bonora, Regionalità. Il concetto di regione nell’Italia del secondo dopoguerra (1943-1970), Mila-no, Franco Angeli, 1984, p. 7.136 Enzo Santarelli, L’ente regione. L’idea regionalistica nei suoi termini storici, politici e costituzionali, Ro-ma, Editori Riuniti, 1960.

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È importante soffermarsi su questo terzofattore, perché consente di riprendere il fi-lo del discorso sulle istituzioni locali (inparticolare di quelle operanti nelle areeterritoriali segnate dall’egemonia politicacomunista, che proprio negli anni Sessan-ta diventano un “laboratorio” di speri-mentazione paradigmatico a livello nazio-nale), che in questo periodo hanno intan-to continuato a operare in modo intenso, edi collegarci direttamente ad alcune consi-derazioni sulla specifica natura delle loropolitiche.Il processo di sviluppo economico che hainvestito il paese137 - e in modo ancora piùintenso alcune aree del paese - inizia infat-ti a porre domande nuove (in termini diservizi sociali e di politiche di sostegno altessuto produttivo), che si indirizzano ver-so i governi comunali, i quali hanno con-solidato negli anni della ricostruzione lapropria autorevolezza nel contesto locale,proponendosi come interlocutori direttiper il sistema di piccole e medie impreserafforzatosi ed estesosi a partire dalla me-tà degli anni Cinquanta.La “risposta” delle istituzioni locali si in-cunea questa volta all’interno di differenticondizioni complessive (una situazioneeconomica sostanzialmente cambiata, checonsente ai governi locali di contare su ri-sorse finanziarie di ben diversa entità), masoprattutto si inscrive all’interno di una vi-sione del ruolo delle istituzioni radical-mente trasformata rispetto al decennioprecedente. Se infatti la visione che avevacaratterizzato gli interventi del periododella ricostruzione era imperniata su una

concezione del ruolo del comune ancoralargamente influenzata dal richiamo “miti-co” all’esperienza del socialismo munici-pale (isola di contropotere nel mare di uncapitalismo sostanzialmente da combatte-re) e priva di una visione strategica d’in-sieme (tanto che l’idea che sarebbe stato ilcomparto industriale a sostenere lo svilup-po non era ancora ben chiara agli ammini-stratori locali), a partire dagli anni ’60 si fainvece strada una nuova concezione, checomporta la definizione di una strategiapolitica (il cui atto fondativo è rappresen-tato dalla relazione di Guido Fanti al pri-mo congresso regionale del PCI tenutosinel 1959:

il partito - afferma Fanti dopo avere sottolineatoquanto il processo di sviluppo in atto non possa piùessere valutato con il “catastrofismo” espresso sinoad allora da alcuni segmenti del PCI - [...] deve avere- ed esserne conquistato - un suo chiaro programmapolitico che non può non investire in una regione co-me la nostra tutti i settori della vita economica, so-ciale e culturale, programma che deve divenire l’ar-ma cosciente dell’azione quotidiana permanente ditutti i comunisti, di tutta l’organizzazione138.

Non è dunque tanto la natura degli stru-menti dell’intervento istituzionale a cam-biare (che pure si adeguano in ogni setto-re alle mutate necessità), ma è la dimen-sione progettuale nuova nella quale sonoinseriti a rappresentare il punto di veranovità. Schematicamente si può dire che -nel corso degli anni ’60 e ’70, il nucleo del“laboratorio Emilia” - i “radicali costitu-zionali” emiliani139 che guidano le istitu-zioni locali danno vita a un progetto inten-

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137 È questo il caso, ad esempio, dell’Emilia Romagna, che nel corso degli anni Sessanta cresce più rapi-damente di altre realtà geografiche; cfr. V. Zamagni, Una vocazione industriale diffusa, in L’Emilia-Roma-gna, a cura di Roberto Finzi, Storia d’Italia, Le regioni dall’unità a oggi, Torino, Einaudi, 1997.138 1ª Conferenza regionale del PCI, Bologna 27-29 giugno 1959, relazione introduttiva di Guido Fanti, inI comunisti in Emilia-Romagna, cit., p. 133; il corsivo è nostro.139 È questa forse una delle migliori, e più pertinenti, definizioni coniate per classificare la dirigenza co-

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zionale di governo della società basato suuna semplice triangolazione: sostegno allosviluppo economico (ovviamente indu-striale e altrettanto ovviamene imperniatosul ruolo della piccola e media impresa)come fattore preliminare per la realizza-zione di politiche redistributive (in gradodunque di elevare le condizioni materiali esociali, attraverso la politica scolastica, deiceti medi e popolari) entrambi convergen-ti entro il disegno di trasformazione strut-turale della società che - più o meno con-vintamente e realisticamente - continua arappresentare sin verso l’inizio degli anni’80 l’orizzonte teorico di riferimento.Tale affermazione non deve tuttavia farpensare a una mancanza di innovazionenelle politiche locali di questo periodo:dalle aree industriali ai centri servizi, dainuovi interventi nel campo della formazio-ne alla realizzazione di un sistema scolasti-co comunale all’avanguardia nazionale (lalegge sul tempo pieno elementare e sullacontinuità didattica con la scuola dell’in-fanzia è il frutto delle esperienze pedago-giche compiute a Bologna, Modena e Reg-gio Emilia), il tasso di originalità e innova-zione appare in molti casi particolarmenterilevante140.Ed è di fronte alla realizzazione di queste

politiche - ormai parte di un progetto in-tenzionale di governo della società localesempre più attento ai problemi dello svi-luppo economico141 - che si pone il pro-blema della dimensione territoriale dell’in-tervento istituzionale locale. La natura el’entità delle nuove domande trascende or-mai in modo sempre più netto la “scala co-munale” (unità d’intervento proporziona-ta ai confini amministrativi) utilizzata sinoa quel momento, considerata perciò sem-pre meno adeguata per realizzare tale pro-getto politico. Da questa palese asimme-trìa tra la scala territoriale dei problemi (edegli obiettivi) e l’unità territoriale di in-tervento (e di programmazione) derivaperciò una conseguenza importante: la ne-cessità di ripensare l’assetto esistente,identificando forme e livelli nuovi di orga-nizzazione istituzionale.È nei primi anni ’60 che i governi localidell’Emilia Romagna definiscono l’esattanatura del problema, iniziando a proietta-re l’àmbito delle proprie politiche in unadimensione “comprensoriale”142, un’unitàterritoriale sovracomunale i cui “margini”geografici non sarebbero stati definiti daiconfini amministrativi delle istituzioni ter-ritoriali, bensì determinati dalla realeestensione dei fenomeni.

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munista che governa l’Emilia in età repubblicana. Robert D. Putnam, Politica e ideologia dei dirigenti co-munisti italiani, in “Il Mulino”, 1974, n. 232, pp. 204-205.140 Cfr. ad esempio Sebastiano Brusco ed Ezio Righi, Enti locali, politica per l’industria e consenso sociale:l’esperienza di Modena, in S. Brusco (a cura di), Piccole imprese e distretti industriali, Torino, Rosenberg &Sellier, 1989; S. Magagnoli, Autorevolezza municipale e architettura istituzionale intermedia, in A. Arri-ghetti e G. Seravalli (a cura di), Istituzioni intermedie e sviluppo locale, cit.141 Sulla natura delle politiche comunali emiliane, e di come esse, superata la fase dell’emergenza, dianoluogo a un progetto intenzionale di sostegno al sistema economico come parte integrante del più com-plessivo disegno di trasformazione strutturale della società (capace per questa via di incidere anche suigangli strutturali del sistema economico) perseguito dal PCI emiliano, inverato in una politica pubblica lo-cale capace di farsi pervasiva dell’insieme di relazioni economiche ed extra economiche, si rimanda a S.Magagnoli, Una ricetta efficace, cit.142 Già nel 1962-63 tale terminologia fa la sua comparsa nei documenti ufficiali dei comuni emiliani, seb-bene non sia associata ancora alla concreta definizione di quei corpi istituzionali che avrebbero poi as-sunto il nome di comprensori.

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Quest’ipotesi di revisione degli assetti isti-tuzionali locali - indotta da questioni eco-nomiche e facilitata dal clima favorevolecon cui le idee di programmazione si pro-pagano nella cultura politica ed economicaitaliane - corrisponde per altri versi a unprogetto esplicito e di vasta portata: “rom-pere” dall’interno il sistema accentrato Co-mune-Stato (con l’ingombrante presenzadel ruolo di tutela prefettizio) realizzandoun sistema di autonomie locali (comuni, ein secondo luogo province) in cui le nuoveistituzioni regionali avrebbero assunto ilruolo di coordinamento (politicamente le-gittimato dal consenso democratico), men-tre i comprensori (sia quelli verticali, a ba-se territoriale, sia quelli orizzontali, aventicome oggetto alcuni servizi pubblici), sa-rebbero divenuti strumenti e unità territo-riali dell’intervento pubblico locale.In realtà, l’introduzione dell’ente regione,sebbene in alcune realtà - le “aree rosse” -produca un irrobustimento del sistema,cui contribuisce però la grande capacitàdel PCI di divenire esso stesso “collante” e“mediatore” istituzionale, non corrispon-de all’obiettivo di invertire la tendenza se-colare dell’accentramento statale: l’attiva-zione delle regioni non intacca l’ammini-strazione centrale, né permette di elevareformalmente l’amministrazione locale alrango di governo. Il loro ruolo, quindi, senon è di decentramento dall’alto finisceper essere di accentramento verso il bas-

so143. Così, pur convenendo in linea diprincipio sul fatto che ogni istituzione ter-ritoriale è, rispetto alle altre, periferia e altempo stesso centro144, si deve sottolinearecome nella realtà dei fatti le neoattivateistituzioni regionali finiscano per configu-rarsi, per i governi comunali, come nuovi“centri”, che producono la modifica degliequilibri dei sistemi di relazione tra “cen-tro” e “periferia”145. In questo modo (maqui si deve sottolineare l’estrema provviso-rietà delle nostre considerazioni, giacchéper il periodo che segue l’attivazione delleregioni la rarefazione degli studi storici di-viene pressoché totale) si dà luogo a uninedito sistema istituzionale, con i governilocali obbligati a intessere nuove relazionicon l’ente regione146, che vanno a sovrap-porsi a quelle esistenti con lo Stato centra-le. Non disponiamo di una casistica di stu-di che ci consenta di poterlo affermare conrigore scientifico (e per questo motivo for-muliamo il ragionamento sotto forma didomanda), ma è ragionevole pensare chequesta nuova situazione - che “complica”e articola la maglia dei rapporti istituzio-nali - produca nuove preoccupazioni (eforse malcontento) da parte degli ammini-stratori di comuni e province, improvvisa-mente di fronte allo sdoppiamento degliinterlocutori che compongono i “centri”cui fare riferimento? E con quali implica-zioni concrete sulle politiche?La sorte dei comprensori, “invenzioni bu-

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143 E. Rotelli, Il martello e l’incudine, cit., p. 172.144 Ivi, p. 43.145 In questa sede si fa riferimento talvolta a questa coppia concettuale, largamente utilizzata in letteratu-ra nella sua declinazione singolare per enfatizzare lo storico accentramento del sistema italiano. In realtà- come molti studiosi hanno fatto notare - ci pare più appropriato evitare una contrapposizione così net-ta, facendo dunque ricorso al concetto nella sua accezione plurale: centri e periferie.146 Che accentra in sé anche quelle competenze di interesse esclusivamente locale, che avrebbero invecedovuto essere delegate alle istituzioni locali ed esercitate direttamente dalla regione solo in via ecceziona-le, per evitare un nuovo accentramento regionale in luogo di quello statale; cfr. art. 118 della Costituzione,1° e 3° comma.

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rocratiche” - secondo taluni - “che mai han-no dato prova di funzionalità”147, apparepoi in molti casi schiacciata tra il protagoni-smo di governi comunali che hanno ormaiacquisito grandi capacità di intervento e al-trettanto rilevante autorevolezza (è questonormalmente il caso dei comuni capoluogodi maggiori dimensioni148) e la resistenza diamministrazioni provinciali che si sentono“minacciate” dalla presenza dei nuovi orga-nismi, tanto che la parabola della loro atti-vità non corrisponderà agli obiettivi inizialie sarà destinata a essere molto breve149.Nel corso degli anni ’70 l’architettura isti-tuzionale italiana subisce pertanto una for-te torsione, che comporta la necessità diun nuovo periodo di assestamento. Ciòche appare di notevole rilievo è la “com-plicazione”della maglia istituzionale loca-le/intermedia con l’attivazione di due nuo-vi corpi istituzionali - regioni e compren-sori - che vanno a scompaginare gli equili-bri tradizionali (assestati da consuetudiniassai consolidate), basati sul rapporto ne-goziale-duale tra comuni e Stato. Quanto

ciò però incida, concretamente, sui margi-ni di capacità (anche potenziali) delle isti-tuzioni locali (comuni in primo luogo) direalizzare politiche efficaci a sostegno del-lo sviluppo (o a difesa dei sistemi produt-tivi locali, in un decennio che si caratteriz-za per la crisi internazionale dei mercatideterminata dagli shock petroliferi), è unaconclusione ancora “aperta”, che si sotto-linea come esplicito invito all’approfondi-mento della ricerca.Nello stesso decennio, peraltro, giungonoal pettine altri nodi che avrebbero concor-so a rendere il quadro del rapporto tra Sta-to centrale e istituzioni locali ancora più“movimentato”. In primo luogo va segna-lata la riforma tributaria del 1972150 cheistituisce il meccanismo dei trasferimentistatali agli enti locali, sottraendo così ai co-muni quell’autonomia impositiva che ave-va loro permesso di caratterizzare il pro-prio sistema fiscale. Certo, già a partire da-gli anni ’60, anche nelle regioni in cui talefacoltà era divenuta elemento qualificantedel programma di governo151, il peso rela-

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147 P. Bonora, Regionalità, cit., p. 11.148 L’unico caso di studio che possiamo citare è quello di Bologna, in cui i due comprensori di pianura (quel-lo che abbraccia l’area comunale del capoluogo e quello che interessa i comuni del suo hinterland) “soffro-no”, per così dire, del ruolo egemone del comune felsineo anche nei confronti dei comuni della propria cin-tura, tanto che la loro attività si riduce a funzioni di contrattazione e intermediazione, con la progressivamarginalizzazione di ogni funzione ordinativa e programmatoria. Cfr. Biagio Guerra, La programmazioneeconomica: il caso della provincia di Bologna, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Eco-nomia, a.a. 1999-2000, pp. 81-89.149 Nel caso emiliano la vita dei comprensori si estende ufficialmente per l’arco di un solo biennio: dal1975 al 1977 (cfr. Carlo Boldrini, I comitati comprensoriali per la programmazione in Emilia Romagna. Ori-gine, caratteristiche e conclusione della sperimentazione, Bologna, Istituto Gramsci, 1995). Nondimeno lostudio dell’attività dei comprensori appare di notevole rilevanza e rappresenta, per la storiografia, una pi-sta ancora tutta da attrezzare. Di recente, peraltro, gli archivi delle amministrazioni provinciali hanno avu-to il compito di aggregare, riordinare e renderne consultabili gli archivi (abbiamo notizia diretta della lo-ro reale fruibilità nei casi di Modena e Bologna), fonte che si preannuncia di particolare interesse per lacomprensione di alcuni snodi istituzionali ed economici di questo periodo.150 DD.PP.RR. 633-638/1972.151 Pensiamo in modo particolare al peso rilevante della questione tributaria nel contesto emiliano, ogget-to dell’intensa attività politica e scientifica di Paolo Fortunati, che fa divenire tale tema uno dei perni fon-damentali della politica amministrativa comunista nel primo quindicennio del dopoguerra. A tale riguar-do cfr. Luciano Bergonzini e Franco Tassinari (a cura di), Democrazia comunale e giustizia tributaria. Scrit-ti polemici su Paolo Fortunati, Bologna, CLUEB, 1990.

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tivo di tale politica sul complesso della fi-nanza locale era andato via via decrescen-do152, ma ciò non toglie che sotto il profilopolitico si tratti di un cambiamento moltoprofondo, che altera quel meccanismo diresponsabilità dei governi locali rispettoalla propria comunità fortemente irrobu-stitosi nel trentennio precedente153. In se-condo luogo, non sono da sottovalutare glieffetti prodotti dalla stretta finanziaria che,dopo la seconda metà del decennio, colpi-sce le istituzioni locali, già afflitte da un in-

debitamento ormai fuori controllo. I prov-vedimenti legislativi di contenimento dellaspesa pubblica154 determinano la diminu-zione della disponibilità di risorse destina-bili alle politiche locali, circostanza che in-cide in modo non secondario sul livello diautorevolezza dei governi municipali, iquali del resto - anche in questo frangentecon intenzionalità - iniziano a ridurre l’a-rea del proprio intervento155. Se dunquetra la metà degli anni ’50 e la metà del suc-cessivo decennio si era assistito a una fase

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152 A questo riguardo possiamo citare un dato che riguarda il caso modenese, dove, dal 1945 al 1959 il get-tito complessivo del prelievo locale si attesta mediamente oltre il 50% del complessivo gettito erariale, perpoi scendere nel successivo decennio a non più di ¼. Tale decrescita non incide però immediatamente sul-la capacità di spesa, sostenuta dall’analogo incremento dell’indebitamento. Cfr. figure 1 e 2.153 A nostro modo di vedere il rapporto tra politiche e responsabilità deve intendersi in modo molto stret-to. Sino alla riforma in questione le istituzioni locali italiane spendono e investono quanto sono in gradodi reperire dal tessuto locale e dalla politica del credito. Tale stato di cose conferisce ai governi locali unsenso diretto di responsabilità nei confronti dei cittadini, i quali, oltre a essere elettori sono anche contri-buenti. Tutto ciò ha ovviamente a che vedere con il tema del consenso: quando le politiche dei comuni ol-tre al versante della spesa contemplavano anche la determinazione delle strategie dell’entrata, si trattavaanche di trovare il consenso dei cittadini per i progetti che si intendevano realizzare. La storia della finanzae della tassazione locali nel secondo dopoguerra è emblematica di queste considerazioni, sebbene gli stu-di di cui disponiamo si appuntino prevalentemente sul solo contesto emiliano (L. Baldissara, Per una cit-tà più bella e più grande, cit.; S. Magagnoli, Tra dopoguerra e ricostruzione, cit.; Id., Il comune di Modenanel secondo dopoguerra: appunti per una riflessione sulla gestione amministrativa (1945-1980), in “Rassegnadi storia contemporanea”, 1994, n. 1) con qualche riferimento a quello veneto (L. Baldissara, Poteri loca-li del Nord-Est, cit.). Nel momento in cui viene sancito che le risorse comunali sarebbero provenute daitrasferimenti statali non si assiste al naufragio delle finanze pubbliche locali (a parte la “stretta” della fine’70-inizio ’80, che ha però altre cause), ma alla rottura di un meccanismo di responsabilità dei governi lo-cali rispetto alle comunità locali; governi locali che potranno determinare le strategie di spesa indipen-dentemente dalle proprie politiche d’entrata, non più dettate da scelte da giustificare di fronte ai proprielettori, ma imputabili a meccanismi automatici fissati dal governo centrale. Tutto ciò, a nostro avviso, in-debolisce l’autorevolezza dei comuni acquisita con fatica nei precedenti decenni, e nel medio periodo con-corre a produrre quel riposizionamento del loro ruolo che solo negli ultimi anni sembra essere destinatoa subire un’inversione di tendenza.154 DL 17 gennaio 1977 e Legge 17 marzo 1977, n. 62, “Stammati 1”, (consolidamento in mutui decenna-li dei debiti a breve degli enti locali; blocco delle assunzioni; ristrutturazione degli uffici); DL 29 dicembre1977, n. 942 e Legge 24 febbraio 1978, n. 43, “Stammati 2”, (abolizione dei mutui per il pareggio dei bi-lanci; copertura delle spese garantita da trasferimenti statali; conferma del blocco delle assunzioni; impo-sizione di un limite all’incremento delle spese; aumento aliquote di imposte, tasse e tariffe locali); DL 10novembre 1978, n. 702 e Legge 8 gennaio 1979, n. 3, “Pandolfi 1”, (conferma del blocco delle assunzio-ni; soppressione della distinzione tra spese obbligatorie e facoltative); Legge 5 agosto 1978, n. 568 e DPR

29 giugno 1979, n. 421 (introduzione bilancio di cassa a latere di quello di competenza; obbligo per i co-muni con più di 20 mila abitanti di redigere dal 1981 il bilancio pluriennale).155 Tale correlazione viene analizzata in un concreto caso di studio emiliano da S. Magagnoli, Scuola, cul-tura e società, cit.

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di “ampliamento” dell’intervento comuna-le (intervento che si dirigeva soprattutto indue macro-direzioni: sostegno al tessutoproduttivo e realizzazione dei servizi, cioèdi un articolato sistema di welfare munici-pale), tra la fine degli anni ’70 e la metà de-gli anni ’80 le istituzioni locali si trovano difronte a situazioni nuove, che comportanola necessità di innovare profondamente itermini della propria presenza politica nel-la società locale. Aprendosi a nuove ipote-si di politiche di intervento, sempre più le-gate alla “filosofia” di collaborazione traistituzioni pubbliche, istituzioni private emercato156, esse danno modo di misurareanche in questo frangente la propria capa-cità di adattarsi ai cambiamenti, e di “ri-programmare” pragmaticamente non sologli àmbiti, ma la natura stessa delle propriepolitiche. È dunque in questo clima che alla metàdegli anni ’80 le forze politiche italianedanno inizio ai lavori per la realizzazionedella riforma delle norme ordinative delleautonomie locali157 che avrebbero portatoalla legge 142 del 1990.Ma è sempre nello stesso clima - culmina-to negli eventi di Tangentopoli - che siconsuma la crisi irreversibile dei partiti

politici su cui era stata edificata la Costitu-zione repubblicana e che avevano gover-nato il paese dalla fine della seconda guer-ra mondiale. Anche in questo caso si trat-ta di una cesura di grande rilievo, ove sipensi al ruolo da essi assolto in questa fasestorica, caratterizzata da una mimesi pro-fonda tra ossatura istituzionale e sistemadei partiti. Le ripercussioni per i sistemilocali - anche in questo caso tutte da stu-diare - sembrerebbero estremamente si-gnificative, tali comunque da far sospetta-re l’esistenza di striscianti sintomi di orfa-nità da parte delle istituzioni locali, priva-te repentinamente (e in certi casi ancheinopinatamente) dei propri tradizionalipunti di riferimento.Qui il cerchio si chiude, e il nostro ragio-namento non potrebbe che sconfinare nel-l’attualità, terreno in cui lo storico tendesempre a muoversi con relativa goffaggine.Per questo motivo ci sembra opportunoconcludere ricollegandoci alle nostre do-mande iniziali. Che le istituzioni locali ab-biano avuto un ruolo di estremo rilievo neiprocessi di modernizzazione, nella creazio-ne di capitale fisso sociale, nella realizza-zione di economie esterne per sostenere iltessuto produttivo come pure di politiche e

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156 I motivi di tale trasformazione sono ovviamente molteplici, e non spiegabili monocausalmente solo conla contrazione delle risorse economiche disponibili (che pure rappresenta una circostanza importante).Determinata al livello generale da una brusca trasformazione del mainstream (anche in Italia fanno brec-cia le eco del pensiero neoliberista che in questi anni dilaga in tutta l’area del capitalismo sull’onda del-l’esempio reaganiano e thatcheriano, così come pesa il clima di distacco dalla politica che dagli anni ‘70in poi si fa strada nella società e nella cultura italiane, tradottosi poi in un’aperta “allergia” per l’eccessi-va presenza delle istituzioni riconducibili all’azione dei partiti politici), nel caso emiliano trovano motividi spiegazione anche nella progressiva crisi del soggetto che per lunghi anni era stato il “perno” del siste-ma locale: il Partito comunista italiano (sul ruolo di perno cfr. S. Magagnoli, Il sistema di potere modene-se negli anni della Ricostruzione. Comunisti, socialisti e opposizioni di fronte alla rinascita post-bellica, in“Rassegna di storia contemporanea”, 1998, n. 2; sulla crisi del PCI cfr. Id., Tre volti di una crisi: la fine delmodello emiliano?, in Partiti e organizzazioni di massa, a cura di Francesco Malgeri e Leonardo Paggi, At-ti del ciclo di convegni L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, Roma, novembre e dicembre2001, III, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003).157 È significativo ricordare il contributo offerto a tale elaborazione da Roberto Ruffilli (uno dei massimistudiosi del sistema istituzionale italiano e consulente del segretario democristiano Ciriaco De Mita) sinoal momento del suo assassinio a opera delle Brigate Rosse.

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comportamenti atti ad amplificare quel-l’“atmosfera industriale”158 necessaria allosviluppo locale, ci sembra ormai - alla lucedi questo percorso di riflessione - del tuttofuori di discussione. Se mai, rimane apertala questione della misurazione concreta de-gli effetti di queste politiche, posto chequesto sia un obiettivo di ricerca ragione-volmente soddisfabile. Che il loro “prota-gonismo” non sia un dato recente, ma cheanzi sia riscontrabile nell’intera esperienzadell’Italia unitaria (e il nostro ragionamen-to fissando arbitrariamente quale termine aquo l’unificazione nazionale pecca di sem-plificazione, giacché alcuni dei fili del pro-tagonismo municipale sarebbero invece daripercorre à rebours anche negli anni pre-unitari), ci pare una constatazione altret-tanto inconfutabile. Le riforme susseguite-si nell’ultimo quindicennio159 non sono sta-ti gli strumenti che hanno “creato” le capa-cità di intervento politico delle istituzionilocali, né le responsabili di quella accre-sciuta domanda di politiche locali che talu-ni fanno oggi risaltare. Se mai, sarebbe piùcorretto parlare di ratifica formale di unostato di cose già consolidatosi nel tempo, esolo provvisoriamente opacizzatosi nel cor-so degli anni ’80. L’analisi del decentra-mento e degli interventi delle istituzioni lo-

cali non si può fermare alla comparazionetra le condizioni createsi dopo l’attivazionedella 142 e quelle del decennio precedente,ma, per comprendere correttamente lequestioni, deve necessariamente allargarsi auno spettro cronologico più ampio. In que-sto modo ciò che sembrerebbe apparirestraordinariamente innovativo, vede sfu-mare in modo sensibile tale caratteristica.Alla domanda: “le istituzioni locali hannocontato?”, non possiamo che risponderecon relativo convincimento affermativo,documentando ciò che concretamente èstato realizzato. Al quesito più generale:“contano?” (che presuppone un’indica-zione per le politiche ancora da fare), nonpossiamo che proporre la convinzione chel’importanza delle istituzioni locali non siastata determinata da una situazione di pro-lungata casualità, e che dunque si tratti diqualcosa di molto intimamente riconduci-bile al rapporto “naturale” che esiste traistituzioni ed economia, di cui occorreprobabilmente studiare più a fondo le for-me fenomenologiche assunte negli anni disviluppo del sistema produttivo italianoper comprenderne più compiutamente imeccanismi organizzativi; riflessione dacui potrebbero scaturire ipotesi e suggeri-menti per le politiche di domani.

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158 Non è ovviamente questa la sede per insistere sulla necessità di una riflessione circostanziata su taleconcetto, se non per sottolineare come esso vada reinterpretato (e riarticolato) anche come risultante diuna particolare curvatura assunta dall’azione istituzionale locale, capace di aprirsi all’azione politica in-novativa.159 Tra cui ricordiamo: i) Legge n. 142/1990 (riforma ordinamento enti locali); ii) D.Lgs. n. 504/1992 (ri-forma finanza locale); iii) Legge n. 81/1993 (elezione diretta del sindaco); iv) Legge n. 59/1997 (legge didecentramento); v) D.Lgs. n. 112/1998 (attuazione processo di decentramento); Legge n. 265/1999 (ri-forma ordinamento locale); vi) D.Lgs. n. 267/2000 (testo unico ordinamento enti locali); vii) Legge n.131/2003 (attuazione riforma titolo V della Costituzione).

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Situazione debitoriaTotale investimentidi cui: per OO.PP.di cui: per ripiano disavanzo

Fig. 1. Andamento gettito imposte erariali e locali. Comuni della provincia di Modena. Valori lire67.

Fig. 2. Situazione debitoria e investimenti. Comuni della provincia di Modena. Valori lire67.