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Raggi

I edizione novembre 2011© 2011 Elliot Edizioni s.r.l. Via Isonzo 34, 00198 RomaTutti i diritti riservati

ISBN 978-88-6192-248-8

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Manlio Cancogni

LA CUGINA DI LONDRA

I

1.

Nora e Nino fecero amicizia quando i nonni materni, assenti a lungodalla Versilia, decisero di tornare per un’estate.

Benché cugini primi, figli di sorelle, abitanti nella stessa città, fi-nora s’erano visti di rado. Nora aveva undici anni, Nino sette.

Il nonno, dopo la tragica morte del figlio, lo zio Silvio, non aveva piùvoluto saperne del paese d’origine. Troppi ricordi dolorosi. Così, fini-ta la guerra, prese l’abitudine di non allontanarsi molto da Roma e so-lo per l’agosto.

Negli ultimi anni, sposatasi anche la seconda figlia (Rita, la mam-ma di Nino), s’era innamorato a prima vista dell’Argentario, ed era suquel promontorio, ancora abbastanza selvaggio, che trascorreva unaparte di luglio e tutto agosto.

Qualcosa doveva essere mutato nel suo animo se, dopo tanti anni,non temeva più d’incontrare gli assassini del figlio. Non che avesse lo-ro perdonato; non accettava però – diceva – ch’essi gli impedissero, peril solo fatto di esistere e di andare a piede libero, di rivedere i luoghi chegli erano cari; e che erano stati cari a Silvio.

La casa fu trovata alle spalle della Versiliana, la famosa villa un tem-po proprietà dei marchesi Nuti-Digerini. Il parco è ancora immenso.Ha un fronte, dalla parte del mare, di circa un chilometro e mezzo, esi addentra nella pianura per circa ottocento metri, fino a un fossoche lo divide dalla campagna coltivata, chiusa, in fondo, dalle Apua-ne. Il lembo di terra fra bosco e prati, percorso da una strada pode-rale, bianca e ghiaiosa, che accompagna le anse del fosso con profon-de rientranze, è ancora oggi uno dei luoghi più versiliesi della Versi-

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quellapiccola
Timbro

lia. All’epoca, prima che si cominciasse a parlare di piani regolatori edi speculazione edilizia, era intatto.

Quando il nonno ricevette da Pietrasanta la lettera che l’informa-va che la casa desiderata lo attendeva, i due nipoti venuti a desinareda lui senza i genitori restarono impressionati dalla sua eccitazione.Tenendo aperta in mano la lettera, egli descriveva con enfasi la casadelle sue vacanze. Era a due piani, con quattro camere, un salottino,un soggiorno, un’ampia cucina, due bagni. Vi erano annessi, oltre algiardino, un orto e una pergola. Distava meno di un chilometro dalviale Apua dove si trovavano le botteghe: il fornaio, che vendeva an-che molti altri generi alimentari, il macellaio e l’erbivendolo.

«Vi aspettiamo tutti là» annunciò fiero ai nipoti che lo guardava-no: Nora un po’ scontrosamente, Ninetto con un’attenzione quasidolorosa, nel visuccio aguzzo sbarrato dagli occhiali.

2.

La decisione del nonno provocò qualche problema in casa dellefiglie. A Rita, l’idea di trascorrere un periodo sia pur breve di vacan-ze tutti insieme faceva paura. Vicino al padre, collerico e misoneista,alla madre eccessivamente apprensiva e alla sorella Aldina, sconten-ta, ipercritica, nevrastenica, non s’era mai sentita a proprio agio. Del-la Versilia, dove aveva trascorso le infelici estati della sua infanzia,non si ricordava volentieri.

Che ragione c’era di cambiare le loro abitudini? Da anni lei, il ma-rito e il bimbo andavano in villeggiatura in qualche baia della Tosca-na meridionale, Ansedonia, Talamone, Baratti, trovandosi benissimoin quei luoghi ancora primitivi appena sfiorati dal turismo. Recente-mente Alfredo aveva acquistato un bel tratto di boscaglia sul pro-montorio di Punta Ala e cominciato a costruirvi. I lavori erano a buonpunto. Anche se la casa non era ancora abitabile, avrebbero potuto be-nissimo installarsi provvisoriamente in una capanna lì vicino; e con laloro presenza indurre gli operai a far presto e l’impresario a rubar dimeno.

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Con l’avvicinarsi dell’estate i dubbi di Rita crebbero, anche se ilmarito le aveva promesso di restare in casa dei genitori solo due set-timane, al massimo tre. Alfredo era soddisfatto dell’invito. Andavad’accordo col suocero. Li univa l’amore per la pittura, quella anticaben inteso perché su questo punto il vecchio era irremovibile nelconsiderare i moderni, da Picasso in qua, una manica d’imbroglioni.

Anche Nino, dal poco che lasciava capire (era un bambino ecces-sivamente taciturno e schivo), pareva contento di andare in Versilia.Egli era rimasto impressionato dalle parole del nonno e dalla sua pro-messa di portarlo sulla Pania, la cima più alta delle Apuane versiliesi.Su un foglietto aveva scritto a penna in una calligrafia faticosa il no-me per lui misterioso.

«E tu che ne sai della Pania?» gli chiese un po’ cantilenando la mam-ma. Ninetto non ne sapeva nulla e abbassò il viso piccolo e un pocoaguzzo aggiustandosi gli occhiali sul naso.

Quegli occhiali erano una croce per Rita. Essa temeva che, oltre asfigurarlo, avessero un’influenza nociva sul carattere del figlio già ab-bastanza introverso. A sette anni Ninetto non aveva compagni di gio-co e non mostrava predilezioni di sorta: la sua attenzione si accende-va solo quando alla televisione vedeva all’opera un giocoliere o un pre-stidigitatore. La mamma era disperata. La paura che il figlio fosse unanormale la tormentava. «Di che ti preoccupi?» la consolava il mari-to. «È sano. L’abbiamo fatto visitare e tutti ci hanno assicurato che ènormalissimo. Dagli il tempo di crescere».

Alfredo era un ottimista. O meglio, pensava Rita, si sforzava diapparirlo. Anche la sua facilità nel gettarsi in un affare (faceva l’avvo-cato e s’interessava di compre-vendite, case, terreni, opere d’arte,comprese, all’insaputa del suocero, quelle contemporanee) più cheuna prova di intraprendenza era un tentativo, ragionava fra sé Rita,di nascondere una profonda incertezza.

Come la barba, che si lasciava crescere rigogliosa, precocementebrizzolata, una barba più da profeta che da artista.

Aldina, la figlia maggiore, si ebbe a male che il padre non l’avesseinformata a tempo della decisione presa. Ingelosita non poté rispar-miarsi di manifestare il suo malumore ai genitori in occasione di una

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visita domenicale nella loro casa di Monte Mario. C’era con lei Nora.Gino, il marito, era all’Olimpico col fratello venuto dall’Abruzzo a ve-dere la Lazio nell’ultima partita di campionato.

«È curioso, ammetterete» cominciò «che io venga a sapere dei vo-stri progetti solo per caso. Perché non me l’avete detto voi? Chi sonoio?».

Aveva trovato la notizia in una lettera di Sara, la vedova di Silvio,a Nora. Sara, che passava l’estate a Motroni, con i genitori e la sorel-la, da anni era in corrispondenza con la nipote.

«Così io devo sempre essere informata da qualche persona estra-nea». Aldina considerava tale la cognata (“una pappa fredda, unasciocca, per nulla adatta a un ragazzo come Silvio che era un artista”)e ora, grazie all’incidente, sentiva rinascere la sua avversione. «Vorreiche mi spiegaste. Che sono tutti questi segreti?».

Nora era andata sulla terrazza con la scusa di vedere i fiori dellanonna, in realtà per non sentire ciò che si diceva in salotto. La mam-ma, quando litigava con i genitori, e accadeva spesso, aveva un tonodi voce che la feriva.

Nora non si meravigliava che i nonni desiderassero starsene lon-tani dalla mamma. Con la mamma, sapeva, non era mai possibile sen-tirsi tranquilli. Sempre agitata, sempre troppo attenta a ogni cosa. Albabbo preferiva non pensare; le faceva pena con la sua grossa testainsaccata nelle spalle troppo alte, e quei baffi neri, cespugliosi, chesembravano messi di traverso sulla faccia perennemente corrucciata.

Per fortuna aveva zia Sara, la bella, giovane zia che ogni estate lavoleva con sé per due o tre settimane nella villa dei genitori a Motro-ni. Nora amava molto quella villa (una casa grande, tranquilla, silen-ziosa, dove le voci dalle altre stanze arrivavano come attraverso unfeltro, e che al posto delle persiane aveva grandi sporti verdi), impa-ragonabile con la sua pur bella e comoda casa di via Monteverdi. Alei non importava che fra la mamma, i nonni e zia Rita fosse nata unaquestione a proposito della villeggiatura. Anche quell’estate sarebbeandata a stare dalla zia.

Così, prestando sempre meno orecchio ai discorsi dei grandi, sidistrasse a guardare oltre il muro del giardino dove intravedeva, vici-no al cancello, un gruppo di ragazzi fermo a confabulare. Le sarebbe

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piaciuto moltissimo sentire, non vista, ciò che dicevano. Da un pezzocredeva di capire che i ragazzi avessero una vita molto più interessantedi loro, povere femminucce.

Con l’avvicinarsi delle temute vacanze Rita s’immalinconì. Ninet-to sorprese la mamma che piangeva silenziosamente davanti alla toi-lette. Ne fu quasi atterrito, mentre lei non s’era accorta che il figlio leera entrato in camera dove s’era chiusa con un romanzo di James.Seduta, col libro che aveva smesso di leggere aperto in grembo, scuo-teva sconsolatamente il capo, e le lacrime le scendevano sul viso.

Ninetto tese la mano e poi la ritrasse. «Mamma» ebbe la forza difarfugliare.

Rita fu pronta a riprendersi. Strinse la mano rimasta a mezz’aria,se la portò al viso attirando a sé il figlioletto.

«Non farci caso» gli disse baciandolo sui capelli irti. «La mammaa volte ha le paturnie. Sai che cosa sono?».

Rideva sul visuccio attonito del figlio. «Le paturnie sono animalettiinvisibili, con centinaia di gambine che fanno il solletico quando tientrano da un orecchio e ti camminano dentro lo stomaco o nel cer-vello».

Ninetto guardava la mamma perplesso, il viso aguzzo e arrossatoun po’ di sbieco.

«Non ci credi?» fece Rita. «Hai ragione. Infatti non è vero. Le pa-turnie non esistono, sono un’invenzione. La tua mamma è una citrul-la e tu sei il suo micetto».

Lo baciò ancora sul viso, vicino all’angolo della bocca. «Va’, sta’tranquillo».

La sera a letto si confessò col marito. «Temo di averlo spaventato».

Era scontenta anche Nora. Finora la breve vacanza in Versilia, dazia Sara, usanza che durava già da sei anni, bastava ad allietarle l’in-tera estate. Soprattutto perché le permetteva di stare lontana per dueo tre settimane dalla famiglia. Ora quella felicità era minacciata dallapresenza, nello stesso luogo, di genitori, nonni, zii e cugini.

Nora, che aveva compiuto undici anni in febbraio, nel corpo eraancora una bimba, liscia, tutta gambe e occhi. Incautamente chiese

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alla mamma se, dopo essere stata con loro, sarebbe ugualmente an-data, come gli altri anni, dalla zia Sara. Aldina la guardò con paleseirritazione.

«Se ci andiamo tutti in Versilia» rispose «non vedo che senso ab-bia che tu dopo vada dalla zia. Torneremo tutti a Roma e di lì andre-mo a Sulmona».

A Sulmona vivevano i genitori di Gino, i nonni paterni, e da Sul-mona si partiva per lunghi soggiorni nella regione, in collina e inmontagna.

Nora s’incupì. Il viso chiuso di quella ragazzina un po’ caparbia im-pensierì la mamma che le chiese il motivo del malumore. Non occor-sero molte parole per capire che Nora avrebbe preferito andare, co-me gli altri anni, da sola dalla zia. Aldina si sentì morsa dalla gelosia.

«Noi ti mandavamo a Motroni perché tu facessi un po’ di mare,non per i begli occhi di Sara. Ecco che cosa mi tocca scoprire. Eppu-re avevo ben diritto di credere che tu saresti stata molto più felice difare la villeggiatura con i genitori che con una zia rifatta».

Nora si ritirò a coltivare le proprie pene in camera. Pensava allestranezze della famiglia. Al nonno collerico e maniaco dell’arte; allanonna melanconica anche quando sorrideva; a zio Alfredo che, Dio saperché, portava quella barba da profeta; a quella scervellata di zia Ri-ta che di colpo aveva smesso di suonare il piano, pur essendo bravis-sima; allo zio Silvio, morto in maniera misteriosa. Quando si accen-nava a lui, i visi si abbuiavano, il nonno guardava da un’altra parte. Ep-pure gli avevano dato una medaglia, era dunque un eroe.

Pensò a Ninetto. Così bruttino e anche così simpatico. Stava sem-pre zitto. Ricordò il giorno, sette anni prima, che il babbo e la mam-ma l’avevano portata al San Camillo a vedere il cuginetto nato da po-chi giorni. Era la prima volta che entrava in una clinica. L’odore deimedicinali e dei disinfettanti che esalava dalle pareti innaturalmentebianche la impaurì.

In camera, dette appena un’occhiata al bambino che dormiva nel-la culla, disgustata dal gonfiore paonazzo del viso sotto il ciuffetto scu-ro dei capelli.

«È brutto» disse con grande scandalo della mamma e del babbo,mentre zia Rita appoggiata ai guanciali del letto rideva di cuore. «Lo

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dico anch’io» commentò la zia. «I bambini appena nati sono tuttibrutti, ma questo qui è il più brutto di tutti. È proprio uno scimmiot-tino. Soltanto tu eri già bellissima».

Nora rivide il cuginetto per le vacanze di Natale, quando la mam-ma la portò a casa degli zii in via San Sebastianello. A un mese di età,Ninetto era sempre brutto, piccolissimo, rosso e grinzoso. In colloalla mamma strizzava gli occhi e annaspava pietosamente con le brac-cine e la bocca. Soprattutto le manine facevano impressione, sem-bravano quelle di un ranocchio.

A Nora venne la tentazione di toccarne una. Allungò l’indice finoal palmo di quella misera manina bianca che si apriva faticosamente inaria e subito si chiuse, stringendoglielo con una forza che lei nonavrebbe mai immaginato e che la lasciò col batticuore e un forte de-siderio di riprovare quella stretta disperata.

3.

Il primo incontro con la zia di Motroni cinque anni prima era unodei più bei ricordi di Nora.

Quell’anno il babbo le aveva portate a fare un viaggio in automo-bile. La macchina era nuova, una Lancia, e il babbo pareva moltofiero di guidarla, sull’Aurelia, in Maremma, spingendola al massimo.

Raggiunsero in un giorno la Liguria; l’indomani percorsero le dueriviere fino al confine con la Francia. Sulla via del ritorno si fermaro-no a Bordighera, Sanremo, Alassio, Spotorno.

Dopo Genova, come preso da un’improvvisa fretta di rientrare, ilbabbo non volle fare soste. Non c’era ragione, aveva detto, di perdertempo dal momento che ripercorrevano un itinerario già fatto. Sedu-ta fra una cappelliera e due borse che occupavano metà del sedileposteriore, Nora riconosceva a stento i luoghi già visti, finché nellaluce incerta del crepuscolo perse ogni orientamento. Quell’andiri-vieni ininterrotto di curve, controcurve, salite, discese, con le luci vi-cine e lontane oscillanti nel buio, le dava la nausea. E nell’intermina-bile discesa del Bracco s’addormentò.

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Si svegliò in una camera grande e ordinata, alta, con due finestreappena schiuse su qualcosa di intensamente verde. Che silenzio, do-po quella notte infernale trascorsa a correre, anche nel sonno, su stra-de piene di rumori e di luci. C’era un buon odore di pino e di bian-cheria stirata da poco.

Era sola, in un letto sconosciuto. Tuttavia non aveva paura, per lacertezza che in quella casa ci fosse qualcuno che aveva vegliato sulsuo sonno aspettando che lei si svegliasse. Quando sentì che la mani-glia della porta piano piano si apriva, richiuse gli occhi fingendo didormire.

Una persona era entrata e ora stava ferma davanti al letto. Norane sentiva la presenza dall’odore, morbido, diverso da quello un po’forte della mamma che faceva sempre pensare a qualcosa di scuro. Eracertamente un’altra donna, ed era per questo che Nora sentiva quelpizzicore nel naso e la voglia di ridere.

Il letto si abbassò sotto il peso della sconosciuta che ora le sedevaaccanto e si piegava verso il cuscino posandole le mani sulle spalle. S’e-ra certamente accorta della sua finzione e si sforzava di non mostrar-lo. Nora aprì gli occhi e vide, vicinissima, una faccia bionda e chiarache frenava a stento il riso.

Per cinque giorni Nora rimase sola nella villa di Motroni con ziaSara e i suoi. I genitori, che dovevano fare un giro in Toscana, fra Sie-na e Firenze, per essere più liberi s’erano lasciati persuadere ad affi-darla loro. L’avrebbero ripresa al ritorno.

Nora dormiva con la zia in una camera al primo piano con la fine-stra sulla pineta. C’erano due letti gemelli, in ferro bianco, un grandearmadio pieno di coperte e di biancheria che dava odore alla stanza,un tavolino con la macchina da cucire, alcune sedie e un panchettomolto basso e piccolo. Nel pomeriggio vi si riunivano a lavorare echiacchierare Sara, la mamma e le sorelle, e se aveva finito in cucina,anche Bruna, la donna di servizio. Nora sedeva sul panchetto, tran-quilla, a guardare la zia.

Zia Sara era molto giovane, sembrava ancora una ragazza. Avevala pelle del viso, del collo e delle braccia liscia e chiara, e addossoquel buon odore che invogliava a chiudere gli occhi per il piacere.

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Quando la zia s’accorgeva di essere guardata e le sorrideva, stringen-do un poco gli occhi azzurri, Nora sentendosi diventare rossa piega-va il viso o lo voltava da un’altra parte.

La mamma di zia Sara portava i capelli raccolti a cerchio intornoalla testa, e non si capiva se fossero biondi o bianchi. Il viso aveva uncolorito chiaro e sano. Somigliava molto a zia Sara, solo che i capellidella zia erano decisamente biondi.

Anche le sorelle di Sara erano bionde. Intuendo i pensieri della ni-potina, la zia disse: «Vedi, noi in casa siamo tutti di un colore. Abbiamopreso dalla parte del nonno. Ce ne fosse stata almeno una che somigliassealla nonna; lei era bruna» aggiunse tornando al suo uncinetto.

Quando la zia Sara piegava il viso sul lavoro, Nora le vedeva la fi-ne peluria che si drizzava sul collo arcuato, e le pareva che non ci po-tesse essere nulla di più tenero. Dava così piacere guardarla che sisentiva salire al viso un’onda d’intenso calore.

Più tardi, si trasferivano sulla scaletta che scendeva dalla cucinaallo spiazzo antistante la folta pineta che copriva la villa alle spalle.

Il babbo arrivava quando cominciava a far scuro e la luce accesain cucina proiettava sul terreno muschioso le ombre di Bruna e dellamamma di Sara che trafficavano fra l’acquaio e i fornelli.

Ci voleva un orecchio molto abituato per sentire il cigolio del can-cello dalla parte della strada, e poi il passo leggero di una personache avanzava sul muschio del viale.

«Ecco il babbo» diceva una delle tre ragazze come se fossero sta-te finora attente a chi udiva prima quel rumore. Si alzavano e gli an-davano incontro. Anche Nora si alzava un poco intimidita nascon-dendosi dietro la grande figura della mamma di Sara, mossasi per ul-tima.

Il babbo però la scorgeva quasi subito. «Dov’è la mia pisciona?»cominciava.

«Babbo…» facevano in coro le tre sorelle supplichevoli.E lui: «Perché? Forse che non è una pisciona? Su, fatti vedere».

Si chinava accostandole il viso che sapeva di sapone da barba e di ta-bacco. Gli occhi gli brillavano cilestrini sotto le sopracciglia bionde efolte.

La Bruna era scesa dalla cucina portando le ciabatte del dottore.

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Mai il babbo di Sara sarebbe entrato in casa con le scarpe; non vole-va portarvi attaccate alle suole le sudicerie della strada, a parte la pol-vere e il fango. La casa doveva essere sempre in ordine. Sulle pia-strelle lucide dei pavimenti non si vedeva una macchia né un granodi polvere. Tutto era pulito, netto, al suo posto, in cucina come nelsalotto da pranzo.

In salotto sedevano a un tavolo lungo, lucido e massiccio, su sediedi legno pesante coi braccioli, simili a piccoli troni. Appeso alla parete,alle spalle del babbo, c’era un gran crocifisso. Il legno della croce ave-va lo stesso colore marrone chiaro e lustro del tavolo e delle sedie; legambe del crocifisso di marmo bianco erano spezzate sotto il ginocchio.

Nora non aveva mai visto un crocifisso simile. Spesso alzava gliocchi a quel corpo bianco, alle pieghe dello straccio che lo colpiva al-l’inguine, alle magre gambe spezzate. Chi l’aveva ridotto così? Era unacosa tanto brutta che a volte pensava non fosse vera, e che tornandoa guardarlo si sarebbe accorta d’essersi sbagliata.

Zia Sara s’accorse che la bimba alzava spesso gli occhi al crocifis-so. Fece cenno al babbo e alle sorelle. Il babbo girò la faccia sullaspalla.

«Cos’hai da guardare tanto quel poveraccio?» chiese a Nora; eignorando i babbo costernati delle figlie, «Vedi come l’hanno concia-to gli amici di chi ci governava una volta? Beata te che non eri anco-ra nata; benché non si possa dire che i successori siano meglio diquelli. Ne sappiamo qualcosa».

«Basta così» disse zia Sara compunta, gli occhi sul piatto. «Non oc-corre che tu le stia a raccontare». Si rivolse a Nora: «Sono stati degliuomini cattivi» le disse piegandosi un poco su di lei. «Ora mangia».

Era una cosa terribile, pensava Nora, che degli uomini avessero po-tuto fare tanto male a Gesù. Chissà che brutte facce avevano e comeghignavano nell’eseguire quel tristo lavoro. Allungò una mano a toc-care il braccio della zia. Ora non aveva più paura. Dalla cucina vennela voce di Bruna: interpellava un gatto che salita la scaletta s’era af-facciato alla porta. Il buio fasciava la bella casa di Motroni che raccoltanei suoi buoni odori, nelle sue luci quiete, nei rumori tranquilli, sal-pava sicura nella notte.

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Sulla spiaggia al mattino, ci andavano molto tardi. La zia indossa-va un accappatoio turchino sul costume e portava i capelli legati sul-la nuca con un nastro. Aveva le gambe lunghe e lisce come le bracciae il collo. Camminava tranquilla sulle irregolarità della sabbia tenen-do Nora per mano.

La stagione stava per finire. Sulla spiaggia erano rimasti pochiombrelloni, a gruppi. I superstiti si conoscevano fra loro, parlavano daun ombrellone all’altro. D’inverno tutti, le disse zia Sara, abitavano aPietrasanta. Venivano a stare in marina a metà maggio e non se neandavano mai prima della fine di ottobre. Loro, concluse, sarebberorimasti a Motroni fino ai santi e ai morti.

Nora trasalì. Il riferimento alle celebrazioni autunnali le aveva da-to una stretta al cuore. Era triste pensare che in quei giorni, mentrela zia e le sorelle erano a Motroni, lei sarebbe stata a Roma, sola colbabbo e la mamma nella casa di via Monteverdi. Zia Sara s’era acco-sciata sulla sabbia lasciandosi cadere l’accappatoio dalle spalle, men-tre Ada e Rachele sedevano un poco discosto volgendo la faccia ad-dormentata al sole. Nora sentì il bisogno di accostarsi alla zia, fino asentire il contatto della sua coscia.

Il giorno dei morti, ricordò, la mamma e il babbo la portavano alVerano sulla tomba dello zio Silvio. Lo disse alla zia che piegò un po-co il viso e le fece una carezza sulla testa mentre le sorelle avevanoaperto gli occhi e la guardavano con un’aria divenuta improvvisa-mente seria. E siccome Sara taceva, fu Ada a rompere il silenzio: «An-che noi» disse «quel giorno andiamo al camposanto e diciamo unapreghiera per lui».

«Silvio» aggiunse Rachele «lo sai, era il marito della zia Sara e il fra-tello della tua mamma e della tua zia Rita».

Nora guardava zitta le tre donne dando l’impressione di non ca-pire. Zia Sara scosse il capo: «Ora chissà quale confusione le avetemesso in testa».

Prese una mano di Nora, le avvicinò il viso. «Zio Silvio, tuo zio,era mio marito».

Nora non era soddisfatta. Teneva gli occhi sulla sabbia. Non sa-peva che cosa fosse un marito.

Di nuovo zia Sara l’accarezzò sul viso. Anche le sue sorelle sorri-

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devano e la guardavano. Lei non le vedeva sorridere, perché conti-nuava a fissare la rena, ma sentiva il loro sorriso sui capelli, come semuovendo le labbra avessero mosso un poco l’aria.

«Silvio» spiegò Ada «era come il tuo babbo per la tua mamma. Iltuo babbo si chiama Gino, vero? E tu sei la loro bambina».

Nora capì che come lei, la bambina della mamma e del babbo,ora avrebbe potuto essercene, sulla spiaggia di Motroni, un’altra, fi-glia di zia Sara e di zio Silvio. Era certamente triste che lo zio non cifosse più; ma pensando che se lui fosse ancora esistito lei non sareb-be stata lì, sola con la zia, la cosa non appariva più così triste. Loro due,zia Sara e lei, stavano bene insieme senza nessun altro in mezzo; e ziaSara stava benissimo senza marito.

Quel giorno tornarono dal loro giro in Toscana il babbo e la mam-ma e Nora capì che la sua vacanza a Motroni era finita. Il babbo e lamamma, molto eccitati dal viaggio, avevano fretta di ripartire perRoma. Parlavano di tutte le belle cose viste, e il babbo rideva in unamaniera che pareva singhiozzasse. Anche zia Sara rideva, annuendo,composta, e ogni tanto stringeva la mano della nipotina come perdirle che stesse tranquilla, che lei era sempre lì e non l’avrebbe lascia-ta nemmeno col pensiero.

Il babbo e la mamma, prima di partire, l’indomani, volevano an-dare a Pietrasanta a salutare gli altri parenti; volevano che Nora an-dasse con loro. Nora rifiutò, e siccome la mamma insisteva si mise agridare rossa in viso, furente. La mamma era impressionata: «Non loha mai fatto» diceva rivolta a zia Sara e alle sue sorelle. Finalmente sene andò col babbo che s’era già avviato. Era indignata per il compor-tamento di Nora, per lo scarso aiuto datole dal marito, e anche, manon voleva confessarselo, per la calma di Sara, così imparziale, trop-po imparziale per essere giusta.

Quando in fondo al viale udì il rumore dell’automobile che parti-va, Nora scoppiò in singhiozzi e corse a rifugiarsi fra le braccia della zia.

Durante il viaggio di ritorno Nora non fece che vomitare. Il bab-bo gridava, perché aveva sporcato tutto il divano dell’automobile nuo-va. La mamma non riusciva a capacitarsi come si potesse continuarea vomitare anche quando nello stomaco non poteva esserci più nulla.

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Nei giorni che seguirono, a Roma, Nora fu preda di varie manie.La sera aveva paura. Fu necessario che la donna di servizio dormissecon lei. La mamma non voleva darle l’abitudine, perniciosa diceva,di dormire con i genitori.

Una sera, di ritorno a casa dopo una passeggiata a Villa Borghesecon la donna di servizio, Nora si mise a piangere senza una ragione. Lamamma non riusciva a tirarle fuori la verità. Più tardi Nora confessòa Elvira, la donna di servizio, che qualcuno, fuori, l’aveva toccata.«Chi? Come? Dove?». Non ci fu verso di farle dire di più. «Perchépiangi ora?». La mamma cominciava a irritarsi. Infine Nora confessòdi temere d’essere stata contagiata. Fu necessario lavarla tutta e cam-biarla.

Stava sempre a lavarsi le mani, la faccia, i vestiti. Anche di notte,quando si svegliava voleva che Elvira l’accompagnasse in bagno a la-varsi, disinfettarsi. La mamma e il babbo la guardavano preoccupati.Nora abbassava il viso sul piatto. Pensava alla zia. Pensava anche a zioSilvio. Lo immaginava in calzoni lunghi e maglietta bianchi, col viso eil ciuffo di un giovane di Motroni che una sera, sul campo di tennis,aveva offerto la sua racchetta alla zia perché tirasse qualche colpo.

4.

Nora e la mamma arrivarono alla pensione Imperiale di Fiumettoa metà luglio, nel primo pomeriggio di un giorno di libeccio. Le ac-compagnava una ragazza inglese, Liza, che abitava con loro au pair, aRoma, sin dal principio dell’estate. Liza, una bionda grassotta, dall’a-ria pacifica e dal viso pieno di lentiggini, era molto contenta di essereal mare e per nulla infastidita dalle folate di vento che sollevavanodovunque la sabbia, facendo strizzare gli occhi. Durante il viaggio intreno, fra Roma e Viareggio, non aveva fatto che chiacchierare conNora, dimostrando di trovarsi perfettamente a suo agio con lei, no-nostante i poco più di sei anni che le dividevano.

La pensione, nuovissima, sorgeva in una zona tranquilla e ombro-sa. Aldina l’aveva scelta a ragion veduta: era abbastanza lontana dal

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mare (che lei riteneva, se troppo vicino, nocivo ai nervi per via delloiodio e della luce) e anche dalla casa affittata dai genitori. Così non sisarebbero dati noia, specie quando ci fossero stati anche Rita e i suoi.Da Motroni la pensione distava almeno due chilometri.

A Nora non piacque la pensione, e soprattutto non piacque chefosse così lontana da Motroni. Pensò che la mamma l’avesse sceltaapposta per separarla da zia Sara.

Le riusciva sgradevole anche l’accoglienza, un po’ troppo cerimo-niosa, della padrona dell’Imperiale, una veneta, vedova di un famosotenore, che le aveva accompagnate a vedere le camere. Pensò con no-stalgia alla zia Sara. Se avesse avuto una bicicletta sarebbe corsa subi-to a Motroni, sicura di trovarla seduta in giardino, all’ombra, a legge-re. Non osò chiederlo. La mamma avrebbe inventato sicuramentequalche scusa per proibirglielo, perché era troppo presto e perché do-po il viaggio bisognava, erano sempre le parole della mamma, “chiu-dere un poco gli occhi”.

Rifiutò tuttavia di sdraiarsi in camera insieme a Liza. Quella tom-bolotta d’inglese, dagli occhiali spessi di miope, le era venuta improv-visamente a noia. Dopo essersi rinfrescata, mentre la mamma e l’ami-ca andavano a riposare, scese nella pinetina dietro casa, e sedette in pol-trona a sdraio a leggere L’isola del tesoro. Oltre la rete di cinta siscorgeva un tratto di boscaglia abbastanza intricato e profondo. Aves-se potuto, come Jim Hawkins, partire sola in esplorazione, incurantedei suoi compagni di viaggio, presa solo dal piacere della scoperta!

Era distratta; non riusciva a concentrarsi nella lettura. Forse ave-va ragione la mamma: era stanca per il viaggio. Questo però una vol-ta non accadeva. Ricordò che da qualche tempo la mamma, il babbo,e quando le vedeva anche zia Rita e la nonna, la guardavano in manieraspeciale. “Non sei più una bambina” le diceva spesso la mamma “haiundici anni; fra non molto sarai una signorina e ti comporti ancoracome un ragazzaccio”.

Erano frasi che la irritavano, le mettevano dentro un odio controse stessa. Anche ora, a pensarci, sentiva crescerle la rabbia. Lei era No-ra, non una “bimba destinata a crescere come le altre”. Che stupidiperò gli adulti, specialmente le donne.

Concluse che la migliore di tutte le persone che le erano vicine (non

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considerando la zia Sara) era la povera Liza. Si pentì d’essere statasgarbata con lei. Doveva riconoscerle un merito: la trattava semprecon gentilezza, da pari a pari, anche se lei aveva già diciotto anni. In-somma, Liza non pretendeva di esserle vicina con la premura di unasorella maggiore già esperta della vita. In certe cose (per esempioquando osservavano insieme una pianta o un sasso) sembrava addi-rittura che avesse la sua stessa età.

E poi era inglese, di Bristol, il porto d’imbarco per tutti i paesipiù belli del mondo, il Canada, l’Australia, le Antille. Anche l’Hispa-niola con Jim Hawkins e quel simpatico cuoco con una gamba sola,Long John Silver, era partita da lì.

Viaggiare per il mondo, lontano da casa, era certamente la cosada farsi al più presto. Era come cambiare pelle ogni giorno, non la-sciando che si appiccicasse sulla propria persona. Soli col mare o conla pirateria, con i delfini o i cavalli, nel vento.

A stare sempre nello stesso posto, nella stessa casa, qualcosa di vi-scido doveva necessariamente avvolgerti a poco a poco come una ca-micia umidiccia. E forse quel viscidume nasceva di dentro; qualcosacome un siero, simile alla resina che nel pieno dell’estate cola fra lescorze dei pini. Dio come le dava noia la vicinanza della mamma, diLiza, della cameriera! Non le piaceva che Liza a volte si spogliassecon la luce accesa mentre lei non dormiva ancora. Accadeva di radoperché Liza se n’era accorta. Questo era un bene. Era però anche unmale che Liza sapesse che facendosi vedere mezza spogliata la distur-bava. Era come un legame fra loro due, un legame colloso.

Al ritorno a Roma avrebbe chiesto di dormire sola. La stanza c’e-ra; non grande come quella che divideva con la ragazza inglese, ma ab-bastanza comoda. In ogni caso sempre meglio starsene sola in unostambugio che sentirsi accanto un’altra persona, specialmente se don-na. Vero: avrebbe preferito che nel letto accanto le dormisse un ra-gazzo della sua età o più piccolo. Pensò improvvisamente con tene-rezza a Ninetto. Dio com’era magro e brutto. E già con gli occhiali.

Dalla zia, Nora ci andò sola, finalmente, in bicicletta, un pome-riggio che la mamma e Liza stavano riposando. Era sicura di trovar-la, come una volta, a leggere sulla scaletta di cucina.

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La incontrò invece nel viale, che accompagnava al cancello duesconosciuti, un uomo e una donna, vestiti da città, molto alti, lui colbastone e il cappello in mano, lei con una grande pamela gialla tuttapiegata da una parte a sfiorarle una spalla con la testa.

Nora ebbe subito l’impressione che il suo arrivo (era accaldata, ros-sa) in quel momento non fosse gradito alla zia, che le fece una rapidacarezza come dire “aspettami” e continuò la conversazione con i due.Sorrideva loro imbarazzata; a Nora sembrò fosse un poco arrossita.“Zia Sara” avrebbe voluto gridarle “sono io, sono Nora, non mi rico-nosci? E chi sono questi due attaccapanni? T’accorgi che non mi haiancora abbracciata?”.

Zia Sara l’abbracciò, dopo aver salutato al cancello i due ospiti, tor-nando insieme verso la villa, e continuando a camminare, solo rallen-tando un poco, si piegò un’altra volta per baciarla sulla guancia. «Co-me sei carina! Sei più carina che mai».

Cominciò a farle le solite domande (la scuola, gli esami, la mamma,il babbo) e intanto s’avvicinavano alla scala di cucina. Apparvero lamamma e Bruna; una delle sorelle s’affacciò a una finestra del secon-do piano. In breve le furono tutte intorno, come una volta.

E tuttavia qualcosa era cambiato. Se no, perché quel disagio chele faceva sentire una debolezza sulle ginocchia come dopo una ma-lattia? Nora avrebbe voluto chiedere alla zia: “Chi è quel signore colcappello e il bastone che hai riaccompagnato al cancello?”. Ma capi-va che la domanda non sarebbe stata bene accolta, ed era questo si-lenzio che provocava il disagio.

Fu un pomeriggio penoso. Zia Sara pareva trovasse sempre il mo-do di non restare sola con lei. Ogni volta s’univa a loro la mamma ouna delle sorelle. La più affettuosa di tutte fu zia Ada. Lei non era cam-biata; raccontava un sacco di cose, rideva, faceva delle smorfie buffe.Eppure non era più una ragazza; in primavera aveva avuto un secon-do bambino.

Glielo mostrarono, dormiva in carrozzina nel giardino davanti,all’ombra di un grande pitosforo.

«Non ha ancora quattro mesi» la informò zia Sara. «Non è bellis-simo?». Piegata sul bambino si stringeva le mani; il bel viso che glianni avevano finora risparmiato, radioso di felicità.

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Nora osservava il bimbo delusa; non chiese il suo nome. Sentivacrescere il disagio. Possibile che le donne, mamme, nonne o zie, do-vessero perder la testa per simili mostriciattoli? E che pretendesseroche anche gli altri provassero le loro estasi?

Le venne un sospetto disgustoso. Forse la consideravano già unaloro pari, in grado di capire la bellezza della maternità. “Che c’entroio? Io mi diverto a leggere L’isola del tesoro, vorrei essere come JimHawkins o come il cuoco dell’Hispaniola, Long John, il pirata dallagamba di legno. Preferirei essere anch’io senza una gamba piuttostoche con un mostriciattolo del genere fra i piedi”. Per un attimo acca-rezzò l’infantile speranza di un improvviso arrivo dei pirati di LongJohn che avrebbero fatto piazza pulita di tutte quelle stupide.

Sulla via del ritorno pedalava svogliatamente assorta nei suoi pen-sieri. Vide Liza che le veniva incontro anche lei in bicicletta, spor-gendo sopra il manubrio il viso lentigginoso. Nora la chiamò, e comel’ebbe raggiunta la sfidò a chi arrivava prima alla pensione. Liza simise in linea di partenz, un piede a terra l’altro sul pedale, le manistrette al manubrio, il viso proteso. Nora la sbirciava in attesa di dareil via. Una persona decorosa finalmente! Quella Liza Ferguson avreb-be corso per vincere, per il suo orgoglio personale e per la vecchiaInghilterra. Go!

Nora tornò altre volte da Sara. La trovava quasi sempre in com-pagnia. Non c’erano mai stati tanti amici nella villa di Motroni. I piùassidui erano i due sconosciuti incontrati il primo giorno mentre lazia li riaccompagnava al cancello. Erano fratello e sorella, seppe, di Fi-renze. Non si somigliavano, eppure avevano qualcosa in comune,forse il modo di parlare. Lui aveva un naso adunco, il mento un pocosfuggente. Si chiamava Antonio. Era professore di qualcosa all’uni-versità.

Un pomeriggio (era la fine del mese) ci trovò anche i parenti divia San Sebastianello. Erano arrivati dai nonni al mattino.

Zia Rita le fece molte feste, l’abbracciò e la riabbracciò. Sembravacontentissima di ritrovarla in Versilia. Zio Alfredo guardava la mo-glie sorridendo, soddisfatto e un po’ ironico per quell’esplosione di al-legria che la ringiovaniva. Zia Rita, dovette ammettere Nora, era ve-ramente una bella donna.

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Di dietro un cespuglio sbucò Ninetto con una fetta di pane di cam-pagna in mano. Vedendo la cugina affondò il viso arrossato nel pane.Un topo. Si vedevano solo il naso, gli occhiali e i capelli tagliati aspazzola, dritti. Nino aveva sette anni. Siccome s’era presa la scarlat-tina aveva perso l’anno a scuola e avrebbe dovuto ripetere la prima.

5.

Nora rifletteva sulla zia di Motroni. Non era più la Sara di unavolta; forse non era mai stata quella che lei aveva creduto. “Ci avrà maipensato a me” si chiedeva “come io pensavo a lei, a ogni ora, col cuo-re, col desiderio di stare insieme?”.

Aveva dunque ragione la mamma a dirle che l’unico bene che nonviene a mancare, qualunque cosa accada, nella buona e nella cattivasorte, è quello dei genitori, della mamma soprattutto. I suoi genitorile volevano certamente bene. Ma lei a loro?

Non ne era sicura, non lo sapeva. O forse non aveva il coraggio didire di no, perché sarebbe stato orribile ammettere di non volere be-ne al babbo e alla mamma.

Pensò alla mamma. La vedeva seduta sul divano, le gambe un po’divaricate, la veste che le risaliva sopra le ginocchia. Ogni volta che lavedeva in quella posizione, avrebbe voluto gridarle di chiudere le gi-nocchia, di tirarsi giù la gonna. Era una donna che tendeva a ingras-sare, sfiorita, le stava venendo un po’ di doppio mento e gli occhisembravano impiccoliti; cose che non sembravano preoccuparla, cheanzi pareva le dessero piacere.

Così ingrossata, imbruttita, la mamma non le piaceva più. Dirlo erauna cosa tremenda, di quelle che meritano un castigo. E tuttavia nonaveva paura che Dio la punisse. Era tranquilla. Freddamente diceva:“La mamma non mi piace” e non accadeva nulla.

La mamma non le piaceva, non le voleva più bene. Certo non vo-leva che le accadesse nulla di male, questo però non bastava. Altroera il sentimento che prima provava per zia Sara; quel tepore, quelbenessere che la invadeva a guardarla (specie quando piegava la testa

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sul lavoro e metteva voglia di posarle tanti piccoli baci sulla peluriabionda che le scendeva dalla nuca sul collo) per la mamma aveva smes-so di provarlo da un pezzo.

Poteva dire quando. Era accaduto di mattina, nell’anticamera del-la casa di via Monteverdi. Dalla sera avanti aspettava con gran ansiail ritorno della mamma dalla clinica dov’era stata più di un mese. Intutto quel tempo non le era mai stato permesso di andare a trovarla.Ci andava il babbo e quando ne tornava, aveva la faccia stravolta.

Quella sera il babbo, mettendosi a tavola, posando le lunghe brac-cia sulla tovaglia le aveva detto che la mamma domani sarebbe torna-ta, che era guarita.

Che agitazione la notte, che ansia. Quasi non aveva dormito a fu-ria di svegliarsi ogni ora con la voglia di fare pipì, come non le eramai accaduto, tanto da chiedersi se per caso fosse malata. Ma il desi-derio che la mamma tornasse, il pensiero di come l’avrebbe abbrac-ciata appena dentro casa, erano troppo forti per lasciarle il tempo diriflettere su quella strana faccenda.

Suonò il campanello. Lei e la donna di servizio si precipitarono,irruppero in anticamera mentre la porta già s’apriva, entrava per pri-mo il babbo, alto, nero, scaruffato e ingombrante, che invece di far lar-go alla mamma ritta sulla soglia, sepolta nella pelliccia, sembrava im-pedirle il passaggio. Oh mammina bella. L’aveva abbracciata alle gam-be, impedendole di camminare, il viso tuffato nella pelliccia. “Mi faicadere, buona” si lamentava la mamma. Ecco, era in quel momentoche aveva capito di non volerle più bene. Aveva immaginato, goden-done, l’onda di calore che si sarebbe sprigionata dal suo corpo al pri-mo contatto. Ora s’accorgeva che quel calore tardava a nascere; e piùla stringeva (dicendosi di amare moltissimo la mamma, di essere feli-ce di riaverla vicina dopo una così lunga separazione) e meno lo sen-tiva. “Non le voglio più bene” si disse, restando attaccata come mor-ta alla sua preda.

Tutto il giorno con quella idea terribile in testa. La mamma eraandata a riposarsi; stava sdraiata sul letto, una coperta sulle gambe,la testa affondata nei guanciali, gli occhi chiusi. Era dimagrita, palli-da. Lei la guardava stando sulla soglia, abbracciata allo stipite; e sa-peva di non volerle più bene.

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Era una brutta cosa; una cosa da non dire a nessuno, un peccato.Allora faceva la terza elementare. Era brava, scriveva dei buoni

componimenti. La maestra li leggeva in classe perché, diceva, eranopieni di sentimento. Il tema quella volta era sull’amore del bambinoper la mamma. Smesso di scrivere sollevò il viso dal quaderno. Vede-va le compagne curve sul compito; i fiocchi azzurri, rosa, sulle nuchepiegate; le penne strettamente tenute fra le dita oscillavano scriven-do sul foglio le affettuose, gentili parole. Si sentì gelare rossa al pen-siero che là in mezzo lei era la sola a sapere che tutte quelle dichiara-zioni erano false, perché lei non voleva bene alla sua mamma.

Erano passati vari anni, tuttavia ricordava con identica precisionequei due momenti: nell’anticamera di via Monteverdi e nell’aula del-la scuola elementare Lante della Rovere in via Tevere. La scopertaera terribile, eppure non le metteva nel cuore la paura che si sarebbeaspettata e che forse desiderava provare.

E ora temeva di non volere più bene nemmeno a zia Sara.Si guardava allo specchio nel piccolo bagno della pensione annes-

so alla camera sua e di Liza. Liza stava leggendo, sdraiata sul letto, leginocchia un poco sollevate, composta e attenta. Lei, messo da parteil suo libro, aveva sentito il bisogno di guardarsi in faccia mentre pro-nunciava la terribile verità. “Non voglio bene a nessuno”.

La faccia, rotonda sotto la frangetta, brunita dal sole, un po’ me-no ai lati del naso piccolo, dritto, era la stessa di sempre. Il musino(un bel musino le dicevano) di una bimba buona e innocente. Unabimba di un candore incredibile, aveva detto la professoressa di let-tere alla mamma che era andata a parlarci dopo la pagella. La mam-ma l’aveva ripetuto al babbo. Lei aveva sentito.

Le venne da ridere al ricordo. “È vero” si disse “se sto ferma, na-turale, gli occhi sembrano incantati su qualcosa che non si vede. Èquesto che fa pensare all’innocenza. Invece, questi stessi occhi vedo-no una verità che gli altri, se la sapessero, non ci crederebbero”.

I suoi occhi vedevano che non voleva bene a nessuno: né alla mam-ma, né al babbo, né ai nonni, né agli zii e forse nemmeno a Sara. So-lo un poco a Nino. Quello non era un essere normale. Sembrava unpupazzetto. Dio sa dove aveva preso quella tinta così scura, ramata,che lo faceva somigliare al figlio di uno zingaro.

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Fu un’estate di aspre battaglie fra Nora e la mamma. Era arrivatoil babbo, ora lamentoso, ora ridanciano, mai dello stesso umore. Gliaffari comunque gli andavano bene. Se n’era andata Liza, in Inghil-terra dai suoi; non sarebbe tornata prima di ottobre. Così fra Nora ela mamma mancava quella specie di feltro che attutiva gli attriti. Ognigiorno una lite. La mamma ce l’aveva soprattutto con i suoi amici delbagno Irene: il Morino, Mondo, Elio. “Pure canagliole” diceva “figlidi nessuno, da vergognarsi a farcisi vedere insieme”. C’erano fra gli al-tri anche uno zoppo, Fredo, che correva con le grucce, un monco,Vito, il figliolo della pescivendola di Fiumetto, e un terzo, Siro, un fi-glio di nessuno mezzo orbo. “Una vera corte dei miracoli” rideva lamamma sconsolata. E nessun’altra bambina.

Subito dopo mangiato, mentre la gente perbene era a riposare, labanda si ritrovava sulla spiaggia all’ombra di un capanno, con le carteda gioco, Nora unica femmina fra quei maschiacci tutti più o meno del-la sua età. I compagni le avevano insegnato la briscola, la scopa, l’uo-mo nero, il terziglio, accompagnando le calate e le prese con impreca-zioni e bestemmie. Lei non si scandalizzava. Molte di quelle parolaccenon le capiva; i musi un po’ sudici e quelle boccacce le piacevano piùdelle bambine e dei ragazzi della pensione Imperiale che trascorreva-no tranquilli le prime ore del pomeriggio in giardino. Anche se qual-cuno a volte le metteva le mani addosso, per scherzo o in una disputa,lei non ci vedeva ombra di malizia. Del resto con quei jeans stretti e fru-sti e la maglietta aderente al petto ancora piatto, si sentiva per ogniverso uguale a loro. Solo la pelle era diversa, più liscia e più fina, co-me i capelli che la mamma le lavava ogni giorno, dopo il bagno, asciu-gandoglieli poi con il phon, prima d’andare a tavola.

Esauriti i giochi con le carte la combriccola si spostava dalla zona deicapanni alla battima dove la sabbia, più compatta e più umida, favori-va il gioco della pista.

Non passava giorno senza memorabili sfide. Le piste erano di variacategoria. Per farne una degna di un Grand Prix di Formula 1, conlunghi rettilinei, curve sopraelevate, ponti, sottopassaggi, ci volevano unpaio d’ore di paziente lavoro, con la collaborazione di tutti i concor-renti.

Nora aveva già vinto i maggiori Grand Prix, correndo con la Coo-

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per di Stirling Moss, in lotta con Vito che aveva la Ferrari di Fangio,ed Elio che era Ascari, su Maserati. L’attendeva il Gran Premio d’Eu-ropa, l’ultimo e il più importante della stagione, sul percorso del Nür-burgring. Quel giorno era il 27 d’agosto. I temporali di fine estate ele burrasche avevano magnificamente esteso la battima sicché la pi-sta era riuscita un capolavoro.

C’erano una dozzina di concorrenti al via, e molti spettatori. C’e-ra anche Ninetto che, andato con la mamma dagli zii della pensioneImperiale, non avendo trovato la cugina, era corso a cercarla sullaspiaggia. Nora lo vide mentre lei carponi sulla sabbia era sul puntodi eseguire il primo tiro, l’indice della destra trattenuto con forza dalpollice per scattare e colpire la pallina di terracotta. Allentò la pres-sione del pollice e sollevando il viso gli strizzò l’occhio. Ninetto, chenon credeva di aver ricevuto nella vita niente di più bello, si sentì ar-rossire fin dentro gli occhi, come quando gli veniva la febbre, e perqualche secondo fu incapace di capire ciò che vedeva. Ripresosi dal-l’emozione, si strinse nella blusa infilando nelle tasche dei jeans lemani magre e un po’ ossute.

Nora era veramente la più brava. Al primo giro aveva già due tiridi vantaggio su Elio e il Morino, i primi degli inseguitori, un vantag-gio che aumentò nei giri successivi. Vito, che finora era stato il suo ri-vale più pericoloso, aveva fatto un sacco di sbagli, e furioso di sba-gliare continuava a perdere terreno. Chi invece si avvicinava perico-losamente al battistrada era uno nuovo, da poco associato alla banda,che chiamavano il milanese. A due giri dalla fine il milanese era or-mai così a ridosso che con un po’ di fortuna avrebbe potuto passarein testa.

A un errore fatale del Morino che lo metteva fuori definitivamen-te (la sua pallina s’era incastrata nel sottopassaggio poco prima del tra-guardo) Nino frenò un grido di gioia. Quel poco che ne uscì dalla boc-ca stretta sotto il naso da pinocchietto somigliava al guaito di un cuc-ciolo. E fece ridere chi gli stava accanto e voltare la testa a Nora che,già carponi, aspettava il suo nuovo turno.

Vito sbagliò ancora e questa volta la sua furia proruppe in una se-quela di parolacce. Ce l’aveva con la malasorte e con il milanese chegli aveva tolto il ruolo molto ambito di rivale di Nora. Le loro palli-

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ne, azzurra quella di Nora, rossa quella del milanese, s’erano avvici-nate, in certi momenti quasi si toccavano, e questa vicinanza accen-deva la sua gelosia.

Nora vinse solo all’ultimo colpo. Subito dopo, la pista si trasformòin un’arena. Vito sfidò il milanese alla lotta e siccome Nora gli attraver-sava la strada gli andò contro. Nino era così atterrito, che mentre tuttisi facevano intorno ai due combattenti, lui restò dov’era, povero pi-nocchietto che il burattinaio aveva dimenticato di muovere con le dita.

All’urto di Vito, Nora era caduta all’indietro, ma tirandosi addos-so l’aggressore, e appena in terra l’aveva destramente rovesciato met-tendolo sotto. Poi, di colpo, era schizzata in piedi. Con un fiero scat-to del capo tirò indietro la zazzeretta bruna che le ricadeva sulla fron-te, pronta a un nuovo assalto.

Vito s’era rialzato. Aveva il viso sporco di sabbia. Un po’ glieneera entrata in bocca, la sputò. S’avvicinava, le braccia e le gambe lar-ghe, la testa ritirata fra le spalle, il viso dagli occhi strabici torvo. No-ra gongolava, per nulla preoccupata. All’improvviso Vito le fu ad-dosso, afferrandola alla vita, sollevandola da terra. Nello sforzo, daicalzoni tesi sul sedere uscirono due, tre brevi deflagrazioni provo-cando le risa degli spettatori e di Nora che dibattendosi agitava inaria le lunghe gambe strette nei jeans, finché Vito, perso l’equilibrio,cadde giù rovinosamente, lui sotto e lei sopra. I due corpi si aggrovi-gliarono furiosamente nella sabbia, si fermarono ansimanti. Vito eracon le spalle sulla sabbia, Nora gli sedeva sopra a cavalcioni.

Nora cantava vittoria mentre Vito correva via a nascondersi die-tro i capanni. Era la più brava. C’era nessuno fra quei goffi coetaneiche osasse misurarsi con lei nella lotta?

Si fece sotto Elio, già vinto in partenza, tanto sembrava in sogge-zione davanti a quel corpo agile di fanciulla serrato nei jeans e nellamaglietta azzurra un poco stinta. Le andò incontro a brevi passetti ten-tando, come aveva fatto Vito, di afferrarla alla vita. Lei non glienedette il tempo, allungò il braccio destro e passandoglielo sopra la spal-la, lo girò intorno al collo, stringendolo. Una classica cravatta. Pri-gioniero, barcollante, Elio non restò in piedi che pochi secondi. Unostrattone e crollò giù con Nora sopra, arreso.

Nora si rialzò piano, scuotendosi di dosso la sabbia, paga della pro-

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pria superiorità che nessun altro avrebbe osato insidiare, tranne for-se lo sconosciuto, il milanese, responsabile di quella zuffa. Così di-verso dagli altri con quegli occhi grigi e duri sotto il ciuffo biondo,così zitto; così pericoloso.

Quello non era uno sciocco, come i suoi compagni, accecati dallaloro convinzione di essere, come maschi, più forti di lei, una femmi-na. La osservava, aspettandola, con gli occhi fissi e stretti. Girandoleintorno era andato con le spalle al mare, di fianco al globo rosso delsole, vicino all’orizzonte.

Non avrebbe mai immaginato che fosse tanto rapido. L’aveva af-ferrata alla vita, stringendola così forte da toglierle il fiato, piegando-la all’indietro. Girò gli occhi sperduti sopra la testa dell’aggressore chele si piantava sul petto. Vide il visuccio sgomento di Ninetto. Si di-batté, fece forza sulle gambe resistendo alla stretta, al peso che le gra-vava addosso piegandola piano piano all’indietro. Chiuse gli occhi ecadde, di schianto, lei sotto, lui sopra. Inutilmente agitò a lungo legambe per toglierselo di dosso, prima freneticamente, poi semprepiù piano.

Non sentiva più il peso sul petto, né la stretta delle braccia. Teme-va di riaprire gli occhi. L’altro s’era alzato, se ne andava. Si levò inpiedi, piano, anche lei. Vide il milanese già lontano, verso la linea deicapanni.

Il sole era andato sotto; i compagni, tutti via. Erano rimasti i piùpiccoli che a turno le venivano sotto per lottare. Lei li spintonava, di-stratta. E quelli si lasciavano cadere sulla sabbia, come fagotti, soddi-sfatti.

Si fece sotto anche Nino. Era così atterrito, commosso, che non eracapace di levare le braccia. S’era tolto gli occhiali che aveva conse-gnato a una rossina seduta lì accanto. A occhi chiusi avanzò trovan-dosi davanti il vuoto, annaspando fra le risa degli spettatori perchéNora l’aveva evitato facendosi di lato. Le andò ancora incontro per af-ferrare, una seconda volta, l’aria.

Con un leggero sgambetto quasi involontario Nora lo mandò boc-coni nella sabbia. Nino si rialzò, ma non era infuriato. Ricadde, sirialzò, ricadde. Nora gli sedette accanto. Lo prese alla nuca, e due,tre volte, piano, gli sollevò la testa e gli batté il viso sulla sabbia. Co-

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me si fa coi gattini per fargli odorare dove hanno fatto pipì. Anchelui era come un gattino cieco, felice d’imparare. Poi Nora gli dette unapatta affettuosa e lo aiutò a rialzarsi.

Ninetto se ne andò via confuso. La rossina che teneva i suoi oc-chiali gli corse dietro per restituirglieli. Lui se li rimise con le manisporche di sabbia, continuando a correre verso i capanni. Quando fuabbastanza lontano scoppiò in singhiozzi. Piangeva; non per l’umi-liazione, o per il male provato. Quello era ben poca cosa. Nora era sta-ta così buona con lui e così cara. Piangeva perché l’indomani lui e lamamma sarebbero partiti, e lui era sicuro che Nora non avrebbe maipiù voluto rivederlo, perché innamorata del ragazzo che l’aveva bat-tuta alla lotta, il milanese, mentre lui l’amava, più del milanese, più diogni altra persona al mondo.

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quellapiccola
Timbro