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Gli affreschi raccontano L’Eneide di Palazzo Leoni ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

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Gli affreschi raccontanoL’Eneide di Palazzo Leoni

a cura di Elisabetta Landi fotografie di Andrea Scardova

ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

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La biblioteca “Giuseppe Guglielmi” a palazzo Leoni

Una biblioteca d’arte in uno scrigno d’arte. E’ questo il senso dell’operazione voluta dall’IBC nel 2011 con il trasferimento a Palazzo Leoni dell’intera raccolta di libri, do-cumenti e fotografie che l’Istituto ha prodotto e raccolto in oltre 40 anni di indagini e ricerche sul territorio regionale. La Biblioteca, venutasi a formare come ausilio all’attività dell’ente, è una collezione di circa 40.000 volumi sui beni artistici, culturali e naturali, con riferimento partico-lare ma non esclusivo al territorio dell’Emilia-Romagna. I volumi sono disponibili e consultabili da tutti nei saloni della Biblioteca, al piano nobile di Palazzo Leoni con gli affreschi che per la prima volta possono essere ammirati da tutti. Studi recenti, confluiti nel volume Libri a Palazzo (BUP 2011), hanno ricostruito una sorta di vocazione a biblioteca di questi spazi: sede della biblioteca dell’Accademia degli Ardenti e polo della vita intellettuale bolognese tra la fine del Cinquecento e fino alla seconda metà del Settecento; in seguito, divenuti di proprietà del Reale Collegio di Spagna, di nuovo allestiti a biblioteca moderna con imponenti e presti-giose scaffalature. Ma è con l’apertura al pubblico della Biblioteca intitolata a Giuseppe Guglielmi dell’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna che questo palazzo ricco di storia e di storie è stato restituito alla città.

Giuseppina TonetResponsabile Biblioteca G. Guglielmi

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Gli affreschi del salone. Virgilio, Eneide, Libro II La caduta di Troia

I fregi del salone e dell’antisala, ispirati al II e al IV libro dell’Eneide di Virgilio, furono dipinti alla metà del ‘500 da Nicolò dell’Abate e dai suoi collaboratori per Vincenzo Camillo Leoni, presidente dell’Accademia degli Ardenti, tra le più prestigiose istituzioni culturali della città, che si riuniva in via Del Porto, da cui la denominazione alternativa di “Accademia del Porto” (Landi, 2011). Il pittore esordì con la Natività (opera perduta ma nota grazie alle incisioni) (Mazza, 2011) affrescata sotto il portico del palazzo costruito dal 1549 su progetto di Antonio Morandi detto il Ter-ribilia (attr.), e proseguì con il fregio della grande sala. Nel 1552 partì per la Francia. Il cantiere proseguì poi con gli allievi e si protrasse fino al 1555, come indica la data che si legge a margine di un riquadro (II). Nel salone, diciotto scomparti (ora sedici) illustrano il libro II dell’Eneide che racconta La caduta di Troia. I fatti raf-figurati seguono il resoconto di Enea che in fuga dalla città assediata è approdato a Cartagine. Qui la regina Didone invita l’eroe destinato a fondare Roma a narrare la sua storia. Le scene sono intervallate da gruppi di putti che sollevano drappi e protomi leonine (un omaggio al padrone di casa), alludendo all’infanzia dell’umanità alla quale l’interpretazione di Fulgenzio (V sec. d.C.) paragonava il secondo libro del poema. Da notare, in entrambe le sale, la ricchezza dell’iconografia che riproduce ogni singolo verso di Virgilio qualificando il ciclo come la traduzione visiva più fedele del poema virgiliano, come già Boschloo (1984) e De Jong (1990) ebbero modo di osservare (Bibliografia essenziale). È un “libro dipinto”, o una versione dal latino fatta in pittura -dunque, estremamente colta- voluta dal committente, umanista e studioso della letteratura antica in linea con la vocazione filologica degli Ardenti (Landi, 2011). E’ possibile che anche qui, come in Palazzo Fava, esistessero ballatoi dai quali osservare i particolari degli affreschi che diversamente non si sarebbero potuti apprezzare. In tal caso, i ponteggi po-tevano servire alla consultazione della biblioteca Leoni, una libreria ricchissima elencata nell’archivio della famiglia e organizzata secondo le materie dell’insegnamento dell’Accademia (Archivio di Stato di Bologna). Grazie ai restauri che hanno recuperato le pitture emblematiche commentate da fascette in lingua latina che corrono sotto i fregi, una decorazione tipica degli ambienti di lettura, possiamo affermare con un buon margine di certezza che la raccolta libraria fosse collocata nel salone. Già dal XVI secolo, quindi, il palazzo era un luogo di studio. Derivati dai Geroglifici

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Palazzo Leoni, Salone, IMPERAT SAPIENTIA VIRES (dai Geroglifici di Pierio Valeriano, 1505)

di Pierio Valeriano (1505), un testo di filosofia ermetica che ispirò, ad esempio, i dipinti murali della biblioteca di San Giovanni Evangelista a Parma e che figura negli indici della biblioteca Leoni, i dipinti allegorici fanno pensare a un rapporto con Achille Bocchi e l’Accademia Hermathena che si riuniva nel palazzo dall’altra parte dell’isolato: un “quartiere della cultura?

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Primo riquadro Il dibattito sul cavallo

L’Eneide di Palazzo Leoni ha inizio con l’episodio che apre il secondo libro del poema. Ammaestrati da Minerva, racconta Enea, i Greci fingono di ritirarsi da Troia e lasciano sulle rive della città un cavallo di legno monumentale, simulando un’offerta riparatrice ad Athena, irata per il furto del Palladio, e propiziare il ritorno in patria. In realtà, nel ventre del cavallo è nascosto l’esercito greco. I troiani cadono nell’inganno e festeggiano la partenza dei nemici. “Si aprono le porte; piace l’andare, e il dorico/ campo e i luoghi deserti vedere e la libera spiaggia. / Qui la schiera dei Dolopi, qui di Achille crudele la tenda,/ qui la flotta, qui usavano combattere schierati” (vv. 27-30: “Panduntur portae; iuvat ire et Dorica castra/ desertosque videre locos litusque relictum./ Hic Dolopum manus, hic saevos tende-bat Achilles,/ classibus hic locus, hic acie certare solebant”). Timete propone di trasportare il cavallo dentro le mura ma Capi lo dissuade, sospettando un tranello. Dall’alto della rocca irrompe Laocoonte, sacerdote di Apollo. “Temo i Danai anche quando recano doni”, esclama (v. 49: “Timeo Danaos et dona ferentis”). Quindi vibra l’asta contro il ventre del cavallo, provocando un cupo rimbombo.

Nel primo riquadro si annuncia significativamente la caratteristica iconografica dell’intero ciclo, concepito come una traduzione dal latino fatta con la pittura. Nell’affresco, infatti, l’indice puntato dei personaggi rappresenta in forma visiva l’avverbio “hic”, “qui”, che Virgilio ripete quattro volte (vv. 29-30). Un esempio di ecfrasi straordinario e, in qualche modo, una critica letteraria fatta con le immagini.

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Secondo riquadroLa falsa testimonianza di Sinone

Il dibattito è interrotto dal sopraggiungere di un gruppo di pastori dardanidi che trascinano un giovane con le mani legate sul dorso; lo conducono al cospetto di Priamo, re di Troia. (vv. 57-59: “Ecce manus iuvenem interea post terga revinctum/ pastores magno ad regem clamore trahebant/ Dardanidae…”). Il prigioniero è Sinone, un greco, che racconta di essere sfuggito ai compagni che volevano sacrificarlo agli dei per ottenere un felice ritorno in patria. In realtà sarà proprio lui, cugino di Ulisse, ad aprire la cavità del cavallo e a far uscire nottetempo i guerrieri. Priamo lo accoglie e gli chiede notizie sul cavallo. Sinone spiega che si tratta di un dono offerto a Minerva in riparazione del furto del Palladio sacro alla dea, custodito nella rocca di Troia. Furono i greci Diomede e Ulisse a sottrarlo. Questa “immensa mole” (v. 185) offerta ad Atena ha il valore di un “talismano” in grado di rendere inespugnabile la città che lo avesse accolto, trasportandolo entro le proprie mura. I troiani, “che non furono domati…da mille navi” (vv. 197-198), cadono nell’inganno e decidono di far entrare il cavallo.

Interessanti le figure che discutono in primo piano. L’anziano con la barba, dalla fisionomia ben definita, potrebbe essere un ritratto di Vincenzo Camillo Leoni. L’interlocutore, dal profilo fortemente caratterizzato, indossa un copri-capo di foggia esotica. Nel corso delle ricerche promosse dall’Istituto l’ingrandimento dell’immagine ha consentito di leggere la data “1555” sotto l’indice puntato del personaggio.

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Terzo riquadroLaocoonte e i suoi figli vengono uccisi dai serpenti marini

All’improvviso, un nuovo avvenimento “turba i cuori sorpresi” (vv. 200-201): due serpenti dalle spire immense si muovono in coppia dall’isola di Tenedo e, “inorridisco a raccontarlo”, confessa Enea, si avventano su Laocoonte (vv. 203-204: “Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta/ (horresco referens) immensis orbibus angues”). Prima ne avvinghiano i due figli “e a morsi si pascono delle misere membra” (v. 215); quindi afferrano il sacerdote accorso in loro aiuto: “avvintolo due volte alla vita e attortisi al collo” lo stringono in una morsa mortale. Invano Laocoon-te, “cosparso le bende di sangue”, si divincola e leva “orrendi clamori…quali i muggiti d’un toro ferito che fugge/ dall’ara…” (vv. 223-224). La similitudine con il toro evoca il sacrificio di stato: Laocoonte è la vittima immolata per la fondazione di Roma da parte di Enea. Compiuta la strage, i draghi gemelli (“gemini dracones”) si dirigono al tempio di Minerva e si acquattano ai piedi del simulacro della dea, avvolgendosi sotto il cerchio dello scudo (vv. 225-226: “At gemini lapsu delubra ad summa dracones/ effugiunt saevaque petunt Tritonidis arcem/…”). Il prodigio conferma la testimonianza di Sinone: il cavallo è sacro ad Atena. Laocoonte, che ha osato colpirlo, è punito con la morte.

Nell’affresco è rappresentato il Laocoonte vaticano (I sec. a. C.), rinvenuto sull’Esquilino nel 1506. E’ possibile che il pittore disponesse di una riproduzione sufficientemente esatta del gruppo scultoreo; l’ipotesi più convincente è che si trattasse dell’incisione del ravennate Marco Dente precedente il 1523 o della scultura fatta fondere dal Primaticcio per il re di Francia (1540), priva, però, delle integrazioni aggiunte nel 1532 dal Montorsoli, allievo di Michelangelo, presenti nel riquadro.

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Quarto riquadroI troiani introducono il cavallo di legno a Troia

I troiani si convincono del prodigio e introducono il cavallo entro le mura di Troia che sbrecciano per consentirne l’ingresso (v. 234: “Dividimus muros…”). “Tutti si accingono all’opera e pongono sotto le zampe/ scorrevoli rulli e gettano canapi al collo./ Sale la fatale macchina i muri, gravida/ d’armi. Giovinetti intorno e intatte fanciulle/ can-tano inni…Quella entra e scorre minacciosa in mezzo alla città” (vv. 235-240: “Accingunt omnes operi pedibusque rotarum/ subiciunt lapsus et stuppea vincula collo/ intendunt. Scandit fatalis machina muros/ feta armis... ”). Giunta alle soglie delle mura, la fatalis machina si arresta per quattro volte: nel ventre del cavallo risuonano le armi (vv. 242-243: “quater ipso in limine portae/ substitit atque utero sonitum quater arma dedere”). Incuranti del sinistro presagio, i troiani continuano a trascinare il cavallo nonostante il monito della profetessa Cassandra, condannata da Apollo alla profezia mai creduta: “Cassandra dischiuse le labbra ai fati/ futuri, per ordine del dio giammai creduta dai Teucri…” (vv. 246-247: “Tunc etiam fatis aperit Cassandra futuris/ ora dei iussu non umquam credita Teucris…”).

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L’iconografia della scena, tra le più interessanti del fregio, si ispira all’edizione lionese del poema del 1552 e in parti-colare al frontespizio del secondo libro illustrato da Bernard Salomon, termine cronologico per la datazione dell’af-fresco e denominatore comune per lo stesso episodio dipinto da Ludovico Carracci in Palazzo Fava (1593) (Landi 2011). Perfettamente aderente al testo è la raffigurazione dei rulli scorrevoli sui quali avanza il cavallo, acclamato dalla popolazione in festa e dai fanciulli che giocano con la “festosa fronda” (v. 249).Le mura di Troia prendono a modello qui come in altre scene le illustrazioni dei trattati di architettura fortificata documentati nell’Inventario della biblioteca Leoni: le Istorie Romane di Tito Livio (1535) e il compendio della guerra dell’Albornoz (1555), integrati nel tempo dai Leoni con le Fortificazioni di Bonaiuto Lorini (1597), l’arte di espugnare le fortezze di Francesco Tensini (1624) e il manuale pratico di artiglieria del Colliado (1641).Sulla destra, Cassandra, con le braccia alzate, evoca il furore profetico della Sibilla. Il poeta laureato è Virgilio, raf-figurato nei modi dell’iconografia del pieno rinascimento: autore della IV egloga delle Bucoliche con la profezia del ritorno di una Virgo e la nascita di un puer destinato a rinnovare l’età dell’oro, il poeta era considerato dagli umanisti “christianus sine Christo” e ponte ideale tra paganesimo e rivelazione. Si tratta di un indizio importante dell’adesione di Vincenzo Leoni al neoplatonismo cristiano che a Bologna aveva la sua più alta espressione nella Santa Cecilia di Raffaello.

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Bernard Salomon, L’ingresso del cavallo, frontespizio da Les premiers quatre livres de l’Éneide de Virgile, Lyon, 1552, II, p. 67 (Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera)

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Quinto riquadroL’ingresso dell’esercito greco a Troia

E’ notte: la falange dei Greci muove dall’isola di Tenedo e si avvicina alla città addormentata. “E già la falange argiva andava a navi schierate/ da Tenedo, per gli amici silenzi della tacita luna/ e dirigendosi alle note rive, quando la re-gia/ nave innalzò segnali di fiamma…”. (vv. 254-257: “Et iam Argiva phalanx instructis navibus ibat/ a Tenedo tacitae per amica silentia lunae/ litora nota petens, flammas cum regia puppis/ extulerat…”). Sinone, “protetto dagli iniqui/ fati degli dei” (vv. 257-258), “…disserra furtivo/ i Danai rinchiusi nel ventre…Il cavallo/ aperto li rende all’aria, ed escono lieti dal concavo/ legno Tessandro e Stenelo capi e lo spietato Ulisse,/ discesi giù per una fune…” (vv. 258-262: “…inclusos utero Danaos…/ laxat claustra Sinon. Illos patefactus ad auras/ reddit ecus laetique cavo se robore promunt…“). I greci invadono Troia, “sepolta nel sonno e nel vino; uccidono le sentinelle, accolgono tutti i compagni/ dalle porte spalancate, e congiungono le complici schiere.” (vv. 265-267: “Invadunt urbem somno vinoque sepul-tam;/ caeduntur vigiles, portisque patentibus omnis/ accipiunt socios….”).

La scena, immersa in un clima notturno, è da considerare come la più pregevole del fregio. Anche qui è evidente il riferimento alla stampa, in particolare alla veduta dall’alto della xilografia n. 175 del Canto XLIII dell’edizione veneziana dell’Orlando Furioso, edita da Giolito nel 1542 (Funerali di Brandimarte). Assoluta è la fedeltà del riquadro ai versi di Virgilio, espressa nella descrizione minuziosa dei guerrieri armati che si calano dal ventre del cavallo. Sullo sfondo la falange argiva avanza alla luce dei “segnali di fiamma” che si innalzano dalla “regia nave”. Anche in questo caso la rappresentazione delle mura di Troia si ispira ai trattati di architettura militare del ‘500 in possesso del committente.Per la qualità e l’invenzione del riquadro ci si esprime qui a favore di un intervento di Nicolò dell’Abate, ipotizzato altrove da Wanda Bergamini (2005).

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Sesto riquadroEttore appare in sogno ad Enea. Enea corre alla battaglia

Nel sonno appare a Enea l’ombra di Ettore. “Era il momento nel quale comincia agli affranti mortali/ il primo riposo e s’insinua gratissimo per dono degli dei;/ ed ecco, in sogno, mi sembra vedere/ davanti agli occhi Ettore angosciato versare largo pianto…/” (vv. 268-271: “Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris/ incipit et dono divum gratis-sima serpit:/ in somnis ecce ante oculos maestissimus Hector/ visus adesse mihi largosque effundere fletus…”). “Ah fuggi, figlio della dea…scampa alle fiamme” (v. 289: “Heu fuge, nate dea…eripe flammis…”), lo ammonisce l’ombra dell’eroe troiano. Quindi gli preannuncia la fondazione di Roma: “Troia ti affida i sacri arredi/ e i Penati: prendili com-pagni dei fati e cerca con essi/ grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare” (vv. 293-295). Enea si sveglia di soprassalto: “…da tutte le parti un terribile pianto sconvolge/ le mura…” (vv. 298-299). Troia è in fiamme. Il palazzo di Deifobo è in preda all’incendio (v.310: “…Iam Deiphobi dedit ampla ruinam”). La casa di Anchise padre di Enea, in-vece, è protetta dagli alberi e si è salvata. Con un gruppo di compagni, Enea si precipita verso la rocca. “Forsennato, prendo le armi, senza un piano d’azione;/ ma l’animo arde di raccogliere una schiera…” (vv. 314-316: “Arma amens capio; nec sat rationis in armis,/ sed glomerare manum bello et concurrere in arcem/ cum sociis ardent animi…”)

L’episodio è suddiviso in settori: al centro, gli alberi che hanno protetto la casa di Anchise separano le due metà della scena; in alto, a sinistra, è raffigurato il sogno di Enea; al centro l’eroe troiano corre ad armarsi; a destra è rappre-sentato il palazzo di Deifobo devastato dal fuoco. Sullo sfondo la sagoma sinistra del cavallo. Nell’affresco sopravvive traccia della multi episodicità soppiantata a metà del secolo dal prevalere dell’unità aristotelica di tempo e di luogo.

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Settimo riquadroPanto, sacerdote di Apollo, affida a Enea gli dei penati

Il racconto di Enea prosegue con l’incontro con Panto, sacerdote di Apollo. “Ma ecco Panto, sfuggito ai colpi degli Achei,/ Panto, figlio di Otri, sacerdote della rocca di Febo,/ trascina i sacri arredi e i vinti dei e il piccolo/ nipote per mano, e corre forsennato alla mia soglia.” (vv. 318-321: “Ecce autem telis Panthus lapsus Achivum,/ Panthus Othrya-des, arcis Phoebique sacerdos,/ sacra manu victosque deos parvumque nepotem/ ipse trahit cursuque amens ad limina tendit”). In fuga con il nipote, Panto è in cerca di Enea. Lo trova e gli affida gli dei Penati, affinché li porti in salvo. Poi l’anziano sacerdote predice la fine di Troia: “…Fummo troiani, fu Ilio e la grande/ gloria dei Teucri; Giove traspose spietato/ tutto in Argo…” (vv. 325-327). Le sorti dell’assedio confermano la profezia. “…i Danai dominano nella città incendiata. /Ergendosi alto tra le mura il cavallo rovescia/ armati…” (vv. 327-329). Ma Enea non si arrende, e si oppone al fato, a prezzo della vita. “Unica salvezza ai vinti, non sperare nessuna salvezza” (v. 354: “Una salus victis nullam sperare salutem”).

Sullo sfondo si intravvede un palazzo in fiamme rappresentato secondo le modalità architettoniche dell’edilizia ri-nascimentale bolognese del ‘500 (forse un ricordo del distrutto palazzo dei Bentivoglio?). Anche qui, seminascosta sullo sfondo, si erge la mole minacciosa del cavallo.

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Ottavo riquadroCorebo indossa l’elmo di Androgeo

Enea e i suoi compagni incontrano il greco Androgeo, che li scambia per alleati. Ma subito si accorge dell’errore e, accerchiato, tenta la fuga. E’ troppo tardi. I troiani attaccano, e hanno la meglio sui nemici. Il giovane Corebo indossa il “chiomato elmo” del greco ucciso e propone ai suoi di indossare le armature dei Danai per non essere riconosciu-ti. “Compagni”, dice, la sorte “indica una via di salvezza e si mostra propizia,/ seguiamola; scambiamo gli scudi, e adattiamoci le insegne/ dei Danai. Inganno o valore, chi indagherebbe in un/ nemico? Essi ci daranno le armi” (vv. 386-391: “Atque his successu exsultans animisque Coroebus/ “ O socii, qua prima” inquit “fortuna salutis/ monstrat iter quaque ostendit se dextra, sequamur;/ mutemus clipeos Danaumque insignia nobis/ aptemus. Dolus an virtus, quis in hoste requirat?/ arma dabunt ipsi”).

Nel riquadro, caratterizzato dall’elegante gruppo dei “paladini” sulla destra, è interessante osservare l’edificio a pianta circolare di ispirazione classica con bifore di stile gotico come la chiesa che emerge evanescente sullo sfondo. Forse una divagazione fiabesca sulla basilica di San Martino antistante Palazzo Leoni?

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Nono riquadroLa cattura di Cassandra

Cassandra, “Priameia virgo”, ha cercato rifugio nel tempio di Minerva ma è raggiunta dai nemici. “Ecco la vergine priamea Cassandra coi capelli sparsi/ veniva trascinata dal tempio e dal sacrario di Minerva,/ alzando invano al cielo gli occhi ardenti, gli occhi, poiché legami serravano le tenere mani./ Non sopportò la vista Corebo, e con lo spirito infuriato/ si gettò in mezzo alla schiera a rischio della morte” (vv. 403-408: “Ecce trahebatur passis Priameia virgo/ crinibus a templo Cassandra adytisque Minervae/ ad caelum tendens ardentia lumina frustra,/ lumina, nam tene-ras arcebant vincula palmas./ Non tulit hanc speciem furiata mente Coroebus/ et sese medium iniecit periturus in agmen…”). E infatti il giovane guerriero verrà ucciso di lì a poco, vicino all’ara della dea, per mano di Peneleo. Nello scontro moriranno altri valorosi troiani, tra i quali Panto, il sacerdote.

Anche in questo caso la fedeltà delle immagini ai versi di Virgilio è totale. Cassandra, raffigurata con gli occhi al cielo e le mani legate dietro la schiena, è trascinata fuori dal tempio di Minerva, allusa dalla statua con lo scudo e la lan-cia. Sulla destra fa irruzione Corebo che si precipita in soccorso dell’amata. Al centro, sullo sfondo, si intravvede un edificio porticato. Un prospetto laterale di Palazzo Leoni?

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Decimo riquadroEnea corre in difesa del palazzo di Priamo

La reggia di Priamo è assediata. Enea accorre con i compagni Ifito, “ormai carico d’anni”, e Pelia, attardato da una ferita inferta da Ulisse (vv. 434-437: “…Divellimur inde,/ Iphitus et Pelias mecum (quorum Iphitus aevo/ iam gravior, Pelias et vulnere tardus Ulixi”),/ protinus ad sedes Priami…”). Giunti alla reggia, i troiani vedono la soglia del palazzo reale “premuta da una manovra a testuggine” (v. 441). I Danai appoggiano “le scale alle pareti, proprio sotto la por-ta”, e “s’arrampicano sui gradini…” (vv. 442-443). La situazione è drammatica.

Gli affreschi seguono scrupolosamente i versi del poema: Ifito “carico d’anni” è rappresentato come un vecchio guerriero; sulla destra si scorgono la manovra a testuggine e la scala appoggiata dai Danai alla fiancata della reggia di Priamo. Palazzo Leoni visto dall’attuale piazza San Martino presta la sua fisionomia alla residenza del re di Troia.

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Undicesimo riquadroL’assedio della reggia di Priamo

Alla reggia infuria la battaglia. Inarrestabili, i Danai “…oppongono con le sinistre/ gli scudi ai dardi, afferrano con le destre i pinnacoli.” (vv. 442-444). I troiani, vistisi ormai perduti, scagliano parti dell’edificio contro i nemici. “I Darda-nidi di contro divellono le torri e i tetti/ delle case (con questi proiettili, poiché vedono la fine,/ tentano di difendersi nell’ora estrema della morte),/ e fanno precipitare le travi dorate e gli eccelsi/ fregi degli antichi avi; altri, brandite le spade,/ presidiano le porte in basso…” (vv. 445-449: “Dardanidae contra turris ac tota domorum/ culmina con-vellunt (his se, quando ultima cernunt,/ extrema iam in morte parant defendere telis),/ auratasque trabes, veterum decora illa parentum,/ devolvunt…”).

Nel riquadro sono tradotte fedelmente in immagini le manovre militari descritte da Virgilio: a sinistra si vedono le travi dorate scagliate dai Dardanidi, la formazione a testuggine e le scale innalzate dai nemici. In primo piano sono raffigurati i troiani che accorrono in difesa della reggia, “brandite le spade”, e i guerrieri Danai che si arrampicano sui gradini e premono l’ingresso del palazzo reale, impugnando gli scudi con la sinistra per pro-teggersi dal lancio dei dardi.

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Dodicesimo riquadroEcuba conduce Priamo all’ara della reggia

La scena si è spostata all’interno della reggia. “Appare l’interno della casa, e si schiudono i lunghi atrii;/ appaiono le stanze segrete di Priamo e degli antichi re,/ e [si] vedono gli armati sul limite della soglia” (vv. 483-485). “Le donne atterrite errano per le vaste sale” (v. 489). “In mezzo al palazzo, sotto l’aperta volta del cielo,/ v’era un altare impo-nente, e un vetusto alloro/ il quale si protendeva sull’ara e avvolgeva d’ombra i Penati./ Ecuba e le figlie invano in-torno agli altari,/ giunte precipitose come colombe nella bufera,/ sedevano strette fra loro…” (vv. 512-517). Priamo è corso ad armarsi. Sua moglie, la regina Ecuba, lo dissuade dal precipitarsi in battaglia. “Quale funesto pensiero, infelicissimo sposo, t’indusse/ a cingerti di queste armi e dove ti precipiti?” (vv.519-520).

A sinistra del riquadro gli “armati sul limite della soglia” fanno irruzione nella reggia. A destra il “vetusto alloro” pro-tegge l’ara domestica della famiglia reale che Ecuba, in primo piano, addita a Priamo, corso ad armarsi.

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Tredicesimo riquadroPirro uccide Polite, figlio di Priamo

Polite, figlio di Priamo, fugge “per i lunghi portici” e “gli atrii deserti” della reggia (v. 528), inseguito da Pirro, figlio di Achille. Il principe troiano è ferito. Il nemico, “impetuoso”, lo raggiunge, “lo afferra con la mano e lo preme con l’asta:/ come infine giunse davanti allo sguardo dei genitori,/ cadde, ed effuse con molto sangue la vita...” (vv. 530-532). “At tibi pro scelere” (v. 535): “Per tale delitto e prodezza”, esclama Priamo, “gli dei,/ se v’è nel cielo pietà che di questo si curi/ ripaghino degne grazie…/...a te, che m’hai costretto ad assistere/ alla morte del figlio…” (vv.535-539), esclama l’anziano re. Quindi scaglia contro l’uccisore l’ “innocua lancia” che vibra, “priva di slancio”, rimbalzando contro lo scudo (vv.544-545). E’ il suo ultimo gesto. Il figlio di Achille lo trascinerà verso gli altari, e lì, “nel molto sangue del figlio” (v. 551), lo colpirà a morte.

Anche in questo caso siamo di fronte ad una delle scene figurativamente più efficaci, e stilisticamente pregevoli, dell’intero ciclo. Interessante osservare la fedeltà delle immagini ai versi del poema: Pirro che preme l’asta contro il corpo di Polite, caduto a terra sotto gli occhi dei genitori e l’anziano re Priamo che, tremebondo, scaglia l’ “innocua lancia” contro il nemico: il suo ultimo gesto.

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Quattordicesimo riquadroVenere appare al figlio Enea

Rimasto solo, tra “il bagliore degli incendi” (v. 569) Enea scorge Elena, causa del conflitto, e medita la vendetta. La regina di Sparta si è rifugiata presso il tempio di Vesta. “Divamparono fiamme nel cuore; subentra l’ira” (v. 575). “…Sebbene nessun memorabile vanto/ sia nel castigo d’una femmina”, pensa tra sé il troiano, “tuttavia sarò lodato per avere giustamente punito/ ed ucciso l’infame, e godrò di avere saziato/ l’animo di fama vendicatrice, e appagato le ceneri dei miei.” (vv. 583-587). All’improvviso, una luce lo colpisce. “Questo agitavo nell’animo, trasportato dall’ira,/ quando mi si offrì alla vista, mai così luminosa,/ e in una pura luce rifulse attraverso la notte/ la madre benigna…” (vv. 588-591). E’ Venere, sua madre, che gli appare “confessa deam”, “rivelatasi dea” (v. 591). “Figlio, quale grande dolore suscita indomabili ire?” (v. 594: “Nate, quis indomitas tantus dolor excitat iras?”). Gli chiede. Poi lo esorta alla fuga. Gli dei, ormai, parteggiano per il nemico. “…Nettuno scuote le mura e le fondamenta/ scrollate dal grande tridente e distrugge l’intera città/ dalla base. Qui Giunone crudelissima occupa in prima fila/ le porte Scee” (vv.610-613). E aggiunge: “Già la tritonia Pallade, guarda, s’insedia sulla cima/ della rocca…” e Giove “fornisce ai Danai animo e forze/ vittoriose, ed incita gli dei contro le armi dardanie” (vv. 615-618). “Fuggi, o figlio, e metti fine alla battaglia” (v. 619: “Eripe, nate…”).

Pregevolissimo questo riquadro dove ogni particolare traduce in forme visive i versi di Virgilio. Fiamme ovunque, a simulare il clima notturno dell’assedio. Sul fondo, a sinistra, s’intravvede Elena, inginocchiata ai piedi del simulacro di Vesta. Straordinaria l’apparizione di Venere che “rivelatasi dea” è circonfusa da un nembo di luce in forma di man-dorla, “luogo” iconografico della teofania cristiana ma frequente nei calendari astrologici del rinascimento come attributo delle divinità pagane. Interessante il confronto con l’Afrodite rappresentata da Ludovico Carracci in quello stesso episodio nel 1593 nell’Eneide di palazzo Fava, una figura nobile ma dalla natura terrena e che perciò non flut-tua, ma incede al fianco di Enea. L’immagine testimonia in maniera eloquente, perciò, il passaggio da una pittura “ad apertura di libro” a una pittura “ad apertura di finestra”. In alto, al centro, Giove “incita gli dei” cavalcando un’aquila. A destra, sulle porte Scee, “Giunone crudelissima” presiede alla battaglia.

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Quindicesimo riquadro Due prodigi

Enea giunge alla casa paterna per portare in salvo il vecchio Anchise che vuole essere lasciato al suo destino: morirà a Troia (v. 640: “…voi pensate alla fuga”). “Armi, o uomini,/ datemi armi”, (v. 667-668), esclama l’eroe. Poi imbraccia lo scudo e si prepara alla difesa. Ma ecco, “mirabile a dirsi” (v. 680), all’improvviso appare un prodigio: sul capo di Ascanio, figlio di Enea, arde una fiamma “innocua al contatto” (v. 683). A quella vista, Anchise alza gli occhi alle stelle e sollevando le mani in gesto di preghiera chiede a Giove un responso (vv. 689-690: “Iuppiter onnipotens…/aspice nos!”). La risposta non si fa attendere: “…una stella caduta dal cielo” traccia “con grande luce una scia”, attraversan-do la stanza; quindi, “segnando la via” scompare “luminosa nella selva idèa” (v. 696). Gli dei vogliono che Anchise si metta in salvo. “Allora, vinto, il padre si protende verso il cielo/ e saluta gli dei e adora il santo astro” (vv. 699-700). “Ormai non v’è da indugiare; vi seguo e per dove guidate,/ vado…/ Cedo, o figlio, e non rifiuto di accompagnarti” (vv. 701-704). Enea, insieme alla sua famiglia, abbandonerà per sempre la città di Troia.

Straordinaria, anche in questo caso, la fedeltà delle immagini ai versi di Virgilio: la fiamma che arde innocua sul capo del piccolo Ascanio/Iulo, Enea che, imbracciato lo scudo, ammira il prodigio, la stella che attraversa la stanza tracciando una scia luminosa e il padre Anchise che alza le braccia in gesto di preghiera.

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Sedicesimo riquadroIn fuga da Troia

“Detto così, distendo sulle larghe spalle/ e sul collo reclino una coperta, la pelle d’un fulvo leone,/ e mi sottopongo al peso…” (vv. 721-723: “Haec fatus latos umeros subiectaque colla/ veste super fulvique insternor pelle leonis/ suc-cedoque oneri…”). Enea, con il padre Anchise sulle spalle e il piccolo Iulo/Ascanio che lo segue “con passi ineguali” (v. 724) fugge da Troia. Si esprime, qui, la pietas dell’eroe, che porta in salvo la famiglia con gli dei Penati (vv. 717: “Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis…”). Ma, giunto al tempio di Cerere, Enea si accorge di aver per-duto Creusa. Torna sui suoi passi, e si dirige verso la città assediata. All’improvviso gli appare l’ombra della moglie. “Perché abbandonarsi tanto ad un folle dolore, / o dolce sposo? Ciò accade per volere divino”, lo conforta. “...in terra d’Esperia verrai, /…là ti attendono lieti/ eventi, e un regno e una sposa regale. Raffrena/ le lacrime per la diletta Creusa…/…non andrò a servire donne/ greche, io, dardana, e nuora della dea Venere”, prosegue, “la grande Madre degli dei mi trattiene in queste terre” (vv. 776-788).

Il mito di fondazione è al centro dell’ultimo riquadro. Enea è in fuga da Troia. La torcia sollevata dal piccolo Ascanio e gli dei Penati portati in salvo dal vecchio Anchise, accomodato sulla “pelle d’un fulvo leone”, alludono per via simbolica al trasferimento della civiltà troiana che approderà in Italia. A sinistra la dea Cibele, “magna deum genetrix” (v. 788), incoronata dal copricapo turrito e seduta sul carro trainato da leoni, accoglie Creusa nel corteggio dei coribanti, e le assicura un ruolo divino. Nuove nozze attendono l’eroe troiano, che a Roma sposerà Lavinia, fondando così una nuova stirpe. Suggestiva, sullo sfondo, la veduta della città in fiamme racchiusa dalle alte mura, un tempo inespugnabili.

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Gli affreschi dell’antisala. Virgilio, Eneide, Libro IVLa storia di Enea e Didone

Il fregio dell’antisala illustra il libro IV dell’Eneide che narra La storia di Enea e Didone. Il racconto figurato, suddiviso in 12 riquadri (ora 10), segue la vicenda amorosa di Enea, approdato alle coste della Libia, e della regina di Cartagine la quale, vedova di Sicheo, medita di sposare il principe troiano. Gli dei, però, hanno deciso diversamente. Giove in-via Mercurio e sollecita il pius Enea a partire per proseguire il suo pellegrinaggio. A malincuore, l’eroe abbandonerà Cartagine per seguire il suo destino e fondare Roma. Didone, allora, si trafiggerà con la spada dell’eroe, lasciandosi cadere sul rogo. Lungo la fascia alta della trabeazione, ritratti caricaturali e maschere all’antica si rincorrono in monocromie dorate come in un “cinerama” bizzarro e diversificato, alternandosi a protomi leonine. E’ un omaggio al nome del commit-tente e una trasgressione stilistica che nel contrasto tra l’accentuazione delle fisionomie evoca i generi della “Co-media” e della tragedia greca -materia di studio presso gli accademici ardenti- alternando dotto e comico, pathos e ironia con quello “stile singolarissimo” (Ezio Raimondi) proprio del tardo umanesimo bolognese.Tra i riquadri cariatidi e telamoni monocrome si alternano al recto e al verso ripetendo una modalità introdotta da Pellegrino Tibaldi nella Sala di Susanna di Palazzo Poggi (1550).L’esecuzione del ciclo decorativo dell’antisala si deve a mani diverse. Nella monografia del 2011 Muzzioli riprese un’attribuzione a Orazio Samacchini per il VI e il VII riquadro (La tempesta, La Fama. La preghiera di Re Giarba a Giove Ammone) dove si riscontra l’invenzione compositiva di quegli stessi episodi affrescati nella Rocca Sanvitale di Sala Baganza sulla volta della sala dedicata alle Storie di Enea, attribuite a Ercole Procaccini (post 1554).

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Primo riquadro (opera perduta) L’incontro della regina Didone con la sorella Anna

Didone, colpita dal racconto dell’eroe, avverte, turbata, l’insorgere della passione amorosa. Al termine di una notte insonne, si confida con la sorella Anna. “Anna, sorella, che sogni mi tengono sospesa e m’ angosciano!/ Che ospite straordinario è entrato nel nostro palazzo,/ quale mostrandosi in volto! Che forza nel cuore e nell’armi!/ Credo davvero che sia -non è fede illusoria-/ di stirpe divina.” (vv. 9-13: “Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!...”). “Se non fosse decisione irremovibile e fissa nel cuore/ di non volermi unire a nessuno con vincolo coniugale,/…forse per questo solo potrei soccombere…” (vv. 15-19). Didone ammette i suoi sentimenti (v. 23: “Riconosco i segni dell’antica fiamma”), ma è trattenuta dal dolore per la morte del marito Sicheo, ucciso dal cognato Pigmalione di Tiro. Anna, però, la incoraggia, e le consiglia di sposare Enea. Le nuove nozze sono volute dagli dei (v. 45: “Dis equidem auspicibus reor et Iunone seconda…”). In realtà, Giunone, protettrice dei Punici (come Giunone-Tanit), è avversa ai troiani e alla fondazione di Roma. L’unione con Enea risulterà fatale alla regina.

Il riquadro, perduto, sopravvive nella serie litografica Angiolini su disegni di Achille Frulli (Fregio delle Sale del già Palazzo Leoni, ora Marchesini, Bologna, 1851). La scena raffigurava l’incontro di Didone con la sorella Anna nella penombra di un nobile colonnato di stile ionico. Sulla sinistra, l’immagine di un cane alludeva ai propositi di fedeltà della regina alla memoria del marito.

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Didone si confida con la sorella Anna, litografia Angiolini da Fregio delle Sale del già Palazzo Leoni, ora Marchesini, Bologna 1851 (su disegno di Achille Frulli; riproduzione concessa gentilmente dalle Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio di Bologna-Biblioteca di San Giorgio in Poggiale)

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Secondo riquadro (opera perduta) Didone sacrifica agli dei

Su consiglio della sorella, Didone, qui nel ruolo di sacerdotessa, offre sacrifici per invocare il favore degli dei. “La bellissima Didone, tenendo nella destra una coppa,/ la versa tra le corna d’una candida giovenca, o s’aggira/ davanti alle statue degli dei tra le ricche are…/…Frattanto una dolce fiamma/ divora le midolla, e tacita vive la ferita nel cuo-re./ Arde l’infelice Didone…” (vv. 60-68).

Didone sacrifica gli dei in questa scena perduta, documentata come la precedente da un’incisione della serie grafica di Achille Frulli (Fregio delle Sale del già Palazzo Leoni, ora Marchesini, Bologna, 1851). Al centro del riquadro figura-va la testa di una candida giovenca, posata sull’ara. L’unica immagine sopravvissuta del riquadro è quella della regina che, assistita da un sacerdote, versa una coppa tra le corna dell’animale sacrificato. Sullo sfondo, quattro statue rappresentano le divinità elencate da Virgilio ai versi 58 e 59 del libro IV del poema: procedendo da destra: “Cerere legislatrice”, il “padre Lieo”, “Febo” e, alle spalle di Didone, la dea Giunone “che tutela i vincoli nuziali”.

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Didone sacrifica agli dei, litografia Angiolini da Fregio delle Sale del già Palazzo Leoni, ora Marchesini, Bologna 1851 (su disegno di Achille Frulli; riproduzione concessa gentilmente dalle Collezioni d’Arte della Cassa di Risparmio di Bologna-Biblioteca di San Giorgio in Poggiale)

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Terzo riquadro Didone mostra la città di Cartagine ad Enea

Ora [Didone] conduce Enea con sé attraverso le mura,/ e mostra le ricchezze sidonie e la città preparata;/ comincia a parlare, e a metà del discorso s’arresta;/ ora sul calare del sole desidera un nuovo convito (vv. 74-77: “Nunc media Aenean secum per moenia ducit/ Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam:/ incipit effari mediaque in voce resistit;/ nunc eadem labente die convivia quaerit…”).Didone, presa dalla passione, conduce Enea in visita alla città di Cartagine. L’amore per l’eroe troiano la distoglie però dai suoi doveri di sovrana: “Le torri cominciate non crescono, la gioventù non si esercita/ nelle armi…” (vv. 86-87: “Non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus/ exercet…”).

Nel riquadro la città di Cartagine si ispira alle tavole dei trattati di architettura documentati nell’inventario della bi-blioteca della famiglia Leoni (Landi, 2011). A destra, sullo sfondo, a margine di una “fuga” prospettica delineata dalla scacchiera del pavimento, la corte è riunita nel “nuovo convito”.

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Quarto riquadroL’incontro di Giunone e Venere

La passione di Didone per l’eroe troiano non è sfuggita a Giunone. La dea, avversa al compiersi del fato di Enea, destinato a fondare Roma, propone a Venere di favorirne le nozze con la regina di Cartagine, così da ostacolarne l’arrivo in Italia. “…la Saturnia assale Venere con queste parole:/ “Davvero tu e tuo figlio riportate…/…una grande e memorabile/ fama,/ se due divinità vincono con la frode una sola donna” (vv. 92-95: “…talibus adgreditur Venerem Saturnia dictis…). “Chi, dissennato,/ rifiuterebbe ciò, e preferirebbe contendere in guerra/ con te?” (vv. 107-109), le risponde Afrodite. “Procedi, ti seguirò” (v. 114: “Perge: sequar”). Giunone le propone allora il suo piano: l’indomani, quando la regina e il suo ospite usciranno per una battuta di caccia, scatenerà una tempesta. I due si rifugeranno in una spelonca, e lì “…se tu m’assicuri il consenso,/ li unirò in stabile connubio…” (vv. 125-126). “…Non volendo avversare la richiesta,/ annuì Citerea, e sorrise dell’inganno escogitato.” (vv. 127-128).

Le due divinità, connotate dai rispettivi attributi iconografici, il pavone per Giunone, le rose, la conchiglia e il dardo per Afrodite, si incontrano nello spazio metafisico di uno zodiaco dove scorrono il Capricorno, l’Acquario e i Pesci. Nell’episodio i segni astrologici segnano il kairos, il momento propizio per l’unione di Enea e Didone ma insieme alludono all’inverno o forse anche all’oroscopo del committente. Possibile, ma meno probabile, il riferimento al periodo nel quale venne eseguito l’affresco. Una ruota zodiacale che ricorda un mulino come se ne vedevano nella Bologna del tempo, trascina i pianeti. Il riquadro costituisce un’im-portante testimonianza della cultura astrologica degli umanisti Leoni, nella cui biblioteca si trovavano l’Almanacco perpetuo del Benincasa e l’Astrologia Naturale del Du Moulin.

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Quinto riquadroLa caccia

E’ l’alba. Enea e Didone escono per la caccia. “Scelti giovani, levatosi il sole, escono dalle porte;/ reti a maglie, a laccio, spiedi di largo ferro;/ galoppano cavalli massili, e cani dal fiuto sottile./ I principi punici aspettano presso le soglie la regina/…bellissimo di porpora e d’oro/ attende il destriero dal sonoro zoccolo e morde focoso/ il freno schiumante. Esce, infine, circondata da un grande/ stuolo, ornata la clamide sidonia da una balza a ricami./ Ha la faretra d’oro, la chioma annodata…” (vv. 130-132: “It portis iubare exorto delecta iuventus;/ retia rara, plagae, lato venabula ferro/ Massylique ruunt equites et odora canum vis…”).

A destra, in primo piano, i “scelti giovani” conducono i “cani dal fiuto sottile” dei versi di Virgilio. Sullo sfondo Enea e Didone, con la corte al seguito, escono dalla porta della città galoppando “cavalli massili”: “bellissimo di porpora e oro” è il “destriero” della sovrana, bardato con ricchi finimenti. Sullo sfondo la veduta fiabesca di Cartagine, rappre-sentata con elementi di ispirazione architettonica diversa.

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Sesto riquadroLa tempesta

“Frattanto il cielo comincia a turbarsi con un grande/ fragore; seguono rovesci di pioggia misti a grandine;/ sparsi i tirii compagni e i giovani troiani/ e il dardanio nipote di Venere cercarono con timore ripari/ diversi nei campi; precipitano i torrenti dai monti./ Didone e il capo troiano giungono nella stessa spelonca…rifulsero folgori…ulularono dalle più alte vette le Ninfe./ Quello fu il primo giorno di morte, e la prima/ causa di sventure.” (vv. 160-161: “Interea magno misceri murmure caelum/ incipit…”).

Sullo sfondo di un cielo minaccioso dal quale saettano le folgori, “i tirii compagni e i giovani troiani” sono dispersi dall’imperversare delle intemperie. Enea e Didone, legate le cavalcature, si rifugiano in una “spelonca”. Qui avviene il connubio, ispirato a un soggetto erotico famoso: l’Alessandro e Rossana, o Gli Amanti, capolavoro di Giulio Romano (San Pietroburgo, Ermitage). Sulla cima della grotta si intravvedono le ninfe che annunciano il compiersi del destino della regina. L’episodio fu raffigurato con analoga composizione sulla volta della sala della Rocca Sanvitale di Sala Baganza affrescata con le Storie di Enea, attribuite a Ercole Procaccini (post 1554) (Muzzioli, 2011).

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Settimo riquadroLa Fama. La preghiera di Re Giarba a Giove Ammone

“Subito va la Fama per le grandi città della Libia,/ la Fama fulminea fra tutti i mali…” (vv. 173-174: “Extemplo Libyae magnas it Fama per urbes,/ Fama, malum quo non aliut velocius ullum…”). La divinità ha il corpo rivestito di piume; “tanti vigili occhi ha sotto -mirabile a dirsi-,/ tante lingue, e altrettante bocche risuonano e orecchi protende.” (vv. 182-183). Mostro “orrendo”, (v. 181), “…si solleva nell’aria” (v. 176) e, “…veloce di passi e d’infaticabili ali” (v. 180), diffonde la notizia del connubio tra la regina di Cartagine e l’eroe troiano. Ben presto raggiunge Giarba, re dei Getuli, pretendente respinto da Didone. “Questi, nato da Ammone e dalla ninfa Garamantide…/…folle nell’animo e arden-do/ all’amara notizia, davanti alle are, tra le statue degli dei,/ molto pregò Giove, supplice, con le mani supine…” (vv. 198-205). “…quel Paride col suo effeminato corteggio,/ fasciato dalla mitra meonia il mento e la madida/ chioma, si gode la rapina…” (vv. 215-217), protesta indignato.

Re Giarba si inginocchia ai piedi del simulacro di Giove Ammone, assiso su un’aquila, e gli domanda giustizia per il torto subito. A destra aleggia, sospesa, la figura della Fama: “immane” (v. 181), incombe sul re e lo informa della relazione tra Enea e Didone, raffigurata sullo sfondo. Interessante l’accuratezza della descrizione del corpo della “malvagia dea” (v. 195), ricoperto di occhi, orecchie e bocche con altrettante lingue. Un particolare che scompare, dal punto di vista dell’osservatore, ma che poteva invece essere osservato in posizione rialzata. E’ possibile che an-che qui, come in Palazzo Fava, esistessero ponteggi dai quali apprezzare più da vicino gli affreschi. L’episodio figura con analoga composizione sulla volta della sala della Rocca Sanvitale di Sala Baganza affrescata con le Storie di Enea, attribuite a Ercole Procaccini (post 1554) (Muzzioli, 2011).

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Ottavo riquadroMercurio comanda a Enea di partire

Giove Ammone, ascoltata la preghiera di re Giarba, ordina a Mercurio di affrettare la partenza dell’eroe. Il pius Enea dovrà proseguire il percorso voluto per lui dagli dei. “Và, o figlio, chiama gli zefiri e discendi a volo,/ e parla al capo dardanio che ora si attarda/ nella tiria Cartagine, e non bada alle città assegnate/ dai fati…”( vv. 223-225: “Vade, age, nate, voca zephyros et labere pinnis/ Dardaniumque ducem, Tyria Karthagine qui nunc/ exspectat fatisque datas non respicit urbes…”).Ricevuto l’ordine, Mercurio si affretta alla partenza. Raggiungerà Enea e gli ordinerà di partire. “…Quello si prepara-va a obbedire all’ordine/ del grande padre; e prima allaccia ai piedi gli aurei/ calzari, che lo portano in alto con l’ali sia sulle acque/ sia sulla terra con slancio al rapido vento” (vv. 238-241: “Dixerat. Ille patris magni parere parabat/ imperio…”). “Appena coi piedi alati sfiorò le capanne,/ scorge Enea che fonda rocche e fabbrica/ nuove case; aveva la spada stellata/ di fulvo diaspro, e giù dalle spalle il mantello/ ardeva di porpora tiria, doni che aveva fatto/ la ricca Didone distinguendo le tele con fili d’oro./ Subito lo assale: “Ora poni le fondamenta/ dell’alta Cartagine, e al pari d’un marito servizievole/ edifichi una bella città, dimentico del regno e delle sorti!/ Il sovrano degli dei che volge ad un cenno la terra/ e il cielo, mi manda a te dal luminoso Olimpo;/ mi ordina di portare i suoi comandi sulle brezze veloci:/ Che fai?...” (vv. 259-271).

La scena è divisa in due momenti: in alto, a sinistra, in uno spazio celeste Giove Ammone, assiso sull’aquila, impartisce l’ordine a Mercurio il quale, di fronte a lui, il caduceo nella mano, gli assicura obbedienza. A destra, Hermes sfiora la terra con i piedi alati e scende verso Enea, raffigurato con “la spada stellata di fulvo diaspro” (v. 262) e gli abiti sontuosi donatigli da Didone. Sullo sfondo, il porto di Cartagine. La figura di Hermes si ispira al recto a un disegno del Parmigianino inciso da Giulio Bonasone (Minerva e Mercurio) (Landi, 2011).

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Nono riquadroEnea comanda ai compagni di preparare la fuga

“…[Enea] chiama Mnesteo e Sergesto e il forte Seresto:/ apprestino in silenzio la flotta e raccolgano i compagni/ sulla riva, preparino gli attrezzi e dissimulino la causa/ di quei mutamenti…” (vv. 288-291: “Mnesthea Segestumque vocat fortemque Serestum,/ classem aptent taciti, socios ad litora cogant,/ arma parent et, quae rebus sit causa novandis,/ dissimulent…”). Enea, sgomento ma obbediente al volere di Giove, raduna i compagni e ordina loro di preparare la partenza all’insaputa di Didone.

Interessante, nell’affresco, il gesto arpocratico dell’eroe troiano, che accenna al silenzio. Questa attitudine, cara all’ambiente ermetico ma intesa nell’età antica come un monito al controllo della parola, diventò simbolo di obbe-dienza nell‘iconografia cristiana.

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Decimo riquadroI preparativi per la partenza. Didone affronta Enea

“…Subito tutti/ obbediscono lieti al comando ed eseguono gli ordini./ Ma la regina presentì -chi ingannerebbe un’amante?- e colse per prima le trame e le mosse future…” (vv. 294-297). Mentre fervono i preparativi per la par-tenza, la Fama avvisa Didone dell’inganno. La regina, furente, affronta l’eroe troiano: “Speravi, o perfido, di poter dissimulare una tale/ infamia, e di allontanarti senza parole dalla mia terra?/ Non ti trattiene il nostro amore e la mano che un giorno/ mi desti, e Didone ostinata a morire amaramente?/ Sotto le stelle invernali prepari la flotta,/ e ti appresti a prendere il largo…” (vv. 305-310). Così disse. Enea, contrito, “teneva gli occhi immoti ai comandi di Giove,/ e premeva con sforzo la pena nel cuore” (vv. 331-332: “Dixerat. Ille Iovis monitis immota tenebat/ lumina et obnixus curam sub corde premebat”).

Sullo sfondo del porto di Cartagine i due protagonisti recitano in lontananza il dramma finale. Enea, gli occhi bassi e le braccia incrociate sul petto, cita un’iconografia recente: la Pazienza, dipinta da Giorgio Vasari nel 1553 e ripresa dal Bastianino. Degna di nota la veduta abilissima del porto con le sagome dei palazzi che si riflettono nello specchio d’acqua mentre lo spazio, prolungato in diagonale, enfatizza la solitudine dei personaggi. L’ambientazione dei pro-tagonisti si ispira al frontespizio del quarto libro del poema, eseguito dall’incisore Bernard Salomon per l’edizione lionese del 1552. Interessante la rappresentazione delle navi, ispirata alle imbarcazioni fiabesche raffigurate dal Primaticcio nella Galerie d’Ulysses a Fontainebleau (1537). La figura in primo piano con il sacco in spalla richiama i versi nei quali Virgilio narra dei marinai che ammassano le masserizie “…come quando le formiche saccheggiano un grande mucchio/ di grano…” (vv. 402-403).

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Undicesimo riquadroAnna supplica Enea di rimandare la partenza

“Allora i Teucri si adoprano e traggono in mare da tutta/ la riva le alte navi. Galleggiano le unte carene./ Dai boschi portano remi frondosi e tronchi/ grezzi, per smania di partire”” (vv. 397-400). Le navi si apprestano a salpare. Didone, disperata, fa un ultimo tentativo e chiede alla sorella Anna di intercedere per lei presso Enea: “Anna, vedi, si affrettano su tutta la riva:/ si radunano da tutte le parti; la vela già chiama/ i venti, e lieti i marinai posero corone sulle poppe.” (vv. 416-418: “Anna, vides toto properari litore circum;/ undique convenere; vocat iam carbasus auras,/ puppibus et laeti nautae imposuere coronas.”). “Con tali parole implorava, e l’infelice sorella/ porta e riporta quei pianti. Ma egli non cede…” (vv. 437-438).

In primo piano l’incontro di Anna ed Enea, al centro del racconto, si staglia sullo sfondo dove sono raffigurati gli antefatti: a sinistra i marinai che ammassano tronchi grezzi e a destra Didone che da una finestra dell’“alta rocca” (v. 410) resa, qui, come un nobile palazzo, osserva i preparativi per la partenza e chiede alla sorella di intercedere presso l’eroe. Interessante il taglio in diagonale della prospettiva, che affonda in profondità. Sullo specchio d’acqua galleggiano le “unte carene”.

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Dodicesimo riquadroMercurio appare in sogno a Enea. Didone prepara il sacrificio

Enea è salito sulla nave. Colto dal sonno, viene visitato in sogno da Mercurio, che lo sollecita a partire. Didone, nella sua follia, potrebbe dare fuoco alle navi. “Enea, sull’alta poppa, ormai deciso alla partenza,/ coglieva un po’ di sonno, tutto già pronto e ordinato./ Gli apparve in sogno l’immagine del dio che tornava/ con lo stesso volto, e di nuovo sembrò ammonirlo/ così, in tutto simile a Mercurio, e la voce e il colore/ e i biondi capelli e le membra belle di giovinezza:/ “Figlio della dea, dormi in questo frangente,/ e folle non vedi gli imminenti pericoli che anco-ra ti circondano,/ non senti spirare gli zefiri favorevoli? Costei volge nel cuore inganni e un orrendo misfatto” (vv. 554-563). “Presto vedrai il mare sconvolto da navi, e risplendere/ torce crudeli, e ardere la riva di fiamme…” (vv. 566-567), prosegue Ermes. “Rompi gli indugi. Varia e mutevole cosa è sempre/ la donna” (vv. 569-570: “Heia age, rumpe moras; varium et mutabile semper/ femina”). Nel frattempo Didone, folle di dolore, medita di togliersi la vita. Chiama Barce, la nutrice del marito Sicheo, e le ordina di chiedere ad Anna che la aiuti a compiere un rito sacrificale per esorcizzare il ricordo del troiano. “Cara nutrice, chiama la sorella Anna,/ di’ che s’affretti ad aspergere il corpo di acqua fluente,/ e porti con sé le vittime e la prescritta espiazione;/ così venga; e tu fascia le tempie di pia benda./ Penso di compiere i sacrifici ritualmente/ intrapresi e disposti a Giove stigio, di porre fine/ alle pene, e di ardere sul rogo l’effigie del dardanio” (vv. 634-640). In realtà la vittima sacrificale sarà lei stessa: dopo essersi adagiata sul letto che aveva deciso di bruciare, la regina di Cartagine maledice Enea e si uccide trafiggendosi con la spada “dardania, dono non a quest’uso richiesto” (v. 647).

Di grande interesse, anche in questo caso, la rappresentazione delle navi, ispirata alle imbarcazioni fiabesche raffi-gurate dal Primaticcio nella Galerie d’Ulysses a Fontainebleau (1537).

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Bibliografia essenziale

Fregio delle Sale del già Palazzo Leoni, ora Marchesini, Bologna, 1851Giancarlo Roversi, Palazzi e case nobili del ‘500 a Bologna. La storia, le famiglie, le opere d’arte, Casalecchio di Reno (BO), Grafis Edizioni, 1986Anton W.A.Boschloo, Il fregio dipinto a Bologna da Nicolò dell’Abate ai Carracci (1550-1580), Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1984Jan De Jong, «Locus plenus Troiani laboris». Gli affreschi di Enea a Palazzo Leoni a Bologna, in Studi Belgi e Olandesi per il IX Centenario dell’Alma Mater Bolognese, Bologna, edizioni Luigi Parma, 1990Wanda Bergamini, I committenti bolognesi di Nicolò dell’Abate, in Sylvie Béguin, Francesca Piccinini, a cura di, Nicolò dell’Abate storie dipinte nella pittura del Cinquecento tra Modena e Fontainebleau, cat. della mostra, Milano, Silvana Editoriale, 2005Elisabetta Landi,“Le stanze della memoria”. Civiltà accademica, modelli letterari, repertori a stampa. Considerazioni sull’iconografia degli affreschi di Palazzo Leoni, in Ead., Giuseppina Tonet, Libri a Palazzo. Una sede ritrovata per la biblioteca dell’IBC, Bologna, Bononia University Press, 2011Angelo Mazza, “La non mai a bastanza lodata Natività del Signore di Nicolò dell’Abate”, in Elisabetta Landi, Giusep-pina Tonet, Libri a Palazzo. Una sede ritrovata per la biblioteca dell’IBC, Bologna, Bononia University Press, 2011Marco Muzzioli, Palazzo Leoni. Fortuna critica e vicenda architettonica e decorativa, in Elisabetta Landi, Giuseppina Tonet, Libri a Palazzo. Una sede ritrovata per la biblioteca dell’IBC, Bologna, Bononia University Press, 2011

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indice

Gli affreschi del salone. Virgilio, Eneide, Libro II. La caduta di Troia p. 4

Gli affreschi dell’antisala. Virgilio, Eneide, Libro IV. La storia di Enea e Didone p. 41

Bibliografia essenziale p. 67

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Finito di stampareaprile 2018

Centro Stampa Regione Emilia-Romagna

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Gli affreschi raccontanoL’Eneide di Palazzo Leoni

ISTITUTO PER I BENI ARTISTICI CULTURALI E NATURALI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA