LE VIE MAESTRE dibattiti, idee, racconti · positivo. Dopo le dimissioni del presidente De Sanctis...

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LE VIE MAESTRE dibattiti, idee, racconti Collana diretta da Giuliano Volpe 8

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LE VIE MAESTREdibattiti, idee, racconti

Collana diretta da Giuliano Volpe 8

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LE VIE MAESTREComitato scientifico

Andrea Augenti, Cinzia Dal Maso, Eva Degl’Innocenti,Patrizia Dragoni, Enrico Giannichedda, Paolo Giulierini,Daniele Manacorda, Marco Milanese, Massimo Montella,

Mariarita Sgarlata, Marco Valenti, Giuliano Volpe, Enrico Zanini

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Giuliano Volpe

IL BENE NOSTROUn impegno

per il patrimonio cUltUrale

Bari 2019

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© 2019 Edipuglia srl, via Dalmazia 22/B - 70127 Bari-S. Spiritotel. 080 5333056-5333057 (fax) - http://www.edipuglia.it - e-mail: [email protected]

Redazione: Valentina NataliCopertina: Paolo Azzella

ISSN 2532-5868ISBN 978-88-7228-884-9

DOI http://dx.doi.org/10.4475/884

Volume pubblicato nell’ambito delle attività del P.R.I.N. 2015(Prot. 2015ZKTLH5) Archeologia al futuro.

Teoria e prass idell’archeologia pubblica per la conoscenza,tutela e valorizzazione,la partecipazione, la coesione sociale

e lo sviluppo sostenibile (coordinatore nazionale Giuliano Volpe) e del P.A.R. del Dipartimento di Studi Umanistici

dell’Università degli Studi di Foggia

Le immagini sono prevalentemente di proprietà dell’Autore, che si dichiara dispo-nibile a regolare eventuali spettanze riguardanti i diritti di riproduzione per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte.

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a Valeria e Alessandroalle loro passioni e al loro impegno

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Ancora sul patrimonio culturale?

Il titolo di questo libro dipende da quello di un bel film recente, tenero e denso di significato, Il bene mio di Pippo Mezzapesa, giovane talentuoso regista pugliese, con un Ser-gio Rubini straordinariamente bravo (in realtà tutti gli attori sono perfetti) 1. Una bella storia, con personaggi ben disegnati e dialoghi ineccepibili, resi in un linguaggio e con espressioni e modi di dire pugliesi finalmente credibili. È anche un film molto ‘archeologico’, non solo perché si svolge tra i resti di un abitato distrutto e abbandonato (quasi uno dei cosiddetti ‘villages désertés’ medievali, o uno dei tanti villaggi abban-donati o in corso di spopolamento delle aree interne del no-stro Paese), mentre i crolli delle case procedono e si formano strati archeologici simili a quelli risalenti a secoli o millenni fa che gli archeologi indagano con lo scavo stratigrafico. Lo è soprattutto per il significato attribuito agli oggetti, ai mu-ri, alla cultura materiale, capaci di conservare traccia delle persone che in quella cittadina hanno vissuto. È una poten-te metafora e un inno alla memoria, al bisogno di ricordare.

Elia è l’ultimo abitante di un paese distrutto dal terremoto. Rifiuta di andar via e non accetta l’anonima casetta A42 che il sindaco (e suo cognato) gli propone. Anche a costo di appa-rire pazzo, non ascolta gli inviti ad abbandonare il paese che gli rivolgono alcune persone che gli vogliono bene. Accoglie con fastidio i turisti (non a caso nel film sono giapponesi o americani armati di macchine fotografiche) attratti dalla cit-tà fantasma che fotografano con curiosa superficialità. Tenta

1  Cfr. il mio Il patrimonio culturale è il “bene nostro”, in Huffington Post, 10.10.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/il-patrimo-nio-culturale-e-il-bene-nostro_a_23555422/?utm_hp_ref=it-blog.

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anche il suicidio quando gli abitanti trasferiti nell’anonima new town in pianura portano via in processione, con tanto di banda, la madonnina della chiesa.

Quando poi il sindaco arriva con la polizia per portarlo via con la forza, lui e i suoi concittadini scoprono una sorta di museo allestito da Elia con centinaia di oggetti amorevol-mente raccolti, restaurati, conservati ed esposti. È una specie di ‘Museo dell’innocenza’ (simile a quello allestito da Orhan Pamuk a Istanbul con gli oggetti della vita quotidiana che ricordano la storia d’amore tra Kemal e la giovane Füsun e, più in generale, la storia della città) 2. In entrambi i casi si tratta, infatti, di musei nati dall’amore per una donna e per una città! È una raccolta di oggetti legati alla vita di tutti gli abitanti di Provvidenza: giocattoli, fotografie, disegni, un paio di occhiali. Ognuno ne trova uno che gli ricorda la casa, gli affetti, l’infanzia, le persone che non ci sono più. E così, grazie a quegli oggetti e a quel museo, la comunità si ritrova. Ritrova il senso di un luogo in cui è stratificata tutta la storia dei singoli e dell’intera comunità.

In tal modo quel ‘museo’ svolge una funzione culturale, civica, educativa. Suscita emozioni, procura curiosità e in-teresse a capire, pone domande, provoca sorrisi, educa. È quello che effettivamente dovrebbero fare tutti i musei, nei quali ognuno dovrebbe sentirsi a casa, ritrovando pezzi del proprio ‘bene’, frammenti della propria storia e della storia degli altri. Ognuno dovrebbe, cioè, capire che quell’oggetto esposto in una vetrina, quel muro conservato in un sito, quel monumento cittadino, quel paesaggio è un bene proprio. E pensare: questo è “il bene mio!”. Anzi: è “il bene nostro!”

Le immagini di quel film, gli stimoli e le riflessioni che mi

2  Rinvio a Volpe 2018a.

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ha suscitato mi hanno convinto che valesse la pena pubblicare un altro libro dedicato al patrimonio culturale 3: un tema che mi ha impegnato molto soprattutto in questi ultimi anni, in relazione al mio ruolo di presidente del Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del MiBACT (ora MiBAC). So-no nel Consiglio superiore dal 2012, in rappresentanza delle Regioni italiane, che mi hanno designato nel 2012 appunto, poi nel 2015 e ancora, recentemente, nel 2018. Ho cominciato tale attività come semplice consigliere al tempo del governo Monti, con il ministro Lorenzo Ornaghi e l’allora presidente del CSBCP, il collega ex rettore Francesco De Sanctis (e con-fesso che quella mia prima esperienza fu alquanto deludente, perché mi sembrava di essere parte di un organismo alquanto inutile, che non decideva quasi nulla e che si limitava ad alcu-ni atti dovuti, in maniera per certi versi notarile). Poi vennero le elezioni del 2013 e si insediò il governo Letta con ministro Massimo Bray, con il quale ebbi un rapporto personale molto positivo. Dopo le dimissioni del presidente De Sanctis tra-scorsero molti mesi senza la nomina del nuovo presidente e l’organo consultivo restò inattivo a lungo. Il 22 febbraio 2014 ci fu un improvviso cambio di governo e divenne ministro Dario Franceschini. Non lo conoscevo personalmente, non l’avevo mai incontrato in vita mia. Mi meravigliò molto, per-tanto, ricevere una sua inattesa telefonata nel mese di marzo

3  Numerosi sono i libri e gli articoli dedicati al patrimonio culturale pubblicati in questi ultimi anni, con visioni diverse e posizioni anche contrapposte; un segno di indubbia vitalità; limitando la selezione solo all’ultimo triennio, si vedano ad esempio: Carandini 2017; Cecchi 2015; Casini 2016; Consiglio, Riitano 2015; Dal Maso 2018; Dubini 2018; Er-bani 2015; Feliciati 2016; Flick 2016; Ingoglia 2018; Manacorda 2018a e 2018b; Montanari 2015; Montanari, Trione 2017; Montella 2016a; Nanni-pieri 2016; Pavolini 2017; Sgarbi, Ainis 2016; Sgarlata 2016; Volpe 2015a e 2016a.

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con la quale mi chiedeva di incontrarlo a casa sua (era con-valescente per un problema di salute). L’incontro fu molto cordiale, discutemmo a lungo del ruolo del Consiglio supe-riore e in generale del Ministero ed ebbi modo di illustrargli alcune mie idee. Mi colpì molto, poi, ricevere una telefonata di Franceschini agli inizi di aprile del 2014 con la quale mi comunicava la sua decisione di designarmi presidente del CSBCP per il periodo finale del mandato, fino a luglio dello stesso anno (con l’unica raccomandazione da parte sua di non svolgere alcuna attività diretta di tipo politico ma esclu-sivamente una funzione di tipo tecnico-scientifico). Dal quel momento è cominciata una fase di intenso impegno, coincisa con la stagione di grandi riforme del Ministero, che mi hanno visto pienamente coinvolto e attivo in prima linea. Dopo un momento di interruzione delle attività del CSBCP, che, però, non ha sospeso il mio impegno personale al Ministero, anche per seguire alcune questioni specifiche – come ad esempio la presidenza di due commissioni, una per valutare la propo-sta di esporre i Bronzi di Riace all’Expo di Milano, l’altra per la redazione di un studio preliminare per il Piano strategico dell’area archeologica centrale di Roma 4 – nel febbraio del 2015 venivo confermato presidente del CSBCP, che finalmen-te si insediava nel mese di giugno dello stesso anno. Nel corso di questi anni ho pubblicato due libri, Patrimonio al futuro con Electa-Mondadori nel 2015 5 e Un patrimonio italiano con Utet nel 2016 6, oltre a numerosi altri articoli e interventi pubblici, nei quali ho espresso le mie posizioni nel campo della politica dei beni culturali. Negli ultimi anni ho, però, avuto anche la possibilità di curare un blog su questi temi per l’Huffington

4  Rinvio alle relazioni pubblicate in Volpe 2015a, 135-176.5  Volpe 2015a. 6  Volpe 2016a.

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Post 7, oltre al mio blog 8, che seguo personalmente da molti anni, ben prima del mio ingresso nel CSBCP. Ho così pen-sato che fosse opportuno (e spero anche utile) raccogliere in un libretto sia alcuni miei interventi più recenti, in parti-colare quelli successivi alla pubblicazione dei due libri, sia quelli editi in siti web che hanno una vita più effimera, sia soprattutto una serie di documenti prodotti nel corso della mia presidenza, tra cui le mozioni, che costituiscono uno degli strumenti principali dell’azione del CSBCP. Tali mo-zioni, infatti, pur essendo ora pubblicate, insieme ad ampi estratti dei verbali e ad altri documenti, sulla pagina web del Consiglio 9, che ho fortemente voluto per garantire più trasparenza, sono generalmente poco note ed è bene che ne resti traccia anche in forma cartacea (in questo resto alquan-to conservatore!). Questo libretto, pertanto, è soprattutto un ‘atto dovuto’ (e profondamente sentito) verso questo importante organo consultivo. In qualche modo un bilan-cio del lavoro svolto.

Ho cercato di interpretare la mia carica in senso ‘mili-tante’ (come avevo voluto vivere anche quella di rettore dell’Università di Foggia, e in generale, come intendo an-che il mestiere di archeologo e di professore). Non solo ho pubblicato articoli e sono intervenuto a numerosi dibattiti, ma ho girato in lungo e in largo il Paese presentando i miei libri con non meno di un centinaio di incontri, per discu-tere di patrimonio culturale e delle riforme, ascoltando le

7  https://www.huffingtonpost.it/.8  http://www.giulianovolpe.it/it/1/Home/.9  http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-Mi-

BAC/MenuPrincipale/Ministero/Consiglio-Superiore/index.html.

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critiche, cercando di spiegare, senza mai rifiutare il confron-to. Insomma, come si suol dire, ci ho messo la faccia. L’ho considerato un dovere etico. Se, infatti, un limite c’è stato in questa stagione di riforme, questo è stato legato a un certo eccessivo dirigismo, all’idea di dover imporre i cambiamenti dall’alto, con uno scarso confronto e con una quasi inesisten-te capacità di ascolto. È mancata, insomma, anche in questo ambito, l’azione politico-culturale sul campo, nei territori, a diretto contatto con gli operatori del settore, i professionisti dei beni culturali, i funzionari, oltre che con i cittadini. Mi sono speso personalmente – forse anche esagerando, consi-derata la natura del mio incarico – soprattutto perché ho vo-luto interpretare il ruolo del CSBCP come un ponte non solo tra il centro e la periferia del Ministero, ma anche e soprat-tutto tra il Ministero (tradizionalmente chiuso in sé stesso e eccessivamente autoreferenziale) e la società esterna. Ecco il senso delle sedute pubbliche del CSBCP in luoghi diversi dal Collegio Romano, i vari sopralluoghi, l’apertura di un sito web, i comunicati, gli articoli, i libri, le conferenze e i dibat-titi. Questo modo di interpretare il ruolo di presidente del CSBCP ha avuto certamente esiti positivi, ma anche risvolti negativi, soprattutto sotto il profilo personale, anche a causa di un’indubbia sovraesposizione: sono, infatti, diventato uno dei bersagli preferiti da parte dei critici delle riforme, colle-zionando articoli velenosi, commenti cattivi, battute acide, violenti post e vere e proprie campagne di diffamazione su Facebook (che ormai appaiono legittimate dal clima di vio-lenza verbale oggi dominante). Mi sono state attribuite an-che colpe che non ho avuto, assegnate responsabilità altrui, ipotizzate presunte manovre. E, ovviamente, non c’è stato bando di concorso per la direzione di un museo, di un parco, di una struttura dirigenziale del Ministero che non fosse im-maginato come pensato strumentalmente per me. In realtà,

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professore all’Università di Foggia ero nel 2012 (allora, per la verità, anche rettore), quando sono entrato in CSBCP, profes-sore all’Università di Foggia ero al temine del mio mandato nel giugno del 2018. Preciso, solo per i poco informati, che quella di presidente del CSBCP è una carica onorifica, senza alcun compenso, con il solo rimborso delle spese esclusiva-mente in occasione delle riunioni mensili.

Per meglio descrivere i ‘vantaggi’ ricavati dalla carica in questi anni, racconto un solo episodio. Lo faccio senza alcun sentimento di rivalsa (ho sempre messo in conto certi risvolti negativi del ruolo, anche se non nascondo di averne soffer-to non poco). Dopo alcuni decenni di impegno continuativo presso le Università di Bari prima e di Foggia poi, nell’aprile del 2017 feci domanda di distacco triennale presso il Centro ‘Beniamino Segre’ dell’Accademia dei Lincei per poter svol-gere un programma di ricerca interdisciplinare sulle campa-gne tardoantiche e altomedievali dell’Apulia a partire dagli scavi della villa tardoantica di Faragola 10. Il mio progetto fu molto apprezzato e fu approvato dalla commissione di va-lutazione del Centro, come appresi sia pur ufficiosamente nel successivo mese di maggio. Insomma pareva che la mia domanda, accolta positivamente dal Centro, avrebbe dovuto solo superare un passaggio formale nell’Assemblea generale (che, come mi fu riferito, mai aveva messo in discussione le scelte del Centro), prevista a giugno. Fui, invece, informato con non poco imbarazzo da molti colleghi che in Assemblea era successo il finimondo e che si era manifestata la forte op-posizione di alcuni autorevoli colleghi archeologi, che non

10  Il progetto, avviato nel 2003 con gli scavi e un ampio progetto di indagini territoriali, si è sviluppato anche con la musealizzazione e valo-rizzazione del sito, che ha poi subito una drammatica battuta di arresto a seguito dell’incendio del settembre 2017, su cui si veda infra, 229-235.

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accettavano il mio distacco per fini di studio a causa del mio esplicito impegno nelle riforme del MiBACT. Convinti di ras-sicurarmi, tutti insistevano sul fatto che nessuno aveva messo in dubbio le mie credenziali scientifiche e la qualità del pro-getto: una circostanza che in realtà accresceva la mia incredu-lità e il mio disappunto. L’Accademia dei Lincei, il luogo più alto della cultura e della ricerca scientifica, discriminava uno studioso per le sue posizioni in materia di politica dei beni culturali? Dov’erano finiti gli articoli 3 e 33 della Costituzione, messa sotto i piedi anche da personalità che non perdono oc-casione per presentarsi come paladini della nostra Carta? Gli oppositori al mio distacco per motivi di studio pensavano di far parte ancora dell’Accademia d’Italia invece che dell’Ac-cademia dei Lincei? Ovviamente non ricevetti mai nessuna risposta scritta né alcuna comunicazione ufficiale (esclusi gli imbarazzati racconti di alcuni, secondo i quali mai nella storia dell’Accademia si era verificato un episodio simile). Solo l’al-lora Presidente, Alberto Quadro Curzio, persona di altissima qualità scientifica e umana, ebbe la delicatezza di chiamarmi al telefono per esprimere il suo dispiacere per l’accaduto e il suo apprezzamento per il comportamento da me tenuto in una situazione di oggettivo imbarazzo per lui e l’Istituzione, avendogli io comunicato che, per evitare ulteriori problemi all’Accademia, evidentemente posta in una situazione di im-passe, avevo previsto di ritirare la domanda. Con i ringrazia-menti, fui anche invitato a ripresentare la candidatura l’anno successivo. Cosa che ho ritenuto di fare nell’aprile del 2018. L’esito, però, è stato identico (nel frattempo il Presidente è cambiato), con l’analoga opposizione degli stessi autorevoli maestri dell’archeologia e le simili motivazioni (ovviamente non rese pubbliche), questa volta, però, con la giustificazione di un riequilibrio tra l’area umanistica, alquanto sovra-rap-presentata tra i distaccati, e quella scientifica.

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Come al termine del mio mandato rettorale avevo pensato di pubblicare un libro, Le vie maestre 11 (che ha inaugurato e anche dato il nome a questa collana), con una serie di inter-venti pubblicati in quegli anni, così oggi, all’indomani della conclusione di questa mia appassionante e intensa esperienza alla presidenza del CSBCP ho pensato di mettere insieme vari articoli e interventi per offrire un ulteriore contributo all’ap-profondimento di temi che sono stati al centro del dibattito negli ultimi anni. Negli ultimi mesi si va assistendo, infatti, ad una progressiva, pericolosa, caduta di interesse. L’attenzione dei media va calando, le notizie relative al patrimonio cultu-rale (a parte gli annunci sull’eliminazione delle domeniche gratuite o su ipotetiche, possibili, auspicabili – si spera viva-mente – nuove cospicue assunzioni, e poco altro) scemano.

Anche le critiche sono venute improvvisamente meno. I Settis, i Montanari, gli Emiliani tacciono, quasi che tutti i pro-blemi da loro denunciati negli scorsi anni si siano magica-mente risolti e che tutto ora vada al meglio.

In realtà, negli ultimi tempi non sta succedendo quasi nul-la, per cui è anche difficile, se non impossibile, esprimere giu-dizi, se non manifestare il timore che tale immobilismo finisca per depotenziare le riforme degli ultimi anni, peggiorando ulteriormente la loro già problematica attuazione. Una rifor-ma, infatti, può essere demolita o con una controriforma o con la sua cattiva applicazione, lasciando alle strutture burocra-tiche, che mai amano i cambiamenti, il compito di smontarla quotidianamente pezzo per pezzo. Il clima è, infatti, cambia-to. Si comincia a respirare aria di restaurazione. Recuperano posizioni di potere esponenti della più vecchia idea di tutela ‘muscolare’ (nei fatti debolissima e perdente), fatta solo di

11  Volpe 2013.

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‘no’ preventivi, di divieti e di diffide, di autoritarismo senza autorevolezza, di rifiuto del dialogo e della condivisione. Si colgono anche i primi segni di rivincite, vendette, rappresa-glie. Ma spero sinceramente di essere smentito.

Ho incontrato una sola volta finora il nuovo ministro Al-berto Bonisoli, per consegnargli doverosamente la relazione finale del mio mandato. Confesso che mi ha fatto una buona impressione: persona colta, attenta, curiosa, prudente, desi-derosa di ascoltare, animata dalle migliori intenzioni. Mi ha assicurato – e ha più volte ribadito pubblicamente – che non intende demolire il lavoro fatto negli ultimi anni, afferman-do di voler solo correggere alcune disfunzioni, migliorare alcuni aspetti, investire sul personale e potenziare la tutela. Ne sono felicissimo. Un’azione di manutenzione e correzio-ne delle riforme è assolutamente necessaria: ne ho indicato alcuni aspetti anche nella relazione che gli ho consegnato e che pubblico anche in questa sede 12. Trovo sbagliato un atteg-giamento preconcetto nei confronti di questo Ministro, come l’ho considerato sbagliato da parte di tanti nei confronti del suo predecessore. Teniamo tutti, noi specialisti, al patrimo-nio culturale: sono diverse le visioni, le strategie e le risposte che possiamo dare a un problema, che però è comune. Come tutelare il patrimonio, come conservarlo, come farlo vivere? C’è chi ritiene che bastino le norme, i divieti, i vincoli (assolu-tamente necessari, sia ben chiaro) e chi punta a una tutela più attiva, più partecipata, più sociale. Chi considera i musei e i parchi luoghi sacri da difendere anche dai loro visitatori e chi li vorrebbe dotati di migliori servizi, più inclusivi, più aperti, più attenti alle tante diverse categorie di utenti. Chi ritiene che la priorità spetti alla sola tutela (con la valorizzazione af-

12  Un’ampia sintesi è stata pubblicata in Il Giornale dell’Arte, 388, lu-glio-agosto 2018, 4.

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fidata agli stessi che si occupano della conservazione) e chi pensa che sia impossibile tutelare un bene non valorizzato, (cioè di cui non si colgano da parte di tutti il valore e anche l’utilità) e attribuisce alla valorizzazione, alla comunicazio-ne e alla gestione la stessa dignità della tutela. Chi pensa di dover affidare la gestione del patrimonio solo allo Stato e chi è convinto che un patrimonio così cospicuo e diffuso co-me quello italiano possa consentire una pluralità di forme di gestione, valorizzando anche le tante energie e competenze presenti dappertutto, con il coinvolgimento sia di imprese, cooperative, singoli professionisti sia e soprattutto di quello straordinario mondo rappresentato dal terzo settore. Sostan-zialmente il confronto è tra chi considera il patrimonio una sorta di proprietà privata solo degli specialisti, dei funzionari, dei professori e chi ritiene che i legittimi proprietari siano i cittadini, sia quelli delle comunità locali, più vicini a ognuno degli innumerevoli beni sparsi dappertutto nel nostro Paese, sia quelli ‘momentanei’, cioè i visitatori provenienti da ogni parte del pianeta. Chi scrive fa parte della seconda categoria, nella convinzione, però, che non esistano squadre contrappo-ste in una visione dicotomica del patrimonio e che nella realtà siano possibili infinite sfumature. Se solo si fosse in grado di mettere da parte le certezze granitiche e la criminalizzazione di chi la pensa diversamente, ci sarebbe spazio per la ricerca di soluzioni condivise, affidando allo Stato, e in particolare al MiBAC, un ruolo fondamentale di pianificazione, di indi-rizzo, di monitoraggio, di valutazione.

Bisogna anche riconoscere, onestamente, che le riforme, pur coraggiose e fondate su un impianto culturale sufficien-temente solido, hanno mediamente avuto una applicazione inadeguata. Non solo a causa di alcuni errori di impostazione (anche inevitabili in riforme così radicali), che certamente an-drebbero corretti, e non tanto – a mio parere – per mancanza

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di risorse e personale, come sostengono i critici, o almeno non solo per questa causa, pur oggettivamente assai grave, ma so-prattutto per una radicata questione di mentalità. Sappiamo bene che le mentalità cambiano molto più lentamente delle norme e delle strutture organizzative, ma se non si sviluppa una sorta di ‘riforma culturale’ nel campo del patrimonio cul-turale ogni riforma sarà fallimentare e dovremo rassegnarci all’idea che il MiBAC non sia riformabile.

Il 21 dicembre del 2017 papa Francesco, nel suo discorso per gli auguri natalizi alla Curia, volle riprendere, a propo-sito della riforma della Curia da lui avviata, «l’espressione simpatica e significativa di Mons. Frédéric-François-Xavier De Mérode: “Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’E-gitto con uno spazzolino da denti”. Ciò evidenzia quanta pa-zienza, dedizione e delicatezza occorrano per raggiungere tale obbiettivo … Una Curia chiusa in se stessa tradirebbe l’obbiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell’autoreferen-zialità, condannandosi all’autodistruzione. Questo è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresen-tano – nonostante tutte le loro giustificazioni e buone inten-zioni – un cancro che porta all’autoreferenzialità». Credo che si possano usare le stesse parole, semplicemente sostituendo ‘MiBAC’ a ‘Curia’, per illustrare quanto è accaduto in questi anni e i rischi che oggi corre il Ministero fondato da Giovan-ni Spadolini oltre quarant’anni fa se non si darà seguito alle riforme, consolidandole e correggendo gli aspetti meno con-vincenti (anche a parere di chi scrive) e risolvendo una serie di problemi logistici e organizzativi.

Mi consola molto, però, che alcuni amici soprintendenti e funzionari, inizialmente ostili alle riforme, abbiano progres-sivamente cambiato opinione e soprattutto che la maggior parte dei nuovi funzionari, più abituati al lavoro d’équipe,

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interdisciplinare, oltre che dotati di maggiore entusiasmo e anche di competenze e sensibilità diverse, manifesti un mag-giore apprezzamento.

Ho raccolto i vari interventi 13 intorno ad alcuni nuclei te-matici (non necessariamente affrontati secondo un ordine cronologico), che rispecchiano in vario modo il dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni e che mi hanno visto in va-rio modo coinvolto. Per cominciare, una sorta di bilancio di questi anni della mia presidenza del CSBCP corredato in ap-pendice da una serie di documenti. A seguire gli interventi centrati sulle riforme, sul paesaggio, sui musei e i parchi, sul terremoto, sul turismo culturale, sulla formazione: mi ren-do conto che il lettore ritroverà temi da me già affrontati in precedenti lavori e anche alcune ripetizioni (che ho cercato di ridurre) in questo stesso volumetto. Me ne scuso. Altri te-mi, ovviamente, sono appena accennati, restano ai margini o sono stati esclusi: queste pagine non hanno alcuna pretesa di esaustività. Cercano solo di contribuire a tenere vivo un confronto vivace (a volte anche eccessivamente acceso), che pare si vada progressivamente spegnendo. Perché, come mi è capitato più volte di ripetere in questi anni, riprendendo la celebre espressione di Gustav Mahler, la “tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”.

Sono grato a Dario Franceschini per la fiducia accordatami nell’affidar-mi la presidenza del CSBCP negli anni del suo ministero; alla Regione Puglia, in particolare agli assessori Angela Barbanente, Silvia Godelli e Loredana Capone, per aver proposto per tre volte consecutive la mia can-didatura e all’intera Conferenza delle Regioni italiane per averla sostenuta con la designazione; a tutti gli amici e colleghi dei vari CSBCP di cui ho

13  Indico di volta in volta il luogo di pubblicazione, precisando se sono stati apportati tagli, modifiche e anche limitati aggiornamenti.

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fatto parte in questi anni, e in particolare a quanti hanno condiviso con me l’impegno durante la mia presidenza, per il loro sostegno, i consigli, le critiche. A quanti mi hanno aiutato in questi anni con confronti, consigli e suggerimenti, in particolare Andrea Carandini e Daniele Manacorda.

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PER COMINCIARE,UN BREVE BILANCIO (PROVVISORIO)

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È con una certa emozione che cerco di tracciare, sia pur sinteticamente, un bilancio del lavoro svolto dal Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ durante la mia pre-sidenza nel triennio compreso tra il 16 giugno 2015 e il 16 giugno 2018. In verità il periodo di attività complessiva della mia presidenza è maggiore, comprendendo sia la fase finale del precedente Consiglio, tra aprile e luglio del 2014 (DM 14 aprile 2014), e anche la fase intercorsa fino all’insediamen-to il 16 giugno 2015 del nuovo Consiglio, nominato con il DM 19 febbraio 2015 (che ha designato anche i membri dei Comitati tecnico-scientifici), in attesa della designazione dei rappresentanti eletti del personale, avvenuta con DM 9 giu-gno 2915, a seguito del quale il CS ha finalmente raggiunto la sua composizione completa.

Il CS si è dotato di un Regolamento interno (16.5.2016), che ha previsto anche alcune novità rispetto al passato, come la partecipazione in modalità telematica e la pubblicazione sul sito web di ampi resoconti dei verbali.

Nel triennio il Consiglio ha tenuto 38 riunioni, tre delle quali straordinarie e pubbliche rispettivamente a Paestum (29.10.2015), a Mantova (12.11.2016) e a Matelica (20.3.2017), oltre a due sopralluoghi, a Pompei (28.10.2015) e a Spole-to-Norcia (10.11.2017), sempre conclusi con specifiche mo-

UN BILANCIO DI ANNI DI GRANDI CAMBIAMENTI

* Relazione presentata in occasione dell’ultima seduta del Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del triennio di mia presidenza (11 giugno 2018); il testo è reperibile anche sulla pagina web del CSB-CP https://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/docu ments/1528903565583RelazionefinaleCSpresidenteGV.pdf. Le mozio-ni e alcuni documenti sono riportati nell’appendice in fondo al volume.

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zioni: a Paestum sul patrimonio culturale e lo sviluppo so-stenibile del Sud; a Mantova sul futuro delle città d’arte; a Matelica sull’importanza del patrimonio culturale per la vita delle comunità colpite dal terremoto.

Il primo elemento che sento di sottolineare riguarda pro-prio lo sforzo fatto per stabilire sempre di più un ponte tra il MiBACT e l’esterno: una missione che ritengo propria del CS, coerente e non alternativa a quella di organo consultivo del Ministro. L’abbiamo fatto con le sedute pubbliche svolte al di fuori del Collegio Romano, con i sopralluoghi, con i tanti incontri, con gli interventi pubblici, le audizioni, i documenti e le mozioni. L’abbiamo fatto con la pagina web del CS, per la prima volta istituita all’interno del sito web del Ministero, con la pubblicazione di ampi resoconti delle nostre riunioni, dei documenti e delle mozioni 1.

Ho personalmente girato in Paese in lungo e in largo in questi anni, partecipando a oltre cento incontri per discutere di patrimonio culturale, per illustrare e spiegare le riforme ma anche e soprattutto per ascoltare, per ricevere indicazio-ni, suggerimenti, critiche. Se posso indicare alcuni limiti di questo Ministero, questi sono la sua eccessiva chiusura in sé stesso, la distanza tra centro e periferia, la scarsa capacità e volontà di confronto e di ascolto, la quasi totale incomunica-bilità, al centro come in periferia, tra pezzi dello stesso Mini-stero. In questo contesto, il Consiglio ha cercato di mitigare tali limiti, a volte anche surrogando compiti altrui.

Questo Consiglio ha svolto la sua attività in un momento complesso, non semplice, caratterizzato da grandi, radicali, trasformazioni del mondo dei beni culturali nel quadro di più complessivi cambiamenti epocali in Italia e non solo. Tra

1   http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuPrincipale/Ministero/Consiglio-Superiore/index.html.

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il 2014 e il 2018 il MiBACT ha cambiato profondamente la propria organizzazione interna con le riforme radicali pro-mosse dal Ministro Dario Franceschini, che hanno suscitato consensi e opposizioni, apprezzamenti e critiche. Le recenti riforme hanno inciso profondamente nella stessa visione del patrimonio culturale e del suo valore per la società del terzo Millennio: ci sono ancora molti problemi irrisolti e non man-cano anche errori, quasi fisiologici nelle riforme radicali, che mi auguro il nuovo Ministro Alberto Bonisoli voglia correg-gere, ma senza stravolgerne il progetto culturale. Auspico, cioè, che un governo che si è definito ‘del cambiamento’ eviti il rischio di rappresentare la restaurazione nel campo del pa-trimonio culturale.

Il Consiglio, con una pluralità di posizioni e di visioni, che sempre hanno potuto trovare espressione libera e rispetto-sa delle differenze, ha accompagnato questo processo, non facendo mancare mai il suo parere, offrendo suggerimenti e indicazioni, ma anche segnalando problemi, difficoltà, ritardi. Credo che abbia svolto realmente una funzione di indirizzo e di consulenza. Ha operato non solo su richiesta del Gabinetto e, per il suo tramite, del Segretariato Generale e delle Dire-zioni Generali, ma anche assumendo iniziative autonome, come prevede l’art. 25 c.3 del DPCM 171. Anche per questo sono personalmente molto grato al Ministro Franceschini che ha sempre auspicato e sostenuto l’iniziativa propositiva del Consiglio.

È assai difficile, e forse anche inutile, riepilogare tutte le questioni affrontate e le iniziative assunte in questi anni. Rileggere i verbali, sempre molto analitici, delle sedute, ripercorrendo tutti i temi affrontati, offre la visione di una straordinaria ricchezza del dibattito e delle proposte via via

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avanzate. Ricordo, quindi, solo alcune questioni (si rinvia al sito web per i documenti e le prese di posizione).

Programmazioni e pareri obbligatori. Un’attenzione par-ticolare è stata riservata alle programmazioni finanziarie, ri-spetto alle quali il Consiglio non ha mai svolto una funzione meramente notarile, proponendo sia la definizione di un qua-dro generale delle programmazioni sia misure per qualificare maggiormente la spesa e per superare criteri ‘storici’ nella distribuzione delle risorse. Si è espresso, inoltre, a proposito dei contributi ai proprietari di beni culturali, dei piani per l’ar-te contemporanea (4.8.2015, 20.6.2016), del Progetto Italian Council (19.3.2018), e ha esaminato pareri sulle tante richieste di parere sottoposte su vari argomenti, come il Piano per l’e-ducazione al patrimonio (14.12.2015, 10.4.2017 e 11.6.2018), le Linee guida sull’archeologia preventiva (14.12.2015), le Linee guida per i prestiti di beni culturali (18.4.2016), il Documen-to per l’attestato di libera circolazione (16.10.2017), il Piano strategico del Turismo (22.2.2016 e 14.11.2016).

Soprintendenze e tutela. L’attenzione alla tutela ha rappre-sentato un tema ricorrente, affrontato praticamente in tutte le sedute, esprimendo preoccupazione per lo stato di difficoltà delle strutture periferiche a causa della scarsezza di personale e mezzi, sollecitando maggiori risorse per le attività ordinarie e per la manutenzione programmata, seguendo con atten-zione il passaggio dalle soprintendenze settoriali a quelle uniche a base territoriale. A tale proposito si ricordano anche i decisi interventi del CS a proposito del ‘silenzio-assenso’ introdotto dalla Legge Madia (lettera del 30.6.2015 e mozioni del 14.7.2015 e 4.8.2014).

Musei e valorizzazione. Il Consiglio ha affrontato in molte occasioni le questioni relative alla riforma dei Musei, anche grazie alla designazione di uno dei componenti dei Comitati

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scientifici dei musei dotati di autonomia. A questo proposito ha ritenuto anche di intervenire con una mozione per solleci-tare un migliore funzionamento di tali organismi scientifici (20.2.2018). Un’attenzione particolare è stata riservata non solo alla rete complessiva dei musei e dei parchi archeologici statali attribuiti ai Poli regionali, con una seduta specifica sul Sistema Museale Nazionale (19.3.2018), con un’audizione del DG Antonio Lampis, alla presenza dei Direttori dei Poli Museali regionali, ma anche ai musei civici e, specificamen-te, al problema degli ex Musei provinciali e del loro difficile passaggio alle Regioni (14.12.2015), perché fosse salvaguar-dato un patrimonio importante in particolare nelle regioni meridionali.

Paesaggio. Il Consiglio ha sempre attribuito una centralità al paesaggio, sollecitando in particolare la predisposizione dei Piani paesaggistici (22.2.2016), per promuovere una visio-ne complessiva, organica del patrimonio culturale e a favore di una tutela più contestuale, legata alla pianificazione terri-toriale e urbanistica, con le audizioni per i Piani Paesaggistici della Puglia (14.10.2013), della Toscana (29.4.2014), del Pie-monte (19.12.2016) e del Friuli VG (12.6.2017), il sostegno dato all’Osservatorio Nazionale, agli Stati Generali del Paesaggio, alla Carta Nazionale del Paesaggio (19.2.2018).

Biblioteche e Archivi. Il Consiglio ha riservato una parti-colare attenzione a questi settori del patrimonio culturale, tradizionalmente meno favoriti, anche con due specifiche mo-zioni (12.10.2015 e 16.11.2015), che hanno recepito le proposte di due gruppi di lavoro costituiti d’intesa con le rispettive DG. Una seduta monografica è stata dedicata alle Biblioteche (13.11.2017).

Personale. Il Consiglio ha sollecitato in molte occasioni l’assunzione di nuovo personale, apprezzando e sostenendo lo sforzo del Ministro per il concorso dei 500 (poi diventati

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1.000) tecnici scientifici (22.2.2016). Il Consiglio si è battu-to per la definizione di alti standard qualitativi nei requisiti di ammissione (anche con una mozione contro la proposta di prevedere solo le lauree triennali come titoli di accesso, 16.11.2015) e chiedendo concorsi con cadenza regolare e anche con nuove procedure selettive, sia per il personale tecnico-scientifico sia per quello tecnico e amministrativo e anche per i dirigenti (mozione del 20.2.2017). In generale si è dato grande rilievo al tema dei profili professionali dei beni culturali (14.3.2016), con particolare riferimento alle figure dei restauratori (20.2.2017 e 10.4.2017). A tale proposito si segnala anche l’attenzione per il DM sulle professioni dei beni culturali, in applicazione della legge 110/2014 (15.5.2018 e 11.6.2018). Il Consiglio ha, inoltre, sollecitato un’azione di formazione permanente del personale, auspicando un tale ruolo per la Scuola Nazionale del Patrimonio. Della Scuola il CS si è occupato in due occasioni, in particolare nella seduta del 16.5.2018, apprezzando il progetto ma anche esprimendo critiche e preoccupazioni.

Convenzione di Faro. Il Consiglio si è molto speso per la sua ratifica da parte del Parlamento; sono stati approfondi-ti vari aspetti, anche nel confronto con l’Ufficio Legislativo (18.4.2016), e tale lavoro ha indubbiamente favorito il supera-mento di alcune perplessità, facendo in modo che il Ministero sottoponesse l’adozione della Convenzione al Consiglio dei Ministri, poi trasmessa per iniziativa dei Ministri Alfano e Franceschini al Parlamento, che purtroppo non l’ha ratificata nella scorsa legislatura (mozione del 19.12.2017); l’auspicio del Consiglio è che l’attuale Parlamento possa porre la ratifica della Convenzione di Faro tra i primi suoi atti.

Pompei. Il Grande Progetto Pompei e il nuovo assetto or-ganizzativo del Parco sono stati molto seguiti dal Consiglio anche con un’audizione del Direttore prof. Massimo Osanna

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(22.1.2018), dopo quella del luglio 2014, oltre che con il citato sopralluogo del 2015, nella consapevolezza che a Pompei si giocasse una partita particolarmente importante anche per la credibilità del Paese nei confronti dell’Europa e del mondo intero.

MIUR-MiBACT. Il 19 marzo 2015 è stato sottoscritto un im-portante protocollo tra i due ministeri. In applicazione di quel protocollo, il Consiglio ha avviato una positiva collaborazio-ne con il Consiglio Universitario Nazionale, organizzando una specifica riunione congiunta dei due Consigli il 12 luglio 2017, alla presenza dei due Ministri, Valeria Fedeli e Dario Franceschini, per analizzare le possibili forme di collaborazio-ne sistematica, a oltre 40 anni dalla nascita del Ministero dei Beni Culturali per gemmazione dal Ministero della Pubblica Istruzione. Si è istituita una commissione paritetica dei due Consigli che ha prodotto una relazione con la proposta sia di un miglioramento dei percorsi universitari nel campo dei beni culturali a partire dalla definizione dei profili professio-nali da formare sia della sperimentazione di strutture miste tra Università e istituti periferici del MiBACT, i cd. ‘policlinici del patrimonio culturale’, denominati ‘Unità integrate terri-toriali per il patrimonio culturale’. La relazione, trasmessa ufficialmente ai due ministri il 5 febbraio 2018, è disponibile sulla nostra pagina web 2, oltre che sul sito del CUN 3.

Non posso nascondere la mia delusione nel registrare, al termine del nostro mandato, che il lavoro di questa Commis-sione non abbia avuto il seguito sperato e che l’accordo tra i due Ministeri non sia stato sottoscritto.

2   http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1522755766034_Relazione_CSBCP-CUN.pdf.

3  https://www.cun.it/uploads/6791/Relazione_CSBCP-CUN.pdf?v.

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Terremoto e patrimonio culturale. È stato uno dei temi centrali di questi anni, anche a seguito dei tragici eventi dell’Italia centrale, dopo i terremoti dell’Abruzzo e dell’E-milia Romagna (14.11.2016). Le modalità di intervento sul patrimonio culturale colpito dai terremoti e da altre calamità, l’azione di prevenzione e messa in sicurezza e, in generale, il ruolo centrale che il patrimonio riveste per la conservazione delle identità territoriali e la rinascita dei luoghi e delle co-munità sono state al centro dell’azione del Consiglio, che ha anche avanzato proposte operative come la costituzione di una specifica funzione dedicata al patrimonio culturale nella Protezione Civile. Importanti in tal senso sono state la mo-zione di Matelica (20.3.2017) e quella approvata a seguito del sopralluogo a Spoleto-Norcia (13.11.2017). Più recentemente il Consiglio ha dato vita, insieme al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici del Ministero delle Infrastrutture e dei Tra-sporti, a un gruppo di lavoro che ha predisposto un impor-tante documento di indirizzo, preliminare alla revisione delle ‘Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale’, trasmesso ai ministri Franceschini e Del Rio il 19.3.2018 4. Anche in questo caso il lavoro della Commissione non ha avuto l’esito sperato.

Liberalizzazione delle immagini. Il Consiglio ha offerto un pieno e convinto sostegno alla battaglia per la liberaliz-zazione delle immagini nei musei e poi anche nelle bibliote-che e negli archivi, con ben tre mozioni sul tema (15.7.2014, 16.6.2016 e 19.12.2017) e un approfondimento sulla riforma delle riproduzioni dei beni culturali (16.5.2016).

4   http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1526551285629_MIT_MiBACT_FINALE_1.pdf.

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Sono stati discussi, infine, anche temi sollecitati dall’e-sterno, come la situazione del personale tecnico scientifico nelle soprintendenze, musei e parchi della Regione Sicilia (14.9.2015), il tema delle concessioni di scavo, con l’audizione dei Presidenti delle Consulte Universitarie di Archeologia (14.3.2016), il problema della tutela dei beni paleontologici con l’audizione del Presidente della Società Paleontologica Italiana (23.5.2917), il documento ICOM Italia sull’archeolo-gia e i paesaggi culturali, con l’audizione della Presidente di ICOM Italia (19.3.2018).

Come ho già precisato, la nostra attività si è svolta nel qua-dro delle riforme del Ministro Franceschini. A conclusione di tale processo è possibile indicare qualche personale spunto di riflessione, sia pur schematico. Una valutazione approfondita sarà possibile, credo, solo tra alcuni anni.

1. C’è un grande interesse per il patrimonio culturale e c’è una grande voglia di confronto. Forse mai come in passato. Lo testimonia anche la ricca produzione di libri e articoli dedicati a questi temi oltre alla quotidiana attenzione della stampa. Questo è un dato assolutamente importante, che andrebbe salutato con soddisfazione da tutti, sia da chi è favorevole sia da chi è contrario alle riforme. In generale ho potuto verificare che il mondo delle associazioni, dei professionisti dei BC, dei volontari, delle persone interessate alla cultura, insomma dei ‘semplici cittadini’, è molto bendisposto e sostanzialmente condivide i cambiamenti in atto, mostra fiducia nelle riforme, pur esprimendo a volte perplessità o indicando alcuni esempi di cattiva gestione. Invece tra gli ‘addetti ai lavori’ prevalgono opposizioni e riserve: fortissime tra il personale del MiBACT (ovviamente anche con eccezioni significative), tra i colleghi universitari e anche tra i professionisti. Chi tra gli ‘addetti

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ai lavori’ si dichiara favorevole (non sono pochissimi, anche se ancora una minoranza) condivide lo spirito e la filosofia delle riforme, ma apprezza molto meno la loro applicazione. C’è, dunque, un problema serio di distanza tra il progetto e la realtà, da tenere in grande considerazione. Bisogna, però, tener conto anche del poco tempo ancora trascorso: due-tre anni sono periodo troppo breve rispetto a oltre un secolo in cui si è costruito, dall’Unità d’Italia in poi, il modello di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale che si sta cercando di cambiare.

2. In molti, tra il personale del MiBACT, soprintendenti, funzionari, direttori musei, hanno lamentato uno scarso dia-logo. Penso che abbiano ragione anche se in realtà occasioni di confronto e dibattito ci sono state: non posso non segnalare, a tale proposito, una certa incapacità di contribuire alla costru-zione di nuove e più efficaci forme di tutela e valorizzazione del patrimonio. In generale, ancora oggi, non sono note pro-poste alternative che non siano il ritorno alle soprintendenze settoriali e disciplinari e alla vecchia situazione dei musei dipendenti dalle soprintendenze. In ogni caso, il confronto e il dialogo (quando non è fatto solo per rinviare le scelte e per non decidere nulla) sono necessari. Se si escludono gli incorreggibili oppositori, quelli contrari per partito preso, i detentori iper-ideologici di certezze granitiche, la gran parte dei colleghi ha interesse a far funzionare le strutture nelle quali lavora ed è bendisposta a collaborare. Partendo anche da posizioni distanti, attraverso il confronto e l’ascolto, le distanze si riducono, si stabilisce un rapporto di maggiore fiducia. La promozione del lavoro di squadra rappresenta uno dei temi principali, finora non affrontati adeguatamente.

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3. I trentadue musei autonomi hanno ancora moltissimi problemi (soprattutto quelli della seconda tornata: alcuni di questi sono ancora privi di mezzi, di personale o anche di una vera sede). Ma in generale al momento, pur tra alti e bassi, in un panorama variegato tra chi sta facendo bene o benissimo e chi fa meno bene, i musei autonomi rappresentano la parte che sta funzionando meglio della riforma. Anche in questo caso, però, si lamentano uno scarso indirizzo centrale e po-chi sostegni concreti. Ritengo che siano ancora dotati di una autonomia troppo limitata. L’autonomia, strettamente legata alla responsabilità e a rigorose procedure di valutazione, do-vrebbe, a mio parere, essere ampiamente accresciuta, anche nella gestione e nel reclutamento del personale, e dovrebbe tendenzialmente essere estesa a tutti gli istituti del Ministero.

4. Le soprintendenze uniche, tra mille difficoltà e pro-blemi, cominciano lentamente a funzionare. In alcuni casi abbastanza bene, in altri in maniera decisamente problema-tica (in particolare le sedi di nuova istituzione, ancora quasi prive di tutto). Hanno vari problemi di gestione, per archivi, laboratori, magazzini. Il personale delle precedenti soprin-tendenze comincia a poco a poco a lavorare maggiormente insieme (in alcuni casi, la mancanza ancora di sedi fisiche uniche costituisce una seria difficoltà per far lavorare insieme i vari funzionari). Tutte attendono con ansia l’arrivo di nuovi funzionari e anche di personale tecnico e amministrativo. I settori in cui si articolano le soprintendenze uniche fun-zionano ancora poco quasi dappertutto. In generale stenta ad affermarsi una capacità-volontà di lavoro d’équipe e solo pochi soprintendenti sanno realmente svolgere la nuova fun-zione di coordinamento. Di fatto stanno imparando il nuovo lavoro di soprintendente unico ‘a loro spese’, senza un sup-porto reale. Servirebbero, invece, una formazione specifica

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e soprattutto un forte indirizzo dal centro. I conflitti princi-pali sono con i Poli, soprattutto da parte degli archeologi, per le questioni relative ai materiali di scavo, ai magazzini, alle autorizzazioni. Questa situazione sta producendo anche conseguenze negative per i permessi di studio, per l’accesso ai dati e ai materiali per gli studiosi, frastornati tra Poli e Soprintendenze. Private dei musei statali, le Soprintendenze stanno in alcuni casi riversando il loro interesse sui musei civici: una cosa positiva e negativa al tempo stesso, perché si rischia di ingabbiare realtà che dovrebbero invece speri-mentare nuove forme di gestione. I musei civici, peraltro, dovrebbero essere componenti essenziali del sistema museale nazionale e per questo dovrebbero dialogare maggiormente con i Poli regionali.

5. L’aspetto più debole della riforma è al momento co-stituito dai Poli Museali Regionali per più ragioni, a parti-re dalla mancanza di personale per finire ai conflitti con le soprintendenze. In generale, finora, non si sta attuando la reale funzione dei Poli, cioè la creazione di sistemi musea-li regionali con i musei civici, diocesani, ecc. A mio parere, sarebbe necessario favorire, a seconda dei casi, le migliori forme possibili di gestione con il coinvolgimento delle for-ze e delle energie presenti in ogni territorio (professionisti, associazioni, fondazioni, consorzi, ecc.). I Poli sono, invece, presi dalla gestione diretta dei musei e delle aree archeo-logiche loro assegnati, con mille difficoltà. Ritengo che in futuro anche i grandi musei autonomi, appena si saranno consolidati, possano svolgere una funzione di aggregazioni di alcune realtà museali statali e di altra natura presenti nei vari territori. Complessivamente, però, si è messo in moto un processo che intende assegnare ai vari musei un ruolo sempre più attivo nella società contemporanea, anche in linea con le

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recenti raccomandazioni dell’ICOM (Funchal 11.5.2018), che sollecitano la destinazione di maggiori risorse ai musei, una loro affermazione anche come catalizzatori dello sviluppo economico locale, il maggiore coinvolgimento delle comu-nità locali, un’attenzione particolare verso le fasce giovanili, l’attivazione di migliori servizi.

6. Servirebbe, a quattro anni dall’avvio del processo ri-formatore, una manutenzione delle riforme, soprattutto nel superare e risolvere i motivi di conflitto tra i vari istituti pe-riferici (soprattutto tra Soprintendenze e Poli), nel definire meglio il ruolo dei Segretariati (sulla cui funzione sono state espresse da più parti varie, legittime, perplessità), troppo spesso sovrapposti all’attività delle Soprintendenze, e nel migliorare i tanti aspetti ancora poco funzionanti, con un coinvolgimento diretto dei dirigenti e funzionari operanti in periferia. Andrebbero in particolare risolti i problemi di sovrapposizione di competenza, di scarsa collaborazione e di vera e propria conflittualità tra i vari istituti operanti nello stesso territorio.

7. Le attese di maggiori aperture alla società e di un mag-giore coinvolgimento degli Enti Locali, delle fondazioni, delle associazioni, ecc. – pur essendoci vari segnali positivi in tal senso – non sono ancora state soddisfatte. C’è ancora molto lavoro da fare per favorire le tante possibili forme di ‘gestio-ne dal basso’ del patrimonio, ovviamente con un ruolo di indirizzo, monitoraggio e valutazione da parte del MiBACT.

8. La vera riforma si avrà solo quando oltre alle strutture organizzative e alle norme cambierà la cultura della tutela e valorizzazione del patrimonio, rimasta inalterata, immodi-ficata, ancorata alle visioni e alle norme degli inizi del Nove-

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cento e in particolare alla legge 1089 del 1939. Quella legge, che ha rappresentato uno strumento straordinario per cerca-re di bloccare distruzioni e speculazioni, ha anche impedito l’affermarsi di una idea diversa di tutela, non più fondata su un modello centralistico, difensivo, vincolistico, passivo, ma finalmente basata sulla progettazione, sulla pianifica-zione, sulle regole di trasformazione, sulla condivisione e la partecipazione dei cittadini: una tutela più attiva. Momenti importanti in questo processo potranno essere rappresentati dalla prossima ratifica della Convezione europea sul valore del patrimonio culturale (Faro 2005) e dalle conseguenti mo-difiche normative al Codice dei beni Culturali e del Paesaggio e dalla diffusione dei Piani Paesaggistici Regionali.

In varie occasioni, a partire dalla seduta di insediamento del 16.6.2015, il Ministro Franceschini ha partecipato alle se-dute del Consiglio, per presentare suoi progetti di riforma, per porre quesiti su problemi specifici e per ascoltare il parere del Consiglieri. In alcune occasioni hanno partecipato alle se-dute i Sottosegretari Ilaria Borletti Buitoni e Dorina Bianchi e alcuni Consiglieri del Ministro, in particolare il prof. Lorenzo Casini. Una presenza costante è stata quella del Segretario Ge-nerale, prima l’arch. Antonia Pasqua Recchia poi l’arch. Carla Di Francesco, con le quali si è sempre avuto un rapporto di intensa e proficua collaborazione. Significativa è stata anche la presenza del Capo di Gabinetto, prima il prof. Giampaolo D’Andrea, poi la dott.ssa Tiziana Coccoluto, e del capo e dei componenti dell’Ufficio legislativo. Anche i Direttori Generali hanno frequentato le sedute del Consiglio, alcuni, come la dott.ssa Caterina Bon, il dott. Antonio Lampis e l’arch. Fran-cesco Scoppola, in maniera molto assidua e attiva, altri meno. Sono grato a tutti loro, anche a nome dell’intero Consiglio,

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per il supporto sempre garantito e per la collaborazione che si è sviluppata in questi anni.

Al di là dei singoli temi affrontati, qui richiamati solo in parte, sono stati l’impegno costante, l’attenzione propositiva, la vivacità critica, la generosa disponibilità di tutti i Con-siglieri ad aver rappresentato la risorsa più preziosa per il Consiglio stesso e per il Ministero. Ho apprezzato la compe-tenza, la dedizione e lo spirito positivo che ha animato l’im-pegno di tutti, oltre al pieno rispetto delle diverse posizioni, anche in momenti non facili di divergenza di opinioni, che ha consentito di raggiungere sempre una posizione larga-mente condivisa: non ho potuto effettuate un calcolo esatto, ma credo che oltre il 90% delle votazioni abbia visto l’una-nimità del Consiglio. Per questo, e non solo, sono grato alla vicepresidente Francesca Cappelletti, ai presidenti del CTS, ai rappresentanti del personale e a tutti i Consiglieri per il lavoro svolto in questi anni, in un clima sereno di amicizia e cooperazione. Mi scuso con loro se a volte non sono stato in grado di cogliere tutte le istanze espresse e se in qualche caso sono stato troppo rigido e determinato nell’indicare e difen-dere la mia opinione, pur avendo sempre tentato di recepire stimoli, suggestioni e critiche. È stato un vero privilegio per me, oltre che un grande piacere, poter lavorare con persone di così alto profilo culturale, scientifico, professionale e etico.

La segreteria del Consiglio ha svolto sempre un lavoro ec-cellente nel supportare il nostro lavoro e per questo ringrazio in particolare la dott.ssa Maria Pellegrino, con la quale ci sono stati in questi anni contatti quasi quotidiani.

Con oggi si conclude la mia esperienza prima come com-ponente, in rappresentanza per due volte consecutive delle Regioni italiane, e poi dal 2014 come Presidente del Consi-glio Superiore: un’esperienza impegnativa e di straordinaria importanza sotto il profilo professionale, culturale e umano.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale38

Sono profondamente grato al Ministro Dario Franceschini per avermi offerto questa opportunità e per l’intenso scambio di opinioni avviato fin dal marzo 2014 quando, appena nomi-nato Ministro, ricevetti una sua inaspettata telefonata per un incontro a casa sua – era in convalescenza – e ci conoscemmo per la prima volta. In questi anni ho potuto apprezzare la sua capacità di definire una strategia, la sua voglia di ascoltare e di studiare e la determinazione nell’assumersi la responsa-bilità politica di realizzare riforme radicali e epocali, la sua profonda e convinta dedizione nell’impegno di Ministro dei beni culturali cui ha saputo dare un rilievo, una visibilità e una credibilità forse senza precedenti. Se posso permettermi, ho anche potuto conoscere e apprezzare le sue doti umane, di sensibilità, passione politica e culturale, rigore etico e ironia, che appaino poco all’esterno, nascoste dietro un’apparente freddezza.

Rivolgo gli auguri migliori di buon lavoro al nuovo Mi-nistro Alberto Bonisoli e alla sua squadra, sperando sincera-mente, per il bene del patrimonio culturale italiano e dello stesso MiBACT, che in questo momento avrebbe bisogno di stabilità e di ancora maggiori risorse, che voglia proseguire lungo il percorso avviato in questi ultimi anni, ovviamente con gli aggiustamenti e i miglioramenti che riterrà necessari.

Quelli vissuti nel Consiglio superiore sono stati per me anni assai intensi di impegno, non privi anche di momenti di amarezza, soprattutto per una serie di attacchi personali, di malignità e anche di veri e propri episodi di grave discrimi-nazione nei miei confronti proprio a causa di questa mia ca-rica e dell’impegno svolto nelle riforme. Quando ho assunto questa carica ero un professore di archeologia all’Università di Foggia, di cui ho svolto in precedenza anche la funzione di Rettore, e mi accingo ora a tornare a svolgere a tempo pieno lo stesso lavoro di ricerca e didattica nella mia Università.

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Un bilancio di anni di grandi cambiamenti 39

È stato un impegno che ho cercato di svolgere nel migliore dei modi, per quanto le mie capacità mi hanno permesso, nel-la consapevolezza di averlo fatto – ovviamente con le mie idee e la mia visione, i miei limiti e i miei errori – esclusivamente nell’interesse del Ministero e del personale che vi lavora con passione e competenza e del patrimonio culturale italiano.

Roma, 11 giugno 2018

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UNA DIFFICILE STAGIONE DI RIFORME

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Dopo anni di disinteresse, accompagnati da tagli indiscri-minati e dal blocco delle assunzioni, i beni culturali negli anni scorsi sono diventati di grande attualità, hanno fatto parte dell’agenda del governo, hanno ricevuto grande attenzione in tv, sui giornali e sui social media, sono stati frequente argo-mento di conversazione tra le persone normali. Ad esempio, alcune estati fa gli italiani in spiaggia sotto l’ombrellone di-scutevano animatamente delle scelte dei direttori dei 20 primi grandi musei dotati di autonomia amministrativa introdotti dalla riforma del ministro Dario Franceschini, con divisio-ni tra chi polemizzava a proposito della scelta di studiosi stranieri e chi difendeva queste novità. Non più quindi solo discussioni sulle scelte di un allenatore di una squadra di calcio e sugli acquisti di calciatori, ma addirittura sulla com-posizione della squadra dei direttori di musei! Una novità assoluta. E non passava giorno senza una nuova attenzio-ne ai beni culturali, dalle domeniche con ingresso libero nei musei ai caschi blu della cultura, dalla liberalizzazione delle immagini alla riforma delle soprintendenze. Il patrimonio culturale, insomma, era finalmente tornato a interessare gli Italiani. E ha anche risvegliato il mondo degli specialisti e dei docenti universitari, da tempo un po’ assopito e afono 1.

*  Versione ridotta e rivista dell’intervento apparso sul sito web del FAI, mercoledì 2 marzo 2016: http://www.fondoambiente.it/Visto-Dal-FAI/Index.aspx?q=in-nome-dell-articolo-9#sthash.pdI395nU.dpuf. Cfr. anche il mio articolo: Svecchiare i beni culturali, in «Il Sole 24 Ore.Domenica» 14 febbraio 2016, 32.

1  Lo dimostra anche la ricca produzione di libri e articoli di questi ultimi anni, espressione di posizioni anche molto diverse; ne ho indicati alcuni supra, 9, nota 3.

IN NOME DELL’ARTICOLO 9

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale44

È senza dubbio uno dei risultati importanti da riconoscere all’azione del ministro Franceschini.

Un’altra importante novità è consistita nel fatto che la ri-forma del MiBAC(T), pur avviata sotto il peso della spending review, non sia stata l’ennesima riorganizzazione amministra-tiva (una delle tante degli ultimi decenni), ma il frutto di un disegno politico-culturale complessivo, che ha avuto alcuni punti fermi: la pari dignità e tra tutela e valorizzazione; la cre-azione di un sistema museale nazionale; l’autonomia gestio-nale e scientifica di musei e parchi archeologici; l’attenzione a educazione e ricerca; la sperimentazione di nuove forme di gestione; il superamento di una visione elitaria della cultura.

Può anche non piacere e non essere condiviso – è legitti-mo – ma è stato finalmente un progetto organico, sia pure attuato attraverso varie misure, a partire dall’Art Bonus. Al momento si sono raccolti oltre 200 milioni e si contano oltre 7000 mecenati, in gran parte semplici cittadini che hanno donato meno di mille euro: una vera rivoluzione che indica, insieme ai sempre maggiori segnali di partecipazione attiva, un nuovo rapporto tra cittadinanza e patrimonio culturale.

Le critiche e le proteste, spesso strumentali, in un paese restìo alle novità, sono state fisiologiche, ma ancora una volta si sono tradotte in un ‘no’ a qualsiasi cambiamento, senza che sia stata avanzata nessuna proposta alternativa, che non fosse la mera difesa del passato.

Valorizzazione vs tutela?

I critici dei cambiamenti sostengono che con essi si sia con-traddetto lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della Costituzio-ne. Sono convinto esattamente del contrario. È, infatti, neces-sario superare artificiosi quanto inattuali conflitti tra tutela e valorizzazione, proprio nel nome dell’art. 9, che, al secondo

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comma, afferma sì che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», ma che nel primo precisa che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Nel dettato costituzionale si lega, cioè, strettamente la tutela alla promozione della cultu-ra, cioè a quella che oggi chiamiamo ‘valorizzazione’: solo la conoscenza, attraverso la promozione della cultura, consente infatti di attribuire valore al patrimonio. I padri costituenti (e nello specifico Concetto Marchesi e Aldo Moro) non scelsero a caso le parole ‘Repubblica’ e ‘Nazione’, evitando di utilizzare riduttivamente solo il concetto di ‘Stato’. È una cosa spesso ignorata da chi sembra identificare Repubblica (anzi res publi-ca) con Stato, e addirittura con un solo Ministero dello Stato. Dunque non solo la tutela è una responsabilità comune dei cittadini, ma è anche strettamente connessa alla promozione della cultura (che – lo ribadisco – è lo strumento primo per consentire ai cittadini di riappropriarsi del loro il patrimonio culturale), alla ricerca, la cui libertà è sancita dall’art. 33 (men-tre ancora oggi vigono norme da stato borbonico, ad esempio in materia di ‘concessioni’ per lo scavo archeologico’).

Nel dibattito è emersa una bizzarra (quanto significativa) anomalia: chi difende la sola tutela, continua a sottovalutare la valorizzazione, ritenuta qualcosa di importanza minore, sostanzialmente equiparabile a mercificazione, colpevole di macchiare la purezza della cultura. Chi invece, come chi scri-ve, ritiene utile e opportuno un riequilibrio e un’integrazione tra le due componenti, non sottovaluta affatto la tutela (come si può, infatti, valorizzare un bene che non si tutela?), ma semmai chiede una tutela più attiva, più propositiva, più progettuale (come nei moderni Piani Paesaggistici Territoria-li, non a caso in grave ritardo nel nostro Paese), e non quella vecchia (e ormai del tutto inefficace), fatta solo di divieti e di comportamenti polizieschi.

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‘Visione olistica’: una bestemmia!

La seconda fase della riforma Franceschini ha completato nel 2016 il disegno avviato con la riforma dell’agosto 2014: sono state istituite cioè le soprintendenze uniche (‘Archeo-logia, Belle Arti e Paesaggio’). Perché? Innanzitutto per una ragione culturale: s’integrano competenze prima frammen-tate affermando una visione organica, unitaria, globale, oli-stica del patrimonio culturale, che tutti ormai concordemente considerano un insieme organico, diffuso in tutto il territorio italiano. Ebbene, solo un approccio globale e integrato, real-mente multi- e interdisciplinare, per così dire ‘territorialista’, può consentire di affrontare, nello studio come nella tutela, la complessità di un territorio. In questa visione è il paesag-gio a costituire l’elemento unificante e ad assumere un ruolo centrale nelle politiche di tutela e valorizzazione. Le nuove soprintendenze non negano le specializzazioni ma le inte-grano, prevedendo al loro interno vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni immateriali, educazione e ricerca. Si tratta di organismi di tutela radicati nei territori, più vicini alle comunità locali, in grado di parlare con una voce unica, in maniera più rapida, superando le precedenti sovrapposizioni, che tante volte hanno portato a pareri di-vergenti, a ritardi, a confusione, a tutto danno del cittadino, degli altri enti pubblici, oltre che del patrimonio.

I critici hanno fatto riferimento al problema del silenzio-as-senso introdotto dalla legge Madia. È una norma anche a mio parere sbagliata, ma è al tempo stesso necessario che uno Stato moderno dia risposte certe, univoche e rapide ai citta-dini, agli enti locali, alle imprese. Per far questo però servono personale preparato, risorse adeguate e mezzi efficienti: basti pensare che ancora oggi il nostro Paese non dispone ancora di un sistema informativo territoriale unico, capace di ge-

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stire un patrimonio enorme e diffuso, con una condivisione di informazioni tra Stato, Regioni, Enti locali e altri soggetti operanti sul territorio. Quanto, invece, al ruolo dei Prefetti previsto dalla stessa legge, sono state date assicurazioni che non interverranno nella sostanza delle decisioni relative ai beni culturali e che la loro funzione sarà di mero coordina-mento territoriale (è quanto avviene ad esempio in Francia da sempre). Il parere del Soprintendente, proprio perché unico, è più forte e autorevole. Bisogna, però, vigilare che così sia, ma si evitino anche in questo caso allarmismi e catastrofismi.

La soppressione delle soprintendenze archeologiche viene da alcuni interpretata come la fine dell’archeologia, la morte della tutela archeologica. L’archeologia in realtà è presente in tutte le 39 soprintendenze. È cresciuto il numero di musei e parchi archeologici, da Paestum a Ercolano, dai Campi Flegrei all’Appia e a villa Adriana, dal Museo Nazionale Romano ai musei archeologici di Villa Giulia, di Taranto, Reggio Cala-bria, Napoli, da Pompei al Colosseo, oltre alla Soprintendenza speciale di Roma. L’idea che il patrimonio archeologico possa essere distinto da quello architettonico, artistico e soprattutto da quello paesaggistico, è metodologicamente insostenibile. Cosa c’è di ‘pericoloso’ per gli archeologi nel lavorare fianco a fianco con architetti, storici dell’arte, demoantropologi? Bi-sognerebbe anzi prevedere altre competenze specialistiche: geologi, bioarcheologi, archeometristi, restauratori, informa-tici, ingegneri, economisti della cultura, esperti di comuni-cazione, etc. Nuove e stimolanti sfide si sono aperte per gli archeologi, che possono mettere i loro metodi a disposizione delle altre discipline per una tutela integrale e organica del patrimonio culturale. Inoltre presso il MiBAC è stato istituito l’Istituto Centrale per l’Archeologia, concepito come luogo di sperimentazione e di supporto tecnico-scientifico all’attività delle soprintendenze (e spero anche delle missioni italiane

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all’estero), in collaborazione con le università e il CNR. Una struttura da anni invocata che dovrà favorire un innalzamen-to della qualità media della ricerca archeologica sul campo. Sempre che sia dotata delle competenze e dei mezzi necessari e non resti solo una sigla.

C’è chi sostiene (ma è un’autentica falsità) che le soprinten-denze uniche sono dirette prevalentemente da architetti che – a detta dei critici, non senza un po’ di corporativismo – non sarebbero in grado di comprendere la ‘specificità’ del bene archeologico. È un argomento debole e pretestuoso. Al vertice delle nuove soprintendenze in realtà ci sono archeologi, ar-chitetti, storici dell’arte: il loro compito consiste nell’avvalersi di tutte le competenze e coordinarle in una tutela unitaria del territorio. Semmai sarebbe necessaria un’azione di formazio-ne dei soprintendenti – al momento del tutto impreparati – per far fronte alle nuove funzioni. Un compito che potrebbe e dovrebbe svolgere la nuova Scuola Nazionale del Patrimonio.

Alcune delle preoccupazioni avanzate da varie parti sono fondate e condivisibili. Si temono i problemi provocati da un nuovo scossone organizzativo su un organismo ormai debilitato, con personale molto invecchiato (l’età media, prima dell’immissione dei nuovi funzionari, era ormai peri-colosamente vicina a 60 anni), demotivato e privo di mezzi e strumenti operativi. I problemi logistici di riorganizzazio-ne di uffici, archivi, inventari (anche a causa di gravi ritardi nella digitalizzazione) sono gravi, ma tutti risolvibili se c’è la volontà. Quanto al personale e alle risorse, come ignorare che una svolta è stata realizzata? Il concorso per 1.000 (per la precisione gli assunti sono stati 1.116) nuovi funzionari tecnico-scientifici ha rappresentato una boccata d’ossigeno: i nuovi assunti, tutti molto preparati e dotati di qualificati titoli accademici, hanno portato una ventata di aria nuova, fresca, in strutture stanche. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

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Bisognerà ora proseguire su questa strada, possibilmente con un turn-over continuo, annuale. Anche se siamo ancora lonta-ni da un finanziamento adeguato dei beni culturali, le risorse sono tornate a crescere. È indubbio, però, che difficilmente si sarebbero ottenuti nuovi posti e risorse senza una profonda riforma del sistema.

Anch’io non nascondo alcune perplessità. Ritengo che sa-rebbe stato preferibile realizzare questa riforma in un unico momento nel 2014. In quell’occasione avevo proposto l’isti-tuzione di soprintendenze/direzioni uniche regionali, arti-colate all’interno in settori/dipartimenti specialistici (come quelli appena introdotti), comprendendo anche il polo muse-ale regionale, e distribuite territorialmente in centri operativi unici. Ma quella proposta non fu pienamente compresa e fu unanimemente contrastata, anche da chi oggi sostiene che sarebbe stata la soluzione migliore.

Servizi essenziali e non più solo aggiuntivi

La vera rivoluzione nel campo dei beni culturali consi-ste nella necessità di porre il cittadino, il visitatore, il turista al centro dell’attenzione. Si pensi, a tale proposito, ai nostri musei, ai parchi archeologici e ai luoghi della cultura, ancora troppo spesso poco ospitali e privi di servizi essenziali (non a caso ancora oggi definiti ‘aggiuntivi’) e di supporti didattici adeguati, che provocano spesso nel visitatore un senso di inadeguatezza e di spaesamento.

Vengono alla mente le parole, come sempre forti e chiare, riservate ai musei da papa Francesco, quando ha affermato che i musei devono essere organismi vivi, aperti, non riservati solo agli ‘eletti’ e ai ‘sapienti’ 2. Lo stesso papa Francesco in

2  Bergoglio 2015.

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una udienza (9 settembre 2015) aveva detto: «Le chiese, le parrocchie, le istituzioni, con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei!». Sono paro-le dure, che segnano l’abissale distanza che separa, anche nell’immaginario collettivo, un museo da un luogo aperto, piacevole, divertente. A questo puntano la creazione di un sistema museale nazionale, l’attribuzione di autonomia a una serie di grandi musei, l’istituzione dei poli museali regionali: per cambiare l’idea stessa di museo e per contribuire al mi-glioramento della qualità della vita.

Più Stato e più privato

Altra contrapposizione ormai anacronistica è quella tra pub-blico e privato: si tratta di un falso problema, perché il reale conflitto è tra interesse privato e interesse pubblico. Non c’è dubbio che quest’ultimo vada sempre difeso e garantito, an-che quando la gestione dovesse essere affidata a privati. Non si tratta, quindi, di chiedere meno Stato e più privato, ma, al contrario, più Stato e più privato. Con uno Stato (ma lo stesso vale per Regioni e Comuni) che non deroghi ai propri doveri, ma che svolga soprattutto una funzione di indirizzo, di con-trollo, di valutazione, fissando regole trasparenti e facendole rispettare. Si tratta, cioè, di abbandonare definitivamente quel-la pericolosa concezione ‘proprietaria’, che è alla base anche di un vero conflitto di interesse tra indirizzo-controllo e gestione, ancora oggi nelle stesse mani, e di favorire le tante energie e creatività presenti nei vari territori, sostenere la nascita e il consolidamento di mille iniziative diverse, indirizzandole, coordinandole, monitorandole. Sarebbe questo un modo per far sviluppare numerose nuove occasioni di lavoro qualificato, in particolare per i tanti giovani formati nelle Università, con indubbi vantaggi anche per lo sviluppo di un vero turismo

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culturale, oggi assai poco organizzato e strutturato, che rap-presenta indubbiamente uno dei principali assi di sviluppo del nostro Paese, e in particolare delle regioni del Mezzogiorno.

Questa visione, profondamente innovatrice, è coerente con le principali tendenze internazionali in materia di beni culturali, a partire dalla rivoluzionaria Convenzione di Faro. Un bravo economista della cultura, Massimo Montella, ha sottolineato come tale Convenzione indichi il diritto, indivi-duale e collettivo, «a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento» e renda esplicita la necessi-tà che l’eredità culturale sia finalizzata all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...». Pertanto «l‘idea di patrimonio culturale proposta a Faro postula un valore che è d’uso e vede nella valorizzazione il fine e la premessa della tutela, perché il patrimonio culturale deve essere finalizzato ad elevare la qualità di vita immateriale e materiale delle persone e perché non potrà essere conservato contro la volon-tà della collettività. Non contrappone, dunque, economia e cultura, ma le ritiene anzi convergenti e coincidenti perfino» 3.

Come ha opportunamente sostenuto di recente Daniele Manacorda, si passa, finalmente, dal ‘diritto dei beni cultu-rali’ al ‘diritto ai beni culturali’ 4. Si archivia, infatti, l’idea del ‘valore in sé’, statica, immobile e immodificabile, del patri-monio culturale, per proporre un’idea di ‘valore relazionale’.

Franceschini ha più volte ricordato negli anni scorsi quanto ebbe a dire assumendo l’incarico il giorno del giuramento al Quirinale, il 22 febbraio 2014: che sentiva, cioè, la responsabilità di assumere la guida «del più importante Ministero economico

3  Montella 2016b.4  Manacorda 2016a.

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d’Italia». Cosa significa? Mercificare la cultura, svalutandone la purezza? Svendere il patrimonio culturale? Nient’affatto! Come ho già avuto modo di precisare in altra sede, significa, semmai «finalmente evidenziare la centralità che i beni cultu-rali e il paesaggio devono assumere nelle strategie del Paese per costruire nuove e diverse forme di sviluppo, per creare lavoro di qualità, per far sentire a tutti i cittadini, e non solo a una ristretta élite, che con la cultura si può anche mangiare. E anche per riconquistare un ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo» 5.

Verso il terzo millennio

Aggiustamenti, miglioramenti e completamenti sono ne-cessari, per esempio, con un rapporto più stretto e integrato sia tra soprintendenze e poli museali sia tra istituti del MiBAC e università. Il vero riformismo produce riforme progressive, anche imperfette, bisognose di aggiustamenti successivi. La riforma perfetta è quella che non si realizza mai! Ma più che le sole norme e strutture organizzative è necessario riformare la mentalità.

C’è da augurarsi, in conclusione, che nei prossimi mesi non si smantelli quanto realizzato negli scorsi anni, che non s’i-gnorino le critiche fondate, che si sviluppi un confronto, che si avanzino proposte concrete per una migliore applicazione delle riforme, e soprattutto che si abbattano le barricate e si eviti finalmente la criminalizzazione di chi la pensa in modo diverso.

C’è bisogno dell’impegno di tutti per entrare nelle politiche del patrimonio culturale del terzo millennio.

5  Volpe 2015a, 68.

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Fin dalle prime pagine di Eredità storica e democrazia, il re-cente densissimo libro di Carlo Pavolini 1, l’Autore dichiara apertamente e chiaramente la propria posizione: «ho soste-nuto e sostengo la linea della Soprintendenza territoriale unica, opzione che ritengo tutt’altro che marginale, mentre critico quasi tutto il resto dei provvedimenti Franceschini e Madia in materia di patrimonio, e molto dell’ideologia che vi è implicita» (p. 5). Parto con questa dichiarazione dell’Autore perché vorrei innanzitutto mettere in forte evidenza questo aspetto: l’onestà assoluta di Carlo Pavolini, che gioca a carte scoperte, dichiara esplicitamente le proprie posizioni, discute con curiosità, interesse, rispetto e reale voglia di confronto e di comprensione delle idee altrui, senza pregiudizi, sia rico-noscendo aspetti positivi sia indicando e criticando, anche duramente, gli aspetti ritenuti negativi.

Pavolini non ritiene di avere la verità in tasca, non ha cer-tezze dogmatiche, e soprattutto non giudica chi la pensa di-versamente come un traditore, un venduto, un mercificatore.

Questo libro affianca analisi molto approfondite a proposte di modifica delle riforme, critiche anche dure a un’autocritica altrettanto severa, posizioni nette e convinte a dubbi e incer-tezze. In qualche modo Pavolini si candida a rappresentare una posizione intermedia, una sorta di terza via, un ponte,

*  Versione ridotta e rivista di quella edita: Patrimonio culturale, riforme e democrazia. A proposito di un libro recente, in Archeologia Medievale, XLIV, 2017, 399-403. Le riflessioni riprendono quanto ho esposto in occasione della presentazione del libro a Roma, Palazzo Altemps, il 12 luglio 2017.

1  Pavolini 2017.

UN DIALOGO SU PATRIMONIO CULTURALE,RIFORME E DEMOCRAZIA

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anche se il pilone delle critiche è ben più robusto di quello della condivisione delle riforme.

È un libro sincero e, come forse in tutti i libri sinceri, in esso c’è tutto l’Autore. Un libro complesso che non ama le semplificazioni, un po’ lungo (per stessa ammissione dell’A. a p. 2) e in alcuni passaggi alquanto tortuoso nelle sue, a volte, sofferte riflessioni. Un libro che si rivolge agli specialisti e che difficilmente potrà andare in mano ai cd. ‘non addetti ai la-vori’, perché affronta questioni specifiche e tecniche. Pavolini sembra aver scelto come interlocutori i due fronti contrap-posti degli specialisti, quello, in verità alquanto ridotto, dei favorevoli e quello, certamente più numeroso, dei contrari. Io stesso 2, come Daniele Manacorda 3, sono tra gli interlo-cutori privilegiati nel confronto dialettico e di questo sono non solo onorato ma anche molto grato a Pavolini. Come lui stesso scrive «sono numerosi i punti di convergenza e forse di più quelli di dissenso, che naturalmente lasciano inalterati l’affetto e la stima, rafforzati, anzi, dalle tante e anche accese discussioni».

C’è però un aspetto da non sottovalutare, sul quale anzi inviterei a riflettere; un aspetto di cui mi sono andato ren-dendo sempre più conto grazie alla mia esperienza diretta in questi ultimi anni in giro per l’Italia per discutere dei miei due recenti libri su questi stessi temi: quando si esce dalla ristretta cerchia degli specialisti, i rapporti tra favorevoli e critici si invertono enormemente, perché il numero di am-ministratori locali, di professionisti, di persone impegnate nell’associazionismo culturale e di semplici cittadini che sa-lutano con soddisfazione i cambiamenti è altissimo. Si coglie

2  Volpe 2015a e 2016a.3  Manacorda 2014a. Cfr. anche Id. 2018a e 2018b.

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Un dialogo su patrimonio culturale, riforme e democrazia 55

in giro nel Paese finalmente una speranza, una volontà di mettersi in gioco, un entusiasmo, insieme a tante capacità, a molta voglia di fare. Si rende necessaria quindi anche una riflessione capace di guardare al 99% della società e non solo all’1% dei professori e dei funzionari. Insomma dovremmo tutti imparare a guardare al patrimonio culturale anche con gli occhi degli utenti, dei visitatori, dei cittadini normali. Que-sto non è populismo. Non significa inseguire quello che vuole la gente. Significa saper uscire dai fortini autoreferenziali e parlare con le persone normali (cosa che pone anche un serio problema di comunicazione), con le associazioni di base, con i tanti professionisti del patrimonio culturale abbandonati a sé stessi e spesso non garantiti e sfruttati, con i cittadini.

Confesso che girando il Paese, pur non nascondendomi mai le tante cose che non vanno, acquisisco più speranza e ottimismo, perché in Italia c’è un patrimonio straordinario di competenze, di passioni, di voglia di fare, che lascia ben sperare.

Entro nel merito dei tanti argomenti trattati, o almeno in alcuni di essi. Mi soffermerò in particolare su: 1. Soprinten-denza territoriale unica; 2. Musei; 3. Libero accesso e libertà della ricerca; 4. Tutela e valorizzazione; 5. Tra critica e au-tocritica.

1. Soprintendenza territoriale unica. È il punto su cui c’è piena condivisione tra di noi. Del resto la proposta della so-printendenza unica Pavolini l’aveva formalizzata già vent’an-ni fa, quasi nell’indifferenza totale 4 – se si escludono poche

4  Pavolini 1996.

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eccezioni, come quelle di Manacorda 5, Carandini 6, Brogiolo 7 – e senza che sortisse alcuno sviluppo. Il mio piccolo merito sta nell’averla recuperata e rilanciata, trovando interesse nel ministro Franceschini che ha accettato di attuare tale proposta con il DM del gennaio 2016, dopo quella prima parziale ag-gregazione prevista nel DPCM 171 del 2014 8. Pavolini, però, pur condividendo il progetto politico-culturale, manifesta preoccupazioni per l’attuazione del progetto. Una preoccupa-zione da me condivisa anche se per motivi un po’ diversi dai suoi: l’attuazione sta riscontrando vari problemi certamente per la mancanza di personale (nonostante l’immissione di oltre 1.000 nuovi funzionari) e di mezzi, ma soprattutto per l’incapacità, maturata nei decenni, al lavoro interdisciplinare, per la stanchezza di un personale mediamente molto anziano e ormai vicino alla pensione, poco disponibile a cambiamenti rispetto a quanto ha sempre fatto, ma anche per la quasi totale mancanza di un indirizzo da parte delle Direzioni Generali centrali e per la diffusa impreparazione dei soprintendenti a svolgere un ruolo nuovo: una funzione di coordinamento che vada al di là della propria specifica competenza discipli-nare. Il problema non è, quindi, nella diversa percentuale tra architetti (21=52,5%), storici dell’arte (7=17,5%) e archeologi (12=30%) nella direzione delle soprintendenze (non ci sono più soprintendenti archeologi e storici dell’arte e questo non dipende certo dalle recenti riforme), che rischia di riproporre inevitabilmente una visione alquanto corporativa. Certo gli archeologi hanno (o dovrebbero avere) un approccio mag-giormente contestuale, ma non possiamo mica pensare che i

5  Manacorda 2014a.6  Carandini 2016.7  Brogiolo 1997; Id. 2013.8  Volpe 2016b.

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soprintendenti unici possano essere tutti archeologi. Il vero tema riguarda la definizione della nuova funzione dei so-printendenti olistici, che paragonerei al ruolo di un direttore d’orchestra o di un direttore sanitario, rispettivamente un musicista e un medico che svolgono nel loro ruolo una funzio-ne diversa dal singolo specialista, cioè di coordinamento e di armonizzazione tra i vari specialismi. Questo tema richiama anche un problema di formazione universitaria e postuni-versitaria. Non sono, invece, d’accordo con Pavolini nella sua sottovalutazione dei problemi relativi alla revisione della spesa, al ruolo della Corte dei Conti, ai mille impedimenti della burocrazia che blocca ogni tentativo di riforma. Allora sarebbe stato meglio non fare nulla? Insomma, come scrive Pavolini, «non si sarebbe dovuto mettere in campo una rior-ganizzazione di questo genere» (p. 43) senza disporre delle risorse necessarie? «Proprio per questo - mentre si procedeva con tanta fretta (e perché tanta fretta?) alla riorganizzazione – ci si doveva preoccupare degli aggiustamenti necessari per evitare ostacoli di tal genere, in modo che ne uscisse fuori un quadro più armonico» (p. 39). Ma chiedo: tre anni spesi per progettare queste riforme possono essere considerati sinoni-mo di fretta? In un mondo in cui tutto cambia rapidamente, mentre l’Italia è ferma da decenni? In un paese nel quale i 27 ministri dei Beni Culturali dal 1975 ad oggi sono durati me-diamente 1,6 anni? È pensabile che si possano prima ottenere le risorse, in una fase ancora di crisi economica, fare i concorsi per migliaia di posti, sviluppare un confronto con i sindacati, il personale, le associazioni, ecc. creare un largo consenso in Parlamento e nel Paese, e solo dopo fare le riforme? È un processo molto bello teoricamente, ma privo di concretezza e di consapevolezza dei tempi della politica. Sono d’accordo sulla necessità di un maggiore confronto: ma il confronto è possibile se entrambe le parti hanno proposte, anche diverse

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ovviamente, ma condividono la necessità di un cambiamento. Altrimenti questo è il modo per non realizzare mai nessuna riforma, in attesa di tempi migliori. Praticamente quanto è successo nei decenni passati. Anch’io – lo ribadisco – avrei preferito un maggiore confronto, ma mi preme ricordare un paio di cose: a) prima delle riforme c’è stata una lunga fase di ascolto con i lavori della Commissione D’Alberti, i cui risultati sono stati tenuti in considerazione nelle riforme Franceschi-ni; b) non ricordo tanto dibattito sui Beni Culturali come in questi anni; negarlo sarebbe ingiusto; si ricorda qualcosa di analogo quando si elaborò e si promulgò il Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici?

La stragrande maggioranza degli oppositori delle rifor-me non condivide il progetto della soprintendenza unica, come sa bene anche Pavolini. Oggi Pavolini – diversamente da 20 anni fa – sostiene che sarebbe stato preferibile costitu-ire soprintendenze uniche a base regionale. Sono d’accordo con lui, anche se non mi sembrano del tutto prive di fonda-mento le obiezioni di chi – come Massimo Montella 9 – pre-ferisce l’assetto attuale con territori più ridotti e compatti. Però, quando nel 2014, cioè prima del DPCM 171, proposi esattamente questa soluzione, cioè soprintendenze uniche regionali articolate all’interno con i settori ora previsti nelle soprintendenze territoriali, includendo anche i poli museali regionali, nessuno sostenne questa proposta, rifiutata sde-gnosamente dai soprintendenti, soprattutto gli archeologi. Ognuno badava al proprio interesse particolare, senza che emergesse alcuna proposta, che non fosse il mantenimento della stessa situazione precedente (sia pur da tutti ritenuta insoddisfacente), con le solite richieste di personale e mezzi

9  Montella 2016c.

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finanziari. Tale incapacità di contribuire alla costruzione di nuove e più efficaci forme di tutela olistica del patrimonio ha rappresentato e rappresenta un ostacolo per ogni riforma. E in generale non mi sono note tuttora proposte alternative che non siano il ritorno alle soprintendenze settoriali e disci-plinari. Ma su questo tornerò fra poco.

2. Musei. In questo caso c’è una parziale diversità di vedute tra me e Pavolini, che pare preferire il vecchio sistema dei musei come uffici delle soprintendenze: l’Italia come museo diffuso (e qui rinvio alla opportuna critica di Andrea Carandi-ni sul concetto di museo diffuso nel suo recente libro La forza del contesto) 10 e la presunta rottura del rapporto tra musei e territorio. Faccio notare che prima del dicembre 2014 il nostro Paese non aveva nemmeno una legge specifica sui musei, che si ispirasse ai principi dell’ICOM, e meno che mai un progetto di sistema museale nazionale, e non aveva di fatto nemmeno veri e propri parchi archeologici. Mi chiedo se sia possibile pensare di poter tornare a gestire, come hanno fatto con veri e propri miracoli e grande spirito di abnegazione tanti bravi funzionari, che spesso avevano anche notevoli carichi di lavo-ro di tutela territoriale, i grandi musei e parchi archeologici, finalmente dotati di autonomia scientifica, amministrativa, gestionale, con Direttori, Consigli di Amministrazione e Co-mitati scientifici (sul cui funzionamento in alcuni casi possia-mo discutere, ma questo è un tema che tocca l’applicazione e non il modello), con le risorse che restano nelle casse di ogni museo e che alimentano un fondo di solidarietà (complessi-vamente circa 200 milioni che prima finivano nelle casse del MEF). Peraltro questo modello era previsto già nella relazione

10  Carandini 2017.

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della commissione D’Alberti, istituita dal ministro Massimo Bray (peccato che anche chi ha contribuito a quel lavoro poi ha violentemente attaccato le realizzazioni ispirate da quelle stesse proposte). Quanto alla separazione museo-territorio basterebbe fare un cenno a quanto abbiamo potuto riscontrare nella forte partecipazione di solidarietà ai direttori sospesi dal TAR da parte della cittadinanza di Napoli o di Taranto o di Reggio Calabria: quale dimostrazione migliore dell’apertura di questi musei alle città e alle comunità locali?

Questioni concrete riguardano il funzionamento dei ma-gazzini, i depositi dei materiali di scavo, degli archivi, delle biblioteche, dei laboratori: ma sono questioni pratiche risolvi-bilissime se solo ci fosse più capacità di collaborazione e una minore tendenza a erigere muri e a stendere filo spinato intorno al proprio territorio o al proprio museo, figli di una concezione proprietaria del patrimonio che è all’origine di tanti guasti.

Pavolini denuncia ‘la contraddizione clamorosa, lampante’ che sarebbe sfuggita a sostenitori e critici delle riforme, quando afferma «proprio perché sono a favore delle Soprintendenze unificate mi schiero contro la separazione dei musei dal territo-rio» (p. 89). Qui, però, mi tocca precisare che la visione olistica del patrimonio non coincide necessariamente con l’attribu-zione alla stessa persona di tutte le funzioni della complessa filiera del patrimonio culturale. Il sistema deve essere unitario, organico, coordinato (e infatti fino a prova contraria è tutto nelle mani dello stesso ministero), ma le varie attività possono, anzi devono, coinvolgere figure diverse, professionalità di-verse. Lascio da parte le anomalie e le incongruenze di alcune soluzioni denunciate da Pavolini (es. il caso di Cosa), che sono relative ad evidenti errori da correggere.

Anch’io sono convinto che il punto più debole della riforma sia rappresentato dai Poli museali regionali, ma per motivi diversi da quelli indicati da Pavolini e non solo per le evidenti

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carenze di personale e mezzi: soprattutto perché, a mio pare-re, non è stato colto appieno il senso di tali strutture, che non dovrebbero occuparsi necessariamente della gestione diretta di tutti i musei e aree archeologiche loro affidati ma dovreb-bero dar vita a sistemi museali regionali integrati con i musei civici, diocesani, privati, sperimentando anche forme di ge-stione innovativa con il coinvolgimento di professionisti dei Beni culturali, di fondazioni, di associazioni del terzo settore (spesso fraintesa con il volontariato, mentre si tratta di una forma sociale di impresa culturale): sono grato a Pavolini per aver ampiamente ripreso i casi di gestione da me illustrati nel mio recente libro 11.

Tornando ai grandi musei autonomi, personalmente ritengo che ciò che andrebbe aumentata è proprio l’autonomia, estesa anche alla gestione del personale. Autonomia, responsabilità e valutazione sono, a mio parere, le parole chiave. Finché anche le soprintendenze e tutti gli istituti della tutela e della valo-rizzazione e non solo i trentadue grandi musei non saranno dotati di piena autonomia amministrativa e gestionale (come è successo per le università) sarà difficile anche effettuare una valutazione affidabile di strutture e persone, premiando e in-centivando le buone pratiche e correggendo gli errori.

3. Libero accesso. È un altro tema su cui c’è pieno accordo tra noi. Un aspetto assai poco valorizzato e mai (dico mai) toccato dagli oppositori, quasi che si tratti di una questione minore, di contorno.

Eppure la liberalizzazione delle immagini è conquista re-cente, e non ancora completa perché contrastata da ambienti ministeriali e non solo. Solo ricorrendo al Ddl concorrenza è stato possibile estendere la liberalizzazione delle immagini

11  Volpe 2016a.

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anche ai beni bibliografici e archivistici. Non ne parla quasi nessuno e non ho mai visto cenni a questi temi nelle piatta-forme delle varie emergenze cultura che si richiamano all’art. 9 della Costituzione, evidentemente perché il primo comma di quell’articolo («promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») o l’art. 33 paiono molto meno importanti.

4. Tutela e valorizzazione. Qui Pavolini sviluppa una ri-flessione basata su un recupero delle categorie marxiane di valore d’uso e valore di scambio, che pare alquanto convin-cente, se fosse, dal mio punto di vista, un po’ liberata da un approccio eccessivamente pedagogico e da una visione tipica di certi studiosi, quando, affermando, giustamente, che i musei dovrebbero essere luoghi di trasmissione della memoria storica, propone una serie di distinguo sulle forme di gestione e sulle attività ‘proprie’ o ‘improprie’. Pur non invocando la rinascita di una sorta di Commissione Cultura del PCUS o di MinCulPop o lo Stato etico di Gentile, Pavolini esprime molte perplessità sull’allestimento di un’opera di prosa o di un concerto in un teatro antico e avanza molto più che perplessità (esprime in tal caso «aperta riserva», p. 166) per attività che a me paiono molto intelligenti e utili come quella degli aperitivi archeologici, inventati da un giovane archeologo romano che riesce a far conoscere a tanti cittadini e visitatori pezzi poco noti della città, dando opportunità di lavoro a vari giovani archeologi. Oppure l’Archeodromo di Poggibonsi, sul quale – o meglio in generale sulla categoria degli archeodromi -– Pavolini sembra esprimere molti dubbi.

Inevitabile il riferimento al caso del palco per l’opera rock su Nerone allestito sul Palatino. Anch’io l’ho considerato un errore e solo in maniera strumentale si possono mettere in relazione errori di questo tipo – non infrequenti anche in passato – con le riforme. In questo come in altri casi la di-

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scriminante vera è legata al rischio di danneggiamento o alle eventuali limitazioni nella normale fruizione da parte dei visitatori. Non condivido, invece, la posizione di chi critica il tipo di spettacolo, non senza un certo snobismo, per cui in un’area archeologica un concerto di musica classica andreb-be bene ma non un concerto rock, un quartetto d’archi sì, la musica leggera no.

Credo, invece, che vada sottolineata la necessità di un pre-ciso progetto culturale. Il Direttore e il Comitato scientifico di un parco o di un museo non sono e non dovrebbero essere una sorta di commissione di censura, ma dovrebbero avere il com-pito di definire un progetto scientifico e culturale e una strate-gia comunicativa, che dovrebbe garantire la qualità tanto del percorso espositivo quanto delle attività culturali organizzate e/o ospitate, e anche dei cd. ‘servizi aggiuntivi’, dal bookshop alla caffetteria e al ristorante. Perché ci scandalizziamo per un palco temporaneo e non per dei bagni indecenti, provvi-sori da decenni, o per un ristorante con cibi autostradali o da centro commerciale? Anche l’eccessivo ‘allargamento’ di certi gestori dei servizi aggiuntivi, che di fatto si sono sosti-tuti ai Direttori anche nella programmazione culturale, come giustamente denuncia Pavolini, non è forse legato a quella maniera di concepire e gestire i musei che proprio con le riforme si cerca profondamente di modificare, attribuendo questa funzione ai Direttori e ai Comitati scientifici?

Non posso non essere d’accordo con Pavolini quando scri-ve: «A mio avviso, infatti, l’unica reale ripresa di possesso di questi spazi da parte della ‘gente’ si ottiene mediante l’attiva-zione degli spazi stessi come sedi di trasmissione della memo-ria storica: altrimenti la gente, la cittadinanza, potrà entrarvi fisicamente, ma non lo possiederà davvero culturalmente, e dunque non sarà garantita un’effettiva crescita civile e de-mocratica della popolazione a partire dal patrimonio, benché

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esso sia naturaliter di sua proprietà. Non vedo scorciatoie, se non illusorie: e in tale illusorietà risiede il carattere populista, magari inconscio, delle proposte cui ho accennato» (p. 169). Quest’ultima considerazione, però, non mi vede affatto d’ac-cordo. Perché non credo che un luogo della cultura non possa e non debba essere multifunzionale, conoscendo molte altre forme di fruizione, di ‘uso’: perché in un museo o in un parco archeologico dovrebbe essere proibito anche solo trascorrere del tempo serenamente, leggere un libro o un giornale, chiac-chierare con un amico, sorseggiare un caffè? E poi: perché dovremmo pensare che la «vecchia cara formula della visita guidata» (p. 167) o le guide archeologiche Laterza, i pannelli e le didascalie possano e debbano essere le uniche forme per garantire una ‘corretta’ trasmissione della memoria storica? Sono, invece, convinto che oggi sia necessario sperimentare molte nuove formule comunicative – e gli aperitivi archeo-logici e gli archeodromi sono solo alcune tra quelle possibili – per ampliare la cerchia, finora assai ristretta, dei fruitori del patrimonio, ovviamente sempre e solo sulla base di solidi progetti culturali, uscendo da una logica oggettivamente ari-stocratica del patrimonio culturale. Per questo nella legge sui musei del 2014 si sottolinea che le funzioni di un museo sono sì di educazione e di studio, ma anche di ‘diletto’: devono favorire cioè il piacere della conoscenza e il miglioramento della qualità della vita. E soprattutto devono mettere al centro delle loro strategie le persone, i visitatori, i bambini.

5. Tra critica e autocritica. Non nascondo che la parte che ho maggiormente apprezzato del libro è il Capitolo V. In cerca di una politica, nel quale Pavolini propone una sintesi, con-fermando di essere all’80% contrario alle riforme, ma rim-proverando anche al fronte avverso la mancata condivisione della parte che lui apprezza maggiormente, la Soprintendenza

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unica. «Impegnato com’era ad attaccare indiscriminatamente l’intera riforma comprese le Soprintendenze uniche - il movi-mento si è autoescluso dalla possibilità di guidare e di orienta-re le modalità di costituzione e di avvio dei nuovi uffici» (pp. 220-221). Ma la parte più stimolante è – a mio parere – nella riflessione sui motivi che hanno impedito per alcuni decenni l’elaborazione di proposte di riforma del sistema dei Beni Cul-turali anche a quella parte politica e culturale nella quale l’A. si riconosce: la dominanza della 1089! «All’impianto incentrato sulla 1089 aderì senza remore, quasi naturaliter, la generalità dei funzionari amministrativi e tecnico-scientifici – archeologi, storici dell’arte, architetti – del Ministero della PI (poi dei BC): persone che in parte erano sicuramente orientate a sinistra o erano iscritte al PCI, ma in molti casi simpatizzavano per altre formazioni, oppure non avevano alcuna precisa affiliazione ideologica» (p. 224). Effettivamente, come ha sottolineato un profondo conoscitore del ministero, R. Cecchi 12, nonostante le tante riforme tentate negli ultimi decenni, l’impianto cul-turale è sempre rimasto inalterato, bloccato alle norme degli inizi del Novecento e in particolare alla 1089. Quella legge è stato uno strumento straordinario per cercare di bloccare distruzioni e speculazioni, ma ha anche impedito l’affermarsi di una idea diversa di tutela, più basata sulla progettazione e sulle regole di trasformazione e meno sui divieti e sui soli vincoli, su una politica poliziesca e spesso punitiva. «Il ceto dei funzionari ha infatti trovato nel modello centralistico, di-fensivo, vincolistico, in una parola ‘passivo’ della 1089 anche un alibi per non approfondire più di tanto le cose che non andavano nell’assetto del Ministero e nei meccanismi della tutela, per non avanzare proposte di modifica e di riforma» (p.

12  Cecchi 2015.

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226). Insomma si è affermata una «sorta di pigrizia culturale e psicologica, non ceto fisica» (p. 226). Di qui le resistenze verso ogni forma di innovazione, metodologica più che tecnologica, la chiusura verso l’esterno, e anche verso Regioni e Enti Lo-cali; di qui la tendenza per «gli uffici di tutela ad intervenire sempre ex post, al coperto della legge 1089»; di qui anche il diffondersi nella società di «una sorda e diffusa ostilità contro le Soprintendenze, viste come un potere incomprensibile, lon-tano, nemico e capace solo di bloccare ogni iniziativa» (p. 229). Anche per questo c’è un ritardo innanzitutto culturale per l’elaborazione dei Piani Paesaggistici Regionali, che rappre-sentano una nuova maniera di intendere la tutela, attraverso la conoscenza approfondita dei territori, la pianificazione, i progetti di trasformazione sostenibile, la partecipazione e la condivisione delle scelte.

Mi sembra questa un’analisi critica e autocritica spietata ma anche molto coraggiosa, onesta, che invita tutti ad una profonda riflessione.

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Nel 2016, a un anno e mezzo dall’avvio della profonda riforma del MiBACT-Ministero dei Beni e delle Attività Cul-turali e del Turismo, voluta dal ministro Dario Franceschini, siamo entrati nella seconda fase di tale radicale processo di cambiamento della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale nel nostro Paese.

Sono nate le soprintendenze ‘Archeologia, Belle Arti e Pae-saggio’, estendendo a tutta l’Italia il modello della soprinten-denza unica, che tempo fa era stato sperimentato in alcune piccole regioni (come il Molise) e che è da anni adottato in Sicilia.

Personalmente considero questa la risposta migliore, più innovativa dal punto di vista metodologico e più efficace dal punto di vista operativo, per realizzare il definitivo supera-mento della frammentazione. Pensiamo, ad esempio, ai centri storici o ai paesaggi stratificati della Daunia: com’è possibile conoscerli, tutelarli, valorizzarli, se non con un approccio globale e integrato, realmente multi- e interdisciplinare? Basti pensare che nella Carta dei Beni Culturali della Puglia per la sola provincia di Foggia abbiamo censito oltre 5.000 beni, senza considerare quelli mobili, che costituiscono non più del 10-20% di quelli realmente esistenti nel territorio ma non ancora noti.

Per affrontare la complessità del patrimonio culturale le nuove soprintendenze sono articolate al loro interno in vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni

SOPRINTENDENZE PIÙ VICINE AI TERRITORI:IL CASO DELLA DAUNIA

* Versione rivista del mio articolo Soprintendenza, cosa cambia, in «La Gazzetta del Mezzogiorno, Capitanata», 30 gennaio 2016, 7.

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immateriali, educazione e ricerca, ognuno con un proprio responsabile.

In questo contesto si è formata la possibilità di istituire una Soprintendenza per le province di Foggia e BAT, con sede a Foggia, una delle tre soprintendenze previste in Puglia (con sedi a Lecce e Bari). Taranto, che ha ospitato da oltre un secolo la Soprintendenza archeologica, vede valorizzato il ruolo dell’importante Museo Nazionale, divenuto autonomo.

Si realizza, così, un obiettivo, un sogno, risalente a vari decenni fa, che anch’io ho vissuto da studente e neolaurea-to, quando negli anni Ottanta cominciavo i miei studi sulla Daunia: il mio pensiero non può non andare a Marina Mazzei, che quel sogno ha a lungo condiviso. Non era affatto scontato che la scelta ricadesse su Foggia, che non è mai stata sede di soprintendenza (pur avendo due uffici decentrati) ed è priva di strutture adeguate e personale, tanto che si pensava di lasciare a Bari la sede con la competenza anche per la Puglia settentrionale. Continuo a sperare che le autorità locali siano in grado di supportare questa possibilità mettendo a dispo-sizione un edificio in grado di ospitare una istituzione così importante. Gli argomenti a favore della scelta sono stati vari: la consistenza del patrimonio, l’ampiezza e l’articolazione del territorio, che richiedono un presidio sul posto, la presenza, infine, dell’Università, con un attivo settore di archeologia e beni culturali (che evidentemente pare apprezzato più altrove che localmente).

Anche per questo mi auguro che l’Università di Foggia ripensi l’improvvida e autolesionistica scelta della margina-lizzazione dell’archeologia e dell’intero comparto dei beni culturali realizzata negli ultimi cinque anni, e torni a rilanciare un ambito che fin dalla sua istituzione nel 1999 era stato consi-derato strategico per l’ateneo e per il territorio e che ha ricevu-to un importante supporto da questa decisione del MiBACT.

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Soprintendenze più vicine ai territori: il caso della Daunia 69

Auspico un ulteriore obiettivo delle riforme: un nuovo rapporto tra MiBACT e Università, con l’istituzione dei cd. ‘policlinici dei beni culturali’. Le sedi delle nuove soprinten-denze uniche coincidono in larga parte con sedi universitarie nelle quali sono attivi dipartimenti e corsi di Beni Culturali. Mi auguro, quindi, che si possa presto giungere a sperimenta-re un innovativo modello di cooperazione tra soprintendenze e università, a tutto vantaggio della formazione di qualificate figure professionali, di una tutela ancor più efficace e di una migliore valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale. La Puglia potrebbe candidarsi a sperimentare tale modello, anche grazie all’attivo sostegno della Regione. E anche Foggia avrebbe tutte le carte in regola per realizzare al meglio anche questo ulteriore importante obiettivo.

P.s. A due anni dall’istituzione, si deve onestamente ammettere che la situazione della Soprintendenza foggiana è ancora critica, soprattutto per quel che riguarda la sede, del tutto inadeguata; il per-sonale opera in tre strutture diverse, prive dei requisiti per svolgere al meglio le attività. Sono state assegnate alcune unità di personale tecnico-scientifico, ma anche sotto questo profilo la situazione è ancora insoddisfacente. Attualmente la Soprintendenza, dopo una fase di avviamento gestita con efficacia da Simonetta Bonomi, poi trasferita a dirigere al Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia, è affidata ad interim a una dirigente del servizio ispettivo del Mi-BAC, Maria Giulia Picchione. Anche l’auspicio di un rapporto più stretto e integrato tra Soprintendenza e Università è restato tale, mentre in una situazione come quella foggiana (ma praticamente dappertutto) forme di condivisione e integrazione (anche nell’uso di spazi, strutture, laboratori, biblioteche, oltre che di competenze, specializzazioni, ecc.) tra queste due diverse e complementari realtà culturali operanti nel territorio sarebbero non solo auspicabili ma – credo – assolutamente necessarie. Mi risulta anche che c’è chi al Ministero pensa che la soprintendenza di Foggia (insieme a poche

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altre in Italia) vada eliminata e accorpata ad altra sede. A mio parere sarebbe un grave errore. Ma lo è anche non dotare questa neonata soprintendenza, posta in un territorio così ricco di patrimonio cul-turale, di una sede, di personale e di mezzi adeguati e anche di un dirigente effettivo che se ne occupi a tempo pieno.

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Si sono concluse finalmente tutte le prese di servizio del concorso per l’assunzione di 1.116 nuovi tecnici al MiBAC. È una boccata di ossigeno preziosa, ma non sufficiente. A breve migliaia di funzionari fuoriusciranno per effetto di un pen-sionamento di massa, esito di assunzioni di massa effettuate agli inizi degli anni Ottanta (ricordate la famosa legge 285?). È stato questo uno dei tanti disastri nelle passate politiche italiane sul patrimonio culturale: considerare il Ministero dei Beni Culturali una sorta di luogo per assunzioni clientelari (soprattutto per i custodi; si ricorda ancora l’assunzione di 130 custodi in un colpo solo per un sito archeologico della Campania fatta da un ministro campano) e contrasto alla disoccupazione giovanile (legge 285, giacimenti culturali, ecc.), senza alcun criterio di programmazione e di valuta-zione. Situazioni che hanno portato ad esempio all’assun-zione di decine di bibliotecari in regioni prive di Biblioteche Nazionali: circostanza che ha impedito di assumere anche recentemente un maggior numero di bibliotecari lì dove sono assolutamente necessari a causa di tali squilibri del passato. Negli anni passati il MiBAC si è dotato finalmente di stru-menti di monitoraggio del personale e di programmazione. Sono ricominciate le assunzioni, oltre a maggiori investimenti (ancora insufficienti, è vero, ma certo molto superiori a quelli degli anni passati).

ASSUNZIONI, RISORSE E STABILITÀ:ECCO COSA SERVE ORA AI BENI CULTURALI

* Versione rivista di Assunzioni, risorse e stabilità: ecco cosa serve ora ai Beni Culturali, in Huffington Post, 28.2.2017, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/assunzioni-risorse-e-stabilita-ecco-cosa-serve-o-ra-ai-beni-culturali_b_15025172.html.

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È necessario ora dare forza e stabilità alle profonde riforme varate negli anni passati, con l’immissione di forze fresche, giovani, motivate, qualificate e con la disponibilità finalmen-te di maggiori mezzi e finanziamenti ordinari (e non solo straordinari). Contrariamente a quanto sostengono coloro che urlano all’emergenza cultura e indicano la stagione delle riforme come il peggior momento per il patrimonio cultura-le (ma, nonostante gli oggettivi problemi, i fatti dimostrano il contrario), invitando a smantellare le recenti riforme del MiBAC, servirebbero anni di stabilità e consolidamento. Un ritorno al passato non solo sarebbe deleterio dal punto di vista culturale, ma disastroso per il Ministero e per il patrimonio culturale italiano.

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Bisogna essere sempre felici quando si creano posti di la-voro e in particolare posti di lavoro nel settore del patrimonio culturale. Ma bisogna esserlo meno, se si stabiliscono percorsi preferenziali. La stabilizzazione non può valere solo per al-cuni, e solo perché si tratta di Pompei.

Sappiamo bene che la recente assunzione di 12 tecnici per il Grande progetto Pompei riguarda soprattutto architetti e ingegneri strutturisti (questi ultimi non previsti nell’ultimo grande concorso del Ministero), di cui c’è gran bisogno. Come sappiamo bene che alcuni dei 20 funzionari destinati anni fa a Pompei, dove hanno svolto un eccellente lavoro, sono nel frattempo andati via, in altre sedi, per cui queste nuove assunzioni integrano quelle lacune nel frattempo venutesi a creare. Capiamo tutto. Ma le regole devono essere uguali per tutti. Ci sono idonei in attesa di assunzione per lo scor-rimento degli oltre 1000 posti previsti. Ci sono altri idonei. E ci sono tanti altri professionisti, con grande competenza, che attendono altre opportunità.

Sarebbe bello (personalmente lo scrivo e lo sostengo da anni) se a tutte le strutture del MiBAC, e non solo ai grandi musei, si attribuisse – con una rigorosa azione di indirizzo, controllo e valutazione dal centro – una piena autonomia organizzativa e amministrativa, compresa la gestione del personale e la possibilità di curare il proprio reclutamento, in modo da assumere il personale con le competenze e le qua-

NO A PERCORSI PREFERENZIALINEI BENI CULTURALI

* Versione leggermente rivista di No a percorsi preferenziali nei beni culturali, in Huffington Post, 3.4.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/no-a-percorsi-preferenziali-nei-beni-cultura-li_a_23400501/?utm_hp_ref=it-homepage.

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lifiche di cui ogni struttura ha effettivamente necessità (invece dei mega-concorsi generalisti). Ma questa è tutt’altra cosa.

Vedremo cosa succederà nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Ma questa partita per il reclutamento di ulteriore per-sonale tecnico-scientifico, tecnico e amministrativo, con un ritmo regolare e con procedure più adeguate, è una partita im-portante, che dovrebbe vederci tutti dalla stessa parte, anche prescindendo dalle diverse valutazioni e posizioni assunte sulle riforme degli anni passati.

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Nel corso della scorsa campagna elettorale Luigi Di Maio ha tessuto le lodi del ministro Dario Franceschini per il lavoro svolto in questi ultimi anni nella riforma radicale del settore dei beni culturali. È stata una buona notizia. Certo l’apprez-zamento è stato parte della scelta di Di Maio di assumere in quella fase un atteggiamento diverso nei confronti del Pd e in particolare verso l’ala più disponibile al dialogo, di cui Franceschini era ed è esponente di punta.

L’ex ministro della Cultura è stato tra i pochi a ritenere possibile un accordo con il M5s. Messe da parte tutte le po-sizioni non particolarmente ‘simpatiche’ fino ad allora tenu-te dal movimento nei confronti del Pd, quella sarebbe stata una prospettiva necessaria anche per non gettare alle ortiche quanto di buono era stato fatto proprio dai governi a guida Pd. Ma soprattutto perché sarebbe stato utile per entrambe le forze politiche con una sorta di ‘do ut des’: per una nel mettere una cultura di governo di uomini che hanno dato buona prova (da Orlando a Minniti, da Calenda allo stesso Franceschini e a molti altri ancora) a disposizione di chi ha finora vissuto esperienze non proprio esaltanti nel governo delle città; per l’altra nel poter tentare di recuperare un rap-porto con la società e con buona parte dell’elettorato che ha scelto i 5 Stelle, sentendosi deluso e tradito, sperimentando anche nuove forme di far politica.

BONISOLI NON SMANTELLI LE RIFORMEDEL PATRIMONIO CULTURALE DI FRANCESCHINI

* Versione leggermente rivista e aggiornata di Di Maio non smantelli le riforme del patrimonio culturale di Franceschini, in Huffington Post, 9.4.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/di-maio-non-smantel-li-le-riforme-del-patrimonio-culturale-di-franceschini_a_23405877/.

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Ci sarebbe stato insomma da imparare e da insegnare da una parte e dall’altra. Ma erano passi che avrebbero richie-sto una grande dose di coraggio e di voglia di rimettersi in discussione, con umiltà e capacità autocritica. Doti alquanto rare in tempi dominati da esasperata autoreferenzialità e da incapacità di studio e riflessione.

Un caso esemplare è proprio quello del patrimonio cultu-rale. Cerco di spiegare perché, pur nella consapevolezza che per molti politici non rappresenti, purtroppo, una priorità. Ritengo, infatti, che le distanze siano molto meno inconci-liabili di quelle apparse finora. Per la verità il M5s ha avuto a tal proposito posizioni alquanto altalenanti, oscillanti tra un ritorno a un veterostatalismo, centralistico e burocratico e spinte ultraliberiste, com’è emerso nelle indicazioni, come possibili ministri, di personalità tra loro assai diverse, come Salvatore Settis o Tomaso Montanari, esponenti di una visio-ne assai ‘tradizionale’ di tutela, e Alberto Bonisoli, esperto di moda e management. Visioni evidentemente contrapposte e inconciliabili.

Andando nel concreto, mi chiedo, però, come possa un movimento che pone al centro la cittadinanza attiva, l’ini-ziativa dal basso, la partecipazione, contrapporsi a riforme come quelle delle soprintendenze, trasformate da settoriali a uniche a base territoriale, cioè con competenze sull’intero patrimonio culturale per poter affrontare una tutela organica e non più frammentata e per poter essere più vicine alle co-munità locali, parlando con una voce sola ai cittadini che fino a due anni fa avevano ben tre interlocutori diversi, spesso in contraddizione tra loro.

O la centralità attribuita al paesaggio con la Carta naziona-le del paesaggio, la spinta sui Piani paesaggistici regionali, la tutela che privilegi pianificazione territoriale e urbanistica.

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Bonisoli non smantelli le riforme di Franceschini 77

O la riforma dei musei, che attribuisce autonomia gestio-nale e organizzativa a alcuni musei e punta finalmente alla creazione di un sistema museale nazionale che metta in rete musei statali, regionali, provinciali, civici, diocesani, privati.

O le iniziative che puntano a creare maggiore occupazione per i giovani, l’avvio di nuovi concorsi, la crescita significativa dei fondi per la cultura, la sperimentazione di nuove forme di gestione con il coinvolgimento di associazioni e imprese del terzo settore, la maggiore collaborazione con il mondo dell’università, della ricerca e della scuola. Per non parlare dell’investimento nel turismo culturale e ambientale o del sostegno al cinema italiano. Si tratta di riforme epocali, le prime organiche dall’Unità d’Italia a oggi.

Un altro punto in comune sarebbe la ratifica, finalmente, della Convezione europea di Faro.

Ci sono molte cose che ancora non vanno bene, tanti sono i problemi irrisolti, ancora inadeguate solo le risorse, insuf-ficienti i mezzi, carente il personale tecnico e amministrati-vo. Ci sono stati anche alcuni errori (come evitarli quando si fanno vere riforme?) che andrebbero corretti. Ma la soluzione non sta certo nel ritorno alla situazione precedente il 2004, come pure era scritto nel programma elettorale del M5s.

Per questo, comunque vada a finire – la situazione è tal-mente difficile e confusa che è quasi impossibile oggi fare previsioni sul futuro, ora che il governo Lega-M5S è in attività da molti mesi – l’appello che bisogna nuovamente rivolgere al Ministro Bonisoli è a non smontare quanto realizzato dal ministro Franceschini negli anni scorsi, ma a proseguire sulla strada tracciata, semmai perfezionando e anche migliorando ulteriormente il nuovo sistema di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Un movimento che si è candidato a cambiare il paese non dovrebbe voler tornare indietro.

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Nell’audizione alle Commissioni parlamentari di Camera e Senato del neo-Ministro ai beni e alle attività culturali (e ora non più al turismo) Alberto Bonisoli ha illustrato le linee programmatiche cui intende ispirare il suo mandato. È ap-prezzabile che il nuovo Ministro abbia riconosciuto il grande lavoro svolto dal suo predecessore e precisato che intende proseguire sostanzialmente lungo il percorso già tracciato, ovviamente, e giustamente, con una serie di aggiustamen-ti e di correzioni necessarie per l’attuazione del complesso piano di riforme realizzato negli scorsi anni. È un impegno serio e impegnativo che credo – senza accettare cambiali in bianco ma anche senza pregiudizi – vada salutato con sod-disfazione. È soprattutto una dichiarazione di buon senso che pare smentire chi immaginava (e auspicava) l’azione di un demolitore, pronto a smantellare le recenti riforme. Nel campo del patrimonio culturale, quindi, il ‘governo del cam-biamento’ pare voler essere il ‘governo della continuità’ (e non certamente, cosa ancora più apprezzabile, il “governo della restaurazione”).

Mi preme soffermarmi su un impegno assunto dal Mi-nistro. Un piano eccezionale di assunzioni, con ben seimila nuovi posti. Se fosse effettivamente realizzato sarebbe un risultato davvero straordinario, se si considera che Dario Franceschini è riuscito, tra mille difficoltà, a portare a casa il risultato strepitoso di 500 (poi diventati 1.116, con le recenti

ASSUMERE PER I BENI CULTURALI È NECESSARIO, MA COME?

* Versione leggermente rivista di Assumere per i beni culturali è necessa-rio, ma come?, in Huffington Post, 12.7.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/assumere-per-i-beni-culturali-e-necessario-ma-co-me_a_23480333/?utm_hp_ref=it-homepage.

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prese di servizio) nuovi posti di personale tecnico-scientifico. Insomma un risultato sei volte superiore rispetto al suo pre-decessore, quello che si ripromette di conseguire il Ministro Bonisoli. Vedremo se tale impegno sarà mantenuto, tra i tanti, tutti molto costosi, assunti dal governo Conte, tra flat tax, reddito di cittadinanza, eliminazione della legge Fornero, ecc.

Che il Mibac abbia bisogno urgente di personale è fuori di dubbio. Servono tecnici-scientifici in un Ministero che avreb-be dovuto e dovrebbe caratterizzarsi proprio per il suo alto profilo tecnico. Servono anche, urgentemente, dirigenti: non ci sono più soprintendenti! Numerose sono le soprintendenze tenute da dirigenti attraverso l’interim o del tutto vacanti. Servono anche tecnici di livello ‘inferiore’, geometri, dise-gnatori, fotografi, ecc. E servono urgentemente anche molti amministrativi.

Il personale in servizio ha un’età media molto alta, vicina ai 60 anni e solo le recenti immissioni hanno abbassato un po’ la media (un po’ perché non si tratta spesso di giovanissimi, ma di quarantenni-cinquantenni, in attesa da molti anni di questa opportunità).

In questi anni e in particolare nei prossimi ci sarà una fuoriuscita impressionante per via dei pensionamenti, esito delle assunzioni in massa effettuate tra la fine degli anni Set-tanta e gli anni Ottanta, in particolare grazie alla nota legge 285/1977, che ha ingolfato per molti anni i ranghi del Ministe-ro, impedendone l’ingresso a intere generazioni. Un rischio da evitare, quindi, è quello di realizzare un’altra immissione di massa, che rischierebbe di bloccare poi il ricambio per altri decenni. Si esca finalmente dalla logica dell’emergenza e si faccia una programmazione, con assunzioni regolari – perché no? – annuali, come accade altrove, per esempio in Francia.

Ma servirebbe anche una revisione e un aggiornamento dei profili professionali, legati ancora al passato e frutto di

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estenuanti trattative sindacali: non più solo archeologi, ar-chitetti, storici dell’arte, restauratori, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi (che ovviamente sono necessari, sia ben chiaro), ma anche bioarcheologi (e non solo antropologi fisici, ma anche archeozoologi, archeobotanici, ecc.), archeo-metristi, geoarcheologi, ingegneri struttuturisti, pianificatori, geologi, professionisti museali, e altre figure ancora, se vo-gliamo effettuare un vero salto di qualità nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio.

All’ultimo concorso hanno partecipato circa 20.000 con-correnti. È stato bandito nel 2016; le prove e il lavoro delle commissioni hanno preso più di un anno e le assunzioni state del tutto completate con gli scorrimenti delle graduatorie solo nel 2018. Servirebbero, pertanto, anche procedure selettive nuove (non con i quiz e i compitini), maggiormente in grado di valutare le competenze e anche le attitudini dei candidati, magari con la formula del corso-concorso: un anno di forma-zione e di tirocinio, e subito dopo ingresso nei ruoli. Speravo che questo potesse essere il ruolo, sul modello de ‘L’Institut du patrimoine’ francese, della Scuola del Patrimonio del Mi-BAC, che dovrebbe svolgere una funzione di formazione, anche permanente, del personale del Ministero e non, come sembrerebbe, a giudicare dal recente bando, occuparsi della formazione, di quarto livello post-dottorale – senza peraltro alcun rapporto organico con l’Università – riservata a piccole élite di super-specialisti.

Un vero sogno, infine, riguarderebbe la possibilità che le tutte strutture del MiBAC (non solo i grandi musei) possano essere dotate di una piena autonomia scientifica, gestionale e organizzativa, tale da poter effettuare anche direttamente il reclutamento del personale di cui ogni struttura ha bisogno, sulla base delle specifiche esigenze, ovviamente con rigorosi sistemi di selezione e valutazione della qualità. Al Parco di

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Assumere per i beni culturali è necessario, ma come? 81

Pompei o alla Soprintendenza di Milano, al Polo Museale della Toscana o al Museo Archeologico di Reggio Calabria non servono, infatti, generici archeologi o storici dell’arte, ma magari un archeologo specialista della Magna Grecia o un etruscologo o un medievista, un esperto di manutenzione programmata o uno specialista dell’architettura contempo-ranea, un pianificatore territoriale o un esperto di comuni-cazione museale. E chi partecipa a quel concorso per quello specifico posto deve sapere fin dall’inizio che la sua sede di lavoro sarà a Potenza o a Torino, a Lecce o a Trieste, e che non verrà assegnato a una sede che non ha scelto, avviando dal giorno dopo la presa di servizio le pratiche per il trasfe-rimento, cosa che di solito lascia scoperte le “sedi disagiate”, quelle cioè dove di solito c’è più necessità di personale per tutelare un patrimonio a rischio.

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All’ultimo concorso per funzionario tecnico al MiBACT, il Ministero dei beni e delle attività culturali (allora con la T di Turismo), per 500 posti, poi raddoppiati, si sono presen-tati circa 20.000 candidati. Per accedervi era necessario un titolo di terzo livello universitario (secondo quanto previsto da accordi risalenti al 2010): il dottorato di ricerca, la scuola di specializzazione o almeno un master biennale di secondo livello. Già in quella occasione – qualcuno lo ricorderà – si tentò un colpo di mano, con un emendamento che proponeva di consentire l’accesso ai laureati triennalisti. Per fortuna il tentativo maldestro fu sventato – ci fu anche un duro pro-nunciamento del Consiglio superiore Beni culturali e pae-saggistici presieduto da chi scrive – e si tenne alta l’asticella: e, infatti, i vincitori, molti dei quali con dottorato e anche con specializzazione, di quella difficile prova, ora entrati nei ranghi del MiBAC, stanno portando una ventata di qualità scientifica e professionale assolutamente necessaria in un ministero che dovrebbe caratterizzarsi per un alto profilo tecnico-scientifico.

Recentemente si è tentato nuovamente di abbassare quell’asticella. In una trattativa con i sindacati è comparsa una ‘strana’ concessione: «Per i soli profili di Funzionario amministrativo e Funzionario per la promozione e la comu-nicazione sarà considerato titolo di accesso la laurea trien-

QUALCUNO VUOLE ABBASSARE L’ASTICELLADELLA QUALITÀ SCIENTIFICA DEL MIBAC

* Versione leggermente rivista di Qualcuno vuole abbassare l’asticella della qualità scientifica del Mibac, in Huffington Post, 18.7.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/qualcuno-vuole-abbassa-re-lasticella-della-qualita-scientifica-al-mibac_a_23483696/?utm_hp_ref=it-homepage.

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Qualcuno vuole abbassare l’asticella 83

nale. Per i titoli post lauream, lì dove previsti dall’Accordo sui profili professionali 2010, sarà considerata equipollente un’anzianità di servizio pari a 6 anni, svolti in mansioni atti-nenti al profilo per cui si concorre, o un’anzianità di servizio pari a 10 anni nel MiBACT».

Insomma per occuparsi di amministrazione al livello di un funzionario (non di un collaboratore) o addirittura per curare la comunicazione e la promozione di un museo o di un altro istituto del ministero (che non significa certo solo sa-per smanettare a un computer sui social) basterebbe un sem-plice diploma universitario triennale. E ancora peggio, per svolgere le delicate funzioni di archeologo, storico dell’arte, architetto, bibliotecario, archivista, antropologo, non sarebbe più necessario il titolo di dottore di ricerca o di specialista ma basterebbe l’anzianità di servizio di 6 o 10 anni. Un vero scan-dalo! Uno schiaffo al MIUR e alle Università. E soprattutto una beffa per le migliaia di professionisti dei beni culturali che hanno accumulato vari titoli post lauream, con grandi sacrifici loro e delle famiglie.

La cosa ha anche un risvolto schizofrenico. Questo sarebbe lo stesso Ministero che ha istituito una Scuola Nazionale del Patrimonio, che ha selezionato una élite di 18 super-formati, con titoli di terzo livello universitario, per svolgere un’ulte-riore formazione superiore biennale di quarto livello?

Mi auguro che questa operazione venga bloccata dal mi-nistro Alberto Bonisoli, che non credo voglia avviare la sua attività, dopo aver annunciato una mega operazione di 6.000 assunzioni, abbassando l’asticella della qualità culturale, scientifica e professionale del proprio personale.

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Recentemente ho ricevuto per conoscenza la lettera di ri-sposta da parte di una piccola casa editrice scientifica, spe-cializzata nell’archeologia (una delle varie realtà editoriali che fanno onore al nostro Paese in questo campo), a una nota di un ufficio periferico del MiBAC, con la quale si chiedeva ragione della pubblicazione di una foto aerea di un sito ar-cheologico nell’articolo di un giovane archeologo negli atti di un convegno di archeologia della società scientifica da me presieduta fino a pochi mesi fa. La lettura di quella nota mi ha fatto sgranare gli occhi per l’incredulità.

Si tratta di tre volumi di atti di un convegno, con molte de-cine di saggi e un numero altissimo di autori, per complessive 944 pagine con molte centinaia di illustrazioni, al prezzo di copertina di 131 euro. Ripeto: centinaia di foto di monumenti e di materiali archeologici, di scavi, di ricognizioni, di studi. Ebbene un solerte funzionario e un dirigente, pur oberati dal loro enorme lavoro di tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico, anche a causa degli scarsi mezzi e del poco per-sonale di cui ancora dispongono, impiegano il loro prezioso tempo per scrivere una nota protocollata per contestare la pubblicazione di una foto area di un sito archeologico da parte di un giovane studioso (che pubblica una nota di poche pagine tratta dalla sua tesi di laurea!) in una pubblicazione scientifica, necessariamente di nicchia, che consente di ren-dere pubblici alla comunità scientifica nazionale e interna-zionale le scoperte, le ricerche in corso, le novità?

LIBERALIZZIAMO FINALMENTE L’USODELLE FOTO DEI BENI CULTURALI

* Versione leggermente rivista dell’articolo in Huffington Post, 22.10.2018: https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/liberaliz-ziamo-finalmente-luso-delle-foto-dei-beni-culturali_a_23567462/?utm_hp_ref=it-homepage.

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Liberalizziamo finalmente l’uso delle foto dei beni culturali 85

Poco importa, poi, se quella foto contestata è tratta da un vo-lume già edito (e regolarmente citato dall’autore dell’articolo) e se è già disponibile, insieme a decine di altre simili, sul web.

Racconto questo episodio, simile a molti altri, per richia-mare l’attenzione su un tema che segnala un grave ritardo cul-turale (e normativo) del nostro Paese, legato a una concezione proprietaria del patrimonio culturale, che dura a morire. Mi sono anche chiesto: sarà questo un piccolo segnale del nuovo clima di controriforma che si comincia a respirare nel mondo dei beni culturali?

Ricordo che fino al 2014, e precisamente fino all’entrata in vigore dell’Art Bonus, nei nostri musei era proibito fotogra-fare un manufatto archeologico, un quadro, un qualsiasi bene culturale. Con quella norma si liberalizzò (e forse un giorno nei libri di storia delle norme in materia di patrimonio cul-turale questa innovazione verrà riconosciuta all’ex ministro Franceschini) l’uso della fotografia nei luoghi della cultura.

Solo da quattro anni, insomma, i visitatori di musei, galle-rie, pinacoteche, aree archeologiche possono scattare libera-mente fotografie, con l’unica limitazione che non si utilizzi il flash e che le immagini siano utilizzate per finalità personali e culturali. In realtà, la versione originaria di quella norma pre-vedeva la liberalizzazione delle foto per tutti i beni culturali, ma poi una ‘manina’ (una questione, questa delle ‘manine’, di grande attualità!), modificò la norma in fase di approvazione parlamentare, e furono esclusi i beni librari e archivistici. Si è dovuto attendere il 2017, anche a seguito dell’iniziativa di un attivissimo movimento, perché anche tali limitazioni fossero finalmente eliminate.

La liberalizzazione conquistata riguarda, però, solo la ri-produzione e l’uso personale.

Per pubblicare la foto di un bene culturale, anche in ope-re dalla finalità scientifica, cioè in articoli e volumi esito di

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale86

un’attività di ricerca, è ancora necessario non solo ottenere le autorizzazioni da parte delle soprintendenze ma anche pagare dei canoni. Il limite tra finalità culturali e ‘finalità di lucro’ è sempre molto labile: una casa editrice, anche se pic-cola e specializzata in editoria scientifica, è un’impresa, che deve avere dei ricavi per non fallire.

Nel campo archivistico è stata recentemente fissata una regola per definire un limite convenzionale del fine culturale rispetto al lucro: il volume deve avere un costo di copertina non superiore a 77 euro e una tiratura inferiore a 2000 co-pie. I volumi scientifici effettivamente di rado raggiungono tali tirature, mentre spesso superano il costo di 77 euro (ma come nasce questo limite di 77 euro?), trattandosi di volumi anche riccamente illustrati e considerando che sempre meno frequentemente possono avvalersi di contributi pubblici per le spese di edizione.

Peraltro tali regole non valgono per gli altri ambiti (ar-cheologico, storico-artistico, architettonico, ecc.). Se dunque un archeologo vuole pubblicare in un libro una foto, anche realizzata in proprio, di un monumento (per es. il Colosseo) deve presentare una formale richiesta di autorizzazione e provvedere normalmente al pagamento di una tariffa.

Di fatto, con regole di questo tipo, quasi tutta la produzione scientifica nel campo dei beni culturali rischia di essere fuori legge. Per i ricercatori e le piccole case editrici specialistiche si tratta di costi insostenibili, da scaricare ulteriormente sugli acquirenti, peraltro sempre più rari, comprese le biblioteche che fanno fatica a garantire l’aggiornamento bibliografico.

Si tratta, inoltre, di procedure bizantine che ingolfano inu-tilmente il lavoro delle soprintendenze e dei musei, a fronte di ricavi assai ridotti (in questo lo Stato rischia di apparire effettivamente un mercante un po’ accattone, che specula sulla ricerca scientifica: altro che mercificazione così spesso

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Liberalizziamo finalmente l’uso delle foto dei beni culturali 87

denunciata da chi ha contrastato le recenti riforme!): lettere di richiesta di autorizzazione, cui fanno seguito tempi me-diamente lunghi di risposta, solleciti, note protocollate, pa-gamenti con bollettini postali.

E così spesso nelle didascalie delle foto pubblicate in arti-coli scientifici compaiono ringraziamenti dell’autorizzazione a pubblicare una foto da parte di una soprintendenza o un museo ben più lunghi dell’indicazione stessa dell’oggetto raffigurato.

Attualmente in Italia l’unico grande museo che adotta licenze libere è il Museo Egizio di Torino, mentre sono nu-merosi i musei, le biblioteche, gli archivi di altri paesi che mettono a disposizione gratuitamente e ad alta definizione immagini di oggetti delle proprie collezioni (addirittura con licenze di libero riutilizzo anche commerciale), con il solo vincolo di citare la fonte.

Musei come il Rijksmuseum di Amsterdam o lo Statens Museum for Kunst di Copenhagen rinunciano agli introiti dal riuso dell’immagine per promuovere il marketing e stabilire un nuovo rapporto di collaborazione sia con gli studiosi sia con l’imprenditoria e l’industria creativa.

Quando si supereranno da noi queste regole da Stato bor-bonico? Quando si riterrà un beneficio per lo stesso patrimo-nio culturale la libera diffusione delle immagini (utili anche a promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca, secondo il dettato degli artt. 9 e 33 della Costituzione), almeno nelle pub-blicazioni con finalità scientifiche e culturali, eliminando di-vieti anacronistici nel mondo di Instagram, Facebook, Google?

Il nuovo ministro Alberto Bonisoli dia un segnale di aper-tura e di vero ‘cambiamento’, completando la liberalizzazione delle riproduzioni e dell’uso delle immagini del nostro ricco patrimonio culturale.

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Cosa è previsto nella Finanziaria 2019 per il patrimonio cul-turale? I dati certi disponibili sono ancora pochi e ovviamente bisognerà attendere il percorso parlamentare, sperando che qualche emendamento accresca il ‘bottino’ alquanto mise-ro al momento portato a casa dal Ministro Alberto Bonisoli, molto bendisposto e volenteroso, ma forse politicamente un po’ debole.

Mesi fa aveva annunciato ben 6.000 nuove assunzioni (poi ridotte a 4.000) per far fronte alle esigenze del MiBAC, soprat-tutto per effetto dei numerosi pensionamenti in atto. Nella manovra, in realtà, sono previste 1.000 nuove assunzioni, 500 da effettuare nel 2020 e altre 500 nel 2021. Peraltro questi 1.000 nuovi posti riguardano solo per metà (250 nel 2020 e altri 250 nel 2021) i funzionari tecnico-scientifici (nel linguaggio bu-rocratico: Area III-F1) mentre la restante metà sarà relativa a personale amministrativo, tecnico e di custodia e accoglienza (Area II-F1). A queste assunzioni si aggiunge la possibilità di scorrimento delle graduatorie (già nel 2019) del concorso voluto dal precedente Ministro Franceschini (inizialmente per l’assunzione di 500 funzionari, poi raddoppiati, per altri circa 100 nuovi assunti.

Ogni nuova assunzione, in particolare nel campo dei beni culturali, da sempre in grave difficoltà nel nostro Paese, va salutata con gioia e pieno sostegno. Ma certo non si può ne-gare che ci si attendesse qualcosa di più, soprattutto dopo

POCO SPAZIO PER LA CULTURA NELLA MANOVRA. MINISTRO BONISOLI, PRETENDA DI PIÙ

* Versione leggermente rivista dell’articolo in Huffington Post, 2.11.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/po-co-spazio-per-la-cultura-nella-manovra-ministro-bonisoli-preten-da-di-piu_a_23577682/?utm_hp_ref=it-homepage.

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Poco spazio per la cultura nella manovra 89

gli annunci degli scorsi mesi (per la verità quelli di Bonisoli certamente molto meno mirabolanti di quelli strombazzati da altri esponenti dell’attuale Governo).

Siamo in una fase di svuotamento degli organici del Mi-BAC, soprattutto per effetto dei pensionamenti delle migliaia di unità di personale assunte a suo tempo, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, con la famosa legge 285 per l’occupazione giovanile. Pensionamenti che potrebbero ulteriormente aumentare con l’introduzione della cosiddetta quota 100, con il rischio di provocare una vera e propria pa-ralisi nelle strutture di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Bisognerà, pertanto, valutare esattamente cosa si intende nei fatti quando si precisa che le assunzioni appena indicate si aggiungono alle “facoltà di assunzione previste dalla legislazione vigente relativa al turn over”.

A queste misure, si aggiungono altri interventi: riduzioni consistenti per i tax credit che interessano le librerie e le sale cinematografiche e una sforbiciata di ben 2.350.000 euro per le spese di funzionamento dei musei autonomi (cioè i 30 grandi musei e parchi archeologici dotati negli ultimi anni di auto-nomia scientifica, amministrativa e gestionale).

È evidente che le priorità del Governo Conte-Salvini-Di Maio siano altre e non riguardino la cultura, il patrimonio culturale, la scuola e l’università (che, coerentemente, anche nel contratto di governo hanno scarsissimo spazio). Ma con-tinuiamo, senza alcun pregiudizio, a sperare che il Ministro Bonisoli riesca a ottenere molto di più.

Ciò che, invece, provoca stupore è il totale silenzio di chi negli anni scorsi ha urlato a ogni piè sospinto all’‘emergenza cultura’. Contenti loro!

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Vorrei iniziare da una domanda che apre anche il suo libro Patri-monio al futuro: in un momento di grandi trasformazioni sociali economici su scala mondiale, che ruolo può avere oggi il patrimonio culturale nella definizione di nuovi modelli di società soprattutto in Italia e in Europa? Una nuova prospettiva in tal senso è indica-ta nella Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa sull’eredità culturale (2005) che vede nella partecipazione attiva dei cittadini la chiave per accrescere la consapevolezza del valore del patrimonio culturale mettendo la persona e i valori umani al centro di un’idea più ampia di eredità culturale. È questa la strada da seguire?

Considero la Convenzione di Faro un atto veramente ri-voluzionario sebbene ancora poco conosciuto e non recepito dalla nostra legislazione sui beni culturali.

Essa ha segnato un cambio di prospettiva fondamentale: il passaggio dal diritto dei beni culturali, in cui l’Italia ha una grande tradizione, al diritto ai beni culturali. Il patrimonio culturale è visto come una risorsa non solo per gli specialisti, ma anche e soprattutto per le persone e i cittadini che diven-tano i veri protagonisti della vita culturale della comunità.

Questa trasformazione modifica anche il significato stesso del patrimonio culturale non più sentito come un’eredità dal valore statico e immodificabile, ma come qualcosa di dina-

PER UNA NUOVA VISIONEDEL PATRIMONIO CULTURALE

Intervista di Maria Lucia Ferruzza

* Maria Lucia Ferruzza, in Per. Fare cultura in Sicilia, 44/45 gennaio - agosto 2016, 4-8. Si ringrazia l’arch. Renata Prescia, presidente Fonda-zione Salvare Palermo.

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Per una nuova visione del patrimonio culturale 91

mico, vitale a cui dare nuovi significati per la costruzione di una società nuova.

Noi specialisti abbiamo maturato nel tempo un atteggia-mento proprietario, probabilmente dovuto anche alla neces-sità di difendere il patrimonio culturale dai continui assalti e distruzioni perpetrati negli ultimi decenni, ma è innegabile che questa posizione ci abbia allontanati e resi distanti dalla società. Oggi abbiamo l’opportunità di vivere in un periodo di grandi trasformazioni, stiamo assistendo, infatti, alla fine della modernità e alla creazione di nuovi sistemi di società, a nuovi modelli culturali, socio-economici e etici, e in que-sto contesto, in così rapido movimento, dobbiamo capire se vogliamo continuare ad essere semplicemente spettatori o diventare protagonisti di questa nuova sfida culturale. È tem-po di una riflessione profonda sul rapporto tra patrimonio culturale e società che ci dovrebbe spingere a scelte innova-tive senza limitarci a difendere stancamente una tradizione che, sia pure importantissima, oggi necessita di una radicale revisione. In questa prospettiva, il Paese Italia ha il privilegio di potere svolgere sul piano culturale un ruolo fondamentale anche a livello internazionale.

Di fronte a questo processo di cambiamento, purtroppo, si avvertono molte resistenze anche a livello politico, soprat-tutto in certi ambienti che dovrebbero avere una visione più progressista e invece utilizzano strumenti interpretativi della realtà legati ancora al Novecento.

Il rapporto tra pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale genera molto spesso posizioni conflittuali, ma ormai è difficile negare che l’iniziativa privata sia non solo utile, ma neces-saria alla gestione del patrimonio culturale.

Salvare Palermo è particolarmente sensibile a questo tema per-ché da più di trent’anni cerca di stabilire un dialogo e forme di

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collaborazione con le istituzioni per la salvaguardia del patrimonio culturale cittadino e per sviluppare pienamente il rapporto tra città, cultura e sviluppo.

In che modo si può costruire un rapporto virtuoso tra pubblico e privato a partire anche da esperienze concrete già realizzatesi?

La contrapposizione pubblico-privato è davvero ormai del tutto anacronistica per tante ragioni. Ognuno di noi vive, allo stesso tempo, una sfera privata e una pubblica in quanto com-ponente di una comunità civica; semmai il conflitto esiste tra interesse privato e funzione pubblica che deve essere sempre garantita, ma anche su questo punto è bene non creare frain-tendimenti. Una fondazione o una società possono svolgere una funzione pubblica importante, come ad esempio nel caso dei musei d’impresa privati che hanno il compito di narrare la storia della cultura d’impresa italiana e sono, al tempo stesso, strumenti di dialogo tra le aziende, l’imprenditoria e il territorio.

Siamo ancora legati all’idea che la partecipazione dei pri-vati debba necessariamente significare mercimonio e perdita dell’aura della cultura.

Non si può negare che i rischi ci possano essere ed è per questo che occorrono regole chiare e un controllo da parte dello Stato; il vero nodo non è più Stato e meno privato, ma più Stato e più privato. Uno Stato credibile e trasparente che eviti tutte le forme di conflitto d’interesse e svolga un ruolo d’indirizzo, controllo e valutazione garantendo la chiarezza delle regole e dei processi. Bisogna anche avere la capacità di scegliere il privato virtuoso valutando la qualità della pro-posta progettuale sia si tratti della piccola società che della grande realtà imprenditoriale. Dovremmo poi entrare nello specifico, perché il mondo del privato è molto eterogeneo ed è necessario distinguerne la natura e l’ambito d’azione. Oggi

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ci sono varie forme di partecipazione privata, dalle sponso-rizzazioni, al mecenatismo, che certamente è la più auspica-bile, ma anch’essa può prevedere una partecipazione attiva del soggetto. Basti pensare all’Herculaneum Conservation Project promosso dal Packard Humanities Institute per la salvaguardia di Ercolano. Un’operazione di mecenatismo da parte di una prestigiosa istituzione culturale americana che non si è limitata ad elargire un finanziamento, ma ha concorso pienamente al processo di valorizzazione offrendo competenze di alto livello, tecnologie e una gestione privata efficientissima.

Altro esempio di collaborazione tra pubblico e privato è il restauro della piramide di Caio Cestio a Roma finanziato con due milioni di euro dall’imprenditore giapponese Yuso Yagi che, in cambio, ha chiesto solo una targa ricordo e la possibilità di visitare il cantiere di tanto in tanto.

Un altro caso, certamente il più eclatante, è il restauro del Colosseo sponsorizzato con venticinque milioni di euro dal gruppo Tod’s di Diego Della Valle. Questo intervento è stato al centro di molte polemiche, che ritengo davvero incomprensibili. Se un‘azienda finanzia un restauro (che tra l’altro in questo caso non ha comportato nessuna presenza invasiva dello sponsor sul monumento), chiedendo solo di potere utilizzare le immagini del restauro, e da questa opera-zione il privato trae un vantaggio di immagine che migliora la propria attività imprenditoriale, creando più occupazione e benessere, se si rispettano le regole e si pagano le tasse, ma perché si deve gridare allo scandalo?

Ci dobbiamo augurare che sempre più imprese colleghino il proprio nome alla cultura e al made in Italy che è moda, design, tradizione enogastronomica e creatività, ovvero ciò per cui siamo apprezzati in tutto il mondo.

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In proposito, credo sia importante sottolineare che il de-creto art bonus sulle sponsorizzazioni, varato nel 2014, ha già registrato un impatto estremamente positivo 1. Nelle casse del Ministero dei Beni Culturali sono entrati oltre 200 milioni di euro riconducibili ad operazioni mirate e promosse da oltre 7.000 sponsors (e il dato è in continuo aumento), di cui moltissimi sono cittadini che hanno contribuito con meno di 1000 euro.

Se noi riuscissimo ad accrescere questi piccoli contributi anche nelle forme della partecipazione attiva e del lavoro vo-lontario, allora noi davvero contribuiremmo alla costruzione di un patrimonio comune, al di là delle formule retoriche del “ bene comune”.

Di recente il Ministero ha stanziato altri 45 milioni di euro per completare gli interventi già finanziati con l’art bonus e per i quali il contributo privato non riesce a coprire l’intera somma.

Puntando l’obiettivo sul Mezzogiorno, quali strategie si sono attutate per rilanciare l’economia partendo dalla risorsa cultura e dall’innovazione culturale?

Una regione particolare dinamica nel Mezzogiorno nel campo della partecipazione dei cittadini alla promozione della cultura è la Puglia che ha realizzato tanti progetti, an-che piccoli, ma molto efficaci.

Un’iniziativa straordinaria è stata ‘Bollenti spiriti’, un programma della Regione per le Politiche Giovanili che ha

1  Ai sensi dell’art. 1 del D.L. 31.5.2014, n. 83, «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo», convertito con modificazioni in Legge n. 106 del 29/07/2014 e s.m.i., è stato introdotto un credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo, il c.d. Art bonus, quale sostegno del mecenatismo a favore del patrimonio culturale.

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finanziato diversi interventi e azioni per consentire ai giovani cittadini pugliesi di partecipare attivamente a tutti gli aspetti della vita della comunità.

La percentuale di successo è stata molto alta: piccole inizia-tive, ma di grande qualità. Nel comune di Troia, ad esempio, si è avviato un progetto di valorizzazione turistico-culturale del patrimonio dei monti dauni (promosso da un giovane che è tornato dal Belgio nella sua terra d’origine) e che è diventata un’occasione di lavoro per diverse persone. Molto importanti sono stati anche gli interventi delle spin off universitarie: non a caso la Puglia, dopo la Lombardia, è la regione che ha maggiormente sviluppato negli ultimi anni queste attività imprenditoriali legate alla ricerca all’interno degli atenei.

In Sicilia, opera molto bene ‘Officine Culturali’, un’asso-ciazione impegnata nel campo della valorizzazione del pa-trimonio cittadino e della fruizione dei luoghi della cultura come ad esempio, il Complesso dei Benedettini, la sede dei dipartimenti di area umanistica che l’associazione gestisce organizzando visite guidate e tante iniziative di rilievo.

Un caso straordinario è l’impresa promossa nel rione Sa-nità di Napoli da padre Antonio Loffredo che ha recuperato le Catacombe di San Gennaro e oggi gestisce il sito insieme ai ragazzi del quartiere: un’iniziativa attraverso la quale non solo si è salvato un monumento che versava in uno stato di degrado assoluto, ma si è dato lavoro, dignità e un’alternativa di vita a delle persone costrette ai margini della società.

Potrei fare tanti altri esempi, come la Fondazione Archeo-logica Canosina nata a Canosa dall’iniziativa di una decina di persone e ora è composta da 1300 soci che gestiscono il mu-seo e tutte le aree archeologiche del territorio promuovendo tantissimi progetti in un contesto che vedeva l’archeologia come un ‘problema’ e oggi la considera invece un grande valore e una risorsa.

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Io stesso a Foggia, città problematica e non particolarmente nota dal punto di vista artistico, ho fondato insieme ad un gruppo di imprenditori, cittadini e professionisti, la fonda-zione Apulia Felix. Attualmente gestiamo una ex chiesa tra-sformata in auditorium e offriamo un programma culturale vivacissimo con un centro di cultura cinematografica, con-ferenze, presentazioni di libri, rassegne di musica classica e jazz. Tutto finanziato dai privati che con somme alquanto limitate, ma molto ben impiegate, garantiscono la realizzazio-ne degli eventi. Sono iniziative che stanno offrendo occasioni di lavoro nuove, impensabili in un’area povera e socialmente difficile.

A breve, il Mibact attraverso un bando, affiderà a associa-zioni e fondazioni onlus una serie di musei, siti e monumenti che lo Stato non è in grado di gestire proprio perché il nostro patrimonio ha la peculiarità di essere diffuso e capillare su tutto il territorio, strettamente connesso al paesaggio e un patrimonio di questo tipo ha bisogno di essere valorizzato, gestito e comunicato da tutti i cittadini e non solo dallo Stato.

Vorrei affrontare il tema della funzione dei musei nella società di oggi, da luoghi di conservazioni a luoghi di tutela attivi e di in-terpretazione del territorio e di cura del paesaggio, come ribadisce da più tempo ICOM. In che modo oggi i musei possono affrontare questa nuova missione?

Questo è il vero compito che ci aspetta in un sistema in cui i musei sono profondamente collegati al territorio e devono diventare luoghi vivi di comprensione e di espressione delle comunità, a prescindere se siano gestiti dalla stessa struttura che si occupa della tutela del territorio.

La riforma appena varata dal Mibact con la creazione di un sistema museale nazionale si ispira ai principi fondamentali affermati da tempo da Icom e mi sembra un passo importante

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che, anche dal punto di vista normativo, si sia riconosciuto il senso e la missione dei musei nella società contemporanea.

Questo è uno dei punti nodali della riforma che riflette una visione politico-culturale nuova: l’autonomia gestionale e scientifica di musei e dei parchi archeologici, l’istituzione delle soprintendenze uniche, la creazione di un sistema mu-seale nazionale intendono affermare una visione unitaria e globale del patrimonio culturale, diffuso in tutto il territorio italiano e nel quale il paesaggio costituisce l’elemento uni-ficante.

Il paesaggio deve essere inteso come un palinsesto in cui sono stratificate le tracce del rapporto millenario tra uomo e natura e deve diventare l’oggetto principale nelle politiche di tutela, superando ogni affiliazione disciplinare e settoriale.

È un nuovo assetto che richiede competenze specifiche e un’attenzione maggiore verso la formazione che dovrebbe es-sere più integrata con il mondo delle professioni nell’ambito dei beni culturali, almeno a livello specialistico.

Una delle critiche più accese rivolta a questa riforma è di avere creato una separazione tra l’attività di tutela e quella di valorizzazione togliendo ai musei il rapporto con il territorio.

In realtà con la nuova centralità assegnata ai musei si sono volute riequilibrare le due componenti, anche perché la va-lorizzazione è il ponte fondamentale tra il patrimonio cultu-rale e i cittadini, un aspetto che oggi non si può trascurare. Bisognerebbe chiedersi, soprattutto, quale sia il valore che i cittadini attribuiscono al “loro” patrimonio culturale, mentre ancora troppo spesso gli “addetti ai lavori” pretendono di imporre il “loro” valore ad un patrimonio di cui si sentono proprietari.

È, invece, necessario sollecitare la partecipazione attiva senza la quale nessuna politica di tutela potrà mai essere vincente. Solo così si potrà contribuire a rafforzare una con-

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sapevolezza del valore dei beni territoriali e a far maturare quella “coscienza di luogo” necessaria per la costruzione di progetti locali, fondati su nuove forme di sviluppo sostenibile e compatibili con le peculiarità locali.

Un altro aspetto importante è quello della formazione universi-taria nel settore dei beni culturali oggi del tutto staccata dal mondo del lavoro. Anche in questo caso è necessaria una revisione radicale, ma quali potrebbero essere le proposte operative?

Come dicevo, dobbiamo lavorare per superare questa se-parazione tra il mondo della formazione e quello delle pro-fessioni legate ai beni culturali.

In passato abbiamo creato i corsi di laurea di beni culturali e abbiamo fatto in modo che proliferassero le scuole di spe-cializzazione da cui ogni anno escono centinaia di giovani destinati a rimanere esclusi dal mondo del lavoro; oggi la bolla è esplosa.

Ho lanciato, in proposito, l’idea dei Policlinici dei Beni Culturali, cioè dei luoghi integrati tra soprintendenze, musei e università, in cui si attua una collaborazione tra docenti, tecnici, funzionari dei beni culturali. Credo che l’integrazione di competenze e di professionalità possa garantire risulta-ti positivi nella ricerca a tutto vantaggio degli studenti che svolgerebbero tirocini non episodici e a stretto contatto con i luoghi della cultura, musei, soprintendenze archivi e biblio-teche. Anche le scuole di specializzazione dovrebbero essere legate ai policlinici, com’è, per esempio, nella sanità, dove gli specializzandi, pagati per alcuni anni, svolgono un lavoro importantissimo nel contesto ospedaliero.

Inoltre, riprendendo una proposta già formulata ai tempi del ministro Bray, credo che sia straordinariamente importan-te dar vita ad una Scuola nazionale del Patrimonio all’interno del Ministero dei Beni Culturali, ma in collegamento con il

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Ministero dell’Università e della Ricerca, con accesso tramite concorso e della durata di un anno. Un luogo che insegni un lavoro interdisciplinare con un’attenzione soprattutto alla comunicazione, alla gestione, alle pratiche di fundraising, alla progettazione internazionale.

Una scuola che sul modello dell‘Institut du Patrimoine francese mi auguro possa dare accesso ai ruoli del Ministero attraverso una lista nazionale di idonei e dalla quale anche gli enti locali potrebbero attingere. Sarebbe un reclutamento molto più serio rispetto ai mega concorsi banditi ogni dieci anni e che consentirebbe di valutare in un anno la reale atti-tudine del personale alla professione.

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Archeologo, accademico e oggi Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici del MiBACT. Qual è la storia di Giuliano Volpe?

È la storia di una persona che compie 59 anni nel giorno stesso1 in cui risponde a queste domande, facendo anche, come accade a tutti ad una certa età, un bilancio di risultati positivi e fallimenti, di soddisfazioni e delusioni, di gioie e amarezze. È la storia di un ragazzo di una famiglia modesta (genitori con un negozietto, unico laureato di cinque figli) in un piccolo paese del Sud, che deve tutto ad alcuni bravi professori del liceo e dell’università, che ha voluto restare (o meglio tornare) al Sud convinto che ci fosse tanto da fare, che ha percorso tutta la carriera universitaria senza essere “allievo di”, diventando ordinario a 42 anni, rettore dell’Università di Foggia a 50 e Presidente del Consiglio superiore BCP a 55 (ero nel Consiglio già da due anni in rappresentanza delle Regioni e sono stato designato dal ministro Dario Franceschini, che non conoscevo prima). Non credo affatto che sia una storia particolare, ma ne vado fiero, soprattutto perché dimostra che anche in un paese chiuso, gerontocratico, poco meritocratico, con scarsa mobilità e tanti condizionamenti determinati da appartenenze (familiari, politiche, accademiche, religiose, massoniche, ecc.), c’è spazio per chi voglia impegnarsi.

1  Era il 17 agosto 2017. Nel frattempo gli anni sono diventati 60.

UN AMICO DEL FESTIVALDEL GIORNALISMO CULTURALE 2017

* http://www.festivalgiornalismoculturale.it/2017/08/22/gliami-cidelfestivalfgc-giuliano-volpe/.

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Un amico del Festival del giornalismo culturale 2017 101

Che cosa l’ha spinta verso l’archeologia e la tutela dei beni culturali, e che cosa consiglierebbe a un giovane che vorrebbe intraprendere un percorso simile al suo?

L’archeologia l’ho scoperta all’Università dove studiavo letteratura e storia antica e l’ho subito amata sia perché ho immediatamente colto le possibilità di occuparsi di storia del passato attraverso altre fonti, quelle materiali, sia perché a me più congeniale: amo studiare il passato ma essendo attivo nel presente, coniugare lo studio all’attività manuale, lavorare sul campo, essere militante. Insomma, l’archeologia e il patrimonio culturale mi offrono la possibilità di conciliare le mie due passioni: la ricerca e l’impegno civile. Ho avuto la fortuna, da studente, di partecipare a scavi importanti come quello della villa romana di Settefinestre in Toscana e della Crypta Balbi a Roma e poi di dirigere molti scavi, terrestri e subacquei, in Italia e all’estero, occupandomi in partico-lare di archeologia dei paesaggi e scegliendo di studiare un momento cruciale della storia, fino a tempi recenti alquanto sottovalutato: la fine del mondo antico e il passaggio al me-dioevo, un momento complesso, drammatico, di profondi e drammatici cambiamenti, per certi versi vicini a quelli che stiamo vivendo. Ad un giovane consiglierei di studiare, di lavorare duro ma soprattutto di fare le proprie scelte con passione. Da anni l’Università italiana vive un momento di grande difficoltà, ma ci sono anche notevoli opportunità per chi voglia studiare archeologia e mi auguro che a breve si riaprano maggiormente le possibilità occupazionali. Siamo molto impegnati in questo campo anche con le riforme in atto nel settore dei beni culturali. Sento una sorta di dovere etico nei confronti dei giovani, perché abbiano almeno le stesse opportunità che ho avuto io molti anni fa.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale102

Negli ultimi anni si è prestata maggiore attenzione verso tematiche e obiettivi di valorizzazione del patrimonio artistico e culturale. Perché è tanto importante promuovere questo aspetto? Pensa che sia siano fatti dei progressi in questo senso?

Da alcuni anni è in atto una riforma radicale (direi anzi una vera e propria rivoluzione) che sta cercando di modificare il concetto stesso di patrimonio culturale, in linea con i principi della Convenzione europea sul valore del patrimonio cultu-rale (Faro 2005), che spero sia finalmente ratificata dal nostro Parlamento. Una tutela meno legata solo ai divieti e ai vincoli (pur sempre necessari) e più attiva e progettuale, e soprattutto più contestuale (ecco il perché delle soprintendenze uniche a base territoriale al posto delle precedenti soprintenden-za settoriali). Una maggiore attenzione alla valorizzazione, insieme alla tutela: noi tutti conserviamo con cura solo le cose cui attribuiamo un valore (non solo venale, ma anche affettivo, perché si tratta di un ricordo, è qualcosa di caro, di prezioso per noi), cose che consideriamo ‘utili’; quelle cose per noi senza valore le gettiamo via, nella spazzatura o al massimo le releghiamo in soffitta; così intendo il concetto di valorizzazione, da alcuni spregiativamente confusa con la mercificazione. Ecco perché la rivoluzione dei musei, con l’obiettivo di fare dei musei un vero ‘servizio pubblico es-senziale’, capaci, cioè, di aprirsi a tutti, di includere, di essere vivi, di essere luoghi di studio e di educazione ma anche di piacere, di godimento, come è scritto nella legge del 2014. Se il patrimonio culturale riuscirà a favorire anche nuove forme di occupazione, di lavoro vero, di economia sana, pulita, colta, sostenibile, sarà un successo per il nostro Paese. Ed è anche grazie al suo patrimonio culturale che l’Italia potrà svolgere anche un ruolo in Europa e nel mondo.

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Un amico del Festival del giornalismo culturale 2017 103

Ovviamente, come nel caso di ogni riforma radicale, ci sono errori (da riconoscere e da correggere), cose da miglio-rare e si sono registrate anche molte opposizioni e resistenze, non solo da parte di chi difende privilegi e rendite di posizioni ma anche di chi ha legittime idee diverse. Sarebbero necessari un maggior ascolto reciproco, un maggiore rispetto delle idee diverse, ma soprattutto il coraggio di accettare la sfida del cambiamento.

‘Patrimonio culturale. Una storia, 1000 per raccontarla’ è il tema della edizione 2017 del Festival. Che cosa si può fare, secondo lei, per raccontare il settore culturale a nuovi, e in alcuni casi più gio-vani, pubblici?

La comunicazione culturale svolge una funzione deter-minante, centrale, preziosa, soprattutto in una fase di cam-biamenti quale quella che stiamo vivendo. Troppo a lungo anche certa stampa ha avuto poco coraggio e si è appiattita ad una sorta di ‘pensiero unico’.

Se abbiamo l’obiettivo di porre al centro le persone, i cit-tadini, le comunità, i visitatori e se desideriamo consentire a ciascuno, con la propria sensibilità e il proprio punto di vista, di scoprire il valore del patrimonio culturale, allora dobbiamo consentire a tutti di appropriarsene, attraverso la conoscenza. E la conoscenza non è possibile senza un’adegua-ta comunicazione, oggi anche utilizzando le tecnologie, alle quali sono particolarmente sensibili i più giovani. Ritenere che l’unica forma di fruizione sia la contemplazione e arric-ciare il naso, sdegnati, per un selfie fatto davanti ad un’opera d’arte, un monumento o un paesaggio, o per una foto pub-blicata su Instagram o Facebook significa assumere lo stesso atteggiamento di chi guardava con sospetto le lampadine al posto delle candele o la stampa a caratteri mobili rispetto ai

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale104

manoscritti. Con una precisazione, però. Le tecnologie sono ormai irrinunciabili (nell’epoca degli smartphone tuttofare) ma sono solo uno strumento: ben più importante è il progetto culturale e comunicativo. Si può usare un semplice disegno ad acquerello o una ricostruzione informatizzata 3D, un pla-stico o un prodotto multimediale poco importa, ciò che conta è quello che si intende raccontare e le domande che si cerca di suscitare. Troppo spesso si fraintende l’uso delle strumen-tazioni ICT, dando più importanza (e risorse) alle macchine, peraltro rapidamente obsolete, che ai contenuti, con il rischio di sostituire il virtuale al documento reale, anziché porlo al suo servizio nel quadro di un complessivo progetto culturale. Insomma, c’è tanto lavoro per chi si occupa di giornalismo e comunicazione culturale per offrire un racconto storico.

Ci consiglia un libro?

Mi piace molto leggere anche libri che poco hanno a che fare con lo studio (romanzi, gialli, racconti, saggi vari, ecc.) e avrei quindi tante letture da consigliare, ma in questa oc-casione suggerisco l’ultimo saggio di Andrea Carandini, La forza del contesto (Laterza), perché spiega in maniera efficace perché è necessario passare dal ‘testo’ al ‘contesto’, dal museo al paesaggio, dall’Italia considerata come un ‘museo diffuso’ all’Italia come il ‘contesto dei contesti’. Troppo a lungo ha prevalso un’attenzione esclusiva per il singolo monumento, o al massimo per antologie di monumenti, mentre serve fi-nalmente passare allo studio, alla tutela e alla valorizzazio-ne contestuale, che pongano al centro i paesaggi. I paesaggi sono la nostra vera carta d’identità, i paesaggi siamo noi. I paesaggi sono, infatti, opera non di una singola persona e meno che mai di un solo artista o ma sono il prodotto delle azioni millenarie delle comunità insediate in un territorio

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Un amico del Festival del giornalismo culturale 2017 105

in rapporto all’ambiente. Dobbiamo imparare a cogliere e a raccontare questi sistemi complessi di relazioni. Perché, come scrive Carandini, «un volto non è mai la somma di capelli, fronte, orecchi, occhi, guance, naso, bocca, mento e collo, ma una loro speciale composizione, a parole non descrivibile ma che l’occhio in un lampo riconosce…».

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IL MATRIMONIOTRA PATRIMONIO E CITTADINI

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Vorrei segnalare un volume pubblicato on-line nella forma dell’open access (da noi purtroppo ancora poco diffuso): si tratta di La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia1 pubbli-cato nel quinto supplemento della rivista Il Capitale Culturale2.

È un bel volume, che vede la partecipazione di numerosi specialisti, impegnati in vari campi, organizzato sotto forma di quattro tavole rotonde su alcuni dei temi più attuali nel dibattito sul patrimonio culturale: “La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana”, “La cultura della valoriz-zazione in Italia: altri punti di vista”, “Abilità professionali e percorsi formativi” e infine “I professionisti dei beni culturali: competenze, forme associative e mercato del lavoro”. Oltre una ventina di relazioni e soprattutto numerosi interventi in dibattiti sempre vivaci, liberi, laici, per nulla ‘accademici’. Si potranno trovare, dunque, tanti stimoli, tante idee, tante cri-tiche, tante posizioni diverse, tutte rispettose delle idee altrui e accomunate dalla volontà di contribuire all’attribuzione di senso e di nuovo valore al patrimonio culturale.

Tra i vari temi affrontati mi sembra particolarmente impor-tante e attuale insistere sui principi ispiratori della ‘Conven-zione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società’ presentata il 27 ottobre 2005 nella

* Versione leggermente rivista di La Convenzione di Faro introduce il concetto di eredità-patrimonio culturale, in Huffington Post, 25.10.2016, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/la-convenzione-di-faro-introduce-il-concetto-di-eredita-patrimonio-culturale_b_12616906.html.

1  Feliciati 2016.2  http://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult).

LA CONVENZIONE DI FARO

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città portoghese di Faro, sottoscritta dall’Italia nel 2013 ma non ancora ratificata dal nostro Parlamento. Si tratta di un testo veramente rivoluzionario, che rinnova profondamente il concetto stesso di patrimonio culturale. Un testo di cui si parla pochissimo nel nostro Paese, anche e soprattutto da parte dei tanti oppositori delle recenti riforme, animati da uno spirito oggettivamente conservatore e più interessati ad un rifiuto, quasi di tipo ideologico, di ogni cambiamento che ad alternative che non siano il rimpianto del passato, pure a suo tempo tanto contestato. Le proteste sono però sempre da rispettare e le critiche, se costruttive e propositive, sono utili.

Ma torniamo alla Convenzione di Faro. Essa introduce un concetto molto più ampio e innovativo di ‘eredità-patrimonio culturale’, considerato «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» (art. 2) e di ‘co-munità di eredità-patrimonio’, cioè, «un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future» (art. 2).

Chiarissimi sono gli obiettivi della Convenzione, finalizza-ta (art. 1) a: «a. riconoscere che il diritto al patrimonio culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; b. riconoscere una responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patri-monio culturale; c. sottolineare che la conservazione del patrimonio culturale, e il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita; d. prendere le misure necessarie per applicare le disposizioni di questa Convenzione riguardo: – al ruolo del patrimonio culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione

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La Convenzione di Faro 111

della diversità culturale; – a una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati coinvolti».

Si sottolinea non solo che «chiunque da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all’arricchimento del patrimonio culturale» (art. 5), ma si ribadisce anche la necessità della partecipa-zione democratica dei cittadini «al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale» nonché «alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che il patrimonio culturale rappresenta» (art. 12). Protagonisti sono dunque i cittadini, per cui bisogna «promuovere azioni per migliorare l’accesso al patrimonio culturale, in particolare per i giovani e le persone svan-taggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare» (art. 12).

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La Convenzione di Faro considera anche il diritto, indivi-duale e collettivo, «a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento» (art. 4) ed evidenzia la necessi-tà che il patrimonio culturale sia finalizzato all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...» (art. 8).

È un testo rivoluzionario, come si desume anche da questi brevi cenni. Un testo perfettamente coerente con lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della nostra Costituzione, con la sua innovativa e ampia concezione di paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione e lo stretto legame tra tutela e promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica’. È anche la dimostrazione che l’Europa può essere non solo burocrazia e finanza, ma principi e valori. Proprio il patrimonio culturale, inteso come l’insieme complesso delle diverse eredità culturali, può peraltro costituire l’ambito pri-vilegiato per affermare «gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto» (art. 3).

Riuscirà finalmente il Parlamento a ratificare questa im-portante Convenzione? E soprattutto eviteremo il rischio che accada quanto già verificatosi con altre convenzioni euro-pee, come quella Paesaggio, e cioè che i principi affermati vengano considerati alla stregua di semplici slogan buoni per accontentare minoranze sensibili ai temi della cultura e del paesaggio, senza alcuna reale ricaduta nella legislazione nazionale e nell’organizzazione della tutela?

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L’avevo denominata ‘Operazione San Gennaro’ nel mio li-bro Un patrimonio italiano, nel quale illustro vari casi di buona gestione del patrimonio culturale. Ne parlo da anni in tutte le occasioni, presentandolo come un esempio virtuoso, un vero modello da imitare anche altrove. La SAMI-Società degli Archeologi Medievisti Italiani, che ho presieduto fino a pochi mesi fa, ha assegnato il ‘Premio Riccardo Francovich’ 2016, intitolato al grande archeologo medievista scomparso dieci anni fa, con la seguente motivazione: «per l’appassionata ed efficace opera di promozione culturale e sociale, per la capa-cità di coinvolgimento della “comunità di patrimonio” del Rione Sanità e per l’innovativa gestione “dal basso” di un importante complesso archeologico».

Si tratta delle Catacombe di Napoli, uno straordinario complesso costituito dalle catacombe di San Gennaro, di San Gaudioso e di San Severo, uno dei più importanti d’Italia.

Ma anche una storia bellissima, che ora potrebbe essere a rischio.

Tutto è cominciato nel settembre del 2001 con l’arrivo, qua-si casuale, al Rione Sanità, di don Antonio Loffredo, che ha raccontato la vicenda, sua e dei suoi ragazzi, in un bellissimo e commovente libro, Noi del Rione Sanità. Don Antonio, spa-esato dai tanti problemi di quel difficile quartiere che aveva dato i natali a Totò, intuì che l’unica maniera per risvegliarne la coscienza fosse puntare sui ragazzi, sulla formazione e la cultura e sul patrimonio culturale. In particolare la sua

NON SI INTERROMPAIL ‘MIRACOLO’ DI SAN GENNARO!

* Versione leggermente rivista dell’articolo in Huffington Post, 7.10.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/non-si-inter-rompa-il-miracolo-di-san-gennaro_a_23581883/?utm_hp_ref=it-blog.

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attenzione si rivolse alle catacombe, in gran parte chiuse al pubblico e visitate da poche migliaia di persone. Un patrimo-nio eccezionale noto quasi solo agli studiosi, un potenziale straordinario per la comunità del Rione.

Com’è noto in Italia le catacombe sono affidate alle cure del Vaticano, per il tramite della Pontificia Commissione di Ar-cheologia Sacra, sulla base del Concordato tra Stato e Chiesa. Don Antonio ingaggiò una vera e propria battaglia, faticosa, irritante, sconfortante, fatta di comunicazioni, richieste di in-tervento, risposte in incomprensibile burocratese, resistenze. Un carteggio infinito con Curia, Soprintendenze, Ministero dell’Interno, PCAS, ASL Napoli 1 (che addirittura usava la chiesa di San Gennaro come magazzino!), Comune, demanio, francescani e arciconfraternite: un «reticolo di richieste di au-torizzazione, nomine di commissioni, assegnazioni di fondi o bandi e appalti che moltiplicavano i partecipanti all’impresa

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Non si interrompa il ‘miracolo’ di San Gennaro! 115

in maniera esponenziale, sprofondando nelle lungaggini e nell’immobilità che ben conosciamo».

Infine, grazie al sostegno del cardinale Sepe, da allora mai venuto meno, si giunse all’affidamento a don Antonio anche della direzione delle catacombe di San Gennaro oltre a quelle di San Gaudioso. Nel 2009 finalmente la PCAS stipulò una convenzione con l’Arcidiocesi di Napoli per la gestione di tutte le catacombe, che fu affidata alla cooperativa ‘La Pa-ranza’, costituita da giovani del quartiere. In questi anni, tra lavori di manutenzione straordinaria e ordinaria, interventi per consentire l’accesso anche ai disabili, un innovativo siste-ma di illuminazione, e grazie anche a progetti e al sostegno della Fondazione Con il Sud, dell’associazione l’Altra Napoli onlus, di vari imprenditori e soprattutto del Rione, con la nascita della Fondazione di partecipazione ‘San Gennaro’, si è assistito ad un vero ‘miracolo’.

I ragazzi si sono formati, alcuni hanno ripreso studi in-terrotti, altri si sono laureati, hanno fatto stages all’estero, appreso le lingue straniere, hanno dato vita a una impresa sociale di successo. Con loro hanno lavorato i ragazzi (alcuni anche con i problemi facilmente immaginabili in un quartiere come la Sanità) dell’Officina dei Talenti, che si sono occupati dei lavori edili, elettrici, idraulici.

I visitatori, che nel 2009 erano circa 8.000, hanno supera-to quota 104.000 nel 2017. Moltissimi sono gli stranieri. Nel 2018 questa cifra è stata già abbondantemente superata e si prospetta un nuovo successo. Nel frattempo sono nati dei B&B, un’orchestra giovanile, una scuola di vela, uno studio di registrazione, l’attività di doposcuola, una casa editrice e tante altre attività, che consentono a non meno di cinquan-ta giovani di lavorare con contratti regolari. Alcuni si sono sposati, hanno avuto figli, tutti stanno costruendo il loro fu-turo e quello della loro comunità. Il patrimonio culturale ha

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale116

offerto una chance a ragazzi e ragazze che avrebbero potuto avere un destino ben diverso in un luogo in cui l’unica altra economia fiorente è quella camorristica. Alla ‘Paranza dei bambini’ raccontata da Saviano si è contrapposta una ‘Pa-ranza’ di impegno culturale e civile.

La gente del quartiere ha assistito quasi con meraviglia all’arrivo dei turisti, si sono moltiplicate le attività artigianali, i bar, i ristoranti. Si è sviluppata, cioè, un’economia sana, pulita, di cui Napoli e il Sud hanno un estremo bisogno. La Paranza e l’esperimento della Sanità sono diventati un caso di studio e hanno raccolto l’attenzione e il sostegno di tanti studiosi italiani e stranieri.

Il vero miracolo sta soprattutto nella scoperta da parte del-la gente del quartiere del suo patrimonio. Al Rione Sanità si è andata, cioè, formando quella che la Convezione europea di Faro definisce una ‘comunità di patrimonio’.

Quel patrimonio che era fino a qualche anno fa ignorato e anche maltrattato dagli stessi abitanti del quartiere, oggi è una vera risorsa, perché i cittadini ne stanno finalmente scoprendo e comprendendo il valore. La tutela diventa così sociale, partecipata, attiva.

Ora tutto questo pare a rischio. La PCAS e il Vaticano vor-rebbero – così sembra – rientrare nel pieno possesso dei beni e curarne direttamente la gestione. Pare anche che si chieda il versamento del 50% delle entrate: una richiesta che ovvia-mente metterebbe in crisi la sostenibilità dell’attuale gestione.

Si avanzano problemi di tutela: se ci sono, li si affrontino. Non credo che i ragazzi de La Paranza e don Antonio si siano mai opposti alla necessità di garantire la massima tutela e cura del bene. Gli specialisti, i restauratori, le imprese sono indicati dalla PCAS, ed è bene che sia così, perché si tratta di un patrimonio delicato, che richiede alta specializzazione. Ma non si usi, come troppo spesso accade nel nostro Paese,

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l’argomento della tutela per impedire nuove e più efficaci forme di gestione. Anche questo episodio è forse un sintomo del clima controriformistico che si respira nel nostro Paese nel campo del patrimonio culturale?

C’è stato un incontro ad altissimi livelli tra i cardinali Sepe e Ravasi e c’è da sperare che da due personalità di così alto profilo religioso, morale e culturale venga la soluzione mi-gliore per continuare a sostenere un progetto pienamente coerente con gli indirizzi di papa Francesco. Un progetto di cui la Chiesa, il Vaticano, la PCAS dovrebbero andare fieri e che andrebbe semmai esportato anche altrove per valorizzare il patrimonio culturale, ecclesiastico e non solo.

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La recente vicenda delle Catacombe di Napoli, che ha visto contrapposti il Vaticano e la cooperativa giovanile La Paranza del Rione Sanità (ma anche due diverse visioni del patrimonio culturale e del suo ruolo nella società contemporanea), ha avuto un merito: ha fatto emergere la straordinaria parteci-pazione popolare che don Antonio Loffredo e i suoi ragazzi hanno saputo attivare intorno a quel patrimonio e a quella straordinaria forma di gestione. In pochi giorni oltre 60.000 persone hanno sottoscritto un appello a papa Francesco, tante personalità hanno levato la voce a difesa di quella esperienza, decine sono stati gli articoli sui giornali e i servizi radiofonici e televisivi, i social network sono stati invasi da post di indi-gnazione e di sostegno a La Paranza.

Questo episodio potrebbe avere un ulteriore risvolto po-sitivo, se riuscirà a far emergere per la prima volta in manie-ra evidente un intero mondo sommerso, quello delle tante esperienze di ‘gestione dal basso’ del patrimonio italiano diffuse in tutto il Paese. Ne ho conosciute tante nel corso dei miei spostamenti dal Nord al profondo Sud d’Italia e ne ho parlato in alcune mie recenti pubblicazioni, illustrando alcune decine di casi. È un fenomeno assai ampio e quasi del tutto sconosciuto, dalle dimensioni inimmaginabili. Mi limito a un esempio: un collega economista dell’Università ‘Federico II’, Stefano Consiglio, ha curato con i suoi studenti

DALLE CATACOMBE DI NAPOLI AGLI“STATI GENERALI DELLA GESTIONE

DEL PATRIMONIO CULTURALE DAL BASSO”

* Versione leggermente rivista dell’articolo in Huffington Post, 19.11.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/dalle-cata-combe-di-napoli-agli-stati-generali-della-gestione-del-patrimonio-cul-turale-dal-basso_a_23592865/.

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Dalle catacombe di Napoli agli “stati generali” 119

un censimento che conta nella sola città di Napoli ben 70 casi diversi di gestione di beni culturali, tra chiese, palazzi e altri tipi di monumenti e spazi urbani.

L’Italia è un paese straordinario, riserva continuamente scoperte e anche sorprese imprevedibili, grazie a beni cultu-rali presenti in ogni luogo, in ogni borgo, nei centri storici, nelle campagne, nelle acque. Beni troppo spesso in stato di abbandono. Si pensi alla miriade di piccoli musei, di aree archeologiche, di chiese o palazzi chiusi. È un enorme pa-trimonio diffuso (vera peculiarità del modello italiano) da decenni condannato al degrado e alla marginalità o, nel mi-gliore dei casi, a una gestione del tutto insoddisfacente, che mai il Pubblico sarà in grado di gestire da solo. Ebbene, sono altrettanto numerose le esperienze di cura, tutela, manuten-zione, valorizzazione e gestione sviluppatasi in varie forme.

La contrapposizione pubblico-privato rappresenta, infat-ti, un falso problema, perché il reale conflitto è tra interesse privato e interesse pubblico. Non mi riferisco al privato ‘for profit’ e ai grandi gruppi monopolisti, che, peraltro, hanno interesse solo per i grandi ‘attrattori’ in grado di garantire significativi ricavi, ma al privato sociale, al terzo settore, rap-presentato sia dalle grandi fondazioni, come il FAI, sia dalle tante piccole fondazioni operanti in vari territori, e anche dalle piccole società e cooperative, dai singoli professionisti, delle associazioni.

Lo Stato e le varie istituzioni pubbliche dovrebbero favo-rire tali straordinarie energie e le vitali creatività presenti nei vari territori, sostenendo la nascita e il consolidamento di mille iniziative diverse, indirizzandole, coordinandole, mo-nitorandole. Questo dovrebbe essere uno dei compiti dei Poli museali regionali del MiBAC. Non si tratta, infatti, di chiedere un passo indietro da parte delle istituzioni pubbliche, ma, al contrario, uno in avanti, in un’ottica di vero servizio pubblico:

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale120

si recupererebbero, così, e si curerebbero pezzi di patrimonio culturale restituito a nuova vita; si garantirebbe la pubblica fruizione; si svolgerebbero servizi per le comunità locali; si costruirebbero luoghi di produzione culturale.

Sono questi i temi che la politica dovrebbe saper valutare, apprezzare e sostenere, non con l’assistenza (o peggio con l’assistenzialismo o con fondi assegnati ‘a pioggia’), ma con un’azione di coordinamento e indirizzo, con la rapidità delle autorizzazioni, con la trasparenza delle procedure. Quanti sono i musei o i siti archeologici che hanno ricevuto anche ingenti finanziamenti per il restauro, la sistemazione, l’allesti-mento e che il giorno dopo l’inaugurazione ritornano a essere chiusi o gestiti in maniera del tutto insoddisfacente? E sia ben chiaro: non basta il volontariato (che è una risorsa preziosa, ma che non deve essere sostitutiva del lavoro professionale). Il patrimonio culturale dovrebbe favorire nuove occasioni di lavoro qualificato e di economia sana e pulita, come proprio il caso del Rione Sanità dimostra.

Per tale motivo, proprio a partire dal caso della Paranza, sono stati indetti gli “Stati Generali della gestione del pa-trimonio culturale dal basso” a Firenze il 23 febbraio 2019, nell’ambito di TourismA. Si tratta di una prima occasione per dare voce alle tante realtà sommerse, operanti nel campo del patrimonio culturale: un ambito nel quale serve, più che altrove, coraggio, creatività, e voglia di sperimentare solu-zioni nuove.

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L’8 marzo 2017, mentre si festeggiava la giornata della donna, in un post su Facebook, alle ore 17:00, Domenico Sergio Antonacci, un giovane di Carpino da anni impegnato in attività culturali, guida turistica e attivo promotore dello sviluppo del Gargano, lanciò questo messaggio: «#Riportia-moACasaLaStele. Una stele daunia all’asta ... valore stimato circa 5500 euro. Con 1 euro a testa la riportiamo “a casa”, abbiamo 15 giorni di tempo, si può fare?» 1. Il post conteneva un link al sito web della Casa d’aste Bertolami Fine Arts 2. Si trattava di una stele alta 62 cm, in vari frammenti, datata al VII-VI secolo a.C., con alcune decorazioni alquanto con-suete: un corteo di persone, alcuni elementi decorativi della veste, elementi geometrici vari. Quanto alla provenienza la scheda che affiancava la fotografia precisava: «Da collezio-ne privata inglese, acquistata negli anni 2000 dalla Herakles Numismatik und Antiquitäten GmbH (Monaco di Baviera); precedentemente acquisita nel mercato antiquario europeo durante il decennio 1970».

Io, Saverio Russo e Anna Maria Tunzi fummo direttamente chiamati in causa. Il post ricevette rapidamente circa 80 ‘mi piace’, 67 commenti e 30 condivisioni. Seguì con un certo interesse il dibattito che si andava sviluppando e appresi che

* Ho deciso di pubblicare questo pezzo (in parte rivisto e modificato), apparso sul mio blog, come segnale positivo di un’iniziativa nata spontaneamente dal basso.

1  https://www.facebook.com/hashtag/riportiamoacasalastele? source=feed_text&story_id=10154575032688250.

2  https://auctions.bertolamifinearts.com/it/lot/11525/stele-daunia-vii-i-vi-secolo-ac-alt-cm-/.

UNA PICCOLA BELLA VICENDA DI PARTECIPAZIONE

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l’iniziativa era partita anche da altri giovani ‘garganici’, Do-menico Moretti, laureato in Storia medievale a Bologna e con una grande passione per la numismatica medievale, Giam-pietro Piemontese, nostro laureato in archeologia a Foggia, e altri ancora. Mi incuriosì e mi impressionò positivamente l’attivismo di questi giovani: ma mi interessava anche capire se si trattasse dell’ennesima iniziativa virtuale, fatta solo di post, di facili ‘mi piace’ che non si negano a nessuno e di ine-vitabili polemiche (che anche in quella occasione non sono mancate). Chiamato in causa, intervenni anch’io lo stesso 8 marzo scrivendo: «In tutte le aste ci sono centinaia-migliaia di oggetti che vengono dalla Daunia. Tempo fa è stata seque-strata a Ginevra una collezione di un trafficante (Becchina) con oltre 5000 pezzi, la maggior parte dei quali dalla Daunia. E ora i pezzi sono ancora dai CC del Nucleo Tutela. Più del valore del pezzo può contare il valore di una iniziativa col-lettiva, come simbolo, come segnale. L’idea di una colletta in questo senso è bella. Ne parlo con i soci della Fondazione Apulia felix».

Intervenne anche il sindaco di Manfredonia, Angelo Ric-cardi, che ragionevolmente fece notare: «Scusate, di stele dau-nie in giro per il mondo c’è ne sono centinaia, è impensabile acquistarle o recuperarle tutte, oltre che essere inutile, per il semplice motivo che non ci sono spazi per esporle, voglio ricordare che i depositi delle varie soprintendenze sono pieni di stele. Con la prossima apertura del museo nazionale del castello resterete stupiti dalla meraviglia dei reperti esposti».

Riccardi aveva perfettamente ragione. Con una facile bat-tuta si potrebbe dire che «le stele sono tante, milioni di milioni …». Impossibile seguirle tutte, fantasioso recuperarle tutte, impensabile acquistarle tutte nelle varie aste nel mondo. Peraltro, la stele messa all’asta a Londra da Bertolami non era certamente il pezzo più importante, o quello meglio con-

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Una piccola bella vicenda di partecipazione 123

servato o arricchito da raffigurazioni rare o particolarmente significative. Quella stele, però, sembrò assumere presto un significato particolare: quello della partecipazione. Non è il valore in sé che conta, ma l’emergere di un sentimento di partecipazione di una ‘comunità di patrimonio’ della Daunia, ancora tutta da costruire.

Com’è noto, le stele daunie sono tra i manufatti più carat-teristici della civiltà della Daunia. La prima fu scoperta agli inizi del Novecento, ma fu soprattutto negli anni Sessanta, grazie all’archeologo Silvio Ferri, professore a Palermo, Pavia e infine a Pisa, che questa classe di oggetti fu valorizzata. Ferri ne vide una casualmente in una farmacia di Manfredo-nia (Antonio Murgo) e comprese l’importanza di tali ogget-ti, tanto da lanciarsi in una frenetica raccolta nel territorio sipontino, in particolare tra contadini e collezionisti vari, fino a mettere insieme un gruppo di 1.200 pezzi! È stata poi

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un’allieva di Ferri, Maria Luisa Nava, per anni funzionario della Soprintendenza archeologica a Foggia, a proseguire gli studi su questa particolare classe di oggetti, che rappresenta perfettamente la cultura, la civiltà e la società della Daunia antica. Lastre di pietra decorate, segnacoli di tombe, con vi-vaci raffigurazioni che presentano, come in un ‘film’, scene di vita quotidiana, di guerra, di caccia, di commerci, di riti religiosi, documentando anche l’abbigliamento maschile e femminile delle aristocrazie daunie, in particolare tra VII e VI secolo a.C. Anche per questo la stele in vendita a Londra assumeva un valore simbolico particolare. È stato proprio a partire dagli anni Sessanta che le stele cominciarono ad es-sere trafugate e a finire nei percorsi del commercio illegale, alimentando collezioni private, italiane e straniere, e anche esposizioni museali all’estero. È verosimilmente che in questo stesso contesto la stele di Londra sia giunta in Germania e in Inghilterra.

Ma torniamo alla sfida lanciata su Facebook. Con Saverio Russo, allora presidente della Fondazione Banca del Monte, carissimo amico e collega, decidemmo di sostenere l’inizia-tiva. Sondai i soci della Fondazione Apulia Felix, che, come sempre, si dimostrarono immediatamente disponibili: mi dissero di andare avanti con il progetto della ‘colletta’, as-sicurando la copertura dei costi non garantiti dai contributi dei partecipanti alla raccolta. Pareva difficile raggiungere la somma necessaria in pochi giorni e pareva inutile lanciare una raccolta per poi dire: «scusate, non ci siamo riusciti, vi restituiamo i soldi!».

Verificammo, anche tramite la soprintendente Simonetta Bonomi, che la stele non fosse nella banca dati dei Carabi-nieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale relativa agli oggetti trafugati (non volevamo certo trasformarci in ricet-tatori!). Il controllo diede esito negativo, come mi comunicò

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Una piccola bella vicenda di partecipazione 125

la comandante del Nucleo di Bari, Michelange Stefàno. La stele era legalmente in vendita a Londra e rischiava di finire in una delle tante collezioni private nel mondo.

A questo punto, il 10 marzo lanciammo la sfida, con un post sulla pagina Fb della Fondazione Apulia felix:

RIPORTIAMO A CASA UN FRAMMENTO DI STORIA DELLA DAUNIA. Raccogliendo la sollecitazione di molte persone sui social media, la Fondazione Apulia felix lancia una raccolta di fondi per l’acquisto di una stele daunia in vendita in un’asta della casa Bertolami. I versamenti vanno fatti sul cc intestato a Fondazione Apulia felix onlus presso Banca Prossima IBAN IT84I0335901600100000066451 causale “Donazione per la stele daunia” (è una donazione detraibile dalle tasse in quanto donazione a onlus). Documenteremo tutte le donazioni e faremo tutto con la massima trasparenza. Speriamo di poter raccogliere una somma significativa, suf-ficiente per riuscirci. La fondazione Apulia Felix farà la sua parte ma questa deve essere una prova di partecipazione, di mecenatismo diffuso, di cittadinanza attiva. Se riusciremo ad acquistare la stele decideremo dove collocarla, in un museo, in un luogo pubblico, in ogni caso in modo che sia fruibile da tutti. È solo una delle tante stele daunie e non è certo uno dei pezzi più pregiati. Sappiamo bene che nei musei, nei magazzini ce ne sono molte, e sappiamo bene che sul mercato antiquario ci sono migliaia di oggetti archeologici provenienti dalla Daunia, frutto dello scavo clandestino e del commercio illegale. Ma questa vuole essere innanzitutto una manifestazione di iniziativa dal basso. Abbiamo anche allertato, d’intesa con la Soprintendenza ABAP Foggia-BAT, il Nucleo dei Carabinieri NTP per verificare se nella loro banca dati di pezzi trafugati compaia anche questa stele e attendiamo notizie in proposito. Ma intanto procediamo con la raccolta dei fondi.

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A partire da quel momento si mise in moto una partecipa-zione molto attiva, che vide ancora protagonisti Antonacci, Moretti, Piemontese e altri ancora.

Antonacci rilanciò su Facebook: «A volte serve sognare .... basta poco ed ecco che partono “avventure incredibili”. Qualche giorno fa da uno scambio di link è nata “la folle idea” di fare una colletta per “riprenderci” la stele daunia messa all’asta su un sito inglese (sorvoliamo come ci è ar-rivata ... lecitamente...). Dopo aver verificato la situazione la Fondazione Apulia Felix onlus si mette subito a disposi-zione per “l’impresa”. Adesso la “colletta” è partita, tempo qualche giorno sarà attivata anche una campagna su un sito di #crowfunding. Ora tocca a noi, a tutti noi! #Riportiamo-ACasaLaStele. I versamenti vanno fatti sul cc intestato a Fondazione Apulia felix onlus presso Banca Prossima IBAN IT84I0335901600100000066451 causale “Donazione per la ste-le daunia” (è una donazione detraibile dalle tasse in quanto donazione a onlus)».

Con l’aiuto di Antonio Fortarezza, fotografo e pubblicitario foggiano trapiantato a Milano e socio collaboratore della Fon-dazione, si predispose un manifesto e un banner per il web.

Da allora fu tutto un susseguirsi di interventi, di articoli sui giornali, prima «L’Attacco», poi «La Gazzetta di Capitanata», televisioni locali come Tele Dauna, Teleradioerre, vari siti giornalistici web come L’Immediato, Foggia Città Aperta, ecc.

A partire dal 14 marzo cominciarono ad arrivare sul conto corrente della Fondazione i primi contributi: alcuni minimi (anche 1 euro), altri piccoli (5, 10, 20 euro), la maggior parte di 40-50 euro, molti di 70-100 euro e anche di 300 euro. Citta-dini di Foggia e della Capitanata, Associazioni, ma non solo. Si raggiunsero prima 200 euro, poi 600, poi si superarono i 1000 e, infine, alla data del 24 marzo, giorno dell’asta, arri-vammo a 1.596 euro. Man mano che la raccolta proseguiva,

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con l’impegno di dare massima trasparenza, informavamo tutti dei risultati raggiunti e davamo conto della situazione. Registrata la Fondazione sul sito web di Bertolami, domenica 19 marzo, decisi di tentare con la prima offerta, conferman-do la base d’asta di 1.800, ma nel frattempo c’era già stata un’offerta di 1.900 sterline, e il costo era salito a 2.200. Mi consultai con Moretti, che ha esperienza di aste, e con gli altri, e decidemmo di attendere. Il 22 marzo feci l’offerta di 2.200 sterline, sperando che altri non rilanciassero. Ormai eravamo in ballo.

La raccolta proseguiva, mentre io controllavo sistematica-mente il sito di Bertolami, pur essendo a Matelica e Camerino per una seduta straordinaria del Consiglio Superiore BCP nelle zone terremotate, e poi a Bologna per un convegno. La situazione restava stabile. Arrivò il fatidico 24 marzo e alle 13:00 (ora italiana, le 12:00 a Londra), mentre ero a Ferrara al Salone del Restauro e dei Musei impegnato in un conve-gno dell’AMLI, dal titolo “I musei dei cittadini” (un titolo perfettamente in linea con l’operazione in corso), proprio mentre stavo tenendo l’intervento conclusivo, alle 13:00, con il telefonino connesso con il sito di Berlolami verificai che la nostra offerta fosse ancora quella vincente (e ne davo noti-zia in diretta al pubblico in sala, al quale raccontai questa esperienza).

Ma non era finita. L’asta vera e propria ebbe inizio a Lon-dra alle 16:00 (17:00 ora italiana), cioè mentre ero in treno di ritorno a Foggia. Mi collegai via web e seguì l’asta in diretta, facendo per la prima volta questo tipo di esperienza, che non avevo mai avuto e mai avrei pensato di avere in vita mia. Mi colpì la velocità con la quale tutto si svolgeva, si passava dal un lotto all’altro, c’erano offerte in sala, o dal web da parte di anonimi acquirenti indicati da un codice, e le somme salivano rapidamente. Mi colpiva il codice di un anonimo utente che

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offriva cifre alte per ogni oggetto, in particolare per reperti micenei, ma anche per un vaso figurato attico per il quale offrì una cifra da capogiro: chi sarà mai? Un ricco collezionista russo o arabo (pare siano quelli pronti ad offrire le somme più alte pur di accaparrarsi manufatti archeologici). Temevo che potesse accadere anche per la nostra stele. E allora mi dissi: fino a che cifra potrò concorrere? Avevamo raccolto circa 1.600 euro, avevo la disponibilità dei soci della Fondazione e anche la promessa di un aiuto dalla Fondazione Banca del Monte, dal Comune di Foggia e anche da un Istituto bancario del territorio. Ma pensavo anche che fosse immorale offrire cifre esagerate. Avevo dunque io la responsabilità di decidere la somma da impegnare: decisi che al massimo avremmo offerto 4.000 sterline, che mi sembrava una cifra già molto, troppo, alta. Oltre non me la sarei sentita di andare. Era una iniziati-va che valorizzava la partecipazione ‘dal basso’, non poteva trasformarsi in una gara con ricchi collezionisti feticisti. Ma per fortuna non ce ne fu bisogno.

Intanto ero ad Ancona e sapevo bene che subito dopo il treno avrebbe attraversato molte gallerie; ed eravamo al lot-to 35 (il nostro era il 38). Per fortuna c’era Anna Maria De Meo, l’attivissima segretaria della Fondazione, collegata al computer da Foggia nell’Auditorium Santa Chiara, alla quale per prudenza avevo fornito le credenziali. Ed erano collega-ti anche Domenico Moretti e Domenico Sergio Antonacci. Inoltre, sempre per prudenza, avevo chiesto a Bertolami di essere contattato telefonicamente per poter fare delle offerte nel caso in cui avessi avuto problemi di connessione internet: che puntualmente si presentarono, appena il treno cominciò a entrare nelle varie gallerie a sud di Ancona. Anche la con-nessione telefonica non era perfetta, ma riescivo a seguire. Si arrivò al lotto 38: passarono alcuni secondi, non arrivò nessun altro rialzo, si chiuse con la nostra offerta di 2.200 sterline.

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Era fatta, la stele era nostra! Appena superate le gallerie, potei dare la notizia ufficiale su Facebook e Twitter, così come tutta la vicenda era cominciata.

Alle ore 18:51 pubblicai il post su Facebook: «Evviva! La stele torna a casa. Chiusa asta, acquistata per 2.200 sterline». E alle 18:54 su Twitter: «La stele, un frammento di storia, torna in Daunia. Appena chiusa l’asta a Londra. È nostra per 2200 sterline (+ diritti e spese spedizione)».

Un po’ più tardi alle 19:03, pubblicai un altro post un po’ più dettagliato, accompagnato anche dagli estratti del conto corrente con la lista dei versamenti giunti fino al 24 marzo.

Cominciò un turbinio di messaggi, post, commenti (anche qualcuno stupidamente polemico), telefonate, sms, wapp. Sergio De Nicola, della TGR Puglia, che aveva già fatto un pezzo la mattina al Tg delle 14:00, prima che l’asta si chiu-desse, era in attesa di conferma per darne notizia al Tg delle 19:30. Il giorno dopo mi chiamarono anche da TeleNorba e da TeleBlu per delle interviste. La vicenda aveva suscitato un grande interesse e risvegliato molto orgoglio e voglia di partecipazione. Era questo l’intento desiderato.

A quel punto si trattava solo di procedere al pagamento cercando di far arrivare il pezzo al più presto. C’era anche bisogno di un intervento di restauro (che la soprintendente Bonomi aveva garantito di poter effettuare presso il Labora-torio di restauro della Soprintendenza) e la predisposizione di un supporto espositivo specifico (che La Fondazione Banca del Monte aveva promesso di donare).

L’idea era di effettuare un tour per i vari musei archeologici della Daunia, accompagnata da alcuni pannelli illustrativi non solo sulle stele ma anche sul drammatico fenomeno dello scavo clandestino e del commercio illegale di oggetti arche-ologici, riprendendo una battaglia fatta da Marina Mazzei, che a questo tema aveva dedicato anche una specifica mostra:

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iniziando dal museo di Ordona – che si stava per inaugurare – a Ascoli Satriano, da San Severo a Lucera, da San Paolo di Civitate a Trinitapoli, da Vieste a Canosa, da Troia a Bovino, ecc., per poi collocarla a Foggia o nel grande Museo Nazionale della Daunia in allestimento a Manfredonia, dove sarà pos-sibile visitare la più straordinaria collezione di stele daunie.

P.s. La stele è stata finora esposta nell’ordine al Museo Civico di Herdonia (Ordona) in occasione della sua inaugurazione, poi a Bovino e a Monte Sant’Angelo; attualmente è esposta nel Museo del Territorio a Foggia, in attesa di nuove puntate in altri musei della Daunia.

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IL PAESAGGIO SIAMO NOI

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La Toscana ha sempre rappresentato per tutta l’Italia (e non solo) un modello per la cura e la pianificazione del paesaggio. Si è dotata, tra mille difficoltà di un buon Piano Paesaggisti-co 1. Insieme alla Toscana, il primato è nelle mani anche di una regione del Sud, la Puglia, che dopo un percorso complesso, durato molti anni, ha visto l’entrata in vigore del suo PPTR 2, il primo in Italia ad essere approvato secondo le nuove regole e a essere adottato congiuntamente dalla Regione e dal Mi-nistero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Un risultato di cui poco si parla sulla stampa nazionale.

Nell’aprile del 2014 il Piano toscano fu presentato dall’as-sessore Anna Marson in un’audizione del Consiglio Supe-riore ‘Beni culturali e paesaggistici’ e ricevette un convinto apprezzamento 3. Un sostegno che faceva seguito a quello già espresso precedentemente al PPTR della Puglia, presentato in un’altra audizione dall’assessore Angela Barbanente. Il Consiglio sottolineò, in quella occasione, che i piani paesag-gistici rappresentano uno strumento strategico che innova la stessa idea di tutela. I piani paesaggistici hanno un approccio progettuale, non si occupano del singolo sito, del singolo monumento, ma affrontano interi territori regionali con una visione sistemica, introducendo una profonda revisione degli

* Versione rivista di Nel futuro si va Piano, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 14 marzo 2015, 27.

1  Si veda ora Marson 2016.2  Si vedano Mininni 2011; Magnaghi 2014.3   http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/

documents/1401352839564_Audizione_per_Piano_Paesaggistico_della_Toscana.pdf.

NEL FUTURO SI VA PIANO

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strumenti della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale, con particolare riferimento ai paesaggi e con una progettazione anche di nuove forme di sviluppo, impresa e lavoro.

Per esperienza personale, vissuta nella collaborazione al piano paesaggistico pugliese, posso testimoniare che nella vita dei piani paesaggistici si registrano due momenti, con re-azioni differenti da parte della ‘società’ locale. Nella fase della predisposizione del piano si riscontra un consenso diffuso da parte delle associazioni e della cittadinanza attiva (anche se non mancano le critiche di quelle associazioni ambientaliste che considerano i piani troppo moderati!). Nella fase dell’ado-zione si registra, invece, un’opposizione del mondo impren-ditoriale (o almeno di una parte di esso) e del mondo politico (o almeno di una parte di esso), fino ad allora distratti. Non

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si comprende che un piano paesaggistico rappresenta uno stimolo all’innovazione anche nel campo dell’imprenditoria, come hanno colto i settori più avanzati del mondo imprendi-toriale. È quanto si è verificato prima in Puglia e poi anche in Toscana. Sembra, infatti, prevalere, insieme alla difesa d’inte-ressi di una parte, una visione arcaica e superata del modello di sviluppo, accompagnata anche da polemiche strumentali e da una sconfortante incapacità di studio dei problemi e di reale comprensione delle potenzialità di questi strumenti democratici di pianificazione del futuro di una regione. I Piani paesaggistici pugliese e toscano, infatti, sono ben lontani da una visione solo vincolistica o mummificatrice del territorio. È necessario abbandonare definitivamente una certa visione dei piani paesaggistici, da alcuni sentiti come un ‘lusso’ di professori, intellettuali, ambientalisti, e affermare la loro forza progettuale, la loro capacità di guardare al futuro e a nuove forme di sviluppo. La dialettica conservazione-innovazione è in questo caso ben chiara: chi li contrasta, difendendo non solo privilegi particolari ma anche sistemi produttivi ormai superati, è un conservatore. Chi li promuove e li difende è un innovatore.

Le associazioni culturali e ambientali, i settori più avveduti delle professioni e della società civile, regionale e nazionale, i giornali, dovrebbero far sentire sempre di più la propria voce. È bene sottolineare come il caso toscano (per ovvi mo-tivi, ancor più che quello pugliese) non riguardi solo la realtà locale, ma riveste un grande interesse nazionale, anche come indirizzo per le altre regioni.

Il MiBAC(T), come negli anni passati hanno più volte sotto-lineato il ministro Dario Franceschini e il sottosegretario con delega al paesaggio Ilaria Borletti Buitoni, ha inteso procedere decisamente sulla strada della predisposizione dei piani pae-saggistici di tutte le regioni. È stato anche un preciso impegno

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del Consiglio Superiore fornire uno stimolo e un sostegno convinto in tal senso.

In entrambe le regioni, sono state due donne molto capaci e tenaci, ottime studiose di urbanistica, Angela Barbanente e Anna Marson, a portare avanti con competenza e determina-zione la lunga e faticosa battaglia per il Piano Paesaggistico Regionale. Sono le ‘signore dei piani paesaggistici’. Due ricer-catrici e amministratrici alle quali il nostro Paese deve molto.

In entrambi i casi la battaglia si è conclusa con successo. Ma l’applicazione dei Piani è ancora tutta da fare. E sono ancora troppe le regioni (nel frattempo si sono aggiunti i Piani del Piemonte e del Friuli Venezia Giulia) ad esserne sprovviste.

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1. Il Consiglio Superiore si è molto occupato in questi anni di paesaggio, perché lo considera un tema centrale nelle po-litiche di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Ci siamo occupati molto anche di questioni relative alle aree terremotate, siamo stati a Matelica, dove abbiamo tenuto una seduta straordinaria e pubblica del Consiglio Superiore, e a Spoleto e Norcia.

In occasione degli Stati Generali del Paesaggio poniamo l’accento sui paesaggi sociali, sulla legalità e soprattutto sull’inclusione.

Sappiamo bene che il paesaggio è il prodotto dell’azione delle comunità succedutesi in un determinato territorio nel corso del tempo, del loro rapporto con l’ambiente. Siamo tutti noi a produrre i paesaggi con le nostre scelte, tanto chi governa i processi di trasformazione del territorio, quanto chi vive, lavora, opera in un territorio.

Quando le scelte producono illegalità, come l’abusivismo, le violazioni ambientali, lo sfruttamento eccessivo di suolo e di risorse, si avviano processi di disgregazione del paesag-gio, ai quali corrispondono processi di disgregazione sociale delle comunità, in un drammatico circolo vizioso. Paesaggi degradati e violentati sono non solo l’immagine di una so-cietà degradata e violenta, ma sollecitano ulteriore degrado e violenza.

LEGALITÀ E INCLUSIONE SOCIALE:VERSO IL DIRITTO A PAESAGGI DI QUALITÀ

* Versione rivista dei miei interventi su Legalità e inclusione sociale: verso il diritto a paesaggi di qualità, in Stati Generali del Paesaggio, Atti, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (Roma 25-25 ottobre 2017), Roma 2018, 103-106, 183-185.

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L’abusivismo, compreso anche quell’abusivismo di neces-sità da tanti ormai tollerato, la cementificazione selvaggia, le opere non finite, le discariche illegali, il consumo di suolo, il degrado diffuso, anche quello fatto di piccole scelte quotidia-ne come la spazzatura nelle campagne, laddove si è avviato il processo di raccolta differenziata (è questo un fenomeno che al Sud conosciamo molto bene): insomma il paesaggio siamo noi! Ecco perché dovremmo porlo come una questione centrale nelle scelte di un Paese, di una regione, di una città, di una comunità.

Le trasformazioni del territorio con le conurbazioni, con la perdita di relazioni tra le componenti del tessuto insedia-tivo hanno prodotto una omologazione di luoghi, o meglio, come sappiamo bene, la creazione di ‘non luoghi’: le periferie prive di qualsiasi identità, ma anche i centri storici snaturati e svuotati degli abitanti e delle piccole attività economiche tradizionali, trasformati, a seconda dei casi in sequenze di pub, ristoranti, B&B, o lasciati al degrado e occupati solo da immigrati e persone in grande difficoltà; le distese di anonimi capannoni, le sequenze di centri commerciali con ampi par-cheggi, i vuoti considerati come intollerabili spazi da riempire che diventano inevitabilmente luoghi di emarginazione e di disagio sociale.

La riqualificazione dei paesaggi, soprattutto se condotta con azioni fatte di partecipazione, costituisce un importan-te fattore di rigenerazione sociale e un efficace strumento di riproposizione di legalità, capace di rafforzare il senso di appartenenza delle comunità e di divenire un elemento trai-nante per la riscoperta e la valorizzazione di contesti sociali ed economici di cui si è perso il valore.

Dovremmo, quindi, affermare anche un’etica del paesag-gio, ben al di là della visione estetica a lungo prevalente. Elementi essenziali in questo processo sono la conoscenza

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diffusa e la partecipazione, perché si sviluppi una coscienza di luogo e si costituiscano quelle ‘comunità di patrimonio’ indicate dalla Convenzione di Faro.

Faccio un cenno a un episodio recente che mi ha molto colpito e che mi ha fatto molto riflettere. Nella notte tra il 6 e il settembre 2017 un incendio ha colpito un sito archeologico nel quale lavoro da 15 anni con la mia équipe in Puglia, ad Ascoli Satriano: il sito di Faragola; le fiamme hanno distrutto interamente le coperture, progettate e realizzate negli anni scorsi, e l’intero sistema di musealizzazione del sito; hanno anche danneggiato fortemente le strutture archeologiche, in particolare i pavimenti in marmo e a mosaico; in poche ore sono andati in fumo anni di studi, di lavoro, di progettazione e di ricerca di fondi.

In questo momento importa poco se si è trattato di un in-cendio doloso, come io penso, o di un incidente; quello che mi importa sottolineare è stata, a parte alcune lodevoli eccezioni, la partecipazione non molto sentita della comunità locale a questa tragedia, quasi che non si trattasse di una ferita inferta al loro patrimonio culturale. C’è stata una grande solidarietà nazionale e internazionale, si è registrata un’immediata rea-zione del Ministero e delle varie istituzioni, si è avviata subito una raccolta di fondi con sistemi del crowdfunding, alcune scuole e associazioni si sono mobilitate, ma mi sarei aspettato una maggiore partecipazione locale.

C’è da chiedersi quindi cosa sia successo, in cosa abbiamo sbagliato, perché fino a quando effettuavamo i nostri scavi e il cantiere era continuamente aperto e visitato, le nostre conferenze vedevano centinaia di persone per conoscere le nostre scoperte, invece dopo l’incendio la partecipazione si è ridotta a poche decine di persone? Forse la prolungata chiusura del sito durante i lavori di musealizzazione ha fatto perdere l’interesse per il sito, che viene sentito dalla comu-

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nità come qualcosa di distante? Forse avremmo dovuto fare molto di più di quanto abbiamo fatto (e garantisco che non è stato poco) per stabilire un rapporto stretto tra patrimonio culturale e cittadinanza? È questa una lezione di cui dovrem-mo tenere conto quando effettuiamo ricerche, realizziamo restauri, allestiamo musei. La partecipazione, cioè, non può essere più intesa solo come fruizione, ma deve tradursi nel coinvolgimento di cittadini nei processi decisionali.

Dovremmo passare definitivamente da una tutela passiva, fatta solo di vincoli e divieti (assolutamente necessari), a una tutela attiva, favorendo una tutela sociale, fatta di consape-volezza, di partecipazione, di lavoro qualificato. Ci sono nel Paese energie diffuse che attendono solo di essere sostenute ed essere messe alla prova. C’è nella nostra società una voglia di partecipazione – lo chiamerei un ottimismo della volontà – che viene da grandi fondazioni o da società pubbliche, da piccole associazioni, da giovani professionisti.

Ecco perché tutte le misure che incentivino le forme di par-tecipazione sono da sostenere. Ho conosciuto soprattutto al Sud straordinarie potenzialità e forme innovative di gestione dal basso, che, però, spesso vengono messe in difficoltà (mi dispiace dirlo) anche dalle stesse Istituzioni.

I vantaggi sono numerosi e sono di varia natura e mi li-mito a indicarne solo alcuni: 1) la crescita occupazionale; 2) lo sviluppo di forme di micro economia sana, pulita; 3) il recupero di soggetti a rischio e il loro inserimento nel lavo-ro; 4) la crescita della sicurezza urbana e rurale. Il caso del Rione Sanità è certamente il più significativo – e non è un caso che agli Stati Generali del Paesaggio abbia partecipato padre Antonio Loffredo – ma non è l’unico, al Sud come in altre parti d’Italia.

Sono questi secondo me i temi di cui dovremmo occuparci, sostenendo le iniziative dal basso con un’azione di indirizzo,

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di valutazione, con servizi, con un’attività di consulenza, con la rapidità delle autorizzazioni, con la trasparenza delle pro-cedure. Si tratta a mio parere di adottare i metodi della social innovation applicati al patrimonio culturale. Ho imparato che ci sono tanti rischi di insuccesso. Il successo è possibile solo se ogni iniziativa è in grado di stabilire un’alleanza con la comunità locale e costruire una rete di collaborazioni tra-sversali, se al centro ci sono la qualità del progetto e la qualità professionale delle persone coinvolte, se le entrate sono in grado di garantire autonomia da ogni forma di dipendenza, se la partecipazione ai fondi e ai finanziamenti pubblici non si trasforma addirittura in un rischio, se si è in grado di garantire una sostenibilità nel tempo.

In conclusione, mi preme sottolineare come accanto a for-me di sfiducia presenti nella nostra società sono individuabili anche energie ancora poco valorizzate: questa è una sfida per noi addetti ai lavori che rischiamo di parlare solo tra di noi. Dovremmo pensare a una nuova funzione di noi specialisti del patrimonio culturale, per evitare il rischio di restare vitti-me della nostra aristocratica tradizione, spesso chiudendoci

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in un fortino, sentendoci minacciati e circondati da nemici. Ma chi sono i nemici e gli assedianti? I cittadini per i quali in realtà operiamo?

Dovremmo aprirci, abbandonare i corporativismi, usci-re dagli specialismi settoriali, dialogare con gli altri saperi, comunicare in maniera chiara e appassionata, insomma ri-metterci in gioco, soprattutto sviluppando la partecipazione attiva e stabilendo un rapporto diretto con la cittadinanza.

Hanno partecipato alla sessione: Nicola Diomede (Prefetto di Agri-gento), don Antonio Loffredo (Parroco della basilica di S. Maria della Sanità di Napoli), Mario Cucinella (architetto), Tiziana Coccoluto (Vice Capo di Gabinetto Vicario MiBACT), Fabrizio Parrulli (Coman-dante dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale), Fede-rica Galloni (Direttore Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane del MiBACT), Luisa Papotti (Soprintendente Arche-ologia Belle Arti e paesaggio per la Città metropolitana di Torino).

2. Aver deciso di attribuire la responsabilità del tema ‘pa-esaggio e legalità’ all’attuale presidente del Consiglio Supe-riore spero voglia sottolineare anche l’esigenza molto sentita dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo di aprirsi sempre di più alla società.

Il cardinal Ravasi nella sua bella lezione agli Stati Gene-rali del Paesaggio ha invitato a riflettere su un elemento: il paesaggio siamo noi. Il paesaggio non solo riflette regole e valori di una comunità, ma ne riflette anche le responsabilità. Questo è il primo elemento da sottolineare: la responsabilità delle scelte, sia di chi ha responsabilità di governo del terri-torio, sia dei singoli cittadini, delle comunità.

Ovviamente, bisognerebbe sollecitare la responsabilità attraverso un maggiore investimento nella conoscenza, at-traverso l’educazione al patrimonio. Se vogliamo che tutti

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si sentano coinvolti nella tutela del patrimonio culturale do-vremmo mettere tutti nelle condizioni di dare un valore al patrimonio, innanzitutto conoscendolo.

Rischiamo di promuovere un’omologazione dei luoghi che produce emarginazione e disagio sociale. È importante sot-tolineare come nella recente riforma del Ministero dei beni e delle attività culturali si sia voluto istituire una specifica dire-zione generale all’architettura contemporanea e alle periferie.

Come ha sottolineato il cardinale Ravasi nella sua lezione, la bruttezza produce bruttura, i paesaggi degradati e vio-lentati producono degrado e violenza, in un circolo vizio-so assai pericoloso, che coincide anche con forme di micro abusivismo. Servirebbero, quindi, anche incentivazioni per eliminare le forme di micro abusivismo, che spesso è difficile anche solo monitorare.

Servono norme, servono vincoli, servono divieti, ma non bastano. Il prefetto di Agrigento, Diomede, ha sottolineato la difficoltà di applicare le sentenze, per esempio per la demoli-zione di edifici abusivi, ma ha presentato anche casi di solu-zioni innovative di recupero di zone oggetto di abusivismo, ripensate per un uso pubblico e per uno sviluppo sostenibile.

Servono norme più certe. Serve anche una minore discre-zionalità, come ha sottolineato Tiziana Coccoluto nel suo in-tervento. Questo è un elemento importante nel rapporto con i cittadini. Basta, per esempio, con i condoni, che creano un clima di incertezza e fanno avvertire anche un “disagio” da parte dei cittadini che rispettano le regole e le norme.

Abbiamo in Italia la grande tradizione del Nucleo tutela del patrimonio culturale dei Carabinieri, ai quali siamo grati per il lavoro che svolgono. Il generale Parrulli ci ha ricordato anche come con l’apporto delle Guardie forestali, confluite nei Carabinieri, sia possibile contare su una maggiore forza di monitoraggio e di controllo, soprattutto dei territori rurali e

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forestali. Ricordo che il nostro Paese ha avanzato la proposta dei Caschi blu per la cultura a livello internazionale per in-tervenire nelle zone di guerra, nelle zone in cui si producono distruzioni di patrimonio culturale, con danni gravi alle città, alle campagne e alle comunità.

La repressione è necessaria ma non è sufficiente. Un divieto serve ma non basta a risolvere il problema di un patrimonio diffuso come quello italiano. Un bravo soprintendente soleva dire – come non condividere pienamente il suo pensiero? – che il vincolo è in realtà una sconfitta. Noi arriviamo al vincolo quando non disponiamo di altri strumenti. È impor-tante, ovviamente, usarlo, ma di fatto è una sconfitta, perché il nostro obiettivo sarebbe una tutela sociale che eviti il ricorso al divieto e alla punizione. Un obiettivo così ambizioso, però, richiede un’azione sistematica, lunga, continua, costante di vicinanza alle comunità, una grande attività di educazione e di sensibilizzazione. E per tutto questo servono risorse e personale, non solo per i gradi musei e i grandi progetti, ma per l’azione quotidiana, sistematica, continua.

Voglio ricordare che l’articolo 9 della Costituzione prevede tra i compiti prioritari della Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione, ma anche lo sviluppo della conoscenza e della ricerca scientifica e tecnica. Le due cose vanno connesse: non è possibile una tutela effi-cace senza conoscenza e senza sviluppo della ricerca.

Questo tema, come ha sottolineato Fabrizio Barca, pone il problema di un’economia nuova, di un’economia sostenibile e durevole, di un’economia rispettosa della stratificazione dei paesaggi, e ci chiede di investire sul lavoro di qualità, per i tanti professionisti del patrimonio culturale formati nelle nostre università e troppo spesso costretti a fare tutt’altro o a emigrare all’estero, o a lavorare in mancanza di regole elementari e di diritti.

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A proposito di tutela sociale, faccio solo un esempio. Come possiamo tutelare e difendere i paesaggi terrazzati o i muretti a secco se non c’è qualcuno che coltivi quei terreni e li curi, come per esempio è stato fatto in un progetto in Calabria che ha coinvolto i migranti in un’operazione di questo tipo? Ovviamente bisognerebbe creare le condizioni che favori-scano anche i giovani a scegliere di vivere e lavorare in zone interne del Paese, facendo rinascere interi territori a rischio di abbandono: non per una scelta di tipo eremitico, ma per una migliore qualità della vita che non sia priva di tecnolo-gie moderne, di innovazione, di ricerca, di infrastrutture nei collegamenti (compresi quelli telematici).

I piani paesaggistici regionali sono uno strumento impor-tante, ma sarebbe necessario prevedere forme di premialità e/o sanzioni per chi ha prodotto e attuato i piani paesaggistici e per chi non l’ha fatto.

Dunque, dovremmo sviluppare quella che è stata definita dalla scuola territorialista la ‘coscienza di luogo’: una piena consapevolezza delle comunità locali della ricchezza e della complessità dei territori nei quali vivono. Dovremmo costru-ire vere comunità di patrimonio.

Uno straordinario esempio di comunità di patrimonio e di coscienza di luogo è rappresentato dal Rione Sanità. Dobbia-mo essere grati al cardinale Ravasi, che ha avuto molti anni fa l’intelligenza, la capacità e la lungimiranza di sostenere l’importante progetto promosso da don Antonio Loffredo: un progetto di recupero del patrimonio culturale, divenuto un progetto di crescita di una comunità locale attraverso il lavoro, la formazione, la partecipazione.

Il nostro Paese dispone di una serie di energie, di creati-vità, di competenze, di voglia di fare. Ci sarebbe bisogno di un maggiore sostegno da parte delle Istituzioni. Servirebbe anche un’azione di coordinamento dei soggetti che operano

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nei territori in maniera occasionale, spesso volontaristica e – diciamolo – spesso con l’ostilità delle stesse Istituzioni.

Se posso fare un piccolo esempio tratto dal mondo dell’in-formatica, direi che abbiamo uno straordinario hardware (il pa-trimonio culturale, il paesaggio); abbiamo uno straordinario software, fatto dalle energie presenti nella società italiana. Serve uno strumento operativo, cioè un sistema che faccia funzionare l’hardware e che valorizzi tutte le potenzialità del software. Oggi nessuno più userebbe il vecchio MS-DOS per far funzionare un potente computer con gli attuali software. Servono sistemi operativi adeguati. Ecco il ruolo, a mio parere, del Ministero dei beni culturali e anche del Ministero dell’istruzione, dell’u-niversità e della ricerca; è questo anche il ruolo degli specialisti. Siamo noi che dobbiamo connettere hardware e software, facen-do in modo di colmare questa separazione che si è venuta a creare nel corso del tempo tra patrimonio culturale e cittadini.

In sintesi, bisogna investire sulle forme di gestione dal bas-so del patrimonio culturale e sulle forme di lavoro qualificato. Come ha suggerito l’architetto Cucinella, bisogna avere più capacità di ascolto, più capacità di conoscenza di quello che le comunità dei cittadini hanno da dirci. Ha perfettamente ragione: è importante ascoltare e capire i segnali che vengono dalla società.

È un invito all’etica della responsabilità (e non solo a quella dei principi sostenuta dai professionisti della polemica) e a una alleanza tra le Istituzioni e i cittadini.

Viviamo una situazione molto difficile, un periodo di grandi cambiamenti, in cui ci sono tante paure. La paura è un senti-mento molto umano e va compresa. Ma noi dovremmo riuscire ad affrontare questa sfida con maggiore coraggio: soprattutto dovremmo occuparci dei luoghi e delle cose, ma ancor di più delle persone che quei luoghi e quelle cose hanno prodotto e vogliono continuare a produrre, a trasformare e a vivere.

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Per un archeologo dei paesaggi, come chi scrive, il pae-saggio è sia giacimento che progetto, intendendo la prima connotazione quale giacimento di informazioni storiche la seconda come progetto di sviluppo sostenibile 1.

L’elemento essenziale, anzi centrale, dal nostro punto di vi-sta è il concetto di ‘contesto’, un concetto teoricamente accettato da tutti e spesso sbandierato ma, forse, ancora poco acquisito nei metodi e ancor meno applicato nella prassi. Per gli archeo-logi il contesto rappresenta «quella situazione in cui uno o più oggetti o le tracce di una o più azioni si presentano all’interno di un sistema coerente in un rapporto reciproco nello spazio e nel tempo sulla base di relazioni di carattere funzionale» 2.

Ebbene cos’è il paesaggio se non quel sistema complesso e coerente di relazioni tra singoli elementi che, pur possedendo un loro valore intrinseco, acquistano un valore maggiore e un senso pieno proprio grazie alle relazioni reciproche? Il paesaggio è, anzi, qualcosa di più: è il contesto dei contesti, secondo la felice definizione data da Andrea Carandini in un suo recente libro: «Un contesto paesaggistico è un organi-smo naturale, agricolo-pastorale o insediativo che si è andato componendo e sovrapponendo nei millenni grazie al lavoro, all’abilità e al gusto di uomini tanto numerosi quanto a noi

* Versione rivista e ridotta della relazione Il paesaggio tra giacimento e progetti, presentata al Convegno ‘Il “paesaggio” di Alberto Predieri’, svolto a Firenze l’11 maggio 2018, organizzato dalla Fondazione CESIFIN, i cui atti sono in corso di stampa.

1  Per alcuni dei temi qui toccati rinvio ad alcuni miei contributi: Volpe 2015a e 2016a; Id. 2017, 26-30.

2  Manacorda 2014b, 65.

«IL PAESAGGIO È LA FORMA DEL PAESE»

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sconosciuti, i quali inconsapevolmente hanno determinato un ordine dovuto ad attività riproposte identiche o compa-tibilmente variate, che hanno conferito alla stratificazione un volto riconoscibile, al quale siano legati come a quello di una persona amata» 3.

I paesaggi, urbani, rurali, costieri e subacquei, sono, infatti, il prodotto dell’azione millenaria di agenti di origine antro-pica e/o naturale: sono, cioè, l’espressione della continua dialettica tra uomo e ambiente. Insediamenti e agglomerati costruiti, campi coltivati e aree aperte, spazi montani, in-colti e marginali, architetture e segni del lavoro quotidiano, produzioni artistiche e tracce dei rapporti di potere e della religiosità, tracce delle culture e dei diversi modi di vita del-le società succedutesi. Insomma non una mera somma di elementi, di punti, di siti, di monumenti, ma un organismo unitario, stratificato e complesso 4. Come, infatti, una sinfonia non è data solo dalla somma di singoli suoni e di strumenti ma da quell’armonia prodotta dalla perfetta integrazione di suoni e strumenti, così il paesaggio non può essere limitato solo a una sola categoria di elementi, per quanto importanti.

La visione di paesaggio cui ho finora schematicamente fatto cenno, fondata sull’approccio proprio di quella che chi parla definisce ‘archeologia globale dei paesaggi’, o racchiusa nella formula preferita da Gian Pietro Brogiolo, ‘archeologia della complessità e delle relazioni’ 5, trova impressionanti analo-gie con le definizioni proposte cinquant’anni fa da Predieri, quando affermava che «paesaggio – oggi – non vuol dire ‘na-tura’, così come non vuol dire ‘campagna’. La parola, cioè, non indica solo il paesaggio naturale, o agricolo, rurale, o,

3  Carandini 2017, 9.4  Rinvio a Volpe, Goffredo 2014, 39-53.5  Brogiolo 2007, 7-38; Id. 2014, 11-22.

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residualmente, non urbano, ma indica anche quello urbano. Il termine ‘paesaggio’ non coincide neppure con la locuzione «bellezze naturali», e ribadiva con forza che «il paesaggio è l’espressione di una dinamica di forze naturali, ma anche, e soprattutto, di forze umane». Anzi, Predieri si spingeva molto più in là, sostenendo in maniera assolutamente pionieristica che «il paesaggio ... è la ‘forma del paese’, creata dall’azione co-sciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata, in modo intensivo o estensivo, nelle città e nella campagna, che agisce sul suolo, che produce segni della sua cultura». Insom-ma, secondo l’insigne giurista, «il paesaggio diventa forma, linguaggio, comunicazione, messaggio, terreno di rapporto fra gli individui, contesto che cementa il gruppo» 6.

Che modernità di pensiero e che lungimiranza!Così inteso, il paesaggio-contesto sfugge a ogni segmenta-

zione disciplinare, per emergere come il luogo della conver-genza e della ricomposizione unitaria di specialismi discipli-nari diversi e di molteplici percorsi di ricerca.

Come sarebbe possibile affrontare la complessità dei pa-esaggi stratificati con gli strumenti euristici di una sola di-sciplina, o addirittura di una parte di essa, senza cioè un’in-tegrazione di saperi e di strumenti capace di elaborare una visione d’insieme, organica, sistemica?

Non vorrei rischiare di fornire una visione edulcorata. Nonostante, infatti, la profonda evoluzione metodologica e gli straordinari progressi delle nostre discipline la tenden-za a considerare isolatamente ciascun elemento o categoria di oggetti non è stata ancora del tutto superata. E anche in campo archeologico, pur essendosi affermati alcuni capisaldi metodologici (stratigrafici, tipologici, topografici e tecnolo-

6  Predieri 1969, 382, 394.

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gici), in certe indagini territoriali resta ancora troppo forte la tendenza sitocentrica, che si traduce in carte zeppe di punti e in cataloghi di siti.

Siamo, insomma, ancora lontani da una reale convergenza disciplinare che è qualcosa di molto più complesso rispetto all’interdisciplinarità sperimentata, pure con risultati apprez-zabili, in passato. Per indagare a fondo le risorse dei paesaggi e per elaborare progetti coerenti di trasformazione, non è più sufficiente solo un confronto tra storici, archeologi, architetti, storici dell’arte e giuristi. Oggi serve una multidisciplinarità molto più ricca di apporti umanistici, scientifici e tecnologici. Al contrario, si registra un ritardo in questa direzione, già nella fase formativa universitaria, perché non esistono o sono assai rari i luoghi del reale confronto interdisciplinare, men-tre si insiste, in tutti e tre i livelli di studi, spesso in maniera ripetitiva, quasi solo nella progressiva specializzazione disci-plinare. Prevale ancora, inoltre, il lavoro individuale, isolato,

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del singolo ricercatore. Mancano soprattutto le figure capaci di elaborare una visione d’insieme e di favorire il dialogo e la collaborazione tra i diversi saperi.

La centralità attribuita al paesaggio ha ispirato anche una delle riforme più radicali realizzate negli ultimi anni nel campo del patrimonio culturale: il passaggio dal modello tradizionale della Soprintendenza settoriale, disciplinare, al nuovo modello della Soprintendenza unica territoriale. Si sta cercando, in tal modo, di affermare anche nella struttu-ra organizzativa del MiBAC quella visione olistica, globa-le, diacronica e contestuale cui ho fatto cenno, facendo del paesaggio l’elemento comune, il tessuto connettivo, il filo unificante dei vari elementi del patrimonio culturale: città, campagne, insediamenti, architetture, arredi, opere d’arte, indissolubilmente legati gli uni agli altri in quanto compo-nenti del ‘sistema paesaggio’.

Come non richiamare a questo proposito il pensiero di Pre-dieri, quando suggeriva come strategia più efficace per una tutela attiva e globale del paesaggio l’attività di pianificazione urbanistica e territoriale? «Se il paesaggio è dinamicamente inteso come continua modificazione della natura e delle pre-cedenti opere dell’uomo […] la tutela del paesaggio consiste nel controllo e nella direzione degli interventi della comunità sul territorio (che agiscono sul paesaggio). Questa tutela avrà lo scopo di assicurare una ordinata mutazione dell’ambiente modellato nei secoli, perché non venga distrutto, anche se non può essere sottratto – nella sua interezza – ai mutamenti che l’opera dell’uomo necessariamente vi apporta». E, pertanto, denunciava la frammentazione delle competenze di tutela, anticipando di fatto la visione insita nelle recenti riforme: «Al fine costituzionalmente imposto di una tutela globale del territorio dovrebbe corrispondere un’organizzazione tale da garantire questa globalità. Non credo di dover spendere

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molte parole per dimostrare come l’attuale ripartizione di competenze sugli interventi nel territorio, talvolta non co-ordinate, altra volta malamente coordinate […], non possa essere considerata da nessuno un modello di efficienza» 7.

Molto, però, c’è da ancora fare, non solo per dotare le nuove Soprintendenze di personale, risorse e mezzi adeguati, ma soprattutto per affermare un nuovo modo di lavorare dei soprintendenti e funzionari, in maniera integrata tra i vari specialisti, con un reale lavoro di équipe. E molto c’è da fare anche nella formazione universitaria dei futuri funzionari e nella formazione permanente dell’attuale personale del Mi-BACT, assai poco abituato al lavoro interdisciplinare e a una visione globale del patrimonio culturale e territoriale.

Personalmente ritengo che la nuova organizzazione ri-sponda anche a un approccio territorialista, a partire dall’in-scindibilità di natura e cultura e da quella tra territorio e storia, promosso dalla Società dei territorialisti, sulla base della visione del «territorio bene comune» 8.

In questo senso un passo in avanti è rappresentato dai Piani Paesaggistici Regionali (purtroppo ancora solo quattro quelli adottati, ad un quindicennio di distanza dal Codice dei beni culturali e del paesaggio) 9, che impongono necessariamente una visione globale e fortemente interdisciplinare, si fondano su una solida base conoscitiva e, soprattutto, rappresentano una nuova frontiera della tutela.

Un’ulteriore vera e propria rivoluzione sarebbe rappre-sentata dalla costituzione di unità operative miste, a scala

7  Predieri 1969, 420-421.8  Magnaghi 2012.9  Si vedano per la Puglia Mininni 2011, 7-71; Magnaghi 2014, 175-202;

per la Toscana Marson 2016. In generale si rinvia alle considerazioni di Magnaghi 2010.

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territoriale, tra Soprintendenze, Università e CNR, cioè i co-siddetti ‘policlinici del patrimonio culturale’.

Un momento significativo, nel percorso che ho indicato, è stato rappresentato dagli Stati Generali del Paesaggio, forte-mente voluti dal sottosegretario Ilaria Borletti: per due giorni sono stati affrontati vari temi con i contributi di molte voci (ora raccolti negli Atti 10). Chi parla ha coordinato una ses-sione sul rapporto tra paesaggi e legalità e inclusione legale. Se il paesaggio è la ‘forma del paese’ (per riprendere la felice immagine di Predieri), cioè la nostra carta d’identità, si pone un problema, appunto, di identità.

Un esito importante degli Stati Generali è la Carta Nazio-nale del Paesaggio, elaborata dall’Osservatorio Nazionale per la qualità del Paesaggio e presentata lo scorso 14 marzo (dedicata alla memoria di Giuseppe Galasso). Si tratta di un documento di straordinaria importanza che «si propone di fornire utili indicazioni programmatiche a chi avrà la respon-sabilità di condurre il nostro Paese nei prossimi decenni.

Essa individua tre obiettivi e per ciascuno di essi alcune azioni per poterli attuare:

1: Promuovere nuove strategie per governare la comples-sità del paesaggio.

2: Promuovere l’educazione e la formazione alla cultura e alla conoscenza del paesaggio.

3: Tutelare e valorizzare il paesaggio come strumento di coesione, legalità, sviluppo sostenibile e benessere anche economico».

Elementi essenziali in questo processo sono la conoscenza, l’educazione e la partecipazione, perché si sviluppi la coscien-

10  Stati generali del Paesaggio.

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za di luogo e si costituiscano quelle ‘comunità di patrimonio’ indicate dalla Convenzione di Faro 11. Come la Convenzione europea sul paesaggio non limita l’azione ai soli paesaggi di pregio ma la estende a tutti i paesaggi, anche quelli della vita quotidiana, compresi quelli degradati delle periferie e delle zone industriali, cosi la Convenzione di Faro estende il con-cetto di patrimonio culturale a «tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi».

Più in generale dovremmo chiederci perché si sia venuta a creare una cesura fra patrimonio culturale e cittadini. A mio parere, questo è l’esito anche di quella visione al tempo stesso proprietaria ed elitaria dei beni culturali e del paesaggio, a lungo prevalente nel nostro Paese, che resiste, nonostante la forza del cambiamento impressa dalle riforme del Ministero dei Beni culturali.

Sono convinto che siano presenti tante realtà attive, tante energie, tanto entusiasmo, tante capacità, tanta voglia di fare. Il patrimonio culturale, e specificamente quello paesaggisti-co, possono e devono essere uno strumento di crescita della democrazia.

Questo vale tanto nella tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali e del paesaggio, quanto, più in generale, nella stessa idea della politica, sempre più in crisi come emerge chiaramente da vari indizi. Solo così il patrimonio culturale potrà offrire un reale contributo per affrontare questa fase di profondi cambiamenti, di grandi difficoltà, di preoccupanti incertezze, di angoscianti paure, ma anche straordinariamen-te interessante, che ci è toccato di vivere.

11  Sulla Convenzione di Faro si vedano i contributi in Feliciati 2016.

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Roma. Per Giuliano Volpe essere archeologo significa an-che capire com’è cambiato il paesaggio agricolo nei millenni per affrontare con miglior cognizione di causa e senza dogmi il difficile rapporto del nostro presente con territori spesso feriti o da salvaguardare. Il professore presiede il nuovo Con-siglio superiore dei beni culturali che si insedia a giugno ed è una figura piuttosto fuori dal comune. Insegna all’Ateneo di Foggia e ha condotto scavi nella Puglia settentrionale con gli studenti; sub per interesse professionale, twitta volentie-ri, scrive sui giornali; si descrive di sinistra (a suo tempo si candidò, come indipendente, per Sinistra ecologia e libertà), laico e non credente, vorrebbe sentire i politici italiani dire e mettere in pratica quanto va predicando Papa Francesco.

Partiamo dai piani paesaggistici sui quali lei interviene spesso. Tranne Puglia e Toscana, che li hanno pianificati insieme al ministero di via del Collegio Romano come prevede il Codice dei beni culturali, e poi li hanno approvati, le altre Regioni sono in grave ritardo.

Dopo Puglia e Toscana in realtà qualcosa si muove. Li han-no in preparazione Marche e Campania, la Sardegna sta revi-sionando quello redatto dall’allora governatore Renato Soru, che però riguardava prevalentemente le coste e sul quale la giunta cadde. Va riconosciuto che il nuovo direttore generale alle belle arti e paesaggio del ministero, Francesco Scoppola, presta un’attenzione particolare al tema e che la delega al

* Stefano Miliani, Non sono un passatista, non voglio mettere sotto teca il territorio, «Il Giornale dell’Arte», 354, 4 giugno 2015.

NON SONO UN PASSATISTA

Intervista di Stefano Miliani

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sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni sottolinea l’interesse strategico del MiBACT.

Eppure il ritardo è clamoroso, no?

È grave e scandaloso perché si è perso molto tempo negli anni passati. Da quando è ministro Dario Franceschini ne sono stati approvati due. Quello pugliese ha fatto un po’ da cavia richiedendo un lunghissimo lavoro per definire proce-dure che potranno essere utilizzate in tutti i piani regionali. Mi aspetto tempi più celeri ora. Stiamo recuperando e la strut-tura è attrezzata. Il Consiglio Superiore, che ha fortemente so-stenuto i Piani pugliese e toscano, ha questa tra le sue priorità.

Quali caratteristiche ritiene debba avere un buon piano pae-saggistico?

Intanto servono piani conoscitivi approfonditi. In passato ne sono stati fatti senza elementi analitici, invece sono fonda-mentali per garantire la qualità delle norme.

Quali punti – cardine indicherebbe?

Primo: puntare sul recupero e porre fine al consumo di territorio e alle nuove costruzioni, alla perdita di equilibrio tra città e campagna; in ambito urbano penso a una cura del-le periferie e al recupero degli immobili già esistenti. Nelle campagne penso a un blocco sostanziale di nuovo cemento e del cosiddetto sprawl, l’edilizia diffusa. Secondo: allentare la pressione sulle coste. È fondamentale anche per il turismo. Pensiamo alla Calabria dove si sono costruite case perfino sulla spiaggia o in aree archeologiche esulando da qualsiasi regola. Invece, anche per il turismo, vanno individuate proce-dure che valorizzino le aree interne recuperando immobili nei piccoli centri. Terzo: va sviluppata una mobilità dolce; lun-go coste come quella pugliese si può fare maggior uso delle

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Non sono un passatista 157

imbarcazioni. Pensando soprattutto al sud, bisogna evitare un’ulteriore cementificazione trovando le formule corrette affinché il turismo porti beneficio ai piccoli centri interni ed eviti lo spopolamento. Quarto: è fondamentale valorizzare il patrimonio culturale. In Puglia abbiamo realizzato una carta dei beni culturali che mi piacerebbe diventasse uno strumen-to per tutte le Regioni. È un sistema informativo che, oltre a censire il patrimonio culturale, incluso quello immateriale, nell’intera regione e ogni sito dalla preistoria al ‘900, per-mette anche di pianificare i finanziamenti, di monitorare i flussi turistici comprendendo musei, parchi, le tradizioni, la musica, le feste. È uno strumento di conoscenza che consente una gestione corretta ed è fortemente collegato col paesaggio.

Secondo molti critici, il decreto governativo “Sblocca-Italia” dell’autunno scorso colpirebbe pesantemente molti paesaggi, anche non compromessi, schiacciando ogni concetto di tutela.

I piani paesaggistici servono appunto ad avere strumenti che evitino che uno “Sblocca-Italia” faccia saltare ogni piani-ficazione e tutela del territorio. Ma finché questi temi saranno materia solo dei professori e degli intellettuali rischieremo di perdere la partita: dobbiamo invece dimostrare che questa visione non vuole bloccare lo sviluppo bensì promuove forme più innovative. Non voglio passare per un passatista che vuol mettere sotto una teca il territorio: le società lo hanno sem-pre trasformato. La scommessa sta nel soddisfare le nuove esigenze e forme di crescita con una pianificazione attenta.

Regole rigorose non sono però indispensabili? Tanto più in un Paese dove vengono regolarmente ignorate?

Sì, ma non si vince la battaglia della tutela con i vincoli soltanto perché sono legati a una visione puntiforme: il sin-golo sito, la singola enclave... I piani paesaggistici invece si

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occupano del tutto: non selezionano le parti da conservare e quelle da lasciare alla trasformazione selvaggia bensì pro-pongono misure compatibili con la trasformazione stessa. Spesso esiste il rischio di identificare la valorizzazione con una mercificazione tout court. Invece bisogna dimostrare che beni culturali e paesaggio sono strategici per uno sviluppo economico. Il problema è intendersi su quale sviluppo econo-mico vogliamo ed è qui che bisogna capire chi pensa davvero al futuro: noi che vorremmo conservare e valorizzare il patri-monio culturale o chi pensa, con una visione arcaica, che lo sviluppo corrisponda al consumare le risorse del territorio?

Lei ha avuto un percorso singolare: com’è arrivato all’archeologia del paesaggio?

Partendo da altre esperienze da archeologo sono arrivato a pensare che l’archeologia non possa che essere globale, nel senso che deve affrontare le tracce del passato con tutte le fonti a disposizione.

Può fare un esempio?

Posso citare la Puglia settentrionale che studio da anni. In età neolitica centinaia di villaggi hanno trasformato il Ta-voliere in una grande pianura coltivata. Dopo sono arrivate l’alternanza con la transumanza e quindi il pascolo, le grandi divisioni agrarie in età romana, i casali e le aziende agricole medioevali. Capendo le forme di integrazione tra agricoltura e allevamento si possono cogliere le peculiarità più profonde dell’area: solo così si può comprendere come il futuro della Puglia settentrionale sia nell’agricoltura di qualità e nel va-lorizzare il patrimonio culturale.

Lei come si è formato, a partire da quando era ragazzo?

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Al classico grandi professori mi hanno stimolato alla co-noscenza dell’antico e a non chiudere gli occhi sul presente. Dopo filologia e storia antica, nel mio percorso di studente universitario ho incontrato Andrea Carandini in uno scavo a Orbetello e poi Daniele Manacorda alla Crypta Balbi a Roma. Da allora è nato il mio interesse per l’archeologia dell’età romana legata all’agricoltura, allo sviluppo economico. Poi mi sono avviato all’archeologia subacquea per studiare i commerci antichi. Ho scavato in Francia, in Albania, sempre interessandomi alle rotte commerciali, ai carichi di anfore con vino e olio, cercando una lettura attenta dei contesti. In Daunia, in Puglia, scavo da quasi 30 anni in città abbandonate come Herdonia presso Ordona oppure a continuità di vita come Canosa; a Faragola stiamo scavando una villa romana con sale da pranzo e terme che ne fanno una specie di Piazza Amerina e un abitato altomedievale non meno importante.

Lei si definisce laico non credente eppure in una sua conferenza a Sassari ha citato Papa Francesco quando ha esortato a tenere vivo il fuoco e a non adorare la cenere. Cosa intendeva dire?

Pur non avendo la fortuna di avere la fede, ma rispettando la religione, trovo questo pontefice straordinario: oltre ai cre-denti disorientati infonde fiducia a chiunque creda nell’ugua-glianza e nella solidarietà in un momento di scontri tra civiltà. E sa dire parole che la sinistra non sa più dire. A mio parere abbiamo bisogno di una sinistra che non riproduca le formule del passato, che sappia conservare valori come uguaglianza, solidarietà, libertà e sappia dare soluzioni nuove, non limitar-si alla difesa di totem di poco senso per i giovani precari, per chi vive nuove forme di povertà o di disagio. Ecco vorrei una sinistra più innovativa e meno conservatrice. Anche nei beni culturali vedo molti con torcicollo rivolti al passato quando servono risposte nuove, quando bisogna avere progetti per tenere vivo quel fuoco, non adorarne le ceneri.

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AMIAMO LE PERSONEALMENO QUANTO AMIAMO LE COSE

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I musei staccati dal territorio. È questa la critica ripetuta continuamente, ossessivamente, dai critici delle recenti rifor-me del MiBAC(T). In sè la critica è giusta e opportuna. Come può un museo, in particolare un museo archeologico, essere sconnesso dal suo territorio? Un territorio di cui è espressio-ne e dal quale si alimenta grazie alle ricerche archeologiche, allo studio di materiali, o anche grazie a nuove ricerche su vecchi scavi e scoperte o anche su collezioni storiche. È questa una peculiarità italiana, testimoniata dalle centinaia di musei archeologici statali, ex provinciali e civici distribuiti in tutto il territorio.

Parto da questo tema, perché lo considero centrale anche in relazione alla comunicazione.

Ma perché bisogna comunicare il patrimonio archeologi-co? E soprattutto come?

Penso di poter riassumere quelli che considero gli elementi essenziali e irrinunciabili in quattro punti:

1) comunicare la globalità e la complessità; 2) saper proporre un racconto;3) saper utilizzare le tecnologie;4) stimolare la partecipazione attiva.

1) Globalità e complessità, a partire dal rapporto museo-ter-ritorio: un concetto sul quale forse converrebbe intendersi. La critica relativa alla rottura di tale rapporto è stata posta a

COMUNICARE IL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO:COMUNITÀ E PROMOZIONE SOCIALE

* Versione rivista e ridotta della relazione tenuta al Convegno ‘Musei archeologici e paesaggi culturali’, svolto a Napoli MANN nei giorni 9-10 marzo 2018. Una versione ridotta è stata pubblicata in Forma Urbis, XXIII, n.7/8, luglio/agosto 2018, 16-19.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale164

seguito del passaggio dalle soprintendenze disciplinari-set-toriali alle soprintendenze uniche territoriali e all’istituzione dei Poli museali e dei Musei-Parchi dotati di autonomia.

La prima domanda da porre è dunque: perché il legame museo-territorio sarebbe garantito se un museo è un ufficio della soprintendenza, com’era fino a due anni fa, ma non lo sarebbe se dipende dal Polo, cioè da un altro istituto del-lo stesso Ministero? Cosa impedisce a un funzionario della soprintendenza che si occupa della tutela di un territorio di esporre i materiali di uno scavo, di organizzare una mostra, di comunicare i risultati di una ricerca territoriale nel museo diretto dal funzionario suo collega afferente al Polo? Insom-ma il rapporto con il territorio è un fatto burocratico-ammi-nistrativo-organizzativo o metodologico-culturale-sociale?

Si obietta, infatti, che ci sono problemi concreti che riguar-dano il funzionamento dei magazzini, i depositi dei materiali di scavo, gli archivi, le biblioteche, i laboratori: ma queste sono questioni pratiche, che sarebbero risolvibilissime se solo ci fosse più capacità di collaborazione e una minore tendenza a erigere muri e a stendere filo spinato intorno al proprio ter-ritorio o al proprio museo, figli di una concezione proprietaria del patrimonio che è all’origine di tanti guasti.

I Poli museali sono ancora la parte più debole della riforma, ma si spera che possano avviare la propria funzione sia grazie all’arrivo di nuovo personale sia sulla base del DM 113/2018 che finalmente dà forma al Sistema Museale Nazionale, di cui i Poli sono componente essenziale.

Ma la domanda principale da porsi è: a quale territorio ci riferiamo? Ho visitato tanti musei archeologici in città, di cui non si illustra né l’intera storia in senso diacronico, né i vari aspetti della vita in un determinato periodo.

Ma tocchiamo il nodo centrale del problema museo-territo-rio: pensiamo al territorio solo come a un’entità fisica, geogra-

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Comunicare il patrimonio archeologico: comunità e promozione sociale 165

fica e storica o anche e soprattutto come a un contesto sociale, fatto di persone, sia della comunità locale sia di quanti quel territorio vogliono visitare e conoscere? E nel terzo millennio, quanti musei sono in grado (come dimostra la straordinaria esperienza del Salinas di Palermo che ha sapute essere ‘aper-to’ mentre aveva da anni le sale chiuse per ristrutturazione) di stabilire un legame anche con quel territorio ‘virtuale’, ma realissimo, rappresentato dalle comunità dei social network?

Forse il problema principale dei nostri musei consiste proprio nella loro tendenza alla decontestualizzazione dai luoghi d’origine di ogni manufatto esposto e dalla sovente incapacità di permettere al visitatore di ricontestualizzare quel manufatto in un luogo e in un momento storico.

Come ha recentemente sottolineato Andrea Carandini nel suo La forza del contesto, «un museo pur rispecchiando in Italia un determinato territorio da cui le opere sono state tratte, mai illustra realmente i loro contesti e dunque mai valorizza le opere dal punto di vista del suolo e della costruzione per i quali sono state generate; le rende solamente più protette e più accessibili entro uno spazio neutrale, a-contestuale, che impoverisce drasticamente la pregnanza storica e la lumino-sità dei capolavori mostrati tanto che il verbo ‘museificare’ conserva ancora oggi nel senso comune un significato spre-giativo, che ha una sua ragion d’essere» 1. L’elemento essen-ziale del sapere comunicare il patrimonio archeologico risiede proprio nell’attenzione riservata al contesto, sia topografico che sociale, sia passato che presente.

Il paesaggio è un palinsesto stratificato, opera non di un singolo artista ma delle comunità succedutesi nel corso del tempo in rapporto con l’ambiente: quanti musei archeologici

1  Carandini 2017,45.

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effettivamente lo rappresentano? E se ‘il paesaggio siamo noi’, possiamo dire anche ‘i musei siamo noi’? 2

2) Il racconto. Un museo archeologico realmente legato al territorio dovrebbe essere in grado innanzitutto di raccontare e far comprendere la complessità della storia stratificata nel territorio a tutte le categorie di visitatori, bambini compresi, con il pieno coinvolgimento delle comunità locali. Qualcuno può sostenere che i nostri musei statali fino a un paio di anni fa, escluse alcune eccezioni, stabilissero questo tipo di legame con i loro territori. Sinceramente ne dubito, ma forse ho fre-quentato altri musei, quelli pieni di oggetti e vuoti di persone, con schiere di vetrine, didascalie e pannelli incomprensibili, fatti da specialisti per specialisti e non certo per le persone normali. Solo una certa visione della cultura e dei musei ha portato a ritenere che un oggetto parli da solo.

Sindrome della fistula plumbea: così è stata definita quella tendenza, ancora oggi largamente dominante, che porta a usare un linguaggio da ‘addetti ai lavori’, che rende di fatto illeggibili le didascalie o i verbosi pannelli di tanti musei e parchi, con testi fitti, spesso resi con un corpo minuscolo che richiederebbe l’uso della lente d’ingrandimento, accanto a disegni o a piante incomprensibili. Didascalie e pannelli che, infatti, quasi nessuno legge. Spesso quegli spazi silenziosi, oscuri, non amichevoli, propongono solo abbuffate bulimiche di cose prive di contesto.

Quanto ha ragione papa Francesco, che non è né un mu-seologo né un archeologo, quando sostiene che i musei do-vrebbero essere saper «custodire il passato per raccontarlo agli uomini di oggi». Il racconto costituisce, dunque, un ele-

2  Si vedano anche le riflessioni di Nizzo 2018.

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mento essenziale, quanto la conservazione del patrimonio, per far vivere il passato nel presente. Un racconto in grado di rivolgersi a tutti, non solo a ‘eletti’ e ‘sapienti’ e capace di attivare la partecipazione. Come ha opportunamente sottoli-neato anni fa Andrea Carandini 3, è necessario che il compito di un archeologo «che voglia essere anche un narratore sia quello di rendere semplice ciò che è complesso, continuo ciò che è lacunoso, completo ciò che è parziale Solo un raccon-to narrativamente persuasivo presuppone una ricostruzione storicamente soddisfacente».

Parafrasando la celebre espressione di Mortimer Whee-ler potremmo dire che l’elemento essenziale di un museo archeologico siano non ‘le cose ma le persone’. È a persone, diverse per cultura, sensibilità, interesse, passioni che un museo dovrebbe saper raccontare la storia di un territorio e delle comunità che lo hanno abitato e trasformato nel corso dei secoli. Ma quanti musei archeologici sono realmente in grado di fare questo? Come sembra evidente, mi sto riferendo a qualcosa di molto diverso da un legame con il territorio garantito solo da un museo-ufficio di una Soprintendenza.

Lo stesso invito a porre al centro le persone è stato rivolto da Orhan Pamuk, nel suo decalogo di un museo che racconti storie quotidiane (2016): «Nei musei avevamo le nazioni, ma quello che ci serve sono le persone».

Quella di Pamuk è un’operazione molto archeologica: rac-contare una storia, quella di un amore tra Kemal e la giovane Füsun, attraverso la raccolta di oggetti di vario tipo, tutti legati alla vita quotidiana, in grado di conservare la memoria di quella difficile storia di amore, che però, come lui stesso precisa nel suo bel romanzo «non è una semplice storia d’a-

3  Carandini 2012, 25.

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more, è la storia di un mondo, o in altri termini, la storia di Istanbul». Qualcuno potrà obiettare che quello progettato e allestito da Pamuk a Istanbul è un museo assai particolare, nato dalla creatività di uno scrittore e, quindi, per forza di cose legato ad un racconto. Ma non sono forse tutti i musei archeologici raccolte di oggetti, da quelli più comuni alle opere d’arte, tratti da luoghi della vita delle persone e delle comunità del passato?

In un bel libro recente 4, plurale nelle voci e nelle espe-rienze, tutte però accomunate dalla passione per il racconto, sono raccolte tante esperienze e tante riflessioni su questo tema. Ad esempio Francesco Ripanti, un giovane dottoran-do impegnato in una tesi di archeologia pubblica, fa notare che «i musei hanno tante storie (custodite dagli oggetti che

4  Dal Maso 2018.

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formano le collezioni), hanno il microfono (dalla segnaletica nel museo agli strumenti del web, dai blog ai social media) e hanno un pubblico (anzi diversi pubblici, dalle persone che frequentano il museo – adulti, bambini, turisti, appassionati – a quelli che seguono il museo in rete). Però noi non siamo abituati a entrare in un museo e a conoscere le sue storie. Di solito ci troviamo di fronte solo a testi descrittivi su periodi storici, popoli, siti archeologici e oggetti» 5

La curatrice di questo volume, Cinzia Dal Maso, giusta-mente ci ricorda che «raccontare è un’arte: in realtà un misto di conoscenze, tecnica e arte». Alla base c’è la conoscenza, c’è la ricerca, c’è lo studio». Il mestiere del comunicatore muse-ale non può, infatti, prescindere da un rapporto vitale con il mondo della ricerca. Ma una cosa è certa: non basta essere dei bravi ricercatori per sapere comunicare a tutti, e non solo alla comunità scientifica (e a volte nemmeno a quella!), come a lungo con un po’ di presunzione abbiamo ritenuto di poter fare tutti noi – chi meglio chi peggio – professori, soprinten-denti, funzionari.

In Italia paghiamo un ritardo storico in questo ambito, sia perché prevale tuttora l’idea che la divulgazione sia un’at-tività marginale, posta ad un livello assai inferiore rispetto alla ricerca scientifica (si pensi, limitandoci all’ambito univer-sitario, ai parametri fissati dall’ANVUR e all’ancora ridotta importanza attribuita, al di là della retorica d’occasione, alla cosiddetta terza missione nella valutazione di un ricercatore), sia perché persiste un sostanziale ritardo culturale e tecni-co-metodologico nell’affrontare la comunicazione in manie-ra matura, utilizzando adeguatamente tutti gli strumenti e i linguaggi disponibili. Anche per questo vorrei ricordare la

5  Ripanti 2018, 54-55.

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straordinaria precoce intuizione di Riccardo Francovich che, ad esempio, per primo iniziò ad utilizzare le splendide rico-struzioni di Inklink poi divenute consuete in tanti musei e parchi archeologici.

Molti archeologi (poco importa se afferenti alle università o al MiBAC o liberi professionisti) non hanno ancora compreso il senso vero della comunicazione e quanto possa contribuire all’attività di conoscenza, di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico. Inevitabilmente il vuoto comunicativo lasciato dagli archeologi viene colmato da altri, dai Giacobbo e dai ‘fantarcheologi’ 6, dagli improvvisatori, dai beceri divulgatori capaci, quando va bene, di banalizzare o, peggio, di infarcire il racconto di ‘mistero’ e di ogni altro tipo di irrazionalità.

3) Tecnologie. L’uso, giustamente sempre più diffuso, del-le tecnologie multimediali, della realtà virtuale o dei social media, che rappresentano indubbiamente strumenti di stra-ordinaria efficacia, pone nuove e più complesse sfide. Non nascondiamoci, infatti, il rischio di possibili fraintendimenti: ciò che conta non è lo strumento (un acquerello, un’assono-metria, un plastico, una ricostruzione virtuale, ecc.) ma la metodologia comunicativa, il contenuto e la tecnica di tra-smissione: se in un innovativo prodotto multimediale, con effetti speciali, si ricade nella sindrome della ‘fistula plumbea’ il risultato non cambia, anzi peggiora proporzionalmente alla potenza dello strumento comunicativo.

Ricostruzioni tridimensionali, elaborazioni virtuali, pro-dotti multimediali, ‘macchine del tempo’ e altre tecnologie digitali sono solo alcuni degli strumenti possibili per narrare

6  Pucci 2000.

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le storie stratificate nei paesaggi o racchiuse in un manufatto, ma il vero nodo resta quello metodologico. Troppo spesso, infatti, prevale l’aspetto sensazionalistico ed esibizionistico, a volte di tipo disneyano, nel quale l’approccio archeologico appare guidato e condizionato in maniera subalterna dalle tecnologie. È ormai alle nostre spalle l’ingenua fiducia ‘po-sitivista’ per le tecnologie. Oggi separare ICT e metodologia è del tutto improprio. Insomma dobbiamo definitivamente superare un’idea della tecnologia che finisce per sposare una concezione antiquaria dell’archeologia proposta al grande pubblico, mentre sempre più si insiste su un approccio glo-bale, contestuale e stratigrafico. Anche quando, quindi, si adoperano tecnologie avanzate, certa archeologia rischia di restare legata al tecnicismo, al tecnologismo, al descrittivi-smo, rischiando, così, di rimanere mera ‘archeografia’.

4) Partecipazione. Negli anni Settanta Ranuccio Bianchi Bandinelli riteneva un dovere politico la divulgazione: «nel trapasso di civiltà che si è avviato oggi nel mondo, ha dunque, a mio avviso, decisiva importanza l’opera di divulgazione che faccia uscire la cultura dalla élite ristretta alla quale appartie-ne ancora, e ne renda accessibile la più profonda sostanza, i più concreti valori al più vasto pubblico possibile. L’essere tagliati fuori, esclusi dalla possibilità di comprendere certi valori culturali è, per la classe operaia, una ingiustizia e una sofferenza non minore di quella dovuta alla diseguaglianza economica e sociale» 7. Oggi le sfide sono ancor più complesse, perché la comunicazione dovrebbe puntare al coinvolgimen-to e alla partecipazione attiva. È questa l’unica strada possibi-le in una fase in cui le attività di conoscenza e di tutela sono

7  Bianchi Bandinelli 1974, 23.

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sempre più considerate da ampi strati di popolazione, oltre che da settori consistenti del ceto politico, come operazioni ‘inutili’, ‘fastidiose’, ‘inefficaci’, ‘costose’. Insomma, com’è possibile tutelare il patrimonio culturale se non affrontiamo il vero nodo politico, cioè, le modalità che consentano a tutti di possedere quel patrimonio, innanzitutto conoscendolo, e in tal modo da attribuirgli un valore?

Sarebbe necessario ribaltare il punto di vista tradizionale: non più solo quello degli specialisti, dei professori e dei fun-zionari della tutela, ma anche quello delle comunità locali, dei cittadini, degli utenti, considerando un valore essenziale la partecipazione democratica della cittadinanza. Sono questi i principi dell’archeologia pubblica, della vera ‘archeologia partecipata’.

Vorrei, infine, indicare alcuni casi che considero positivi, per uscire dal mero ambito delle enunciazioni metodologi-che 8. Ovviamente potrei citare molti esempi positivi (pen-so all’eccellente lavoro dell’Egizio di Torino, del Salinas di Palermo, del MANN e di altri musei ancora), ma preferisco limitarmi ad alcuni casi tratti da un’esperienza personale, quella del Premio Riccardo Francovich della SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani), che negli ultimi 5 anni ha premiato alcuni musei e parchi archeologici, relativi al mondo postclassico. Indico in particolare cinque casi signifi-cativi in riferimento ad alcuni dei temi da me trattati, in gra-do soprattutto di stabilire relazioni proficue con le comunità locali e di sollecitarne la partecipazione. Si tratta di modelli molto diversi tra di loro e anche per questo emblematici.

Il primo è un piccolo museo sardo, Biddas (villaggi, in sar-do), Museo dei villaggi abbandonati della Sardegna, allestito a

8  Rinvio anche ai casi da me illustrati in Volpe 2016a e 2018b.

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Sorso (SS), premio Francovich 2013. Si tratta del primo mu-seo dedicato specificamente al tema dello spopolamento dei villaggi, un fenomeno di lunga durata che riveste un grande significato sotto il profilo socio-economico, culturale, demo-grafico e insediativo. Il museo è strettamente connesso con le ricerche archeologiche condotte dall’Università di Sassari, sotto la direzione di Marco Milanese, e specificamente con lo scavo del sito di Geridu. Secondo il suo ideatore, rappresenta un esempio di come i «musei possano essere luoghi dove spiegare la storia, prima di essere contenitori di oggetti» 9. Si tratta di un museo aperto, concepito come un «ambiente di apprendimento, nel quale il visitatore si immerge ed è coinvolto da suggestioni, parole chiave, ricostruzioni, suoni ed un contatto diretto con i materiali». È un museo privo di pannelli illustrativi, ma ricco di immagini e supporti multi-mediali interattivi, nel quale prevale la dimensione del gioco, tipica del Children’s Museum. È anche un museo che ha vietato i divieti: il visitatore, anzi, è sollecitato a toccare, a fotografare, ad accedere ai dati e a ‘scaricare’ informazioni dalle posta-zioni informatiche con la propria penna USB. È un museo divertente, vivo, coinvolgente, emozionante, che preferisce riproduzioni virtuali e copie agli originali, le informazioni, le idee, i problemi e le interpretazioni agli oggetti.

Il secondo esempio è quello, ormai ben noto, della Crypta Balbi di Roma 10, premio Francovich 2014. Sono molto affe-zionato a questo sito anche per aver fatto parte, nel lontano 1981, del piccolo gruppo di archeologi che con Daniele Ma-nacorda diede avvio a uno degli scavi urbani più importan-ti, che è alla base del museo poi sorto nel sito stesso. È un

9  Milanese 2014.10  Manacorda 2001, 2007a, 2007b.

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museo, dunque, strettamente collegato a uno scavo e a una ricerca, con una comunicazione chiara e avvincente, con un uso intelligente delle tecnologie. Parte del sistema del Museo Nazionale Romano, si stacca nettamente dalle altre tre com-ponenti per l’impianto metodologico, soprattutto perché è uno dei pochi musei italiani in grado davvero di esprimere una visione globale, diacronica, stratigrafica, topografica e contestuale di una porzione di territorio, in questo caso di una parte significativa del paesaggio urbano di Roma: è, cioè, uno dei pochi musei davvero archeologici, nel senso più pieno e moderno del termine.

Il terzo esempio è quello, anch’esso molto ben noto, dell’Ar-cheodromo di Poggibonsi 11, premio Francovich 2015. Anche in questo caso siamo in presenza di un nesso strettissimo tra una ricerca archeologica, diretta da Riccardo Francovich e Marco Valenti, che ha portato all’analisi di un villaggio alto-medievale, e l’esito museale, nella forma originale dell’arche-odromo, capace di ricostruire, con i metodi dell’archeologia e l’uso di vari sistemi di fonti, non solo un pezzo dell’abitato, una longhouse (abitazione della famiglia dominante), e alcune capanne contadine con aia e pollaio, la forgia del fabbro, un forno da pane, due pagliai e l’orto, ma anche e soprattutto le forme di vita di un villaggio altomedievale, dell’alimentazio-ne, del lavoro, dei rapporti di potere, della religiosità, dei riti funerari, grazie all’apporto delle indagini bioarcheologiche, archeometriche, storiche e le tecniche dello storytelling e della storytelling-living history. L’Archeodromo di Poggibonsi, ge-stito dagli archeologi di Archeòtipo S.R.L., non è solo questo: è anche sviluppo locale e costruzione di una comunità di patrimonio. Poggibonsi, com’è noto, non è una realtà turi-

11  Valenti 2016 con altra bibliografia.

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stica: anzi è una cittadina, non priva di problemi, schiacciata da colossi del turismo come San Gimignano, Siena, Volterra, Firenze, che stenta a trovare un suo ruolo. Grazie all’Archeo-dromo le presenze sono cresciute vertiginosamente in questi ultimi anni, con una percentuale del +45% tra il 2014 e il 2016, il risultato migliore dell’intera provincia di Siena, con un significativo apporto in particolare del turismo scolastico.

L’elemento che forse emerge con maggiore evidenza ri-guarda il rapporto con la comunità locale, che ha trovato nell’Archeodromo una ragione importante per riconoscersi come cittadinanza, grazie a un’alleanza tra Amministrazio-ne locale, mondo della ricerca e collettività. Esemplare in tal senso è la collaborazione stabilitasi recentemente con i commercianti del centro, disponibili a promuovere alcuni prodotti alimentari o artigianali nati nell’ambito di questa esperienza: è il caso di una birra ai grani antichi (la birra di Carlo Magno), di tisane, tessuti e mantelli, ceramiche che imitano oggetti restituiti dallo scavo, ecc.

Il quarto caso è molto particolare, anche molto contestato: l’area archeologica di Santa Maria di Siponto 12, nei pressi di Manfredonia, Premio Francovich 2016. La chiesa paleocristia-na, oggetto di vecchi scavi-sterro degli anni ‘50 e di una ri-presa delle indagini di scavo negli anni ‘90, con seri problemi di conservazione e tutela, è rimasta per decenni allo stato di rovine assai poco comprensibili. Nel quadro di un progetto di sistemazione dell’area, la Soprintendenza Archeologia e il Segretariato regionale della Puglia hanno previsto, al posto della solita tettoia già progettata, la realizzazione, al di so-pra della chiesa episcopale paleocristiana, di un’ardita opera d’arte contemporanea di un giovanissimo artista, Edoardo

12  Si vedano a tale proposito le osservazioni di De Felice 2015.

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Tressoldi: una ricostruzione ideale dell’elevato della chiesa paleocristiana, realizzata con reti metalliche elettrosaldate zincate. Non si tratta di una ricostruzione ‘filologica’, né di una opera protettiva. È un’opera d’arte che consente di per-cepire le forme e i volumi del monumento antico, mediante una struttura leggera, trasparente, quasi un ologramma, che offre suggestioni fortissime in particolare grazie all’illumina-zione serale. Nel giro dei due anni, si calcola che circa 200.000 persone (molte delle quali ignoravano l’esistenza di quel mo-numento antico) abbiano visitato il sito, che ha guadagnato anche un’ampia notorietà nazionale e internazionale grazie all’innovativa e coraggiosa soluzione adottata, senza, però, produrre l’entrata di un solo euro per le visite. Se la gestione fosse stata o fosse affidata a una società giovanile, a una fon-dazione, a un’associazione, i proventi possibili potrebbero certamente garantire lavoro ad alcuni operatori oltre che la manutenzione del sito e la sua vitalità. Resta, infatti, ancora aperto il problema, come sempre sottovalutato, della gestione del sito, ora affidato al Polo museale.

Il quinto e ultimo esempio è quello delle Catacombe di Napoli 13, premio Francovich 2016. È il caso al quale sono più affezionato proprio per lo straordinario significato sociale che rappresenta. Nel giro di un decennio, da quando la gestio-ne delle catacombe è stata affidata, per la caparbietà e alla lungimiranza del sacerdote del Rione Sanità, don Antonio Loffredo, ai ragazzi della cooperativa La Paranza, si è realiz-zato un vero ‘miracolo di san Gennaro’, di cui ognuno può cogliere la portata visitando le catacombe e il quartiere. Lo scorso anno è stato raggiunto l’obiettivo di 104.000 visitatori, che pareva irraggiungibile quando si partì nel 2008 con sole

13  Loffredo 2013.

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8.125 presenze. Ma il miracolo non si misura solo nel nume-ro dei visitatori, che in ogni caso ha ormai reso possibile lo stipendio a tutti i soci della Paranza e lavoro alla cooperativa sociale ‘L’Officina dei talenti’, che si occupa di manutenzione e di interventi edili, idraulici, elettrici. Colpisce anche e so-prattutto il fermento che si respira alla Sanità, dove sono attivi un’orchestra giovanile, una compagnia teatrale, uno studio di registrazione, una scuola di vela, un doposcuola, due B&B: un insieme di attività che dà lavoro, diretto o indiretto, a quasi un centinaio di ragazzi e ragazze, in un quartiere non facile di Napoli, grazie ad attività connesse con la gestione del patrimonio culturale, oltre all’indotto dato dal sensibile incremento dei visitatori del quartiere. Qui è nata la Fonda-zione San Gennaro che raccoglie sia imprenditori illuminati sia centinaia di artigiani, commercianti, semplici cittadini. Il miracolo lo si coglie nella preparazione e nella passione dei ragazzi che accompagnano nella visita i gruppi con guide (an-che in altre lingue) di ottimo livello, capaci non solo di offrire informazioni precise ma anche di comunicare una passione, un interesse e una partecipazione davvero emozionanti.

Ecco come un museo-sito archeologico riesce davvero a stabilire un legame con il proprio territorio e la comunità, contribuendo al suo riscatto, alla sua rinascita, alla crescita occupazionale e all’attivazione di forme di microeconomia sana e pulita anche in aree emarginate, problematiche, diffi-cili, al recupero di soggetti a rischio e al loro inserimento nel mondo del lavoro, alla riqualificazione di aree abbandonate, degradate, spesso occupate da forme di microcriminalità, alla crescita della sicurezza urbana, in definitiva al progresso cul-turale, sociale, economica, civile di un territorio. Chiudo con una frase che ama ripetere don Antonio: «se ci siamo riusciti al Rione Sanità, si può fare dappertutto».

O perlomeno dovremmo provarci sempre e dappertutto.

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Fu un tweet del ministro Dario Franceschini a scatenare il putiferio. Con un messaggio Franceschini lanciò una propo-sta che avrebbe potuto apparire, a prima vista, provocatoria e sconvolgente, ma che in realtà è saggia, coraggiosa e inno-vativa al tempo stesso: ripristinare l’arena del Colosseo. Fatta dal ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, la proposta assunse un peso enorme.

Una proposta che si contrapponeva a un certo feticismo diffuso che impedisce di rendere i monumenti e i siti com-prensibili ai visitatori.

Il ministro riprendeva una idea e una proposta di Daniele Manacorda. Sul numero di luglio 2014 di Archeo, nella sua rubrica Il mestiere dell’archeologo, Manacorda aveva pubbli-cato un bell’articolo dal titolo Anfiteatri e campi di golf 1, nel quale, prendendo le mosse da una pubblicità del turismo in Tunisia pubblicata su vari giornali, raffigurante l’interno dell’anfiteatro di El Jem virtualmente utilizzato come campo da golf, lanciava appunto questa idea solo apparentemente provocatoria: ricostruire l’arena del Colosseo.

Il monumento simbolo di Roma e dell’Italia, visitato an-nualmente da oltre 6 milioni di persone, è privo, infatti, di un elemento fondamentale per la comprensione delle sue fun-zioni: l’arena appunto. Mentre, al suo posto, sono visibili gli ambienti sotterranei, una serie intricata di muri e vani incom-

* Versione rivista di Sangue e arena per dare nuova linfa al vero Colosseo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 4.11.2014, 18.

1  Archeo, n. 353, 2014, 94-96; ma si veda anche Manacorda 2016b e anche Id. 2018b.

SANGUE E ARENA

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prensibili. Solo una porzione dell’arena è stata ripristinata con un tavolato ligneo dall’ex soprintendente Adriano La Regina. È come se uno dei nostri campi di calcio, destinato a diventare un futuro sito archeologico, fosse privo del suo prato verde e delle porte: sarebbe difficile spiegare a un ipotetico visitatore del futuro che sul quel prato due squadre di undici giocatori in pantaloncini si passavano abilmente una palla cercando di infilarla nella rete avversaria, mentre un pubblico tifava la propria squadra con urla e cori. Chi, come me, ha provato l’emozione di visitare il Camp Nou di Barcellona, o analoghi stadi di altre città, sa bene cosa intendo.

Manacorda ricordava, opportunamente, che l’arena era ancora presente ancora nel secolo scorso (come mostra una bella immagine di un olio di Ippolito Califfi, L’interno del Co-losseo, 1857 circa) nella quale l’arena è al suo posto, con una

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croce al centro, come anche in una fotografia Alinari. Sono stati gli scavi archeologici successivi a eliminarla.

Perché non è mai stata ripristinata? Un po’ per feticismo, un po’ per quella diffusa assenza di coraggio interpretati-vo che porta molti archeologi a non realizzare ricostruzioni, restauri integrativi, anastilosi. Manacorda utilizza l’efficace espressione di ‘archeologia necrofila’, che porta a privilegiare «un’insana esposizione delle cose morte». E dunque propo-ne di ripristinare l’arena, riportando gli ambienti sotterranei alla loro originaria condizione ipogeica, rendendoli magari accessibili ai visitatori, per poter capire il senso di quei luoghi bui, illuminati da lucerne, destinati alle belve, ai gladiato-ri, alle infermerie per i feriti, agli operatori impegnati nelle varie attività sceniche. E spinge la sua proposta ancor più in là: utilizzare l’arena, non certamente per partite di golf, ma, perché no, per «un incontro di judo o – se preferite – di lotta greco-romana, o forse con un coro di bambini, o forse con una recita di poesie, o con un volo di aquiloni…», o an-che solo per camminarci e provare la sensazione che viveva un gladiatore circa duemila anni fa in quello spazio immen-so. Come non essere d’accordo? Le possibili utilizzazioni compatibili e rispettose del monumento potrebbero essere tante. Si pensi allo straordinario successo dello splendido, ineccepibile scientificamente e culturalmente, coinvolgente e emozionante spettacolo di luci e proiezioni, allestito nel Foro di Augusto da Piero Angela e Paco Lanciano: perché non pensare a proiezioni direttamente sull’arena e su parte dell’elevato, ricostruttive del monumento, delle attività che vi si svolgevano, e anche della sua storia successiva, fatta di abbandoni, riusi come fortezza, recupero di pietre e materiali vari destinati ad altre costruzioni, fino ai giorni nostri.

Al momento del lancio della proposta, avevo sperato che si aprisse un dibattito laico e propositivo, a partire dall’idea

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di Manacorda. La scommessa del Colosseo e di tutta l’area archeologica centrale di Roma (ma in generale di tutti i siti archeologici) si gioca, infatti, anche sul piano della comuni-cazione, della trasformazione di luoghi morti in luoghi vivi, della riappropriazione consapevole del patrimonio culturale da parte dei cittadini e dei visitatori.

La proposta, ovviamente da valutare attentamente nella sua auspicabile attuazione, era ispirata da una reale voglia di cambiamento e dal coraggio. Il ministro Franceschini dimo-strò anche in questo delle importanti aperture. Sperai allora che la sfida fosse raccolta dalla Soprintendenza di Roma, dalla comunità archeologica e, ingenerale dal mondo dei beni cul-turali, ma anche e soprattutto dall’opinione pubblica e dalla società italiana.

P.s. Questa vicenda ha provocato l’ennesima polemica, con po-sizioni più vicine al tifo da stadio (o da anfiteatro!) che al dibattito metodologico e culturale. Con obiezioni che spesso poco hanno a che fare con le ragioni scientifico-culturali: ci sono ben altre priorità! Il Colosseo è più bello così! È più romantico! I sotterranei scoper-chiati fanno ormai parte della storia! La questione si è trascinata a lungo tra studi, verifiche, valutazioni. Sono trascorsi ormai quattro anni. Recentemente, l’attuale direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, Alfonsina Russo, ha dichiarato di voler realizzare l’opera ma con un sistema a scomparsa, capace di coprire e scoprire i sotter-ranei. C’è da sperare che non sia questo un modo per non realizzare l’opera, a fronte di costi prevedibilmente assai elevati per una tale soluzione. Sarebbe un’altra occasione persa.

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Infuriano le polemiche sull’istituzione del Parco archeolo-gico del Colosseo. Polemiche che sembrano tenere in scarso conto i temi di ordine scientifico e culturale, come pure sareb-be giusto trattandosi dell’area archeologica centrale di Roma, con il Colosseo, il Foro romano, il Palatino, la Domus Aurea.

Cerco di offrire un contributo alla riflessione e qualche informazione sui presupposti di questo ultimo atto di quella vera e propria ‘rivoluzione’ realizzata nell’organizzazione del MiBACT dal ministro Franceschini.

Il 30 dicembre del 2014 veniva consegnata al Ministro e all’allora Sindaco Marino uno studio realizzato da una Com-missione paritetica MiBACT-Roma Capitale, presieduta da chi scrive, che proponeva un’analisi e varie soluzioni per una migliore tutela e valorizzazione dell’area archeologica centrale e suggeriva, tra l’altro, la nascita di un organismo unitario. La vera assurdità, infatti, sta nella separazione di competenze tra Stato e Comune. Per il cittadino romano o il turista non ha alcun senso, infatti, che il Foro di Augu-sto sia gestito dal Comune e il vicino Foro Romano sia di competenza dello Stato. A loro interessa solo avere servizi adeguati, essere accolti da personale competente e gentile, vivere una esperienza di crescita culturale e di piacere della conoscenza. Si giunse in occasione del Natale di Roma del 2015 alla sottoscrizione di un accordo tra Ministro e Sindaco. E si lavorò per mesi al progetto di un Consorzio che garantisse

PARCO DEL COLOSSEO.METTIAMO DA PARTE LE STRUMENTALIZZAZIONI

* Versione leggermente rivista dell’articolo Parco del Colosseo. Mettia-mo da parte le strumentalizzazioni, in Huffington Post, 24.04.2017, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/parco-del-colosseo-mettia-mo-da-parte-le-strumentalizzazioni_a_22051639/.

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Parco del Colosseo. Mettiamo da parte le strumentalizzazioni 183

una gestione congiunta. Poi, per le note vicende, il progetto si bloccò. Ma non la speranza che ripartisse. Per questo mo-tivo lo scrivente chiese un incontro (tenutosi il 14.11.2016) all’assessore Luca Bergamo per illustrare i risultati del lavoro di quella Commissione e proporre la ripresa di un percorso comune. Purtroppo, però, emersero visioni e priorità diverse e non si ebbe alcuno sviluppo.

Ma torniamo al Parco. Si tratta di un atto coerente con la riforma del MiBACT, come quelli che hanno portato a Roma all’autonomia del Museo Nazionale Romano o del Museo di Villa Giulia, e, altrove, dei Parchi di Pompei, di Ercolano, di Paestum, ecc. In questo disegno Roma ha avuto, giusta-mente, un trattamento privilegiato, come meritano il suo patrimonio e il suo ruolo di Capitale: ben 10 musei-parchi dotati di autonomia scientifica, organizzativa e gestionale (le risorse restano a disposizione di ciascun museo), ognu-no con un direttore, un consiglio di amministrazione e un comitato scientifico. E anche alla Soprintendenza, che ora si occuperà della tutela dell’intero patrimonio culturale di Roma, è rimasto – caso unico in Italia – lo statuto speciale. Ricordo che prima della riforma operavano ben tre diverse Soprintendenze statali. Ora invece c’è finalmente un sogget-to unico, che si occuperà di archeologia, di architetture, di opere d’arte, di beni demoetnoantropologici e del paesaggio urbano. E riceverà dal Parco del Colosseo il 30% delle risorse provenienti dalle sue entrate (il 50% resterà al Parco e il 20% andrà al fondo di solidarietà che finanzia tutti i musei statali italiani; complessivamente quindi l’80%, esattamente come accade ora, sarà reinvestito a Roma).

La nascita del Parco non significa necessariamente una sua separazione dalla città (ricordo che per visitare questi luoghi gestiti fino ad oggi dalla Soprintendenza e anche quel-li di competenza comunale si paga un biglietto). Parco non

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale184

è necessariamente sinonimo di spazio separato. Siamo tutti consapevoli che l’area centrale di Roma debba conservare – e semmai debba accentuare – la sua funzione di spazio vivo e vitale, vissuto dai cittadini innanzitutto e dai visitatori, capa-ce di rendere esplicito il senso dei luoghi e dei monumenti, evitando ogni forma di separatezza tra la città moderna di Roma, con i suoi bisogni e i suoi problemi, e quella antica. Un’area adeguatamente dotata di servizi, capace di contribu-ire al miglioramento della qualità della vita urbana, un luogo non solo di contemplazione ma anche di comprensione e di emozione, uno spazio ricco di valori culturali che favorisca la socializzazione e la profonda cura di sé. Dovrebbe essere un vero parco urbano. Questo, insieme al rilancio delle attività di ricerca a livello internazionale, all’ulteriore sviluppo delle iniziative culturali, ai programmi di restauro e, soprattutto, di manutenzione programmata, al deciso miglioramento dei servizi per il pubblico, della comunicazione e dell’uso delle tecnologie, sarà tra i compiti del nuovo direttore, un arche-ologo dotato di competenze scientifiche e capacità organiz-zative e gestionali adeguate, che dovrà occuparsi a tempo pieno di questa porzione di Roma. Con la speranza anche possa ripartire un’intesa tra Ministero e Comune, mettendo da parte polemiche e contrapposizioni e chi quelle strumen-talizzazioni le alimenta per fini politici.

P.s. Per sgomberare il campo dalle strumentalizzazioni, pare op-portuno precisare che lo scrivente, per correttezza istituzionale, non è stato tra i candidati alla direzione del nuovo Parco (come alcuni strumentalmente hanno sostenuto anche recentemente).

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Nel luglio del 2015 una serie di scioperi selvaggi provocò la chiusura degli scavi di Pompei. Scioperi, con analoghi di-sagi, c’erano stati anche nell’estate dell’anno precedente. Fu un’ennesima brutta figura davanti ai visitatori increduli e alla pubblica opinione internazionale. Le assemblee sindacali organizzate senza preavviso, bloccando i cancelli, si ripeteva-no ciclicamente. E producevano danni irreparabili, quanto il crollo di un muretto o di un affresco: demolivano in un attimo gli sforzi, il lavoro quotidiano, i restauri, i progetti.

Solo qualche anno fa stavamo quasi per rassegnarci all’idea di una Pompei diventata la Caporetto dei beni culturali italia-ni. Poi è cominciata una stagione nuova: il Grande Progetto Pompei è stato rimesso in carreggiata, con bandi di gara, cantieri a pieno ritmo, riaperture di domus, fino alla nuova sistemazione del cave canem e di molti altri edifici. E, ancora, la grande, bellissima, mostra al Museo di Napoli e nell’anfi-teatro, esposizioni in giro per il mondo, un’altra importante mostra a Milano per l’Expo e altre ancora in Cina e in altri paesi, la ripresa degli studi, delle ricerche.

Gli obiettivi ai quali si lavora con una prospettiva plurien-nale, finita la fase iniziale, convulsa e difficile, riguardano l’abbandono definitivo dalla gestione straordinaria, l’avvio sistematico della manutenzione ordinaria, una migliore co-municazione, servizi più efficienti, il decongestionamento dei luoghi più visitati con nuovi percorsi di visita nella città

POMPEI,DA CAPORETTO A MODELLO PER L’ITALIA

* Versione rivista di Nel sito farò una seduta del Consiglio superiore, in «La Repubblica. Napoli», 26 luglio 2015, VII.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale186

e nell’intero territorio vesuviano, l’integrazione tra parco ar-cheologico, territorio e cittadini.

Il merito di questa inversione di rotta è di molti: dei mini-stri Massimo Bray prima e Dario Franceschini poi, dell’otti-mo soprintendente Massimo Osanna, del generale Giovanni Nistri prima e del generale Mauro Cipolletta poi, e delle loro équipe, del personale della soprintendenza.

Infine, un’altra importante novità è stata rappresentata dall’assunzione di numerosi giovani archeologi e architetti, e anche giovani custodi, preparati, capaci di fornire ai visitatori informazioni corrette, di parlare le lingue straniere. Anche questo è stato un segno del grande cambiamento: il supera-mento dello stereotipo del custode degli scavi.

A proposito di un certo modo di intendere il sindacalismo corporativo, bisogna affermare con forza che esso danneggia

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Pompei, da Caporetto a modello per l’Italia 187

non solo la gloriosa storia del sindacato italiano, ma anche gli stessi lavoratori, Pompei e l’intero Paese. In questo modo si rischia di accrescere la netta, grave, separazione tra le so-printendenze, spesso percepite come ostili, chiuse, autorefe-renziali, pronte solo a dire no, e la società italiana.

Per proseguire sulla strada dell’apertura e del cambiamen-to serve coraggio. Non basta ripetere ossessivamente che non ci sono risorse e personale (il che è verissimo!): a Pompei le risorse e il personale ci sono state anche in passato, ma non è bastato.

Il caso di Pompei dimostra che serve anche un profondo cambiamento culturale, a partire dai comportamenti. È neces-saria un’analisi coraggiosa e franca degli errori commessi, dei vizi e dei difetti. Eliminiamo definitivamente piccoli privilegi, rendite di posizione, corporativismi, logiche burocratiche, per riguadagnare la fiducia dei cittadini e un sostegno sociale.

Il Consiglio Superiore dei beni culturali ha sempre riser-vato un’attenzione particolare a Pompei. Il mio predecessore, Andrea Carandini, promosse un ampio progetto di conserva-zione e fruizione 1 che è stato alla base del Grande Progetto. Nel corso del triennio ben tre audizioni sono state dedicate alla città vesuviana, a sostegno di quanti stanno lavorando per il futuro di Pompei.

1  Cecchi 2011.

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Pompei è la metafora perfetta del nostro Paese. Un patri-monio straordinario, amato, celebrato e invidiato da tutto il mondo, ma per decenni lasciato in stato di progressivo abbandono e disinteresse. Un sito nel quale si sono sperimen-tate tutte le formule possibili: la normale soprintendenza e la soprintendenza speciale, il city manager, il commissario, il Grande progetto.

Una percentuale minima di fondi era stata spesa ad un anno dalla conclusione del Progetto e i progetti erano ine-sistenti: questo aveva provocato l’indignazione del mondo intero; gli occhi dell’Unione europea erano puntati su di noi con la certezza di vedere confermata la solita incapacità degli italiani pasticcioni e spendaccioni, magari da commissariare. Poi c’è stata un’autentica inversione di rotta. Prima la nomina di un nuovo soprintendente, Massimo Osanna, proveniente dal mondo dell’università, a dimostrazione di quanto sarebbe opportuna, necessaria e proficua una più stretta integrazio-ne e alleanza strategica tra università e soprintendenze. Poi l’assunzione di un gruppo di giovani archeologi e architetti. Infine la designazione del generale Giovanni Nistri a diret-tore del Grande Progetto e la costituzione della sua équipe di lavoro.

La macchina ha ripreso a camminare, con i bandi, i proget-ti, i restauri. Il tutto mentre il sito archeologico funzionava normalmente, senza mai chiuderlo a causa dei lavori in corso. E i risultati sono cominciati ad arrivare: riaperture di domus,

PORTE APERTE AI GIOVANIPER RILANCIARE GLI SCAVI DI POMPEI

* Versione rivista di Porte aperte ai giovani per rilanciare gli Scavi, in «La Repubblica. Napoli», 3 agosto 2015, III.

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Porte aperte ai giovani per rilanciare gli scavi di Pompei 189

l’allestimento di alcune mostre di grande valore, l’idea di ridare vita all’antico progetto di Fiorelli della Scuola Arche-ologica di Pompei, l’avvio di nuovi progetti di ricerca. Poi la riapertura della Palestra Grande e la mostra sugli straordinari materiali di Murecine. Tutto bene dunque? Certamente no, e non potrebbe essere diversamente, considerati il tempo e il lavoro da recuperare. Ad esempio il Piano della Conoscenza, preliminare agli interventi, è partito troppo tardi, a lavori già avviati. Ma soprattutto bisogna uscire definitivamente dalla politica dei restauri, che ha ancora animato il Grande pro-getto, e passare a quella della manutenzione programmata. Cosa che progressivamente si va attuando.

Bisogna migliorare la comunicazione, con un uso intelli-gente delle tecnologie. Evitare un eccesso di pressione dei turisti, distribuendo i flussi nella città e nell’intero territorio vesuviano, che ha siti altrettanto straordinari ma poco noti. Avere il coraggio di ripensare completamente il rapporto con il pubblico. Servono figure nuove al servizio dei visitatori, giovani, ben formati, competenti, capaci di dare informazioni corrette, riconoscibili con divise e tesserini: sono loro il primo, e a volte l’unico, contatto con il pubblico. Il MiBAC dovrebbe essere un ministero di tecnici altamente specializzati e non un esercito di custodi ipersindacalizzati!

Anche a Pompei è stato necessario rimettere in discussione certezze e strutture organizzative quasi secolari, ormai anchi-losate, piccole e grandi rendite di posizione, il quieto vivere burocratico. Serviva e serve ancora una grande dose di corag-gio da parte della politica e altrettanta creatività da parte dei tecnici. Ma serve anche la capacità di decidere. Esattamente come proprio a Pompei si sta cercando di fare.

Il mondo dei beni culturali deve saper stabilire una grande alleanza con i cittadini, guadagnarne la fiducia, attivare forme di partecipazione democratica, recuperando quella credibilità

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale190

e autorevolezza sociale senza le quali nessuna riforma sarà possibile. Solo così Pompei potrà proseguire il suo percorso da Caporetto a simbolo della rinascita del Paese!

Il vero obiettivo, in conclusione, è uscire dalla logica dell’e-mergenza e della straordinarietà. Effettuare, cioè, l’unica vera rivoluzione di cui Pompei (il nostro Paese) ha bisogno: quella della normalità!

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Pompei non smette mai di stupire con le sue meraviglie, a oltre tre secoli dagli inizi delle scoperte borboniche, quando cominciarono gli scavi. Non potrebbe essere diversamente in una delle realtà archeologicamente più importanti del mon-do. Una recente nuova scoperta, insieme ad altre, smentisce quanti ritengono che non si debba più scavare, limitandosi solo a sistemare ciò che è stato finora portato alla luce. Sareb-be come se si imponesse al cervello di non acquisire nuovi dati, per sistemare le informazioni già possedute. Ogni nuovo scavo apporta, infatti, nuove informazioni, nuovi dati, nuo-ve risposte e contribuisce a formulare anche nuove ipotesi. Produce cioè ‘lo sviluppo della conoscenza e della ricerca’, esattamente quanto prevede il celebre articolo 9 della nostra Costituzione tra i compiti della Repubblica, insieme alla tu-tela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione.

Gli scavi in corso a Pompei nascono innanzitutto da esi-genze di tutela e di prevenzione, perché riguardano il co-siddetto ‘fronte di scavo’, cioè il perimetro dei vecchi scavi, che rappresenta la zona più problematica e pericolosa, nella quale non a caso si sono verificati spesso i crolli, a causa della pressione della terra contro le domus e gli edifici antichi, con gravi problemi di smaltimento delle acque piovane. Le nuove indagini sono parte della messa in sicurezza di tale bordo e rappresentano, al tempo stesso, un’occasione di ricerca.

LA RICERCA NON HA MAI FINE

* Versione rivista di Pompei, scheletro fa storia. La ricerca non ha mai fine, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 30.5.2018, 1, 27.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale192

La straordinarietà delle recenti scoperte, infatti, non si limi-ta, infatti, solo al ‘cosa’ si scopre, ma è enfatizzata soprattutto dal ‘come’ si scopre. Gli scavi sono finalmente condotti con un rigoroso metodo stratigrafico e con équipe multidisciplinari, nelle quali all’archeologo si affiancano sul campo l’archean-tropologo fisico, l’archeobotanico, l’archeozoologo, il restau-ratore, l’architetto, l’ingegnere strutturista e altri specialisti ancora. Solo così la qualità del dato può essere garantita con l’individuazione e la documentazione di tracce, anche mi-nime, che consentono di chiarire fenomeni che altrimenti andrebbero persi. E che sono andati a lungo persi, con scavi spesso assai poco attenti. Ad esempio, oggi, grazie agli studi dei vulcanologi, finalmente disponiamo di una sequenza di eruzioni fino a quella del 1815, che ha sigillato le precedenti. Possiamo così ricostruire anche le fasi successive alla celebre eruzione descritta da Plinio.

La nuova scoperta riguarda uno scheletro. Si dirà: ma sono centinaia i resti dei pompeiani morti individuati finora, noti soprattutto con i celebri calchi, che, in maniera geniale, rea-lizzò per primo il grande archeologo Giuseppe Fiorelli. Dov’è la novità? Grazie a un approccio di archeologia globale e con il rigore di uno scavo stratigrafico attento ai minimi indizi, è stato possibile ricostruire nei minimi dettagli gli ultimi istanti di vita di un anonimo cittadino di Pompei, in fuga nel corso dell’eruzione del 79 d.C. Dopo il primo flusso piroclastico che aveva già invaso le strade e il piano terra, il fuggiasco tentò di uscire da una finestra del primo piano scappando verso sud. La sua fuga, rallentata da un problema di deambulazione e da dolori artrosici ben documentati dall’antropologo, fu però rapidamente interrotta dall’ondata di ceneri che gli provocò la morte per shock termico, per effetto di una temperatura non inferiore a 300°, non prima di essersi girato verso il Ve-suvio e aver visto in faccia la sua fine, cadendo di spalle a

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La ricerca non ha mai fine 193

terra. Un secondo flusso piroclastico distrusse a quel punto la parte alta della casa, tanto che un blocco di pietra cadde su di lui, ormai morto, schiacciandogli il petto e staccandogli la testa. Non si tratta di una scena di un film dell’orrore, ma della drammatica sequenza ricostruibile sulla base degli in-dizi raccolti nel corso di uno scavo condotto con uno stile da detective (anche il lavoro dell’archeologo si fonda, peraltro, sul paradigma indiziario).

Ecco spiegata la straordinarietà della scoperta. La straor-dinarietà sta in ciò che dovrebbe essere l’ordinarietà di una ricerca archeologica condotta con metodo scientifico, con i mezzi e tutte le competenze propri della moderna archeolo-gia. Anche questo è un merito del direttore Massimo Osan-na, collega professore di archeologia all’Università di Napoli Federico II e prima all’Università della Basilicata. A Pompei finalmente si fa ordinariamente una ricerca archeologica di qualità. Insieme a restauri, a pubblicazioni, a mostre, a servizi sempre migliori per i visitatori. La prossima sfida consiste nel portare a regime un’attività di manutenzione programmata assolutamente necessaria. È questa anche una risposta a chi accusa le recenti riforme di aver privilegiato solo i numeri dei visitatori (che sono cresciuti, cosa che dovrebbe far gioire tutti, anche i critici) e una presunta ‘mercificazione’. Pom-pei che alcuni anni fa rischiava di essere la ‘Caporetto dei beni culturali italiani’, una vergogna nazionale nei confronti dell’Europa e del mondo intero, è diventata il simbolo di un riscatto. Esattamente quello che servirebbe all’intero Paese, in tutti i suoi molteplici settori, se fossero privilegiate la com-petenza e la qualità del progetto e delle persone cui si affida il compito di realizzarlo.

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Il Teatro di Taormina è uno dei monumenti più noti d’Italia. È un simbolo del nostro Paese, conosciuto in tutto il mondo, posto in un contesto paesaggistico di straordinaria qualità, con una vista mozzafiato che oggi, come in antico, coinvol-ge i visitatori e gli spettatori in uno scenario unico. Da anni utilizzato per concerti e vari tipi di spettacolo, il Teatro parla molto meno di sé stesso, della sua lunga storia, delle sue tante trasformazioni, a partire dall’originario impianto di età elle-nistica fino alla fisionomia assunta in età romana e alle varie modifiche subite in età tardoantica, fino alle fasi di spoglio, di riuso in età medievale, giù giù fino alla riscoperta e ai vari interventi di scavo e di restauro. Sotto questo profilo è, come tanti altri, un monumento muto. Non parla della sua storia, né del rapporto con il suo contesto urbano e territoriale.

L’ho visitato ancora una volta recentemente, su invito della collega e amica Vera Greco, l’attiva direttrice del Parco, con Daniele Manacorda, prima dei recenti interventi di sistema-zione effettuati in occasione del G7, e confesso che mi ha col-pito come un monumento così importante, famoso e visitato da migliaia di persone, fosse in uno stato di tale degrado. Mi aveva fatto impressione la quasi totale mancanza di supporti didattici (ora per fortuna sono disponibili gli efficaci e inno-vativi prodotti multimediali, con belle ricostruzioni virtuali,

IL TEATRO DI TAORMINA,UN MONUMENTO STRAORDINARIO

E UN SUGGESTIVO SPAZIO PER SPETTACOLIIN UN PAESAGGIO MOZZAFIATO

* Versione leggermente rivista di Spunti per un progetto di valorizzazione del teatro di Taormina, in Lifting Theatre. La straordinaria risposta alla sfida del G7 di Taormina, a cura di V. Greco, Milano 2017, 38-43.

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Il Teatro di Taormina, un monumento straordinario 195

approntati dall’IBAM-CNR). Ma molto ancora si può e si deve fare per consentire a tutti i visitatori, anche e soprattutto a chi non possiede già una preparazione archeologica adeguata (cioè la stragrande maggioranza) di non limitarsi alla mera contemplazione del monumento e del paesaggio e a qualche bella fotografia e all’immancabile selfie, ma di capire il monu-mento e le storie che può raccontare. Nulla impedisce a chi lo desideri di sdraiarsi, novello Johann Wolfgang von Goethe, nella contemplazione di rovine incomprensibili, ma perché impedire al 99,9% dei normali visitatori del Teatro di capire quelle rovine. Cosa c’è di male se si consente a migliaia di persone, cittadini taorminesi, siciliani e visitatori provenienti da tutto il mondo, di comprendere pienamente il senso di quel monumento, di quelle colonne sparse dappertutto, di quei capitelli, e le storie che quei ruderi raccontano, per esempio assistendo a proiezioni multimediali serali, simili a quelle realizzate nel Foro di Augusto o nel Foro di Cesare allestite da Piero Angela e Paco Lanciano?

La vera rivoluzione nel campo dei beni culturali si rea-lizzerà quando si riuscirà a porre al centro dell’attenzione il cittadino e il visitatore e si considereranno finalmente nella prassi (e non solo per legge) i musei, i monumenti, i parchi archeologici, tutti i luoghi della cultura come un ‘servizio pubblico essenziale’.

Il primo passo in tale direzione consiste nel garantire a tutti l’accessibilità. Certamente, innanzitutto, l’accessibilità fisica, motoria, con percorsi per i portatori di handicap. Ma anche quella cognitiva. Nei musei siamo tutti ‘diversamente abili’, anche noi specialisti. Chi scrive è un archeologo, ma in un museo di arte contemporanea, o di architettura, o di scienze naturali, o anche di archeologia dell’estremo Oriente, può avere non poche difficoltà di ‘accesso’, se non è aiutato da adeguati supporti didattici. Non si tratta di banalizzare

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i contenuti, ma di rendere chiaro ciò che è oscuro, semplice ciò che è complesso, unitario ciò che è frammentario. Si tratta soprattutto di proporre un racconto. Nel caso del Teatro di Taormina la bellezza del luogo e del paesaggio circostante ha supplito alla quasi totale mancanza di supporti. Eppure potrebbe suscitare curiosità ed emozioni ancora maggiori sia attraverso il rapporto diretto con il monumento e il paesaggio circostante sia attraverso la mediazione di supporti didattici efficaci e interattivi.

Servirebbe, quindi, un progetto di comunicazione chiara e efficace, con un uso accorto delle tecnologie. Le soluzioni possibili sono tante e diverse tra loro. Richiedono uno studio inter- e multisciplinare che possa costituire la base per ren-dere il Teatro meglio fruibile e più comprensibile. Mi limito, pertanto, solo a proporre alcune idee.

1. Il pubblico di un museo o di un parco non è mai un’entità indifferenziata. Non lo è anche – a maggior ragione – quello del Teatro di Taormina. Si distingue per età, cultura, lingua, sensibilità, curiosità. La comunicazione dovrebbe tenerne conto e rivolgersi a ciascuna possibile categoria, puntando addirittura, se possibile, a proporre percorsi individuali. Uno dei primi obiettivi da porsi per elaborare un progetto cultu-rale e comunicativo dovrebbe, quindi, puntare alla conoscen-za del pubblico dei visitatori, attraverso indagini specifiche, questionari, interviste, ecc., in modo da acquisire dati utili sul livello di conoscenza in entrata, sui bisogni, sulle esigenze, sulle curiosità, sul livello di soddisfacimento in uscita, rece-pendo anche critiche e suggerimenti. Il marketing (parola da alcuni considerata una bestemmia) di una istituzione cultu-rale altro non è che conoscenza dei propri utenti, per tendere a migliorare la qualità dell’offerta cogliendo le aspettative e gli interessi del pubblico, e anche cercando – perché no – di

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Il Teatro di Taormina, un monumento straordinario 197

orientarne i gusti, esprimendo in tal senso anche una funzione educativa.

Il clima sta finalmente cambiando anche nel nostro Pae-se. Ma c’è molta strada da fare prima di poter considerare acquisito lo slogan del National Trust, fatto proprio dal FAI «Love people as much as you love places». Ancora oggi troppo spesso si riserva un’attenzione quasi esclusiva, a volte al li-mite del feticismo, ai monumenti, molto meno ai visitatori. Questo accade soprattutto in siti e musei molto frequentati: perché conoscere i bisogni del pubblico, se viene comunque, e anche numeroso? È quanto accade al Colosseo o a Pompei. Taormina dia un segnale diverso.

2. Oltre agli spazi all’aperto il Teatro dispone di ambienti coperti, sia quello attualmente adattato a ‘antiquarium’ sia altri, alcuni dei quali al momento non accessibili ai visitatori. Tali ambienti potrebbero essere meglio sistemati, sia ospitan-do, in sequenza cronologica e tematica, i vari materiali e i tanti pezzi architettonici al momento sparsi, sia soprattutto acco-gliendo proiezioni multimediali sulle pareti (simili a quelle realizzate ad esempio a Roma nella Domus Aurea) o altri tipi di supporti didattici.

3. Un altro intervento, a mio parere assai opportuno, po-trebbe consistere nella ricostruzione della pavimentazione dell’orchestra, che in età tardoantica fu trasformata in arena per ospitare spettacoli (munera) gladiatori, nella quale si apre un ambiente sotterraneo, oggi scoperto e adattato a magaz-zino di colonne e altri pezzi architettonici sistemati più o meno alla rinfusa. Al momento tale ambiente sotterraneo è o momentaneamente coperto dal palco utilizzato per gli spetta-coli o circondato da una (brutta) protezione in tubi innocenti per evitare il pericolo che qualche visitatore precipiti al di dentro. Il ripristino della pavimentazione avrebbe il doppio vantaggio di consentire di apprezzare meglio la fisionomia

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dell’orchestra-arena e anche di visitare l’ambiente sotterra-neo, che potrebbe essere musealizzato e destinato a illustrare proprio la fase tardoantica, con le spiegazioni degli scontri tra gladiatori, anche mediante la multimedialità.

È questo un punto delicato, sul quale conviene qualche precisazione, sperando che non si scatenino le stesse pole-miche cha hanno accompagnato l’idea di ripristinare la pa-vimentazione dell’area del Colosseo a Roma, a partire da una suggestione di Daniele Manacorda, accolta dal ministro Fran-ceschini. Il Colosseo e il Teatro di Taormina sono monumenti simbolo dell’Italia, sono visitati annualmente da milioni di persone. Meritano un’attenzione speciale. Eppure questo mo-numento così celebre, ha al suo interno una ferita aperta nel corpo stesso, anzi nel cuore, nell’orchestra: quegli ambienti sotterranei, del tutto incomprensibili, un tempo erano, ap-punto, sotterranei. Perché allora non riportarli alla loro ori-

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Il Teatro di Taormina, un monumento straordinario 199

ginaria condizione e alla loro antica funzione? Ripristinare la pavimentazione sarebbe quasi un dovere etico, rendendo gli spazi sotterranei accessibili ai visitatori, per capire il senso di quei luoghi bui, illuminati da lucerne, destinati alle belve, ai gladiatori, alle infermerie per i feriti, agli operatori impegnati nelle varie attività sceniche. Basterebbe un po’ di coraggio e un buon progetto scientifico e architettonico.

Nel caso di Taormina, peraltro, non c’è nemmeno il rischio, paventato per il Colosseo, che il monumento possa essere ‘snaturato’, ospitando spettacoli. Il Teatro di Taormina, come il Teatro di Siracusa o l’Arena di Verona, è già un luogo di spettacoli (semmai potrebbe apparire strano che per questi monumenti non ci siano critiche da parte di chi urla sdegnato contro il rischio che altri edifici antichi possano ospitare un concerto o un’opera teatrale, forse perché tale destinazione si è ormai ‘storicizzata’).

4. Altri interventi auspicabili dovrebbero riguardare la ripresa di un progetto di anastilosi, in modo da ricollocare alcune delle tante colonne sparse, oltre quelle già oggetto di anastilosi al tempo dei restauri degli anni Cinquanta.

5. Il Teatro di Taormina è uno dei monumenti più visitati. Ma è isolato, è un elemento in qualche modo sganciato dal suo contesto. Andrebbe dunque ricontestualizzato, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione per poter creare le relazioni tra il monumento e il territorio. Il Teatro, anzi, potrebbe, o forse dovrebbe, anche svolgere una funzione di promozione del territorio, a cominciare dal parco di Naxos, stimolando i tanti suoi visitatori a prolungare il percorso anche nell’area della più antica colona greca in Sicilia (che necessiterebbe a sua volta di numerosi possibili interventi di sistemazione e di migliore fruizione).

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6. Preliminare, però, a tutti gli interventi proposti (e a molti altri possibili) è, ovviamente, un adeguato approfondimento dello studio del monumento.

Taormina (e la vicina Naxos) potrebbero rappresentare anche un eccellente laboratorio di ‘archeologia pubblica’. Si avvii, dunque, uno studio approfondito, si costituisca un gruppo di lavoro interdisciplinare, si sviluppi un dibattito che coinvolga anche i cittadini, gli enti locali, gli operatori economici, si elaborino idee e ipotesi in modo da rendere uno dei monumenti più famosi d’Italia più comprensibile in quanto monumento storico e non solo come luogo di spetta-coli, per offrire migliori servizi ai visitatori e per contribuire ancor di più allo sviluppo di un turismo colto, di qualità, curioso delle storie che i monumenti e paesaggi stratificati della Sicilia possono raccontare.

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A poche ore dalla scioccante sentenza del TAR Lazio con la quale si rimetteva in discussione l’affidamento della direzione dei musei autonomi a studiosi non italiani e ad alcuni dei direttori selezionati con una procedura internazionale, Eva degli Innocenti, direttrice del MArTa - Museo Archeologico di Taranto, inaugurava una mostra sulla via Appia con Paolo Ru-miz. Due giorni prima, ignaro della sentenza che rischiava di impedirgli di dirigere il MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Paolo Giulierini presentava a Roma con il ministro Franceschini la grande mostra sui Longobardi, poi allestita con enorme successo a Pavia, Napoli e San Pietroburgo. Sono solo due dei cinque direttori di musei che improvvisamen-te si trovarono impossibilitati ad operare: non potevano più firmare un documento, approvare una spesa, autorizzare un prestito o lo studio di un pezzo delle proprie collezioni, presiedere il consiglio di amministrazione. E furono costretti anche a trovarsi un bravo avvocato. Nell’attesa fiduciosa di un rapido intervento del Consiglio di Stato che risolvesse quella insensata vicenda (cosa che si è puntualmente verificata). Per fortuna siamo ancora in uno Stato di Diritto, nel quale, come aveva ricordato in quella occasione Sabino Cassese, dal 1957 è garantita la libera circolazione dei lavoratori europei. L’art. 38 della legge del 2001, tanto richiamato in quelle ore, si riferisce a ruoli dirigenziali in ambiti particolari, dove è in gioco l’inte-resse nazionale (per intenderci non si dovrebbe mettere uno

LA VALUTAZIONE LA FACCIANO GLI STUDIOSI,I VISITATORI E I CITTADINI. NON IL TAR!

* Versione rivista di La valutazione la facciano gli studiosi, i visitatori e i cittadini. Non i TAR, in Huffington Post, 26.05.2017, http://www.huffin-gtonpost.it/giuliano-volpe/la-valutazione-la-facciano-gli-studiosi-i-vi-sitatori-e-i-cittad_a_22110493/.

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straniero a dirigere i servizi segreti!). I direttori dei musei, an-che se di ruolo direttivo, hanno ampia autonomia ma devono dare conto al Direttore Generale Musei, al Segretario Generale e al Ministro. Se fosse portata alle estreme conseguenze la posizione del TAR, non dovrebbe essere possibile nemmeno nominare professore ordinario universitario uno straniero.

Come viene selezionato il direttore di un grande museo straniero, come il Louvre o il British Museum, cioè uno di quei musei di solito presi a modello? Con una selezione interna-zionale, fatta da una commissione che dopo aver valutato i candidati tramite curriculum e averli intervistati, propone al Consiglio di Amministrazione o all’Ente, cui il Museo af-ferisce, una rosa e tale organismo sceglie e affida l’incarico, normalmente a termine, che si conclude con una valutazione finale dell’attività svolta e soprattutto dei risultati raggiunti. Se è positiva il Direttore viene riconfermato, altrimenti torna a casa.

Come sono stati selezionati Eva Degli Innocenti per il MAr-Ta, Gabriel Zuchtriegel per Paestum, Paolo Giulierini per il MANN, Carmelo Malacrino per il Museo di Reggio Calabria, cioè alcuni dei musei su cui si era abbattuta la sentenza del TAR Lazio? Praticamente con queste stesse procedure: una commissione internazionale, costituita da vari specialisti, ha valutato i titoli e i curricula, ha selezionato prima una rosa di 10 candidati ammessi al colloquio e poi ha proposto una terna al Ministro Dario Franceschini o al Direttore Generale Musei Ugo Soragni, per la scelta dei direttori, rispettivamente, di prima o di seconda fascia.

Come venivano invece selezionati i direttori dei musei pri-ma della riforma del 2014? Con nessuno di questi sistemi, semplicemente perché i musei non esistevano come soggetti autonomi, erano uffici delle Soprintendenze: pertanto il So-printendente poteva egli stesso assumere la direzione di un

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museo o autonomamente ne affidava la direzione a uno dei suoi funzionari, rimanendo in carica per un anno, dieci, a vita o per pochi mesi. Peraltro, privo di autonomia scientifica e gestionale e spesso occupandosi del museo tra mille altre pesanti incombenze della tutela di un territorio. Alcuni tra questi funzionari hanno fatto un ottimo lavoro, in condizioni difficilissime e questo va loro riconosciuto. Ma era quello un sistema che non funzionava e al quale speriamo non si debba tornare.

Chiariamo un’altra questione vista la confusione. I ricor-si al TAR furono due: uno riguardava i direttori di Palazzo Ducale di Mantova e della Galleria Estense di Modena e toc-cava anche la complessa questione della partecipazione degli stranieri ai concorsi nella pubblica amministrazione, l’altro fu rivolto contro i direttori archeologi dei musei di Taranto, Napoli e Reggio Calabria e il parco di Paestum ed era relativo alla procedura seguita dalla Commissione. Il paradosso fu che uno dei due ricorrenti (valutato dalla stessa Commissione nella seconda procedura) è poi risultato vincitore, e attual-mente dirige meritatamente un importante parco archeolo-gico. Se la procedura fosse stata scorretta, come affermava il ricorrente, lo sarebbe stata anche quella che un anno dopo lo ha dichiarato vincitore? Ma soprattutto la domanda da porre allora e ancora oggi è: la valutazione deve essere basata sulla qualità e sul merito e affidata ad una commissione interna-zionale di specialisti, come avviene in tutto il mondo, o deve essere condotta con i formalismi da azzeccagarbugli?

Alla pessima figura internazionale che l’Italia fece in quell’occasione (decine furono le telefonate e i messaggi ri-cevuti da colleghi italiani e stranieri esterrefatti in particolare per questo incomprensibile pregiudizio verso altri cittadini europei!) rischiava di aggiungersi un enorme danno. La va-lutazione positiva o negativa dell’operato dei nuovi direttori

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale204

andrebbe fatta sui risultati raggiunti e non sulla base di ca-villi formali astrusi, in un Paese burocratizzato, incapace di produrre vero cambiamento (o meglio in grado di bloccare chi le riforme cerca di realizzare), che non bada alla qualità, al merito, alla sostanza, ma solo e sempre più ai formalismi.

In quell’occasione i conservatori ostili alle riforme dei beni culturali festeggiarono, sperando di bloccare con un cavillo un profondo cambiamento, non privo certamente di problemi e anche di errori, come sempre accade nelle grandi riforme, ma capace di guardare più lontano, con una visione inno-vativa di museo e di patrimonio culturale. In questi ultimi anni i musei italiani hanno conosciuto una vera rivoluzione, per la prima volta adeguandosi agli standard internazionali: direttori dotati di autonomia gestionale e scientifica, consigli di amministrazione e comitati scientifici, bilanci autonomi, risorse gestite direttamente e reinvestite per dare migliori servizi e anche per sostenere i musei ‘minori’. Una rivolu-zione, ancora in corso, che cerca di trasformarli da luoghi poco ospitali, esclusivi, respingenti, privi di servizi essenziali (non a caso ancora oggi definiti ‘aggiuntivi’) e di supporti didattici adeguati, in luoghi aperti, accoglienti, piacevoli. Ci sono ancora molti problemi aperti, tante cose che non vanno e varie questioni da risolvere: ma i progressi sono sotto gli occhi di tutti. Sono sempre più strutture aperte alla città e ai cittadini, come si può facilmente verificare a Taranto, a Na-poli, a Reggio Calabria e in ogni altra città. Sarebbe un danno per il Paese se il processo si bloccasse, come alcuni sperano, immaginando che l’attuale ministro debba smontare pezzo per pezzo la riforma Franceschini. Con il solito vizio italico di distruggere quanto fatto dal predecessore e ricominciare sempre daccapo.

Queste semmai sono le parole chiave anche per il futuro: 1) autonomia piena, anche nella gestione e nello stesso recluta-

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mento del personale; 2) piena responsabilità nelle scelte effet-tuate; 3) un rigoroso sistema di valutazione che consideri non solo l’incremento del numero dei visitatori, ma soprattutto la qualità dei servizi, la comunicazione, le collaborazioni con università e istituti di ricerca italiani e stranieri, la promozio-ne della ricerca, l’accessibilità ai dati, gli accordi con associa-zioni, scuole, fondazioni, il radicamento e la partecipazione attiva dei cittadini, la promozione dello sviluppo locale. Ecco per cosa dovrebbero essere valutati i direttori dei musei: dai visitatori, dagli studiosi, dai cittadini. E non certo da un TAR!

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«Attendiamo fiduciosi l’esito del ricorso al Consiglio di Stato. Dovrebbe arrivare entro 15-20 giorni. Siamo in una situazione assurda, causata da una sentenza del Tar che de-finirei scioccante». Giuliano Volpe, pugliese di Terlizzi, classe 1958, professore ordinario di Archeologia all’Università di Foggia, è presidente del Consiglio Superiore Beni Culturali e Paesaggistici del Mibact dal 2014 «E pensare – prosegue – che appena due giorni fa il direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Paolo Giulierini, presentava a Roma, con il ministro Franceschini, la grande mostra sui Longobardi, che dal prossimo autunno si snoderà tra Pavia, il capoluogo partenopeo e San Pietroburgo. Ora, invece, si trova, assieme ad alcuni altri colleghi, senza stipendio e nell’impossibilità portare avanti l’opera avviata: non può presiedere il consiglio d’amministrazione né firmare documenti, o autorizzare spe-se. E per di più deve pensare a trovarsi un bravo avvocato». Secondo Volpe, insomma, si tratta di «una vicenda senza sen-so. Con tanto di rischio-paralisi come possibile conseguenza. Per questo il Mibact, nominando dei supplenti, vuole evitare che alcuni importanti musei possano bloccarsi».

Oggi il presidente del Consiglio Superiore dei Beni Cul-turali e Paesaggistici sarà in Campania, alla seconda edizio-

«UNA SENTENZA-CHOC.RISCHIAMO IL BLOCCO DEI MUSEI»

Intervista di Laura Valente

* http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/17_maggio_26/volpe-mibact-una-sentenza-choc-rischiamo-blocco-musei-26eb2b44-41db-11e7-b748-d0327bf24e21.shtml. Per gentile concessione del Corriere del Mezzogiorno, diretto da Enzo d’Errico.

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«Una sentenza-choc. Rischiamo il blocco dei musei» 207

ne del ‘Festival della Letteratura’ all’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere. «Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco», scriveva Gustav Mahler a proposito della musica di Strauss. Ma se dal pentagramma si salta nell’arena della gestione dei beni culturali il confronto diventa troppo spesso scontro tra sacerdoti laici della conser-vazione e la visione di chi onora un passato glorioso senza rinunciare a disegnare l’orizzonte di un tempo nuovo. Dia-logo a volte impossibile tra le due categorie di pensiero, non quando la realtà supera a sinistra le argomentazioni su carta con la forza di esperienze riuscite, economicamente produt-tive. Fatta salva la sacrosanta tutela. Nel suo Un patrimonio italiano, pubblicato da Utet, viaggio narrativo nell’Italia delle buone pratiche e delle riforme possibili, Volpe lo spiega molto chiaramente.

Quanto Sud in questo tour ideale di casi esemplari, presidente?

Tante le storie virtuose, come quella del Rione Sanità e dei ragazzi di Respiriamo Arte: il patrimonio e la sua narrazione sta salvando tanti ragazzi con un’economia alternativa puli-ta, sana e legale. A Salerno il museo ex provinciale funziona benissimo grazie all’associazione Fonderie Culturali, come la gestione del Parco della Gaiola a Posillipo o la proget-tualità dell’anfiteatro romano di Santa Maria Capua Vetere, il secondo più grande per dimensioni dopo il Colosseo che dal 2013 ha messo in campo un’offerta integrata con servizi di accoglienza, laboratori teatrali ristorazione biologica ed eventi. In Basilicata l’associazione ArtePollino sta facendo conoscere e valorizzare una delle più belle aree naturalistiche d’Europa attraverso l’arte contemporanea.

Realtà diffuse che fronteggiano la crisi del welfare state con i metodi della social innovation applicata al patrimonio culturale.

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Il nostro è un mondo a lungo impantanato nella cieca fe-deltà alla tradizione e conservazione. La rivoluzione? Nelle parole cittadini, comunità, territori. Al Sud quanti monu-menti abbiamo restaurato con fondi europei? Quanti musei abbiamo inaugurato senza mai preoccuparci di come farli vivere dopo il taglio del nastro. In Puglia la fondazione Ar-cheologia Canosina raccoglie 1200 soci cittadini, sui 7 iniziali, che versano 50 euro per far vivere questa istituzione che si occupa di gestione tutti i siti archeologici, con venti ragazzi oggi assunti regolarmente. A Foggia faccio parte della fonda-zione Apulia Felix, nata per iniziativa di un piccolo gruppo di imprenditori, impegnati con proprie risorse e esperienza a favorire la nascita di piccole imprese giovanili che ora gesti-scono anche la chiesa di Santa Chiara, nel centro medievale, un luogo abbandonato e ora trasformato in un contenitore culturale.

Quanto ancora da fare?

Nel corso del ‘900 ci sono state leggi importanti di tutela ma oggi non possiamo continuare ad operare con le stesse categorie cultuali, giuridiche e amministrative. Questa rifor-ma ha cambiato l’involucro, la struttura. Ora è necessario cambiare le prassi.

Non la scandalizza la parola manager?

Ma certo. Non è sinonimo di maneggione. Oggi un rettore si deve occupare dell’organizzazione, dovrebbe valorizzare il merito e le competenze anche del territorio. Sarebbe terribile ricadere in una visione da stato etico e religioso. È la mentalità dell’Isis a decidere cosa si può fare, cosa è bello o non lo è. In un luogo di cultura conta non danneggiare il monumento e non fare un’operazione incongrua.

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Quali soprintendenti e direttori esprimono oggi questa nuova visione?

Tra mille problemi sono in molti a funzionare, da Felicori alla Reggia di Caserta fino ad Osanna agli Scavi di Pompei. Chi continua a puntare il dito, con le sue certezze granitiche, sulla riforma di Franceschini dovrebbe intravedere che la figura del soprintendente oggi è simile ad un grande diret-tore d’orchestra o sanitario, uno specialista del settore capace di integrare il lavoro degli esperti ma anche di sviluppare collaborazioni con le università, le scuole, i sistemi museali regionali fino anche alle diocesi e i comuni.

La riforma in arrivo va anche in questa direzione?

Sì. Stiamo avviando una collaborazione con i ministeri e consiglio superiore per avvicinare il mondo dell’università e della scuola ai musei e alle soprintendenze. Mi piacerebbe che i direttori del futuro venissero valutati sulla capacità di tessere attività condivise e partecipate, grazie alle quali vive il patrimonio dato in consegna. Valorizzazione intesa come riscoperta di valore e non mercificazione.

Tra tante lodi nessuna critica?

Fermo restando l’ottimo lavoro di Osanna, cito sempre un fatto negativo come esempio: perché ancora oggi negli scavi esiste un ristorante Autogrill? Inconcepibile. Quella era mercificazione, nel senso che i servizi di accoglienza devono essere componenti essenziali del progetto, coerenti con il sito.

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Il MarTa - Museo Archeologico di Taranto, di recente ampia-mente rinnovato, è comparso (quasi inaspettatamente) nel 2014 nella lista dei 19 musei per i quali la riforma del MiBACT prevedeva l’autonomia e la direzione affidata a un dirigen-te. È stata solo una delle novità di una riforma coraggiosa e ambiziosa, anche se non priva di problemi.

Il MArTa fu affiancato, nelle regioni meridionali, dal Mu-seo Archeologico di Reggio Calabria e da quello di Napoli, oltre a Paestum, Capodimonte, Reggia di Caserta. Nella lista, che comprendeva ‘colossi’ come gli Uffizi o Brera, si volle inserire Taranto: fu un atto di attenzione per la città puglie-se e per altre importanti realtà culturali del Sud, sulle quali s’intese investire. La scelta non tenne conto tanto dei numeri, ma soprattutto dell’importanza culturale e anche del ruolo che ogni museo avrebbe potuto svolgere nella propria realtà locale. Il MArTa nel 2013 ebbe 27.000 visitatori circa (di cui 6500 paganti) e Reggio Calabria (un museo allora quasi chiu-so) solo 11.000 circa, mentre Paestum aveva di poco superato quota 3.000.

È stata questa, però, una delle parti più contestate della riforma: si denunciò una presunta separazione dei musei dai territori e dalle rispettive soprintendenze. In realtà così non è stato: sia per i 19 musei autonomi iniziali sia per quelli istituiti successivamente, sia per i poli museali regionali, si è insistito sulla «elaborazione del progetto culturale di ciascun museo all’interno dell’intero sistema nazionale/regionale, in

IL MARTA TRA I GRANDI MUSEI AUTONOMI

* Versione rivista di C’è il “Marta” tra i 19 musei della riforma di France-schini, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», mercoledì 30 luglio 2014, 27.

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Il MArTA tra i grandi musei autonomi 211

modo da garantire omogeneità e specificità di ogni museo, favorendo la loro funzione di luoghi vitali, inclusivi, capaci di promuovere lo sviluppo della cultura» e su «elevati standard qualitativi nella gestione e nella comunicazione, nell’inno-vazione didattica e tecnologica, favorendo la partecipazione attiva degli utenti e garantendo effettive esperienze di co-noscenza». Contrariamente a quanto si è letto in numerosi appelli e su alcuni giornali, mai si è parlato di generici ma-nager, ma si è sempre insistito sulla necessità di una gestione culturale più moderna per i nostri musei, con migliori servizi per i visitatori, cittadini e turisti, che si spera siano sempre più numerosi. Ci sono stati concorsi aperti per archeologi, storici dell’arte, storici, ecc., con specifiche competenze museali.

Far funzionare bene un museo, con una comunicazione ef-ficace e servizi adeguati, è una professione, che ha pari dignità rispetto a quelle della ricerca e della tutela. Inoltre, il decreto istitutivo ha inteso assicurare «una stretta relazione con il territorio, anche in relazione alle ricerche in corso e a tutte le altre iniziative, anche al fine di incrementare la collezione museale con nuove acquisizioni, di organizzare mostre tem-poranee, e di promuovere attività di catalogazione, studio, restauro, comunicazione, valorizzazione». È il caso di ricor-dare, peraltro, che il rapporto con un territorio non si riduce all’esposizione nelle vetrine di un po’ di reperti provenienti da un territorio, ma alla capacità di saperne raccontare la storia e anche di stimolarne la conoscenza e la progettazione futura. Quanti degli attuali musei rispondono a tali obiettivi?

Ma le novità non sono state anche altre. Si pensi ad esem-pio alla costituzione di un organismo collegiale, composto da tutti i soprintendenti, la ‘Commissione regionale per il patrimonio culturale’, che «coordina e armonizza l’attività di tutela e di valorizzazione nel territorio regionale, favorisce l’integrazione inter- e multidisciplinare tra i diversi istituti,

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale212

garantisce una visione olistica del patrimonio culturale e pa-esaggistico, svolge un’azione di monitoraggio, di valutazione e autovalutazione». Personalmente avrei preferito soprin-tendenze uniche multidisciplinari a ampia scala territoriale in sostituzione delle precedenti direzioni regionali, ma la commissione regionale ha rappresentato un passo in avanti, anche se non sufficiente.

Tutto bene dunque? Certamente no. Le riforme hanno an-cora molti aspetti da migliorare. Molto dipende da come è stata e sarà applicata, in un paese specializzato nello stravol-gimento anche di buone norme. Se prevalgono la difesa di micro-rendite di posizione, la chiusura, l’incapacità di lavo-rare insieme, il conservatorismo degli apparati, il fallimento è garantito. La ricchezza e la qualità della tradizione italiana nei beni culturali, se non è alimentata, diventa un ostacolo nella

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Il MArTA tra i grandi musei autonomi 213

capacità di guardare al futuro. Così gli oppositori ad ogni cambiamento hanno oggettivamente rappresentato i migliori alleati di chi considera il patrimonio culturale una ‘zavorra’ che blocca lo sviluppo (un’idea rozza e arcaica di sviluppo), mentre la sfida consiste nel proporre nuove e diverse forme di sviluppo durevole e sostenibile (soprattutto al Sud) grazie anche al patrimonio culturale e paesaggistico.

Infine, non dimentichiamo che il successo di una rifor-ma dipende anche dalle risorse disponibili, dalla ripresa del turn-over, dal reclutamento di funzionari tecnico-scientifici, giovani, con nuove competenze, sensibilità e passione.

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Non so se il ministro e vicepremier Luigi Di Maio abbia mai avuto l’occasione di visitare il MarTa - Museo Archeologico di Taranto, e se la sua recente dichiarazione sull’assenza di musei degni dell’importanza del patrimonio archeologico tarantino sia dovuta a un difetto di informazione o, come potrebbe essere possibile (e come sarebbe auspicabile), al desiderio di investire nuove risorse sull’ulteriore potenziamento del MarTa e sull’arricchimento della produzione e dell’offerta culturale a Taranto.

È forse, in ogni caso, utile ricordare che a Taranto è attivo fin dal 1887 un museo archeologico, istituito con un regio de-creto di Umberto I, tra i più rilevanti a livello internazionale. Fin dalle origini, in quella straordinaria fase successiva all’U-nità d’Italia caratterizzata dalla costruzione di un’identità nazionale fondata sulle tante specificità territoriali, il museo tarantino fu concepito dal primo direttore Luigi Viola come rappresentativo non solo della storia antica della città ma dell’intera Magna Grecia e in particolare delle antiche civiltà della Puglia, per illustrare quel rapporto di incontro/scon-tro tra greci e indigeni. Se, infatti, fino a quel momento, la maggior parte dei materiali rivenuti nel corso di scavi o di scoperte fortuite confluiva nella capitale del regno borboni-co, nel grande museo di Napoli, da allora il neonato museo tarantino cominciò a ospitare i reperti restituiti soprattutto dalle stratigrafie cittadine, in particolare le sue ricche necro-poli, ma anche da varie località della Puglia.

COSÌ RINASCE UN MUSEO

* Versione leggermente rivista di Così la rinascita di un gioiello dell’ar-cheologia, in «La Repubblica. Bari», 13 settembre 2018, II.

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Così rinasce un museo 215

Gestito fino al 2015 dalla Soprintendenza archeologica, di cui era anche sede (con soprintendenti archeologi di grande rilievo, come Quintino Quagliati, Renato Bartoccini, Ciro Drago, Nevio Degrassi, Attilio Stazio, Felice Gino Lo Porto, Dinu Adamesteanu, Ettore M. De Juliis, Giuseppe Andreassi e infine Luigi La Rocca), il MarTa, è stato scelto, nel quadro delle recenti riforme del MiBAC, tra i primi grandi 20 musei nazionali dotati di un’autonomia organizzativa, gestionale e scientifica, con un proprio consiglio di amministrazione e un qualificato comitato scientifico. Da allora è cominciata una nuova storia, che vede protagonista l’attuale direttrice Eva Degl’Innocenti, un’archeologa toscana con esperienze muse-ali all’estero trapiantata nella città dei due mari, dove è molto attiva. I risultati sono evidenti: è pari al 203% l’incremento dei visitatori, che lo scorso anno hanno raggiunto quota 80.000

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale216

(l’anno in corso segue lo stesso trend), ma soprattutto il mu-seo è sempre più sentito dai tarantini come la propria casa, un presidio di crescita culturale e di sviluppo, un elemento essenziale dell’identità di una comunità molto provata. I più attivi frequentatori e ‘ambasciatori’ del museo sono diventati i bambini, che ora trovano laboratori e occasioni di crescita anche attraverso il gioco.

Dopo quasi un ventennio di chiusura (e un parziale spo-stamento a Palazzo Pantaleo), a causa di lunghi lavori di ri-strutturazione e di riallestimento, realizzati con un notevole impegno della Regione Puglia anche grazie a fondi europei, dopo l’inaugurazione nel 2016 anche del secondo piano, oggi il MarTa presenta ai visitatori una panoramica assai ricca dell’archeologia: dalle cd. Veneri di Parabita allo Zeus di Ugento, dalla Tomba dell’atleta agli Ori (diventati celebri in tutto il mondo grazie a una fortunatissima mostra degli anni Ottanta), dalla ricca collezione di vasi figurati attici e magnogreci ai mosaici romani. Sarebbero centinaia gli og-getti di grande pregio da elencare: ma il MarTa è qualcosa di più, perché è l’intero contesto dei tanti corredi funerari, delle sculture, delle ceramiche, dei vetri, dei metalli, dei manufatti della vita quotidiana a rendere possibile al visitatore un vero viaggio nella storia di Taranto e della Puglia.

Un museo non è, però, solo un insieme di vetrine e di reperti. Ecco perché il MarTa sta diventando sempre più il promotore di un’intensa politica culturale e anche scientifica: mi limito a citare solo due progetti, il MarTa 3.0, che favorirà la digitalizzazione e la comunicazione multimediale, grazie ai fondi PON, e FISH. & C.H.I.P.S. (Fischeries, Cultural He-ritage, Identity and Participated Societies), un INTERREG Italia-Grecia, nel cui ambito è in programma anche una mo-stra archeologica su Taranto e il mare.

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Così rinasce un museo 217

C’è, quindi, da sperare che la dichiarazione del ministro Di Maio possa nei fatti tradursi in un concreto sostegno alla crescita del MarTa: servirebbero, infatti, altro personale, an-cora in deficit (nonostante i giovani archeologi assegnati dal ministero grazie all’ultimo concorso) e più risorse. Sarebbe necessario dar vita ad un sistema culturale e museale cittadi-no, di cui il MarTa potrebbe essere il fulcro. Un sistema che a sua volta andrebbe collegato con altre realtà museali, da Po-licoro, Metaponto e Matera a Sibari, Locri e Reggio Calabria, fino a Paestum, Pompei, Capua e Napoli, per realizzare un vero sistema museale della Magna Grecia. Sarebbe necessario dotare la città delle infrastrutture necessarie, a cominciare dai collegamenti. Sarebbe opportuno rilanciare a livello in-ternazionale i Convegni tarantini sulla Magna Grecia, nati nel 1961 (negli stessi anni dell’inaugurazione dell’ILVA che allora si chiamava Italsider) che hanno celebrato nel 2018 la 58a edizione, e sviluppare l’attività di alta formazione e di ricerca, in particolare in alcuni ambiti specifici, tra cui il patri-monio culturale, privilegiando l’alta qualità e evitando inutili duplicazioni di corsi universitari. Sarebbero tante, insomma, le proposte possibili per far crescere un bel museo che c’è già e per dare a Taranto opportunità di sviluppo che altre scelte non hanno garantito.

Ecco perché spero anch’io che il ministro Di Maio accolga il gentile invito della direttrice Degl’Innocenti a visitare il MarTa. Per valutare cosa si potrà e dovrà fare per renderlo ancor più degno del patrimonio archeologico di Taranto e della Magna Grecia.

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Nel pieno dell’ultima campagna elettorale per le elezioni politiche il Museo Egizio si è trovato sotto attacco. Improvvi-samente il suo centralino andò fuori uso. I leghisti, per inizia-tiva del capo dei Giovani Padani Andrea Crippa, invitarono a intasare il centralino del Museo, per contestare la bella ini-ziativa (una delle tante di questo straordinario Museo) che consentiva ai componenti della comunità araba di visitare il Museo in coppia con il pagamento di un solo biglietto (era una promozione, peraltro a tempo, come tante altre).

Si trattò di una strumentalizzazione vergognosa. Fu ne-cessario allora ricordare che il Museo Egizio è un pezzo di Egitto in Italia, costituito grazie a scavi e acquisti effettuati nell’ambito di una politica colonialista d’altri tempi. Non si tratta di mettere in discussione quella fase della nostra storia, ma non si può nemmeno ignorarla. Bene ha fatto il Museo a ritenere che si dovessero favorire i componenti delle co-munità arabe (l’Egizio ha giustamente tutte le didascalie e i pannelli anche in arabo, oltre che in italiano e in inglese) nel conoscere questo pezzo di civiltà egiziana presente a Torino. È stato un atto altamente significativo, anche in termini di pacifica integrazione. In tal modo il Museo Egizio si candida a rappresentare uno ‘strumento’ per risolvere conflitti, per favorire il dialogo pacifico attraverso la reciproca conoscenza e il rispetto.

IN DIFESA DEL MUSEO EGIZIO

* Versione rivista di In difesa del Museo Egizio, sotto attacco della propa-ganda leghista, in Huffington Post, 20.1.2018, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/in-difesa-del-museo-egizio-sotto-attacco-della-pro-paganda-leghista_a_23338780/?utm_hp_ref=it-homepage.

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In difesa del Museo Egizio 219

Ricordo che l’Egizio è anche il Museo che ha intitolato una sala (in cui si documenta uno dei primi ‘scioperi’ dell’anti-chità) a Giulio Regeni.

Ma tutto questo per la rozza propaganda appariva incon-cepibile.

Totalmente falsa fu anche la denuncia rivolta al Museo, che avrebbe fatto pagare agli Italiani con le loro tasse il biglietto agli arabi: l’Egizio non costa un solo euro allo Stato Italiano, è l’unico Museo in grado di autosostenersi, con introiti pari al 120% dei costi!

Anche a questo proposito mi sembrano appropriate le parole di papa Francesco a proposito dei Musei: «I musei devono accogliere nuove forme d’arte. Devono spalancare le porte alle persone di tutto il mondo. Essere uno strumento di dialogo tra le culture e le religioni, uno strumento di pace.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale220

Essere vivi! Non polverose raccolte del passato solo per gli ‘eletti’ e i ‘sapienti’ ma una realtà vitale che sappia custodire il passato per raccontarlo agli uomini di oggi».

È stato triste assistere ad un tale imbarbarimento della bat-taglia elettorale, che non ha risparmiato nemmeno i luoghi della cultura e un bravissimo direttore, Christian Greco, che sta svolgendo un’azione meritoria, nella ricerca, nella tutela e nella promozione dello sviluppo della cultura secondo i principi (art. 9) della nostra Costituzione.

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«La Repubblica. Bari» ha dato molto risalto negli anni scor-si alla chiusura di molti musei, castelli, luoghi della cultura nei giorni festivi. È una situazione paradossale, se messa a confronto con gli straordinari progressi verificatisi negli ulti-mi tempi in termini di incremento di visitatori. Risultati posi-tivi si stanno avendo non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche per i servizi, i rapporti con le comunità locali, i nuovi allestimenti (si pensi solo, per restare in Puglia, al MArTa di Taranto o all’area archeologica di Siponto, che ha richiamato migliaia di persone e un interesse internazionale, pur non disponendo ancora di un adeguato sistema di gestione).

Particolare scalpore ha fatto la notizia della chiusura del sito archeologico di Canne della Battaglia nel giorno di Fer-ragosto. La motivazione: mancanza di personale di custodia.

È un problema reale, non c’è dubbio. Come risolverlo? Le soluzioni possibili sono varie, a cominciare da accordi di valorizzazione tra Stato e Enti locali.

La soluzione più facile, quella preferita dai polemisti di professione? Assumere qualche migliaio di custodi. Con più personale i problemi sarebbero risolti: siti e musei aper-ti sempre, turni meno stressanti, rotazioni più facili, meno straordinari, ecc.

Vorrei essere chiaro, anche a rischio del ‘politicamente scorretto’. Sarebbe una pessima soluzione (oltre che difficil-mente praticabile con gli attuali limiti di assunzione nella PA). Rimpiangiamo forse quelle belle assunzioni di un tempo?

SOS MUSEI PART TIME?

* Versione rivista di Sos musei part time? Più custodi non bastano, in «La Repubblica. Bari», 23 novembre 2016, 1, 5.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale222

Quelle che ad esempio dotarono in un sol colpo l’anfiteatro di Capua di 130 custodi (oggi sono ancora oltre 50) grazie ad un solerte ministro (campano) dei beni culturali della prima Repubblica? Uno dei problemi del MiBAC è quello di essere diventato nel tempo un esercito di custodi (dati 2014: 7.761 custodi, 976 ausiliari, a fronte di 6.026 tecnico-scientifici e 3.927 amministrativi, su un totale di 18.875 unità).

L’originaria ambizione del ministero fondato da Spadolini quarant’anni fa era quella di essere un ministero ‘anoma-lo’, fortemente tecnico-scientifico. Così non è stato! L’ultimo concorso ha portato oltre 1.000 nuovi assunti, tra archeologi, architetti, storici dell’arte, ecc.

Ma la vera domanda è: è ancora attuale la figura tradizio-nale del custode, silente, solitario, muto, a volte impegna-to in rumorose chiacchiere, nella lettura del giornale, nello smanettamento del cellulare? Non sono tutti così. Conosco personalmente tanti custodi bravissimi, gentilissimi, dispo-nibilissimi, tra cui anche laureati e specializzati (ovviamente frustrati). Lavorano tanto, pur non guadagnando un euro in più rispetto ai nullafacenti. Basti pensare che le recenti norme per le progressioni stipendiali mettono sullo stesso piano corsi di aggiornamento di pochi giorni con pubblica-zioni scientifiche o titoli di studio post lauream!

Oggi però servono figure professionali diverse, in grado di dare informazioni adeguate, di parlare un’altra lingua, di possedere ottime qualità relazionali: il personale nelle sale di un museo o in un’area archeologica svolge una funzione preziosa, è il primo e spesso unico contatto tra il visitatore e il monumento. Non sto parlando di volontariato (risorsa preziosa, integrativa e mai sostitutiva del lavoro), né solo di stage e tirocini. Potrebbe trattarsi invece di una forma di lavoro retribuito da svolgere nel corso della formazione. Ecco una soluzione: un accordo tra MiBAC e MIUR, con il soste-

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SOS musei part time? 223

gno delle Regioni, per forme di collaborazione nei servizi ai musei. Studenti, specializzandi, dottorandi, potrebbero al-ternare le lezioni in aula e lo studio in biblioteca al lavoro in laboratori, in museo, in biblioteca, in archivio. Bisognerebbe cioè dar vita ai cd. ‘policlinici del patrimonio culturale’, di cui parlo da anni.

Ma non basta. Il punto debole riguarda la gestione. Ancora oggi si investono cifre significative in restauri o allestimenti museali, ma non si attribuisce nessuna attenzione alla gestio-ne. Cosa succede il giorno dopo l’inaugurazione? Servono nuove formule, con il coinvolgimento di associazioni, fon-dazioni, piccole società, singoli professionisti, in modo da garantire servizi di qualità per i visitatori e opportunità di la-voro qualificato e garantito per i tanti bravi professionisti dei beni culturali. Lavoro vero, economia sana, sviluppo locale

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sostenibile. Nel 2016 il Ministero ha pubblicato un bando per la gestione di 13 monumenti da affidare a onlus. Si prosegua su questa strada anche con piccole società professionali. Sono possibili soluzioni diverse, non esiste un’unica formula. Lo Stato non deve rinunciare ai doveri di tutela e valorizzazione. Tutt’altro. Ma svolga sempre più una funzione di indirizzo, coordinamento, monitoraggio, valutazione, sostenendo le tante energie presenti nel Paese. E impari a fare una cosa ancor più difficile: far fare.

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I Musei e le biblioteche provinciali risalgono in gran parte a quella fase successiva all’Unità d’Italia, quando si ritenne necessario dotare interi territori, che fino ad allora ne erano stati privi, di presidi culturali che contribuissero allo svilup-po culturale e anche ad una maggiore consapevolezza della storia locale e nazionale (era lo spirito che animava le gloriose Società di Storia Patria). Non è un caso che tali istituzioni culturali fossero diffuse soprattutto nelle regioni meridionali che, diversamente da altre realtà nelle quali si erano svilup-pate già da tempo strutture museali e bibliotecarie civiche, trovavano proprio nelle Province i naturali promotori. Stia-mo parlando di musei archeologici di grande tradizione, con collezioni di straordinaria importanza, come, solo a titolo di esempio, i musei archeologici di Lecce, Brindisi e Bari in Puglia, di Campobasso in Molise, di Benevento, Avellino, Sa-lerno, Capua in Campania, Catanzaro in Calabria, ma anche di Brescia in Lombardia o Novalesa in Piemonte, o pinacote-che di prim’ordine come quelle di Bari o di Salerno, e di una rete di biblioteche (da Chieti, L’Aquila e Teramo a Matera e Potenza, da Avellino, Benevento e Salerno a Bari, Brindisi, Foggia, Lecce, ecc.), che in molti casi rappresentano l’unica vera realtà attiva in ampi e popolosi territori. Mi limito a citare solo un esempio particolarmente noto, quello della Biblioteca Magna Capitana nella città nella quale vivo e lavoro da vari anni, Foggia, con un patrimonio di oltre 400.000 volumi, 450

CHE FINE PER I MUSEIE LE BIBLIOTECHE EX PROVINCIALI?

* Versione rivista di Che fine faranno i musei e le biblioteche ex provin-ciali?, in Huffington Post, 16.01.2017, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/che-fine-faranno-i-musei-e-le-biblioteche-ex-provin-ciali_b_14184982.html.

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riviste di cui 70 (dopo i tagli) in continuazione, numerosi fondi storici (come quello di N. Zingarelli, l’autore di uno storico dizionario della lingua italiana) perno del sistema bi-bliotecario provinciale con 54 biblioteche civiche, cuore locale del Polo SBN (Sistema Bibliotecario Nazionale), con un’attiva sezione dedicata ai bambini (organizza anche Buck, festival della letteratura per i ragazzi), un luogo di aggregazione e di ritrovo di centinaia di giovani.

Da vari anni queste realtà vivono in una situazione di grave incertezza e di progressivo smantellamento. Com’è noto con la legge Delrio del 2014 si sono riorganizzati gli assetti e le funzioni delle Province, cui sono state sottratte le competen-ze in campo culturale (musei, biblioteche, teatri, orchestre, ecc.), trasferite alle Regioni e alle Città metropolitane. Dopo una lunga sottovalutazione del problema, il personale e il patrimonio di biblioteche e musei ex provinciali sono pas-sati alle Regioni (o alle Città metropolitane, in tal caso con meno problemi), con soluzioni tra le più varie. E quasi tutte insoddisfacenti. E con il risultato che queste importanti isti-tuzioni sono quasi del tutto prive di risorse in grado di farle

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Che fine per i Musei e le biblioteche ex provinciali? 227

funzionare. Molti dipendenti, spesso con elevate professio-nalità, vista la situazione di incertezze, hanno cercato altre strade. Tra pensionamenti e trasferimenti, molte realtà sono da anni al collasso.

Che fare di questo patrimonio? L’ultima proposta di rifor-ma costituzionale prevedeva la completa eliminazione delle Province e una revisione dei rapporti tra Stato e Regioni anche in materia culturale (art. 117), ma è stata bocciata dal referen-dum del 4 dicembre 2016. Le Province non sono state abolite, sono stati rinnovati i consigli, si chiedono al Governo nuove risorse. Solo in un caso (il Molise) la Regione si è dichiara-ta non in grado di occuparsi della biblioteca ex provinciale (Campobasso), che quindi è passata alle cure del MiBAC. Le altre istituzioni ex provinciali sono passate alle Regioni, che però in alcuni casi se ne stanno occupando assai poco, o alle Città metropolitane.

In Puglia, dove sono presenti importanti e storiche realtà, come i musei archeologici di Lecce e di Brindisi o la Biblioteca di Foggia, o la Biblioteca e il Museo archeologico di Bari (pas-sati, però, alla Città metropolitana), si sta dando vita a un Polo regionale museale-bibliotecario, non senza problemi, sia sotto il profilo dell’impegno economico sia per le oggettive carenze di personale, in particolare per le qualifiche tecnico-scienti-fiche e dirigenziali. Il Ministero ha cercato di seguire questa difficile questione, ma senza riuscire a trovare un accordo.

Anche per questi musei sarebbe fondamentale la costru-zione di sistemi regionali, nell’ambito del più grande Sistema Museale Nazionale: un compito che i Poli museali del MiBAC non riescono ancora a svolgere.

In molti casi si è mossa la società civile, con associazioni culturali, gruppi di cittadinanza attiva, come è stato nel caso della rete a sostegno del Museo Campano di Capua, quello delle celebri ‘madri’.

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Sarebbe stato e resta indispensabile la realizzazione di un progetto condiviso tra Stato e Regioni, capace di garantire a questi gloriosi presidi culturali non la mera sopravvivenza, ma un futuro certo, attivo e vitale nei vari territori, come componenti essenziali di un sistema museale e bibliotecario nazionale. Anche con innovative forme di gestione capaci di coinvolgere le tante energie e competenze presenti nei terri-tori e le stesse Università.

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Nella notte tra il 6 e il 7 settembre 2017, intorno a mez-zanotte, nell’area archeologica di Faragola (Ascoli Satriano FG) un incendio – che si è poi sviluppato per molte ore – ha interamente distrutto la struttura di musealizzazione rea-lizzata negli scorsi anni, a partire dal 2008-09, e in corso di completamento. Gli scavi di Faragola, condotti dal 2003 in poi dall’Università di Foggia, con la partecipazione di cen-tinaia di studenti di archeologia di molte università italiane e straniere, hanno portato alla luce un importante sito rurale la cui storia si sviluppò nel corso di oltre un millennio, in età preromana (VI-II secolo a.C. circa) con un villaggio indigeno, daunio, poi con una villa romana che ebbe il suo momento di massima espansione in età tardoantica (IV-VI d.C.), cui fece seguito un insediamento altomedievale (VII-VIII d.C.) interpretato come un’azienda agricola (curtis) longobarda. Particolare rilievo hanno la grande sala da pranzo con pavi-menti di marmo e lussuosi pannelli in opus sectile e un divano in muratura per banchetti, da cui fuoriusciva scenografica-mente acqua che ricopriva lo spazio centrale dell’ambiente, che dava agli antici banchettanti l’impressione di un pranzo a bordo di un laghetto. E inoltre le grandi terme, con molti vani caldi, tiepidi e freddi, vasche, una piscina e policro-me pavimentazioni a mosaico. Data la rilevanza e la buona conservazione dei resti archeologici, pensammo presto di musealizzare l’area, realizzando un’innovativa copertura in

L’INCENDIO DEL SITO ARCHEOLOGICO DI FARAGOLA E LA NECESSITÀ DI REAGIRE

* Versione rivista di Che fine faranno i musei e le biblioteche ex provin-ciali?, in Huffington Post, 16.01.2017, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/che-fine-faranno-i-musei-e-le-biblioteche-ex-provin-ciali_b_14184982.html.

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legno lamellare e teli di gore-tex, che attribuiva agli spazi non solo un’adeguata protezione e una splendida luminosità ma offriva anche ai visitatori una percezione dei volumi e una migliore comprensione del sito. Nell’ambito del cantie-re in corso, si stavano sia completando le strutture, con un centro servizi, biglietteria, spazio didattico, sia allestendo innovativi sistemi multimediali e, finalmente, anche un im-pianto di allarme e videosorveglianza. L’intero progetto di musealizzazione, sviluppatosi nel corso di tre lotti dal 2008 in poi, si è avvalso di fondi della Regione Puglia, di Arcus e del MiBACT, per complessivi 3 milioni di euro circa.

L’incendio ha mandato tutto questo in fumo. Le coperture sono state completamente distrutte. Le strutture archeolo-giche sono state fortemente danneggiate, in particolare le pavimentazioni in marmo (quasi calcificate per le alte tem-perature) e i mosaici (sollevatisi e letteralmente esplosi in centinaia di pezzi).

Le indagini sono state condotte da parte dei Carabinie-ri (compreso il Nucleo TPC) e della magistratura. I rilievi dei Vigili del Fuoco, accorsi nella notte, di fatto senza poter intervenire nello spegnimento, sembrano lasciare aperte sia la strada dell’incidente provocato dalle stoppie, sia dell’atto doloso con fiamme appiccate nella struttura.

Se dovessi riferire una mia impressione, maturata dall’esa-me delle tracce presenti sul sito, oltre che delle foto e dei brevi video del rogo, non potrei non ribadire il carattere doloso dell’incendio. L’erba secca era stata tagliata, tutta l’area cir-costante la struttura archeologica era pulita, priva di tracce di bruciato. Tra le stoppie bruciate lungo la strada che costeggia il sito, dal punto in cui secondo alcuni sarebbe partito l’in-cendio accidentale, e la copertura c’è un muro di recinzione e alcuni alberi, che risultavano parzialmente bruciati solo nella parte prospiciente la copertura ma non sul lato da cui

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L’incendio del sito archeologico di Faragola e la necessità di reagire 231

avrebbe preso le mosse l’incendio. Inoltre la parte, che pare si sia incendiata per prima e che nelle foto scattate intorno alle due di notte risulta crollata per prima, è posta all’estre-mo opposto rispetto al punto da cui sarebbe giunto il fuoco accidentale. Ma si tratta solo di osservazioni e di impressioni di chi di mestiere fa l’archeologo (lavoro che però si basa su tracce, indizi, dati materiali) e non l’investigatore.

È difficile anche capire a chi possa aver giovato questo disastro: alla delinquenza locale? Alla mafia foggiana pre-occupata di una maggiore pressione da parte dello Stato? A semplici balordi? Attendiamo ancora fiduciosi gli esiti delle indagini, per sapere – ammesso che sia possibile con certezza – se si è trattato di un incidente colposo o di un intervento premeditato. Sperando che chi dovesse avere qualche notizia o nutrire un sospetto parli.

In ogni caso, si è trattato di un atto di assoluta gravità, che pone, in generale, il tema della sicurezza dei luoghi della cultura e anche quello, assai doloroso, della frequente man-canza di adeguate forme di gestione di tanti musei e siti ar-cheologici.

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Nel frattempo i riflettori si sono andati pericolosamente spegnendo. E nonostante la gravità del fatto, il rilievo mi pare assolutamente sottodimensionato. Penso al contrario che sia necessario tenere viva e alimentare l’attenzione. Rea-gire, come peraltro si è cercato di fare, e progettare la nuova sistemazione. Organizzare iniziative e far vivere il sito, anche nelle lunghe fasi di cantiere di restauro e ricostruzione.

Mostrare la massima unità tra le istituzioni, MiBAC, Re-gione, Università, Comune e mettere da parte polemiche, contrapposizioni, operando con una regia unica e forte.

Fortunatamente si è anche sviluppato sul posto un certo movimento. È stata lanciata una raccolta fondi a favore di Faragola dalla Fondazione Apulia felix 1, presieduta da chi scrive e composta da imprenditori, professionisti, cittadini attenti ai temi culturali e sociali in una realtà assai difficile come quella della Capitanata. Un’iniziativa tesa soprattutto a favorire la sensibilizzazione e a far sentire tutti protagonisti di questa rinascita. Hanno mostrato interesse alcune scuole, associazioni e tanti cittadini. Dall’incendio di Faragola con-tinuiamo a pensare che possa e debba prendere le mosse una forte partecipazione dal basso, che reagisca alla distruzione del patrimonio con le armi della cultura e della legalità.

1  http://www.apuliafelix.org/.

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Nella notte tra il 6 e il 7 settembre del 2017, un drammati-co incendio ha colpito l’area archeologica di Faragola, nelle campagne di Ascoli Satriano, distruggendo completamente le strutture delle coperture realizzate tra il 2009 e il 2017 per proteggere e rendere visitabile il sito.

A un anno di distanza, sulla base delle notizie rese note, le indagini non hanno ancora chiarito la natura dell’incen-dio. Nel frattempo, dopo la messa in sicurezza, sono state installate coperture provvisorie in corrispondenza di alcuni dei vani danneggiati: l’ampia sala con i mosaici policromi delle terme e la cenatio, la lussuosa sala da pranzo, con una pavimentazione in marmo e un elegante stibadium, il divano per banchetto sul quale 1.500 anni fa il ricco padrone della villa si sdraiava con i suoi ospiti. A breve partirà il cantiere di restauro.

Gli scavi condotti dall’Università di Foggia a partire dal 2003 hanno portato alla luce una delle più importanti ville romane dell’Italia meridionale, sviluppatasi in particolare negli anni tra IV e VI secolo d.C., un periodo tradizionalmente considerato di crisi per l’Impero romano, durante il quale l’Apulia conobbe, al contrario, una condizione di floridezza. Dopo la ‘fine della villa’, durante i secoli dell’Alto Medioevo, Faragola fu protagonista di una nuova storia, diversa ma non meno importante. Si diede vita a una grande azienda agricola, una ‘curtis’, quasi certamente appartenente alla corte longobarda di Benevento, con impianti agricoli e artigianali,

FARAGOLA, UN ANNO DOPO L’INCENDIO

* Versione rivista di M. Turchiano, G. Volpe, Faragola, la meraviglia deve risorgere, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6.9.2018, 18.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale234

fornaci, vasche, magazzini e edifici residenziali. Né le varie popolazioni barbariche, né la tremenda guerra tra Goti e Bi-zantini, né, infine, i Longobardi provocarono la distruzione della villa romana. Al contrario le fiamme appiccate – non si sa ancora se in maniera dolosa o colposa – da una mano che sarebbe offensivo definire barbara (per i Barbari ovviamente!) hanno danneggiato gravemente i resti di oltre mille anni di storia stratificata, tra l’età daunia preromana (VI-V a.C. circa) e l’Altomedioevo (IX d.C.).

Faragola negli anni è diventata un punto di riferimento negli studi. Non esiste al mondo studioso che si occupi di ville tardoantiche o di abitati altomedievali che non conosca questo sito. Grazie alle ricerche, alle tante pubblicazioni e alle relazioni tenute in decine di convegni, questo luogo qua-si sperduto delle campagne pugliesi è diventato una pietra miliare dell’archeologia italiana e non solo.

È stato uno dei più grandi cantieri scuola realizzati in Eu-ropa. Vi hanno preso parte centinaia di studenti provenienti da numerosi atenei italiani e stranieri. È stato un laboratorio di idee, una fucina di progetti, un terreno di sperimentazione, innovazione e creatività, sul piano della ricerca multi e inter-disciplinare e sul versante della valorizzazione, musealizza-zione e comunicazione. Faragola è stata anche una grande famiglia, una comunità.

È stata anche una scommessa: non ci si è limitati, infatti, a scavare, studiare, pubblicare, ma, d’intesa tra MiBAC, Regio-ne, Università e Comune, si è attuato un circuito virtuoso tra ricerca, formazione, tutela, valorizzazione e sviluppo locale.

L’incendio ha messo in crisi questo progetto, ma per quan-to doloroso e inaccettabile, non deve essere occultato, rimosso o ignorato, ma mostrato e raccontato, perché dimenticare la distruzione sarebbe una parte della distruzione, la più irrepa-

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Faragola, un anno dopo l’incendio 235

rabile forse. Entrerà a far parte della storia del sito, diventerà una fase, la più traumatica, di una vicenda più lunga.

Dopo l’incendio si è subito manifestata una solidarietà na-zionale e internazionale. Le istituzioni si sono mobilitate: il MiBAC ha stanziato 500.000 euro per l’emergenza, la Regione ha confermato il finanziamento di 1,6 milioni che si rischiava di perdere, si è anche effettuata una raccolta di fondi da parte della Fondazione Apulia felix con decine di donatori, si sono mobilitate associazioni e scuole. Alcune associazioni hanno dato vita alla maratona #SaveFaragola con visite guidate a vari siti e monumenti di Puglia e di altre regioni e i fondi raccolti saranno destinati al sito. Certo serviranno molte altre risorse, non inferiori a 3-4 milioni per il restauro e la muse-alizzazione, ma si tratta di segnali positivi, soprattutto per evitare il rischio della perdita di memoria.

Faragola è diventata, infatti, un simbolo. Il simbolo di un patrimonio esposto a rischi inimmaginabili, delle difficoltà di preservare un paesaggio ‘fragile’, in bilico tra la memoria del passato e la violenza del presente. Per alcuni è un simbolo di distruzione, di violenza, di paura. Per altri di sconfitta. Nonostante sia passato già un anno, e forse ancora troppo poco si sia fatto, per noi deve essere un simbolo di reazione, di rinascita, di coraggio. Di resistenza innanzitutto civica, culturale, politica, di un’intera comunità. Il simbolo di un dialogo costruttivo tra le Istituzioni, della tenace volontà di trasformare un disastro immane in un nuovo inizio condi-viso. Solo così si potrà forse dare un senso a questa terribile tragedia.

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Ha fatto molto scalpore la dichiarazione del Ministro Al-berto Bonisoli sulla fine dell’esperienza delle domeniche gratuite nei musei statali italiani. Innanzitutto, ancora una volta mi sembra importante sottolineare che è da considerare una bella notizia il fatto che una questione relativa ai musei faccia scalpore e solleciti molti dibattiti e prese di posizioni. Forse anche questo è un esito delle domeniche gratuite e della ‘rivoluzione’ avviata alcuni anni fa dal precedente Ministro Franceschini nel mondo dei musei, con l’autonomia attribuita ad alcune grandi realtà, la selezione dei direttori (con le pole-miche sui direttori stranieri), la nascita (alquanto stentata per la verità) dei Poli museali e i primi passi del Sistema museale nazionale. Ho l’impressione che le intenzioni del Ministro Bonisoli siano state un po’ travisate, stando anche a quanto si ricava dal video pubblicato sulla sua pagina Facebook, nel quale spiega che a suo parere con l’eliminazione delle domeniche gratuite in realtà aumenteranno le possibilità di garantire le gratuità lasciando autonomia di scelta ai direttori e che ci sono grandi differenze tra una grande realtà come Brera, il Colosseo o Pompei e un piccolo museo civico. Stando alle dichiarazioni di Bonisoli, non si tratterebbe di ridurre le gratuità ma di differenziarle e possibilmente anche di au-mentarle. Su questo credo che non si possa non essere che d’accordo. Non si tratterebbe, cioè, di una scelta adottata per fare cassa, come invece è subito apparso in molte dichiara-

ANDARE OLTRE LE DOMENICHE GRATUITENEI MUSEI, NON ELIMINARLE

* Versione leggermente rivista dell’articolo Andare oltre le domeniche gratuite nei musei, non eliminarle, in Huffington Post, 2.8.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/andare-oltre-le-domeniche-gratui-te-nei-musei-non-eliminarle_a_23494184/?utm_hp_ref=it-homepage.

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zioni rilasciate da alcuni direttori di musei e commentatori sui giornali a causa delle domeniche gratuite. Se, infatti, la scelta fosse legata all’obiettivo di acquisire ulteriori risorse, eliminando le aperture gratuite (o relegandole solo nei pe-riodi morti o nel pieno della settimana lavorativa) ci sarebbe da prendere atto che sarebbe una scelta di mercificazione ben superiore a quella tanto criticata da alcuni polemisti di professione, ora alquanto silenti, negli scorsi anni. Ma non credo che questa sia l’intenzione del Ministro, almeno stando alle sue dichiarazioni. Anche perché in tal caso ci sarebbe una vera confusione di messaggi da parte della stessa area poli-tica, se si pensa ad esempio agli annunci della totale gratuità nei musei comunali romani fatti tempo fa dall’assessore e vicesindaco Luca Bergamo (annunci peraltro che non hanno finora avuto seguito).

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A mio parere, in ogni caso, è un grave errore eliminare le prime domeniche del mese gratuite, almeno per i seguenti motivi: a) hanno dimostrato una notevole efficacia nel portare nei musei milioni di persone, soprattutto cittadini italiani e famiglie, che prima non frequentavano i musei e che in molti casi li hanno scoperti per la prima volta, anche nelle città in cui vivono; b) è diventato un appuntamento ormai ben noto e atteso da tanti; c) ai musei statali si sono aggiunti moltissimi musei civici, dando finalmente un segnale di sistema mu-seale nazionale tra Stato, Regioni, Comuni (a un visitatore, infatti, importano assai poco le diverse proprietà e gestioni che spesso nemmeno capisce); d) le domeniche gratuite han-no compensato l’eliminazione di precedenti gratuità, come quella per gli over 65 anni, estendendo la gratuità a tutti ma solo in certe occasioni; e) le ‘perdite’ per le gratuità sono state ampiamente ripagate dall’incremento complessivo dei visi-tatori, proprio grazie a tale azione promozionale; f) avere le sale dei musei piene di cittadini non è mai una perdita!

Certamente ci sono anche dei problemi: c’è un’eccessiva pressione; una visita fatta in giornate in cui le sale sono af-follate non garantisce un’adeguata qualità nella conoscenza delle opere esposte o dei siti archeologici. In ogni caso è me-glio occuparsi di musei affollati che di musei vuoti, come accadeva in passato. Per far fronte ai problemi del sovraffolla-mento sarebbe necessario integrare le domeniche gratuite con altre iniziative che favoriscano la frequentazione più assidua e la familiarità con i musei da parte non solo di chi i musei li visita abitualmente (come alcuni aristocratici cultori delle arti vorrebbero) ma anche e soprattutto di chi non ci ha mai messo piede e preferisce trascorrere la domenica nei centri commerciali piuttosto che nei musei. Si istituiscano tessere con prezzi bassi, politici, che consentano di visitare un museo tutte le volte che si desidera nel corso dell’anno, anche per

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vedere una sola opera o una singola sala. Si favoriscano le famiglie facendo pagare un biglietto per l’intero nucleo. Si prevedano aperture gratuite per specifiche categorie, a rota-zione (ad esempio, i giovani under 30, gli anziani over 65, le donne, i residenti, gli arabofoni, i francofoni, gli anglofoni ecc.) secondo la fantasia e le scelte strategiche dei direttori. In tal modo si distribuirebbero i flussi. Ma non si elimini qualcosa che funziona.

Invito, quindi, il Ministro Bonisoli a rivedere la sua decisio-ne, che credo confligga con le sue stesse posizioni e che temo sia il frutto di un errore di comunicazione: secondo me avreb-be dovuto affermare che si deve andare oltre le domeniche gratuite, utili in una prima fase ma non più sufficienti da sole, arricchendole di nuove soluzioni. Ma non sopprimendole.

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È un errore eliminare la prima domenica del mese a ingres-so gratuito nei musei statali, come ha annunciato il ministro dei beni culturali Alberto Bonisoli. È un errore per più ragioni, la prima delle quali è che ha portato nelle raccolte d’arte e nei siti archeologici della loro città molti cittadini che in quei luoghi non andavano da anni o non sono mai entrati. Lo sostiene un addetto ai lavori che conosce bene i musei e i siti archeologici del Paese: Giuliano Volpe, archeologo, docente all’università di Foggia, che dopo essere stato membro del Consiglio Superiore dei beni culturali ha presieduto, su nomi-na dell’ex titolare del dicastero Dario Franceschini, l’organo scientifico e consultivo del ministero. Torna a essere membro del Consiglio come membro nominato dalle Regioni (quindi una scelta da amministrazioni di sinistra come di destra). Per inciso: Volpe non è rimasto fermo in un ufficio a Roma e ha invece saggiamente usato l’incarico per girare come una trottola e conoscere in maniera diretta o più approfondita i luoghi d’arte e i loro problemi.

Professore, come valuta l’annuncio del ministro? Ci risulta che tanti cittadini siano entrati nei musei della loro città grazie alla prima domenica gratuita.

STOP AI MUSEI GRATIS LA DOMENICA?

Intervista di Stefano Miliani

* Stop ai musei gratis la domenica, ecco perché Bonisoli sbaglia, 1 agosto 2018; https://culture.globalist.it/arti/2018/08/01/volpe-stop-ai-mu-sei-gratis-la-domenica-ecco-perche-bonisoli-sbaglia-2028862.html.

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Stop ai musei gratis la domenica? 241

Anche io conosco tante persone entrate nei musei che non frequentavano grazie all’iniziativa. È stata indubbiamente un’intuizione felice. Tutta la strategia ha mirato a questo: non era rivolta alla piccola percentuale di persone colte e sensibili già frequentatrici di musei ma a quella percentuale molto più consistente della popolazione che per vari motivi non ci va.

Ha funzionato tutto? Bonisoli dice che serve un aggiustamento.

Nessuno pensava di aver risolto il problema. Non c’è dubbio che fosse necessario un aggiustamento. Mi auguro quindi che il ministro faccia quanto mi ha fatto intendere nel confronto che ho avuto e dove gli ho consegnato il resoconto sul Consiglio superiore.

Cosa le ha fatto intendere?

Che non intende smantellare quanto fatto di buono dalla precedente gestione ma aggiustare, migliorare, il che mi sem-bra ragionevole e anzi necessario. Dopo anni di sperimenta-zione è giusto valutare. Sono convinto che l’obiettivo, anche per Bonisoli, sia far conoscere il patrimonio culturale come qualcosa che appartiene ai cittadini, a più italiani possibili. Ma ribadisco: le domeniche gratuite sono uno di questi stru-menti per cui trovo un errore abolirle.

Un aspetto critico dell’iniziativa?

Molti direttori hanno detto che quelle domeniche affollate rischiano di produrre una pressione eccessiva su musei e siti e non sempre garantiscono una visita di qualità proprio perché c’è troppa gente.

Lei cosa immagina si debba fare?

Si potrebbero introdurre anche altri sistemi. Ci sono gli strumenti: penso alle card offerte a prezzi bassissimi a tutti.

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Non concordo con Vittorio Sgarbi che propone la gratuità per gli italiani e il pagamento per stranieri: è proibito per legge e, inoltre, discrimina. Almeno i cittadini dell’Unione europea.

Come vorrebbe la “card”?

Le vorrei a prezzi molto bassi per entrare in un museo tutte le volte che si vuole. Immagino per esempio una card con cui una famiglia può entrare al prezzo di una persona. Tutto ciò per favorire una familiarità con il museo. Inoltre tanti musei civili e di altro tipo si sono adeguati e ormai è una cosa attesa, conosciuta.

Il ministro vuol lasciar decidere ai direttori dei musei.

Non si può dire lasciare tutto all’autonomia dei direttori: vuol dire il caos. Oggi invece si sa che la prima domenica è gratuita. È il primo segnale del sistema museale nazionale che stiamo costruendo perché mette insieme gli oltre 450 musei statali più i moltissimi musei civici e di altra natura. D’accor-do che la Pinacoteca di Brera a Milano e la piccola raccolta civica siano diverse, ma sapere che sono aperti gratuitamente nello stesso giorno è un segnale importante per i cittadini e la cultura. Il ministro in un video su Facebook dice che bisogna andare oltre per aumentare le possibilità di gratuità: allora ben venga, ma in aggiunta, non eliminando. Anche perché poi si crea confusione nel messaggio. Penso all’assessore alla cultura e vicesindaco di Roma Luca Bergamo il quale ha par-lato di totale gratuità nei musei romani tutti i giorni.

Bergamo è in una giunta a Cinque stelle. Lo stesso partito di Bonisoli.

Infatti può sorprendere.

Si è detto: con le domeniche gratis perdiamo soldi.

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È curioso. Leggo molti commenti oggi di tipo economi-co, tipo che il Colosseo ha perso molti soldi, si accusavano le riforme Franceschini di mercificazione e oggi si toglie la gratuità per qualche milione in più?

Già che ci siamo sul ministero emerge un altro tema: Bonisoli ha parlato di seimila assunzioni nel ministero. Potrà farle?

Saremmo tutti felicissimi di seimila immissioni. Per effetto delle assunzioni di massa di fine anni Settanta e inizi anni Ottanta, arriva una valanga di pensionamenti. Franceschini era partito da 500 assunzioni, è arrivato a mille ed è stato un gran risultato. Vedo però che i seimila sono già diventati duemila nel prossimo anno e poi a seguire. Lo vedremo nella legge di bilancio, sarebbe un enorme risultato.

Questo governo potrà mantenere una promessa così?

A me sembra sovradimensionato l’insieme delle promesse e che confliggano anche sulla base delle dichiarazioni pru-denti del ministro dell’Economia e Finanza Giovanni Tria. Dipenderà dalle scelte. Se privilegeranno la flat tax o il red-dito di cittadinanza mi sembra difficile. Oltre tutto parliamo di migliaia di posti in un settore sentito tradizionalmente come poco importante dalla politica. Aspettiamo fiduciosi e vedremo: per festeggiare o restare delusi.

Lei ha scritto che sono però importanti anche i criteri delle as-sunzioni. Cosa intende?

Sconsiglierei immissioni di massa che poi bloccano tutto per anni. Il Mibac ha una pianta organica e si sa meglio del passato quante persone servono e dove. Allora si pianifichi e si facciano assunzioni continue e sistematiche, non tutte insieme. E si rivedano i sistemi di reclutamento. Bisogna te-nere altissima l’asticella. Alcuni sindacati hanno richiesto una

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riqualificazione del personale interno al ministero per cui non si richiede il possesso di titoli scientifici di alto livello e basterebbe una laurea triennale e alcuni anni di servizio: così chi ha fatto l’amministrativo per dieci anni può ritrovarsi a fare l’archeologo, lo storico arte o l’archivista avendo solo l’anzianità. Se non si abbandona questa logica da pubblica amministrazione vecchia e non si immettono giovani qualifi-cati il Mibac non potrà essere all’altezza delle funzioni sempre più difficili e complicate che deve affrontare. È indispensabile quindi pensare non solo a quanti e quando assumere, ma so-prattutto a chi, alle competenze: servono persone qualificate.

Un bilancio del ministro da quando si è insediato?

Ho ravvisato in Bonisoli disponibilità e apertura a darsi da fare, ma trovo molto difficile fare un bilancio: al di là del-le dichiarazioni ancora non si coglie un indirizzo. Mi pare che il ministro non voglia destrutturare quanto fatto e ciò lo considero positivo. Ma non ci sono al momento atti concreti. Mancano ancora le sue nomine dalle quali si capisce quale direzione vuole dare. Manca ancor il segretario generale, fi-gura centrale perché coordina tutti i dirigenti, è il vero braccio operativo del ministero. Finora sono solo circolate voci su una persona esterna al dicastero. Il Consiglio superiore non è stato ricomposto e ha cinque membri nominati dal ministro, come ne hanno ben 14 i comitati tecnico-scientifici.

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«Il ‘re’ degli scavi nel Sud e nelle Isole». Ovviamente illega-li. La definizione del giornalista Fabio Isman, autore del vo-lume ‘I predatori dell’arte perduta’, si riferisce a Gianfranco Becchina. È stato lui il ‘protagonista’ dell’esposizione di parte dei settemila reperti archeologici a lui sequestrati, allestita nel gennaio del 2015 nella sede del Museo Nazionale Romano, alle Terme di Diocleziano, dai Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale in occasione di una conferenza stampa dell’allora ministro Dario Franceschini e del generale Maria-no Ignazio Mossa, allora comandante del benemerito Nucleo.

Si tratta di uno dei sequestri più ingenti e più importanti mai messi a segno, esito di un lungo lavoro investigativo e giudiziario, partito nel 2001 con le perquisizioni effettuate dai marescialli Giuseppe Putrino e Angelo Ragusa a Basilea, durante una delle fiere che periodicamente attraggono nella città elvetica i trafficanti di mezzo mondo, nel negozio e nei magazzini della Antike Kunst Palladion, la società di Becchi-na e di sua moglie Ursula, detta ‘Rosie’.

Gianfranco Becchina, siciliano ultrasettantenne, dall’in-fanzia povera e difficile, lasciata la Sicilia dopo la precoce morte del padre, vive prima a Carbonia in Sardegna da uno zio, lavorando in un bar, poi emigra in Svizzera dove lavora come facchino all’Hotel Helvetia di Basilea (che poi acqui-sterà), lanciandosi nel mercato delle antichità, dopo aver ri-levato la galleria Palladion. Qui lavorava Rosie, diventata sua moglie, che continuerà per anni a gestire la galleria. Il

IL PREDATORE DELL’ARTE PERDUTA

* Versione rivista di Il predatore dell’arte perduta privato del suo ricco bottino, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22 gennaio 2015, pp. 32-33.

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suo primo colpo in grande stile risale al 1984, quando vende al Getty Museum, per 10 milioni di dollari, una statua greca arcaica, un kouros, poi risultato falso. Un colpo che gli fa fare il salto di qualità (ma che gli creerà anche una certa fama di inaffidabile), diventando il dominus del traffico illegale di materiale archeologico in tutta l’Italia meridionale e nelle due Isole. Rapidamente arricchitosi, si costruisce col tem-po un’immagine di grande imprenditore, con vasti terreni agricoli e aziende (suo il famoso marchio ‘olio verde’, che rifornisce anche la Casa Bianca), un palazzo nobiliare a Ca-stelvetrano appartenuto ai Pignatelli d’Aragona Cortez, una tenuta sul mare a Selinunte nei pressi del parco archeologico, due grandi aziende di cemento dai nomi mitologici, Herakles e Atlas, in Grecia e in Sicilia. Stabilisce relazioni internazionali con i curatori dei principali musei del mondo, principalmente statunitensi ai quale vende i suoi pezzi (dal Getty Museum al Metropolitan Museum of Art di New York, al Museo di Toledo nell’Ohio e altri ancora), con studiosi e restauratori dai pochi scrupoli, con collezionisti, gallerie e case d’asta. Per alcuni decenni è stato, insieme a Antonio Savoca e Giacomo Medici, uno dei tre più grandi trafficanti italiani. Mette in piedi una rete capillare di ‘tombaroli’ che per anni depredano migliaia di tombe antiche, domus e ville romane, templi e santuari. Com’è emerso dalle indagini, costruisce un triangolo cri-minale con Robert Emanuel Hecht, detto Bob, suo grande amico, che con la sua Galleria Atlantis Antiquities di New York rifornisce musei e collezionisti di tutto il mondo (fu lui ad esempio a curare la vendita del celebre ‘vaso di Eufronio’ al Metropolitan, recentemente restituito a Cerveteri), e con Raffaele Monticelli, ex maestro elementare, che controllava e finanziava lo scavo clandestino in maniera sistematica in Italia meridionale, in particolare in Puglia.

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Forte è stata la concorrenza con Medici, che negli anni Set-tanta sfila a Becchina, proprio nel territorio da lui controllato, la Daunia, un enorme ‘affare’: gli straordinari marmi policro-mi, tra cui i celebri grifoni, di Ascoli Satriano, venduti, attra-verso l’intermediazione di falsi collezionisti, al Getty Museum e recentemente recuperati ed esposti nel locale museo civico. Tra i due, infatti, si stabilisce una sorta di divisione del terri-torio archeologico italiano, il Sud e Isole a Becchina, Etruria e Italia centrale a Medici, ma ovviamente non sono mancate le incursioni al di fuori delle rispettive aree d’influenza.

Impressionante il quadro che emerge dai materiali seque-strati, che, per quantità e qualità, farebbero invidia a quelli dei principali musei archeologici italiani e non solo. Tra le migliaia di reperti, emerge con forza la netta prevalenza dei materiali provenienti dalla Puglia, in particolare dalla Dau-nia (ma non mancano oggetti della Peucezia e anche della Messapia e dell’intera Magna Grecia): stele daunie dall’area di Siponto-Manfredonia, migliaia di ceramiche geometri-che, policrome, a decorazione policroma e plastica, a fasce, listate, dorate/argentate, a vernice nera, sovraddipinte, cd. di Gnathia, ma anche statuine, terrecotte, antefisse, bronzi, armature, oreficerie, insomma un intero universo archeolo-gico della civiltà della Daunia, databile tra l’VIII-VII e il III-II secolo a.C., irrimediabilmente asportato dai contesti origina-ri delle necropoli di Arpi, Ascoli Satriano, Ordona, Salapia, Tiati, Canosa e altre ancora. A queste si aggiungono merci d’importazione, ceramiche greche attiche, corinzie, laconiche, greco-orientali, anch’esse verosimilmente parte di corredi di necropoli dell’Italia meridionale e della Sicilia o dell’Etruria, oltre a ceramiche etrusche e a bronzetti nuragichi sardi. È difficile fare statistiche, ma è indubbio che siamo in presenza di oggetti provenienti da migliaia di sepolture depredate. Non mancano anche reperti di età romana, sculture, cerami-

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che, bronzi, lucerne, anfore commerciali e numerosi affreschi strappati dalle villae e domus dell’Italia ro-mana, forse dell’area vesuviana, trasfor-mati in quadri e de-stinati a decorare le pareti delle ricche e un po’ kitsch dimore di collezionisti.

I danni al patri-monio e alla memo-ria del nostro Paese sono ingenti. Sia pur recuperati, ma irrimediabilmente estrapolati dal loro contesto originario, questi materiali restano, al di là del loro valore estetico, in gran parte muti in riferimento alla storia di ogni sito depredato, al loro peculiare significato cultura-le, ideologico, religioso, al ceto sociale e ai personaggi che rappresentavano.

Accanto ai reperti, il pezzo forte del sequestro è rappresen-tato dallo straordinario archivio di documenti, foto, appunti, ricevute, lettere, etc., tra cui, ad esempio, le foto del sarcofago della cd. ‘bella addormentata’, rinvenuto in un magazzino nel Queens, a New York, dagli agenti federali, pronto per essere spedito in Giappone; lo straordinario pezzo era stato acquistato per tre milioni di dollari da Noriyoshi Horiuchi, noto mercante di antichità legato a Becchina. Insomma è una vera miniera d’informazioni sulle tante relazioni criminali,

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comprese quelle con personaggi di primo piano della ma-fia, come Matteo Messina Denaro. Ma per tutti i suoi reati Becchina non pagherà, essendo andati tutti in prescrizione!

Resta ancora da decidere quale destino avranno questi reperti. Molto probabilmente saranno restituiti ai loro ter-ritori di appartenenza, sulla base dell’analisi archeologica e della ricca documentazione dell’archivio dei Becchina, che potrebbero in molti casi, ma non sempre, precisarne l’origine. Non è escluso, però, che in tal caso molti di questi materiali rischierebbero di finire in casse, nei depositi già affollati di musei e soprintendenze, tranne pochi esemplari particolar-mente significativi. E questo aggiungerebbe beffa al danno.

Ma perché, allora, non costruire con essi (e altri recuperati da altri trafficanti), un Museo della ‘Grande Razzia’, capace di illustrare e raccontare, anche con la forza suggestiva della quantità dei reperti, i danni dello scavo clandestino e del commercio archeologico illegale, anche grazie a foto, video, documenti processuali, ricostruzioni virtuali, nuove tecnolo-gie. Un museo didattico che educhi al senso civico e al rispetto di quell’identità culturale che i tombaroli e i trafficanti d’arte, e le mafie che li controllano, violentano e disperdono. Su dove farlo ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Possibilmente in un luogo simbolo, come ad esempio Taranto, il cui patrimonio culturale e archeologico è da decenni violentato e che proprio sulla cultura dovrebbe cercare un suo nuovo futuro, o in Dau-nia, un territorio che conosce da sempre la piaga dello scavo clandestino e che ha avuto in Marina Mazzei, funzionaria capace e integerrima della Soprintendenza impegnata nella lotta contro i tombaroli, uno degli esempi di uno Stato che non rinuncia a proteggere e valorizzare il patrimonio di tutti.

P.s. Negli ultimi mesi ho più volte incontrato i responsabili della Direzione Generale ‘Archeologia, Belle Arti e Paesaggi’ per valu-

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tare la possibilità di esporre i materiali del sequestro provenienti dalla Daunia nel Museo Civico di Foggia, grazie alla disponibilità dell’Amministrazione locale. Speriamo che tale progetto si possa realizzare.

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È già accaduto in passato che a una fase di riforme abbia fatto seguito una fase controriformistica. È quanto sembra possa accadere nel campo dei beni culturali. Alcuni segnali cominciano a cogliersi. Ne indico uno che riguarda la città nella quale vivo da circa vent’anni, Foggia.

La città, che ha origine nel Medioevo, ha subito i danni devastanti prima di un terremoto nel Settecento (per la pre-cisione nel 1731), poi dei bombardamenti nel 1943 e infine di un’intensa opera di espansione incontrollata, cementificazio-ne e speculazione edilizia. I problemi non mancano.

A pochi chilometri dalla città si estende un’ampia area archeologica corrispondente all’antico insediamento daunio di Arpi, danneggiata pesantemente dallo scavo archeologico clandestino: anche una delle poche grandi tombe aristocrati-che, il celebre Ipogeo della Medusa, da anni attende un’ade-guata valorizzazione. Nell’area occupata dalla grande villa comunale e da un bel complesso architettonico degli inizi del Novecento, destinato all’IRIIP, Istituto regionale per l’incre-mento Ippico, e da anni anche in parte sede dell’Università di Foggia, e in una vasta area incolta, un tempo utilizzata come ‘ippodromo’, si estende un enorme villaggio di età neolitica, uno dei tanti noti nel Tavoliere, in minima parte oggetto di scavi archeologici: anche questi rimasti da anni in stato di quasi totale abbandono.

SE LA ‘TUTELA’ RISCHIA DI ESSERENEMICA DEI CITTADINI

* Versione in parte modificata dell’articolo in Huffington Post, 31.10.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/se-la-tutela-rischia-di-es-sere-nemica-dei-cittadini_a_23576263/?utm_hp_ref=it-homepage.

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Ebbene, negli ultimi anni il Comune di Foggia ha inteso recuperare questa grande superficie di circa 23 ettari (nel corso dei decenni passati più volte a rischio di speculazioni edilizie, fortunatamente bloccate), un tempo periferica ma ormai posta all’interno della città, per realizzare un parco urbano, denominato ‘Campi Diomedei’, in ricordo del mitico eroe fondatore di Arpi e di altre città della Daunia.

C’è stato un regolare concorso internazionale e il progetto vincitore ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie, com-presa quella della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio (rappresentata anche nella commissione giudica-trice), che da alcuni anni, a seguito delle recenti riforme, ha sede proprio a Foggia. I lavori di sistemazione dell’area, per un costo complessivo di sette milioni, già appaltati, sono in

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Se la ‘tutela’ rischia di essere nemica dei cittadini 253

corso da mesi e si stanno effettuando anche scavi archeologici in una porzione dell’insediamento neolitico, che si prevede di valorizzare all’interno del parco urbano.

Come un fulmine a ciel sereno è giunta una nota della Soprintendenza, con la quale si revocano le precedenti au-torizzazioni e si impone la sospensione dei lavori. Cos’è successo? Nel frattempo è cambiata la Soprintendente ed è cambiato soprattutto il Direttore Generale all’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, che in effetti ha imposto alla stes-sa Soprintendente il cambio di rotta. Cambiano i dirigenti, cambiano le regole.

Nella nota si legge che gli interventi modificherebbero la ‘percezione’ del complesso architettonico storico e delle aree contermini. Ma qualsiasi intervento modifica la percezione di un luogo. L’alternativa è non fare nulla, preferendo l’im-mobilismo e anche la ‘percezione’ di uno stato di abbandono di un’area. Improvvisamente sono state recepite le tesi di un comitato locale per la difesa dei cavalli, che da anni si batte contro ogni intervento di riqualificazione dell’area (per anni si è opposto anche al recupero di parte degli edifici dell’IRIIP da parte dell’Università, che qui ha realizzato una bella e vi-tale sede per il Dipartimento di Economia e una meravigliosa Aula Magna, riutilizzando il vecchio ippodromo coperto or-mai fatiscente), le cui istanze sono state raccolte da esponenti locali del M5S.

Non entro nel merito del progetto prescelto, che può pia-cere o non piacere – è legittimo –, ma la questione essenziale è che si tratta di un parco, con un’attenzione particolare alle essenze locali, la presenza di percorsi per passeggiare o fare sport, zone per i bambini, un’area archeologica attrezzata e anche un’ampia porzione di quasi 4 ettari riservata ai cavalli e alle attività ippiche.

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Si può bloccare un parco urbano? Si può dire di no a uno spazio verde attrezzato che si spera contribuisca a migliorare la qualità della vita dei cittadini? In nome di quale tutela? Si intende inseguire la protesta di uno dei tanti comitati del no a qualsiasi cosa? Si preferisce lasciare quell’area nello stesso stato di abbandono nel quale è da anni invece di contribuire al suo recupero e a una nuova destinazione pubblica?

Non si considera che la stragrande maggioranza dei cit-tadini attende da anni un nuovo polmone verde, uno spazio di socializzazione, un’area sottratta alla speculazione e al de-grado, preziosa in una città gravata di tanti problemi sociali ed economici. È il caso di ripeterlo: in quell’area non è stata progettata una lottizzazione, non si costruiranno palazzine o villette, ma si intende realizzare un parco urbano.

Non so quali saranno gli sviluppi di questa triste vicenda. Il sindaco di Foggia annuncia battaglia: ha già dato mandato agli avvocati per un ricorso al TAR, intende denunciare la So-printendente per abuso di potere e chiedere anche i danni. Mi auguro vivamente che si trovi rapidamente una soluzione e che si evitino rotture che rischiano di avere strascichi di vario tipo. Auspico anche un intervento del ministro Bonisoli, per-sona aperta ed equilibrata che non credo desideri lo scontro.

Mi preoccupa soprattutto la spia del ritorno a una idea di ‘tutela’ muscolare (nei fatti assai debole), fatta solo di ‘no’, di divieti e diffide, di carte bollate e note scritte nel tipico linguaggio iperburocratico, di autoritarismo senza autorevo-lezza, di rifiuto del dialogo e della condivisione, dello scon-tro più che dell’incontro con le altre Istituzioni pubbliche, soprattutto incapace di cogliere le esigenze di una comunità. Di sentirsi parte di una comunità.

La discrezionalità delle scelte, che dovrebbe essere ispirata da un equilibrio tra gli interessi in gioco (interessi che però andrebbero ben conosciuti), non dovrebbe trasformarsi in

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Se la ‘tutela’ rischia di essere nemica dei cittadini 255

arbitrio. In tal caso si viene a creare un clima di sfiducia e si provocano rotture, contrapposizioni.

E l’imparzialità di una Soprintendenza non vuol dire estra-neità. Sarebbe bello se un soprintendente dovesse far ricorso alle norme, alle diffide, alle lettere di diniego solo quando e se non ci sono altre strade: spesso si potrebbe risolvere un problema grazie a un incontro, a una telefonata, a uno scam-bio di opinioni 1.

Questo di Foggia è solo un caso isolato? O è una delle avvisaglie di un nuovo clima? Spero sinceramente che i miei timori siano smentiti. Soprattutto per la tutela e la valorizza-zione del patrimonio culturale, impossibile senza condivisio-ne, sostegno sociale e partecipazione democratica.

1 Faccio mie le parole di un grande maestro del diritto dei beni cultura-li come Marco Cammelli, attuale Presidente della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, pronunciate in occasione del recente semi-nario di presentazione della Fondazione (Roma, 12-13 dicembre 2018).

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ARCHEOLOGIA AL FUTURO

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1. Prima il lavoro

Negli ultimi dieci anni accanto all’attività di ricerca e di didattica archeologica, ho avuto la possibilità di occupare posti di responsabilità nell’università e nel MiBACT, prima come rettore poi come presidente del Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’. Recentemente anche l’espe-rienza di componente della commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale in archeologia mi ha offerto un punto di osservazione privilegiato per cogliere le tendenze in atto nel campo della ricerca archeologica, particolarmente interessan-te e illuminante soprattutto in riferimento a quella condotta dai più giovani. Queste opportunità mi hanno consentito anche di guardare al mondo dell’archeologia e dell’intero comparto dei Beni culturali, con una prospettiva forse meno settoriale, un po’ più ampia, e di rendermi conto sia dei tanti problemi aperti, molti dei quali ricevuti in eredità dai decenni passati, sia delle potenzialità e delle possibili opportunità.

Confesso di sentire oggi come urgente, con ancora mag-giore responsabilità, innanzitutto il tema del lavoro per le migliaia di archeologi che in questi anni si sono formati nelle università e soprattutto fuori da esse, sul campo, spesso in-ventandosi una professione.

PER UN’ARCHEOLOGIA AL FUTURO:GLOBALE, PUBBLICA, PARTECIPATA

* Versione rivista e ridotta della relazione Per un’archeologia al futuro: globale, pubblica, partecipata (e anche un po’ più coraggiosa) tenuta al Workshop internazionale Quo vadis archeologia? (Catania 18-19 gennaio 2018), organizzato dal CNR-IBAM, i cui atti sono in corso di pubblicazione. Sono grato per questo all’amico e collega Daniele Malfitana.

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Recentemente ha avuto larga risonanza un articolo, a firma di Salvo Intravaia, apparso su «La Repubblica» del 2 genna-io 2018, che denunciava il crollo delle iscrizioni nei corsi di Beni Culturali. Lascio da parte alcune considerazioni sull’uso non proprio corretto dei dati da parte del giornalista (che ha impropriamente unificato nella sua analisi i corsi di Beni cul-turali e quelli di Turismo e ha considerato prevalentemente i corsi triennali che, com’è noto, nel campo dei Beni culturali hanno effettivamente scarsa spendibilità), perché il nodo es-senziale riguarda l’alto tasso di abbandoni dopo la triennale (solo il 36,6% si iscrive alla Laurea Magistrale), ma soprattutto la reale difficoltà negli sbocchi lavorativi, la sostanziale ina-deguatezza del percorso formativo universitario nella pre-parazione di professionisti dei Beni culturali, i ritardi nella definizione delle figure professionali, a quattro anni dalla legge 110/2014 che dovrebbe regolamentare questo ambito.

Ma al di là dell’andamento negli ultimi anni delle iscri-zioni ai corsi universitari, quel che mi preme sottolineare è l’indubbio aumento vertiginoso del numero degli archeologi e in generale di tutti i professionisti dei Beni culturali negli ultimi decenni. È questo un dato che spesso si dimentica, e soprattutto lo dimenticano i nostalgici del passato, spesso sottoscrittori di appelli contro le recenti riforme, quasi tutti protagonisti e eredi di una visione e di una realtà fortemen-te aristocratica dell’archeologia: forse è il caso di ricordare che ancora negli anni Sessanta e Settanta del Novecento si contavano numeri minimi di iscritti ai corsi di archeologia e che assommavano a poche centinaia gli archeologi, operanti essenzialmente nelle Soprintendenze, nelle Università e in poche altre strutture pubbliche. È stato più o meno a partire dalla mia generazione che il fenomeno è diventato – per così dire – di massa, tanto che oggi il numero complessivo degli archeologi operanti nel nostro Paese è valutabile in non meno

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di 5.000 unità, di cui circa un migliaio variamente impiegati in strutture pubbliche. In realtà non si dispone di dati certi, in mancanza di un albo o anche solo di un elenco, e possiamo affidarci solo a valutazioni effettuate sulla base di vari fattori: ad esempio al concorso del MiBACT nel 2008 per funzionari archeologi parteciparono 5.550 candidati, mentre nell’ultimo concorso il numero è sceso a 3.286. Anche l’impossibilità di contare su un’anagrafe (quanti professionisti, laureati, spe-cializzati, dottori di ricerca, ecc.?) costituisce un limite per qualsivoglia valutazione.

In ogni caso siamo in presenza di numeri assai significa-tivi. Gli ultimi quattro decenni hanno visto l’affermazione di fatto della figura dell’archeologo, contemporaneamente al processo di profonda innovazione metodologica e tecnica dell’archeologia sul campo e all’avvio dei grandi cantieri ur-bani e, più recentemente, di quelli di archeologia preventiva.

Il tema del lavoro, della definizione delle figure professio-nali, della loro qualificazione, delle garanzie e anche della valutazione, rappresentano oggi più che mai temi centrali di cui dovrebbe farsi carico l’intera categoria, prescindendo da afferenze e appartenenze e dalla difesa di interessi spe-cifici, spesso corporativi. Non si tratta, infatti, di un tema solo di tipo sindacale ma di una grande questione di politica culturale e anche di metodologia: la moderna archeologia richiede necessariamente equipe numerose e articolate per poter condurre grandi progetti non solo di ricerca ma anche di tutela e valorizzazione. Se non vogliamo tornare, cioè, ad un’archeologia fatta solo di studi individuali, sostanzial-mente storico-artistici, o di scavi diretti da un archeologo e condotti da schiere di operai è indispensabile poter contare su un numero elevato di archeologi, ben formati, dotati non solo di competenze disciplinari ma anche di abilità interdisci-plinari tali da consentire una versatilità nello svolgimento di

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varie funzioni, ben oltre quelle tradizionali dello scavo o della schedatura di materiali, ma estese a vari altri campi, dalla pianificazione alla comunicazione, dalla gestione ai servizi. L’ultimo concorso del MiBACT, grazie anche agli scorrimenti delle graduatorie, che portano a 1.116 il numero complessi-vo dei posti, prevede l’assunzione complessivamente di 200 archeologi. È un risultato significativo, anche se certamente non risolve il problema delle effettive necessità, soprattut-to a fronte dei prossimi pensionamenti dei tanti funzionari assunti tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, in particolare grazie alla nota legge 285/1977, che ha ingolfato per molti anni i ranghi del ministero.

Un’iniziativa che dovrebbe vederci impegnati tutti insie-me, prescindendo dalle legittime diverse posizioni, dovrebbe riguardare l’ottenimento nei prossimi anni di concorsi rego-lari, possibilmente annuali, effettuati con procedure selettive nuove (non con i quiz e i compitini), magari con la formula del corso-concorso (come speravo potesse fare, sul modello dell’Institut du Patrimoine francese, la Scuola del Patrimonio del MiBACT 1, che dovrebbe avere una funzione di forma-zione, anche permanente, del personale del ministero e non, come sembrerebbe, a giudicare dal recente bando, occuparsi della formazione, di quarto livello post-dottorale – senza pe-raltro alcun rapporto organico con l’Università – riservata a piccoli gruppi di super-specialisti).

Uno dei miei sogni, inoltre, riguarda la possibilità che le tutte strutture del MiBACT (non solo i grandi musei) possano essere dotate di una piena autonomia scientifica, gestionale e organizzativa, tale da poter effettuare anche direttamente il

1  http://www.scuolapatrimonio.beniculturali.it./. Sulla Scuola del Patrimonio ho esposto in più sedi la mia posizione: cfr. Volpe 2015a, 47-51; Id. 2015b.

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reclutamento del personale di cui ogni struttura ha bisogno, sulla base delle specifiche esigenze, ovviamente con rigorosi sistemi di selezione e valutazione della qualità. Ma non basta. Dovremmo operare per creare un mercato del lavoro molto più ampio del solo ambito statale e, in generale, pubblico, pensando alle Regioni e agli Enti Locali, ma anche alle Fonda-zioni, al terzo settore e anche alle imprese private e all’ampio mondo dei professionisti. Il terzo settore – che non va frain-teso con il volontariato, ma rappresenta un modo diverso di fare impresa – costituisce, a mio avviso, una grande risorsa, finora poco sfruttata, anche per il mondo dell’archeologia. La grave mancanza di lavoro (e la prevalenza di lavoro precario, poco garantito e spesso sottopagato) nel settore dell’archeo-logia, e più in generale dei Beni culturali, provoca non solo una diffusa insoddisfazione e un clima di incertezza, ma sol-lecita anche diffidenze e rancori, oltre a favorire una grave contrapposizione verso le associazioni di volontariato. Ef-fettivamente, in una situazione caotica, nell’ancora mancata definizione delle figure professionali dei Beni culturali e dei relativi requisiti, il volontariato rischia di essere, o almeno di apparire, sostitutivo del lavoro professionale e non, come invece dovrebbe essere, integrativo e di supporto. Non dob-biamo nasconderci – e anzi dovremmo insieme denunciare – un uso spesso improprio del volontariato. Ma considero un clamoroso errore attaccare le associazioni di volontariato, che a livello nazionale e locale, svolgono una funzione stra-ordinariamente importante per sensibilizzare la cittadinanza attiva, la classe politica e l’intera opinione pubblica ai temi del patrimonio culturale, in tal modo contribuendo non solo alla sua conoscenza, tutela e valorizzazione ma anche alla creazione di migliori condizioni per sviluppare lo stesso la-voro nel campo della cultura. I volontari possono e devono

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essere nostri alleati, non certo nemici, perché l’archeologia sia effettivamente pubblica.

2. Globale, pubblica, partecipata

Tre sono, a mio parere, le principali parole d’ordine per l’archeologia di oggi e di domani: globale, pubblica, parteci-pata. Ovviamente si potrebbero indicare anche altri aggettivi per meglio precisare i tanti caratteri di una disciplina orien-tata al futuro, capace di arricchire e dare nuova linfa ad una tradizione gloriosa.

È noto che l’archeologia classica abbia le sue origini nell’an-tiquaria, come la storia dell’arte antica, con la quale si è a lungo identificata e con la quale ancora oggi, secondo talu-ni, si identifica. Diversa è stata l’evoluzione di altre arche-ologie, come quella preistorica, precocemente legatasi alle scienze naturali, o quella medievale, nata dal ceppo della storia e orientatasi precocemente verso la cultura materiale, gli insediamenti e i territori (come recita il sottotitolo della rivista nata nel 1974). Dell’origine antiquaria molta archeo-logia italiana ha conservato, in misura maggiore o minore a seconda dei casi, pregi e difetti, come lo studio dei detta-gli minuti a scapito dell’insieme, la curiosità spezzettata, la tendenza catalogica e antologica nell’analisi di monumenti e oggetti considerati isolatamente e indagati spesso senza un vero metodo (che non sia il ricorso alla dottrina e alla personale sensibilità e capacità di intuizione dello studioso), oltre all’autoreferenzialità e alla frammentazione del sapere. Anche quando si arricchisce dell’uso di tecnologie avanzate, certa archeologia rischia di restare legata al tecnicismo, al tecnologismo, al descrittivismo, confondendo innovazione tecnologica con innovazione metodologica. Rischia, cioè, di rimanere ‘archeografia’.

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Se volessi provare in maniera assai schematica e selettiva – ne sono consapevole – a individuare alcuni dei caratteri innovativi che hanno maggiormente segnato le più recenti passate stagioni 2, associando ciascuna al nome di archeologi italiani simbolo di ogni fase, potrei indicare:

1. Negli anni Sessanta-Settanta, l’approccio storicistico e la lettura sociale della produzione artistica, con Ranuccio Bianchi Bandinelli.

2. Negli anni Settanta-Ottanta, la scoperta della cultura materiale e l’affermazione del metodo stratigrafico, con An-drea Carandini.

3. Negli anni Ottanta-Novanta, l’affermazione delle arche-ometrie, delle archeologie della produzione, dell’architettura, dei paesaggi urbani e rurali e delle tecnologie informatiche, con Tiziano Mannoni e Riccardo Francovich.

Gli ultimi anni, quelli che hanno segnato l’avvio del nuovo secolo e millennio, hanno visto l’appannarsi della spinta pro-pulsiva e innovativa e l’affermazione, nel più generale clima di crisi economica e di precarietà sistemica, di una preoccu-pante tendenza all’arroccamento e alla chiusura, in un conte-sto dominato da una diffusa paura del futuro. La paura – sia ben chiaro – è un sentimento molto umano, che va compreso e non solo condannato 3; sfido chiunque a non averla provata in un momento di grandi e profondi cambiamenti epocali e di incertezze soprattutto per i giovani. Ma è un nostro dovere sfidare la paura e affrontare i cambiamenti con curiosità e co-

2  Sulla storia dell’archeologia italiana si veda Barbanera 2015, in particolare 149-212 in riferimento alla seconda metà del Novecento; si veda anche Id. 1998, 155-192.

3  Si vedano a tale proposito le belle riflessioni di Manacorda 2018b.

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raggio, anche grazie agli strumenti specifici dell’archeologia, che, come ci ricorda di continuo Daniele Manacorda 4, prima ancora che una disciplina, è un metodo, uno strumento, quasi un modo di pensare, che consente di affrontare, con i suoi capisaldi metodologici (stratigrafico, tipologico, topografico e tecnologico) la complessità del passato ed anche quella del presente, di scendere nel dettaglio senza mai perdere la visio-ne d’insieme, di individuare non solo le presenze ma anche le assenze, di cogliere indizi e tracce, anche evanescenti, di stabilire relazioni e di proporre un racconto.

La centralità andrebbe attribuita ai paesaggi, urbani, ru-rali, costieri e subacquei, da affrontare in maniera globale in quanto sistemi complessi di relazioni, plasmati nel corso dei secoli da processi costruttivi e distruttivi di origine antropica e/o naturale. Non mere somme di elementi, di punti, di siti, di monumenti, ma organismi unitari, stratificati e comples-si. Da indagare con vari strumenti, ma in maniera globale e sistemica.

In realtà siamo assai lontani da una convergenza multidi-sciplinare che è qualcosa di molto più complesso da quella in-terdisciplinarità sperimentata, pure con risultati apprezzabili, in passato. Pensiamo alle straordinarie esperienze dei Dialo-ghi di Archeologia 5 e del Seminario di Antichistica dell’Istituto Gramsci nel confronto tra storici, archeologi, filologi, storici dell’arte, del diritto, della filosofia antica, della religione. Oggi servirebbe una multidisciplinarità molto più ricca di apporti umanistici, scientifici e tecnologici. Al contrario, si registra un ritardo in questa direzione, già nella fase formativa univer-sitaria. L’incapacità di confronto e di dialogo rappresenta, a

4  Si veda in generale Manacorda 2004; Id. 2008.5  Rinvio a Barbanera 2015, 159-161.

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mio parere, uno dei motivi principali della resistenza e del funzionamento ancora insoddisfacente delle soprintendenze uniche territoriali, introdotte dalle riforme del MiBACT nel 2016. Operare in una struttura multidisciplinare non significa affatto annullare l’archeologia, ma semmai affidarle un ruolo ancor più incisivo proprio grazie alla forza metodologica di un approccio stratigrafico, contestuale, territoriale, tecnolo-gico.

Personalmente ritengo che le soprintendenze uniche ter-ritoriali rispondano anche a quell’approccio territorialista. Ecco perché anche noi archeologi dovremmo contribuire a «sviluppare il dibattito scientifico per la fondazione di un corpus unitario, multidisciplinare e interdisciplinare delle arti e delle scienze del territorio di indirizzo territorialista, che sia in grado di affrontare in modo relazionale e integrato la conoscenza e la trasformazione del territorio» 6.

In questo senso un passo in avanti è rappresentato dai Piani Paesaggistici Regionali.

La visione del paesaggio che ho cercato di proporre pre-vede non solo un contatto diretto con il paesaggio stesso ma anche con le persone, sia quelle che hanno abitato e trasfor-mato nel corso dei millenni la porzione di territorio indagato, sia quelle che la abitano oggi. È un’esperienza che ci deve far sentire non solo ricercatori ma anche componenti di una comunità, impegnati nella conoscenza e nella tutela della me-moria stratificata nel territorio, oltre che nella pianificazione e trasformazione del paesaggio attuale.

Il patrimonio archeologico, e in generale quello culturale e paesaggistico, possono e devono essere uno strumento di crescita della democrazia. La partecipazione, cioè, non può

6  http://www.societadeiterritorialisti.it/2014/12/15/statuto-2/. Cfr. anche Volpe 2017.

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essere più intesa solo come fruizione o come un mero trasfe-rimento di conoscenze, con un’idea pedagogica e un po’ pa-ternalistica, ma deve tradursi nel coinvolgimento di cittadini nei processi decisionali, fin dalle fasi iniziali di un progetto. Insomma si tratta di promuovere una partecipazione che non si limiti solo ad un piano formale.

3. Dove e come si formano gli archeologi

Prima di concludere, propongo un piccolo passo indie-tro, ritornando alla formazione universitaria 7. Nell’ultimo ventennio la formazione nel campo dei Beni culturali ha cer-tamente prodotto risultati positivi con la nascita di corsi di studio specifici, l’adozione di un percorso finalmente quin-quennale, l’inserimento di discipline di ambito scientifico e tecnologico e di attività professionalizzanti sul campo e in laboratorio, ma ha avuto anche risvolti negativi, con l’istitu-zione di corsi dai titoli e dai percorsi più fantasiosi, l’eccesso di frammentazione, la moltiplicazione eccessiva e non pro-grammata delle sedi e, soprattutto, una certa autoreferenzia-lità del mondo accademico, spesso disinteressato ai profili in uscita. I corsi, cioè, sono per lo più progettati sulla base dei docenti disponibili e dei loro rapporti di potere e non in fun-zione delle figure da formare. Insomma è proprio la separa-zione tra mondo della formazione e mondo del lavoro e delle professioni dei Beni culturali a rappresentare il limite prin-cipale per una reale qualificazione dei futuri professionisti dell’archeologia e del patrimonio culturale. Spesso laureati, specializzati, dottori di ricerca si sono dovuti inventare da soli nuove professioni. La situazione è andata peggiorando pro-

7  Rinvio ai miei contributi Volpe 2014; Id. 2015a, 47-51; Id. 2016a, 213-225; Id. 2016b.

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gressivamente, associando a un eccesso di frammentazione e settorializzazione un eccesso di generalismo. Per effetto del combinato disposto della crisi delle iscrizioni, legata ai noti problemi degli sbocchi lavorativi e anche all’esplosione della bolla dell’oggettivo eccesso di offerta, dei pensionamenti e del blocco del turn over, delle recenti norme sulla sostenibilità dei corsi, si sta verificando una sorta di ‘evaporazione indiscipli-nare’, che è cosa ben diversa da un approccio interdisciplinare e olistico, che invece sarebbe auspicabile. Basti pensare a cosa sono diventati i Dottorati di Ricerca.

Per la prima volta dalla nascita del MiBACT per gemma-zione dal MIUR nel 1974, i due ministeri sono tornati a par-larsi e a prendere impegni di collaborazione sistematica. I due Consigli (CUN e CSBCP) si sono riuniti in una seduta congiunta (12 luglio 2017) con i due ministri e hanno costitu-ito una commissione per fornire linee di indirizzo per una re-visione dei percorsi formativi universitari nel campo dei Beni culturali, partendo, finalmente, dalla definizione dei profili professionali da formare nel primo, secondo e terzo livello.

Inoltre si sta finalmente lavorando al progetto dei cd. ‘po-liclinici del patrimonio culturale’. In particolare le Scuole di Specializzazione, il cui assetto andrebbe rivisto, qualifican-dole maggiormente, stabilendo standard omogenei nazionali e sistemi di accreditamento e valutazione, con docenti di alto profilo, eventualmente anche grazie ad accordi inter-ateneo, potrebbero diventare i veri luoghi dell’alta formazione dei professionisti del patrimonio culturale, non solo con solide competenze disciplinari settoriali ma anche e soprattutto con impostazioni interdisciplinari e con l’acquisizione di capa-cità nel campo della gestione, progettazione, pianificazione, comunicazione. Il progetto che proponiamo prevede una du-rata triennale (anche per rilasciare un titolo valido a livello internazionale) e un impiego degli specializzandi, con borse/

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contratti di lavoro, nelle strutture centrali e periferiche del MiBACT.

Le riforme in atto rappresentano un’importante occasione da non sprecare. Ci sono stati errori, ritardi, ci sono tante cose che non funzionano come dovrebbero. Ma il mondo dei Beni culturali si è rimesso in moto. Non spegniamo il motore e so-prattutto non inneschiamo la retromarcia. Gli oppositori sono tanti, molti in buona fede, alcuni a difesa di vecchie rendite di posizione. Le riforme sono difficili, quasi impossibili in una Paese come l’Italia. Gli archeologi siano protagonisti di questa nuova stagione. Sarebbe necessario per gli archeologi saper esprimere la volontà e la capacità di uscire dalle proprie nicchie (che non significa affatto rinunciare ai propri specia-lismi) e di elaborare strategie condivise, capaci di guardare al futuro, al rapporto con i cittadini e le comunità locali, ai progetti di sviluppo, al lavoro e alle professioni, insomma alla funzione pubblica dell’archeologia.

4. Una casa comune per gli archeologi

Anche per questo ci siamo impegnati nel tentativo di dar vita ad un organismo di coordinamento e di rappresentanza di tutti gli archeologi italiani, prescindendo dalle loro afferenze. Uno spazio comune, cioè, per riflettere sul ruolo dell’archeo-logia nel mondo contemporaneo, in una società in profonda e tumultuosa trasformazione agli inizi del terzo millennio, con uno sguardo aperto all’Europa e al mondo intero. Una casa comune degli archeologi, un luogo di confronto libero, laico e rispettoso delle differenze, innanzitutto per favorire la conoscenza reciproca dei problemi di ogni ambito dell’ar-cheologia, superando le logiche parziali di ciascuno di essi, in modo da poter individuare i punti in comune, elaborare proposte e progetti condivisi. Troppo spesso, infatti, a causa

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dell’eccessiva frammentazione, dell’autoreferenzialità e della separazione fra mondo della ricerca, della tutela, delle profes-sioni e dell’economia, anche le numerose esperienze positive, le eccellenti competenze e gli importanti risultati scientifici conseguiti hanno finito col perdere il legame con il mondo esterno, se non addirittura a porsi in antitesi: di conseguenza l’archeologia ha perso sempre di più un (necessario) sostegno sociale. Eppure si può cogliere nella società attuale un grande bisogno di ‘archeologia’: sta agli archeologi, nel loro insie-me, intercettare questo bisogno e fornire risposte adeguate a questa richiesta. Ma cosa sappiamo veramente di come sia percepita l’archeologia nella società italiana contemporanea? Sarebbe interessante effettuare un’indagine specifica in Italia, simile a quella realizzata dall’INRAP in Francia a scala euro-pea 8, che ha fornito interessanti dati di riflessione. Emerge ad esempio che il 65% del campione italiano pensa che l’ar-cheologia sia una scienza e solo per il 25% è una professione (rispetto ad una media europea rispettivamente del 69% e del 26%); ben il 91% ritiene che sia utile, il 60% la considera utile per capire il passato, ma la percentuale scende all’11% in riferimento alla comprensione del presente, più o meno in linea con la media europea. Allo steso modo, è interessante il dato relativo alle modalità di conoscenza dell’archeologia: per il 57% avviene tramite la televisione e la radio e solo per il 5% grazie alle conferenze. Persistono in Italia ancora visioni classiciste, per cui per il 54% l’archeologica coincide con l’Antichità (molto più che la media europea, pari al 36%) e solo il 14% la associa alla Preistoria o al Medioevo. Ci sono anche dati molto confortanti: come quello del 94%, secondo

8  Marx-Nurra-Salas Rossenbach 2017: cfr. https://www.inrap.fr/les-citoyens-europeens-et-l-archeologie-une-enquete-coordonnee-par-l-inrap-dans-13035.

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cui si dovrebbe sostenere e sviluppare l’archeologia, anche se ancora con una visione tutta statalista (l’84% pensa che sia lo Stato a doverla finanziare e l’86% pensa che spetti solo allo Stato gestirla), o il dato che esprime una voglia di partecipare ad uno scavo (68%), il desiderio di incontrare gli archeologi per capire meglio il loro lavoro (68%) e per conoscere meglio l’archeologia del proprio territorio (74%), e, infine, l’attra-zione per la visita di un sito archeologico (92%). Insomma, come ho già detto, c’è un grande bisogno di archeologia nella società. Ma gli archeologi ne sono consapevoli?

Il progetto di dar vita a un coordinamento degli archeologi italiani è fallito per vare ragioni e forse, più semplicemente, perché non erano ancora maturi i tempi. Ci sono ancora trop-pe paure, che alimentano egoismi e chiusure. E le paure non hanno mai prodotto risultati positivi.

Forse, però, ora, in un clima diverso e in un contesto poli-tico modificato, si potrebbero ritrovare i presupposti per un nuovo tentativo.

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IL PATRIMONIO CULTURALEDI UN PAESE FRAGILE

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Il Consiglio Superiore Beni Culturali e Paesaggistici del Mi-BACT, nella riunione del 19 settembre 2016, nella prima sua riunione all’indomani del sisma dell’agosto 2016 ha dedicato ampio spazio alla tutela del patrimonio delle zone terremo-tate. Le violente scosse che hanno colpito le Marche hanno provocato nuovi ingenti danni al patrimonio. L’unità di crisi del MiBACT è entrata subito in piena attività. Nell’’ospedale’ dei beni culturali allestito nei pressi di Rieti restauratori, sto-rici dell’arte, archeologi, tecnici vari furono immediatamente impegnati nel catalogare, effettuare primi interventi di pronto soccorso, custodire le opere portate via da chiese, palazzi, monumenti. Una soprintendenza speciale è stata istituita con competenze in tutta l’area interessata dal sisma.

Bisogna essere profondamente grati ai nostri tecnici, ai nostri funzionari, ai nostri soprintendenti, al loro impegno, alle loro competenze, alla loro dedizione.

Ma è anche il tempo per una riflessione, che metta in eviden-za l’esigenza di un nuovo approccio. Ancora una volta siamo, infatti, alle prese con un’emergenza, reagendo al meglio ai dan-ni prodotti. In questo siamo bravissimi. Ma non basta. In Italia manca ancora una vera cultura della prevenzione anche nel campo del patrimonio culturale. Si preferiscono ancora i grandi restauri (che sono legati anche a grandi appalti e grandi fi-

IN ITALIA MANCA UNA CULTURADELLA PREVENZIONE ANCHE NEL CAMPO

DEL PATRIMONIO CULTURALE

* Versione rivista di Terremoto, in Italia manca una cultura della pre-venzione anche nel campo del patrimonio culturale, in Huffington Post, 28.10.2016, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/patrimo-nio-beni-culturali-_b_12675694.html.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale276

nanziamenti), ma stenta ad affermarsi un approccio sistemico, fondato prevalentemente sulla manutenzione programmata, sulla riduzione del rischio sismico, sulla corretta gestione del territorio, in una visione contestuale, nella quale monumenti e paesaggi siano studiati e curati come elementi in un sistema complesso, inestricabilmente legati gli uni agli altri.

Negli anni Settanta una personalità straordinaria e inascol-tata (apprezzata solo dopo la sua morte), Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, aveva dato vita al Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria. Progetto esecutivo (se ne legga la premessa ripub-blicata in Il Capitale culturale, 2 2011 https://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/article/view/176/95). Così si apriva quel documento: «È ormai acquisito che, almeno in un paese come il nostro, il patrimonio dei beni culturali non deve es-sere considerato separatamente dall’ambiente naturale; non si può dire invece che siano altrettanto palesi le conseguenze che da questo sono da trarre ai fini di un migliore orienta-mento delle attività conservative».

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In Italia manca una cultura della prevenzione 277

Elemento di partenza imprescindibile dovrebbe essere uno studio approfondito e interdisciplinare del territorio, la costruzione di una base conoscitiva solida, l’elaborazione di un catalogo sistematico di beni, o meglio di un sistema in-formativo territoriale unico e integrato (come quello di cui si va dotando la Regione Puglia, interoperabile con l’Istituto del Catalogo del MiBACT: basta con la moltiplicazione delle banche dati!). Tutte cose che mancano ancora nel nostro Pa-ese. Ma soprattutto serve un approccio globale, che superi la visione limitata ai singoli elementi, nella consapevolezza che l’insieme delle singole parti (pur pregevoli) non corrisponde a una somma ma a un sistema. Bisogna uscire cioè dalla logica della frammentazione del singolo restauro e entrare in quella della manutenzione. Abbandonare la prassi degli speciali-smi autoreferenziali e frammentati e affermare un modo di lavoro realmente multi- e interdisciplinare. È quello che si è tentato di fare la riforma del MiBACT con l’introduzione delle Soprintendenze Uniche a base territoriale: ma i problemi, le difficoltà, le resistenze sono ancora tante, aggravate da una cronica mancanza di personale e di mezzi adeguati. C’è quindi da sperare che si proceda con nuove assunzioni. C’è bisogno di molti specialisti per effettuare un’azione efficace di conoscenza, tutela, manutenzione, valorizzazione. Ed è necessario che le comunità locali in primis siano e si sentano pienamente coinvolte in quest’azione.

Quel ‘Piano pilota’ non ebbe seguito e si perse un’occasione straordinaria. Anche i Piani Paesaggistici Territoriali, che di questi aspetti devono occuparsi.

Se dalle tragedie del terremoto si riuscisse a imprimere una vera svolta nell’azione di tutela e valorizzazione del patrimo-nio culturale italiano il sacrificio subito da tanti monumenti, dalle città, dai borghi, potrebbe essere finalmente risarcito.

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Mentre nell’autunno del 2016 il bilancio dei danni al patri-monio culturale si andava aggravando di ora in ora (dram-matica l’immagine della basilica di San Benedetto di Norcia, crollata mentre si stava risistemando il tetto), a seguito delle violente ripetute scosse, ci toccava leggere un intervento (ov-viamente immediatamente ripreso dal sito web Emergenza cultura per garantirne ancora maggiore diffusione), da parte di uno storico dell’arte, come al solito violento, polemico, strumentale, che attribuiva tutte le responsabilità del disa-stro all’allora ministro dei beni culturali Dario Franceschi-ni, da lui definito ‘vicedisastro’. «Ecco il frutto avvelenato dello smantellamento delle soprintendenze voluto da Renzi («soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia», ha scritto) e attuato da Franceschini, che ha in-vestito tutto sulla (pessima, peraltro) riforma commerciale dei supermusei». Insomma – pare di capire – se non ci fosse stata la riforma del MiBACT tutti i monumenti sarebbero rimasti in piedi, quelli lesionati sarebbero stati già tutti già puntellati, anzi già restaurati e resi antisismici!

Prima era tutto perfetto, tutto funzionava al meglio, le so-printendenze (ricordiamolo, tre diverse, una ai beni archeo-logici, una ai beni architettonici, una ai beni artistici, spesso in conflitto tra di loro e in sovrapposizione di competenze: chi avrebbe dovuto occuparsi degli interventi, visto che ogni

NON FACCIAMO POLEMICHE STRUMENTALISUL DISASTRO DEL PATRIMONIO CULTURALE

* Versione rivista di Caro Montanari, non facciamo polemiche strumentali sul disastro del patrimonio culturale, in Huffington Post, 31.10.2016, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/cultura-sciacallaggio-terremo-to_b_12715242.html.

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Non facciamo polemiche strumentali 279

monumento è al tempo stesso architettura, arte, archeologia?) funzionavano alla perfezione!

Si dimenticavano anni di tagli, di mancate assunzioni, di totale marginalizzazione. Si dimenticava che il bilancio del ministero era arrivato nel 2014 ai minimi storici, solo un miliardo e mezzo (sinceramente mi vergognavo nel valuta-re le programmazioni economiche nel Consiglio Superiore Beni Culturali e Paesaggistici e la distribuzione tra tutte le soprintendenze di una misera manciata di milioni di euro). Negli ultimi anni la situazione è andata progressivamente migliorando, i fondi sono andati aumentando (ma molto di più servirebbe, soprattutto per il funzionamento ordinario), è stato effettuato un concorso per nuovi tecnici-scientifici. I problemi sono tutti risolti? No, certo, c’era e c’è moltissimo da fare, servono più risorse, più mezzi, più personale. Ma

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale280

serve soprattutto affermare una visione nuova del patrimonio culturale. Era necessaria una vera rivoluzione per evitare il collasso! In particolare, nel campo della tutela, il superamento della logica dei soli restauri e l’affermazione della manuten-zione programmata.

È assolutamente legittimo avere opinioni diverse sulle ri-forme. E chi scrive non ritiene certo di possedere ‘la verità’, né si nasconde le difficoltà dell’attuazione di una riforma così complessa e i tanti problemi ancora irrisolti (esito di decen-ni di sistematico sfascio delle strutture di tutela nel nostro Paese). Ma cosa c’entra questo con il disastro del terremoto? Perché fare sciacallaggio sui danni al patrimonio culturale che rappresenta una perdita gravissima innanzitutto per le popolazioni colpite dal sisma, per tutti gli Italiani (che in que-ste occasioni sanno trovare le ragioni di una unità nazionale e dimostrare passione e competenza, come fanno i tanti tecnici del MiBAC) e per il mondo intero.

Chiudo allora con le stesse sagge parole di Enrico Men-tana, riportare sull’Huffington Post (http://www.huffin-gtonpost.it/2016/10/30/mentana-contro-blundo-terre-moto_n_12711874.html): «Crollano meraviglie della nostra storia, si temono perdite umane, centinaia di migliaia di persone non dormiranno più a casa loro per chissà quanto tempo. Le fesserie possono attendere, se proprio non si riesce a farne a meno».

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Alessandro Delpriori, l’attivo sindaco di Matelica, dottore di ricerca in storia dell’arte, in occasione del sisma che ha col-pito anche la sua bella cittadina, ha avanzato alcune proposte all’allora Ministro Dario Franceschini. Il suo intervento è stato immediatamente strumentalizzato da chi usa il terremoto per fini di polemica politica, ma il suo spirito era ed è orientato ad avanzare proposte costruttive (peraltro subito accolte, per quel che è stato possibile dal MiBACT). Erano proposte fondate su una profonda conoscenza del patrimonio del suo territorio e sull’iniziativa in prima linea nella battaglia per la salvaguardia del patrimonio, insieme (anzi indissolubilmente legato) alla salvezza e alla sistemazione dei cittadini per la rinascita di quei territori.

Le sue proposte mi sembravano molto concrete e condi-visibili.

Ad esempio, l’adozione di procedure più speditive per la messa in sicurezza di beni immobili e mobili: una richiesta non facile in un Paese complicato come il nostro, nel quale spesso la rapidità nelle procedure si associa alla corruzione, e la (giusta) lotta alla corruzione impone procedure sempre più farraginose.

Altro tema è il coinvolgimento di volontari, non generici ma specialisti: docenti, ricercatori e personale tecnico uni-versitario, dottori di ricerca, specialisti e laureati. Il sindaco ha già ottenuto la disponibilità di varie Università e di non

UN SINDACO IN PRIMA LINEAPER SALVARE IL PATRIMONIO CULTURALE

* Versione leggermente rivista dell’articolo in Huffington Post, 8.11.2016, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/sindaco-sal-vare-patrimonio-culturale_b_12799546.html.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale282

meno di 150 persone. Ma come impiegarle? Serve innanzi-tutto un coordinamento, in modo da affidare compiti precisi e da evitare iniziative scollegate e inutili, se non addirittura dannose. Poi servirebbe un breve corso di formazione per fornire ai volontari i rudimenti su come muoversi in un ter-ritorio pericoloso, per crolli, strutture pericolanti, ecc.

A partire da questa proposta il sindaco ha lanciato l’idea, molto interessante, di dar vita ad una ‘Protezione civile del Patrimonio Culturale’: un organismo con personale prepa-rato e attrezzato per operare in condizioni di difficoltà e di pericolo per cause naturali.

Non si tratta, certamente, di togliere occasioni di lavoro (già scarso) ai professionisti dei beni culturali, ma di impie-gare nei momenti difficili e di emergenza, come quello che stiamo vivendo, volontari con competenze specifiche nel set-

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Un sindaco in prima linea per salvare il patrimonio culturale 283

tore, a supporto e integrazione dei tecnici. Esattamente come accade nella sanità, nell’assistenza sociale e in vari altri campi nei quali l’apporto del volontariato qualificato e ben formato si dimostra assai prezioso. Si tratta anche di uno strumento prezioso per favorire forme di partecipazione attiva della cittadinanza.

Ma innanzitutto serve un ulteriore investimento nelle dotazioni di personale tecnico, che possa essere impiegato non solo nelle normali attività di tutela ma anche in casi di emergenza come questo.

Servirebbe, infine, la predisposizione di linee guida, di protocolli, di manuali operativi, oltre che di specifici corsi di formazione per l’intervento in aree colpite da terremoti e altre sciagure naturali.

Da questa esperienza drammatica, cioè, potremmo e do-vremmo imparare ad affrontare nel futuro situazioni difficili con ancora maggiore preparazione, competenza, rapidità e organizzazione.

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È questo il titolo della mozione del Consiglio Superiore Beni culturali e paesaggistici del MiBACT che si è riunito a Matelica in una seduta straordinaria e pubblica1. La seduta è stata preceduta da un sopralluogo in alcuni dei monumenti e luoghi danneggiati dai vari sismi succedutisi tra agosto del 2016 e gennaio del 2017, come la bella chiesa di San Francesco a Matelica, o il museo diocesano della stessa città, con una collezione di migliaia di tele, sculture, oggetti sacri, mobi-li, o il museo di San Domenico e, infine, il centro storico di Camerino, zona rossa presidiata dall’esercito e dalle forze dell’ordine: qui ciò che colpiva era in particolare il silenzio innaturale delle piazze e strade che solo pochi mesi prima erano vivacemente frequentate dai cittadini e dagli studen-ti dell’antica Università di Camerino (di fatto un’unica co-munità, paritetica anche sotto il profilo numerico, con 7.000 abitanti circa e altrettanti studenti). Significativo è lo slogan #ilfuturononcrolla scelto dall’Università all’indomani del si-sma. Un futuro che potrà essere (ri)costruito con e grazie al patrimonio culturale, fatto non solo di monumenti, chiese e singole opere d’arte, ma dello straordinario tessuto territo-riale e paesaggistico, dai piccoli borghi e, soprattutto, dalle ‘comunità di patrimonio’ dell’Italia centrale che stanno di-mostrando una eccezionale capacità di resilienza. Non a caso il Consiglio ha voluto fare un esplicito e forte richiamo alla

1  La mozione è infra 336-339.

“IL PATRIMONIO CULTURALE È IL FUTURODEI TERRITORI COLPITI DAL TERREMOTO”

* Versione in parte modificata di Un sindaco in prima linea per salvare il pa-trimonio culturale, in Huffington Post, 8.11.2016, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/sindaco-salvare-patrimonio-culturale_b_12799546.html.

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“Il patrimonio culturale è il futuro dei territori colpiti dal terremoto” 285

Convenzione di Faro, perché questo drammatico evento che ha colpito le regioni rappresenti la prima coerente occasione di applicazione dei principi di quella straordinaria e rivolu-zionaria convenzione europea. La mozione contiene anche alcune proposte per il futuro (come la costituzione di una specifica funzione, stabile e ben strutturata, della Protezione Civile per il Patrimonio Culturale), sollecita una collabora-zione sistematica tra MiBAC e mondo delle Università e della ricerca, offre indicazioni operative (come la costituzione di depositi-laboratori aperti, nelle forme possibili, alla parteci-pazione dei cittadini e dei visitatori; non quindi magazzini nei quali solo conservare, forse per molti anni, opere d’arte, ma luoghi vivi per mostre, esposizioni, incontri, conferen-ze, ecc.). Soprattutto il Consiglio ha ritenuto indispensabile l’elaborazione di un progetto di sviluppo, capace di coniu-gare la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale alla creazione di occasioni di lavoro qualificato, alla formazione superiore, alla ricerca d’avanguardia e all’innovazione tec-nologica, all’industria creativa e a forme di turismo culturale e ambientale. Un progetto non calato dall’alto ma frutto di ascolto, di confronto libero e laico, di studio, di condivisione. Con quella seduta il Consiglio ha voluto lanciare non solo un segnale di sostegno a chi sta operando tra mille difficoltà e di vicinanza alle comunità locali e ai territori terremotati, ma anche un messaggio di apertura e di dialogo per affermare una visione viva e vitale del patrimonio più forte di qualsiasi scossa di terremoto.

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L’episodio del crollo nella chiesa di Santa Croce a Firenze ha rappresentato al tempo stesso una tragedia e anche un monito. Non ci può essere conservazione senza sicurezza. E non ci può essere sicurezza senza prevenzione e manutenzio-ne ordinaria. È un monito per un paese fragile come l’Italia, che, oltre ai terremoti e disastri ambientali ormai ricorrenti, ha conosciuto per troppi anni un sostanziale disinteresse per il patrimonio culturale, per il paesaggio e l’ambiente.

Anche la discussione sulla proprietà (è un bene ecclesiasti-co? È un bene statale afferente al Fec-Fondo edifici di culto? È un bene civico o è privato?) o sulle responsabilità ha poco senso. Questo è un tema nazionale. È il tema nazionale. Che dovrebbe vedere coinvolti molti Ministeri, dai beni culturali all’ambiente, dalle infrastrutture alla protezione civile, ma anche la Chiesa, gli Enti locali, i privati. Si pensi per esempio ai proprietari di dimore storiche, molte delle quali in condi-zioni di conservazione e sicurezza problematiche.

Bisognerebbe soprattutto tornare alla lezione di una gran-de personalità del restauro, l’indimenticabile e inascoltato Giovanni Urbani. Oggi quella lezione andrebbe ripresa e ar-ricchita con l’apporto delle nuove tecnologie sviluppatesi in questi decenni.

NON C’È CONSERVAZIONE SENZA SICUREZZANON C’È SICUREZZA SENZA PREVENZIONE

E MANUTENZIONE ORDINARIA

* Versione rivista di Non c’è conservazione senza sicurezza. Non c’è si-curezza senza prevenzione e manutenzione ordinaria, in Huffington Post, 20.10.2017, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/non-ce-con-servazione-senza-sicurezza-non-ce-sicurezza-senza-prevenzione-e-ma-nutenzione-ordinaria_a_23250336/?utm_hp_ref=it-blog/.

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Non c’è conservazione senza sicurezza 287

Il restauro interviene a danno avvenuto, è paragonabile a un intervento chirurgico, mentre al nostro patrimonio, come al nostro organismo, servirebbe più prevenzione, più cura ordinaria, più controllo e monitoraggio per evitare il più pos-sibile l’extrema ratio del restauro. Servono anche competenze specifiche in questo settore, serve una formazione adeguata di figure professionali. È una sfida per l’Università e per il MiBAC ma anche per le imprese e per i professionisti.

L’Italia ha sempre preferito i restauri (e non entro nel me-rito della qualità di alcuni di essi), anche perché prevedono grandi importi e grandi bandi. La manutenzione ordinaria costa molto meno ma necessita di risorse costanti e di inter-venti sistematici, con una continua azione di conoscenza e di monitoraggio del degrado e del rischio. Dovremo trattare il patrimonio culturale come facciamo o dovremmo fare per la

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale288

cura delle nostre case: se cade una tegola dal tetto si chiama l’operaio e la si sostituisce, con una spesa alquanto limitata, non si attende il crollo del tetto per intervenire. E se si nota una crepa si interviene per tempo. L’incidente non può ov-viamente essere del tutto eliminato ma certamente può essere fortemente limitato.

Da pochi anni le risorse destinate al patrimonio cultura-le sono cresciute sensibilmente. Ma ancora oggi riguardano nella maggior parte dei casi grandi interventi di recupero e restauro, mentre dovrebbe crescere sempre di più la quota per il funzionamento ordinario, come si sta cercando di fare. E soprattutto è necessario proseguire nell’affermazione di una tutela sociale del patrimonio, possibile solo se tutti i cittadini scopriranno il valore che il patrimonio culturale ha per cia-scuno di noi, curandolo come una cosa propria. È questa la vera sfida futura della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale del Paese.

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CULTURA, TURISMO, SVILUPPO LOCALE

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Le competenze del turismo sono state recentemente tra-sferite al Ministero dell’Agricoltura, dopo che 5 anni fa erano state associate a quelle dei beni e delle attività culturali. Era scritto – si dice – nel contratto del ‘governo del cambiamento’. Quindi si cambia.

C’era voluto tanto lavoro per integrare questi due settori così importanti per il nostro Paese. Sia ben chiaro, non che l’agricoltura non sia un settore strategico, tutt’altro. Ma qual è il senso di questo continuo gioco di montaggio e smontaggio di competenze e pezzi dello Stato, quasi si tratti di mattoncini del lego. Un’azione di smobilitazione che certamente non fa bene innanzitutto al turismo, da anni sballottolato di qui e di là, e diviso tra Stato e Regioni. Un vero caos al quale si stava tentando di porre rimedio. Sarebbe facile (ma anche inutile) fare battute sul ministero dell’agriturismo o sulle pressioni del ministro Gian Marco Centinaio (molto legato all’uomo forte del Governo, Matteo Salvini), perché di mestiere è tour operator.

Il turismo è per sua natura un’attività fortemente trasver-sale e integrata, e certamente ci sono stringenti connessioni anche con l’agricoltura, l’alimentazione, ma anche con l’am-biente, le infrastrutture, il commercio estero, lo sviluppo eco-nomico, ecc. Se quindi si fosse deciso di creare un’agenzia interministeriale o di portare le competenze in seno alla Pre-sidenza del Consiglio, si sarebbe potuto dare un senso alla

IL TURISMO ITALIANO SENZA CULTURA?

* Versione rivista di Il turismo italiano senza cultura?, in Huffington Post, 3.7.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/il-turismo-i-taliano-senza-cultura_a_23473483/?utm_hp_ref=it-blog.

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decisione di staccarlo dai beni culturali. Ma perché all’Agri-coltura e non allo Sviluppo Economico? Oppure perché non lasciarlo al MiBACT?

Non c’è alcun dubbio che se c’è una peculiarità tutta ita-liana che può e deve caratterizzare la nostra offerta turistica questa è la cultura, con l’immenso patrimonio di beni e di attività culturali, la musica, il teatro, le arti, e soprattutto con il paesaggio italiano. Ecco il senso di quella ‘T’ che era stata aggiunta cinque anni fa all’acronimo MiBAC. Un ‘T’ per la verità molto mal digerita dai puristi della cultura, quelli che vedevano nel turismo una pericolosa contaminazione mer-cantilistica, incompatibile con la loro visione del patrimonio culturale. Quelli che hanno continuamente e violentemente attaccato (ma ora tacciono) quelle riforme che hanno profon-damente cambiato, innovato e rilanciato il mondo dei beni e delle attività culturali, reso asfittico e agonizzante da decenni di tagli, blocco del turn over e di grave marginalizzazione.

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Il turismo italiano senza cultura? 293

Non capivano che quell’alleanza era funzionale all’attribu-zione di una nuova centralità strategica ai beni culturali, necessaria anche per ottenere maggiori risorse per la loro tutela e valorizzazione (che infatti sono cresciute), per nuo-ve assunzioni (che infatti ci sono state) e per la creazione di nuove opportunità di lavoro per i tanti professionisti dei beni culturali anche nei servizi collegati con un turismo caratte-rizzato in senso culturale e paesaggistico. L’obiettivo non era certo snaturare il patrimonio culturale, ma semmai rendere più colto il turismo: non elitario, ma di migliore qualità, più rispettoso dei paesaggi e del patrimonio, e anche più lento e capace di offrire una vera, intesa, piacevole esperienza di vita e di conoscenza delle mille peculiarità culturali dell’Italia e delle popolazioni di ogni parte, anche la più remota, del nostro Paese.

Per la prima volta, l’Italia si era finalmente dotata di un Pia-no Strategico Nazionale del Turismo e la Direzione Generale stava per strutturarsi con grande fatica, anche grazie a un bra-vo dirigente che prima del MiBACT aveva dato ottima prova in Puglia, dove infatti turismo e cultura sono nelle stesse mani (e il boom di crescita del turismo pugliese in questi anni è anche esito di queste scelte). Soprattutto si stava compiendo uno sforzo importate per l’integrazione tra tutela (assoluta-mente indispensabile, anzi prioritaria) dei beni culturali e del paesaggio, la loro valorizzazione e l’affermazione di nuova idea di turismo. Ecco il significato dell’anno dei borghi, dei cammini, del cibo, delle capitali italiane della cultura, degli Stati Generali del Paesaggio e della Carta Nazionale del Pa-esaggio, dell’avvio del Sistema Museale Nazionale e di tante altre iniziative che ora rischiano di restare monche. Perché se c’è una cosa che veramente manca nel nostro Paese, insieme ad una visione strategica di lungo respiro, è quel minimo di continuità, di stabilità, di consolidamento, aggiustamento

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e progressivo miglioramento del lavoro politico e ammini-strativo, che, prescindendo dagli schieramenti che di volta in volta si alternano, dà forza a quei settori davvero centrali per il nostro futuro, come indubbiamente sono il turismo e il patrimonio culturale.

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Uno dei primi esiti del ‘discutibile’ trasferimento delle competenze del turismo dal Ministero dei beni e delle attivi-tà culturali (MiBAC ora senza T) al Ministero per le politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo (MiPAAFT, ora con la T) si coglie in un emendamento della Lega alla manovra ora all’esame del Parlamento.

Tra un emendamento che prevede lo stop ai preservativi gratis ai migranti e uno su una tassa per la pesca sportiva ne è comparso uno sugli archeologi ‘fai da te’ negli agritu-rismi. Secondo tale emendamento, infatti, «gli imprenditori agricoli esercenti attività agrituristica in aree di particolare pregio culturale, possono promuovere attività di ricerca archeologica e di scavo sui terreni di cui risultano essere proprietari o gestori». Pertanto «l’imprenditore agricolo concessionario può consentire agli ospiti della struttura agrituristica la partecipazione, senza fini di lucro, alle attività di ricerca archeologica e scavo eseguite sui ter-reni su cui insiste la propria attività, sotto la direzione, il controllo e la supervisione del direttore dello scavo indicato nell’apposita richiesta di concessione. L’imprenditore agricolo concessionario è custode del patrimonio storico archeologico sito nel terreno ove si svolgono le attività di ricerca e scavo». Si crea di fatto la figura dei turisti-archeologi. Infine, per quel che riguarda le risorse, «per gli adempimenti connessi al rilascio delle autorizzazioni per la custodia dei beni artistico-culturali da parte dei privati di cui ai commi 1 e 2, sono stanziate risorse pari a 500.000 euro per ciascuno

AGRITURISTI INDIANA JONES

* Versione leggermente rivista dell’articolo in Huffington Post, 21.11.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/gli-agrituristi-indiana-jo-nes_a_23594770/.

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degli anni 2019, 2020 e 2021». Prescindendo da come andrà a finire questa bizzarra iniziativa, è evidente che preoccupa la filosofia che la ispira, diametralmente opposta alle norme vigenti (assai restrittive) in tale materia.

Secondo, infatti, il Codice dei Beni culturali e paesaggistici lo scavo archeologico è ‘riservato’ esclusivamente al MiBAC. Le Università e i centri di ricerca scientifica devono ottenere, sulla base di specifici progetti scientifici, una ‘concessione di scavo’ (che anche nella denominazione conserva un sapore da stato borbonico) mediante una serie di procedure anche molto farraginose.

Alcuni anni fa una circolare dell’allora direttore generale per l’archeologia (ora direttore generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio) aveva tentato, con un atteggia-mento grettamente iper-burocratico, di limitare addirittura la partecipazione degli studenti universitari agli scavi didattici condotti dalle Università, necessari per formare sul campo gli archeologi professionisti e gli stessi futuri funzionari del MiBAC, e aveva impedito ad alcuni Atenei di organizzare summer school a pagamento (come tutti i corsi universitari), che prevedessero la partecipazione attiva alle attività di scavo archeologico.

Da anni il mondo dell’Università e della ricerca chiede di rivedere tali norme, in nome dell’art. 33 della Costituzione sulla libertà della ricerca e dello stesso art. 9, che attribuisce alla Repubblica (e non solo allo Stato o a un solo Ministero) il compito sia di tutelare «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» sia di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». In questo caso, però, – sia ben chiaro – si tratta di ricerca scientifica, condotta da professori, ricercatori, archeologi professionisti.

Nell’emendamento alla manovra, per come è stato pre-sentato, pare emergere al contrario un approccio ‘amatoriale’

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Agrituristi Indiana Jones 297

privo del più elementare rispetto delle necessarie garanzie di rigore scientifico (se non con un generico riferimento ad un ‘direttore dello scavo’, sulle cui competenze nulla si precisa: basterà una laurea triennale per dirigere? e basta un ‘diret-tore’ per guidare una squadra di dilettanti allo sbaraglio?). Insomma, pare una sorta di allegra ‘caccia al tesoro’ per allie-tare le giornate di archeoagroturisti, tra un caciocavallo, una carota biologica e un bicchiere di vino genuino.

È forse il caso di ricordare, almeno agli emendatori, che lo scavo archeologico è un’operazione assai complessa, che richiede alta professionalità, anni di studio e una lunga pra-tica sul campo. È soprattutto una pratica ‘distruttiva’: con lo scavo si smonta una stratigrafia formatasi nel corso di millen-ni e di fatto la si distrugge. Con i metodi e le tecniche, con i sistemi di analisi e di documentazione, propri della moderna archeologia stratigrafica, l’archeologo ricostruisce ciò che ha smontato, interpreta le relazioni tra strutture, stati e reperti e propone un racconto storico.

In altre parole, sarebbe come affidare a turisti in visita in una città interventi chirurgici condotti su pazienti veri, quale divertente esperienza da associare a una passeggiata, un tuffo in piscina e una serata in discoteca. O si pensa che quelle del medico o dell’ingegnere siano professioni e l’archeologia sia solo un hobby?

Per il MiBAC, privo peraltro da mesi anche dei suoi organi di consulenza e indirizzo (il Consiglio superiore ben culturali e paesaggistici e i sette comitati tecnico-scientifici) è interve-nuto il sottosegretario Vacca, del M5S, contrario all’emen-damento (che, infatti, è stato poi ritirato). Colpisce, invece, il silenzio che dei Soloni che negli anni passati protestavano quotidianamente e che ora appaiono pienamente soddisfatti dalle politiche nel campo della cultura.

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale298

Personalmente non avrei nulla in contrario se si favorisse il sostegno finanziario e organizzativo da parte di imprenditori dell’agriturismo (o del turismo in generale) per l’organizza-zione di indagini archeologiche (non necessariamente solo lo scavo, ma anche la ricognizione in campagna per l’indivi-duazione e la documentazione di siti archeologici ancora sco-nosciuti: ce ne sono migliaia nelle campagne italiane) tramite accordi con le Università e i centri di ricerca o, anche, con il coinvolgimento di società o singoli archeologi professionisti, dotati di adeguati titoli e qualifiche certificate, che possano prevedere anche il coinvolgimento di turisti interessati alla cultura, attraverso lezioni, conferenze, laboratori e anche, perché no, alcune operazioni sul campo. Il tutto ovviamente con le necessarie autorizzazioni (rilasciate non all’agrituri-smo ma all’Università o all’archeologo professionista) e il controllo delle soprintendenze territoriali del MiBAC. Sareb-be un modo anche per effettuare un’azione di educazione al patrimonio e – aspetto non irrilevante – un’ulteriore oppor-tunità di lavoro per gli archeologi professionisti. Io stesso negli anni passati ho diretto, e condotto con un’équipe uni-versitaria, un corso, nell’ambito delle ‘Lezioni di archeologia subacquea’ organizzate a Ustica dalla rivista Archeologia Viva, che prevedeva anche alcune attività sul cantiere archeologi-co subacqueo; la sistemazione era in un villaggio turistico e al corso partecipavano decine di studenti e di appassionati, adeguatamente formati, indirizzati e monitorati.

Turisti, cioè, integrati in équipe di ricerca scientifica, non certo lasciati liberi di ‘scavare’ alla ricerca del sacro graal o dell’arca (o della caciotta) perduta!

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LA RICERCA EI ‘POLICLINICI DEL PATRIMONIO CULTURALE’

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Per oltre un secolo, dall’Unità d’Italia fino al 1974, prima che Giovanni Spadolini ottenesse l’istituzione di uno speci-fico ministero per il patrimonio culturale, le attività di tutela erano svolte dallo stesso Ministero che si occupava di istru-zione, di università e di ricerca. La separazione fu una scelta lungimirante per poter attribuire un peso strategico specifico al patrimonio culturale nelle politiche del Paese, ma ha finito per creare sempre di più un solco tra i due mondi, che, tranne casi singoli di ottima e proficua collaborazione, spesso legati solo ai buoni rapporti personali tra un docente universitario e un soprintendente, si sono troppo spesso ignorati, quando non si sono anche contrapposti. Oggi finalmente ci sono le condizioni per un riavvicinamento. Se non può essere un nuovo matrimonio, che sia almeno una ‘unione civile’!

La visione organica, unitaria e complessa del patrimonio culturale che si va affermando, anche grazie alle recenti rifor-me del MIBAC, richiede una reale inter- e multidisciplinarità con un ventaglio di discipline estremamente ampio, ben oltre i tradizionali campi.

Il MiBAC(T) aveva istituito una specifica Direzione Gene-rale ‘Educazione e Ricerca’, con il compito di svolgere una funzione di interfaccia. Nel 2015 è stato sottoscritto un impor-tante protocollo tra MIUR e MiBAC(T): ma, com’è noto, un protocollo da solo non basta. Nel luglio 2017 si è svolta, per

I ‘POLICLINICIDEL PATRIMONIO CULTURALE’

* Versione leggermente rivista dell’articolo I policlinici del patrimonio culturale, per formare i professionisti del settore, in Huffington Post, 24.10.2017, http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/i-policlinici-del-patri-monio-culturale-per-formare-i-professionisti-del-settore_a_23245993/.

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la prima volta una seduta congiunta del Consiglio Superiore ‘Beni Culturali e Paesaggistici’ e del Consiglio Universitario Nazionale, con i due ministri Dario Franceschini e Valeria Fedeli. È stata costituita una commissione interministeriale.

Si è puntato a una revisione e migliore qualificazione del percorso formativo universitario, nei vali livelli, dal triennio fino alle specializzazioni e ai dottorati. Uno degli obiettivi stra-tegici di questo progetto è la costituzione di nuove realtà terri-toriali miste, con una forte integrazione tra formazione, ricerca, tutela, valorizzazione. Sono quelli che da tempo chiamiamo, con una formula volutamente ‘provocatoria,’ i “policlinici del patrimonio culturale” (cioè unità interdisciplinari territoriali MiBAC-MIUR). Strutture interministeriali per certi versi simili, in campo sanitario, alle Aziende Ospedaliere Universitarie, con una collaborazione tra docenti, ricercatori, soprintendenti, funzionari, tecnici, con la condivisione di laboratori, biblio-teche, strumentazioni, e con l’integrazione di competenze, saperi, professionalità, a tutto vantaggio in particolare degli studenti, cioè dei futuri funzionari o liberi professionisti. Si può immaginare un medico che non si sia formato nelle corsie, nelle sale operatorie e nei laboratori di un ospedale? E perché mai ai professionisti dei beni culturali questo tipo di forma-zione-esperienza lavorativa è negata in un Paese come l’Italia?

Perno di tali strutture potrebbero essere le Scuole di Spe-cializzazione, un’importante peculiarità italiana, il cui assetto andrebbe, però, rivisto, riducendone il numero, qualificando-le maggiormente, stabilendo standard nazionali e sistemi di accreditamento e valutazione, possibilmente riportando la loro durata a tre anni anche per rilasciare un titolo spendibile a livello internazionale, e soprattutto prevedendo per gli spe-cializzandi una significativa quota di lavoro (retribuito) nelle soprintendenze, nei musei e parchi, nelle biblioteche e archivi.

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I ‘policlinici del patrimonio culturale’ 303

Attualmente alle varie Scuole nel settore bei beni cultura-li (41 tra archeologia, storia dell’arte, architettura-restauro, antropologia, biblioteconomia, archivistica) sono iscritti non meno di 1.000 specializzandi. Ma sarebbe opportuna un’ac-corta azione di razionalizzazione e qualificazione, che porti a Scuole più qualificate nella effettiva formazione di professio-nisti, eventualmente attivate da più Università consorziate, con una selezione di docenti di alto profilo (sia universitari, sia soprintendenti e funzionari, sia professionisti), in grado di garantire non solo solide competenze disciplinari settoriali ma anche capacità nel campo della gestione, progettazione, pianificazione, comunicazione, ecc. Non è raro oggi che nei corsi specializzazione gli stessi professori insegnino le stesse materie dei corsi precedenti. Se fosse accolta questa proposta potremmo contare a regime non meno di 2.000 specializzandi impiegati annualmente nelle soprintendenze, nei musei, nelle biblioteche, negli archivi, nei vari istituti e luoghi della cultu-ra, con una grande professionalità e anche con l’entusiasmo, la passione, la sensibilità e la voglia di innovazione propria dei giovani, che riceverebbero una formazione certamente più aderente alle esigenze del settore. Considerando il co-sto di una borsa (pari a quella del dottorato di ricerca, circa 14.000 €/anno) il costo complessivo dell’operazione, a regi-me, sarebbe di circa 30 milioni l’anno, a fronte di un esercito di giovani professionisti in formazione in grado di portare nuova linfa in strutture esauste. Un costo non eccessivo che potrebbe essere suddiviso tra MiBAC e MIUR e vedere anche, perché no, l’apporto delle Regioni. Un investimento notevole sui giovani e sui beni culturali, una vera ‘rivoluzione’ che farebbe fare un salto di qualità all’università, alle soprinten-denze, ai musei, e soprattutto alla tutela e alla valorizzazione del nostro straordinario patrimonio culturale.

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Il 12 luglio 2017, in una riunione congiunta del Consiglio superiore beni culturali e paesaggistici” del MiBACT (allo-ra c’era anche la T di turismo) e del Consiglio universitario nazionale del MIUR, si avviò un lavoro molto importante per riannodare in maniera sistematica il rapporto tra due ministeri che solo fino a 40 anni fa erano un tutt’uno.

Si diede vita a un gruppo di lavoro paritetico, che ha ope-rato per molti mesi per elaborare proposte per sviluppare una visione integrata del patrimonio culturale. La formazio-ne, la ricerca, la tutela, la valorizzazione, la comunicazione, la gestione sono, infatti, componenti di un’unica filiera che pur con le evidenti specificità di ciascun elemento e le com-petenze specifiche di ogni attore coinvolto, necessita di una visione organica e unitaria e richiede una forte integrazione tra i due soggetti principali coinvolti, MiBAC e MIUR, cui sarebbe opportuno associare anche le Regioni e gli Enti Locali oltre all’articolato mondo delle professioni, delle fondazioni, delle associazioni e delle imprese private.

Gli elementi principali di tale lavoro hanno riguardato la necessità di una revisione-manutenzione dell’offerta formati-va universitaria nel campo del patrimonio culturale a partire dalla definizione di precise figure professionali (archeologi, architetti, storici dell’arte, demoetnoantropologi, bibliotecari, archivisti, antropologi fisici, professioni museali) e la speri-

FORMAZIONE E TUTELADEL PATRIMONIO CULTURALE,

UN FILO SPEZZATO DA RIANNODARE

* Versione leggermente rivista dell’articolo, in Huffington Post, 16.7.2018, https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/formazio-ne-e-tutela-del-patrimonio-culturale-un-filo-spezzato-da-riannoda-re_a_23481657/?utm_hp_ref=it-homepage.

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Formazione e tutela del patrimonio culturale 305

mentazione di forme di collaborazione sistematica tra uni-versità e uffici del MiBAC. Oltre a fare riferimento ai lavori in corso a cura della Direzione generale educazione e ricerca per la definizione delle figure professionali definite dalla legge n. 110/2014, purtroppo ancora oggi non tradotte in un decreto ministeriale, sono stati ripresi, soprattutto grazie all’apporto di un grande economista della cultura come Massimo Mon-tella, i risultati di una commissione istituita anni fa (e come spesso accade rimasti in un cassetto), e, in coerenza con le re-centi indicazioni di ICOM Italia, sono state per la prima volta definite in dettaglio le varie professioni museali, chiarendo con forza che per dirigere un museo moderno sono necessarie ma non sufficienti le competenze disciplinari (archeologiche, storico-artistiche, storiche, ecc.): servono anche competenze di economia gestionale, diritto, organizzazione, comunica-zione, marketing, ecc. La Commissione ha anche proposto di dar vita a realtà integrate territoriali tra i due Ministeri.

Al termine di quei lavori, una relazione, con corposi allega-ti, fu consegnata ai due ministri e si elaborò una bozza di un accordo tra i due ministeri 1. Poi sono arrivate le elezioni del 4 marzo con lo tsunami negli assetti politico-parlamentari e la proposta è rimasta ferma negli uffici di gabinetto.

Sarebbe bello se i due nuovi ministri, Alberto Bonisoli e Marco Bussetti, volessero riprendere quel lavoro e, convinti anche loro della necessità di un rapporto di collaborazione si-stematica e non occasionale tra due ministeri così importanti per il nostro Paese, sottoscrivessero quell’accordo avviando una nuova fase e superando una frattura anacronistica, che non ha alcun senso e che provoca danni tanto alla formazione e agli sbocchi lavorativi dei professionisti dei beni culturali, quanto al nostro stesso patrimonio.

1  Si veda infra 350-364.

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APPENDICE

MOZIONI E DOCUMENTI DELCONSIGLIO SUPERIORE

‘BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI’(ANNI 2014-2018)

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15 luglio 2014Auspicio per i Quaderni di Antonio Gramsci«Il Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici del Mi-BACT, informato sulle procedure in atto per il trasferimento dei Quaderni di Antonio Gramsci, di proprietà della Fondazione Istituto Gramsci, dall’attuale inadeguato luogo di conservazio-ne (il caveau di una banca) all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario del MiBACT, dove potranno essere sottoposti ai necessari interventi conservativi, esprime il proprio compiacimento per questa im-portante iniziativa e gratitudine per quanti si stanno impegnando nell’operazione. Auspica altresì che i Quaderni, nel loro insieme, possano essere conservati nel luogo ritenuto più opportuno per garantirne sia una corretta tutela sia l’accesso agli studiosi».

15 luglio 2014Per la libera riproduzione di beni culturali«Il Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici del MiBACT, informato circa le difficoltà nell’applicazione di quan-to previsto dall’art. 12 del decreto legge 31 maggio 2014 n. 83 in materia di libera riproduzione di beni culturali, invita il Ministro, il Segretario Generale e la competente Direzione Generale per la Valorizzazione a garantire il rispetto di tale norma, secondo quanto previsto anche dalla circolare esplicativa emanata dalla Direzione Generale, in modo da consentire a tutti gli Istituti di operare in maniera chiara e univoca. Il Consiglio Superiore espri-me grande apprezzamento per la norma sulla liberalizzazione, che rappresenta un concreto atto di sostegno alla ricerca e la forte volontà di favorire la libera diffusione della conoscenza del patrimonio culturale. Sottolinea, a tal proposito, come la norma si riferisca chiaramente ai beni culturali intesi nell’accezione più

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale310

ampia e non faccia distinzione tra gli Istituti culturali, compren-dendo non solo i musei, ma anche gli archivi, le biblioteche, etc. Si rende libera per la prima volta la riproduzione di qualsiasi bene culturale dal pagamento di qualunque tipo di canone e si abolisce la necessità di richiedere l’autorizzazione preventiva alla riproduzione. Ferma restando l’imprescindibile necessità di garantire la corretta conservazione del bene culturale, il Consiglio Superiore sottolinea che l’opportuna limitazione prevista dalla norma – il mancato contatto diretto con il bene culturale - vada intesa in riferimento alla tecnica di riproduzione (ad esempio un calco o una scansione e/o fotocopia di un documento), che po-trebbe comportare il suo potenziale danneggiamento, e non in riferimento a strumenti, come macchina digitale o smartphone, uti-lizzati nel corso della normale consultazione di un documento. Si auspica pertanto che la circolare affermi la libertà di riproduzione digitale anche dei volumi, delle carte e dei documenti normalmen-te consultabili».

15 luglio 2014Per il Fondo Maiuri«Il Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici del MiBACT, appresa la notizia relativa allo sfratto da parte del Co-mune di Pompei e, di conseguenza, alla possibile cessione del Fondo Biblioteca Amedeo Mauri, di proprietà dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, consistente in un corposo e prezioso complesso di pubblicazioni, documenti, fotografie, lette-re, testi manoscritti del grande archeologo impegnato negli scavi dei siti vesuviani, nonché di numerosi altri studiosi e personalità del Novecento, esprime sconcerto per la decisione del Comune di Pompei in un momento in cui si stanno effettuando enormi sfor-zi per la salvaguardia del patrimonio archeologico di Pompei e manifesta tutta la sua preoccupazione per il rischio di dispersio-ne di tale importante patrimonio. Esprime altresì apprezzamento all’Università SOB anche per gli sforzi effettuati nella diffusione del Fondo Maiuri e auspica vivamente che si trovino le soluzioni adeguate non solo per conservare il Fondo a Pompei ma anche

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Mozioni e documenti del CSBCP 311

per consentirne una migliore valorizzazione a favore degli studi e delle ricerche nelle città flegree».

Al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismoe p.c.

Al Presidente del Consiglio dei Ministri Al Ministro per la Semplificazione e la P.A.

Ai Presidenti delle Commissioni Parlamentari ‘AffariCostituzionali’, ‘Cultura’, ‘Ambiente’

Oggetto: Disegno di Legge cd. Madia ‘Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche’ (C. 3098)

Onorevole Ministro, in qualità di Presidente del Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del MiBACT, a nome dei componenti del Consiglio, vorrei esprimere la viva preoccupazione per la norma che, all’art. 3, comma 3, del DdL cd. Madia, attualmente all’esame del Parla-mento, prevede l’estensione dello strumento del silenzio-assenso tra amministrazioni statali ai casi di assenso, concerto o nulla osta di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggisti-co-territoriale e dei beni culturali. Si tratta, infatti, di materie molto sensibili, tutelate dalla Costitu-zione. Pur nella consapevolezza della necessità di predisporre procedure più celeri nelle pratiche amministrative, si ritiene che l’introdu-zione del silenzio-assenso, con l’automatismo ad esso collegato, rischi di produrre prevedibilmente risultati assai negativi per il patrimonio culturale e paesaggistico del Paese. Nonostante alcuni tentativi già fatti in passato, mai è stato introdotto il silenzio-as-senso nel campo del patrimonio culturale, la cui tutela e valoriz-zazione non può essere sacrificata alle pur ragionevoli esigenze amministrative. Il MiBACT, anche grazie alla Sua recente riforma, sta compiendo notevoli sforzi per il rinnovamento nelle politiche di tutela, non

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Il bene nostro. Un impegno per il patrimonio culturale312

più solo di tipo vincolistico, ma attive, fondate su progettazione, pianificazione, condivisione, partecipazione. I ritardi, però, nella predisposizione in molte Regioni dei Piani Paesaggistici, la neces-sità non ancora soddisfatta a livello nazionale di dotarsi di moder-ni sistemi informativi che consentano la gestione di grandi masse di dati e la possibilità di fornire, in tal modo, pareri e autorizzazio-ni in tempi celeri, le ben note carenze di personale e di mezzi delle Soprintendenze, che non potranno verosimilmente essere risolte in tempi brevi, fanno temere ripercussioni assai negative a seguito dell’adozione di tali meccanismi autorizzativi automatici. Il Consiglio Superiore dicendo no al meccanismo del silenzio-as-senso non intende affatto difendere una visione burocratica della tutela e si impegnerà al massimo per assicurare che, nell’attua-zione della riforma, siano anche snellite le procedure e assicurati tempi certi al Cittadino.Ma, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, ritiene che sia compito dell’intera Comunità repubblicana (Stato, Regioni, Pro-vince, Comuni, Città metropolitane), garantire la tutela del pae-saggio e del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura, cioè la valorizzazione, e la ricerca. Il silenzio-assenso è chiaramente in contrasto con tali principi costituzionali. Cosa si risponderebbe agli Italiani e al mondo intero qualora fosse distrutto un bene cul-turale per un silenzio-assenso?In un campo tanto delicato, come quello della tutela e valorizza-zione del patrimonio culturale e paesaggistico, risulta assoluta-mente necessaria, infatti, una valutazione tecnica esplicita da par-te degli uffici competenti, anche per un’ovvia esigenza di una loro responsabilizzazione in scelte così importanti.Si auspica pertanto che all’articolo 3, comma 3, venga soppresso l’ultimo periodo:«Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito».Allo stesso modo, si auspica che non siano eliminate le possibilità di sanzioni nei riguardi di chi dia inizio ad attività con SCIA (Se-gnalazione certificata di inizio attività) in mancanza di requisiti

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Mozioni e documenti del CSBCP 313

o in contrasto con la normativa vigente, secondo quanto sarebbe previsto nello stesso DdL.Il Consiglio Superiore affronterà la questione nella sua prossima riunione del 14 luglio p.v. e approverà una specifica mozione. Ho ritenuto, però, visti i tempi stretti della discussione parlamenta-re, anticipare la posizione mia e dei Consiglieri, da me consultati, nella certezza di poter contare sul Suo impegno personale e anche sulla sensibilità culturale e la lungimiranza di quanti, nel Gover-no e nel Parlamento, sono impegnati nello sviluppo del Paese e anche nella tutela e valorizzazione del suo patrimonio culturale e paesaggistico: due forme d’impegno erroneamente a lungo consi-derate in conflitto.Affido a Lei, Signor Ministro, e al Presidente del Consiglio dei Mi-nistri, al Ministro on. Marianna Madia e ai Presidenti e ai compo-nenti delle Commissioni Parlamentari le valutazioni e le proposte del Consiglio Superiore BCP.Nell’occasione Le porgo, anche a nome di tutti i colleghi, distinti saluti.

Roma, 30.06.2015 Il Presidente Prof. Giuliano Volpe

17 luglio 2015Sul Disegno di Legge cd. Madia ‘Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche’ (C. 3098)Il Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del Mi-BACT, riunitosi in data 14 luglio 2015, ha esaminato i contenuti del Disegno di Legge cd. Madia ‘Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche’ (C. 3098), in riferimento ai temi relativi al patrimonio culturale e paesaggistico e in particolare all’estensione dello strumento del silenzio-assenso tra amministrazioni statali ai casi di assenso, concerto o nulla osta di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesag-gistico-territoriale e dei beni culturali.Il Consiglio, pur nella consapevolezza della necessità di garantire tempi certi e brevi nelle pratiche amministrative, esprime grande

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preoccupazione e decisa contrarietà all’introduzione del silen-zio-assenso, che rischia di produrre risultati assai negativi per il patrimonio culturale e paesaggistico del Paese.La tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggi-stico, garantite dalla Costituzione, non possono essere sacrificate alle pur ragionevoli esigenze amministrative. Il silenzio-assenso, infatti, rischia di compromettere profondamente le procedure di tutela e quindi la missione stessa del MiBACT: se è vero che la tutela è impropria se non è finalizzata alla valorizzazione, è ancor più vero che non può esserci valorizzazione senza tutela.Il silenzio-assenso è uno strumento rozzo e pericoloso, rappresen-ta una risposta sbagliata ad una esigenza giusta e risulta inefficace per contrastare pratiche corruttive. In un campo tanto delicato, come quello della tutela e valorizzazione del patrimonio cultu-rale e paesaggistico, è assolutamente necessaria una valutazione tecnica esplicita da parte degli uffici competenti, anche per ribadi-re l’esigenza di una loro responsabilizzazione in scelte così impor-tanti per il patrimonio dell’intera comunità nazionale e mondiale.Il Consiglio Superiore ritiene che sia necessario rendere obbli-gatoria, secondo quanto già previsto dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, la rapida adozione da parte di tutte le Regioni italiane dei Piani Paesaggistici Territoriali, i quali, consentendo una conoscenza approfondita del territorio e introducendo chiare regole di trasformazione, rendono molto più celeri anche le pro-cedure autorizzative.Il Consiglio Superiore chiede pertanto che all’articolo 3, comma 3, venga soppresso l’ultimo periodo: «Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito».Il Consiglio Superiore esprime apprezzamento e pieno sostegno all’impegno che il ministro Dario Franceschini e il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni stanno mettendo in campo e affidano a loro il compito di cercare soluzioni praticabili. Valuta, in particolare, molto positivamente gli sforzi che il MiBACT sta compiendo con la sua recente riforma per una profonda innovazione nelle politi-che dei beni culturali, anche nell’elaborazione di misure di sem-

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plificazione e maggiore efficienza. Auspica un sempre più deciso passaggio da una tutela passiva solo di tipo vincolistico ad una attiva basata su prevenzione, progettazione, pianificazione, con-divisione e partecipazione, e ritiene che la risposta innovativa che un paese moderno ed europeo come l’Italia alle giuste esigenze di tempi rapidi nelle procedute amministrative relative ad “assenso, concerto o nulla osta di amministrazioni preposte alla tutela am-bientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali” debba esse-re rappresentata da moderni sistemi informativi, dalla diffusione dell’accesso libero ai dati e, soprattutto, da maggiori investimenti per dotare le soprintendenze e gli uffici preposti alle autorizzazio-ni di personale tecnico-scientifico e di mezzi adeguati.

4 agosto 2015Sul Disegno di Legge cd. Madia ‘Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche’, (art. 8)Il Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del MiBACT, riunitosi in data 4 agosto 2015, ha nuovamente esaminato i con-tenuti del Disegno di Legge cd. Madia ‘Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche’ (C. 3098), e in particolare l’articolo 8 del provvedimento che delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la riorganiz-zazione dell’amministrazione statale e alla lettera d) prevede la confluenza nell’Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato.Tale disposizione, così come formulata, parrebbe riguardare an-che gli uffici e organi periferici del MiBACT: alle ex prefet-ture – ora Uffici territoriali dello Stato – sarebbero, infatti, attribuiti i compiti di direzione, controllo e coordinamento anche nel campo della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. Una tale interpretazione della norma metterebbe in pericolo l’esistenza stessa del MiBACT, un ministero che sta affrontando una fase di profonda e radicale trasformazione e innovazione in base alla riforma approvata con il DPCM 8 agosto 2014, n. 171. Sarebbe necessario un monitoraggio almeno triennale della rifor-ma medesima per controllare la maturazione del suo percorso,

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prevedendo contestualmente lo sblocco delle assunzioni del personale tecnico scientifico e amministrativo, oggi talmente ridotto da rendere impossibile l’ordinaria attività di tutela e valorizzazione.La disposizione, pur ispirata dalla condivisibile esigenza di migliorare il coordinamento degli uffici statali a livello territoria-le, andrà quindi ragionevolmente attuata in modo da non com-promettere l’attività tecnico-scientifica delle soprintendenze.Il Consiglio Superiore esprime apprezzamento e piena condivi-sione nei confronti dell’OdG (firmatari Ghizzoni, Malisani, Picco-li Nardelli) approvato dalla Camera, che impegna il Governo «a prevedere che le funzioni dirette di tutela, conservazione, valoriz-zazione e fruizione dei beni culturali previste dal Codice dei beni culturali (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), rimangano di competenza esclusiva ed autonoma dell’amministrazione prepo-sta alla tutela dei beni culturali».Il Consiglio Superiore, prendendo atto delle rassicurazioni fornite dal Ministro Marianna Madia in risposta ad appelli e documenti recentemente proposti da associazioni e personalità della cultura, chiede che nel testo dei decreti delegati sia espli-citata l’esclusione della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico dal campo delle competenze delle prefetture-Uffici territoriali dello Stato. Si chiede pertanto che il Ministro Madia precisi in maniera chiara, anche per eliminare le tensioni e le ansie documentate dagli appelli e dalle polemiche sulla stampa, che la confluenza nell’Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato non riguarderà le amministrazioni cui compete la tutela del patri-monio culturale e paesaggistico.Il Consiglio Superiore, ribadendo la piena contrarietà all’intro-duzione del silenzio-assenso come già indicato nella Mozione approvata nella seduta del 14 luglio 2015, nonostante sia stato prolungato il periodo da 60 a 90 giorni, esprime pieno sostegno al Ministro Dario Franceschini che saprà mettere in campo tutte le iniziative possibili per garantire la piena conservazione delle

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competenze del MiBACT in materia della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico.

12 ottobre 2015Per le Biblioteche pubbliche StataliIl Consiglio superiore Beni culturali e paesaggistici, udita una relazione predisposta dal Comitato tecnico-scientifico per le biblioteche e gli istituti culturali e dal consigliere Solimine e ascoltato il dibattito, durante il quale sono intervenuti il Diret-tore Generale per le Biblioteche e gli Istituti culturali Rummo e numerosi consiglieri, approva la relazione, allegata al verbale che è parte integrante della presente mozione.Pur apprezzando gli sforzi e l’impegno del Ministro e del Di-rettore generale per le biblioteche, esprime viva preoccupazione per la difficile situazione in cui versano le biblioteche pubbliche statali, recentemente evidenziata anche da numerosi articoli di stampa.Ritiene necessario un forte impegno da parte del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per potenziare e riaf-fermare il ruolo di queste biblioteche, strutture che garantiscono la conservazione nel tempo di un patrimonio di inestimabile valore culturale, ma anche l’accesso pubblico e gratuito a rac-colte organizzate di libri, documenti e risorse di altra natura, at-traverso un complesso di servizi, attività e programmi finalizzati a rispondere ai bisogni di lettura, studio, ricerca, informazione, aggiornamento e formazione permanente dei cittadini.Chiede la definizione di linee di una politica bibliotecaria all’in-terno di un quadro organico, che comprenda le politiche dell’i-struzione e di accesso alla conoscenza. Tale politica – ripensando profondamente compiti, funzioni e assetto organizzativo delle bi-blioteche pubbliche statali – dovrà consentire a tali strutture di tornare a svolgere quel ruolo di riferimento nel sistema biblio-tecario nazionale che è stato proprio di questi istituti nei decenni passati.Il Consiglio ritiene altresì necessario effettuare un sforzo parti-colare per garantire le necessarie risorse, anche mediante l’acces-

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so ai fondi europei elaborando specifici progetti in collaborazione con l’università e altri soggetti, e l’avvio di un piano di rilancio dei servizi di biblioteca, qualunque sia la tipologia e l’amministrazio-ne di riferimento, che per la prima volta dia il segnale dell’avvio in Italia di una vera e propria politica bibliotecaria. In tal senso il MiBACT dovrà svolgere un ruolo di indirizzo e coordinamento di un vero Sistema Bibliotecario Nazionale integrato e articolato sul territorio. In questo quadro andrà dedicata una particolare at-tenzione al Mezzogiorno.Ritiene infine urgente avviare un piano pluriennale e sistema-tico di reclutamento di personale bibliotecario.A tale scopo chiede all’On. Ministro la costituzione di un gruppo di lavoro, a carattere inter-istituzionale, cui affidare il compito di analizzare le criticità ed individuare priorità di inter-vento.

Paestum 29 ottobre 2015“Il patrimonio culturale e lo sviluppo del Mezzogiorno”Il Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del MiBACT, riunito in seduta straordinaria e pubblica a Paestum il 29 ottobre 2015, dopo la presentazione di vari contributi e ampia discussione, ha approvato la seguente mozione.La crisi strutturale che il nostro Paese sta vivendo impone delle riflessioni urgenti sulle scelte strategiche per lo sviluppo delle diverse aree geografiche italiane. I territori del Mezzogiorno, in particolare, esprimono una propria forza economica anche attra-verso l’elevata qualità del proprio patrimonio culturale diffuso e dei paesaggi, le cui straordinarie potenzialità sono ampiamente inespresse, come ha certificato un recente rapporto dell’ISTAT. Per le regioni del Sud il patrimonio culturale ed il paesaggio sono, in-fatti, non solo elementi fondanti della propria identità, ma anche potenziali potenti strumenti di miglioramento della qualità dello sviluppo economico sostenibile e per la creazione di opportuni-tà di lavoro qualificato in particolare per i tanti professionisti dei beni culturali, formati nelle nostre Università.Tuttavia, ad oggi, tali potenzialità non si sono ancora pienamente

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dispiegate in termini di sviluppo socio-economico, occupazione, benessere diffuso.Il Consiglio, pertanto, auspica, con immediatezza, un deciso cam-bio di passo. Il Consiglio apprezza gli sforzi che il MiBACT sta effettuando nella realizzazione di una radicale riforma nelle po-litiche di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del turismo e sollecita un sempre maggiore impegno del Governo in questa direzione. Innanzitutto, vi è l’esigenza di una presa di coscienza che il pa-trimonio culturale possa effettivamente essere un determinante motore di sviluppo economico di qualità. Si tratta di una consape-volezza certamente non del tutto presente nelle scelte di politica economica ed industriale di decenni orsono, che hanno piuttosto condotto alla costruzione di inutili e costose cattedrali industriali nel deserto, che hanno talvolta provocato consistenti danni am-bientali e gravi problemi per la salute delle comunità locali.Inoltre, deve maturare la capacità di avviare virtuosi percorsi di valorizzazione del patrimonio culturale, che siano in connubio e non in conflitto con le prioritarie esigenza di tutela e conservazio-ne. Non vi è dubbio che non possa esistere alcun processo di va-lorizzazione se questo non sia contestualmente accompagnato da adeguati processi di tutela e conservazione, con particolare rife-rimento alla manutenzione programmata e al funzionamento or-dinario. Se così non fosse, ci troveremmo di fronte non a processi di valorizzazione ma a forme di rozzo sfruttamento economico di breve e brevissimo periodo del patrimonio culturale, a discapito delle future generazioni. E, probabilmente, ad inaccettabili feno-meni di monetizzazione individuale di un patrimonio che appar-tiene a tutta la collettività e risulta prezioso sia per la formazione di una coscienza di luogo sia per l’avvio di progetti di sviluppo sostenibile locale. A tale proposito, il Consiglio auspica la rapida adozione in tutte le regioni meridionali dei Piani Paesaggistici Territoriali, che rappresentano strumenti essenziali per l’afferma-zione di una nuova politica di tutela e per innovative forme di sviluppo sostenibile.Il Consiglio, inoltre, sollecita lo sviluppo di capacità nel portare

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sul territorio e nei processi gestionali delle istituzioni culturali del-le regioni meridionali conoscenze e competenze pluridisciplinari, che coprano in modo sistemico tutto il sistema dei saperi di cui necessita il patrimonio culturale: saperi umanistici, saperi sociali, saperi economici, saperi tecnologici. Il miglioramento e l’innova-zione organizzativa e gestionale si realizza attraverso l’integrazio-ne dei saperi, non tramite la loro divisione e parcellizzazione.Infine, il Consiglio esprime la consapevolezza che non siano suf-ficienti le sole risorse finanziarie a consentire processi di valoriz-zazione del patrimonio culturale e di sviluppo economico del ter-ritorio. Serve la capacità di utilizzare adeguatamente tali risorse, indirizzandole verso coerenti percorsi di sviluppo: privilegiando la competenza all’appartenenza; privilegiando le scelte di me-dio-lungo periodo rispetto a quelle di piccolo cabotaggio; favoren-do la partecipazione dei cittadini ed il senso di appartenenza ri-spetto a concezioni elitarie e proprietarie del patrimonio culturale. Si esprime, in particolare, un convinto apprezzamento per ini-ziative imprenditoriali nel campo della valorizzazione e gestione del patrimonio culturale avviate da piccole società, cooperative giovanili, fondazioni che hanno preso in gestione beni culturali, garantendone la cura e la fruizione anche con modalità innovati-ve, auspicando la moltiplicazione di tali esperienze e invitando il MiBACT e tutte le Istituzioni a sostenere le iniziative provenienti dal basso, la cui qualità va sottoposta, ovviamente, alla valutazio-ne qualitativa e al monitoraggio da parte dello stesso MiBACT. Si ritiene, altresì, indispensabile valorizzare le industrie creative e le iniziative nel campo delle arti contemporanee, in stretta sinergia con il patrimonio.Si invita dunque il MiBACT, proseguendo nei processi di rifor-ma avviati, a prestare una particolare attenzione e sensibilità nei confronti delle regioni del Sud, che proprio grazie al proprio pa-trimonio culturale potrebbe svolgere un ruolo centrale nel dialogo interculturale e nelle nuove dinamiche euromediterranee.Si invita altresì il MiBACT a incentivare i percorsi di collaborazio-ne sistematica e dialogo istituzionale già intrapresi con altri fon-

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damentali soggetti, quali, tra gli altri, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e la Conferenza delle Regioni.Si invita infine il MiBACT a proseguire nel percorso avviato fi-nalizzato ad una migliore gestione delle risorse del PON cultura, anche in connessione con i POR territoriali delle regioni del Sud, anche al fine di poter realizzare azioni olistiche ed integrate per un nuovo percorso di valorizzazione del patrimonio culturale del Mezzogiorno, nell’ambito di politiche di sviluppo socio-economi-co in grado di coniugare ricchezza, occupazione, benessere socia-le, qualità della vita, educazione, senso di appartenenza, cittadi-nanza attiva e partecipazione dei cittadini.

16 novembre 2015In difesa del patrimonio dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Ori-ente (ISIAO)Il Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, dopo aver acquisito ampia documentazione, esprime la propria preoc-cupazione in merito alla conservazione e pubblica fruibilità del patrimonio museale, archivistico e librario dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO), raccogliendo l’appello al riguar-do, lanciato da diciotto associazioni di storici, antropologi, archi-visti, bibliotecari e altri utenti di musei, archivi e biblioteche e sot-toscritto dal Comitato tecnico-scientifico per l’archeologia e da diversi membri dei Comitati tecnico scientifici per gli archivi e per le biblioteche e gli istituti culturali.Il Consiglio superiore evidenzia come già oggi il MiBACT sop-porti l’onere della conservazione materiale del patrimonio muse-ale dell’ISIAO. Infatti gli oggetti di arte orientale dell’ISMEO sono in deposito presso il Museo nazionale di arte orientale (MNAO) sin dalla sua fondazione nel 1957, in esecuzione di quanto di-sposto dallo stesso decreto istitutivo (dpr 1410/1957). Più di re-cente, le collezioni museali africane sono state depositate presso il Museo Pigorini, al fine di garantirne la conservazione. Inoltre parte della collezione si trova ora anche presso la Galleria Nazio-nale d’Arte moderna.Il Consiglio auspica, pertanto, che il MiBACT continui a svolgere

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la responsabilità della conservazione delle collezioni museali e il pieno controllo su di esse, adottando tutte le misure possibili.Il Consiglio superiore ritiene che non si possano valorizzare beni culturali senza garantirne innanzi tutto la conservazione, a par-tire da un preciso inventario dei beni. Solo una parte dell’ar-chivio fotografico africano (quella relativa ad Eritrea ed Etio-pia) è stata inventariata; la parte restante è priva del tutto di inventario. Il Consiglio superiore considera, dunque, prioritaria l’inventariazione di tutto il patrimonio. Si esprime, infatti, viva preoccupazione sull’affidamento a privati di migliaia di lastre fo-tografiche, centinaia di album e decine di migliaia di positivi antichi e preziosi, senza avere alcuna possibilità di controllare l’integrità della collezione.Il Consiglio superiore sottolinea, inoltre, la necessità di non smem-brare collezioni e archivi: sottrarre in tutto o in parte al controllo del MiBACT le collezioni museali ex ISMEO, l’archivio storico dell’ISMEO (compreso l’archivio fotografico), implicherebbe lo smembramento di un patrimonio unitario, che proprio dal dialo-go tra oggetti, documenti d’archivio e foto trae gran parte del suo speciale valore.Il Consiglio superiore ritiene, dunque, che gli istituti del Mi-BACT siano i più idonei a garantire la tutela e pubblica fruizio-ne del patrimonio museale, archivistico e librario dell’ISIAO e pertanto sollecita il Ministero a intraprendere i passi appropriati affinché si individui una soluzione adeguata per garantire la conservazione e fruizione unitaria dell’intero patrimonio dell’I-SIAO insieme al Museo Nazionale di Arte Orientale e al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini. A tale proposito suggerisce di valutare la possibilità di utilizzare Villa Falconieri di Frascati, che in tal modo verrebbe recuperata e conservata ad una funzione pubblica, con costi complessivamente sostenibili, rispetto agli attuali costi di locazione.In subordine il Consiglio superiore chiede che:a) Le collezioni museali asiatiche e africane ex ISIAO siano trasferite in modo definitivo, rispettivamente, al Museo Nazio-nale di Arte Orientale e al Museo Nazionale Preistorico Etnogra-

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fico Luigi Pigorini, di cui si auspica, in ogni caso, la fusione in un unico organismo.b) L’archivio dell’ISIAO (comprensivo di cartoteca e archivio fo-tografico), sia versato all’Archivio centrale dello Stato (ACS), in ottemperanza al dettato del Codice dei beni culturali (art. 41, c. 4), come già da richiesta della Direzione Generale Archivi.c) Sia trasferita alla Biblioteca nazionale centrale di Roma o ad al-tra biblioteca pubblica la biblioteca dell’ISIAO.

16 novembre 2015Per gli archivi Il Consiglio superiore dei Beni culturali e paesaggistici, udita la relazione del Presidente del Comitato tecnico scientifico per gli ar-chivi e udito il dibattito, durante il quale è intervenuto il Diretto-re Generale degli archivi, oltre ad altri componenti del Consiglio, approva la presente mozione, di cui è parte integrante la relazione presentata nella riunione del 12 ottobre scorso.Pur apprezzando gli sforzi e l’impegno del Ministro e del Diretto-re Generale per gli archivi e soprattutto il reperimento di nuove risorse economiche e di personale scientifico che saranno stan-ziate dalla legge di stabilità 2016, esprime viva preoccupazione per lo stato in cui continuano a versare gli Archivi di Stato e le Sovrintendenze archivistiche e, più in generale, la tutela e la con-servazione del patrimonio archivistico.Per quanto riguarda le memorie digitali delle Pubbliche ammini-strazioni, ritiene necessario un forte impegno del MIBACT e del Governo stesso nel suo complesso, al fine di garantirne la sal-vaguardia: a) riqualificando le competenze delle Commissioni di sorveglianza e dei Sovrintendenti archivistici per una più efficace azione di tutela in materia di gestione documentale e conser-vazione dei documenti digitali; b) garantendo una più stretta collaborazione istituzionale dell’amministrazione archivistica con le autorità che presiedono alla redazione delle regole tecniche sugli archivi digitali correnti e di deposito, nelle quali risultano trascurate le metodologie archivistiche essenziali per la funziona-lità della gestione documentale e per un contenimento delle spese

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delle procedure informatiche e, soprattutto, per le operazioni di selezione e scarto, che rientrano nelle responsabilità degli archivi-sti di Stato e sono la condizione per la conservazione permanente della documentazione più rilevante.Per quanto riguarda gli Archivi di Stato e le Sovrintendenze archivistiche, ritiene necessario favorire una celere e concreta attuazione del piano di razionalizzazione delle sedi e dei de-positi per la soluzione del problema dei fitti passivi, attualmente articolato in più di un triennio, in considerazione dell’urgenza di trovare spazi per la documentazione in attesa di versamento, pre-disponendo investimenti per la riqualificazione e l’adeguamento strutturale degli stabili demaniali individuati come sede alterna-tiva per gli Istituti archivistici. Il piano di razionalizzazione non dovrà coincidere con un mero taglio alla pubblica spesa, ma dovrà tradursi in occasione fondamentale per il rilancio degli archivi conservati e tutelati dal Ministero, redistribuendo i risparmi per le spese di ordinaria amministrazione e per miglio-rare la qualità dei servizi erogati al pubblico. In tal senso ritiene necessario prevedere il mantenimento degli Archivi di Stato esi-stenti in province destinate alla soppressione come presidi cultu-rali territoriali, posti alle dipendenze dell’Archivio di Stato della nuova provincia.Ritiene urgente avviare un piano pluriennale e sistematico di reclutamento del personale archivistico che assicuri un ricambio del personale tecnico che uscirà dall’amministrazione in massa nel giro di pochi anni, anche sulla base di un organico che tenga realisticamente conto delle dimensioni e della qualità della documentazione conservata e dell’ampiezza dei territori e della quantità e qualità degli archivi vigilati per una più adeguata tutela dei beni e gestione dei servizi.Ritiene altresì necessario che gli Istituti archivistici dispongano di attrezzature e mezzi per una politica di digitalizzazione e messa in rete delle serie documentarie più fragili per evitarne l’or-dinaria consultazione a fini di tutela; di rendere più efficace la condivisione in rete dei documenti riprodotti; di semplificare le

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procedure amministrative e garantire agli utenti la gratuità delle riproduzioni di documenti effettuate con mezzi propri.Prende atto dell’accordo sulla tutela dei beni librari che terrà conto delle competenze dei bibliotecari e della conferma che si tratta di soluzione temporanea e apprezza, infine, l’attenzione dedicata alle Scuole di archivistica.

Si chiede, pertanto, all’On. Ministro la costituzione di un gruppo di lavoro interdisciplinare, cui affidare il compito di analizzare le criticità ed individuare priorità di intervento.

16 novembre 2015Contro l’abbassamento al livello della laurea triennale del titolo d’accesso ai prossimi concorsi MiBACTIl Consiglio Superiore ‘Beni Culturali e Paesaggistici’ del Mi-BACT, riunito il 16 novembre 2015, appresa la notizia dell’ap-provazione al Senato di un emendamento relativo all’abbas-samento al livello della laurea triennale del titolo per l’accesso ai prossimi concorsi per 500 posti di funzionari tecnico-scientifici del MiBACT previsti nella Legge di Stabilità attualmente all’esa-me del Parlamento, esprime viva preoccupazione e decisa contra-rietà verso tale decisione, dal chiaro sapore demagogico, evidente-mente assunta in maniera leggera e frettolosa.Se tale norma dovesse essere conservata, si rischierebbe di an-nullare in gran parte il positivo risultato rappresentato dall’a-vere previsto, dopo molti anni di blocco delle assunzioni, un nuovo consistente reclutamento di personale tecnico-scientifico, che andrà a coprire parzialmente i vuoti creatisi negli anni scor-si e previsti prossimamente nelle soprintendenze, nei musei, nelle biblioteche, negli archivi, nei luoghi della cultura. I futuri funzionari dovranno svolgere ruoli assai delicati nel campo del-la tutela e valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio italiano, che necessitano di specifiche competenze e di una ade-guata preparazione scientifica, che nessuna laurea di primo livello può garantire.Il Consiglio Superiore ritiene che la decisione di prevedere un

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titolo di primo livello per funzioni così rilevanti risulti anche offensiva nei confronti dei tanti giovani, preparati nelle università italiane e straniere, che con impegno ed enormi sacrifici, personali e delle loro famiglie, conseguono lauree magistrali, master, spe-cializzazioni, dottorati, in Italia e all’estero (di cui la povera Vale-ria Solesin, dottoranda di ricerca alla Sorbona di Parigi, morta nei recenti tragici eventi, rappresenta ormai un simbolo).Una scelta di tale tipo da parte del Parlamento svuoterebbe di fat-to di significato le specifiche classi di laurea e le scuole di spe-cializzazione e le scuole di dottorato destinate alla formazione di archeologi, archivisti, bibliotecari, storici dell’arte, economisti della cultura, e altre qualificate figure professionali del patrimonio culturale.Il Consiglio Superiore chiede con forza agli onorevoli Parlamen-tari di modificare tale norma, chiaramente sbagliata, prevedendo come titolo di accesso ai prossimi concorsi del MiBACT la lau-rea magistrale disciplinare (o titolo equipollente) e un titolo di terzo livello, o, in subordine, almeno due anni di formazione di terzo livello (scuole di specializzazione, dottorati di ricerca, qualificati master), e invita il ministro on. Dario Franceschini e il sottosegretario on. Ilaria Borletti Buitoni a mettere in campo tutte le iniziative necessarie per garantire procedure che salvaguardino l’elevata qualità tecnico-scientifica del personale, di cu il MiBACT ha assoluta necessità per svolgere appieno le sue delicate funzioni di servizio pubblico.

14 dicembre 2014Per le biblioteche e i musei provincialiIl Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ ribadisce la sua profonda preoccupazione per il destino delle strutture e dei servizi culturali di competenza delle province italiane – e in parti-colare per le biblioteche e i musei provinciali, che in molte cit-tà meridionali rappresentano l’unico presidio culturale esistente –, che, a oltre un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge 7 aprile 2014, n. 56, sono ancora in una situazione di assoluta in-certezza.

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Le regioni e i comuni capoluogo, cui spetterebbe in primo luogo l’individuazione di una soluzione capace di dare continuità alla vita dei musei e delle biblioteche di cui le province erano tito-lari, a tutt’oggi non hanno avanzato nessuna proposta concreta, né hanno compiuto passi volti alla presa in carico delle diverse istituzioni culturali. Sta per avviarsi la messa in mobilità del personale, che rischia di privare queste strutture di un patrimonio di esperienze e competenze faticosamente costruite in decenni, rendendo così ancora più difficile la costruzione di una soluzione capace di far sopravvivere questi istituti e di tutelarne adeguata-mente il patrimonio.Il MiBACT si è impegnato per tempo nella ricerca di una solu-zione valutando la possibilità di acquisire patrimoni e personale di un ampio numero di tali istituti.Il Consiglio fa appello al Ministro Franceschini perché prosegua nel sul impegno e si faccia promotore, d’intesa con i Presidenti delle Regioni, di un accordo fra Stato e Regioni, che possa dare in tempi brevi una definitiva soluzione condivisa al problema.

16 maggio 2016Si estenda la libera riproduzione ai beni bibliografici e archivis-ticiIl Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’, nella riunione del 16 maggio 2016, accoglie con favore e apprezza l’intenzione del Ministero di estendere il regime della libera ripro-duzione dei beni culturali introdotto dalle norme dell’Art Bonus anche ai beni bibliografici e archivistici per finalità di ricerca, rece-pendo una esigenza già fortemente avvertita dalla comunità degli studiosi. Il Consiglio condivide, infatti, le finalità di promozione della libera ricerca storica, in piena coerenza con il dettato co-stituzionale (artt. 9, 33), e una migliore conoscenza del patrimo-nio documentario conservato in archivi e biblioteche, che sono da considerarsi, oltre che istituti di conservazione, anche e soprat-tutto centri di diffusione attiva del sapere a tutti i livelli.Sentite le Direzioni Generali competenti, il Consiglio fa ap-pello al Ministro Franceschini e all’Ufficio Legislativo del Mi-

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nistero affinché si possa giungere operativamente a una riforma del regime delle riproduzioni che possa rispondere nel modo più efficace alle esigenze della ricerca, nel rispetto delle esigenze di conservazione e delle norme a tutela del diritto di autore e del-la riservatezza che riguardano segnatamente i beni bibliografici e archivistici. Si auspica, infine, la creazione di biblioteche digitali pubbliche, con immagini e documenti ad accesso libero.A questo scopo il Consiglio Superiore ritiene utile definire i se-guenti criteri: 1. La riproduzione con mezzo proprio dei beni bibliografici e archivistici, a fini personali e di studio, sia resa gratuita e senza li-mitazioni nel numero di scatti in caso di testi di pubblico dominio. 2. In presenza di mezzi di riproduzione a distanza (fotoca-mera o smartphone) non si determinerà un contatto diretto con il supporto potenzialmente lesivo per l’integrità del bene. Si richie-de pertanto di sopprimere l’autorizzazione preventiva per le fonti bibliografiche anteriori al 1900, mantenendola per le fonti archivi-stiche che contengono (o potrebbero contenere) notizie e dati pro-tetti dalla normativa vigente in materia di riservatezza, di tutela dei dati personali e del diritto d’autore. Nel consegnare al funzio-nario la richiesta di autorizzazione alla riproduzione, lo studioso dichiarerà di agire nel rispetto di quanto dispone il codice di deontologia (D.L. 196/2003, all. A2) all’art. 11 (Diffusione), con particolare riferimento al comma 6, in modo che in alcun modo egli possa in seguito dichiarare di non aver avuto conoscenza o non aver compreso quali siano i corretti limiti alla diffusione di simili dati e in modo che risulti pertanto pienamente consapevo-le l’eventuale abuso e per ciò pienamente responsabile e punibile. L’utente dovrà a tal proposito sottoscrivere una dichiarazione di assunzione di responsabilità sul corretto uso della documentazio-ne. 3. In caso di materiale particolarmente fragile si pongano pre-cauzioni in sede stessa di consultazione, senza perciò escludere preventivamente dalla riproduzione categorie o unità documenta-li. Si mantenga in altri termini l’equivalenza tra consultazione e ri-produzione, escludendo dalla consultazione ordinaria il materiale

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fragile già digitalizzato dall’istituto, o in alternativa si prevedano postazioni riservate o precauzioni particolari per la consultazione e riproduzione dello stesso. 4. In caso di pubblicazione d’immagini di beni culturali ai sensi dell’articolo 108, comma 3 bis del Codice dei beni cultu-rali e paesaggistici, si ritiene opportuno semplificare la prassi burocratica di concessione oggi vigente, sostituendo la richiesta formale di autorizzazione con l’invio all’istituto detentore del bene di una semplice comunicazione per via telematica dell’in-tenzione di pubblicare l’immagine, stante comunque l’obbligo di citare la fonte nella pubblicazione e di consegnare una copia analogica o digitale dell’elaborato. 5. In caso di riproduzioni digitali già disponibili in istituto, si provveda al rilascio gratuito delle stesse all’utente richieden-te, riservando il pagamento di un corrispettivo, a mero titolo di rimborso, ai casi in cui l’utente decida egli stesso di ricorrere al servizio di riproduzione per una copia non altrimenti disponibile. 6. Sia garantita la ‘libera divulgazione con ogni mezzo delle immagini di beni culturali’ ai sensi dell’art. 108 comma 3 bis del Codice dei Beni Culturali permettendo forme proficue di scambio tra gli studiosi di informazioni utili all’attività di ricerca attraverso i canali della rete.

Mantova 12 novembre 2016“Il futuro delle città d’arte”Il Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ del MiBACT, riunito in seduta straordinaria e pubblica a Mantova il 12 novem-bre 2016, in occasione del convegno ‘Città d’Arte 3.0’, dopo la presentazione di vari contributi e ampia discussione, ha approva-to la seguente mozione.L’Italia è un Paese di Città d’arte. Il policentrismo, la per-vasività, la diffusione del patrimonio culturale è una delle pe-culiarità italiane. Non c’è città, non c’è piccolo borgo, non c’è località che non conservi tracce storiche, monumenti, tradizioni, peculiarità paesaggistiche di grande pregio e interesse.Il paesaggio urbano delle città d’arte è un palinsesto complesso

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di paesaggi stratificati in continua evoluzione. Serve pertanto una visione d’insieme, contestuale, olistica, sistemica, multidisciplina-re, tanto a livello di conoscenza e tutela, quanto a quello di tutela, valorizzazione e pianificazione, superando la tendenza autoreferenziale alla frammentazione del sapere, oggi esasperata da un inevitabile e anche necessario iper-specialismo. Il paesag-gio urbano rappresenta il luogo ideale di incontro e di intreccio di tutte le varie specializzazioni. È necessario pertanto sviluppa-re un approccio contestuale, su due piani: sia il contesto storico, monumentale, urbanistico, archeologico, architettonico, artistico, cioè le relazioni formali e funzionali che legano ciascun elemento agli altri; sia il contesto sociale, costituito degli abitanti di ogni città, in tutte le sue molteplici articolazioni culturali, sociali, eco-nomiche.Anche i visitatori non sono un’entità indistinta, ma hanno pro-venienze, culture, sensibilità diverse dovrebbero trovare nelle no-stre città la possibilità di conoscere quegli straordinari palinsesti archeologici, artistici, monumentali, paesistici e culturali, che sono la peculiarità del nostro Paese. Il rischio da evitare per le città d’arte è il loro snaturamento, la trasformazione in ‘non luoghi’: un paradosso per luoghi, unici al mondo, così ricchi di valori cul-turali e di identità. Particolare attenzione andrà posta quindi ai problemi connessi al cambio di destinazione di edifici storici, di esercizi commerciali e artigianali, allo svuotamento dei centri storici dei cittadini residenti, alla moltiplicazione dei B&B e di negozi blockbuster, ecc., cioè alla perdita di identità e di specifici-tà, al turismo di consumo. Il turismo per le città d’arte italiane non può non essere sostenibile, colto, di qualità, il che non signi-fica necessariamente turismo d’élite o ‘di nicchia’.In sintonia con lo spirito della Convezione di Faro, bisognerebbe rafforzare il ruolo delle ‘comunità di patrimonio’, perché «chiun-que da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all’arricchimento del patrimonio culturale» (art. 5). Non esiste urbs senza civitas. Si ribadisce, cioè, la necessità della partecipazione democratica dei cittadini «al processo di identificazione, studio, interpretazione, prote-zione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale» nonché

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«alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che il patrimonio culturale rappresenta» (art. 12).Le amministrazioni statale e cittadina, abbandonando definitiva-mente quella pericolosa concezione ‘proprietaria’, dovrebbero favorire le tante energie e creatività presenti nei vari territori e so-stenere la nascita e il consolidamento di mille iniziative diverse, indirizzandole, coordinandole, monitorandole. Sarebbe questo un modo per far sviluppare numerose anche nuove occasioni di lavo-ro qualificato, in particolare per i giovani. È indispensabile elabo-rare progetti di qualità, condivisi, fondati su solide basi conosci-tive, capaci di coinvolgere competenze certificate e differenziate e in grado di garantire sostenibilità. L’ascolto e la partecipazione della comunità locale dovrebbero accompagnare la progettazio-ne in tutte le sue fasi. Chi ha il diritto e il dovere di decidere dovrà decidere, assumendosene la responsabilità, ma un progetto condiviso sarà più forte e avrà maggiori possibilità di successo. Il coinvolgimento della popolazione, cioè, dev’essere costruito se-condo una visione non paternalistica ma seguendo il principio di un nuovo “patto di cittadinanza” tra le amministrazioni, le comunità e i luoghi. La partecipazione attiva parte da una comunicazione trasparente e consapevole che avvicini saperi spe-cialistici ai cittadini e che trasformi l’azione di tutela, modifica e azione sul patrimonio come un laboratorio virtuoso, nel quale la partecipazione dovrebbe diventare uno dei cardini. La consape-volezza e la conoscenza costruiscono amore e attenzione per il nostro patrimonio diffuso e potrebbero diventare uno dei pila-stri su cui riattivare una reale partecipazione collettiva alla tutela.I centri storici sono il cuore della città d’arte, nuclei di sistemi assai più complessi e articolati, spazi che devono restare vitali e vivi, capaci di rendere esplicito il senso dei luoghi e dei monumenti, luoghi vissuti, frequentati dai cittadini e dai visitatori, aree ade-guatamente dotate di servizi, spazi vitali capaci di contribuire al miglioramento della qualità della vita urbana, luoghi non solo di contemplazione ma anche di comprensione e di emozione, spazi ricchi di valori culturali che favoriscano la socializzazione e la profonda cura di sé. In tal senso, va ribadito che i centri storici

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non vanno considerati in opposizione alla città moderna e a quel-le ampie porzioni di territorio che ancora definiamo come “pe-riferie”. Non esiste città senza il progetto contemporaneo, pena la sua morte per sterilità: è necessario stimolare, pertanto, forme d’intervento che sappiano combinare con intelligenza ascolto del patrimonio e nuova progettazione. È venuto il momento di guardare alle cosiddette “periferie” italiane come a un labora-torio sociale e di progettazione avanzato da cui ripensare la ricostruzione delle città italiane. Si tratta di aree metropolitane dove vive una parte considerevole della popolazione italiana e da cui emergono sfere di disagio che un’azione progettuale atten-ta alla qualità diffusa degli spazi pubblici, dei servizi essenziali e delle residenze dovrebbe contribuire a migliorare.L’archeologia urbana in Italia ha un’importate tradizione. Essa ha come obiettivo prioritario la ricostruzione storica della presenza umana in una città a partire dalle tracce materiali stra-tificate. Lo scavo urbano, però, non è solo un’opera preziosa di conoscenza storica, ma porta alla luce monumenti e crea nuove forme che modificano la città moderna. Ecco perché l’archeologia urbana non può non essere parte di un progetto urbano. Non è più possibile effettuare uno scavo dove, come e quando de-cidono gli archeologi, senza che ci si preoccupi del dopo, né è accettabile che si rinunci allo scavo archeologico come strumento fondamentale di conoscenza della complessità della storia stratifi-cata in una città. Il tema essenziale è cosa fare dei risultati di una ricerca archeologica, a partire dalla restituzione di senso e dalla comprensibilità dei resti archeologici, fino alle forme innovative di gestione.Un ruolo particolarmente prezioso andrebbe affidato ai musei, alle biblioteche e agli archivi (prescindendo dalla loro natura, sta-tali, regionali, civici, diocesani, universitari, scolastici, privati, d’impresa, ecc.), soprattutto se, com’è auspicabile, saranno rea-lizzate reti e sistemi, che consentano un’integrazione funzionale tra le varie realtà e la capacità di garantire migliori servizi per i cittadini e i visitatori. Musei, biblioteche, archivi, sempre più luo-ghi aperti, accoglienti, inclusivi, piacevoli, emozionanti, e anche

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multifunzionali: si pensi solo, a titolo di esempio, alla possibilità di svolgere anche la funzione di punti informativi per i visitatori. Le nostre città, pur ricche di musei di diverso tipo (archeologici, storici, demoetnoantropologici, pinacoteche, gallerie, ecc.), sono generalmente prive di musei di storia della città, modernamen-te intesi, in grado di illustrare e raccontare, con documenti e fonti di diversa natura, tanto ai residenti quanto ai visitatori, l’evoluzione storica di ogni città, dalle origini ad oggi e capaci di stabilire collegamenti di visita e conoscenza dei paesaggi urba-ni. È auspicabile che l’offerta culturale delle città d’arte possa arricchirsi anche di tali realtà museali, le uniche eventualmente legittimate ad essere anche solo virtuali.Le città italiane sono da sempre legate alla presenza delle Uni-versità, che soprattutto negli ultimi anni sono andate accrescen-do, accanto alle funzioni storiche di formazione e ricerca, la co-siddetta ‘terza missione’. Non più, quindi, Università “torre d’a-vorio”, ma un’istituzione aperta, pronta al dialogo, desiderosa di cogliere le sollecitazioni e il contributo della comunità e del territorio nel quale opera, elemento propulsivo dello sviluppo dei sistemi territoriali locali. L’Università ha peraltro sempre rappre-sentato, anche fisicamente, una sintesi fra il contesto storico-geo-grafico in cui è collocata e la produzione dei diversi saperi: cosa che oggi può realizzare anche grazie alla nascita di spin-off e di start-up. L’Università deve innanzitutto svolgere un ruolo di conoscenza delle complessità delle città e dei territori, ma anche di strumento di coscienza.Le città d’arte hanno una responsabilità nell’assicurare la tra-smissione della memoria dell’oggi. La questione della presenza dell’arte contemporanea nel tessuto storico si intreccia stretta-mente a quella delle politiche intese alla sua promozione. L’arte contemporanea ha una vocazione eminentemente pubblica: con le sue pratiche è intesa a instaurare relazionalità. D’altra par-te ogni opera storica è contemporanea perché investita del nostro sguardo di oggi. La sensibilità ai luoghi o site specificity non è più ormai questione di mimetismo, piuttosto di una forte sin-golarizzazione qualitativa del nuovo, capace di competere con

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il preesistente, in modi da far risaltare reciprocamente pro-prie ragioni e specificità. Per piccole e medie città d’arte, al di là della messa in atto di musei d’arte contemporanea, vincolati da una collezione e relativi costi di gestione, appaiono più fungibili modelli di percorsi, di reti, fra gallerie espositive, fondazioni private, residenze di artisti, interventi di arte pubblica, in luo-ghi e modi catalizzatori di presenze cittadine. Tali interventi, sia che siano permanenti o temporanei, resi possibili da una rinno-vata normativa del 2%, o da una convergenza di pubblico e pri-vato, come una più estensiva applicazione dell’Art Bonus o del crowdfunding, per avere efficacia devono poter essere fatti propri dai residenti, avere la pregnanza o cadenza tale da assurgere a elementi distintivi del patrimonio identitario. Appare cioè deter-minante il coinvolgimento di gruppi o fasce rappresentative della cittadinanza, mediante pratiche di mediazione, fra informazione e sensibilizzazione, e di effettive procedure bottom up, sia a livello propositivo che progettuale e operativo. Dalla prospettiva della fruizione turistica, senza necessità di indulgere a spettacolarità, le presenze del contemporaneo nelle città storiche sono ben com-patibili con gli obiettivi di “destinazioni nuove” e di “vacanze esperienziali” additate ora dal Piano strategico turismo, in vista di un’effettiva differenziazione dell’offerta.I lavori del Convegno, articolati in tavoli, hanno prodotto risultati di grande interesse, che il Consiglio ritiene di far propri nella pre-sente mozione (si veda allegato).Tutta questa serie di considerazioni suggerisce lo sviluppo di una capacità progettuale, sollecita una reale volontà di coinvolgimen-to attivo della cittadinanza, del mondo della cultura, delle profes-sioni, dell’associazionismo culturale, invita a riconciliare la tutela con la valorizzazione, la conservazione con la fruizione innova-tiva, ma innanzitutto l’antico con il moderno. In tale contesto il patrimonio culturale può e deve svolgere una funzione di collante sociale, di rammendo urbano, di ricucitura tra cultura e ambiente, tra generazioni, tra cittadini residenti e visitatori, tra amministra-zioni e comunità locali.

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20 febbraio 2017“Continuare a investire sul personale del MiBACT”Il Consiglio Superiore ‘Beni Culturali e Paesaggistici’, nella ri-unione del 20 febbraio 2017, ha espresso ancora una volta pie-no apprezzamento al Ministro Dario Franceschini, al Governo e al Parlamento per aver voluto bandire un concorso, attualmente in svolgimento, per l’assunzione di 500 unità di personale tecni-co-scientifico del MiBACT. Tale concorso, infatti, dopo un blocco delle assunzioni protrattosi per molti anni, pone parziale rimedio ad una situazione allarmante in tutte le strutture del Ministero nel campo della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale italiano.Il Consiglio Superiore, pur consapevole delle persistenti difficol-tà economiche del Paese, auspica vivamente un sensibile am-pliamento del numero degli assunti, utilizzando le graduatorie del concorso, al quale, com’è noto, hanno partecipato circa 20.000 concorrenti.Infatti i prossimi 500 assunti (5 antropologi, 90 archeologi, 130 architetti, 95 archivisti, 25 bibliotecari, 5 demoantropologi, 30 co-municatori, 80 restauratori, 40 storici dell’arte), pur rappresentan-do una significativa iniezione di nuove energie e competenze, consentiranno solo in parte di coprire le gravi lacune createsi negli anni passati; lacune che diventeranno ancor più dram-matiche a causa dei prossimi massicci pensionamenti. In tali condizioni anche l’applicazione delle profonde riforme in atto è a rischio, se non potrà essere supportata da adeguate risorse di personale, oltre che da maggiori mezzi e fondi ordinari.Il Consiglio spera, pertanto, che il numero dei 500 assunti possa essere almeno raddoppiato. Auspica, altresì, che si possano presto integrare urgentemente anche gli organici amministrativi ed in-formatici, al momento in grande sofferenza.Al tempo stesso il Consiglio auspica che con tale concorso possa considerarsi definitivamente conclusa la prassi dei me-ga-concorsi banditi con intervalli decennali, se non addirittura ventennali, e si augura che possa avere avvio una nuova stagio-ne, in sintonia con la riforma del MiBACT, che preveda concorsi

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periodici, possibilmente annuali, con numeri più contenuti ma con un turn over continuo e la garanzia di pari opportunità per tutte le generazioni di giovani professionisti dei beni culturali, dotati di un’adeguata alta formazione universitaria.A tal proposito il Consiglio ritiene opportuno che anche le proce-dure concorsuali debbano essere riviste, auspicando l’adozione di nuove formule, in modo da selezionare con una valutazione ancor più rigorosa i candidati.Il Consiglio pone inoltre all’attenzione del Ministro i temi relativi alla formazione permanente del personale e alla necessità di co-struire adeguati sistemi di valutazione qualitativa.Il Consiglio Superiore BCP, sostenendo l’impegno del Ministro Franceschini, invita, pertanto, il Governo e il Parlamento a pro-seguire sulla strada dell’investimento sulla tutela e sulla valoriz-zazione del patrimonio culturale, che rappresenta non solo una grande occasione di crescita culturale e socio-economica del Paese ma anche un’opportunità per svolgere un significativo ruolo, in Europa e nel Mondo, in una fase di grandi trasformazioni.

Matelica 20 marzo 2017“Il patrimonio culturale è il futuro dei territori colpiti al terre-moto”Il Consiglio Superiore ‘Beni Culturali e Paesaggistici’, nella riu-nione straordinaria, in seduta pubblica, tenuta a Matelica (MC), Teatro Piermarini, il 20 marzo 2017, dopo un sopralluogo in al-cune località marchigiane colpite dal terremoto e avendo ascoltato la relazione dell’arch. Antonia Pasqua Recchia, Segretario genera-le del MiBACT, e le testimonianze del prof. Alessandro Delpriori, Sindaco di Matelica; del prof. Mauro Dolce, in rappresentanza del Capo Dipartimento della Protezione civile, ing. Fabrizio Curcio; dell’ing. Achille Cipriani, Comandante provinciale dei VV.FF di Macerata, in rappresentanza del Capo del C.N.VV.F., ing. Gioac-chino Giomi; del prof. Sauro Longhi, Rettore dell’Università Poli-tecnica delle Marche; del prof. Claudio Pettinari in rappresentan-za del Rettore dell’Università degli studi di Camerino, prof. Flavio Corradini; del prof. Francesco Adornato, Rettore dell’Università

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degli studi di Macerata; della prof.ssa Anna Maria Ambrosini Massari, in rappresentanza del Rettore dell’Università degli studi di Urbino, prof. Vilberto Stocchi; del prefetto Fabio Carapezza Guttuso, Coordinatore dell’unità di crisi del coordinamento na-zionale del MiBACT; dell’ing. Paolo Iannelli, Soprintendente spe-ciale per le aree colpite dal sisma del 24 agosto 2016; della dott.ssa Giorgia Muratori, Segretario regionale e responsabile Unità di cri-si delle Marche; dell’arch. Carlo Birrozzi, Soprintendente Archeo-logia, belle arti e paesaggio delle Marche; del maggiore Carmine Grasso, Comandante del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Ancona, in rappresentanza del Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Generale di Brigata Fabrizio Parrulli;

ESPRIME

la più sentita solidarietà e vicinanza alle popolazioni così dura-mente colpite dai recenti terremoti e pieno apprezzamento per l’attività svolta e in corso, in condizioni assai difficili, con grande competenza e passione, da parte di tutto il personale del MiBACT, dalla Protezione Civile, dai VV.FF., dai Carabinieri NTPC, dall’Esercito e dalle forze dell’ordine, dai volontari, dal Commissario straordinario, dalle Regioni, dai Sindaci e dagli Enti Locali, e, in particolare, dalle stesse comunità locali che stanno dimostrando una straordinaria forza e volontà di rinascita.Il Consiglio è profondamente convinto che il patrimonio cultura-le possa e debba rappresentare un fattore essenziale per costruire il futuro delle comunità e dei territori e che costituisca già in questa lunga fase di ricostruzione un elemento di coesione e di forte identità delle ‘comunità di patrimonio’ dei territori dell’Ita-lia centrale colpiti dal sisma.

Il Consiglio, raccogliendo varie suggestioni e indicazioni, a se-guito dei sopralluoghi e dopo un ampio e approfondito dibattito

AUSPICA

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- Che il Governo e il Parlamento italiani e l’Europa intera sosten-gano in ogni modo l’attività di recupero, restauro, ricostruzione dell’intero patrimonio culturale diffuso, destinando maggiori ri-sorse e personale specializzato, elaborando e realizzando progetti di qualità per la rinascita dei borghi, dei centri storici, dei monu-menti, degli edifici di culto, dei luoghi della cultura e dell’intero tessuto territoriale e paesaggistico e, soprattutto, rafforzando le straordinarie capacità di resilienza che le popolazioni stanno di-mostrando.- Che si curi il recupero, la ricostruzione la tutela e la valorizzazio-ne non solo dei singoli monumenti ma dell’intero tessuto connet-tivo, che costituisce la peculiarità di questi territori e che si può salvaguardare solo con una stretta e efficace collaborazione tra tutti gli interlocutori e un potenziamento della capacità operativa degli uffici periferici del MiBACT in queste regioni.- Che si sviluppino fin da subito attività che colleghino la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale con progetti di sviluppo economico e sociale sostenibile e durevo-le, mediante sia specifiche iniziative di turismo culturale sia interventi nel campo della ricerca, della formazione, dell’innova-zione tecnologica e dell’industria creativa.- Che si attui una politica di stretta collaborazione tra le varie istituzioni e i cittadini e che trovi piena attuazione lo spirito della Convenzione europea di Faro, favorendo in ogni modo la cen-tralità e il protagonismo delle locali ‘comunità di patrimonio’ nel «processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale» e la partecipa-zione attiva «alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che il patrimonio culturale rappresenta», sviluppando «una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzio-nali e privati coinvolti» e sollecitando tutte le parti a «sviluppare un quadro giuridico, finanziario e professionale che permetta l’azione congiunta di autorità pubbliche, esperti, proprietari, investitori, imprese, organizzazioni non governative e società civile».- Che, a partire da questa esperienza, si costituisca, in maniera stabile e strutturata, una vera e propria funzione della Protezio-

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ne Civile specializzata nel campo del Patrimonio Culturale con il pieno coinvolgimento del MiBACT e la stretta collaborazione del MIUR, in modo da preparare specialisti dei beni culturali, già in sede di formazione universitaria, in grado di operare come pron-to intervento e nelle attività di recupero dei beni, analisi delle macerie, restauro e ricostruzione, sia in occasioni di catastrofi sia in ‘periodo di pace’ per una più efficace opera di studio, mo-nitoraggio, prevenzione.- Che si avvii una ampia e sistematica azione coordinata e mul-tidisciplinare di studio e analisi dei territori e che si mettano in campo adeguate misure di prevenzione, messa in sicurezza e di manutenzione programmata del patrimonio culturale italiano, an-che attraverso l’aggiornamento professionale degli specialisti dei beni culturali operanti nel MiBACT e dei liberi professionisti e società specializzate.- Che, in tal senso, si giunga presto ad un accordo fra MiBACT e MIUR, in particolare con le Scuole di Specializzazione di Beni Architettonici, Archeologia, Storia dell’arte, Archivistica, ecc., sia per impiegare nell’immediato le tante competenze presenti e di-sponibili sia, soprattutto ai fini della costituzione di tale funzione della Protezione Civile- Patrimonio Culturale, prevedendo alcune condizioni, come l’obbligo di inserire, nei curricula di dette Scuole, dei corsi di preparazione all’intervento in caso d’emergenza.Che si utilizzino i depositi di raccolta dei beni culturali recuperati, i laboratori di restauro, i musei e i luoghi della cultura come cantieri aperti alle popolazioni locali e ai visitatori – compatibilmente con le ovvie necessità di sicurezza – per presentare i lavori in corso, per allestire mostre, per organizzare conferenze, convegni, incontri e ogni altra iniziativa utile a sviluppare la partecipazione attiva e a mantenere un filo diretto tra i cittadini e il loro patrimonio.

12 luglio 2017Relazione introduttiva della seduta congiunta del CSBCP e del CUNSono molto grato ai ministri Fedeli e Franceschini per aver subito accolto favorevolmente la proposta di tenere una riunione con-

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giunta del CS e del CUN, la prima nella storia dei due ministeri. Ringrazio l’amica e collega Carla Barbati per aver voluto in manie-ra convinta organizzare insieme questo incontro e, più in generale, condividere la necessità di attivare forme di collaborazione tra i nostri consigli. Ovviamente ringrazio anche il Segretario Genera-le Antonia Pasqua Recchia e il Direttore di Dipartimento Marco Mancini per il loro supporto, tutti i consiglieri, i direttori generali e gli invitati per la loro partecipazione.Poco più di 40 anni fa, prima che Giovanni Spadolini non otte-nesse l’importante risultato di istituire uno specifico ministero per il patrimonio culturale, eravamo tutti parte della stessa realtà. La separazione fu una scelta lungimirante, non solo opportuna ma anche necessaria, per poter attribuire un peso strategico specifico al patrimonio culturale nelle politiche del Paese. Ma quella con-nessione originaria tra mondo della ricerca e della formazione e mondo della tutela e valorizzazione del patrimonio resta un riferi-mento indispensabile, da recuperare oggi in forme nuove. Insom-ma, con una piccola battuta potremmo dire che se è difficile o im-possibile pensare ad un nuovo matrimonio, dopo la separazione consensuale, sarebbe opportuna almeno una ‘unione civile’! Molti dei presenti peraltro hanno operato e operano a cavallo tra i due, come ex soprintendenti e ora docenti, e viceversa, perché compo-nenti di commissioni e gruppi di lavoro comuni, ecc. (io stesso sono docente universitario e ex rettore e sono ora impegnato in questo importante organismo del MiBACT).Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che in questi 40 anni, tran-ne casi singoli di ottima e proficua collaborazione, spesso lega-ti solo ai buoni rapporti personali tra un docente universitario e un soprintendente o un funzionario, i due mondi si sono troppo spesso ignorati, quando non si sono anche contrapposti. Eppure l’attuale visione organica e complessa del patrimonio culturale rappresenta oggi più che mai il campo per una reale inter- e multi-disciplinarità con un ventaglio di discipline estremamente ampio, accanto alle tradizionali archeologia storia dell’arte, architettura, archivistica, biblioteconomia, dalle scienze biologiche, geologiche, chimiche e fisiche a quelle giuridiche, economiche, informatiche,

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ingegneristiche, eccetera. Nessuno può operare da solo. E quanto più gli specialismi sono raffinati tanto più sono necessarie forme di integrazione. Dovremmo insieme saper riflettere sul ruolo del patrimonio culturale e delle nostre discipline nella società contem-poranea e partecipare da protagonisti ai profondi cambiamenti in corso, aprirsi, abbandonare i corporativismi, uscire dai nostri specialismi settoriali e dialogare con gli altri saperi, solo apparen-temente lontani, comunicare in maniera chiara e appassionata, ri-metterci in gioco, sviluppare la partecipazione attiva, stabilire un contatto diretto con la cittadinanza.Bisogna dare atto al ministro Franceschini con le sue radicali rifor-me e ai ministri Giannini prima e Fedeli ora di aver voluto avviare una fase nuova nei rapporti tra i due ministeri. Il MiBACT si è dotato di una specifica DG Educazione e Ricerca, con il compito di svolgere una funzione di interfaccia tra i due mondi, favorendone l’integrazione e la collaborazione sistematica: una delle novità più significative della riforma Franceschini, che finora ha potuto solo in parte manifestare le sue enormi potenzialità. In tutte le nuove Soprintendenze territoriali uniche, che rappresentano uno dei ca-pisaldi più innovativi della riforma, operano specifici settori ER che potranno svolgere questa stessa funzione a livello territoriale. È necessario però che sia la DG_ER che i settori ER delle soprin-tendenze siano maggiormente sostenuti e rinforzati.L’affermazione di una visione organica, olistica, del patrimonio culturale e al tempo stesso l’individuazione, all’interno di una fi-liera unitaria e integrata, di specificità di funzioni e competenze, con la distinzione tra strutture che si occupano di tutela e ricerca – le soprintendenze – e luoghi cui è demandata la valorizzazione – musei e parchi autonomi e poli museali regionali -, la centralità del paesaggio e delle comunità di patrimonio (uso volutamente una definizione della convenzione di Faro in via di ratifica dal Parlamento), insieme all’allargamento a ambiti tematici e cronolo-gici, a specializzazioni e a discipline prima escluse da una visione tradizionale, settoriale e anche elitaria del patrimonio culturale rappresentano alcune delle basi culturali su cui poggia l’impianto delle riforme, che certamente incontrano molte difficoltà e pre-

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vedibili resistenze e non sono nemmeno esenti da qualche errore da correggere, ma che rappresentano il tentativo più coraggioso, direi rivoluzionario, innovativo e organico tentato da quando il MiBACT è nato.Negli anni passati sono stati sottoscritti due importanti protocol-li, uno in riferimento all’educazione al patrimonio rivolto prin-cipalmente al mondo della scuola, l’altro, ancor più importante (19.3.2015) per i temi che oggi affrontiamo, relativo alla collabora-zione tra università e strutture del MiBACT. Protocolli però – dob-biamo essere consapevoli – che hanno prodotto solo parzialmente i risultati sperati. I 9 punti fissati in quel protocollo, dalla revisione e migliore quali-ficazione dei percorsi formativi nel campo del BC, di I e II livello, scuole di specializzazione, master e dottorati, e anche degli Istituti centrali dei due ministeri, all’elaborazione di progetti di ricerca congiunti, dagli scambi, stages, interships alla cooperazione tra le biblioteche e nel campo della promozione della lettura, dall’inter-nazionalizzazione all’innovazione tecnologica e ai risvolti di tali attività in campo occupazionale, sono ancora in gran parte da rea-lizzare e dovranno vederci impegnati nei prossimi anni.Come il ministro Franceschini sa bene, anche perché ha in più oc-casioni manifestato un sostegno a questa proposta, sono convinto che sia necessario sperimentare nuove formule e dar vita a luo-ghi di reale cooperazione e di forte integrazione tra formazione, ricerca, tutela, valorizzazione: sono quelli che abbiamo chiamato con una formula volutamente ‘provocatoria’ “policlinici del patri-monio culturale” (ma andranno adottate altre denominazioni, se li si vorrà realizzare: es. Laboratori o Centri interdisciplinari del Patrimonio Culturale; ma la denominazione è l’ultimo dei pro-blemi). Insomma strutture interministeriali per certi versi simili, in campo sanitario, alle Aziende Ospedaliere Universitarie. Una collaborazione tra docenti, ricercatori, tecnici, funzionari, la con-divisione di laboratori, biblioteche, strumentazioni, l’integrazione di competenze e di professionalità potrebbero, infatti, garantire ri-sultati positivi nella ricerca, nella tutela, nella comunicazione, nel-la valorizzazione, a tutto vantaggio in particolare degli studenti,

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cioè i futuri funzionari o i liberi professionisti, che svolgerebbero la propria attività formativa collaborando concretamente alle at-tività delle istituzioni. Sarebbe un modo anche per accentuare la funzione nella ricerca delle soprintendenze. Mi auguro che que-sta possa essere la terza fase delle riforme dei beni culturali. Si potrebbe elaborare un modello e partire con una sperimentazio-ne in alcune realtà, magari coinvolgendo anche le Regioni. Perno di queste strutture interministeriali potrebbero essere proprio le Scuole di Specializzazione, una importante peculiarità italiana, il cui assetto andrebbe però a mio parere rivisto, riducendone il nu-mero, qualificandole maggiormente, stabilendo standard nazio-nali e sistemi di accreditamento e valutazione, riportando la loro durata a tre anni anche per rilasciare un titolo spendibile a livello internazionale, e soprattutto prevedendo per gli specializzandi una significativa quota di lavoro (auspicabilmente retribuito) nelle soprintendenze, nei musei e parchi, nelle biblioteche e archivi. In tal modo a regime ci sarebbero non meno di 1000 giovani specia-lizzandi con una grande professionalità e anche con l’entusiasmo, la passione, la sensibilità e la voglia di innovazione, attivi annual-mente nelle attività di tutela e valorizzazione del patrimonio e si fornirebbe una formazione certamente più aderente alle reali esi-genze del settore.Dobbiamo essere consapevoli che nell’ultimo ventennio la forma-zione nel campo dei beni culturali ha certamente prodotto risultati positivi con la nascita di corsi di studio specifici, l’adozione di un percorso finalmente quinquennale, l’inserimento di discipline di ambito scientifico e tecnologico e di attività professionalizzanti, ma ha avuto anche risvolti negativi, come l’istituzione di corsi dai titoli e dai percorsi più fantasiosi, l’eccesso di frammentazione, la moltiplicazione eccessiva e non programmata delle sedi e una cer-ta autoreferenzialità del mondo accademico, spesso disinteressato ai profili in uscita. Insomma è proprio la separazione tra mondo della formazione e mondo del lavoro e delle professioni dei BC a rappresentare il limite principale. Spesso i nostri laureati, specia-lizzati, dottori di ricerca si sono dovuti inventare nuove professio-ni, e ancora oggi alcuni ambiti appaiano sacrificati: si pensi, solo

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per un esempio, alle professioni museologiche in una fase di vera e propria rivoluzione nel mondo dei musei italiani.Restando in questo ambito, mi limito ad un esempio di un rap-porto più efficace tra formazione e mondo del lavoro: la figura tradizionale, silente, solitario, isolata e muta, oggi inattuale, quel-la del ‘custode’. È evidente che servano oggi figure professionali completamente diverse: il personale nelle sale di un museo o in un’area archeologica svolge una funzione preziosa, importante, perché rappresenta il primo e spesso unico contatto tra il visitatore e il monumento o il sito visitato. Dovrebbe essere quindi una di quelle figure cui dedicare la maggiore attenzione, in quanto inter-faccia tra i visitatori e la struttura museale. Dovrebbe essere, cioè, in grado di dare informazioni adeguate, di parlare un’altra lingua, di possedere soprattutto ottime qualità relazionali. Non mi sem-bra peraltro giusto che si assumano come personale di custodia dottori di ricerca! Mi chiedo perché se visitiamo un museo privato troviamo spesso giovani molto preparati, in eleganti divise, pron-ti a fornire informazioni? Vorrei essere chiaro: non sto parlando di volontariato (che è una risorsa preziosa, ma che non deve mai essere sostitutiva del lavoro, bensì integrativa), né si può e si deve risolvere tutto solo con stage e tirocini. Potrebbe trattarsi di una for-ma di lavoro svolto nel corso della formazione universitaria, un’e-sperienza preziosa anche per il futuro, prescindendo dalla profes-sione che ognuno svolgerà in maniera più stabile: si imparerebbe ad avere rapporti col pubblico, a dare delle informazioni, a parlare ai bambini o agli anziani, a capire meglio il punto di vista, le esi-genze e le sensibilità dei fruitori di un luogo della cultura. Sarebbe un’esperienza da svolgere durante il periodo degli studi anche per mantenersi agli studi, quindi garantendo un ricambio continuo. Sarebbero tanti i temi da affrontare e non posso toccarli tutti. Ne faccio qualche cenno: 1) un impegno comune nelle strategie di Educazione al Patrimonio e dall’auspicabile inserimento nei per-corsi scolastici di un insegnamento specifico sul patrimonio cultu-rale (che è cosa diversa dall’insegnamento della storia dell’arte); 2) una maggiore collaborazione nell’elaborazione di progetti comuni di ricerca nazionali e europei; 3) il ruolo delle biblioteche e dei

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musei universitari; 4) la situazione dei corsi di laurea in restau-ro; 5) il tema dell’accesso ai dati, della libertà della ricerca e della ‘promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”in particolare nel campo dell’archeologia con il supera-mento del regime delle cd. ‘concessioni di scavo’ (un sistema che anche nella denominazione ‘borbonica’ conserva il sapore di uno Stato autoritario, in contrasto con gli artt. 9 e 33 della Costituzione) e il passaggio a accordi convenzionali pluriennali.Serviranno approfondimenti e altri momenti di confronto. Per tale motivo propongo che si possa dare vita ad un gruppo di lavoro tra i nostri due consigli e che soprattutto si dia un ruolo più incisivo e sistematico alla commissione paritetica MIUR-MIBACT prevista dal Protocollo del 19 marzo 2015, che si è occupata di un importante bando ma che potrebbe in realtà rappresentare il vero raccordo tar i nostri due ministeri. Come il ministro Franceschini sa bene, anche perché ha in più oc-casioni manifestato un sostegno a questa proposta, sono convinto che sia necessario sperimentare nuove formule e dar vita a luo-ghi di reale cooperazione e di forte integrazione tra formazione, ricerca, tutela, valorizzazione: sono quelli che abbiamo chiamato con una formula volutamente ‘provocatoria’ “policlinici del patri-monio culturale” (ma andranno adottate altre denominazioni, se li si vorrà realizzare: es. Laboratori o Centri interdisciplinari del Patrimonio Culturale; ma la denominazione è l’ultimo dei pro-blemi). Insomma strutture interministeriali per certi versi simili, in campo sanitario, alle Aziende Ospedaliere Universitarie. Una collaborazione tra docenti, ricercatori, tecnici, funzionari, la con-divisione di laboratori, biblioteche, strumentazioni, l’integrazione di competenze e di professionalità potrebbero, infatti, garantire ri-sultati positivi nella ricerca, nella tutela, nella comunicazione, nel-la valorizzazione, a tutto vantaggio in particolare degli studenti, cioè i futuri funzionari o i liberi professionisti, che svolgerebbero la propria attività formativa collaborando concretamente alle at-tività delle istituzioni. Sarebbe un modo anche per accentuare la funzione nella ricerca delle soprintendenze. Mi auguro che questa possa essere la terza fase delle riforme dei beni culturali. Si potreb-

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be elaborare un modello e partire con una sperimentazione in alcu-ne realtà, magari coinvolgendo anche le Regioni. Perno di queste strutture interministeriali potrebbero essere proprio le Scuole di Specializzazione, una importante peculiarità italiana, il cui assetto andrebbe però a mio parere rivisto, riducendone il numero, qualifi-candole maggiormente, stabilendo standard nazionali e sistemi di accreditamento e valutazione, riportando la loro durata a tre anni anche per rilasciare un titolo spendibile a livello internazionale, e soprattutto prevedendo per gli specializzandi una significativa quota di lavoro (auspicabilmente retribuito) nelle soprintendenze, nei musei e parchi, nelle biblioteche e archivi. In tal modo a regi-me ci sarebbero non meno di 1000 giovani specializzandi con una grande professionalità e anche con l’entusiasmo, la passione, la sensibilità e la voglia di innovazione, attivi annualmente nelle at-tività di tutela e valorizzazione del patrimonio e si fornirebbe una formazione certamente più aderente alle reali esigenze del settore.

13 novembre 2017Iniziative a favore dei territori terremotatiIl Consiglio Superiore ‘Beni Culturali e Paesaggistici’, nella riunione del 13 novembre 2017, a seguito di un sopralluogo a Spoleto presso il deposito-laboratorio di Santo Chiodo e a Norcia, effettuato da una delegazione del Consiglio con l’arch. Carla Di Francesco, Segretario generale del MiBACT, la Soprin-tendente Archeologia, belle arti e paesaggio dell’Umbria Ma-rica Mercalli, il prefetto Fabio Carapezza Guttuso, Coordinatore dell’unità di crisi del coordinamento nazionale del MiBACT, la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini, il vescovo di Spoleto monsignor Boccardo, il direttore dell’ISCR Gisella Cappo-ni e Sandra Rossi in rappresentanza dell’OpD, oltre a vari rappre-sentanti degli Enti Locali

ESPRIME

la più sentita gratitudine e il più convinto sostegno al personale del MiBACT per lo straordinario impegno svolto in condizioni

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assai difficili, con grande competenza e passione, in stretta col-laborazione con la Regione e gli Enti Locali, la Protezione Civile, i VV.FF., i Carabinieri NTPC, le forze dell’ordine, i volontari e le comunità locali.

Il Consiglio, oltre a confermare e a ribadire tutti gli auspici pre-senti nella mozione di Matelica del 20 marzo 2017, e in partico-lare la proposta di istituire una specifica funzione specializzata nel patrimonio culturale nella Protezione Civile, in stretta connes-sione con il MiBACT,

AUSPICA

- L’incremento dell’azione di prevenzione, messa in sicurezza e di manutenzione programmata del patrimonio culturale italiano.- Una maggiore attenzione in termini di personale e risorse a favore delle Soprintendenze operanti nelle aree colpite dal si-sma e, in generale, per rafforzare l’azione di tutela nell’intero territorio nazionale. A tale proposito il Consiglio, apprezzando gli sforzi straordinari effettuati per il concorso per 500 funzionari tecnico-scientifici (poi portati a 700 e – si spera – ulterior-mente incrementati fino a 1000 posti), auspica l’avvio a breve di nuove procedure concorsuali da svolgere in maniera sistematica a cadenza annuale-biennale e possibilmente con più efficaci para-metri di selezione e valutazione, tanto per i funzionari, quanto per il personale amministrativo e tecnico, nonché per i dirigenti.La predisposizione di altri depositi-laboratori anche in altre regio-ni, in particolare nei territori a maggiore rischio di calamità naturali, sul modello del deposito allestito in loc. Santo Chiodo a Spoleto dalla Regione Umbria e attrezzato dal MiBACT, per la creazione di una rete di presidi territoriali di pronto soccorso.

19 dicembre 2017Il Parlamento ratifichi la Convenzione di FaroIl Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ nella riunio-ne del 19 dicembre 2017, riprendendo gli argomenti approfonditi

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in una specifica riunione del 18 aprile 2016 dedicata alla Conve-zione del Consiglio Europeo sul Valore del Patrimonio Culturale per la Società (Faro 2005) (http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1466077704664_Resoconto_CS BCP_18_aprile_2016_definitivo.pdf), invita il Ministro Dario Franceschini, il Ministro Angelino Alfano, i Presidenti di Ca-mera e Senato e i Presidenti delle Commissioni Esteri e Cultura dei due rami del Parlamento, a mettere in campo tutte le iniziative possibili perché tale Convezione, dopo il lungo e complesso per-corso effettuato negli scorsi anni, possa essere finalmente ratifica-ta dal Parlamento italiano prima della prossima conclusione della legislatura, come richiesto ora anche da un appello sottoscritto da moltissimi cittadini.

19 febbraio 2018Per un migliore funzionamento dei Comitati Scientifici dei Mu-sei Il Consiglio Superiore Beni Culturali e Paesaggistici nella riunione del 19 febbraio 2018 ha sviluppato una riflessione sul funziona-mento dei Comitati scientifici dei musei dotati di autonomia am-ministrativa istituiti ai sensi del DM 23 dicembre 2014, art. 12.Il Consiglio ritiene che l’introduzione dei Comitati scientifici rap-presenti una delle novità più interessanti e qualificanti della recen-te riforma dei musei, ma al tempo stesso evidenzia la necessità di precisare meglio il loro ruolo e le loro funzioni.Sulla base della relazione del Direttore Generale Musei dott. An-tonio Lampis e del Presidente prof. Giuliano Volpe, anche grazie ad informazioni acquisite direttamente, dalle quali è emerso un quadro variegato, in alcuni casi sufficientemente positivo, in altri molto meno, non senza vari aspetti di criticità, il Consiglio ritiene di proporre, d’intesa con il DG Musei, alcune raccomandazioni.Nel pieno rispetto dell’autonomia dei Direttori dei musei, il Con-siglio invita, pertanto, a:1. riunire regolarmente i Comitati scientifici e secondo calendari predefiniti;2. acquisire il parere dei Comitati scientifici sulla programmazione

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scientifica delle attività museali, non limitandosi a una mera infor-mazione su progetti già definiti;3. acquisire il parere dei Comitati scientifici in caso nei casi più significativi per prestiti delle opere, per progetti di ordinamento e allestimento, restauri, mostre, pubblicazioni e ogni altra attività scientifica e culturale;4. curare la redazione delle relazioni annuali previste dal DM 23.12.2014, art. 12, comma 1, lettera c);5. trasmettere ai Consigli di Amministrazione i verbali del Comi-tati scientifici e riunire almeno una volta l’anno i due organismi (le cui funzioni peraltro andrebbero ben tenute ben distinte) in seduta congiunta, per favorire uno scambio di opinioni sulla programma-zione e sulla valutazione ex post delle varie attività.Il Consiglio, inoltre, invita il Ministro a tenere conto del parere dei Direttori nelle proposte di nomina dei Comitati scientifici e a fornire più chiare indicazioni metodologiche circa le funzioni dei Comitati scientifici e la comprovata qualificazione scientifica dei componenti designati da Regioni e Comuni. Lo invita, altresì, a recepire il documento con le linee guida sul ‘ Prestito temporaneo di opere per mostre e manifestazioni in Italia e all’estero’ predi-sposto dal Gruppo di Lavoro istituito dalla DG ABAP su invito del Consiglio Superiore. Lo invita, infine, a rivedere quanto previsto dal DM 23.12.2014 a proposito sia delle possibili sovrapposizioni di funzioni tra Comitati scientifici e Consigli di Amministrazione, sia a proposito del conflitto di interessi, ben distinguendo l’attività professionale dalla collaborazione scientifica che ogni componen-te dei Comitati scientifici potrebbe garantire nella realizzazione dei progetti dei Musei.

19 dicembre 2017Sia garantita la piena libertà di fotografia con mezzo proprio dei beni archivistici e librariIl Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’, nella riunio-ne del 19 dicembre 2017, avendo ricevuto numerose segnalazioni da parte di ricercatori e di utenti delle Biblioteche e degli Archivi circa il mancato recepimento delle norme che hanno esteso

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l’uso della riproduzione fotografica anche ai beni archivistici e librari, riprendendo e ribadendo i contenuti della mozione del 16 maggio 2016, compresi gli obblighi di rispetto delle norme vigenti in materia di deontologia e buona condotta degli archi-visti e dei ricercatori e di privacy, invita il Ministro Dario Fran-ceschini a farsi garante della piena applicazione di tali norme di liberalizzazione e auspica che i Direttori Generali alle Biblioteche e agli Archivi recepiscano interamente nelle loro circolari esplicati-ve le indicazioni offerte dal Consiglio nella citata mozione.

Relazione della Commissione paritetica CSBCP - CUN(Si pubblica solo la relazione, senza i vari allegati; tutta la docu-mentazione è disponibile sul sito web del CSBCP: http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuPrin-cipale/Ministero/Consiglio-Superiore/Attivita-in-calendario/index.html)

Il 12 luglio 2017 si sono riuniti in seduta congiunta, presso la sede del MiBACT, alla presenza dei ministri Dario Franceschini e Va-leria Fedeli, il Consiglio Superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ e il Consiglio Universitario Nazionale. Si è trattato di un evento importante – anche con una valenza per certi aspetti ‘storica’, con-siderato che è stata questa, dalla nascita del MiBACT, la prima occasione ufficiale di lavoro comune dei due Consigli –, che ha confermato la volontà dei due Ministeri di operare congiuntamen-te per garantire sia un miglioramento della formazione universi-taria sia uno sviluppo e una più efficace attività di ricerca, tutela, valorizzazione e gestione nel campo del patrimonio culturale (si veda in allegato il verbale della seduta). In tale occasione si è deliberato di dar vita ad una Commissione paritetica, presieduta dai rispettivi Presidenti dei Consigli, Carla Barbati e Giuliano Volpe, con il compito di elaborare proposte da sottoporre all’attenzione dei due consessi e da presentare ai Mi-nistri.

La Commissione è stata così composta:

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Per il CSBCP:Francesca CappellettiMassimo MontellaAlberto PetruccianiGiuliano Volpe (presidente)

Per il CUN:Marco Abate Guido Baldassarri Carla Barbati (presidente)Pierfrancesco Dellino

Hanno partecipato ai lavori, per garantire il necessario supporto tecnico-scientifico e amministrativo: Alessandro Benzia, dirigente dell’Ufficio di Gabinetto del Mini-stro BACTMaria Pellegrino, segretario del CSBCP, con funzione di segretario verbalizzanteMaria Cristina Misiti, dirigente Ufficio I, staff del prof. Marco ManciniFrancesco Scoppola, direttore generale Educazione e ricerca

La Commissione ha tenuto complessivamente n. 6 riunioni, nelle seguenti date: 28 settembre, 16 ottobre, 2 novembre, 17 novembre, 20 dicembre 2017, 11 gennaio 2018. I verbali delle riunioni sono allegati alla presente relazione. Si sono inoltre tenuti costanti con-tatti telematici tra i componenti (e-mail, skype, gruppo WApp) per garantire un continuo confronto sui vari temi affrontati, in prepa-razione delle varie riunioni in presenza, svolte nelle sedi del Mi-BACT e del MIUR.Nel corso della riunione del 17 novembre si è tenuta l’audizione di una delegazione dei direttori delle Scuole di Specializzazione nel campo del patrimonio culturale.Al termine dei lavori i risultati sono stati illustrati anche ai due Consigli (Consiglio Superiore BCP nella seduta del 22.1.2018; CUN nella seduta del 31.1.2018), in modo da informare i consi-

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glieri e acquisire suggerimenti e osservazioni, di cui si è tenuto conto, nel quadro di una relazione espressione della Commissione paritetica.

1. PremessaPer oltre un secolo, dall’Unità d’Italia fino al 1974, prima che Gio-vanni Spadolini ottenesse l’importante risultato di istituire uno specifico ministero per il patrimonio culturale, le attività di tutela del patrimonio culturale, erano svolte dallo stesso Ministero che si occupava di istruzione, di università, di ricerca, mediante una specifica Direzione alle ‘antichità e belle arti’. La separazione fu una scelta lungimirante, non solo opportuna ma anche necessaria, per poter attribuire un peso strategico specifico al patrimonio cul-turale nelle politiche del Paese. Quella connessione originaria tra mondo della ricerca e della for-mazione e mondo della tutela e valorizzazione del patrimonio si andò, però, progressivamente allentando. È oggi necessario recu-perarla in forme nuove. In questi 40 anni, tranne casi singoli di ottima e proficua collabo-razione, spesso legati ai buoni rapporti personali tra un docente universitario e un soprintendente o un funzionario, i due mondi si sono troppo spesso ignorati, quando non si sono anche contrap-posti. La visione complessa, organica e unitaria del patrimonio culturale che si è andata progressivamente affermando, anche grazie alle recenti riforme del MIBACT, offre oggi più che mai l’opportunità di una reale inter- e multidisciplinarità. Si sempre più consapevoli della necessità di contare su un ventaglio di discipline estrema-mente ampio, accanto alle tradizionali archeologia, storia dell’ar-te, architettura, archivistica, biblioteconomia: si pensi alle scien-ze biologiche, geologiche, chimiche e fisiche a quelle giuridiche, economiche, informatiche, ingegneristiche, eccetera. Nessuno può più operare da solo. E quanto più gli specialismi sono raffinati tan-to più sono necessarie forme di integrazione. Si è, inoltre, sempre più consapevoli della necessità di disporre di professionalità alte, tanto tra i funzionari e i tecnici del MiBACT e delle altre istituzio-

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ni pubbliche quanto tra i liberi professionisti e le imprese private operanti nel settore.La formazione, la ricerca, la tutela, la valorizzazione, la comuni-cazione, la gestione sono componenti di un’unica filiera, che, pur con le evidenti specificità di ciascun elemento e le competenze specifiche di ogni attore coinvolto, necessita di una visione orga-nica e unitaria e richiede una forte integrazione tra i due soggetti principali coinvolti, MiBACT e MIUR, cui sarebbe opportuno as-sociare anche le Regioni e gli Enti Locali oltre all’articolato mondo delle professioni, delle fondazioni, delle associazioni e delle im-prese private.Anche per garantire un nuovo ruolo del patrimonio culturale (e delle discipline che di esso si occupano) nella società contempo-ranea, con i profondi cambiamenti in corso, occorre aprirsi, ab-bandonare i corporativismi, uscire dagli specialismi settoriali e dialogare con gli altri saperi, solo apparentemente lontani, comu-nicare in maniera chiara e appassionata, affermare una logica di sistema nazionale, sviluppare la partecipazione attiva, stabilire un contatto diretto con la cittadinanza. Da tempo la tutela non è concepita solo come passiva e reattiva, o selettiva e limitata a sin-goli oggetti e monumenti, ma è sentita come una funzione attiva e progettuale, ora basata anche sui nuovi strumenti di prevenzione e pianificazione territoriale e urbanistica, su una conoscenza più pervasiva e complessa dell’intero patrimonio culturale, su proces-si di manutenzione ordinaria e programmata, sull’uso delle nuove tecnologie nel campo della diagnostica, del restauro, dei sistemi informativi, della documentazione e della comunicazione, ecc., e, grazie all’affermazione di uno spirito maggiormente aperto e inclusivo, capace di promuovere la partecipazione. Per rafforzare ulteriormente tali approcci servono nuove professionalità e una nuova capacità di cooperazione inter-istituzionale.Il MiBACT si è dotato di una specifica Direzione Generale ‘Educa-zione e Ricerca’, con il compito di svolgere una funzione di inter-faccia tra i due mondi, favorendone l’integrazione e la collabora-zione sistematica: è questa una delle novità più significative della riforma Franceschini, che finora ha potuto solo in parte manifesta-

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re le sue enormi potenzialità. In tutte le nuove Soprintendenze ter-ritoriali uniche, che rappresentano uno dei capisaldi più innova-tivi della riforma, operano specifici settori Educazione e Ricerca, che potranno svolgere questa stessa funzione a livello territoriale. A tale proposito la Commissione auspica un sostanziale poten-ziamento di tali strutture, nel quadro di un complessivo ulteriore potenziamento in termini di personale, di mezzi e di risorse so-prattutto degli istituti periferici del MiBACT, ancora ampiamente sottodimensionati, nonostante i positivi apporti grazie al recente concorso per funzionari.L’affermazione di una visione organica, olistica, del patrimonio culturale e al tempo stesso l’individuazione, all’interno di una fi-liera unitaria e integrata, di specificità di funzioni e competenze, con la distinzione tra strutture che si occupano di tutela e ricerca – le soprintendenze – e luoghi cui è demandata la valorizzazione – musei e parchi autonomi e poli museali regionali –, la centralità del paesaggio e delle comunità di patrimonio (si usa volutamente la definizione della Convenzione di Faro sul valore del patrimo-nio culturale, purtroppo non ancora ratificata dal Parlamento), insieme all’allargamento a ambiti tematici e cronologici, a specia-lizzazioni e a discipline prima escluse da una visione tradizionale, settoriale e anche elitaria del patrimonio culturale, rappresentano alcune delle basi culturali su cui poggia l’impianto delle riforme, che certamente incontrano molte difficoltà e prevedibili resisten-ze e non sono nemmeno esenti da errori da correggere, ma che rappresentano il tentativo più coraggioso, innovativo e organico tentato da quando il MiBACT è nato.Negli anni passati sono stati sottoscritti due importanti protocolli tra MiBACT e MIUR, uno in riferimento all’educazione al patri-monio rivolto principalmente al mondo della Scuola, l’altro, ancor più importante in riferimento ai temi qui affrontati, sottoscritto il 19.3.2015 dai Ministri Franceschini e Giannini, (in allegato), relati-vo alla collaborazione tra università e strutture del MiBACT. Queste sono le azioni previste da quel Protocollo, che la Commis-sione ribadisce con forza:

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1. Cooperazione nella revisione e nell’ulteriore qualificazione dei corsi di laurea di primo e secondo livello, delle scuole di specializ-zazione e dei corsi di dottorato nel campo dei beni culturali e pa-esaggistici, al fine di garantire una maggiore omogeneità dei per-corsi formativi, una maggiore aderenza alle necessità professionali del mercato del lavoro e un rapporto più stretto e proficuo con la ricerca, la tutela e la valorizzazione a vantaggio della qualificazio-ne degli studenti, degli specializzandi e dei dottorandi;2. Cooperazione nella creazione, organizzazione e ulteriore quali-ficazione di percorsi formativi erogati dagli Istituti centrali forma-tivi afferenti al MIBACT e a quelli del MIUR;3. Cooperazione fra gli Uffici centrali e periferici e gli Istituti di ricerca del MiBACT con le Università e gli Enti di ricerca vigilati dal MIUR, al fine di elaborare congiuntamente progetti di ricerca relativi ai beni culturali e paesaggistici, rafforzare i partenariati esistenti e costituirne di nuovi, accedere a finanziamenti comuni-tari diretti e indiretti disponibili nell’attuale ciclo di programma-zione 2014-2020;4. Cooperazione fra gli Uffici centrali e periferici e gli Istituti di ricerca del MiBACT con le Università e gli Enti di ricerca vigi-lati dal MIUR al fine di elaborare progetti formativi che offrano l’opportunità di esperienze concrete per studenti, specializzandi, dottorandi, studiosi, quali scambi e internships presso tali Uffici e Istituti, con la sperimentazione di modelli formativi innovativi che integrino formazione, ricerca, tutela, comunicazione, fruizione e valorizzazione;5. Cooperazione tra le Biblioteche e le Istituzioni formative a ogni livello in vista di specifiche attività e iniziative comuni volte alla promozione e alla diffusione della lettura nonché di competenze attraverso l’impiego di libri sia su supporto cartaceo che su sup-porto elettronico;6. Scambi transnazionali più intensi e una maggiore apertura alla formazione internazionale per la crescita di una nuova generazio-ne di studiosi, professionisti e funzionari all’avanguardia e com-petitivi sulla scena globale; 7. Coordinamento delle iniziative comuni, anche già avviate, che

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prevedono il coinvolgimento anche di altri soggetti pubblici e/o provati sui temi della ricerca, dell’innovazione e della formazione per il patrimonio culturale e turismo;8. Cooperazione nell’istituire strumenti per il monitoraggio siste-matico dei processi e delle attività congiunte, nonché degli esiti sul mercato del lavoro al fine di valutare costantemente le iniziati-ve, analizzarne punti di forza e di debolezza, valorizzare le buone pratiche e migliorare i processi di educazione, formazione, ricerca e intervento per la tutela, fruizione e valorizzazione dei beni cul-turali e paesaggistici, attraverso una pianificazione strategica delle medesime azioni congiunte;9. Collaborazione tra la rete museale in tutte le sue articolazioni e la rete dell’alta formazione del MIUR volta alla creazione di sinergie nei campi dell’educazione e della ricerca, con particolare riguardo per Dottorati di ricerca e master di formazione professionale nel campo dei Beni culturali ace in una prospettiva interdisciplinare.

La Commissione, in considerazione anche del limitato tempo a disposizione in questa fase finale della legislatura, ha ritenuto di concentrare l’attenzione sostanzialmente su due temi:a) la creazione di unità territoriali integrate MiBACT-MIURb) la predisposizione di alcune linee per una revisione e migliore qualificazione della formazione universitaria a partire dalla defini-zione dei profili professionali nel campo del patrimonio culturale

2. Unità integrate territoriali per il patrimonio culturale (UnITe PC)La Commissione propone di dar vita a nuove realtà integrate ter-ritoriali tra i due Ministeri, convinta che possano costituire i veri caposaldi di una nuova stagione di cooperazione e di forte inte-grazione tra formazione, ricerca, tutela, valorizzazione.Si tratta di strutture già indicate in passato da alcuni studiosi, defi-nite con una formula volutamente ‘provocatoria’ ma anche molto evocativa “policlinici del patrimonio culturale”. In più occasioni anche il Ministro Franceschini ha indicato queste strutture miste come un obiettivo strategico delle riforme.

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La Commissione propone la denominazione: ‘UnITe PC’ = Unità Integrate Territoriali per il Patrimonio Culturale). Si tratterebbe di strutture interministeriali per certi versi simili, in campo sanitario, alle Aziende Ospedaliere Universitarie. Una collaborazione tra docenti, ricercatori, tecnici, funzionari, la con-divisione di laboratori, biblioteche, strumentazioni, l’integrazione di competenze e di professionalità potrebbero, infatti, garantire ri-sultati positivi nella ricerca, nella tutela, nella comunicazione, nel-la valorizzazione, a tutto vantaggio in particolare degli studenti, cioè i futuri funzionari o i liberi professionisti, che svolgerebbero la propria attività formativa collaborando concretamente alle at-tività delle istituzioni. Sarebbe questo un modo anche per accen-tuare la funzione di ricerca dei musei e delle soprintendenze, che però – lo si ribadisce – necessitano di maggiori risorse e personale tecnico-scientifico e amministrativo, anche per poter affrontare al meglio la sfida rappresentata dalle UnITe.La Commissione, consapevole della complessità del progetto, suggerisce l’avvio di una sperimentazione delle UnITe in alcune realtà più favorevoli. A tale proposito è stata elaborata una bozza di Accordo attuativo del Protocollo del 19.3.2015, ovviamente su-scettibile di perfezionamenti e integrazioni (si veda allegato), che prevede la possibilità di dar vita alle UniTe tra Università e uffici centrali e periferici del MiBACT, con la creazione di un Comitato scientifico e gestionale, di un apposito Ufficio di coordinamento e di un Coordinatore e la definizione di specifici progetti comuni.Sulla base di tale Accordo Quadro MIUR-MiBACT di carattere generale, potranno, dunque, essere stipulati – laddove gli istituti periferici e centrali del MiBACT lo ritengano utile e opportuno – accordi tra soprintendenze, poli museali, singoli musei autonomi o altri istituti centrali e periferici con una o più università (inclu-dendo anche istituti del CNR o altri enti pubblici di ricerca), a sca-la regionale, interregionale o anche subregionale, a seconda dei ca-ratteri, delle esigenze e delle potenzialità di ciascun territorio. Tali accordi potranno prevedere forme di collaborazione anche con le associazioni professionali, singoli professionisti e società private operanti nel campo dei beni culturali.

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Si potranno elaborare precisi progetti comuni (ad es. attività di classificazione, schedature, studio di materiali, ricognizioni terri-toriali, scavi, allestimenti museali, mostre, sistemazione di archivi, progetti di digitalizzazione, ecc.), con una definizione del perso-nale universitario coinvolto, sulla base di precise competenze e se-condo specifiche funzioni, impiegando in soprintendenze, musei, parchi, archivi, biblioteche, ecc., gli studenti dei vari cicli, oppor-tunamente formati e con la guida di docenti, ricercatori, soprinten-denti, direttori, funzionari, per svolgere varie funzioni sul campo, in laboratorio o nei rapporti con il pubblico (es. catalogatori, ‘gui-de’, mediatori, comunicatori, ecc.). Gli accordi potranno prevedere il coinvolgimento di soprintendenti e funzionari nella didattica, con affidamento di corsi, moduli, seminari, responsabilità di tesi, ecc., l’individuazione di strutture (laboratori, biblioteche, banche dati, archivi, ecc.) e strumentazioni (informatiche, tecnologiche, di analisi, di trasporto, ecc.) da mettere in comune.Le possibilità offerte da tali accordi sono numerose, variabili caso per caso a seconda le esigenze indicate e le effettive disponibilità: solo a titolo di esempio, si pensi a progetti di digitalizzazione degli archivi storici delle soprintendenze, o di schedature delle enormi quantità di materiali inediti conservati da decenni nei magazzi-ni; un rapporto più efficace tra formazione e mondo del lavoro potrebbe riguardare il coinvolgimento nei servizi per il pubblico degli studenti universitari, adeguatamente informati per fornire informazioni, anche nelle lingue straniere; non dovrebbe trattarsi solo di forme di stage e tirocinio, già oggi possibili, e nemmeno di forme di mero volontariato (risorsa preziosa, ma che non dovreb-be mai essere sostitutiva del lavoro, bensì integrativa). Potrebbe trattarsi, al contrario, anche di una forma di lavoro occasionale (con risorse da individuare ad hoc), svolto nel corso della forma-zione universitaria, in modo da fornire un’esperienza preziosa. Gli studenti universitari potrebbero, inoltre, svolgere anche una fun-zione di tutor in progetti di ‘alternanza scuola-lavoro’ per gli stu-denti liceali. Si tratta solo di esempi, a fronte delle infinite possibi-lità di coinvolgimento delle energie e delle competenze del mondo universitario. La Commissione ritiene opportuno precisare che il

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coinvolgimento di studenti non deve intendersi né come concor-renziale con il lavoro di liberi professionisti né come creazione di nuovo precariato.

3. Revisione e qualificazione del percorso formativo universitarioNell’ultimo ventennio la formazione nel campo dei beni culturali ha certamente prodotto risultati positivi con la nascita di corsi di studio specifici, l’adozione di un percorso finalmente quinquen-nale, l’inserimento di discipline di ambito scientifico e tecnologico e di attività professionalizzanti sul campo e in laboratorio, ma ha avuto anche risvolti negativi, con l’istituzione di corsi dai titoli e dai percorsi più fantasiosi, l’eccesso di frammentazione, la mol-tiplicazione eccessiva e non programmata delle sedi e una certa autoreferenzialità del mondo accademico, spesso disinteressato ai profili in uscita. Insomma è proprio la separazione tra mondo della formazione e mondo del lavoro e delle professioni dei Beni culturali a rappresentare il limite principale per una reale qualifi-cazione dei futuri professionisti del patrimonio culturale. Spesso i laureati, specializzati, dottori di ricerca si sono dovuti inventare nuove professioni e ancora oggi alcuni ambiti appaiano sacrificati: si pensi, solo per un esempio, alle professioni museologiche in una fase di vera e propria rivoluzione nel mondo dei musei italiani.La Commissione ha avviato i suoi lavori effettuando preliminar-mente un censimento dei vari corsi di primo e secondo livello atti-vi nelle Università italiane nel campo dei beni culturali. È emerso un quadro assai ricco, ma anche molto variegato, confuso e fram-mentato (si veda in allegato la relazione della commissione specia-le CUN sul patrimonio culturale). Sulla base di tale censimento, la Commissione ha ritenuto inutile (anche perché estranea ai propri compiti) proporre modifiche delle attuali classi di Laurea e di Laurea Magistrale, preferendo, al con-trario, contribuire alla definizione di precisi profili professionali in uscita. A tal proposito si è ritenuto opportuno avvalersi del lungo e complesso lavoro svolto dalla DG Educazione e Ricerca nella de-finizione dei profili delle professioni dei beni culturali non regola-mentate da ordini professionali ai sensi della Legge 22 luglio 2014,

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n. 110. Sono stati a tale proposito considerati i profili relativi alle figure di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropolo-gi, antropologi fisici e storici dell’arte, indicati dalla citata legge: pur facendo riferimento alle analitiche tabelle predisposte dalla DG_ER (che si auspica vengano presto pubblicate in allegato allo specifico decreto ministeriale), alle quali si rinvia, la Commissione ha ritenuto di adottare una versione semplificata. È stata, inoltre, elaborata una scheda specifica per le figure relative alle professio-ni museali, tenendo conto sia del lavoro effettuato anni fa da una commissione istituita presso il MiBACT sia del recente documento dell’ICOM sulle ‘professionalità e funzioni essenziali del museo alla luce della riforma dei musei statali’ (novembre 2017). Più complessa è la situazione relativa ad altri profili non compresi nella lista delle figure professionali non regolamentate da ordini professionali nella legge 110/2015: si tratta in particolare delle figure di architetto, conservatore-restauratore, restauratore, pia-nificatore paesaggista, comunicatore. Per queste si è ritenuto, in questa fase, considerato il limitato tempo a disposizione, di fare riferimento ai profili professionali attualmente in vigore presso il MiBACT e previsti anche per i recenti concorsi. Per una migliore definizione di tali figure servirebbe un approfondimento che si au-spica possa essere effettuato con la prosecuzione del lavoro della Commissione.I profili professionali così definiti (si vedano gli allegati) potranno costituire un riferimento per le università italiane per adeguare, nell’ambito della loro autonomia, i propri percorsi formativi, di primo, secondo e terzo livello, ponendo al centro lo studente e garantendo (anche grazie ad accordi inter-ateneo) la qualità dei docenti e la disponibilità di strutture adeguate.La Commissione raccomanda in particolare che:a) la laurea triennale fornisca una più solida formazione di base, evitando di anticipare elementi specialistici a questo livello degli studi;b) la laurea magistrale rappresenti il momento di maggiore quali-ficazione disciplinare;c) il terzo livello (Scuole di Specializzazione, Dottorato di ricerca,

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master di secondo livello) rappresenti la fase non solo di ulteriore specializzazione disciplinare ma anche e soprattutto di amplia-mento degli orizzonti interdisciplinari, mediante un’equilibrata integrazione di specialismo e di visione globale, contestuale, oli-stica, con l’apertura verso gli aspetti della progettazione, pianifi-cazione, comunicazione, organizzazione e gestione; rappresenti, cioè, il momento decisivo di formazione dei professionisti del pa-trimonio culturale, anche grazie a effettive esperienze lavorative professionalizzanti;e) siano nettamente distinti i programmi di insegnamento nei tre livelli di formazione, anche con una più chiara diversificazione dei docenti destinati alle attività didattiche, in particolare per il terzo ciclo;f) sia maggiormente garantito un controllo di qualità dell’offerta di master di primo e secondo livello;g) si preveda l’istituzione di specifici Dottorati di Ricerca nel cam-po del patrimonio culturale, attualmente di difficile realizzazione nell’attuale sistema che privilegia corsi generalisti, spesso attivi in singole Università, favorendo aggregazioni di più Università intorno a qualificati e più caratterizzati progetti didattici e scien-tifici in senso sia disciplinare sia interdisciplinare, anche grazie a specifici accordi tra uffici del MiBACT e Università nell’ambito delle UnITe PC.La Commissione chiede, inoltre, di porre un’attenzione particolare alle Scuole di Specializzazione, un’importante peculiarità italiana, il cui assetto andrebbe rivisto, qualificandole maggiormente, sta-bilendo standard omogenei nazionali e sistemi di accreditamento e valutazione, con docenti di alto profilo, eventualmente anche grazie ad accordi inter-ateneo. Le Scuole dovrebbero diventare, cioè, i veri luoghi di alta formazione di professionisti del patrimo-nio culturale, non solo con solide competenze disciplinari settoria-li ma anche e soprattutto con impostazioni interdisciplinari e con l’acquisizione di capacità nel campo della gestione, progettazio-ne, pianificazione, comunicazione. Le Scuole dovrebbero passare, cioè, da una logica prevalentemente disciplinare ad una orientata realmente verso gli sbocchi professionali, legando i profili profes-

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sionali alle abilità. La Commissione è consapevole che molte delle attuali Scuole sono già orientate in tal senso, ma auspica un pro-cesso di revisione, di aggiornamento e anche di differenziazione e specializzazione tra i vari percorsi proposti, nonché di omogeneiz-zazione degli standard qualitativi a livello nazionale.La Commissione ritiene, a tale proposito, auspicabile che le Scuole tornino ad avere una durata triennale (anche per rilasciare un tito-lo valido a livello internazionale) e soprattutto che si possa preve-dere per gli specializzandi una significativa quota di lavoro retri-buito nelle strutture centrali e periferiche del MiBACT (soprinten-denze, musei e parchi, biblioteche e archivi, istituti centrali, ecc.). Così ripensate le Scuole di specializzazione potrebbero giovarsi dalla costituzione delle Unità integrate territoriali MiBACT-MIUR e rappresentarne un elemento qualificante.Attualmente alle varie scuole nel settore bei beni culturali (arche-ologia, storia dell’arte, architettura-restauro, antropologia, biblio-teconomia, archivistica), complessivamente circa cinquanta, sono iscritti circa 1.000 specializzandi. A seconda che i corsi restino biennali o diventino triennali si po-trebbe contare, dunque, circa 2/3.000 specializzandi impiegabili annualmente (almeno per il 50% del loro impegno, con una pre-cisa definizione di impegno orario e di funzioni) nelle attività co-muni delle Università e degli istituti centrali e periferici del Mi-BACT. Questo apporto di professionalità, di sensibilità diverse, di entusiasmo, di passione, di voglia di innovazione, nelle attività di tutela e valorizzazione del patrimonio garantirebbe certamente un slancio nuovo nelle strutture ministeriali e, al tempo stesso, una formazione più aderente alle reali esigenze del settore. Conside-rando il costo di una borsa, pari a quella del dottorato di ricerca (circa 14.000 euro/anno -D.M. 18/6/2008) il costo complessivo annuo dell’operazione, a regime, sarebbe di circa 28 o 42 milioni, a seconda che la durata del corso resti biennale o diventi trienna-le, con il contributo professionale di 2-3.000 specializzandi nelle strutture del MiBACT. Ovviamente il numero complessivo nazio-nale dovrebbe essere frutto di una pianificazione anche sulla base delle effettive risorse disponibili, oltre che delle esigenze espresse

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dai vari territori. Si tratta di una somma non eccessiva, soprattutto a fronte dei vantaggi che garantirebbe, che potrebbe essere sud-divisa tra MiBACT e MIUR e possibilmente con l’apporto delle Regioni o anche con il contributo di privati.

4. Altri temi da approfondireSarebbero tanti gli altri temi da affrontare (oltre alla prosecuzione del lavoro di definizione dei profili professionali), che la Commis-sione, nel breve tempo a disposizione non ha potuto approfondire. Se ne indicano: a) una maggiore collaborazione nell’elaborazione di progetti co-muni di ricerca nazionali e europei; b) il ruolo delle biblioteche e dei musei universitari e la loro maggiore integrazione nei sistemi museali e bibliotecari nazionali; c) la problematica situazione dei corsi di laurea in restauro; d) una migliore definizione delle professioni necessarie per un ap-proccio globale e multidisciplinare ai paesaggi;e) il tema dell’accesso ai dati, della libertà della ricerca e della ‘promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”in particolare nel campo dell’archeologia con il supera-mento del regime delle cd. ‘concessioni di scavo’ (un sistema pa-lesemente in contrasto con gli artt. 9 e 33 della Costituzione) e il passaggio a accordi convenzionali pluriennali.

A tale proposito la Commissione si augura che sia possibile prose-guire il lavoro avviato e che il futuro Governo consolidi ulterior-mente e attui le riforme realizzate negli ultimi anni. Auspica in particolare lo sviluppo dei rapporti di collaborazione sistematica tra i due Ministeri, anche grazie alla costituzione di una Commis-sione permanente tra i due Consigli, e, in particolare, ad un’azione più efficace del Comitato di Indirizzo e Attuazione del Protocollo del 19 marzo 2015.

Allegati alla relazione1. Relazione della Commissione Speciale sul Patrimonio Culturale CUN La formazione universitaria attinente ai Beni Culturali

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2. Alcuni profili professionali dei Beni Culturali3. Bozza di accordo di programma MIUR-MiBACT4. Verbali della Commissione

Roma, 5 febbraio 2018

Per la CommissioneProf. Carla Barbati Prof. Giuliano Volpe

Commissione mista MIT-MiBACT (Atto di indirizzo finalizzato all’aggiornamento delle Linee guida per la valutazione e riduzi-one del rischio sismico del patrimonio culturale)1. PremessaLa politica di prevenzione (ossia valutazione e riduzione) del ri-schio sismico del patrimonio culturale deve contemperare e inte-grare le esigenze di conservazione e di tutela attiva, con quelle del-la sicurezza e pubblica incolumità, e della sostenibilità economica e ambientale degli interventi; ciò in linea con quanto già espresso in documenti e norme internazionali e nazionali1 e allo scopo di assicurare la concreta fattibilità della politica di prevenzione o, almeno, di definire una scala di priorità nella realizzazione degli

1  Icomos: Declaration of Assisi, 2000; Unesco: Dichiarazione universale sulla diversità culturale, 2001; Icomos Charter: Principles for the Analysis Conservation and Structural Restoration of Architectural Heritage, 2003 e le relative Guidelines; D. Lgs. 42/2004 e ss. mm. e ii. Codice dei beni culturali e del paesaggio; ISO/CD 13822: Bases for design of structures – Assessment of existing structures – Annex I – Heritage structures, 2008; DPCM: Valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale, 9 febbraio 2011; Consiglio Superiore LL.PP.: Studio propedeutico all’elaborazione di strumenti d’indirizzo per l’applicazione della normativa sismica agli insediamenti storici, 2012; Icomos: Declaration of Florence- Heritage and Landscape as Human Values, 2014; MiBACT: Linee d’indirizzo metodologiche e tecniche per la ricostruzione del patrimonio culturale danneggiato dal sisma del 24 agosto 2016 e seguenti; Consiglio Superiore LL.PP.: Norme Tecniche per le Costruzioni, 17 gennaio 2018, (NTC18) e relativa circolare.

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interventi che, in relazione alla disponibilità delle risorse econo-miche, consenta alla pubblica amministrazione competente una programmazione di breve e medio periodo.Tali esigenze devono essere garantite da una cultura del territo-rio ad esse appropriata, fondata sulla conoscenza del patrimonio culturale, anche nelle sue diverse tradizioni di risposta al rischio sismico, e sulle metodologie dell’analisi strutturale e delle tecni-che di prevenzione sismica, secondo un approccio di tipo multidi-sciplinare da adottare e mantenere in tutte le fasi di un intervento, non solo in quella progettuale, ma anche in quella autorizzativa e in quella realizzativa. Ciò dovrà comportare un’indispensabile e auspicabile diffusione, tra tutti gli operatori del settore, della co-noscenza dei principi e degli obiettivi delle norme in questione.Qualsiasi tipo d’intervento di riduzione del rischio sismico pre-suppone, infatti, una conoscenza approfondita del manufatto su cui si intende intervenire, sotto il profilo storico, architettonico, tipologico, strutturale, nonché materico (anche dal punto di vista della stratigrafia degli elevati, secondo le procedure dell’arche-ologia dell’architettura, e della padronanza tanto delle diverse espressioni locali delle tecniche tradizionali e della loro adozione secondo la “regola dell’arte”, quanto dei presidi antisismici adot-tati nel tempo nei diversi contesti storico-geografici e della loro efficacia). A meno che non si tratti di edifici isolati, tale conoscenza deve essere completata da quella relativa all’aggregato in cui il manufatto è inserito e quindi all’ambito urbano storico a cui esso appartiene (anche dal punto di vista della comprensione delle in-varianti territoriali dei paesaggi storici e delle invarianti proces-suali degli insediamenti urbani, nonché delle pratiche antisismi-che adottate nel tempo a questa scala). Ciò rende fondamentale, come già raccomandato, la scelta di un approccio metodologico multidisciplinare di tipo sistemico, esteso anche alle discipline urbanistiche, basato sul concetto di “vulne-rabilità sismica urbana”, che comporta l’introduzione di principi e categorie applicabili all’ambito urbanistico a partire dalle cate-gorie utilizzate nelle Norme Tecniche per le Costruzioni, D.M. 17

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gennaio 2018 (NTC18), con il conseguente innesco di nuovi pro-cessi conoscitivi e valutativi.L’obiettivo finale verso cui tendere dovrebbe essere, pertanto, quello della promozione di una strategia di prevenzione sismica attiva, non soltanto a livello di singoli beni culturali o di singoli aggregati, ma di interi insediamenti storici, concepiti anche, nel loro insieme morfologico e funzionale, come componente vitale dei centri urbani. A tale proposito è necessaria la piena consapevolezza, da parte di tutti i soggetti a diverso titolo convolti, di alcuni assunti di base: la sicurezza delle costruzioni è un concetto probabilistico e i limiti imposti ad una costruzione “sicura”sono convenzionali; per que-sto motivo è più corretto parlare di riduzione del rischio a livelli accettabili per la comunità, anche in termini di livelli di sicurezza. In tale contesto, il ‘miglioramento’ sismico, rispetto all’‘adeguamen-to’, non costituisce un approccio riduttivo, anzi può risultare quel-lo più adatto alla complessità e alle particolarità degli edifici stori-ci. Tali principi dovranno essere oggetto di opportune iniziative di divulgazione e sensibilizzazione della cittadinanza.Si tratta di principi che richiedono, per poter essere attuati, ca-pacità ed esperienza dei professionisti e dei funzionari pubblici interessati, in possesso di profili di competenza che consentano loro di praticare, ciascuno nel proprio ruolo, un approccio multidi-sciplinare in tutte le fasi d’intervento (progettuale, autorizzativo, realizzativo) in linea con le finalità già espresse. In quest’approccio sistemico devono inserirsi anche le peculiari esigenze legate agli interventi di messa in sicurezza, restauro, con-solidamento e riduzione del rischio sismico per il costruito arche-ologico, che non sempre si adattano all’applicazione delle norme vigenti in materia.Ferma restando l’attenzione alla salvaguardia della vita umana, che riguarda tutto il costruito e non solo i beni culturali, si può osservare come le nuove norme, opportunamente, seguano l’ap-proccio che per primo è stato adottato proprio per i beni culturali, relativamente alla ‘sostenibilità’, riferita sia agli aspetti economici sia agli aspetti conservativi. La perdita di valore storico-artistico

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è equiparabile a un ‘costo’ per la comunità, rappresentando un ‘prezzo’ che, definendone i limiti, si è disposti a pagare per au-mentare la sicurezza evitando così, in molti casi, di pagare il ‘prez-zo’, ben maggiore, della perdita completa.Nel successivo paragrafo vengono indicati gli obiettivi che l’ag-giornamento delle Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale deve perseguire. Nei pa-ragrafi 3, 4, 5 si cerca di delineare un quadro di riferimento più ge-nerale e ideale nel quale le nuove linee guida dovrebbero operare, con un obiettivo complessivo di mitigazione del rischio sismico dei beni tutelati e del patrimonio diffuso.

2. ObiettiviPer valutare, a fronte di azioni sismiche, la domanda agente sul patrimonio culturale e la corrispondente capacità, si utilizza l’ap-proccio adottato nelle NTC18; questo, che pure costituisce il riferi-mento principale, richiede specifiche declinazioni.Sono dunque utilizzabili, anche per il patrimonio culturale, il con-cetto di rischio sismico e il concetto di sicurezza antisismica.Per rischio sismico di un qualsiasi elemento esposto, non solo bene culturale, si intende la probabilità di perdita totale o parziale dell’elemento per effetto di eventi a loro volta caratterizzati da probabilità di accadimento. L’elemento a rischio può essere una costruzione, ovvero le persone oppure i beni in essa contenuti, nonché le attività che vi si svolgono. Il concetto di rischio è perciò molto ampio ed è riferito a qualsiasi cosa un evento, in particolare un terremoto, possa direttamente o indirettamente danneggiare. Il concetto di rischio, poi, può a sua volta essere esteso a più elemen-ti, ad esempio a più costruzioni, ad agglomerati urbani, a intere aree costruite, e così via.Quello che qui interessa è il rischio sismico: 1. di una costruzione, che è anche bene culturale (chiesa, palazzo, etc.), la quale, per effetto del movimento del terreno e delle forze d’inerzia da esso indotte nella costruzione stessa, può danneggiar-si fino a crollare (non si considera il caso di danni prodotti da ef-fetti cosismici, come frane e liquefazione dei terreni, maremoti, e

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altri effetti a cascata che possono determinare danni, indipenden-temente dalle vibrazioni indotte dal moto del suolo); 2. delle persone che possono essere all’interno o nella vicinanza della costruzione, e quindi subire conseguenze fisiche per effetto di crolli parziali o totali di essa; 3. dei beni artistici contenuti in aderenza (ad es. affreschi, stucchi, etc.), al suo interno o in vicinanza, che possono essere danneggiati o distrutti per effetto dei danni e del crollo di parte o di tutta la costruzione; 4. delle attività che vi si svolgono (ad es. attività liturgiche, attività museali, etc.).Per una costruzione che non è bene culturale il danno è quantifi-cabile, in termini economici, come costo della riparazione, spesso espresso in termini percentuali rispetto al costo di ricostruzione (v. LL.GG. Sisma Bonus). Altrettanto può dirsi per le attività che vi si svolgono, se hanno valore economico, per cui le perdite sono ri-conducibili anche ai costi dell’interruzione delle attività (che però possono avere risvolti più complessi).Ciò consente di utilizzare il rischio per decidere, attraverso un’A-nalisi Benefici-Costi (ABC), la strategia di intervento economica-mente più conveniente. La valutazione della sicurezza delle costruzioni fornisce una rap-presentazione semplificata e solo puntuale del rischio della costru-zione e dei suoi contenuti; il rischio, infatti, è una quantità integra-le, da leggere nel suo complesso e, dunque, sintetica. Nelle NTC18, la sicurezza è riferita alla probabilità di superamen-to di diversi stati limite, SLO, SLD, SLV e SLC, che si esprimono attraverso predeterminati valori di parametri di risposta (sposta-menti, sollecitazioni, deformazioni, etc.), in corrispondenza dei quali la costruzione raggiunge un ipotizzato livello di danneggia-mento, fino al collasso totale. La valutazione della sicurezza di una costruzione effettuata secondo norma, dunque, non fornisce una valutazione diretta (economica o no) del danno alla costruzione e ai suoi contenuti (persone, beni e attività), ma fa riferimento a del-le condizioni (stati limite), il cui raggiungimento è valutabile attra-verso modelli di simulazione più o meno sofisticati e complessi,

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superate le quali si verificano danni più o meno rilevanti che pos-sono (SLO) inibire l’operatività della costruzione, (SLD) risultare significativi in termini economici, (SLV) costituire una minaccia per l’incolumità delle persone, (SLC) determinare il crollo della costruzione e, dunque, la perdita sostanziale della costruzione e dei suoi contenuti.Un ulteriore passaggio, da una valutazione di sicurezza a una va-lutazione di rischio inteso come probabilità di perdita, può effet-tuarsi associando a ciascuno stato limite perdite monetarie, perdite umane (ferimenti e decessi), perdite di valore (non necessariamen-te economico) dei beni. Tale associazione deriva dal confronto dei valori dei suddetti parametri derivanti dai modelli di calcolo con, soprattutto, statistiche di effetti prodotti da terremoti del passato, esperimenti di laboratorio o simulazioni numeriche. A ciascuna perdita corrisponderà una probabilità di accadimento pari a quel-la del terremoto che determina il superamento del corrispondente stato limite. Questa è la modalità con cui si è definita la procedura, contenuta nelle LLGG per il Sisma Bonus, per la determinazione delle Perdite Annuali Medie (PAM) e la corrispondente assegna-zione della classe di rischio.In particolare, nella valutazione del rischio sismico, inteso come combinazione di tre fattori pericolosità, vulnerabilità, esposizione, valgono le considerazioni successive.La pericolosità sismica, intesa come probabilità di accadimento di eventi sismici di data intensità, è quella indicata dalle vigenti NTC18.La vulnerabilità sismica, riferita alle costruzioni, prima e dopo gli in-terventi per la sua riduzione, si esprime come probabilità di subire un certo livello di danno per un terremoto di data intensità. Facen-do riferimento al significato di sicurezza sopra espresso, la vulne-rabilità sismica degli edifici tutelati si valuta, oltre che in base alle vigenti NTC18 e alla relativa circolare, utilizzando le Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale; rispetto a quelle già emesse (DPCM 9 febbraio 2011), il cui impianto rimane a tutt’oggi condivisibile, si rileva la necessità

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di un aggiornamento in relazione al mutato quadro normativo di riferimento e in considerazione degli obiettivi nel seguito esposti.L’esposizione si lega al numero di persone che frequentano il bene e, a differenza che per le altre costruzioni, al valore culturale ad esso attribuito.L’esposizione legata al numero di frequentatori, sarà espressa at-traverso classi d’uso (come già si fa per le nuove costruzioni) e verrà utilizzata per incrementare, al crescere del numero di visita-tori, il valore di riferimento della domanda sismica da considerare per il bene. L’esposizione legata al valore culturale sarà frutto di una valuta-zione critica di carattere qualitativo, da esprimere caso per caso, applicando criteri comparativi.Nel valutare la sicurezza antisismica del patrimonio culturale, i concetti di:- rischio sismico del bene (auspicabilmente suddiviso in classi);- sicurezza antisismica del bene (intesa come sua sopravvivenza al sisma, anche se con danni gravi purché riparabili);- sicurezza antisismica dei frequentatori del bene (visitatori, ad-detti, utenti ...);devono essere sistematicamente distinti e trattati, almeno in una prima fase, separatamente in quanto possono portare a conclusio-ni diverse, sia in termini di strategie, sia in termini di interventi2.

2  Per comprendere meglio tale distinzione si prendano in considerazione due architetture sostanzialmente identiche quanto a localizzazione, progettazione e struttura (come le chiese gemelle in Piazza del Popolo a Roma) ma, ipoteticamente, fornite di contenuti artistici assai diversi come qualità e interesse. In termini di progettazione (dunque di Vita Nominale VN) è ragionevole pensare che siano identiche. In termini di sicurezza antisismica del bene (intesa come sua sopravvivenza al sisma) avrebbero VR identico e dunque sarebbero identiche; in termini di sicurezza antisismica dei frequentatori potrebbero risultare diverse in conseguenza della classe d’uso, che si lega al rischio ….In termini di rischio, in funzione dei contenuti, degli arredi, degli eventuali affreschi, potremmo attribuire loro un valore assai diverso. La chiesa di valore maggiore sarebbe anche la più visitata (dunque potrebbe avere una classe d’uso più alta) ma, a parte questa considerazione già segnalata, sarebbe quella su cui intervenire prima o,

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Il Rischio sismico del bene verrà utilizzato per definire, in regime di risorse limitate, l’ordine di priorità degli interventi e l’entità di ciascun intervento. Gli interventi che verranno realizzati sui beni culturali dovranno, in ogni caso, comportare un miglioramento rispetto alla situazione ante operam e, auspicabilmente, tendere al raggiungimento della classe di rischio minimo definita come Clas-se A.Non si tratta tuttavia della stessa classificazione adottata per il “Si-sma Bonus”, ma di diverso ambito di definizione di priorità che sarà adeguato alla specifica natura dei beni culturali.Uno dei parametri della classificazione è il livello di sicurezza an-tisismica del bene di riferimento che, per la classe di rischio A, è pari al 60% del livello di sicurezza allo SLV richiesto alle nuove costruzioni.È opportuno condividere il seguente principio generale:- la sicurezza antisismica del bene (intesa come sua sopravvivenza al sisma, anche se con danni gravi purché riparabili) è intesa, an-che alla luce del Codice dei Beni Culturali, come una componente necessaria della conservazione del bene e con i principi di questa deve interagire; le esigenze di sicurezza delle persone e la con-servazione debbono essere armonizzate e, qualora la peculiarità del bene e/o le limitate risorse non consentano il raggiungimento della classe A anche in relazione alla sicurezza delle persone, va studiato un percorso mirato a condividere e accettare le responsa-bilità, ponendole in capo alla società nel suo complesso attraverso indicazioni normative e limitando consapevolmente quelle dei singoli attori.Va ribadito e accettato che “la sicurezza assoluta non è perseguibile”, e che pertanto il tema da proporre al dibattito politico e alla collet-tività è l’“aumento della sicurezza” e la contemporanea “riduzione del rischio” rispetto alla condizione attuale.In questo senso, l’obiettivo prioritario, anche delle Linee Guida,

comunque, investire di più per ridurne il rischio, ovviamente in accordo con i principi di intervento fissati.

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viene individuato nel favorire la massima riduzione del rischio consentita dalle esigenze di tutela e dalle risorse disponibili.Per quanto attiene specificamente l’aggiornamento delle Linee Guida, di cui come detto si conferma la complessiva validità tecni-co-culturale, si individuano i seguenti obiettivi:- semplificare il testo rispetto alla versione attuale, ricercando una maggiore leggibilità;- fare maggiore chiarezza possibile in tema di sicurezza struttu-rale;- approfondire la metodologia per la valutazione dello SLA, anche con il coinvolgimento dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure;- rendere operative indicazioni specifiche per “tipologie speciali”, in particolare per le chiese.In relazione al “tessuto storico edilizio diffuso”, si propone di sviluppare un approccio che, all’interno del quadro delle vigenti NTC18, ricerchi connessioni e sinergie con le norme applicative del “Sisma Bonus” quando riferite al patrimonio storico, anche non tutelato. In particolare, il “Sisma Bonus” e le NTC18 hanno rivalutato il ruolo dell’”intervento locale”. Anche per favorire la diffusione e l’uso efficace delle risorse nei contesti storici, si osserva come esista uno spazio, da più parti de-lineato, tra la “riparazione e intervento locale” e il “miglioramento”, inteso come quota percentuale dell’“adeguamento”.In merito a questo, nell’aggiornamento delle Linee Guida, si pro-pone di approfondire una impostazione progettuale che:- elevi il grado di unitarietà e sistematicità delle singole opere di riparazione e intervento locale;- riduca le forme di vulnerabilità riconosciute e individuabili, contrastando l’evoluzione dei relativi danni attesi, con priorità a quelli che con maggiore probabilità possono generare il “primo crollo”e quelli che possono indurre crolli sistematici;- agisca senza necessariamente ricorrere a modellazioni di calcolo di insieme, e si presti ad essere valutato parametricamente attra-verso il rapporto tra criticità presenti e criticità contrastate dall’in-tervento;

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- tragga, in questo, riferimento anche dagli apparati schedografici di raccolta dei dati ai fini della valutazione della vulnerabilità e del danno, messi a punto e diffusamente applicati in questo campo.In questo contesto, nella revisione delle Linee Guida, sarà neces-sario specificare maggiormente gli obiettivi e i contenuti della co-noscenza, che danno luogo ai “fattori di confidenza” e alla relativa “struttura premiale”.In particolare la storia di una costruzione (analisi storico-critica) si riflette concretamente sul livello di efficienza e sulle sue criticità, dando origine a:- continuità/discontinuità delle connessioni tra membrature;- omogeneità/disomogeneità delle strutture murarie e degli oriz-zontamenti;- unitarietà/molteplicità della concezione costruttiva e strutturale, e sua sussistenza nella fabbrica a seguito delle modificazioni nel tempo;- presenza di una “storia di danno e riparazione”, alla quale vanno ricondotti, per entità e natura, gli episodi di dissesto statico e si-smico che l’edificio ha subito nelle sue diverse fasi e gli interventi di riparazione.Nel campo del patrimonio culturale questa forma di conoscenza è necessaria, anche se non sufficiente, e deve costituire il quadro di riferimento per tutte le verifiche e gli approfondimenti diagnostici previsti nei fattori di confidenza, pena la riduzione di significati-vità degli esiti.Si propone inoltre di ricercare e favorire connessioni con le atti-vità di messa in sicurezza post-sisma, ora codificate dal Manuale STOP, redatto dal Corpo Nazionale VV.FF. e diffusamente utiliz-zato dopo eventi sismici. In merito a questo, va ricordato che la ricerca di una maggiore durabilità delle opere provvisionali è l’o-biettivo di una revisione in corso del Manuale stesso; questo può aprire il campo, concettualmente nuovo, di “opere provvisionali stabili”, o comunque di lunga durata, anche in funzione preven-tiva, in particolare per il contrasto del “primo danno atteso” nelle costruzioni.Va tenuto conto che il prossimo aggiornamento delle Linee Guida

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rappresenta un’importante occasione per riflettere su alcune rile-vanti criticità emerse, anche sulla base dei riscontri significativi possibili a seguito di tre importanti eventi sismici (L’Aquila 2009, Emilia 2012, Italia Centrale 2016); la possibilità di osservare, siste-maticamente e su base ampia, il comportamento in questi sismi di edifici storici che erano già stati oggetto di interventi dopo terre-moti del passato recente, deve portare a privilegiare, in base all’e-sperienza, gli interventi che abbiano dimostrato maggiore effica-cia e spingere alla ricerca di soluzioni anche innovative, purché adeguatamente validate e testate, qualora si constati l’inefficacia delle tecniche usualmente adottate.

3. La tutela del patrimonio diffusoIn linea con quanto evidenziato appare fortemente auspicabile che l’approccio delle Linee Guida per la valutazione e riduzione del ri-schio sismico del patrimonio culturale, tutelato ai sensi della Parte Seconda del Codice dei Beni Culturali, venga esteso in una visione unitaria al più vasto complesso dell’edificato storico, anche indi-pendentemente dalla sua eventuale inclusione nell’ambito della tutela paesaggistica prevista dalla Parte Terza del Codice.L’esigenza della conservazione e della tutela, infatti, non può es-sere rivolta soltanto ai singoli beni tutelati, ma va riferita anche al tessuto edilizio cosiddetto “minore”, al complesso delle relazioni che lega i singoli episodi architettonici d’importanza storica e do-cumentaria gli uni agli altri e, nel loro insieme, al territorio e al paesaggio in cui sono inseriti, in quanto testimonianze materiali aventi valore di civiltà. Ne sono parte integrante, quando presenti, chiese, palazzi, castelli, teatri ecc., e più in generale i beni dichiara-ti d’interesse e tutelati ai sensi di legge. Solo operando in questo modo sarà possibile salvaguardare la qualità che da sempre caratterizza questi beni e il paesaggio di cui sono parte. La qualità specifica dell’abitare e il valore identitario di quei luoghi sono, infatti, assicurati dalla permanenza dei tracciati storici, dei volumi, della configurazione architettonica, delle tradi-zioni costruttive, delle relazioni tra spazi pubblici e privati, sotto il profilo sia della percezione dello skyline, sia del mantenimento

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del rapporto tra insediamento e territorio. Da ciò deriva l’esigenza della conservazione dell’originario tessuto urbano ed edilizio de-gli insediamenti storici e, al contempo, la necessità di conseguire, anche in tali ambiti, adeguati livelli di sicurezza nei confronti delle azioni sismiche.

4. La correlazione positiva tra risorse, efficienza, sicurezza Attesa la capillarità e pervasività territoriale del patrimonio cultu-rale del Paese, onde scongiurare ridondanze e relative inefficien-ze in particolare ulteriori aggravi in termini di tempi e costi- si richiama l’attenzione sulla necessità di promuovere e perseguire risposte di precisione, preferibili ad approcci ispirati a logiche estensive. Sotto questo profilo, si raccomanda di coniugare stretta-mente esigenze di sicurezza e di conservazione con criteri di scelta di ordine economico.Al fine quindi di rendere più efficienti e mirati le attività di vigi-lanza, le indagini, gli studi, le verifiche, nonché il contesto pro-grammatico, la progettazione, il finanziamento e l’attuazione de-gli interventi, si pone la necessità di predefinire criteri per l’indivi-duazione delle priorità di intervento. I procedimenti di controllo e gli interventi si intendono perciò graduati e differenziati, distinguendo preliminarmente i fattori di strategicità del bene, le condizioni di rischio potenzialmente più critiche, unitamente all’esame dei profili di costo. Si parte quindi dall’individuazione di criteri di priorità che tengano conto degli scenari di riferimento al fine di una migliore regolazione della di-screzionalità insita in approcci troppo puntuali o “per progetto”.

5. Strategie e strumenti a carattere macroUna tassonomia di sistema, comprensiva sia del sistema patrimo-nio culturale, sia del sistema paesaggistico è lo strumento di ri-composizione verso l’alto dei processi di messa in sicurezza. Nella individuazione delle priorità si dovrà tenere presente la strategicità in termini di contenuti, livelli di attrattività, inseri-mento nel territorio, fruibilità degli edifici anche di culto, palazzi/musei, castelli, strutture fortificate, aree e parchi archeologici, mu-

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sei, lacerti in muratura, finanche aree Mab, percorsi e loro punti di accoglienza segnatamente ascrivibili al sistema paesaggistico.In questa prospettiva, dal tronco della tassonomia di sistema pos-sono altresì dipartirsi le coordinate per orientare gli interventi ver-so le fattispecie opzione zero, opzione minima (puntellamenti o miglioramento), e massima (adeguamento).Per quanto riguarda la scelta opzione zero, nel caso di beni affe-renti a spazi ad elevata pericolosità/vulnerabilità/esposizione al rischio e di cui l’Analisi Benefici Costi (ABC) evidenziasse diseco-nomicità e/o inutilità di qualsiasi azione di messa in sicurezza, va considerata anche l’ipotesi di interdizione al pubblico della frui-zione con conseguente rimozione, trasferimento e aggregazione degli stessi in struttura alternativa.

La commissione, coordinata da Massimo Sessa e Giuliano Volpe, è stata composta da Franco Braga, Edoardo Cosenza, Antonio Bor-ri, Mauro Dolce, Pietro Croce, Ivo Vanzi, Mario Avagnina, Elisa-betta D’Antonio, Emanuele renzi Giovanni Lucarelli (per il MIT), Giovanni carbonara, Francesco Doglioni, Claudio Modena, Elisa-betta pallottino, Alessandra Marino (per il MiBACT); cfr. http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documen-ts/1526551285629_MIT_MiBACT_FINALE_1.pdf.

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INDICE

Ancora sul patrimonio culturale? 7

Per cominciare, un breve bilancio (provvisorio) 21Un bilancio di anni di grandi cambiamenti, 23

Una difficile stagione di riforme 41In nome dell’articolo 9, 43 - Un dialogo su patrimonio culturale, riforme e democrazia, 53 - Soprintendenze più vicine ai territo-ri: il caso della Daunia, 67 - Assunzioni, risorse e stabilità: ecco cosa serve ora ai Beni Culturali, 71 - No a percorsi preferenziali nei beni culturali, 73 - Bonisoli non smantelli le riforme del patri-monio culturale di Franceschini, 75 - Assumere per i beni culturali è necessario, ma come?, 78 - Qualcuno vuole abbassare l’asticella della qualità scientifica del MiBAC, 82 - Liberalizziamo finalmente l’uso delle foto dei beni culturali, 84 - Poco spazio per la cultura nella manovra. Ministro Bonisoli, pretenda di più, 88 - Intervista: Per una nuova visione del Patrimonio culturale, 90 - Intervista: Un amico del Festival del Giornalismo Culturale 2017, 100.

Il matrimonio tra patrimonio e cittadini 107La Convenzione di Faro introduce il concetto di eredità-patrimon-io culturale, 109 - Non si interrompa il ‘miracolo’ di san Gennaro!, 113 - Dalle Catacombe di Napoli agli “Stati Generali della gestione del patrimonio culturale dal basso”, 118 - Una piccola bella vicen-da di partecipazione, 121.

Il paesaggio siamo noi 131Nel futuro si va Piano, 133 - Legalità e inclusione sociale: verso il diritto a paesaggi di qualità, 137; «Il paesaggio è la forma del pae-se», 147 - Intervista: Non sono un passatista, 155.

Amiamo le persone almeno quanto amiamo le cose 161Comunicare il patrimonio archeologico: comunità e promozione sociale, 163 - Sangue e arena, 178 - Parco del Colosseo. Mettiamo da parte le strumentalizzazioni, 182 - Pompei, da Caporetto a mo-

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dello per l’Italia, 185 - Porte aperte ai giovani per rilanciare gli Scavi di Pompei, 188 - La ricerca non ha mai fine, 191 - Il Teatro di Taormina, un monumento straordinario e un suggestivo spazio per spettacoli in un paesaggio mozzafiato, 194 - La valutazione la facciano gli studiosi, i visitatori e i cittadini. Non il TAR!, 201 - Intervista: «Una sentenza-choc. Rischiamo il blocco dei musei», 206 - Il MArTa tra i grandi musei autonomi, 210 - Così rinasce un museo, 214 - In difesa del Museo Egizio, 218 - SOS musei part time?, 221 - Che fine per i musei e le biblioteche ex provinciali?, 225 - L’incendio del sito archeologico di Faragola e la necessità di reagire, 229 - Faragola, un anno dopo l’incendio, 233 - Andare oltre le domeniche gratuite nei musei, non eliminarle, 236 - Intervista: Stop ai musei gratis la domenica?, 240 - Il predatore dell’arte per-duta, 245 - Se la ‘tutela’ rischia di essere nemica dei cittadini, 251.

Archeologia al futuro 257Per un’archeologia al futuro: globale, pubblica, partecipata, 259.

Il patrimonio culturale di un Paese fragile 273In Italia manca una cultura della prevenzione anche nel campo del patrimonio culturale, 275 - Non facciamo polemiche strumentali sul disastro del patrimonio culturale, 278 - Un sindaco in prima linea per salvare il patrimonio culturale, 281 - “Il patrimonio cul-turale è il futuro dei territori colpiti dal terremoto”, 284 - Non c’è conservazione senza sicurezza. Non c’è sicurezza senza preven-zione e manutenzione ordinaria, 286.

Cultura, turismo, sviluppo locale 289Il turismo italiano senza cultura?, 291 - Agrituristi Indiana Jones, 295.

La ricerca e i ‘policlinici del patrimonio culturale’ 299I “policlinici del patrimonio culturale”, 301 - Formazione e tutela del patrimonio culturale, un filo spezzato da riannodare, 304

Appendice. Mozioni e documenti del Consiglio superiore ‘Beniculturali e paesaggistici’ (anni 2014-2018) 307

Bibliografia generale 377

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Stampato da Arti Grafiche Faviaper conto di edipUglia

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1.LE VIE MAESTRE

di Giuliano VolpeEd. 2013, f.to 12x17, pp. 264, ill. b/n e col., € 12,00

2.L’ITALIA AGLI ITALIANI

Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturaledi Daniele Manacorda

Ed. 2014, f.to 12x17, pp. 152, € 12,00

3.ROTTE MURGIANE

a cura di Luisa Derosa e Maurizio TriggianiEd. 2016, f.to 12x17, pp. 160, ill. b/n, € 12,00

4.L’ERADICAZIONE DEGLI ARTROPODI

La politica dei beni culturali in Siciliadi Mariarita Sgarlata

Ed. 2016, f.to 12x17, pp. 304, ill. b/n e col., € 16,00

5.QUASI GIALLO

Romanzo di archeologiadi Enrico Giannichedda

Ed. 2018, f.to 12x17, pp. 340, € 16,00

6.RACCONTI DA MUSEO

Storytelling d’autore per il museo 4.0a cura di Cinzia Dal Maso

Ed. 2018, f.to 12x17, pp. 248, ill. b/n, € 16,00

7.IL PATRIMONIO CULTURALE DI TUTTI, PER TUTTI

a cura di Caterina IngogliaEd. 2018, f.to 12x17, pp. 278, ill. b/n, € 16,00