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L’esperienza controcorrente della partigiana “Anna” tra Gorizia e la Destra Tagliamento di Anna Di Gianantonio Stili differenti: la memoria partigiana maschile e femminile Da molti anni le fonti orali e, in generale, le fonti soggettive, ci insegnano come la memoria sia mutevole e variabile. La cosa interessante per uno stu- dioso è cercare di comprendere in che modo essa si trasformi, sotto quali sollecitazioni sociali e politiche, per rispondere a quali nuove domande po- ste dai ricercatori e dagli operatori culturali. Se è vero, come afferma Pier- re Nora, che «la memoria è sempre aperta alla dialettica del ricordo e del- l’amnesia, incosciente delle sue deformazioni successive, vulnerabile ad ogni forzatura e manipolazione» 1 , altrettanto importante è che invece lo storico esca dall’incoscienza e colga con precisione deformazioni e manipo- lazioni del ricordo e ne comprenda la natura soggettiva o collettiva. Tra i mutamenti più consistenti della memoria ci sono quelli legati al- la categoria di “genere”. Nel tempo vi sono stati radicali cambiamenti nel modo di giudicare e attribuire caratteristiche e inclinazioni “naturali” alla mascolinità e alla femminilità, ma, accanto alle trasformazioni, molti aspet- ti sono rimasti invariati. Un processo su cui occorre spendere qualche ri- flessione. Nella nostra epoca si ritiene ormai compiuto, almeno in grande misura, il processo di emancipazione femminile. Se è vero che oggi nessu- no parlerebbe di inferiorità femminile, di incapacità della donna di affron- tare qualsiasi tipo di occupazione o di impegno, sussiste comunque – inva- riata nel tempo – l’aspettativa che le donne siano il punto di riferimento centrale dell’assistenza e dell’accudimento dei cosiddetti “soggetti deboli” 2 . 1. La citazione di Pierre Nora è tratta dal volume di A. Brazzoduro, Soldati senza causa. Memorie dell guerra di Algeria, Bari-Roma 2012. Le interessanti considerazioni dell’autore si muovono nel solco di quanto indicato da anni da Alessandro Portelli. 2. Per quanto riguarda l’atteggiamento delle donne rispetto alla politica si veda il recente volume di

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L’esperienza controcorrente della partigiana“Anna” tra Gorizia e la Destra Tagliamentodi Anna Di Gianantonio

Stili differenti: la memoria partigiana maschile e femminile

Da molti anni le fonti orali e, in generale, le fonti soggettive, ci insegnanocome la memoria sia mutevole e variabile. La cosa interessante per uno stu-dioso è cercare di comprendere in che modo essa si trasformi, sotto qualisollecitazioni sociali e politiche, per rispondere a quali nuove domande po-ste dai ricercatori e dagli operatori culturali. Se è vero, come afferma Pier-re Nora, che «la memoria è sempre aperta alla dialettica del ricordo e del-l’amnesia, incosciente delle sue deformazioni successive, vulnerabile adogni forzatura e manipolazione»1, altrettanto importante è che invece lostorico esca dall’incoscienza e colga con precisione deformazioni e manipo-lazioni del ricordo e ne comprenda la natura soggettiva o collettiva.

Tra i mutamenti più consistenti della memoria ci sono quelli legati al-la categoria di “genere”. Nel tempo vi sono stati radicali cambiamenti nelmodo di giudicare e attribuire caratteristiche e inclinazioni “naturali” allamascolinità e alla femminilità, ma, accanto alle trasformazioni, molti aspet-ti sono rimasti invariati. Un processo su cui occorre spendere qualche ri-flessione. Nella nostra epoca si ritiene ormai compiuto, almeno in grandemisura, il processo di emancipazione femminile. Se è vero che oggi nessu-no parlerebbe di inferiorità femminile, di incapacità della donna di affron-tare qualsiasi tipo di occupazione o di impegno, sussiste comunque – inva-riata nel tempo – l’aspettativa che le donne siano il punto di riferimentocentrale dell’assistenza e dell’accudimento dei cosiddetti “soggetti deboli”2.

1. La citazione di Pierre Nora è tratta dal volume di A. Brazzoduro, Soldati senza causa. Memorie dellguerra di Algeria, Bari-Roma 2012. Le interessanti considerazioni dell’autore si muovono nel solco diquanto indicato da anni da Alessandro Portelli.2. Per quanto riguarda l’atteggiamento delle donne rispetto alla politica si veda il recente volume di

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Accanto alla immutabile idea che l’attività di cura sia prerogativafemminile, vi è stato un mutamento profondo che ha consentito alledonne che hanno fatto la Resistenza di completare le loro testimonianzecon particolari impensabili fino a qualche anno fa. Mi riferisco alla nar-razione della violenza subita nei luoghi di detenzione del fascismo permano degli occupatori nazisti e dei loro alleati3. Proprio la consapevolezzasociale, ormai radicata, che la violenza inflitta al genere femminile siaqualcosa di intollerabile e condannabile ha consentito alle intervistate diaprire uno spiraglio su temi che, sino ad alcuni anni fa, erano ancora av-volti da una fitta coltre di vergogna. È indubbio che il tempo ha consen-tito alle donne offese di metabolizzare l’oltraggio subito, ma è altrettantovero che ciò che prima doveva essere negato e interdetto oggi è sollecitatoad essere espresso e denunciato.

Nei racconti maschili – come ho avuto modo di dire – mi pare pre-valga l’attenzione al dato politico della scelta di campo. Scelta che talvoltaviene ridimensionata, contestualizzata, in alcuni casi del tutto sconfessata,ma è comunque soprattutto sul terreno pubblico, dell’azione collettiva, del-l’organizzazione militare, del rapporto nazionale che i testimoni riflettonoe parlano con i ricercatori4.

Sul piano personale affiora invece una più precisa riflessione sui costie sulle fatiche fisiche di quell’impegno: fame, paura, stanchezza, sono ele-menti che emergono con maggiore precisione, poiché oggi, nella mutataidea di cosa è pertinente alla virilità, il momento di debolezza maschile vie-ne compreso e accettato. Al di là dunque dell’epicità del racconto e dei va-lori che sostenevano la lotta, anche i dubbi, gli interrogativi, le domandeangosciose riguardanti l’utilità strategica di determinate azioni militari pos-sono emergere con maggiore chiarezza. Tempo ne è passato dall’epica del

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A. Sarlo e F. Zajzyk, Dove batte il cuore delle donne. Voto e partecipazione politica in Italia, Bari-Roma2012; sull’immagine della donna veicolata dai mass media, D. Brancati, Occhi di maschio.Le donne ela televisione in Italia. Una storia dal 1954 ad oggi, Roma 2011; sulla posizione delle donne nella so-cietà e sulla finzione del contratto sociale tra individui è ancora insuperato C. Pateman, Il contrattosessuale, Roma 1997.3. Per l’analisi delle testimonianze di donne della Resistenza faccio riferimento alle mie ricerche chemi hanno permesso di raccogliere un grande numero di fonti orali, pubblicate con S. Bon, C. Fragia-como, M. Rossi nel volume Sarà ancora bello. Storie di donne della Venezia Giulia tra fascismo, Resi-stenza e dopoguerra, edito dal Centro Isontino di Ricerca e documentazione Storica e Sociale “Leopol-do Gasparini”a Gradisca nel 2004; nel volume curato da M. Rossi e dalla sottoscritta dal titolo LeTriestine donne volitive, pubblicato dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazionenel Friuli Venezia Giulia nel 2006 ed infine alla ricerca, condotta con Gianni Peteani sulla vita dellamadre Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia, Ondina Peteani. La lotta partigiana, la de-portazione ad Auschwitz, l’impegno sociale: una vita per la libertà, Milano 2011.4. Mi riferisco alla riflessione sulla complessa vicenda della memoria di Giovanni Padoan “Vanni”, sucui ho pubblicato sulla rivista Qualestoria edita dall’IRSML-FVG n.1, giugno 2006 un saggio dal ti-tolo “La Resistenza tra discorso pubblico e privato. Alcune ipotesi sulla costruzione di una ‘memoriacollettiva’”.

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“popolo in armi e alla macchia”, dalla granitica certezza dell’“aver lottatoinsieme” con sloveni e croati, dalla retorica dell’eroismo maschile, dallaconsolidata convinzione che si dovesse essere fedeli a un partito o a un’or-ganizzazione. Oggi gli uomini in carne e ossa possono esporre senza remo-re tutte le contraddizioni e i limiti che danno significato alla loro ri-elabo-rata esperienza.

In maniera forse un po’ schematica e grossolana, si può affermare chequalcosa di vecchio rimane e persiste pur nel cambiamento della sintassi edella gerarchia dei discorsi di donne e uomini della Resistenza. Gli uominisi dedicano alla riflessione sui motivi del loro impegno e ai bilanci, spessoamari, dei risultati conseguiti. Tuttavia la loro identità, sebbene indebolitaproprio dal dubbio e dalla consapevolezza delle diverse possibilità in cam-po, rimane unitaria, organizzata intorno alla coscienza della necessità del-l’impegno e dell’inevitabilità della scelta.

I racconti delle donne invece sono attraversati tutti, anche quelli piùdrammatici e dolorosi, dalla consapevolezza di aver vissuto una straordina-ria esperienza di libertà personale e collettiva. Ascoltando le interviste que-sto dato emerge con tutta evidenza. Il fatto di essere uscite di casa per fare lestaffette, magari indossando i pantaloni, di aver condiviso con i compagni leserate in case diverse dalla propria, nei fienili e negli accampamenti di fortu-na, l’essere andate contro le regole culturali dominanti nelle famiglie, nellascuola e nella Chiesa, che prevedevano ruoli ben separati e distinti e normecomportamentali legate al pudore, alla riservatezza e alla modestia, l’avercreduto che i rapporti con gli uomini potessero finalmente giocarsi sul pia-no della parità, hanno prodotto nella coscienza delle donne effetti radicali eduraturi. Se nel secondo dopoguerra si sono dedicate all’impegno politico ose invece interamente alla famiglia, il loro modo di pensare è comunque ir-reversibilmente cambiato, proprio a causa dell’esperienza di libertà, dal do-ver contare su se stesse, dal prendere repentine decisioni, dall’essere costret-te a utilizzare in modo creativo gli stereotipi dell’essere donna e le vecchie ecollaudate armi della seduzione e della debolezza. Da queste pratiche nuovenascono idee e giudizi inediti sulle cose del mondo.

Un aspetto differenzia ancora le narrazioni femminili: la poca dime-stichezza e simpatia per l’uso del pronome personale “io”. Come abbiamodetto, seppure incrinata e probabilmente indebolita, l’identità maschile ri-mane sostanzialmente integra. Per le donne la percezione di se stesse è piùpoliedrica, più complessa e sfaccettata, più intimamente legata alla relazio-ne con gli altri.

La lunga premessa sin qui fatta serve a spiegare che il diario di Anna ro-vescia tutti gli stereotipi dell’essere donna partigiana: mette radicalmente espesso in modo provocatorio in discussione il concetto di libertà femminile

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e svolge riflessioni interessanti sul concetto di “cura” come presunto e indi-scutibile compito delle donne. Inoltre la natura complessa dell’identità fem-minile con le sue contraddizioni e i conflitti emerge con grande nitidezza.Per il modo di trattare i temi della libertà, dell’accudimento e della morale,del proprio diritto a prendere la parola, il diario di Anna offre sollecitazioniche vanno molto al di là di quanto siamo abituate a sentire. Per usare un ter-mine comune, si tratta di pagine assolutamente fuori dall’idea del “politica-mente corretto” dei racconti della lotta di Liberazione.

Un altro aspetto interessante è che il diario di Anna è stato scritto du-rante la guerra, così come le lettere tra la protagonista e il futuro marito.Questo rende ancora più spiazzante il suo pensiero femminile, così distan-te culturalmente dal tempo che lo ha generato.

Non può esistere verità senza libertà

Il diario della partigiana Maria Antonietta Moro, nata a Fiume Veneto nel1919, sposata con Ardito “Ario” Fornasir, dirigente del Fronte della Gio-ventù, poi commissario politico della Brigata “Ippolito Nievo B” offre, co-me si è detto, molti spunti di riflessione. Il primo riguarda il suo pensieropolitico sui fatti che la videro protagonista, un pensiero davvero controcor-rente sul Movimento di liberazione, sulla cui genesi è possibile fare alcuneipotesi.

Maria Antonietta assumerà, nel corso del periodo descritto in questepagine, sostanzialmente dal 1942 al 1945, due distinti nomi di battaglia:Nataša ed Anna. Sul problema delle diverse identità della protagonistatorneremo in seguito. Qui occorre sottolineare l’aspetto forte e provoca-torio del racconto, che si discosta in modo evidente dalla memorialisticapartigiana che conosciamo. Nelle pagine iniziali Anna rivendica con forzail suo diritto a dire ciò che pensa, legittimata dal suo impegno nella lotta.L’interlocutore è il compagno Ario, ma non è solo in quanto donna cheAnna prende la parola, ma in quanto compagna e combattente che,avendo contribuito a infrangere i ruoli tradizionali, può legittimamentedire con forza la propria opinione. In questo atteggiamento ritroviamouna nuova soggettività femminile, che è uno degli esiti più innovatividella lotta di Liberazione.

È proprio l’assenza di remore e di retorica che colpiscono nella let-tura. Spesso i giudizi dati sui partigiani italiani sono sferzanti. Essi ven-gono paragonati ai combattenti slavi, descritti come coraggiosi, audaci,colti, modesti e legati al popolo, spesso l’esatto contrario di quanto affer-mato per i suoi compagni di lotta. Per pochi partigiani della sua nazione

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Anna sente di esprimere la considerazione e la stima che prova per gli al-tri. Perché formuli giudizi così netti, come sia arrivata a esprimere diffe-renze tanto radicali tra le due Resistenze, quella italiana e quella slovena,lo possiamo solo ipotizzare attraverso una serie di considerazioni. Vedia-mone alcune.

Luigi Raimondi Cominesi racconta la vicenda della famiglia della pro-tagonista, ricordata per avere ospitato, con grande pericolo, Mario Modot-ti, “Tribuno”, tecnico monfalconese del Cantiere Navale, comandante diBattaglione della Garibaldi e successivamente della Brigata “Ippolito Nie-vo A”, con direzione unificata tra le formazioni garibaldine e quelle osova-ne5. La famiglia della protagonista gioca un ruolo centrale nella sua vicen-da personale e in quella della Resistenza. I Moro di Fiume Veneto sono unafamiglia antifascista. Il padre Genesio era proprietario di una piccola im-presa edile, la moglie Maria Sellan, chiamata Mariù, ospitò e accudì in ca-sa il Comando partigiano della Divisione Modotti, nascondendo armi,munizioni, documenti importanti. Anna aveva dei fratelli impegnati comelei nella Resistenza: Erminio, Piergiorgio,Vittorino “Cesare” ed Eliseo “Lu-ciano”, deportato a Dachau nel febbraio del 1945 e rientrato il 29 maggiodello stesso anno, che appartenevano alla brigata Anthos. Completava la fa-miglia la sorella Teresita. Genesio venne incarcerato per l’attività antifasci-sta di Anna e la madre subì numerose violente perquisizioni da parte delleBrigate Nere, sempre alla ricerca dei giovani partigiani, degli altri coman-danti, di carte utili alla loro cattura.

“Tribuno” fu ospitato dai Moro e fu la persona che, in accordo con ipartigiani sloveni, chiese ad Anna di rientrare da Gorizia nella zona del por-denonese per aiutare la resistenza italiana locale. La vicenda di Mario Mo-dotti è emblematica delle difficoltà e degli scacchi che incontrarono uomi-ni coraggiosi sino alla morte, ma spesso non addestrati all’impegno milita-re. Raimondi Cominesi illustra l’attacco partigiano al presidio di Vedron-za nel novembre del ‘43, una delle prime azioni partigiane, fatta per cerca-re di alleggerire una situazione molto difficile, venutasi a creare dopo la di-struzione operata dai tedeschi della zona libera di Caporetto, dove i parti-giani sloveni proteggevano alle spalle i combattenti della brigata Garibaldi-Friuli. L’azione di Vedronza fu una sconfitta dal punto di vista militare: icomandi italiani non si erano accorti che al presidio era arrivato un ulterio-re contingente di truppe nemiche a dar man forte a quelle che già vi eranoacquartierate e così, in quella sfortunata azione, morirono tre partigiani ecinque di essi furono feriti.

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5. L. Raimondi Cominesi, Modotti Mario “Tribuno”, Istituto Friulano per la Storia del Movimentodi Liberazione, Udine 2002.

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Ma il fatto più problematico fu il successivo scioglimento del Batta-glione Garibaldi a causa dei continui rastrellamenti effettuati dai tedeschi,in una situazione che impediva ai combattenti qualsiasi ripiegamento checonsentisse l’approvvigionamento, il riposo e la riorganizzazione delle loroforze. Mario Lizzero “Andrea” condannò pesantemente questa decisioneche, inevitabilmente, portò a uno sbandamento delle forze partigiane, at-tribuendolo non solo alla scarsa preparazione militare degli uomini, ma an-che a un misterioso biglietto, proveniente dalla Federazione di Udine, cheavrebbe invitato a “rompere le righe” e che non si capì da chi fosse statospedito. Entrambi gli episodi, con i conflitti e le discussioni che ne scatu-rirono, portarono a crisi, delusioni, smarrimento tra i combattenti.

“Tribuno”, anch’egli aspramente rimproverato da Andrea, non ricoprìimmediatamente posti di comando, ma svolse il compito di collegamentotra pianura e montagna. In questo ruolo si dimostrò instancabile e ubiquo,spinto dal desiderio di riprendere il suo lavoro e, soprattutto, il suo ruolodi comandante.

Nella biografia che Raimondi Cominesi gli dedica, si notano fre-quenti momenti di amarezza del protagonista in relazione a una presuntanon valorizzazione dei suoi sforzi da parte della Federazione del Pci diUdine. Ostelio Modesti “Franco”, segretario della Federazione del partito,legato ad Anna e Ario da rapporti molto stretti, respinse queste osserva-zioni; il mancato riconoscimento era dovuto probabilmente non a pocastima, ma a motivi legati alle contingenze della guerra: la difficoltà di fararrivare messaggi, le forze preponderanti del nemico e gli attacchi che sfi-bravano i partigiani, la presenza di numerosi centri di repressione dove,con la tortura, si riuscivano spesso a estorcere informazioni e denunce acoloro che venivano catturati. Così fu per “Topolino”, il giovane che ac-compagnava Modotti e di cui lui si fidò a lungo e che fu invece la causadi numerosi arresti.

La famiglia Modotti, imparentata con quella di un altro celebre co-mandante partigiano della zona, Mario Fantini “Sasso”, fu costretta a pere-grinare in diverse località per sfuggire alla repressione dei nazisti. Da Vipul-zano, da cui erano fuggiti dopo aver lasciato Monfalcone, essi raggiunseroper un periodo di tempo Fiume Veneto dove la numerosa famiglia vennealloggiata e accudita da Mariù e dove si svolse un incontro importante traMario Modotti e Ostelio Modesti, salvato nel settembre del 1943 durantela battaglia di Gorizia proprio da Maria Antonietta Moro, a quel tempo in-fermiera e partigiana con il nome di battaglia di Nataša.

L’ultima residenza della famiglia Modotti fu Bicinicco. Tribuno ven-ne catturato proprio lì a causa della delazione di un giovane, Italo Pagavi-no, ex intendente della “Montes”, il cui comandante, Silvio Marcuzzi, ar-

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restato presso il mulino di Muzzana, scomparve tragicamente dopo tortu-re terribili a Palmanova, anche lui per delazione6.

Incrociando le fonti e le letture con le più recenti acquisizioni storio-grafiche emergono con evidenza due elementi. Da un lato l’estensione el’efficacia degli strumenti repressivi messi in atto dai nazisti e dai loro col-laboratori; dall’altro l’ovvia inesperienza partigiana in merito alle regoledella guerriglia, che ebbe come tragica conseguenza la morte di centinaiadi combattenti, la distruzione fisica e psicologica di molte famiglie, la rot-tura di stabili legami comunitari.

Colpisce nelle vicende della Resistenza la presenza costante di spie edi informatori, spesso ex partigiani, amici e compagni delle vittime, talvol-ta famigliari, di frequente staffette o collaboratori di cui il resistente si fida-va senza remore. Possiamo quindi comprendere l’ansia e la paura dei com-battenti, la cui esistenza e la cui azione correvano rischi mortali proprio acausa dei tradimenti da parte di persone cui era stata concessa massima fi-ducia. Possiamo anche comprendere la depressione, il senso di scoramentoe di abbandono nel prendere atto che la violenza del nemico risultava digrande efficacia e riusciva a scompaginare le proprie fila.

Solo in questi ultimi anni il problema delle spie e dei delatori all’in-terno del movimento di Liberazione comincia a essere approfondito. An-che questo aspetto mette in evidenza i mutamenti intervenuti nella consi-derazione della Resistenza, che fu tutt’altro che un’azione di massa, e mo-stra la evoluzione della memoria delle comunità di origine dei “traditori”.La memoria sociale dei paesi per anni ha minimizzato l’idea che la spia fos-se un appartenente alla stessa comunità del partigiano, talvolta componen-te della stessa famiglia. Località insignite di riconoscimenti importanti peril contributo dato alla lotta di Liberazione, intesa come movimento popo-lare di massa, avevano difficoltà ad accettare l’idea che i partigiani avesserofatto una lotta eroica, proprio perché non era stata da tutti condivisa allostesso modo ed era irta di pericoli mortali che provenivano dall’interno del-lo stesso gruppo di appartenenza e talvolta dalla stessa famiglia del ribelle.

Per la zona del monfalconese l’attenzione finora si era puntata quasiesclusivamente sulla presenza del traditore Walter Gerlaschi “Blechi”, uc-ciso assieme alla madre, in un’azione rocambolesca e mitica, all’interno

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6. Le vicende drammatiche di Mario Modotti e Silvio Marcuzzi, le delazioni, la carcerazione e la mor-te sono raccontati nel volume di I. Bolzon, Repressione antipartigiana in Friuli. La Caserma “Piave”di Palmanova e i processi del dopoguerra, Udine 2012. Nel volume troviamo le vicende del presidio diVedronza e del misterioso bigliettino che sollecita allo scioglimento del battaglione. Sulla famiglia diModotti e sul rapporto che ebbe con Mario Fantini, si veda L. Patat, Mario Fantini “Sasso”. Coman-dante della Divisione “Garibaldi Natisone”, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Libera-zione, Udine1999.

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dello stesso Ospedale di Monfalcone nell’inverno del 1944. La memoria-listica e le testimonianze non omettono mai l’episodio di Blechi, la cui vi-cenda fu frutto non solo di discussioni, ma oggetto di componimenti poe-tici e di vere e proprie improvvisazioni teatrali che si svolgevano in mon-tagna. Grande era stata la gioia per la “liquidazione” del traditore da partedei combattenti. La storia della sua uccisione, con i toni teatrali e dram-matici che ha assunto, ha in qualche modo coperto però un’altra realtà7.

Le spie erano più numerose di quanto si potesse pensare e il tessutofamigliare dei paesi cominciava a mostrare delle smagliature, soprattuttoa partire dal ‘44, quando un gruppo di uomini agli ordini di Odorico Bor-satti e Ernesto Ruggiero si distinse a Palmanova e nelle zone vicine perun’azione intensa di rastrellamenti, torture, fucilazioni che avevano il du-plice scopo di far parlare coloro che venivano catturati e quella, altrettantofondamentale, di terrorizzare la popolazione. Lasciando di frequente i ca-daveri dei catturati sulle strade, la gente poteva comprendere i rischi cuisarebbe andata incontro in caso di aiuti ai ribelli. Accanto a Borsatti eRuggiero agirono con gli stessi metodi il tenente Angelo Leschiutta e gliappartenenti alla Milizia e alle Brigate Nere di Udine e Pordenone.

Ma altrettanto violenta era la minaccia che colpiva i famigliari dei par-tigiani. Come ricordano diverse donne di Gorizia, alle prese con i metodidei nazisti e dei fascisti dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, se ilfamigliare sospettato di aiutare i partigiani non si fosse presentato entro 24o 48 ore alle autorità tedesche che lo cercavano, a pagare sarebbero stati icongiunti.

Nel diario di Anna è presente il tema del senso di colpa nei confrontidei suoi famigliari. Se non avesse partecipato attivamente alla Resistenza,il padre e il fratello Eliseo sarebbero stati catturati e internati? E poi altredomande si sarà forse posta Anna. Tutte le regole della clandestinità eranostate scrupolosamente osservate o alcuni incidenti erano potuti accadereanche per l’impulsività e la spavalderia di qualche comandante partigiano?Erano domande terribili a cui spesso Anna rispondeva criticando il mododi fare dei dirigenti italiani, ma anche quello della gente, del popolo pocopreparato a una lotta senza esclusione di colpi, impaurito dai rischi, resofragile dalla labile dirittura morale. Certamente la maggiore preparazionedegli sloveni, abituati alle ferree regole della lotta clandestina già a partiredagli anni Venti e Trenta, offriva ad Anna una maggiore garanzia e sicu-rezza e le suscitava un’impressione di maggiore affidabilità. Per questoaveva deciso di chiamarsi Nataša , identificandosi con le aspirazioni e imetodi di lotta della Resistenza slovena, e di aiutare come infermiera, in-

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7. Ho trattato la vicenda di Walter Gherlaschi nel volume su Ondina Peteani, già citato.

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quadrata nel movimento di Liberazione, i partigiani sloveni che opera-vano a Gorizia.

Il contesto goriziano e le radici dei giudizi politici di Nataša

La stima che Maria Antonietta-Nataša provava per i combattenti sloveni,quando a Gorizia frequentava “Il Nazareno” come allieva infermiera, ècomprensibile e motivata in una ragazza come lei, desiderosa di giustizia edi uguaglianza sociale.

Dopo la prima guerra mondiale “Il Nazareno” era stato preso in cari-co dal Municipio di Gorizia che lo aveva adibito ad Ospedale Civile, conla presenza, come infermiere, delle Suore della Divina Provvidenza. Dal1931 e per circa un trentennio l’edificio divenne anche Scuola Convitto edè proprio lì, durante la guerra, che Maria Antonietta divenne convintamen-te Nataša e poi, alla fine dell’esperienza goriziana, Anna.

Abbiamo dall’autrice le prime notizie del Convitto a partire dal no-vembre del ‘42, quando la guerra, iniziata per l’Italia da due anni, per glisloveni durava già da oltre un ventennio. Stiamo parlando evidentementenon di una guerra guerreggiata, ma di uno scontro aspro e continuo, convittime, arresti ed espulsioni dal territorio, soprattutto di intellettuali, cheaveva lo scopo di annientare la specificità multietnica dei territori orien-tali, per i quali erano morti migliaia di soldati italiani nel nome della “re-denzione” di terre che non erano di certo compattamente italiane e cheera giunto il momento di “rendere omogenee” dal punto di vista lingui-stico.

Tutta la popolazione di lingua slava – sloveni e croati – era coinvoltaalla stessa stregua nel contrastare la politica “snazionalizzatrice”, sia che sitrattasse di liberali, fedeli dunque alla monarchia cosiddetta SHS – cioèSerba, Croata, Slovena – sia che si trattasse di cristiano-sociali, sia che sisentissero socialisti o comunisti. Il trattamento che essi subirono, primadalle autorità italiane al comando di Petitti di Roreto immediatamente altermine della prima guerra mondiale, e poi sotto il fascismo, fu talmenteduro da minimizzare le differenze politiche, culturali e religiose della co-munità slovena sotto l’urgenza di difendersi tanto dal progetto dei Savoia,quanto da quello di Mussolini: rendere omogeneo il territorio che, con ilTrattato di Rapallo, firmato nel novembre del 1920, aveva annesso circa300.000 cittadini di lingua slava, che si assommavano a quelli già presentinel Litorale. Le diverse opinioni nella comunità degli sloveni e dei croati siespressero con vivacità al suo interno, ma certamente la pressione italianafu talmente intensa da indurre gli slavi a giudicare il fascismo come un ma-

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le da combattere a tutti i costi, seppure da diversi punti di osservazione po-litica, culturale e religiosa.

La storica slovena Milica Kacin Wohinz8 fissa una data periodizzantenella storia della comunità slovena triestina e goriziana. Si tratta del 1920.In quegli anni la spinta rivoluzionaria in Italia e nella Venezia Giulia da par-te del movimento operaio fu estremamente intensa. Le condizioni disastro-se del primo dopoguerra e l’esempio della Russia rivoluzionaria crearonoun’accelerazione imprevista dell’organizzazione operaia. Nel 1920 il comi-tato regionale del partito socialista decise di estendere più concretamentela propria azione anche nell’Isontino, di creare commissioni operaie dentrole fabbriche e un fronte unico di lavoratori italiani e sloveni contro ognicompromissione con l’elemento “borghese”. La forza di questo movimen-to fu testimoniata dalla grandiosa manifestazione del Primo Maggio a Gra-disca, dove confluirono migliaia di operai dei cantieri, di lavoratrici dellefabbriche tessili, di contadini italiani e sloveni. Nel corso del 1920 si diffu-se, spesso in maniera del tutto infondata, il timore che «gli sloveni ed i croa-ti potessero rialzare la testa» e che anche coloro che non erano favorevoli al-la rivoluzione bolscevica, «non avessero comunque nulla da perderci».

Per tutto quel fatidico anno ci fu un forte risveglio dell’irredentismoslavo. A Gorizia, come ci ricorda Kacin, erano i sacerdoti, gli insegnanti ei segretari comunali sloveni a diffondere la propaganda segreta. Anche aGorizia, come accadeva a Trieste, «la polizia non riusciva ad individuareazioni concrete e responsabilità dei singoli». Oltre alla propaganda e allastampa, ben altro varcava il confine. Sempre secondo le autorità di polizia«i contadini del Carso e della Valle dell’Isonzo nascondevano armi e muni-zioni per servirsene al momento opportuno».

Kacin parla di un vero e proprio panico che si diffuse tra le autorità ela popolazione italiana prima del novembre del 1920 e lo attribuisce soprat-tutto all’azione degli irredentisti, che cercavano di far lievitare la paura peril “pericolo slavo” e giustificare in questo modo l’adozione di misure repres-sive più rigide. Tuttavia è innegabile che tra gli sloveni ed i croati crescessela consapevolezza che la questione in gioco era la sopravvivenza della co-munità in quanto tale e che per la sua salvezza bisognava essere in grado dicombattere una lotta senza esclusione di colpi.

Nel luglio del 1920 venne incendiato il Narodni Dom, il centralissi-

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8. Milica Emilija Kacin Wohinz, Alle origini del fascismo di confine. Gli sloveni della Venezia Giulia sot-to l’occupazione italiana 1918 -1921, Gorizia 2010; la bibliografia sul fascismo nella Venezia Giulia èmolto ricca, segnalo l’ultima, interessante pubblicazione di A. Vinci, Sentinelle della patria. Il fasci-smo al confine orientale 1918-1941, Roma-Bari 2011. Una recente pubblicazione mette in evidenza itemi trattati. Si tratta di Z. �ep�, D. Guštin, N. Troha, La Slovenia durante la seconda guerra mondia-le, Udine-Gorizia 2012.

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mo edificio triestino sede di associazioni, banche, circoli e foresteria slove-ni ad opera delle prime formazioni fasciste agli ordini di Filippo Giunta,con la protezione delle autorità locali. Il racconto dell’incendio fa parte del-la memoria collettiva degli sloveni di Trieste. Tutti narrano di aver visto lefiamme che salivano alte nel cielo della città, anche coloro che sarebberonati molti anni dopo. Per molto tempo mi sono chiesta da dove nascesse-ro questi “ricordi impossibili” e infine ho compreso che si trattava di unastoria che si tramandava di generazione in generazione, come quella deglischiaffi ai bambini sentiti parlare lo sloveno in tram, al cinema o nei nego-zi, o come quella degli sputi in bocca agli scolari che parlavano male l’ita-liano, o come quella della bambina appesa per le trecce ad un chiodo delmuro di un’aula di Gorizia perché non capiva un ordine dato dalla maestraitaliana. Da Trieste a Gorizia i ricordi degli sloveni sono concordi nel sot-tolineare l’aspetto brutale di una violenza inspiegabile, perché legata soload un’appartenenza etnica diversa. L’enormità dei gesti e la ripetitività deiracconti fanno capire come la memoria sia stata tramandata di padre in fi-glio, con una ricchezza emotiva invariata, tale da imprimersi nelle mentidei giovani «come se anche loro ci fossero stati».

Inoltre la gravità dei comportamenti degli italiani ai danni di vittimeinnocenti come i bambini fa metaforicamente comprendere l’entità dellaviolenza percepita dagli sloveni, “agnelli sacrificali” che suscitò un’ostilitàche dal 1920 in poi «infiammò l’odio nazionale tra i due popoli».

È dunque anche di questo contesto antico dobbiamo tenere contoquando ascoltiamo i commenti di Nataša sui combattenti sloveni: certo l’a-bitudine alla lotta e alla difesa nazionale e i primi rudimenti della lotta clan-destina e della guerriglia cominciarono a essere seminati precocemente inquegli anni e fruttarono nel periodo successivo. Certo il racconto e l’osser-vazione del trattamento cui gli sloveni erano sottoposti non poteva non su-scitarle sdegno e non farla schierare decisamente dallo loro parte.

Le condizioni degli sloveni e dei croati del Goriziano peggiorarononotevolmente a causa dei provvedimenti presi dal regime a partire dallametà degli anni Venti. Molti militanti “nazionalisti” o comunisti slovenifinirono nelle carceri del Tribunale Speciale o al confino, alcuni di loro siimpegneranno nella lotta di Liberazione con una competenza riguardoalle rigide regole della clandestinità, alla resistenza alle avversità e alla du-rezza della lotta, che solo l’esperienza dello scacco e del fallimento avevanopotuto loro insegnare. Ma non erano certamente solo i comunisti a cono-scere queste regole. I cattolico-sociali, i sacerdoti che difendevano la pra-tica del canto liturgico in sloveno e volevano celebrare la Messa nella lorolingua, furono perseguitati e cacciati anche dai ranghi più elevati della ge-rarchia ecclesiastica, come accadde all’arcivescovo della diocesi goriziana

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Borgia Sedej. Sul finire degli anni Venti tutta la cultura e le forme di so-cialità degli sloveni e dei croati si sgretolarono sotto l’influsso delle leggifasciste. I ceti più colti, appartenenti all’associazione liberale Edinost, fu-rono costretti all’emigrazione, anche attraverso il trasferimento coatto e illicenziamento degli insegnanti. A quel punto l’organizzazione cristiano-sociale guidata da Englebert Besedniak, attivista instancabile della comu-nità slovena goriziana e membro dei Congressi delle nazionalità europeeche trattavano il problema delle minoranze, fu costretta a darsi una strut-tura clandestina per cercare di difendere la cultura e la lingua slovena. Èinteressante osservare che grazie a Besedniak e a Josip Vilfan la situazionedella Venezia Giulia si evidenziò nei consessi internazionali come unadelle più gravi in Europa per quanto riguardava la questione delle mino-ranze nazionali9.

Nel 1941 si tenne a Trieste il cosiddetto secondo processo, dopo quel-lo che nel 1930 aveva condannato a morte quattro attivisti del TIGR, un’or-ganizzazione che si batteva per la difesa dell’identità nazionale slovena anchecon l’uso delle armi. Dal 2 al 14 dicembre di quell’anno, a distanza di ottomesi dall’invasione delle truppe italiane del Regno di Jugoslavia e dell’annes-sione della “provincia” di Lubiana, sessanta imputati furono giudicati dalTribunale speciale per la difesa dello Stato, che per l’occasione si era sposta-to a Trieste. Gli imputati appartenevano a tutte le classi sociali – liberi pro-fessionisti, operai, contadini, giovani intellettuali – ed erano di diverse for-mazioni ideologiche. Dopo vent’anni lo stato fascista era riuscito a portarein giudizio per intero la complessa società slovena e croata che aveva resisti-to all’assimilazione e a giudicarla tutta come potenzialmente colpevole inquanto strutturalmente diversa e radicalmente ostile ai principi di naziona-lità che il regime si sforzava con ogni mezzo di applicare10.

La Resistenza a Gorizia

Le osservazioni precedenti ci danno della situazione goriziana un tratto di-stintivo e permanente, almeno sino al 1945. Assistiamo cioè ad una pre-ponderanza dell’antifascismo sloveno rispetto a quello italiano e dunque al-l’egemonia che esso esercitò anche nelle vicende successive al 8 settembre.Come abbiamo visto le forze ostili al fascismo si erano già organizzate ne-

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9. Sull’attività dell’organizzazione cristiano sociale, E. Pelikan, L’attività clandestina del clero slovenodurante il fascismo, Udine 2002.10. Per la storia dell’attività del Tribunale Speciale si veda il saggio di A. Verrocchio, in M. Puppini,M. Verginella, A. Verrocchio, Dal processo Zaniboni al processo Tomaži�. Il Tribunale di Mussolini e ilconfine orientale (1927-1941), Udine 2003.

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gli anni precedenti, e in particolare dopo l’occupazione della Jugoslavia del-l’aprile del ‘41. Tanto intensa era l’attività partigiana che il Duce arrivò incittà, dopo la visita del’ 38, anche nel 1942 – preoccupato delle difficoltàche l’occupazione incontrava e del proliferare nella zona di bande di “ribel-li” – e impartì nuovi e duri ordini al suo esercito.

Nella riunione con i suoi generali Mussolini ribadì la necessità di im-primere una nuova svolta repressiva contro i partigiani e la popolazione cheli appoggiava, rendendo sistematici i rastrellamenti, le incarcerazioni, le de-portazioni. Ma gli oppositori al regime andavano intensificando la loroazione. In città si trattava di organizzare i giovani e le donne, perché fornis-sero informazioni e raccogliessero aiuti per le famiglie di coloro che eranoandati oltre confine già allo scoppio della guerra, per evitare di essere chia-mati alle armi, o erano stati inviati in luoghi sperduti dell’Italia centro me-ridionale nei cosiddetti Battaglioni Speciali, luoghi di detenzione dove slo-veni e croati trascorrevamo miseramente gli anni del conflitto, senza poterimbracciare le armi.

Subito dopo il secondo processo di Trieste, già nel 1941, Aldo Rupelracconta che a Kremence, località non lontana da Gorizia, si svolse una riu-nione di attivisti del partito, che successivamente si riunirono sul Carso,nella bassa Valle del Vipacco, lungo il greto dell’Isonzo, ma anche in oste-rie e case private, come ci ha raccontato Adele Devetak, segretaria dei gio-vani della zona Nord di Gorizia. Nello stesso anno Anton Veluscek “Ma-tevz” incontrava un gruppo di giovani goriziani sul Monte Santo. I Comi-tati del Fronte di Liberazione, Osvobodilna Fronta (OF), che vennero crea-ti proprio in quei giorni avevano il compito di coordinare la raccolta deimezzi economici per finanziare l’attività della Resistenza, con la pubblica-zione di manifesti e volantini. Nel 1942 – ricorda Rupel – il comitato cit-tadino dell’OF venne riorganizzato, suddividendo l’area urbana in unitàminori, chiamate “quarti”, che avevano diversi responsabili. Fu questastruttura che riuscì a sostenere la Resistenza in città e a rafforzarsi dopo l’ar-mistizio, o, come viene chiamato dalla storiografia slovena, la “capitolazio-ne” dell’Italia. Contemporaneamente venne formato anche un servizio diinformazione della Resistenza slovena su quanto accadeva in città, sulle per-sone sospette e i possibili infiltrati o doppiogiochisti dell’ OVRA che ci fu-rono anche nelle fila degli sloveni e dei croati. Tale sevizio – cui pure fa ri-ferimento Nataša – fu talmente efficace da essere informato ben sei mesiprima delle intenzioni dell’esercito italiano e del nuovo incarico che il reavrebbe conferito al generale Badoglio11.

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11. A cura di A. Rupel, Ljudska Vstaja. September 1943 Sestdesetletnica; L’insurrezione poplare. Settem-bre 1943. 60° anniversario, Gorizia 2003.

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La situazione conobbe una forte accelerazione con l’armistizio. Inquell’occasione i giovani si misero ad agire per raccogliere le armi che i sol-dati che abbandonavano il fronte dei Balcani consegnavano in cambio divestiti civili.

Nelle parole di Vilma Braini, partigiana deportata a Ravensbrück e aBergen Belsen, è riassunto il percorso della generazione di donne sloveneche decise di impegnarsi a fondo nella difesa contemporanea della propriacomunità e delle proprie idee politiche12.

A S. Andrea, il quartiere dove sono nata, c’erano alcune persone alle qua-li i fascisti avevano fatto bere l’olio di ricino, però erano casi limitati e i fa-scisti qui non hanno mai bruciato nulla.[... ] quindi sono diventata anti-fascista perché mi chiedevo i motivi di certe cose: perché mio padre era sta-to portato via? Perché non si poteva parlare sloveno? Dopo l’8 settembresiamo andati sul ponte IX Agosto e abbiamo cominciato a fermare le trup-pe che tornavano dalla Jugoslavia. Prendevamo tutto quello che avevano,armi, munizioni e portavamo tutto a Vertoiba. Dunque si può dire che unaparte del popolo goriziano ha applaudito in città quando sono arrivati i te-deschi, ma una parte si è organizzata in modo diverso.

Negli stessi giorni, da Monfalcone, lungo la strada del Vallone, confluironoa Gorizia, nel disperato tentativo di fermare l’avanzata tedesca, circa un mi-gliaio di lavoratori, soprattutto dei Cantieri Navali. Nei loro ricordi emergecon forza l’immagine di uno dei loro capi, Ferdinando Marega, il quale, sa-lito su un barile d’olio, incitava i compagni all’impresa disperata. I compa-gni di Marega, nelle memorie raccolte, sono tutti vestiti con i “terlis”, la tu-ta blu dei lavoratori delle industrie. I racconti e le immagini forniscono al let-tore lo spirito del tempo: fu un moto di rabbia spontanea quella dei lavora-tori, il desiderio che dopo l’armistizio le cose finissero, che il fascismo fosseun capitolo chiuso per sempre e che potesse iniziare una vita nuova. Invece,come tutti hanno raccontato, si preparava in quel momento il periodo piùduro della guerra. La Battaglia di Gorizia per i lavoratori italiani nacque co-sì, dallo sdegno dell’occupazione e dal bisogno di dire basta al conflitto13.

Lo stesso fatto storico, la Battaglia di Gorizia, viene presentato in ma-niera del tutto differente dalla storiografia e dalla memorialistica slovena.

Per l’attacco verso Gorizia il Comando di zona radunò quasi 10 battaglio-ni. La linea del fronte era divisa in tre settori. Comandante del settore me-ridionale con il centro a Sanpeter era Ivan Tursic”Iztok”; del settore cen-

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12. L’intervista a Vilma Braini, da me realizzata, si trova nel volume Sarà ancora bello, op. cit.13. Molti volumi raccontano della Battaglia Partigiana di Gorizia. Sinteticamente cito L. Patat, Ter-ra di frontiera. Fascismo, guerra e dopoguerra nell’Isontino e nella Bassa Friulana, Gradisca 2002.

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trale Karel Nardin “Jakec”, mentre il settore settentrionale dalla stazionecentrale fino al ponte di Salcano era al comando di Peter Cerin [...]. Leunità erano ben trincerate in modo che neppure l’aviazione tedesca potèprovocare inutili vittime durante le incursioni dall’aria. Gli insorti si spo-starono verso la città in tre colonne. I piani furono realizzati soltanto inparte: Jakec occupò la stazione ferroviaria, ma le altre due colonne nonportarono a termine il loro compito. Quasi contemporaneamente MartinGreif “Rudi” con una compagnia di combattenti ed aiutato da un gruppodi appartenenti al servizio di informazioni e di sicurezza VOS, comanda-ti da Zmago Zupancic, entrò nell’areoporto militare italiano presso Mirene distrusse 8 o 9 aerei...14

La citazione dimostra quanto abbiamo sostenuto: alla passione e all’entu-siasmo dei militanti antifascisti italiani si affiancò l’organizzazione dei com-battenti sloveni che andarono alla battaglia preparati militarmente. Doposcontri che durarono quasi un mese e che produssero alcune centinaia dimorti, gli italiani si dispersero: alcuni tornarono a casa, altri diedero vita al-la Brigata Proletaria. Tra i feriti della prima Battaglia partigiana in Italia cifu, come abbiamo detto, anche Ostelio Modesti, recuperato da Nataša eportato al riparo presso l’ospedale di Gorizia, dove venne curato e assistito.

L’impegno di Nataša nel movimento di Liberazione sloveno iniziadunque nel 1942. Al “Nazareno” si lega a un gruppo di ragazze di cui di-venta amica. Lidya, Ghita, Anniza, Nelly diventano le sue confidenti, quel-le con cui prende in giro la dura disciplina delle suore, ride, scherza, parladegli argomenti che interessano le ragazze della sua età.

Lidya, Anniza e Ghita sono slovene. Sono loro molto probabilmentea raccontare a Nataša della loro vita sotto il fascismo, delle persecuzioni de-gli italiani, delle sofferenze del loro popolo. Nel diario Nataša dice con chia-rezza di essersi vergognata di essere italiana. Intanto a partire dal 1942 inospedale giungono militanti catturati dai fascisti, torturati nelle casermedell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza. Si tratta di uomini feriti, tu-mefatti, che non si lamentano, che non maledicono la loro sorte e conser-vano intatta la loro dignità. Nataša e le compagne li curano, li aiutano ad-dirittura a scappare dall’ospedale affinché possano raggiungere la monta-gna. Nel corso di quell’anno muoiono sia Lydia che Ghita, a causa della lo-ro attività partigiana. Nataša prenderà il posto di Lidya all’interno dei grup-pi S.C. 34 che avevano il compito di organizzare i civili, aiutare i combat-tenti, fornire informazioni. Nataša è presente anche all’interno del carceredi via Barzellini, le cui celle scoppiano di resistenti sloveni, molti dei qualisaranno fucilati presso il cortile delle Milizie del Castello di Gorizia.

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14. In A.Rupel, cit. p.13.

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Nataša non apprezza i comunisti, ritenendoli incendiari saccheggiato-ri di chiese. Ma in questo breve tempo di radicali mutamenti è disponibile amodificare le sue idee, a cambiare identità, a mettere in discussione i luoghicomuni più radicati. Così inizia a identificare la borghesia con la guerra e laguerra con una terribile azione fatta ai danni dei ceti più poveri.

Dunque dall’esperienza concitata e cruciale in ospedale inizia ad im-parare che per quei combattenti feriti il comunismo è difesa del diritto deipiù deboli e degli oppressi.

Riflettendo e facendo esperienza, giunge alla conclusione che quelloche diceva il comunismo non era lontano da quanto affermato dalla reli-gione. Non solo, Nataša-Anna diventa capace di andare a fondo nelle sueidee, svelandone limiti e contraddizioni, quando afferma ad esempio chelei parlava con le inservienti dell’ospedale, giudicandole dunque interlocu-trici allo stesso suo livello, ma non avrebbe lavato una sola tazza per allevia-re la loro fatica, dando prova così di un certo classismo inconscio che avreb-be voluto superare. È proprio questa consapevolezza, talvolta amara e au-tocritica, che appare come una caratteristica del tutto nuova nel descriverela propria esperienza.

Solo la scoperta che anche gli italiani combattevano consente a Natašadi riappropriarsi della propria “dolce lingua” senza sentirsi in colpa, ma la sti-ma per i combattenti sloveni rimane inalterata. All’ospedale di Gorizia ha lafortuna di incontrare alcuni medici che collaborarono attivamente durantegli anni della guerra, curando e facendo scappare partigiani ricercati dalle au-torità naziste. È giusto ricordare il primario Luigi Sussi, che si occupò perso-nalmente dei feriti degli scontri del settembre ‘43, ma bisogna anche nomi-nare il dottor Mario Tavasani, attivo nella zona di Cormons, e il primario diMonfalcone, il dottor Veglioni, esponente del Cln della città. Con Sussi An-na può dunque lavorare nell’immediata emergenza di quella lotta. Successi-vamente molti partigiani vengono assistiti negli ospedali militari sloveni delIX Corpus, dislocati in zone impervie e difficilmente accessibili.

Grande sarà il dolore di Anna nell’ubbidire all’ordine di “Tribuno” e“Sasso” che, in accordo con Ostelio e i compagni sloveni, decisero di man-darla a Udine, ritenendo più utile la sua presenza in quella zona. Ma l’espe-rienza di quanto aveva appreso a Gorizia rimase per lei una tappa fonda-mentale della sua crescita politica e umana.

Un’altra Resistenza: ritorno alla Destra Tagliamento

L’impatto di Anna con i partigiani italiani nel luglio del 1944 è fonte perlei di grande demoralizzazione. Abituata alla lotta organizzata di pianura

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che ha però come epicentro la montagna – le indicazioni di Tito sull’im-portanza di condurre la lotta “nel bosco” e non nei posti di lavoro o in cittàera chiarissima e produsse molte discussioni all’interno del Cln nazionale– conosce un nuovo modo di combattere i tedeschi ed i fascisti: quella deiGap di pianura, che non si limitano, attraverso le intendenze, a rifornire imilitanti in montagna, ma compiono azioni clamorose che talvolta liespongono a gravi pericoli15.

Anna sottolinea il distacco che molti dei compagni “esperti”, rientra-ti dal confino o dall’esilio, dimostravano nei riguardi delle caratteristichedel popolo di cui si ponevano alla guida. Ed è vero che vi era una certa ri-gidità teorica, un modo “scolastico” di giudicare le masse popolari, in par-ticolare i contadini, sulla cui consapevolezza politica e affidabilità nella lot-ta i pareri erano molto differenti nel movimento comunista stesso.

L’affidarsi a combattenti con esperienza era però uno scotto inevitabi-le da pagare per evitare gli errori più grossolani, le ingenuità e le sprovve-dutezze che in persone poco avvezze alla lotta armata si sarebbero sicura-mente manifestate. E non poteva certo essere il centro padovano del Pcd’Ia dare consigli e indicazioni in questo senso. Da Padova, sotto la direzionedi Eugenio Curiel, fisico, ebreo triestino, anch’egli insegnante all’“Univer-sità proletaria” di Ventotene, arrivavano indicazioni di ordine generale, co-me quella di riunire i ragazzi e le ragazze nel Fronte della Gioventù. Ognu-no doveva organizzare sul territorio che meglio conosceva la propria Resi-stenza, attingendo a risorse locali.

Tra le risorse umane più preziose c’erano anche quei militari che, do-po l’8 settembre, decisero di abbandonare l’esercito e di unirsi ai partigia-ni. Uno di loro si chiamava Ardito Fornasir. Era nato nel 1912 a Udine, fi-glio di Antonio Fornasir e Maria Moro. Ardito è di famiglia operaia, ha fra-telli e una sorella; nella sua autobiografia dice di aver potuto studiare pocoe di aver iniziato a lavorare già a 12 anni come apprendista falegname. Pri-ma della guerra, Ardito svolge un’attività politica “molto relativa”, limitataa qualche volantinaggio e all’organizzazione di uno sciopero dei cotonierinel 1931. È proprio la guerra a modificare il punto di vista del giovane. Nel1939 è sul fronte di Albania, poi combatte in Grecia, dove rimane ferito.Viene dunque trasferito a Napoli, dove svolge lavoro di ufficio, ma poi, nel1942, affronta la guerra di Russia. Al rientro è impiegato in un battaglio-ne operante contro i partigiani nella zona sopra Cividale. La biografia diArdito non ci segnala i suoi stati d’animo, i giudizi sugli avvenimenti chematurarono nel corso delle operazioni belliche; sappiamo solo che il 12 set-

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15. S. Peli, La Resistenza in Italia, Torino 2004.

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tembre riesce a tornare a casa dalla zona di Caporetto e che il 14 sale inmontagna e prende contatti con i partigiani che danno vita al BattaglioneFriuli. All’inizio svolge azioni di collegamento tra il Battaglione e la città diUdine. Si tratta di un’attività estremamente rischiosa. Ardito deve racco-gliere cibo, indumenti, ma anche armi e munizioni, attraversando di gior-no e di notte i posti di blocco tedeschi. Un gruppo di compagni verrà cat-turato, costringendolo a ricominciare daccapo il lavoro organizzativo. Quelgiorno avrebbero dovuto trasportare in montagna una mitragliatrice Breda37 con le munizioni, ma all’appuntamento non si era presentato nessuno.A Udine riesce a mettere insieme qualche decina di persone per compiereazioni di sabotaggio.

Nel novembre del 1943 gli viene dato l’incarico dal Comitato federa-le del Partito comunista di organizzare i ragazzi e le ragazze nel Fronte del-la Gioventù, secondo le indicazioni del centro di Padova. Marzo, aprile emaggio del ‘44 sono dedicati a questo compito, che Ardito svolge in ma-niera attiva e produttiva, riuscendo a mettere insieme un gruppo di giova-ni ribelli all’occupazione nazista. I ragazzi organizzano gli aiuti per i parti-giani della montagna ma si impegnano anche in azioni militari e di guerri-glia. Molti di loro vengono catturati e deportati o devono lasciare la città erifugiarsi in montagna, perché il loro impegno è ormai noto a nazisti e re-pubblichini. Ben 240 ragazzi salgono in montagna – secondo quanto affer-mato in una relazione di Giovanni Padoan “Vanni”, commissario politicodella Garibaldi Natisone – e riescono a costituire un intero battaglione digiovani16.

L’azione politica e militare di Fornasir fu così efficace che venne invia-to nel pordenonese a organizzare le formazioni partigiane che, in quella zo-na, avevano bisogno della sua esperienza politica e, soprattutto, militare. Ilsergente maggiore Ardito Fornasir, che viene descritto in un rapporto del-l’esercito come persona di poche parole ma di carattere fermo, lavoratoreinstancabile, disciplinato e con spiccato senso del gruppo, diventa così ilpartigiano “Ario”, comandante della Divisione Mario Modotti e della Bri-gata Ippolito Nievo B, esempio della riuscita unità tra le forze garibaldinee quelle osovane.

La situazione dei resistenti nella Destra Tagliamento è bene illustratada numerosi storici i quali hanno tenuto in considerazione anche il memo-riale che lo stesso Ario preparò dopo la guerra.

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16. Utilizzo la relazione di Giovanni Padoan “Vanni”, conservata presso l’Istituto di Storia del Movi-mento di Liberazione di Udine, gentilmente datami da Lorena Fornasir, la figlia di Anna e Ario, chemi ha fornito anche la relazione che il padre stilò nel dopoguerra sulle azioni partigiane compiute dal-la formazione in cui militava. Da questi due documenti ho tratto il racconto degli avvenimenti chesi trovano nelle pagine successive.

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Mi pare che Bruno Steffé sintetizzi in modo efficace la situazione deltempo:

Nella Pianura della Destra Tagliamento l’incitamento di radio Londra, lapropaganda comunista locale, la sensazione di essere vicini al conflitto e almomento del passaggio dal regime autoritario a uno di libertà e di demo-crazia, furono tutti elementi concomitanti per indurre molti giovani, nel-l’estate del ‘44, a inserirsi nella lotta di liberazione senza recarsi in monta-gna, ma unendosi ai partigiani locali (gappisti ed intendenti) operanti inzona.I comandanti garibaldini cercarono di non perdere l’attivismo potenzialedei volontari e li utilizzarono: nei centri abitati, come continuazione del-la Resistenza al fascismo, in una lotta subdola con l’assunzione di informa-zioni militari; in azione di sobillazione e di propaganda, ma anche di eli-minazione di spie; nel territorio, nella raccolta di materiali e di approvvi-gionamenti; in azioni di guerriglia e in certi casi con scontri fisici densi dianimosità. Gli aderenti al movimento, sintantoché non venivano indivi-duati, abitavano in casa propria, poi dovevano trovare rifugio da parenti oda famiglie amiche insospettabili, o vivere alla macchia, singolarmente co-me cani randagi o in gruppi. Alcuni capi squadra GAP e d’Intendenza, di-vennero comandanti di reparto, autonomi rispetto alla montagna, spessoanimati dall’ambizione di fare, con molto coraggio ma anche senza aver-ne la preparazione.17

Leggendo questi resoconti, ma anche la straordinaria storia di GiuseppeDel Mei “Pantera”18, ci si forma un’immagine abbastanza precisa delle dif-ficoltà del lavoro in pianura. L’adesione, spesso entusiasta, di giovani allalotta contro il nazismo, nascondeva talvolta l’impreparazione alla guerrigliae non sempre prevedeva una formazione politica solida. All’interno delle fi-la partigiane ci potevano essere atteggiamenti estremisti o di incosciente in-dividualismo che mettevano a rischio l’incolumità collettiva: c’era da fareun grande lavoro di organizzazione e di direzione politica che Ario affrontòcon grande serietà e scrupolo, anche se le contraddizioni non mancarono.

Anna incontra dunque Ario nel periodo in cui tutti questi giovani im-pavidi e inconsapevoli andavano seguiti e organizzati. La conoscenza avvie-ne negli spogli locali del Comando, sito presso la “Casa Vecchia” nel boscoMantova di Fagnigola, dove Rino Favot “Sergio”, militante comunista dilunga data e confinato, e Carlo Bianchi “Glori”, maresciallo dell’aeronau-tica osovano poi passato con i garibaldini, organizzavano la guerriglia. Ilcompito di una formazione di pianura consisteva nel compiere azioni di sa-

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17. B. Steffè, La guerra di Liberazione nel territorio della Provincia di Pordenone 1943-1945, Pisa 1996.18. G. Mariuz, “Pantera” il ribelle. Vita di Giuseppe Del Mei (1924-1944). Medaglia d’oro della Resi-stenza, Udine 2011.

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botaggio, di eliminazione di persone particolarmente compromesse con ilregime, agendo in piccoli gruppi, in grado, una volta compiuta l’azione, dinascondersi vicino ai corsi d’acqua, nei fossi, nella boscaglia intorno ai cam-pi coltivati. La conoscenza del territorio consentiva ai ribelli di sfruttareogni anfratto e ogni nascondiglio per sfuggire alla repressione dei tedeschie dei fascisti. Naturalmente il periodo migliore per l’azione erano la prima-vera e l’estate, stagioni in cui il fitto fogliame consentiva una maggiore si-curezza. Con il cadere delle foglie il pericolo di essere scoperti era estremo.Le formazioni di pianura raccoglievano tutto ciò che serviva ai partigianidi montagna e facevano opera di propaganda. Responsabile della stesura digiornali e volantini era Terzo Drusin “Alberto”, insegnante di San Pietro alNatisone.

L’incontro con Ario modifica ulteriormente l’opinione di Anna su al-cuni partigiani italiani: Ario le appare una persona seria, volitiva, capace dicomandare e di farsi ubbidire. La dirittura morale e l’inflessibilità del co-mandante derivano da un principio morale che per lui è fondamentale: lalotta di liberazione deve essere compiuta con la massima onestà nei con-fronti delle persone cui si chiedono aiuti, viveri, bestiame e denaro. Il solosospetto che qualche partigiano avesse potuto trarre beneficio personaledalle requisizioni avrebbe gettato discredito sull’intero movimento. Secon-do la morale di Ario, verso questi soggetti, privi di coscienza politica, an-davano applicate le sanzioni, anche estreme, della giustizia partigiana. Unlavoro essenziale per le formazioni di pianura era la raccolta di informazio-ni su possibili spie, infiltrati, delatori. Anche nei loro confronti era neces-sario assumere una dirittura d’azione inflessibile, che fosse in grado di va-lutare con freddezza e lucidità le informazioni ricevute e agisse nei confron-ti del traditore «senza pietismi».

L’amore tra i due giovani non nasce subito, anzi all’inizio Anna mani-festa avversione per Ario-uomo, che trova irritante e villano, e ammirazio-ne invece per Ario-commissario politico che assomiglia ai comandanti slo-veni che sono per lei un modello entusiasmante. Anna giudica positiva-mente la capacità di comando di Ario, perché, a suo avviso, il popolo e al-cuni degli stessi partigiani, avevano una coscienza «blanda, avventuriera edinstabile». Per questi uomini e per questo popolo era necessaria una forza euna determinazione che Ario possedeva completamente.

È interessante cogliere il momento in cui Anna inizia ad apprezzareArio anche come uomo. Una sera a casa sua il commissario si ubriaca e ilsuo carattere chiuso, da “istrice”, svela emozioni, sfumature e pensieri cheinducono Anna a vederlo come un vero amico. La corazza di Ario ha mes-so in evidenza qualche incrinatura e lei è pronta ad accordargli il suo affet-to di amica. L’amore e la passione nascono da una conseguenza quasi logi-

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ca: se Ario è un valente comandante partigiano, se è un buon amico, allo-ra è anche naturalmente un uomo da amare, e così sarà per il resto dellaguerra e per molti anni dopo. La sua è una conclusione razionale: Anna giu-dica l’uomo secondo una gerarchia di valori che pone al primo posto lacompetenza nel combattere al meglio il nemico, la dedizione alla causa, laforte soggettività. Ma c’è anche un motivo storico e di contesto che spiegal’atteggiamento di Anna: ciò che accade al movimento partigiano nei con-vulsi mesi che vanno dall’ottobre del ‘44 sino al marzo-aprile del 1945,quando la zona viene liberata. Si tratta di avvenimenti drammatici che ren-dono solido e definitivo il rapporto tra Ario ed Anna. Le tragedie affronta-te ed il prezzo pagato alla loro idea politica rinforzano la loro unione ed ilfatto di essere insieme nella vita partigiana salva probabilmente a entram-bi la vita, che in quei pochi mesi cambia radicalmente.

L’opera instancabile di Ario e dei compagni della direzione dell’Ippo-lito Nievo B raggiunge il suo apice nel mese di ottobre del 1944. I combat-tenti hanno la speranza che la guerra stia per finire, anche grazie a un au-spicato intervento alleato. Ma il sogno si infrange rapidamente. In ottobreavviene l’arresto dei membri del Cln di Pordenone che si stavano recandoa Udine per una riunione e questo disarticola i collegamenti tra la brigatae la sua direzione politica. La zona, che nell’estate può essere considerata“libera”, con i partigiani che mettono sulla difensiva tedeschi e fascisti chesi muovono nei paesi solo a notte fonda, diventa, da ottobre in avanti, unterreno di scontro senza esclusione di colpi.

Grazie alla collaborazione di Ardito Fornasir e di Silvio Marcuzzi“Montes”, instancabile organizzatore dell’Intendenza dell’Isontino e dellaBassa, durante i mesi estivi cibo, coperte, armi, arrivavano senza difficoltà inmontagna. Il territorio viene dunque definito dai rapporti dei nazisti come“infestato dai ribelli”. I fascisti delle Brigate Nere, della Decima Mas e le di-verse formazioni armate naziste, la Wehrmacht, le SS e altre squadre specia-li, si dispongono quindi, dopo la prima decade di ottobre, a liberare il terri-torio dai partigiani. Iniziano i rastrellamenti e la zona viene setacciata in ognicasa, in ogni stalla, in ogni suo anfratto. Molti partigiani vengono catturati,altri uccisi, molti sono costretti a consegnarsi perché non sia la famiglia asopportare la dura repressione dei nazisti e dei fascisti. Cadono giovani checostituivano, come scrisse successivamente Pasolini, la «meglio gioventù»della zona19. Il proclama Alexander del 13 novembre del ‘44, che sollecita ipartigiani ad abbandonare la lotta e a tornare a casa, getta nello sconforto icombattenti che si sentono abbandonati e la cui strada del rientro nei paesid’origine è bruciata dal fatto che sono tutti ben noti al nemico.

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19. P. P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Milano 1962 (prima ed.).

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È in questo contesto durissimo, in cui la repressione, condotta congrande accuratezza moltiplica i tradimenti e le delazioni, che Ario si muo-ve, cercando di ri-organizzare le persone, di motivarle, di tenerle assiemeper evitare disastri maggiori. Le condizioni di vita diventano estreme: Arioè costretto a vivere di giorno in un bunker sotterraneo, ricevendo aiuti so-lo da elementi di assoluta fiducia e a muoversi solo di notte. Il gruppo di-rigente che lo aveva affiancato si disperde e lui rimane solo. La descrizioneche fa lo stesso Ario – nel memoriale da lui compilato nel dopoguerra – del-la situazione in cui si trova merita di essere riportata, anche perché in que-ste righe è possibile leggere il ruolo fondamentale che Anna svolge per pro-teggere la vita del commissario e dei suoi compagni:.

Ario è ora il solo che circoli mantenendo i legami con i vari reparti. Cercadi non avere gli abiti stazzonati anche se dorme indossandoli, cerca diavere sempre le scarpe lucide, anche se sono di carta, perché la prima cosache i rastrellanti osservano è il fango che, in questa stagione, permea iluoghi di accampamento, evita i centri abitati anche se ciò significa per-dita di tempo per andare da un accampamento ad un altro. È il momentoin cui la Anna, staffetta di Ario, deve darsi da fare di più di sempre edha in mano la rete di comando perché è la sola che conosce persone e re-capiti. È sempre in bicicletta e riesce varie volte a cavarsela quando in-cappa in posti di blocco e in rastrellamenti. Fa la spola da Ario a Glori,a Sergio, a Bruto.

In queste poche frasi, apparentemente obiettive, emerge tutto l’amore e lastima che Ario prova per Anna, che tiene ormai in mano le redini della si-tuazione.

Vi sono due episodi che vedono protagonisti Ario ed Anna che van-no ricordati per mettere in evidenza sia la durezza della lotta, sia la fiduciache doveva esistere tra comandante partigiano e staffetta, un sentimento diaffidamento totale che significava conoscere e condividere i principi e la de-terminazione necessaria alla lotta.

“Alberto” si è rifugiato con il suo ciclostile in un fienile in una casa co-lonica a metà strada tra il Ponte di Corva e Fossamala. È coadiuvato dallastaffetta Mimma, che funge anche da dattilografa della stampa partigiana.Ario, Glori e Anna raggiungono il rifugio di Alberto per incaricarlo distampare un volantino dove veniva messa in luce la figura di un altro par-tigiano, Franco Martelli, “Ferrini”, figura di spicco delle formazioni Osop-po, maggiore dell’esercito, fucilato dai tedeschi nel novembre di quell’an-no. Anna e Mimma rimangono fuori dal locale dove gli uomini stanno di-scutendo e Anna si accorge subito che la curiosità della donna riguardo al-l’identità dei due uomini è estremamente sospetta.

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Al termine del colloquio, quando Ario esce dal fienile, Anna gli ma-nifesta i suoi dubbi che lui condivide completamente, al punto da chiede-re ad Alberto di andarsene immediatamente dal fienile e di raggiungere dasolo un altro raggruppamento partigiano. Drusin non segue il consiglio ela notte stessa viene catturato dalla Brigate Nere a causa della delazione diMimma. Immediatamente, il 6 dicembre, Ario chiede ad Anna di indossa-re i vestiti migliori e di recarsi da monsignor Coromer, parroco di San Gior-gio, perché si faccia intermediario di uno scambio di prigionieri. MentreAnna percorre la via verso la meta indicata da Ario, incontra “Alberto” inmezzo ad un gruppo di fascisti, in condizione pietose, picchiato selvaggia-mente e con il volto tumefatto, che viene portato a un nuovo interrogato-rio. Anna rimane sconvolta dall’incontro, ma porta a termine la missione:Coromer assicura il suo intervento per la liberazione di “Alberto”. Ma nel-la notte tra l’8 e il 9 dicembre i fascisti trascinano Drusin nelle osterie deipaesi vicini, seviziandolo davanti alla clientela ammutolita, e infine lo get-tano nel fiume Livenza. Mimma diventa segretaria del Capitano Vetturini,noto fascista della zona. Il colpo è tremendo per l’organizzazione, che per-de un compagno fidato e capace la cui morte semina il terrore nella popo-lazione.

Il secondo episodio si svolge il 4 gennaio 1945. È da mesi ormai cheil movimento partigiano riceve duri colpi. Quel giorno il tenente Leschiut-ta, comandante delle Brigate Nere, compie un sopralluogo in casa Moro.Cerca Anna, che da tempo è stata individuata come elemento pericoloso. Ifamigliari dicono che la donna non è in casa, invece Anna è al piano di so-pra con Ario e sta lavando la federa del cuscino su cui il fidanzato, in pre-da ad una forte febbre, aveva riposato. Leschiutta si allontana momenta-neamente e Ario ne approfitta per scappare e recarsi a una riunione al mu-lino Frattolin di Bannia. All’incontro alcuni compagni non arrivano. Giun-ge lì invece Anna sconvolta dal fatto che i fascisti erano tornati in forza eavevano perquisito la casa: solo per fortuna lei e la madre erano riuscite aoccultare dei proiettili e dei documenti importanti, mentre Leschiutta ave-va depredato l’abitazione, chiedendo notizie di Ario e di altri partigiani, tracui il padre di Anna, Genesio, e i fratelli Vittorino ed Eliseo. Anna, su sol-lecitazione della madre, riesce a fuggire e assiste nascosta al saccheggio del-la sua casa, temendo per la sorte della madre e degli altri famigliari.

Ormai la situazione è diventata estremamente critica. Il gruppo deicompagni superstiti decide di nascondersi nelle stalle dei contadini, pro-mettendo loro che nessuno sarebbe uscito durante il giorno, per non crea-re problemi. Fa freddo, c’è la neve, di notte gli uomini e le staffette esconoper cercare collegamenti, per tenere uniti i superstiti. Leggiamo dal diariodi Anna:

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Al freddo intenso dei primi giorni di gennaio segue la neve [...] i piedi so-no sempre bagnati, il puzzo di stalla impregna gli abiti e la scabbia non fadormire. Chi non riesce ad entrare prima dell’alba deve restare disteso neifossi, sopra ghiaccio e neve, per non farsi scorgere. Si possono vedere cosìle pattuglie tedesche e fasciste che vanno da paese a paese, perlustrando incerca di partigiani. Fanno ora solo rastrellamenti in zone delimitate, manon ottengono più risultati di sorta. Evidentemente non hanno più infor-mazioni precise, quali sono state quelle fornite loro da ex partigiani, e van-no a tentoni. I membri del gruppo Comando invece hanno fin troppo dafare e il tempo corre veloce. L’impossibilità di poter usare la bicicletta im-pone percorsi tra campi, fossi e rogge che possono sembrare impensabili.I fossi larghi e con molta acqua hanno, in punti prestabiliti, fasci di cannedi mais ancorati sul fondo, che permettono di superarli senza bagnarsi ec-cessivamente. Le rogge hanno tronchi d’albero che sembrano caduti acci-dentalmente per traverso, mentre servono da ponte, anche se bisogna di-ventare equilibristi per attraversarli. Passano i partigiani anche attraverso icortili i cui proprietari legano i cani dando alla catena la lunghezza per per-mettere di sfiorare i muri o le reti di cinta senza venire azzannati.

L’arresto di un altro partigiano mette definitivamente in pericolo la famigliaMoro. Ario e gli altri arrivano a Fiume Veneto decisi a far fuggire e a nascon-dere la madre di Anna con i due figli più piccoli. Ma giungono alla casa quan-do ormai le Brigate Nere sono già arrivate e assistono impotenti alle botteche vengono date al piccolo Erminio perché riveli dove si trovano Anna e ilfratello Vittorino. Dal febbraio del 1945, dopo questo episodio, Anna è co-stretta a rifugiarsi in una casa di contadini, con l’angoscia per la sorte di Arioe dei suoi famigliari. L’ansia è tanto più forte per i continui bombardamen-ti alleati che la spaventano moltissimo, gettandola nel panico più assoluto.

In quella casa scriverà delle lettere ad Ario, piene di amore e di deter-minazione, in cui analizza in profondità i suoi sentimenti e il suo stesso ca-rattere, inquieto, “da zingara”, spesso attraversato da dubbi e contraddizio-ni. Nella casa che la ospita Anna decide anche di incontrare dei giovani del-la zona per avviarli all’attività partigiana. Ario la critica duramente, è spa-ventato perché in questo modo la donna che ama si espone a grandi peri-coli. Il comandante non sempre capisce i sentimenti ambivalenti che attra-versano l’animo della sua compagna e non capisce l’atteggiamento di An-na, che talvolta si presta a soccorrere anche spie dei tedeschi per estorcernedelle informazioni. Per Ario si tratta di un atteggiamento incomprensibile,perché ritiene che al nemico ferito comunque le cure debbano essere som-ministrate, secondo l’etica e il giuramento di Ippocrate che deve guidare leazioni del personale sanitario in ogni circostanza.

Ma Anna è di altro avviso: grande è il suo odio per l’invasore, per co-loro che hanno distrutto famiglie intere, torturato gli amici e i compagni,

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terrorizzato le comunità. Per gli invasori Anna sente il dovere di applicarele regole della “giustizia partigiana”, nella consapevolezza che la battaglia incui erano impegnati Ario, i suoi compagni, lei stessa avesse per posta la vi-ta e la morte per loro o per gli avversari.

Anche qui possiamo osservare come Anna abbia completamente ro-vesciato i valori non solo della società di cui fa parte, ma anche della comu-nità politica dei partigiani che avrebbe dovuto costituire un’alternativa almodo di pensare alle relazioni sociali, ma che spesso condivideva giudizi evalori dei ceti dominanti. Quello della cura degli avversari feriti nel dram-matico contesto descritto è certamente un problema delicato, su cui ancheoggi è difficile esprimere un giudizio definitivo. Ciò che colpisce è la fran-chezza di Anna, il suo modo di esprimersi diretto e sincero.

Nelle stesse lettere Ario suggerisce ad Anna di non continuare la scuo-la di infermiera e di specializzarsi al massimo nella buona cucina: il matri-monio le avrebbe consentito di rimanere a casa. Elementi di parità e diuguaglianza, visioni politiche simili, cementate da un amore che si è forti-ficato nell’affrontare insieme grandi difficoltà, si scontrano così nuovamen-te con le diverse definizioni di ciò che compete alle donne. La partecipa-zione femminile alla lotta di liberazione per molti partigiani maschi è sta-ta un’eccezione e la fine della guerra implica un ritorno alla normalità e airuoli tradizionali che non tutte le donne accetteranno senza traumi.

Immagino dunque che la fine della guerra abbia prodotto in Annagioia, ma anche una profonda depressione. Quei tre anni travagliati in cuiaveva trasformato la sua identità, il suo credo politico, la devozione fami-gliare, il suo ruolo di donna e di infermiera, erano stati la radice profondadel suo nuovo modo di essere donna a cui difficilmente avrebbe potuto rinunciare.

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Le autrici

Anna Di Giannantonio, insegnante e ricercatrice storica, è membro del direttivo del-l'Istituto Regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giu-lia. Si occupa di storia politica e sociale del Confine Orientale, in particolare delle con-dizioni di vita e della mentalità dei ceti popolari, attraverso la raccolta e l’analisi dellefonti orali, con attenzione particolare alla storia di genere. Con Gloria Nemec ha scrit-to il saggio “Donne e uomini nel lavoro industriale: la classe operaia isontina tra fasci-smo e repubblica”, apparso nel volume Tra fabbrica e società. Mondi operai nell'Italiadel Novecento, a cura di Stefano Musso, Milano, 1999; Gorizia operaia. I lavoratori e lelavoratrici isontini tra storia e memoria. 1920-1947, Gorizia, 2000; con S. Bon, M.Rossi, C. Fragiacomo ha pubblicato un saggio nel volume Sarà ancora bello. Storie didonne della Venezia Giulia tra fascismo, Resistenza e dopoguerra, Gradisca, 2004 con S.Perini, A. Morena, T. Montanari L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuo-vi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese, Mon-falcone, 2005; ha collaborato con un saggio al volume Operai, a cura di Stefano Mus-so, Torino, 2006; con G. Peteani ha pubblicato Ondina Peteani. La lotta partigiana, ladeportazione ad Auschwitz, l’impegno sociale: una vita per la libertà, Milano, 2011.

Lorena Fornasir, psicologa clinica, coordina l’area provinciale delle Adozioni dell’A-zienda sanitaria di Pordenone. Autrice di alcuni libri e articoli di psicoanalisi, cura itemi della genitorialità e dell’infanzia abbandonata.

Gabriella Musetti, vive a Trieste. Dal 2000 organizza “Residenze Estive” Incontri dipoesia e scrittura a Trieste e nel Friuli Venezia Giulia. Dirige Almanacco del Ramo d’O-ro, semestrale di poesia e cultura. Collabora a diverse riviste. Fa parte della Sil - SocietàItaliana delle Letterate. Tra le sue ultime pubblicazioni: Sconfinamenti. Confini passag-gi soglie nella scrittura delle donne, a cura di A. Chemello, G. Musetti, 2008; Guida sen-timentale di Trieste, a cura di, 2011, Racconti triestini. Antologia di scrittrici contempo-ranee, a cura di, 2012. In poesia: Obliquo resta il tempo, 2005; A chi di dovere, 2007,Premio Senigallia Spiaggia di Velluto; Beli Andjeo, 2009; Le sorelle, 2013.

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