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Rapporto su buone prassi nello sviluppo di molecole formative per mlearning. Guida per docenti e formatori. Progetto Leonardo da Vinci ʺMolecoleʺ n. I/05/B/F/PP154063 Capofila: ITGS Pascal Reggio Emilia Italy Learning Object & Mobile Computing Amedea Barani Marco Incerti Zambelli Enzo Zecchi Istituto Blaise Pascal, Reggio Emilia Abstract Si valuta il possibile ’impatto dei Learning Object (LO) e del Mobile Computing in ambito educazionale. Si affronta il problema secondo due prospettive. La prima consiste nel considerare i LO come un prodotto la cui realizzazione è affidata ai ragazzi. Si entra così nel filone dell’apprendimento costruzionista e l’efficacia dell’integrazione delle tecnologie nella didattica è garantita dal loro utilizzo nell’ottica “not to learn from but to learn with”. Per concretizzare efficacemente questo approccio è necessario che i docenti imparino a gestire una nuova forma di didattica. Ed è questo il focus della prima parte del nostro lavoro. Nella seconda parte si analizza la prospettiva di utilizzare i LO come oggetti già costruiti e come risorse per favorire un apprendimento significativo. Per questo, analizzati alcuni dei criteri che i LO devono soddisfare per essere ritenuti tali, si descrivono i probabili LO del futuro secondo il punto di vista di Fletcher (2006) e cioè i LO implementati a forma di conversazione. Il sistema e l’alunno converseranno tramite il linguaggio naturale, sulla base di domande e risposte aperte, e il sistema sarà in grado di adattarsi alle richieste e di generarsi di conseguenza. Una conseguenza possibile sarà quella di una nuova forma di scuola dove non saranno previste le sequenze programmate, i test espliciti e forse anche le lezioni. Ed il ruolo del docente sarà quello fondamentale di risorsa e guida all’interno del rinnovato ambiente di apprendimento.

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Rapporto su buone prassi nello sviluppo di molecole formative per m‐learning. 

Guida per docenti e formatori. 

Progetto Leonardo da Vinci ʺMolecoleʺ n. I/05/B/F/PP‐154063 

Capofila: ITGS Pascal   Reggio Emilia   Italy 

 Learning Object & Mobile Computing   Amedea Barani Marco Incerti Zambelli Enzo Zecchi Istituto Blaise Pascal, Reggio Emilia 

Abstract

Si  valuta  il  possibile  ’impatto  dei  Learning Object  (LO)  e  del Mobile  Computing  in ambito educazionale. Si affronta  il problema secondo due prospettive. La prima consiste nel considerare i LO come un prodotto la cui realizzazione è affidata ai ragazzi. Si entra così  nel  filone  dell’apprendimento  costruzionista  e  l’efficacia  dell’integrazione  delle tecnologie nella didattica è garantita dal loro utilizzo nell’ottica “not to learn from but to learn with”. Per concretizzare  efficacemente questo approccio è necessario che  i docenti imparino a gestire una nuova forma di didattica. Ed è questo il focus della prima parte del nostro  lavoro. Nella  seconda  parte  si  analizza  la  prospettiva  di  utilizzare  i  LO  come oggetti  già  costruiti  e  come  risorse  per  favorire  un    apprendimento  significativo.  Per questo, analizzati alcuni dei criteri che i LO devono soddisfare per essere ritenuti tali, si descrivono i probabili LO del futuro secondo il punto di vista di Fletcher (2006) e cioè i LO implementati a forma di conversazione. Il sistema e l’alunno  converseranno tramite il linguaggio naturale, sulla base di domande e risposte aperte, e il sistema sarà in grado di  adattarsi alle richieste e di generarsi di conseguenza. Una conseguenza possibile sarà quella    di  una  nuova  forma  di  scuola  dove  non  saranno  previste  le  sequenze programmate,  i  test espliciti e  forse anche  le  lezioni. Ed  il ruolo del docente sarà quello fondamentale di risorsa e guida all’interno del rinnovato ambiente di apprendimento.  

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1. Il problema dell'integrazione delle tecnologie nella didattica.

Sono trascorsi più o meno 5000 anni dall’introduzione delle prime forme di  scrittura e  circa 500 anni dalla  scoperta della  stampa. Da allora  l’uomo, pur avendo  fatto progressi enormi nell’inventare strumenti per estendere  le proprie abilità  fisiche,  quasi  prolungamenti  dei  propri  arti,  nulla  o  quasi  ha  fatto  per potenziare  le  proprie  abilità  mentali.  Il  libro  è  rimasto  l’unico  vero prolungamento  della  mente  e  le  biblioteche  i  luoghi  che  hanno  permesso  il tramandarsi della cultura.  

Finalmente,  negli  ultimi  50  anni,  si  è  prodotta  quella  che  crediamo  si dimostrerà  una  rivoluzione  epocale:  l’introduzione  e  la  successiva  crescita esponenziale delle tecnologie per l’informazione e la comunicazione. Queste sono destinate  a  segnare  profondamente  il  campo  degli  strumenti  per  la mente.  Il computer infatti permette l’esecuzione velocissima di calcoli anche complessi e la gestione  di  enormi  quantità  di  informazioni,  interagisce  con  l’uomo  e,  negli ultimi modelli, ha acquisito “doti multimediali” tali da renderlo “user friendly” Le reti annullano le distanze, e permettono di disporre di informazioni sempre ed ovunque. Il tutto pare avere le carte in regola per proporsi anche come strumento fondamentale per  insegnare/apprendere. Ebbene, questo non è così scontato. Si pensi alla  lunga  teoria di  insuccessi  riguardante  l’introduzione delle  tecnologie nella  didattica  (Cuban,  1986). A  partire  da  Edison  che  nel  1913  abbozza  una sfortunata  previsione  che  più  o  meno  recita  così:  ”I  libri  diverranno  presto obsoleti nelle scuole. Gli studenti apprenderanno tramite i film.” (Edison 1913)  . Per  finire  con  le  grandi  speranze prima  e  le delusioni poi per  i  sistemi  autori Plato e Ticcit, che pareva dovessero rivoluzionare il modo di fare didattica e che invece si sono dimostrati meno efficaci di un insegnante tradizionale, nonostante gli  enormi  investimenti  fatti.  (Cognition  and Technology Group  at Vanderbilt, 1996).  Potremmo  procedere  con  altri  esempi  ma  crediamo  che  questi  siano sufficienti a significare un clima.  

Le  tecnologie  della  comunicazione  e  dell’informazione  sono  avanzate parecchio  dai  tempi  di  Plato,  tuttavia  crediamo  che  l’idea  di  creare  lezioni  al computer  che  in  qualche  modo  possano  sostituire  l’insegnante  nell’opera  di trasmissione della  conoscenza  sia  un’idea  perdente. L’insegnante  ha  a  proprio favore la capacità/possibilità di interagire con la classe, di cogliere gli umori della scolaresca, di adattarsi alla situazione, di creare empatia, di vivere  la comunità antropologica del gruppo classe e tutto questo lo pone in una posizione di grande vantaggio rispetto al computer.  

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Già  ci  abbiamo  provato  parecchie  volte,  e  senza  grandi  risultati,  ad inserire  supporti multimediali  in  classe:  quelli  che  fino  a  qualche  anno  fa  si chiamavano  audiovisivi.  Vero  è  che  i  nuovi  strumenti  multimediali  hanno caratteristiche molto più allettanti: una per tutte la possibilità di essere interattivi. Però in ultima analisi di sostituire il docente nei suoi gesti fondamentali si tratta, cioè nell’atto di insegnare, di spiegare, di interagire con l’alunno e nonostante gli enormi progressi fatti sul fronte tecnologico, la lotta appare ancora impari.  

Diverso  è  in  tutte  quelle  situazioni  in  cui  non  possiamo  disporre  di docenti o comunque quando il costo di questi è troppo elevato: in questo caso le tecnologie diventano competitive. E’ emblematico il training aziendale. Anche in questo caso  tuttavia, nonostante  i progressi  fatti rispetto ai supporti audiovisivi classici, la strada non è senza difficoltà. Un cammino in salita insomma.  

E per meglio comprendere questo passaggio uno sguardo ai gesti, ai riti che accompagnano la lezione tipo di un docente: quella lezione cui tutti abbiamo assistito e che fa parte del nostro DNA. Il docente entra in classe, compila un paio di  registri,  verifica  lo  svolgimento  dei  compiti,  interroga,  spiega  ed  dà  la consegna per la prossima lezione. E così ancora con qualche variazione sul tema. Ma  la  liturgia è ben codificata. Codificata al punto che  l’insegnante è sostenuto, protetto, facilitato da questo insieme di riti: una rete contro l’imprevisto. Anzi di imprevisto  non  c’è  proprio  nulla  o  quasi.  E  neppure  il  tempo,  lo  spazio  e  la necessità di inserire altro. Il tutto scandito, ritmato, programmato in sequenze di moduli,  unità  didattiche  e  lezioni. Al  punto  da  rendere  inopportuna  qualsiasi ingerenza. Ed  il computer,  in questo quadro, appare un’inutile ed  ingombrante sovrastruttura: entra  in scuola ma non  in classe.  In scuola per  l’organizzazione, per l’amministrazione, per i laboratori disciplinari; non per la didattica.  

Non  la  scarsa  competenza  del  docente,  dunque,  causa  della  mancata integrazione delle tecnologie con la didattica ma la strategia impiegata. Il docente apprende una tecnologia se sa che gli può servire. E’ sempre così. Chi si mette a studiare un software se sa di non doverlo usare? Le tecnologie, poi, sono sempre più semplici da usare e  le opportunità per apprenderle ormai si moltiplicano. Il punto vero è che anche un docente esperto le utilizza per scrivere, per tenere in ordine  il  proprio  registro,  per  archiviare  informazioni,  per  fare  ricerche  su internet, per comunicare …, ma non le utilizza per insegnare.  

E  allora?  Possiamo  rinunciare  alla  speranza  che  le  tecnologie  possano entrare  in  classe  come  strumento  per  insegnare  meglio,  per  rendere l’apprendimento  più  significativo,  “meaningful”,  che  il  computer  possa estendere, potenziare le abilità intellettuali dell’uomo in quasi tutte le professioni 

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e  nulla  possa  fare  per  quella  che,  delle  professioni  intellettuali,  è  la  più emblematica: l’insegnamento?  

1.1  La soluzione al problema è di natura pedagogica.  

Una  soluzione  al  problema,  al  dilemma  crediamo  la  si  possa  trovare capovolgendo  i  termini  del  contendere. Non  come  inserire  le  tecnologie  nella didattica,  non  come  migliorare  le  tecnologie,  non  come  avere  docenti  più tecnologici. Non è questo  il punto. Certo anche questo. Ma  il problema vero da risolvere  è  quello  di  intervenire  sulla  didattica,  sulle  strategie  pedagogiche. Cambiando  il  paradigma metodologico,  l’ambiente  di  apprendimento  nel  suo complesso, allora le tecnologie possono diventare una necessità, una conditio sine qua non diventa impossibile esercitare correttamente il mestiere dell’insegnante. E questo  lo  si  provoca  quando  alla  prospettiva  di  una  didattica  trasmissiva  si sostituisce quella di una didattica costruttivista in cui il computer non viene più visto  come  lo  strumento  da  cui  apprendere ma  lo  strumento  con  cui  apprendere.  E quando  tutto  questo  lo  si  implementa  tramite  una  didattica  per  problemi  e progetti,  quando  l’obiettivo  è  quello  di  affrontare  casi  autentici,  complessi, quando il lavoro è di gruppo, quando il linguaggio non è più solo quello scritto sequenziale, quando  s’ha bisogno di accedere alle  informazioni anche  in modo random,  quando  la  grammatica  diventa  quella  degli  ipermedia,  quando  gli schemi cognitivi che soggiacciono sono reticolari, allora il computer diventa una necessità, allora è il docente a richiederlo e il problema della formazione permane ma passa  in secondo piano:  in qualche modo si risolve. Non è più un problema integrare le tecnologie nella didattica e come integrarle. Si integrano perché non se ne può fare a meno. Il resto viene da solo. 

Molti  invece  sono  i  problemi  da  risolvere  di  natura  pedagogica:  per  il docente diventano di natura quasi genetica,  ed  il  sovvertimento dell’approccio porta con sé una miriade di conseguenze che si ergono a barriera. Il crollo di una liturgia  ricca,  consolidata e  rigidamente deterministica,  il passaggio al dominio del  probabile  in  cui  l’entropia  la  fa  da  padrona  e  in  cui  i  riti,  a  moderare l’entropia,  ancora  sono  carenti;  tutto  questo diventa  sconvolgente. E  in  questo ambiente,  auspicato ma  temuto,  il  primo  grande  ostacolo:  il  contenuto,  vero signore e padrone dell’impianto pedagogico cognitivista, deve lasciare il posto al metodo per  la  costruzione della  conoscenza. E  lui,  il docente, deve abdicare al ruolo  di  dominus  indiscusso  del  sapere  e  accettare  quello  di  risorsa  di  un ambiente in cui il centro, il protagonista diventa lo studente. 

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1.2  Le tecnologie: cavallo di Troia verso la prevalenza del metodo. 

Ma  se  i  contenuti  devono  abdicare  ai metodi  e  se  il  cammino  appare arduo  e  addirittura  impossibile,  un  aiuto  imprevisto  ce  lo  forniscono  le tecnologie. E  il ragionamento più o meno è questo: a fronte del  loro dilagare  in quasi  tutti  i  settori  dell’agire  umano,  in  nome  di  una  sorta  di  globalizzazione delle attività, in un mondo dove i vasi diventano sempre più comunicanti, prima o  poi  le  tecnologie  entreranno  a  pieno  titolo  nell’education  e  questo  processo, pieno di  insuccessi ma  inarrestabile, avverrà  imponendo  i change metodologici  teoricamente auspicati ma praticamente  inattuati. Insomma una sorta di cavallo di Troia verso la prevalenza del metodo. 

E, anche se in ultima analisi saranno soprattutto gli interessi economici a catalizzare  il  tutto, crediamo che  le  tecnologie abbiano  in  sé quelle potenzialità che  favoriranno  il  loro  progressivo  inserimento  in  ambito  formativo. L’interattività, la disponibilità sempre ed ovunque (anytime and anywhere) oltre a tutte  le  possibilità messe  a  disposizione  dalla  multimedialità,  sono  i  principali punti di forza che le caratterizzano e che più le differenziano da qualunque altro strumento per la mente in nostro possesso. 

2 Learning Object e Mobile Computing: tecnologie particolari

Fra le innovazioni tecnologiche che maggiormente andranno ad impattare con  le  strategie  di  apprendimento  una  particolare  attenzione  va  attribuita    ai Learning  Object  (LO)  e  al Mobile  Computing.  Il Mobile  Computing,  cioè  la possibilità di poter disporre ovunque di un computer (o qualcosa di simile) e di poter  essere  sempre  collegati  agli  altri  tramite  Internet  (o  qualcosa  di  simile), grazie all’incedere delle tecnologie wireless è un dato di fatto: le prossime azioni saranno di potenziamento e consolidamento. Più articolato il discorso va fatto in riferimento ai LO.  Anche se molto è stato scritto e anche se molti sono i modi in cui possono essere descritti, che cosa siano effettivamente  i LO è difficile dirlo: non esiste una definizione precisa ed univoca. Ci pare in proposito estremamente efficace  quella  di  Fairweather  (2006)  quando  afferma  che quella  dei LO  è  una tecnologia alla ricerca di fondamenti teorici.  

In  questa  definizione,  complessivamente  efficace,  ci  pare  riduttivo  il termine  tecnologia.  L’opinione  che  dei  LO  ci  siamo  fatti  è  senza  dubbio  di qualcosa culturalmente più ampio. Si pensi solo ai campi dello scibile umano che vengono  toccati:  l’intelligenza  artificiale,  l’instructional  technology,  lo  studio delle  interazioni  uomo  macchina,  l’architettura  dellʹinformazione,  la 

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progettazione e l’organizzazione di database, i sistemi di tutoraggio intelligenti… per  citarne  alcuni. Crediamo  che  ci  siano  le  condizioni  per  tentare  di  definire quello dei LO un grande capitolo della Scienza dell’ Instructional Design se non una  Scienza  in  sé.  E  come  tale  diventa  terreno  per  sperimentare  nuove rappresentazioni della  conoscenza, ontologie,  logiche e  strategie di descrizione, semantiche computazionali e molti altri aspetti dell’informazione. Continuando nell’analisi della definizione di Fairweather,  indubbiamente,  la caratteristica che più rende conto dello stato dell’arte della scienza dei LO è quella di essere alla ricerca  di  fondamenti  teorici.  Questo  testimonia  il  tentativo  di  definire  un oggetto,  il LO appunto,  che ancora non  esiste ma  che  sta  cercando di venire a galla, emergere, costruirsi, definirsi. 

E  proprio  perché  ancora  in  embrione   molte  sono  le  sue  possibilità  di materializzarsi,  consolidarsi.  Un  primo  approccio,  di  immediato  successo  per favorire  in  modo  significativo  la  costruzione  della  conoscenza,  consiste  nel considerare  il LO non già come oggetto costruito, pronto da usare, per  favorire lʹapprendimento  di  settori  di  contenuto, ma  come  oggetto  da  far  costruire  ai ragazzi.  Ovviamente  si  tratterà  di  semplici  Learning  Object,  forse  anche  non dotati dei requisiti minimi per essere considerati tali, probabilmente difficilmente spendibili nella  formazione,  comunque  finalizzati  a promuovere  il processo di costruzione  della  conoscenza  di  quanti  si  cimentano  nella  loro  realizzazione, implementazione.  

Tratteremo  i LO secondo questa prospettiva nella prima parte di questo lavoro,  mentre,  nella  seconda,  analizzeremo  i  LO  nell’ottica  di  oggetti    già realizzati  e pronti a favorire apprendimenti. In particolare ci riferiremo a quella che dei LO ci pare l’implementazione più futuribile ma più affascinante e cioè la loro ʺmaterializzazioneʺ sotto forma di conversazione.  

3. Costruire Learning Object per costruire la conoscenza.

La  base  del  ragionamento  è  la  seguente:  gli  studenti  imparano molto  di  più  quando progettano, costruiscono e valutano LO, o qualcosa di simile, rispetto a quando  tentano  di  apprendere  da LO  già  realizzati. Almeno  allo  stato  attuale dell’arte.  Insomma  la  costruzione  di  LO  diventa  un  processo  che  stimola  nei ragazzi la crescita profonda di abilità di problem solving e non solo. Ed il primo problema  da  risolvere  è  quello  di modellizzare  le  informazioni  che  con  i  LO debbono  rappresentare.  Insomma  quelle  stesse  informazioni  che  avrebbero dovuto  imparare  le  debbono  strutturare  in  modo  tale  da  essere  apprese 

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facilmente da altri. Ed è chiaro che per fare questo si sentono spronati a livelli di approfondimento inesplorati, sconosciuti, in una didattica trasmissiva.    Detto  altrimenti  questo  equivale  ad  aderire  ad  un  pensiero  di  stampo costruttivista/costruzionista (Papert, 1980), ad attualizzarlo tramite una didattica per  problemi  e  progetti  e  a  realizzarlo  concretamente  trasformando  lo  spazio classe  in un adeguato ambiente di apprendimento. E  il modello di ambiente di apprendimento da noi adottato è quello a matrice costruttivista (Constructivistic Learning  Environment,  CLE)  proposto  da  Jonassen  (1999).  Il  focus  del  nostro approccio  diventano  dunque  i  problemi  e  i  progetti,  collocati  in  quello  che Jonassen,  nella  sua  rappresentazione  originale  di  ambiente  di  apprendimento, chiama lo spazio problemi e progetti (Jonassen, Peck, Wilson, 1999). E sono loro a determinare le attività che gli studenti dovranno svolgere.  Ma quali problemi e progetti, dunque?  I  progetti  possono  essere  specifici  di  ogni  ambito  disciplinare.  C’è  però  una categoria di problemi/progetti su cui vogliamo soffermarci, perché rappresentano uno  snodo  importante  per  una  didattica  per  problemi/progetti. Mi  riferisco  ai progetti di  e‐learning,  cioè alla auspicata  realizzazione di LO. Sono una nostra idea “fissa”, ma rappresentano la risposta alla domanda ricorrente   

…professore ha ragione, così come lei ce l’ha presentata la didattica per problemi progetti  rappresenta  indubbiamente  un  interessante  e  stimolante  approccio pedagogico; ma  io che  insegno  filosofia, oppure  italiano, oppure storia etc. quali progetti posso proporre ai miei studenti?  

e la risposta  

…per ogni disciplina c’è sempre una categoria di progetti che può trasformarsi in un interessante momento di apprendimento autentico: i progetti di e‐learning. Si tratta  sostanzialmente  di  chiedere  ai  ragazzi  di  realizzare  dei  prodotti multimediali  con  i quali  insegnare ai  loro  coetanei gli  stessi  contenuti  che  loro debbono apprendere. Delle sorte di Learning Object, anche se di questi, così come intesi in letteratura, sono solo lontani parenti. 

E  la  cosa è  fattibile oggi nelle  scuole di ogni ordine e grado data  la  semplicità delle  tecnologie necessarie  allo  scopo. Non  c’è bisogno di  insegnare  ai  ragazzi “Power  Point”,  basta  farglielo  usare.  Ovviamente,  i  più  esperti  possono cimentarsi nella realizzazione di prodotti sofisticati con l’utilizzo di tecnologie di 

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punta: Dreamweaver, Flash, Authorware per  limitarci alla  suite dei prodotti di Macromedia. E ci si può spingere oltre. Ma il punto non è questo.  

Non è importante il prodotto che verrà creato. E’ importante il processo di creazione. Del  resto,  come già  ci  siamo  espressi,  è nostra opinione  che  anche  i prodotti migliori di e‐learning difficilmente possono  rivelarsi efficaci  strumenti di  formazione. Almeno allo stato attuale dell’arte. Chi veramente  trae beneficio dalla  loro  realizzazione  sono  gli  stessi  autori.  Innumerevoli  i  benefici:  un approfondimento significativo di settori di contenuto, l’acquisizione della cultura del progetto,  l’abitudine  al  lavoro  cooperativo,  l’apprendimento di nuovi  tools cognitivi  e  collaborativi,  la  fluency  con  l’utilizzo  di  alcune  tecnologie  senza spingerci  oltre  a  considerare  i  più  sottili  risvolti del  favorire  la  costruzione di forme di pensiero reticolari e concorrenti (Spiro, 2006).  

I progetti di e‐learning  sono abbastanza  semplici da  impostare e gestire anche  per  l’insegnante,  il  quale  non  dovrà  sentirsi  a  disagio  per  la  non conoscenza  di  tecnologie  particolari.  La  cosa  va  dichiarata  subito  e  vanno responsabilizzati i ragazzi che decidono di intraprendere percorsi che prevedono l’utilizzo di  tali  tecnologie: dovranno  farsene carico  in  toto. Al più  l’insegnante cercherà di metterli in contatto con qualche esperto o li stimolerà a cercare aiuti tramite  forum o chat. Abbiamo verificato che questo  funziona. Per  il  resto sarà cura del docente guidare i ragazzi ad affrontare lo sviluppo utilizzando strategie consolidate,  e  prevedere  momenti  di  presentazione  collettiva  dei  risultati raggiunti  anche  per  condividere  con  l’intero  gruppo  classe  le  problematiche emergenti. Se si instaura il clima giusto, solitamente in classe si creano dei gruppi trasversali  di  specialisti  di  diverse  problematiche  che  poi  diventano  punti  di riferimento per l’intera classe. Grande attenzione va prestata nel momento della formazione dei gruppi di  lavoro: è  importante che  in ogni gruppo  sia presente almeno  un  elemento  con  predisposizione  alle  tecnologie  ed  agli  aspetti applicativi  ed  uno  con  maggiore  propensione  agli  aspetti  progettuali  e  di approfondimento  tematico. Un  ruolo  fondamentale,  come  vedremo meglio  nel corso  di  questo  lavoro,  lo  giocano  corretti momenti  di  valutazione  autentica. Questi  infatti,  tra  l’altro,  forniscono  due  contributi  fondamentali:  il  primo,  un adeguato  feedback all’alunno e  i dati al docente per valutare,  l’altro è quello di dimostrarsi efficace strumento per il controllo della classe.  

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3.1 Il vero problema: educare i docenti ad un ambiente CLE.

La  chiave  di  volta  per  il  successo  consiste  nel  dotare  gli  insegnanti  degli strumenti opportuni per affrontare questo  tipo di approccio. E questo  lo si può ottenere  solo  facendoglieli  costruire.  Non  si  tratta  quindi  di  formarli  con  un corso:  sarebbe  una  contraddizione  in  termini.  Formare  ad  un  approccio costruttivista utilizzando metodi  trasmissivi. Per questo vanno  ipotizzati anche per  gli  insegnanti  momenti  in  cui  vivono  la  stessa  realtà  di  ambiente  di apprendimento a matrice costruttivista simile a quello in cui si vuole trasformare la classe. E se per gli allievi i problemi progetti auspicati sono quelli di costruire LO  o  simili,  quali  sono  i  problemi  e  progetti  che  debbono  affrontare  gli insegnanti? La nostra proposta è quella di metterli nelle condizioni di costruirsi gli  strumenti,  la  cassetta  degli  attrezzi,  per  la  gestione  di  una  didattica costruttivista. In particolare mi riferisco principalmente agli strumenti per gestire progetti,  a  quelli  per  gestire  gruppi  di  lavoro,  per  valutare  i  ragazzi mentre compiono prestazioni autentiche e finalmente metterli in condizione di utilizzare semplici tecnologie. Vediamoli in dettaglio.   

3.1.1 Impostare e gestire progetti

Analisi  e  riflessioni.  Gli  insegnanti  potranno  applicare  efficacemente  una didattica per problemi e progetti, costruzione di LO o altro, solo quando saranno in  possesso  di  un metodo  adeguato.  Ed  è  questo  il  primo  problema  da  porsi. Sarebbe paradossale, in una didattica per problemi‐progetti, non farlo.  

Eppure, anche  se può  sembrare assurdo,  è questo  che accade. Ci  siamo sempre  chiesto  il  perché  e  non  siamo  mai  riusciti  a  darci  una  risposta convincente. Eppure sono in molti che si preoccupano di gestire le dinamiche di gruppo, si badi bene abbiamo detto si preoccupano di gestire e non di provare delle  tecniche  collaudate, molti  si preoccupano di documentare  il processo  che sottende  lo  svolgimento di  un progetto, molti  hanno  la  giusta  angoscia per  la valutazione  ma  nessuno,  o  pochi,  se  non  opportunamente  stimolati,  sono  a chiedersi  un  metodo  per  sviluppare  i  progetti.  Anzi  c’è  chi,  quando  glielo proponiamo,  si  scandalizza  quasi    volessimo  tarpare  le  ali  della  creatività, volessimo  imbrigliare  con  metodi  l’estro  o  la  fantasia  dei  docenti  e/o  degli studenti.  Per  decenni  si  sono  sentiti  proporre  e  imporre  una  didattica  per contenuti  e nel momento  in  cui gli  si propone un metodo, questo diventa uno strano  modello  vincolante.  E’  come  se  qualcuno  ti  dicesse  che  siccome  il 

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modeling  proviene  soprattutto dall’ambito  scientifico,  allora  il  ragionamento  è solo scientifico e quindi da cassare in ambito psicopedagico.  

Vorremmo chiarire, intanto, che anche in ambito scientifico si sono avute le  importanti  e  necessarie  crisi.  Il  determinismo  newtoniano  è  entrato  in  crisi quando si è andati a studiare  i moti delle particelle a dimensione atomica. E da allora, su scala atomica, è il concetto di probabilità ad imperare. Con Heisemberg che ci ha dimostrato che è impossibile conoscere esattamente la posizione di una particella  se non a  scapito della  conoscenza della  sua velocità,  infatti  tanto più esattamente siamo in grado di determinare la posizione tanto più indeterminata sarà  la misura  della  sua  velocità  e  viceversa.  E’  traumatico,  eppure  è  così.  E Einstein a non crederci, a cercare di dimostrare per  tutta  la vita che questa era una fandonia, eppure sembra proprio che Heinsemberg avesse ragione. Dunque un mondo  in  cui  a  prevalere  è  la  probabililità  e  non  la  certezza,  “the  end  of certainty”  (Prigogine),  eppure  non  abbiamo  rinunciato  a  capirci  qualcosa,  a creare  un modello  che  in  qualche modo  inquadrasse  il  fenomeno,  lo  potesse controllare,  permettesse di  fare previsioni  e  così  Schroedeinger  ha proposto  la sua equazione che sostituisce quella di Newton nella scala atomica: e non ci dà mai certezze ma ci dà probabilità. E a noi questo piace. Ci convince. E ci piace pure che l’uomo abbia usato la sua intelligenza per inquadrare la natura a questi livelli e, dopo quasi un secolo, poter dire che c’è riuscito. Perché  l’equazione di Schroedinger  funziona  come  tutto  l’impianto  quantistico.  E  ci  facciamo  le risonanze magnetiche,  le  tomografie  assiali  computerizzate,  studiamo  il DNA, esploriamo  lo  spazio,  facciamo  fare  a  dei  robot  degli  interventi  chirurgici, dialoghiamo  a  migliaia  di  chilometri  con  oggetti  piccoli,  senza  fili  e  tutto  a basarsi  su  Schroedinger  e  comunque  sui  risultati  della meccanica  quantistica. Non abbiamo rifiutato  la probabilità: abbiamo  imparato ad accettarla come  idea di base e su questo abbiamo impostato i nostri ragionamenti, le nostre visioni del mondo,  le  nostre  prospettive.  E  dunque  a  non  condannare  questa maledetta voglia di  capire  il mondo, di  inquadrarlo  in modelli  che permettono di andare oltre,  di  penetrare  nel  profondo,  di  sostenere  e  superare  anche  il  proprio pensiero. E dunque ad auspicare, promuovere, stimolare un modello per gestire i progetti. Non a bandirlo, esorcizzarlo, scongiurarlo come vorrebbe certo pensiero povero  in  nome  di  una  evanescente,  improbabile  ma  incolpevole  creatività. Piuttosto a ritenerlo proficuo, vantaggioso, paradossalmente imprescindibile.  Il passaggio è generalmente sottostimato.  

Anche  in quelle realtà scolastiche  in cui si dà spazio all’area di progetto, lo  si  fa  in  modo  empirico  concentrandosi  sul  risultato  finale,  sul  prodotto, 

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piuttosto che sul processo. Un approccio didattico troppo destrutturato e lontano dai  riti della didattica  tradizionale perchè gli  insegnanti, soli, senza un metodo adeguato, senza una rete protettiva, riescano a gestire con successo la complessità d’aula emergente. Molti i contributi a questa sensazione di ingovernabilità. Uno per tutti l’aspetto forse più destrutturante da un punto di vista metodologico e al contempo più ricco da un punto di vista educazionale: introdurre nell’esperienza di classe la gestione di eventi vicini al reale quotidiano, non caratterizzati quindi dal  rigido determinismo  e dalla  univocità della  soluzione  propri dei  problemi scolastici  e  che  equivale  dunque  a  mettere  a  sistema  quella  componente  di incertezza,  di  scelta  a  rischio,  di  valutazione  in  termini  probabilistici  che caratterizza ogni decisione quotidiana.  

A fronte di questi elementi antinomici, ricchezza educazionale e sconcerto metodologico, un percorso da scoprire, una proposta per comporre. E il percorso più scontato quello già esplorato.  In pratica. La cosa per noi più naturale e saggia: partire dalla  teoria del project management  così  com’è  applicata  con  successo nel mondo dell’industria  e della ricerca  e  vedere  se  e  come,  ossia  con  quali  elaborazioni,  questa  possa  essere trasferita in classe. Evitare dunque di affrontare, anche a scuola, un progetto con la  logica  del  buon  senso  e/o  del  “fai  da  te”  e  appoggiarsi,  con  le  opportune tarature  e  le  necessarie  integrazioni,  al  collaudato  impianto  del  project management.  Le  indicazioni,  il  modello,  che  proponiamo  sono  il  distillato  di sperimentazioni condotte in più classi e per più anni a partire dal 1995: anno in 

cui abbiamo presentato l’idea1. Auspichiamo che i docenti si impegnino in un progetto che permetta loro 

di  simulare  quello  che  sarà  il  compito  dei  loro  allievi  in  classe:  diventeranno esperti  in  quello  in  cui  si  cimenteranno  i  loro  allievi.  In  un’ottica  di apprendimento  costruttivista  questo  passaggio  è  fondamentale:  è  solo sviluppando  integralmente  un  progetto  che  un  insegnante  potrà  prendere coscienza  delle  difficoltà  da  superare,  dei  nodi  da  sciogliere,  delle  risorse necessarie,  dei  tempi,  della  flessibilità  richiesta,  della  necessità  di  ricercare soluzioni per approssimazioni successive e non  tramite approcci deterministici, dell’utilità  di  lavorare  in  gruppo  e  ancora  dell’importanza  di  possedere un’attrezzatura  cognitiva  altra  rispetto  a  quello  richiesto  in  una  didattica trasmissiva.  

1 Coordinando il gruppo di lavoro “Per fare progetti: un’ipotesi”. Seminario “Autonomia di Ricerca e Sviluppo: I modelli organizzativi”, Ministero della Pubblica Istruzione, Bellaria (1995).

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In un lavoro di prossima pubblicazione “Progettare a scuola: dalle parole ai fatti” (Zecchi) si declinano,  fase per  fase,  le  linee  fondamentali della  teoria del project management  mettendo  in  luce,  parallelamente,  soprattutto  gli  adattamenti necessari al loro naturale trasferimento nel mondo della scuola.  Nello svolgimento delle attività, proprie dei vari momenti del ciclo di vita di un progetto,  si  evidenzia  chiaramente  come  non  siano  vincenti  soltanto  le  formae mentis  che  tradizionalmente  hanno  successo  in  ambito  scolastico  e  come  ci  sia ampio  spazio  anche per  quei  tipi di  intelligenza  che  solitamente non vengono debitamente  riconosciuti.  Contributo,  questo,  importante  anche  come  efficace strumento di orientamento.  

3.1.2 Formare e gestire gruppi

Analisi e riflessioni. E’ ormai una moda parlare di apprendimento cooperativo e centinaia  sono  gli  eventi  formativi per  i docenti  a  questo  finalizzati. Lo  stesso Fortic2  prevede  al  suo  interno  una  parte  importante  di  apprendimento cooperativo  in rete ma non solo. E da molte parti provengono richieste di corsi sul  tema.  Eppure,  se  si  esamina  la  realtà  scuola,  generalmente  ad  un  tale fermento non corrisponde un adeguato transfer in classe.  

Il nostro pensiero è che sia sbagliato il punto di partenza. Vogliamo dire che stiamo confondendo il fine con il mezzo. L’apprendimento cooperativo in sé non rappresenta nulla se non lo si considera all’interno di una proposta didattica complessiva: per noi di  tipo  costruttivista. A  chi mai può  servire  far  lavorare  i ragazzi in modo cooperativo se lo schema pedagogico è quello di una didattica di tipo trasmissivo? Non sta in piedi. Non c’è la necessità e lo spazio per farlo. I riti sono già codificati per un apprendimento individuale e il tentativo di sostituirlo con  uno  di  gruppo  è  fallimentare  in  partenza  se  non  si  cambia  l’approccio complessivo. Se la prospettiva è quella comportamentista o cognitivista di prima maniera,  a  che  pro  un  apprendimento  cooperativo?  I  docenti  che  vengono semplicemente  formati  alle  tecniche  del  cooperative  learning  imparano  degli interessanti strumenti psicopedagogici ma questi, se non sono situati all’interno di una  realtà  che di essi necessita,  rimangono un  interessante pezzo di  cultura psicopedagogica. Si arriva all’assurdo, e a me è capitato di arrivarci, di assistere ad  eventi  formativi  in  cui  in  modo  trasmissivo  vengono  fornite  nozioni  di didattica  cooperativa.  E  questo  naturalmente  basandosi  su  un  apprendimento individuale.  Al  più  qualche  docente  zelante  ti  fa  praticare  degli  interessanti 

2 Fortic è un progetto di formazione del corpo docente sulle tecnologie del MPI.

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schemi di relazioni: interviste a due a due, simulazioni di ruoli ed altro ancora. E a queste tecniche riconosciamo senza dubbio un approccio di rottura rispetto agli schemi tradizionali; ma quando si torna in classe ci si chiede perché utilizzare tali metodiche e dopo alcuni primi timidi tentativi il tutto ritorna generalmente come prima e quello rimane solo un piacevole e strano ricordo.  

Il nostro punto di partenza dunque a tenere conto di questo. I docenti che andremo a formare probabilmente già hanno ricevuto, forse solo a livello teorico, e se a  livello pratico quasi certamente  in modo non contestualizzato, nozioni di cooperative learning. Il nostro approccio sarà quello di fornirgliele all’interno di un  contesto  in  cui  appariranno  loro  indispensabili.  E  infatti,  già  durante  gli incontri formativi, i docenti si dovranno porre il problema di come suddividersi in  gruppi.  E  questa  problematica  sarà  la  stessa  che  ogni  insegnante, successivamente, dovrà affrontare  in classe con  i propri alunni. Ed è da qui che partiamo.  Senza  dubbio  il  primo  problema  da  affrontare  sarà  quello  della composizione dei gruppi e del numero di alunni per ogni gruppo. Si tratta di una tematica  ampiamente  trattata  nell’ambito  dei  metodi  di  apprendimento collaborativo (Slavin, 1994). L’insegnante può decidere di formare gruppi a caso o  cercando  di  mettere  assieme  gli  alunni  secondo  le  affinità  o  secondo  le competenze.  L’insegnante  può  anche  lasciare  che  siano  gli  studenti  stessi  a scegliere  come  formare  i  gruppi.  Il  passaggio,  in  ogni  caso,  è  delicato  è  va affrontato con rigore. Le ricerche sull’apprendimento collaborativo  indicano che è possibile  favorire  la  formazione di gruppi  sia omogenei  sia disomogenei per conoscenze/competenze  disciplinari,  ma  sono  soprattutto  i  raggruppamenti disomogenei che producono i maggiori benefici sul piano pedagogico (Johnson e Johnson, 1996).  Interessanti anche  le osservazioni di Hooper e Hannafin  (1991) che sostengono che, in un ambiente disomogeneo, sono soprattutto gli alunni più deboli  a  trarre  maggiore  vantaggio.  Per  quanto  riguarda  il  numero  dei partecipanti sempre  Johnson e  Johnson suggeriscono di  favorire  i numeri bassi, addirittura  arrivano  a proporre gruppi di due persone  (diadi)  come  ideali per molti  progetti  cooperativi,  ipotizzando  numeri  maggiori  al  crescere  della complessità dei progetti. Ci  troviamo perfettamente d’accordo  sul vantaggio di una  composizione  eterogenea  (Kagan  &  Kagan,  1994),  mentre  ci  pare  meriti un’ulteriore riflessione il problema del numero ideale dei componenti un gruppo. Riteniamo,  infatti, che  la dimensione dei gruppi vada calibrata anche sulla base dell’esperienza degli elementi a lavorare in gruppo: il numero può aumentare col maturare della loro esperienza. In altre parole la capacità di lavorare in gruppo e il numero dei componenti sono grandezze direttamente proporzionali. Infatti, gli 

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alunni  abituati  a  lavorare  in  gruppo  mettono  a  punto  delle  tecniche  che permettono  loro di suddividere  in modo  razionale  i compiti. L’interazione che, inizialmente,  quando  non  è  opportunamente  controllata,  rischia  di  essere  un elemento di disturbo  (interferenza), se sapientemente governata, si  trasforma  in un elemento fortemente sinergico (cooperazione). In alcuni casi, particolarmente significativi,  sono  gli  stessi  componenti  che  arrivano  ad  individuare,  per ciascuno, un  ruolo e addirittura si spingono a determinare chi deve  ricoprire  il ruolo  del  leader.  Il  tutto,  vissuto  come  una,  altrimenti  improbabile,  necessità d’ordine e non  come una antipatica  imposizione.  In queste  condizioni è  chiaro come  il numero sufficientemente elevato, attorno ai quattro ca., da elemento di probabile  confusione possa  trasformarsi  in un elemento di  ricchezza: maggiore scambio  di  opinioni,  retroterra  culturali  più  articolati,  spettro  attitudinale  più ampio,  ventaglio di  competenze  più  consistente.  Sono  ancora Kagan & Kagan (1994, p.131) a confortarci in questa nostra visione.  

Sulla  base  di  queste  considerazioni,  durante  il  primo  periodo  di sperimentazione,  generalmente  lasciamo  che  siano  gli  studenti  stessi  ad individuare  la composizione e  la dimensione dei gruppi. Quello che poi risulta sorprendente e gratificante è  il fatto che sono gli studenti stessi a riorganizzarsi secondo  le  direttrici:  disomogeneità  di  competenze/conoscenze  e  numero  di partecipanti  più  elevato  con  attribuzione  precisa  dei  ruoli.  L’aspetto preoccupante, di  cui  comunque prendiamo atto e per  cui  ipotizziamo  strategie risolutive,  riguarda  alcuni  degli  studenti meno motivati  e/o  con  problemi  di disagio  per  i  quali  queste  semplici  strategie  non  sono  sufficienti  e  per  i  quali tuttavia abbiamo riscontrato improbabili miglioramenti nel momento in cui muta 

il clima nel gruppo classe. Già  in altra circostanza (3), abbiamo trovato un felice connubio  con  gli  psicologi  dell’AUSL,  sia  in  questi  casi  di  disagio,  sia  nella gestione ordinaria dei lavori di gruppo.  In    pratica.  Parafrasando  Johnson  &  Johnson  (1994),  possiamo  evidenziare almeno due ragioni fondamentali per cui un  insegnante deve padroneggiare gli elementi  essenziali  del  cooperative  learning  e  sarà  a  partire  da  queste  che potremo ipotizzare attività concrete di formazione. In primo luogo, gli insegnanti debbono adattare, contestualizzare, situare,  le tecniche del cooperative  learning alla  loro specifica realtà, ai  loro bisogni didattici, ai  loro curricula, ai  loro studenti. E questo  lo potranno fare solo nella misura in cui ne avranno una padronanza significativa e  3 Sapienti e Contenti. Corso di formazione sulla didattica per problemi e progetti e sul cooperative learning, diretto dalla Prof.ssa Stefania Mancin c/o ist. Pascal di Reggio Emilia, 2006, con interventi del Dott. Ghiretti e del Prof.Enzo Zecchi.

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profonda;  profonda  al  punto  da  poter  interpretare  il  ruolo  di  ingegneri  della formazione in grado di riprogettare le loro lezioni, i loro curricula, i loro percorsi, insomma, in termini di apprendimento cooperativo. E questo potrà avvenire solo se queste  tecniche  le avranno praticate  in prima persona.  In  secondo  luogo, gli insegnanti  devono  essere  in  grado  di  individuare  le  situazioni  problematiche  nei  vari gruppi ed intervenire in modo efficace.  

3.1.3 Per costruire un clima di comunità.

La connotazione antropologica del gruppo classe, così come ha da essere  in un ambito  di  didattica  trasmissiva,  è  rappresentata  da  un  insieme  di  individui scollegati tra di loro, spesso in competizione non collaborativa, che hanno come riferimento unico il docente, vero dominus indiscusso della didattica. E altro non può  essere,  visto  che  la direzione dell’informazione  è  quella da uno  a molti  e visto che il feedback e la valutazione sono appannaggio unico del docente.  L’introduzione di una  forma di didattica  altra non  è però più  compatibile  con questa  antropologia  del  gruppo  classe,  e  perché  la  didattica  per  problemi  e progetti  possa  funzionare davvero  è  fondamentale  l’instaurarsi di  un  clima di comunità di apprendimento. Non c’è una tattica unica per favorire e controllare i lavori  di  gruppo,  c’è  però  la  necessità  di  passare  dal  clima  classico  in  cui l’interazione  prevalente  è  tra  l’insegnante  ed  il  gruppo  classe  ad  un  clima  di comunità  vero  in  cui  l’interazione  è,  a  diversi  livelli,  tra  tutti  i  soggetti.  E  in questo clima di comunità, caratterizzato da momenti di condivisione e momenti di  contesa, dalla presa di  coscienza di molteplici punti di  vista,  la  conoscenza diventa più vera, più significativa e cresce la propensione ad affrontare situazioni problematiche  destrutturate.  Da  qui,  il  passo  verso  l’acquisizione  di  buone capacità  di  transfer:  di  trasferire  cioè  le  conoscenze  e  le  capacità  di  problem solving  anche  ad  altri  ambiti.  In  ultima  analisi  il  fatto  che  all’interno dell’ambiente di apprendimento si sviluppi un forte feeling di comunità, diventa una condizione imprescindibile per un apprendimento più autentico.  

3.1.4 Per costruire gli strumenti per la valutazione.

Analisi  e  riflessioni. Uno dei passaggi  obbligati,  sine  qua  non, per  la  riuscita della sperimentazione consiste nel tranquillizzare l’insegnante circa gli strumenti per  la  valutazione.  Un  docente  avverte  fin  dalle  prime  battute  il  pericolo  di imbarcarsi  in una nuova avventura se non sa di avere sotto controllo  il  timone. 

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Ed  il  timone, piaccia o non piaccia, uno ha  l’impressione di  tenerlo saldamente impugnato se sa di poter valutare gli allievi  in modo efficace e sufficientemente oggettivo. Una didattica in cui saltano gli schemi tradizionali, in cui il  lavoro di gruppo prevale su quello individuale, in cui le prove classiche non hanno senso alcuno, necessita di utensili per la valutazione appropriati. In gergo si dice che in un ambiente di apprendimento autentico bisogna poter disporre di strumenti di valutazione  autentica.  Ed  è  da  qui  che  bisogna  partire.  Bisogna  mostrare  al docente  che esiste  la possibilità di  sostituire  le metodiche  tradizionali  con altre che  gli diano  la possibilità di  valutare  l’allievo  nell’atto di  erogare prestazioni simili  a  quelle  che  probabilmente  dovrà  fornire  nel mondo  del  lavoro  o  della ricerca.  Bisogna  altresì  mostrare  al  docente  come  tali  metodiche,  se  gestite opportunamente,  possano  arrivare  ad  un  grado  di  oggettività  elevato  e comunque ampiamente sufficiente per controllare, guidare e soddisfare il gruppo classe.  

Risulta difficile  a volte  far decollare una buona  attività di didattica per problemi e progetti, ma se questa decolla, se si crea il clima corretto, se gli alunni si  lasciano  coinvolgere,  allora  può  nascere  un’entropia  da  ansia  di  costruzione, inusuale  per  gli  ambienti  di  apprendimento  tradizionali:  quelli  per  intenderci costruiti  attorno  ad  una  tipologia  di  didattica  trasmissiva.  In  questi  infatti  la liturgia  di  riti  consolidati  serve  come  antidoto,  generalmente  efficace, all’insorgere di qualunque evento caotico. Ed è proprio questa probabile entropia a spaventare maggiormente l’insegnante, e di fronte ad essa, senza gli strumenti di valutazione opportuni, si sente generalmente  indifeso. E questo è  il contesto reale di cui dobbiamo prendere atto e l’inserimento di una didattica per problemi e  progetti  sarà  efficace  solo  se  i  docenti  saranno  in  grado  di  costruirsi  un pacchetto di  strumenti di  valutazione  autentica,  solo  se  avranno  anche  questo strumento nella loro cassetta degli attrezzi. E averli realmente non significa aver sentito raccontare cosa sono, come si costruiscono e come si usano, ma significa averli costruiti ed utilizzati in situazioni reali.  

Nella  nostra  esperienza,  più  di  un  insegnante  si  è  dimostrato  convinto dell’efficacia di un approccio costruttivista, ma ai primi tentativi si è spaventato per  la  sensazione  di  ingovernabilità.  Ovviamente  a  questo  ha  fatto  eccezione l’insegnante carismatico, leader naturale, per il quale il problema non si è posto. Infatti, grazie alla propria personale capacità di controllo, la situazione non gli è sfuggita  di mano  e  il  dominio  della  classe  ha  continuato  ad  esercitarlo  senza bisogno di metodi coercitivi. Se  il problema dell’entropia  in questo caso è stato superato, o meglio neppure  si  è presentato  in  tutta  la  sua  interezza,  è  rimasto 

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tuttavia  il  problema  della  valutazione.  Infatti,  al  termine  dell’esperienza  la valutazione,  fatta  con  le metodiche  tradizionali,  è  apparsa  discrasica,  un  fatto arbitrario, del tutto soggettivo e poco o nulla ha convinto ragazzi e famiglie. Sia l’entropia,  sia  la  inadeguatezza  delle  metodiche  di  valutazione  tradizionali vengono  superate quando  il docente  fa proprie  le metodiche della valutazione autentica e le utilizza in classe. Ma come?  In pratica. E per raggiungerlo  la strada è chiara: nello spazio problemi‐progetti dell’ambiente  di  apprendimento  dedicato  ai  docenti,  uno  dei  progetti fondamentali  da  far  sviluppare  sarà  quello  della  costruzione  di  un  pacchetto completo di rubric, che sono lo strumento d’elezione per la valutazione autentica. E  il  pacchetto  che  andiamo  a  proporre  di  sviluppare  è  frutto  di  numerose sperimentazioni condotte e nelle quali  lo abbiamo  trovato efficace non solo nel moderare qualsiasi evento entropico ma soprattutto nel soddisfare le esigenze di valutazione complessive degli alunni impegnati nelle attività di progetto. Per una descrizione completa dello strumento rubric si veda Zecchi (2004). Ci limiteremo in questo  saggio a descrivere  le  tre  tipologie di  rubric necessarie e  sufficienti a formare il tool per la valutazione.  

Una  prima  tipologia  di  rubric  serve  per  valutare  gli  alunni  durante  le presentazioni dei risultati raggiunti. Le presentazioni sono momenti in cui i vari gruppi  relazionano  al  resto  della  classe  lo  stato  dell’arte  del  loro  progetto:  il punto  dove  sono  arrivati  nella  realizzazione  del  loro  LO.  Le  presentazioni avvengono per gruppo ma ogni componente del gruppo è tenuto a presentare il proprio contributo. Ed a valutare i singoli alunni tramite la compilazione di una rubric specifica saranno sia  il docente sia  i compagni di classe. Tale  rubric sarà composta di due parti: una finalizzata a valutare gli aspetti del lavoro di gruppo nel  loro complesso ed una  finalizzata a valutare  il contributo dei singoli. Se ad esempio abbiamo un gruppo classe di 24 allievi, suddiviso in ca 6 sottogruppi di progetto, la cosa più o meno funzionerà così. Quando un gruppo relaziona, ogni altro gruppo, assieme al docente, valuta compilando una rubric. In questo modo al  termine  della  presentazione  di  un  gruppo  saranno  disponibili  le  5  rubric compilate  dai  gruppi  e  quella  compilata  dal  docente  che  permetteranno  una valutazione sia del lavoro di gruppo sia del contributo dei singoli allievi. Il limite di questa valutazione, ed in parte anche uno dei suoi grandi punti di forza, è che tende  a mettere  in  evidenza  le  capacità  di  comunicazione  dei  singoli  ragazzi, mentre non sempre evidenzia a dovere il contributo di quegli studenti piuttosto timidi  e  schivi  che  esprimono  il  meglio  di  sé  nelle  attività  di  laboratorio  e comunque nel lavoro metodico e sistematico ma che poi non sempre riescono ad 

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esprimerlo in una presentazione. Più volte questo problema ci è stato segnalato e finalmente ci pare di aver trovato una soluzione accettabile tramite la costruzione di  una  rubric  mirata  a  valutare  l’apporto  dei  singoli  durante  le  attività  di laboratorio:  rubric  che  viene  compilata  dall’insegnante  per  i  singoli  allievi. Questa attività di compilazione richiede un’attenta osservazione e non sempre è possibile  quando  l’insegnante  è  solo  e  non  è  aiutato  da  un  assistente  o  da facilitatori.  A  completare  il  pacchetto  di  rubriche:  quella  finalizzata  alla valutazione del  prodotto  finale  a  prescindere dai  singoli.  Si  valuta  il  prodotto finale  così  com’è,  come  si  valuterebbe  qualunque  prodotto  multimediale.  A compilare  la  rubrica  saranno  a  turno  tutti  i  gruppi  ed  il  risultato  finale  sarà un’indicazione indiretta per la valutazione dei singoli che potrà essere utilizzata dal docente nel modo da lui ritenuto più opportuno.  

Disponiamo ovviamente di un pacchetto  completo di  rubriche pronto  e sperimentato.  Tuttavia  il  progetto  che  i  docenti  coinvolti  nell’ambiente  di apprendimento  dovranno  sviluppare  consiste  proprio  nella  costruzione  delle “loro”  rubriche.  Sarà  un  buon  esercizio  finale  il  confronto  con  il  pacchetto  di rubriche già consolidato, anche per un suo eventuale miglioramento.  

4. Usare Learning Objects per favorire la crescita della conoscenza.

E’  la  visione  “altra” di  come  i LO  andranno  ad  impattare  con  il mondo della formazione.  Non  più  artefatti  da  costruire,  veri  catalizzatori  di  processi  di apprendimento significativo ed efficace,   ma potenziali risorse da utilizzare per apprendere. Già  ci  siamo  lungamente  espressi  sugli  insuccessi,  e dunque  sulle nostre  perplessità,  circa  l’utilizzo  delle  tecnologie  secondo  questa  prospettiva. Prese  tutte  le  precauzioni  del  caso,  chiarito  che  il  problema  è  soprattutto  di natura  pedagogica,  crediamo  che  i  LO  abbiano  in  se  tutte  le  potenzialità  per integrarsi  efficacemente nei processi di  apprendimento  anche  come  risorsa per veicolare contenuti e paradossalmente per permettere il recupero di metodi. 

I paradossi: un aiuto imprevisto. 

Viviamo un tempo di paradossi. E sono anche loro a sostenerci in questo improbabile  angolo  cognitivo,  di  tendenza  e  proiettato  nel  futuro,  fatto  di Learning Object e Tecnologie Mobili. E, dopo essere  stati  travolti e disorientati dalle lucide analisi sociologiche di Bauman, sono anche loro, i paradossi, a farci 

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sperare in percorsi di vita un po’ meno labili, un po’ meno liquidi: quasi plastici, come a noi piace definirli.  

Come  quel  felice  paradosso  che  ci  ha  spinto  a  dare  credito  alla  rubric, strumento  d’eccellenza  della  valutazione  autentica,  all’apparenza  poco  più  di una scheda “usata”. Eppure, a bene considerarne l’architettura, questo strumento di valutazione, segnatamente costruttivista, ha senso e  forza perché  in  fondo si avvale del contributo comportamentista: esprimere  i  livelli di prestazione attesi in termini comportamentali, non concetti generici, ma comportamenti osservabili, quasi misurabili. Ed è a partire da qui  che  la  rubric  si  fa mezzo di valutazione vera, autentica. (Zecchi, 2004) 

E  paradossale  è  anche  e  soprattutto  il  recupero  che  le  tecnologie  ci spingono  a  fare  in  ambito metodologico.  Ed  è  proprio  questo  il  paradossale recupero metodologico  che  i LO  ci permettono:  riconsiderare  il  concetto  quasi dimenticato  che  l’apprendimento  vero  nasce  da  conversazioni.  Che  per migliorare  qualità  ed  efficacia  del  nostro  impianto  educazionale  è  da  lì  che dobbiamo partire. E’ un nostro grande sogno quello di poter avere qualcuno cui rivolgerci nel momento del bisogno. E che lui riesca ad adattarsi al nostro livello di  conoscenza  e  che da  lì parta,  che  risponda  ai nostri dubbi,  che  ci dia  in un determinato  momento  proprio  quello  di  cui  in  quel  momento  sentiamo  il bisogno.  Come  quando  non  sappiamo  fare  una  cosa,  quando  abbiamo  un problema  da  risolvere,  anche  non  complesso  ma  articolato,  spesso  di  natura banalmente  procedurale.  Come  quando  dobbiamo  imparare  ad  usare  qualche nuova  funzionalità  di  uno  strumento:  come  programmare  l’accensione  e  lo spegnimento di un  forno, come  inserire  la  funzione percussione  in un  trapano, come utilizzare i modelli in word, come inserirci in una nuova rete wireless etc. Ebbene  la prima  tentazione che ci viene è quella di consultare qualcuno che  lo sappia già  fare. Questo ci evita  la  lettura di  lunghe descrizioni procedurali  che spesso non si sintonizzano con il nostro know‐how: o troppo noiose e dettagliate o  troppo  sintetiche  e  che  danno  per  scontato  passaggi  non  conosciuti.  E  le tecnologie ancora una volta ad aiutarci. Fino a poco tempo fa, nel momento del bisogno,  il  libretto  di  istruzioni  non  lo  si  trovava  mai,  ora  con  Internet  è generalmente possibile scaricarlo dalla rete. Ma se questo vale per conversazioni finalizzate a soluzioni procedurali, a maggior ragione quando abbiamo bisogno di  individuare  problemi  all’interno  di  situazioni  problematiche,  quando l’indeterminazione prevale, quando la soluzione non è certa ma probabile allora poter conversare, chiedere, dialogare diventa determinante. 

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Già Socrate e Platone ci proponevano il dialogo come forma di eccellenza dell’educazione. Sono loro ora, i Learning Object, che ci permettono di ripescare la strategia didattica della conversazione proprio perché loro, i futuri oggetti per lʹapprendimento, saranno probabilmente progettati a forma di conversazione, di dialogo (J.D.Fletcher, 2006, Istitute for Defense Analyses, USA). Saranno in grado di adeguersi al contesto, agli interessi dello studente, al suo livello di conoscenze pregresse e ai  suoi  stili  cognitivi. Saranno  insomma adattivi e  saranno  specifici per i bisogni e  le necessità dell’allievo in quel particolare momento. Si situeranno insomma nella sua zona di sviluppo prossimale. Ma ancora di più: faranno uso di tutte  le  potenzialità  della  multimedialità  e  individueranno  le  strategie  di apprendimento più appropriate al  livello dello  studente e non  si  limiteranno a favorire apprendimenti specifici ma si spingeranno fino a sostenere momenti di problem  solving  e  di  project  management.  Ed  è  proprio  l’idea  di  tecnologie disponibili sempre ed ovunque e capaci di interagire conversando in linguaggio naturale  che  rende possibile  il  recupero della  conversazione,  come  strategia di apprendimento/formazione.  Non  è  certo  pensabile  la  realizzazione  di conversazioni  con  classi  di  trenta  alunni.  E  certamente,  per  farlo  con  i  LO,  le tecnologie necessarie sono a portata di mano. Laddove siamo più carenti sono le strategie didattiche, le capacità di problem solving, e per svilupparle pienamente, sempre secondo le previsioni di Fletcher, ci vorranno almeno altri vent’anni. Ed è Fletcher  stesso  a  mettere  in  conto  l’effetto  Cristoforo  Colombo:  credeva  di arrivare alle Indie  ed ha scoperto l’America. Quello dei LO come conversazione non  dunque  come  certezza ma  come  probabile  realizzazione  ed  in  ogni  caso come significativa tendenza. 

Tecnologie adattive 

La capacità del computer di essere adattivo è stato il cavallo di battaglia del CAI (Computer Assisted Instruction) a partire dagli anno ‘60, ossia l’idea di riuscire a implementare  concretamente,  tramite  computer,  l’individualizzazione dell’intervento formativo. Sono gli anni dei software drill and practice, degli albori del courseware, dei primi sistemi autore  implementati anche con  linguaggi di alto livello,  tipo PILOT e SuperPILOT. Sono gli anni  in cui molti docenti, entusiasti delle  possibilità  offerte  dal  computer,  si  scoprono  sviluppatori  di  software didattico.   Ma veloci arrivano anche gli anni  in cui  i docenti si accorgono delle enormi quantità di tempo richieste per produrre risultati mediocri. E la figura del docente  sviluppatore  presto  va  in  soffitta, ma  non  l’idea  del  computer  come macchina  che  si può adattare allo  studente,  che può  creare percorsi  su misura: 

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questa  percezione  rimane.  Del  resto  qualche  buon  esempio  di  courseware utilizzato soprattutto per momenti di recupero o per dare fluency alla risoluzione di certi esercizi lo si era ottenuto. 

Troppo  importante  la  potenzialità  propria  del  computer  di  essere interattivo,  e quindi  adattivo,  e  troppo  forte  la  richiesta di  individualizzazione dal mondo dell’education  . Già Carroll (1970), in un interessante e citato studio, affermava che  in una classe K‐8,  l’equivalente di una nostra  terza media, molti erano  gli  studenti  in  grado di  apprendere  in  un  giorno  quello  che  ad  altri  ne occorrevano cinque. Ed in classe quello che spesso accade è che il docente riesce a seguire un certo gruppo di ragazzi e deve trascurarne altri: mentre un gruppo si sente  seguito  l’altro  si  annoia  e perde  tempo.  Sono  stati  realizzati molti  studi, soprattutto  in ambienti militari,   per quantificare questo  tempo perso e quanto quindi  si  potrebbe  risparmiare  in  termini  di  costi  con  l’introduzione  del computer  adattivo  (Orlansky &  String,  1977;  Fletcher,  1977; Kulik,  1994).  E  in modo molto approssimativo le stime arrivano ad indicare un 30% di risparmio. E Fletcher  (2006)  si  spinge  oltre  fornendo  le  cifre  assolute  riferite  ad un numero limitato  di  corsi  residenziali  del  DoD  (Department  of  Defense)  e  i  risparmi ipotizzati  sono  dell’ordine  di  diversi  miliardi  di  dollari.  Non  siamo  certo galvanizzati da queste  cifre:  certo  ci  spingono  a  ritenere  che  la partita non  sia accantonata e che gli studi in merito non rallenteranno facilmente.  

A  tutto  questo  va  aggiunto  che,  con  il  crescere  delle  potenzialità  delle tecnologie,  cresce  anche  la  probabilità  che  queste  vengano  efficacemente utilizzate  nell’Education.  I  passaggi  dalla  Computer‐Based  Instruction,  alla Computer‐Based  Instruction  con  la  Multimedialità  fino  ai  ITS  (Intelligent Tutoring  Systems)  vanno  senza  dubbio  in  questa  direzione ma molto  ancora rimane da fare. Ed è la strada verso un’adattività di nuova generazione che si sta cercando di raggiungere con i LO. 

Siamo dunque di fronte ad una rivoluzione? 

Parafrasando Fletcher (2006), la vera grande rivoluzione che la tecnologia sarà in grado di produrre, oltre al fatto di metterci a disposizione sempre ed ovunque le informazioni,  cosa  che  in  qualche modo  già  i  libri  ci  permettono,  saranno  le interazioni  tutoriali  in  linguaggio  naturale:  insomma  un  ritorno  alle conversazioni socratiche da cui siamo partiti.   

E  come  sarà  possibile  implementarle  concretamente?  Crediamo  che, finalmente,  si  presenteranno  sotto  forma  di  qualcosa  in  grado  di  generarsi  in tempo  reale e su  richiesta. Ma è chiaro che perché questo possa avvenire, al di 

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sotto dovrà esserci una base da cui partire, delle  fondamenta su cui poggiare e costruirsi. Che cosa, insomma, permetterà l’attualizzazione di questa potenzialità adattiva  e generativa.   Le  informazioni di partenza, molto presumibilmente,  si troveranno  in  Internet  o  in  qualcosa di  analogo; ma  come  saranno  strutturate, organizzate?  E  sempre,  seguendo  la  visione  di  Fletcher,  crediamo  che  queste conversazioni,  in  grado  di  generarsi  just  in  time  e  on  demand,  avranno  come punto  di  partenza  qualche  oggetto  di  un  certo  tipo  ed  archiviato  in  un  certo luogo.  Saranno  insomma  object  oriented. Le  informazioni di  partenza  saranno insomma organizzate sotto forma di oggetti intendendo per oggetto qualcosa che ha una certa collocazione spaziale ben definita, e quindi è reperibile, ed inoltre ha la  importante caratteristica di essere riusabile. Vedremo meglio questo concetto in seguito. Per ora ci accontentiamo insomma di sapere che queste conversazioni “molto  speciali”  sono  capaci  di  generarsi,  hanno  una  base  di  partenza  e  che questa base di partenza è un oggetto riusabile.  

Gli Oggetti per Insegnare ed Apprendere. 

Questa idea dell’apprendimento che si basa su oggetti è stata descritta, in modo molto efficace, come “educational object economy” da Spohrer, Summer e Shum (1998). E quello che più ci avvince  in questa “educational object economy” è  il focus: insomma il vero problema non è tanto quello di creare degli oggetti che in qualche  modo  siano  il  corrispondente  di  materiali  didattici  o  comunque  di materiali che possono essere utilizzati a supporto di performance, quanto quello di  prendere  oggetti  già  esistenti  ed  inserirli  all’interno  di  interazioni “significative, importanti ed efficaci”.  

Rifacendosi  allo  studio  di Gibbons, Nelson  e Richards  (2000)  possiamo capire ancora meglio  il perché di questa scelta (gli oggetti)  . Essi affermano che gli  instructional  objects,  così  come  loro  li  chiamano,  saranno  molto probabilmente  la  tecnologia  vincente  in  quel  lungo  e  sofferto  processo  di integrazione della  tecnologia nella didattica e  lo saranno soprattutto per  le  loro caratteristiche  di  riusabilità,  adattabilità  e  scalabilità. Ma  queste  caratteristiche diventano anche  condizioni necessarie e  sufficienti per poter essere  il punto di partenza, le fondamenta, delle auspicate interazioni. Detto in termini più tecnici, questi  instructional objects “forniranno  le primitive” per  la  creazione  in  tempo reale e on demand delle auspicate interazioni.    

E anche se molte potranno essere le forme, i media, con cui questi oggetti si potranno “materializzare”, sempre rifacendoci a Gibbons et al., tutti dovranno avere  come  denominatore  comune  quello  di  rispondere  ai  seguenti  criteri: 

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accessibilità, portabilità, durata e  riusabilità. Saranno accessibili nella misura  in cui  sarà  facile  trovarli. E  qui  il  grande problema, ma direi  ben  affrontato  e  in parte risolto, di attribuire ad ogni oggetto degli opportuni metadati: essere ben etichettati per essere  facilmente  individuati. Devono essere portabili. E questa è una  caratteristica  molto  importante,  che  conoscono  bene  gli  informatici.  E’ importante che ogni programma, ogni oggetto, possa vivere in diversi ambienti, su  diverse  piattaforme,  con  diversi  Sistemi  Operativi.  E’  una  caratteristica fondamentale per poter essere diffusi e quindi  in un certo senso essere globali. Quella della durata è una garanzia altrettanto  importante e che va un po’ nella stessa  direzione.  Vogliamo  dire  che  al  mutare  delle  piattaforme,  dei  Sistemi operativi,  degli  ambienti  insomma,  loro  dovranno  continuare  a  funzionare, altrimenti saranno condannati ad un’obsolescenza precoce a prescindere dal loro valore  e  spessore  didattico.  E  finalmente  la  riusabilità.  Siamo  di  fronte  ad  un concetto  ancora molto  caro  agli  sviluppatori  di  software:  creare  qualcosa  che possa essere facilmente riutilizzato in contesti diversi senza dover intervenire con adattamenti più o meno onerosi.  Insomma una volta che abbiamo costruito un oggetto  che  assolve un  certo  compito  o  che  risolve un  certo problema,  ebbene tutte le volte che ci troveremo di fronte a quel compito o a quel problema basterà riusare quell’oggetto. 

Ed è da questi oggetti, così caratterizzati, che si potrà partire per arrivare alle “conversazioni per apprendere” ipotizzate ed auspicate. 

 E perché tutto questo possa accadere? 

 E  a  rendere  possibile  questo  scenario,  fatto  di  learning  objects  e  mobile computing,  saranno  soprattutto  i  progressi  lungo  quattro  grandi  direttrici:  i futuri sviluppi nel campo   nell’elettronica,  l’aumento delle possibilità di accesso al  WWW,  una  migliore  definizione  delle  condizioni  per  la  ricusabilità  e  lo sviluppo di Intelligent Tutoring Systems. 

E se per  le prime tre non ci sono dubbi,  la quarta è più delicata e merita ulteriori  approfondimenti.  E  per  prima  cosa,  per  poter  fare  un  confronto significativo, elenchiamo i grandi obiettivi che la Computer Assisted Instruction si  era  prefissata  di  raggiungere  già  a  partire  dagli  anni  ’60  e  vediamo  come questi,  anche  se  particolarmente  significativi,  nulla  abbiamo  a  spartire  con  gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere con gli Intelligent Tutoring Systems. In particolare il courseware CAI avrebbe dovuto essere in grado di: 

• adeguarsi al  ritmo di ogni  studente per permettergi di  raggiungere gli obiettivi prefissati; 

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• adattare sia i contenuti sia le sequenze di apprendimento ai bisogni del singolo studente; 

• adeguare i livelli di difficoltà e  di astrazione degli interventi; • adattarsi  agli  stili di  apprendimento dei  singoli  studenti  (eventi più  o 

meno collaborativi, più testuali o visuali etc.). E’ chiaro che solo alcuni software particolarmente sofisticati sono riusciti 

nel  loro  intento  di  raggiungere  questi  obiettivi, mentre  la maggior  parte  del courseware  prodotto  era  di  basso  livello.  Tuttavia,  anche  se  pochi,  i  successi hanno  dimostrato  che  col  computer  qualcosa  di  nuovo,  soprattutto  nell’ottica dell’individualizzazione dell’intervento formativo, poteva essere fatto.  

Vediamo  ora  come  le  sfide,  che  possiamo  affrontare  oggi,  prevedendo all’interno  del  courseware  ITS  un  uso massiccio  delle  tecniche  di  Intelligenza Artificiale, siano molto più ambiziose e vadano nell’ottica di rendere il computer, o chi per esso, molto più vicino al nostro modo di ragionare: potremo insomma instaurare una sorta di dialogo con gli Intelliget Tutoring Systems. Sarà questo il banco di prova su cui si potranno sperimentare i courseware candidati ad entrare pesantemente  ed  efficacemente  nell’education  e  su  cui  si  potrà  verificare  se veramente,  con  la  loro  introduzione,  ci  troviamo  di  fronte  ad  un  cambio  di paradigma della stessa portata di quello che è  seguito all’introduzione del libro. E questo divario  tra  le attese CAI e quelle  ITS, visto a posteriori,  sarebbe  stato anche logico aspettarselo. Troppo lontana dal procedurale, dal computazionale e dalla  capacità  di memorizzare  la  professione  del  docente. Certo  anche  queste caratteristiche  sono  importanti, ma  in  questo  ambito  professionale  sono  poca cosa.  L’interazione  non  è  con  oggetti meccanici  o  altro,  non  è  con  persone  e basata solo su protocolli: è con studenti nella loro completezza di persone ed è su questo  tipo  di  interazione  che  si  gioca  la  potenzialità  di  qualsiasi  risorsa  ad entrare a pieno  titolo nell’agone  formativo. Ed  è  su questo  che  si  scommetterà l’efficacia  dei  prossimi  sistemi  ed  è  a  partire  da  qui  che  questi  sistemi probabilmente riusciranno ad integrarsi efficacemente con la didattica. 

Fra  le varie potenzialità  che  l’intelligenza artificiale  ci può offrire,  ce ne sono  tre  che  crediamo  andranno  a  caratterizzare  pesantemente  i  futuri  LO  e permetteranno  la  loro  implementazione  sotto  forma  di  conversazione.    In particolare questi sistemi:  

• Permetteranno allo studente di formulare domande e/o risposte aperte e favoriranno  lo  svilupparsi  di  un  dialogo  tra  lo  studente  ed  i  sistemi stessi. 

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• Consentiranno  la generazione  automatica di materiali  e  interazioni  su richiesta.  Non  sarà  quindi  più  necessario  preparare  e  memorizzare anticipatamente  tutti  i  materiali  e  tutte  le  interazioni  di  cui, eventualmente, ci potrà essere bisogno in seguito. 

• Renderanno possibile l’utilizzo del linguaggio naturale come linguaggio d’interazione. Ed  in questa difficile direzione molti sono gli sforzi ed  i progressi  fatti  e  che  si  continuano  a  fare  (Graesser,  Gernsbacher,  & Goldman, 2003) 

Osserviamo finalmente come la caratteristica, propria di questi sistemi, di essere generativi implichi il saper mettere in piedi, su richiesta, interazioni con gli studenti, ma non solo. Infatti non basta saper generare problemi adatti ai bisogni degli  studenti ma bisogna essere  in grado di assisterli,  sostenerli e guidarli nel processo di generare soluzioni, di mettere in piedi adeguate ed efficaci strategie didattiche e soprattutto   di  fornire quel  tipo di  interazioni  indispensabili per  la creazione di un approccio “tutoriale” uno a uno. Obiettivi ambiziosi o utopie? 

Una visione quasi fantastica della Scuola del futuro. 

Concludiamo  con  Fletcher  chiedendoci dove  sarà possibile  arrivare  con queste  possibilità  fantastiche.  In  qualche  modo  possiamo  prevedere  che  la didattica  del  futuro  subirà  cambiamenti  drammatici  e,  tra  quelli  previsti, maggiormente  ci  lasciano  sbigottiti  quelli  che  andranno  ad  intaccare  le fondamenta  della  didattica  così  come  noi  la  conosciamo.  Tre    in  particolare, secondo  Fletcher,  saranno  i  grandi  change  che  verranno  provocati.  In  primo luogo assisteremo alla scomparsa quasi totale della programmazione di sequenze predefinite. In secondo luogo assisteremo al calo dell’utilizzo di tecniche e forme di valutazione  esplicite,  soprattutto dei  test. E da ultimo,  anche quei momenti didattici  che  fanno  parte  del  nostro  DNA  e  che  quotidianamente  ci accompagnano, le lezioni, subiranno un ridimensionamento notevole. 

No  sequenze  predefinite.  Queste  conversazioni  non  avranno  percorsi predefiniti  ma  si  dirigeranno  sulla  base  delle  esigenze  emergenti.  L’idea dell’Instructional  Design  come  processo  con  cui  specificare  anticipatamente sequenze  didattiche  sotto  forma  di  lezioni,  unità  didattiche  e moduli  tenderà all’obsolescenza. 

No test. Molto  interessante anche questo punto di vista secondo  il quale in futuro, per determinare  il raggiungimento di obiettivi di apprendimento e di capacità di problem solving, ci si affiderà molto meno all’utilizzo di test espliciti.  Questi verranno rimpiazzati da valutazioni continue, discrete e riservate, mirate 

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a  sviluppare  un modello  dello  studente  a  partire  dalle  sue  interazioni  con  il sistema.  E  queste  forme  di  valutazione  saranno  a  partire  dal  vocabolario utilizzato dal discente, dal suo uso di informazioni tecniche, dalla sua capacità di astrarre e di correlare/raggruppare concetti, dalla sua capacità di inferire ipotesi e così via. Può darsi che ancora si useranno test espliciti per particolari momenti di valutazione, ma non siamo assolutamente in grado di predire quali. 

No  lezioni. La visione  cognitivista di uno  scibile diviso  in discipline,  a loro  volta  divise  in moduli  e  unità  didattiche…,  unitamente  alla  visione  dei docenti padroni assoluti di questo scibile che ex cattedra lo trasmettono, tramite dotti monologhi, agli studenti soggetti solo  ricettivi, ebbene questa visione, che ha regnato incontrastata per decenni ed ancora stenta a cedere il passo, tenderà a scomparire. Se è corretta la previsione del recupero di momenti conversazionali, è  chiaro  che  le  lezioni,  intese  come  blocchi  monolitici  in  cui  vengono presentati/esposti  concetti  e  idee  per  il  raggiungimento  di  obiettivi  prefissati, tenderanno a cessare di esistere. Rimarranno certamente gli obiettivi come pure la  necessità  di  tenere  traccia  del  percorso  verso  il  loro  conseguimento,  ma certamente  le  modalità  varieranno  continuamente,  proprio  come  gli  obiettivi stessi che  subiranno dinamicamente aggiustamenti e  tarature continue. E qui  il ruolo  del  docente  sarà  determinante.  Da  protagonista  del  processo  educativo passerà a quello di risorsa del rinnovato ambiente di apprendimento e giocherà il ruolo  fondamentale  di  guida  nel  percorso  di  apprendimento  dell’alunno  che altrimenti,  anche  se  efficace  nei  passi  intermedi,  rischierebbe  di  non  essere necessariamente  e  adeguatamente  finalizzato  al  raggiungimento degli  obiettivi stabiliti. 

CONCLUSIONI Abbiamo presentato,  fra  le prospettive  future dell’utilizzo dei Learning Object, quella che più ci avvince e più ci fa credere che così impostati i LO difficilmente si riveleranno un ennesimo fallimento al pari dei molteplici pregressi tentativi di introduzione  delle  tecnologie  nella  didattica.  Tuttavia,  nonostante  gli  enormi progressi  compiuti,  siamo  nel  regno  del  futuribile  e  nell’immediato  futuro difficilmente  ci  confronteremo  con  LO  fatti  a  forma  di  conversazione. Incontreremo invece molti LO fatti di contenuti e poco altro, con efficaci sistemi di  archiviazione  e  di  reperimento.    Non  ci  siamo  però  addentrati  in  questa prospettiva  perché  la  crediamo  sufficientemente  documentata  e  soprattutto perché  crediamo  che  nell’immediato  futuro  avrà  un  modesto  impatto educazionale. Così  concepita  stenterà ad entrare nel quotidiano della didattica, 

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anche se  talora potrà rivelarsi efficace strumento, al pari del  libro,  laddove non potrà  essere  disponibile  un  docente.  Per  il  presente  e  per  l’immediato  futuro abbiamo presentato, nella prima parte di questo lavoro, un possibile ruolo dei LO come strumenti fondamentali per la costruzione della conoscenza. Sono stati cioè prospettati  i LO come possibili prodotti finali di un percorso di costruzione che vede  gli  alunni  impegnati  come  protagonisti  attivi:  una  sorta  di  efficace implementazione di didattica per problemi e progetti in cui i LO rappresentano i prodotti  da  costruire.  E  per  rendere  operativo  ed  efficace  questo  approccio abbiamo  individuato, nella preparazione degli  insegnanti,  il maggior problema da  risolvere.  Abbiamo  quindi  analizzato  e    proposto  una  serie  di  interventi finalizzati  a  dotare  gli  insegnanti  di  quegli  “attrezzi”  di  cui  sono  totalmente sprovvisti e dai quali non si può assolutamente prescindere per la progettazione, implementazione e conduzione di questo approccio metodologico..    

 

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