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Gli anni ’80 furono caratterizzati, su tutto il pianeta, da un inasprimento delle tensioni della guerra fredda e da guerre per procura nei paesi in via di sviluppo. Nel corso del decennio, le superpotenze intervennero in conflitti locali che avrebbero potuto essere di piccole dimensioni e di breve durata, ma che invece subirono una escalation, dando luogo a massicci esodi di popolazione. Nel presente capitolo ci si concentrerà su tre regioni in cui si verificarono crisi di rifugiati di grandi dimensioni: il Corno d’Africa, l’Afghanistan e l’America centrale. L’Unhcr svolse un ruolo di primaria importanza, intervenendo in ciascuna di esse. Sebbene alcuni dei conflitti descritti nel capitolo fossero già iniziati negli anni ’70, o ancora prima, qui si porrà l’accento sugli anni ’80. Nel Corno d’Africa, una serie di guerre, aggravate dalla carestia, costrinsero milioni di persone, in vari momenti, ad abbandonare le loro case. In Afghanistan, un nuovo conflitto di vaste proporzioni, in una regione di grande importanza strategica, obbligò oltre sei milioni di persone a cercare rifugio nei paesi limitrofi. In America centrale, tre guerre diverse provocarono l’esodo di oltre due milioni di abitanti. Tali crisi di rifugiati presentarono complesse sfide sia per i paesi ospitanti che per la comunità internazionale. Per la prima volta, l’Unhcr si trovò a dover reagire a emer- genze di rifugiati molteplici e su larga scala, in tre continenti diversi contemporanea- mente. Per di più, l’organizzazione doveva agire sotto le particolari pressioni derivan- ti dal coinvolgimento delle superpotenze. Quasi tutti i finanziamenti, e buona parte del personale, venivano dai paesi occidentali. Poiché molte delle consistenti popola- zioni rifugiate degli anni ’80, fra cui gli afghani, gli etiopi e i nicaraguensi, fuggiva- no da paesi con governi comunisti o socialisti, gli occidentali avevano anche interessi d’ordine geopolitico nel finanziare i programmi dell’Unhcr. Nel frattempo, il blocco sovietico, che considerava l’Onu essenzialmente filo-occidentale, non sosteneva né finanziava l’Unhcr. Negli anni ’80, con l’insorgere di crisi di rifugiati su scala mondiale, il bilancio dell’organizzazione aumentò vertiginosamente. Nel 1975, in tutto il mondo c’erano 2,8 milioni di rifugiati, e il bilancio dell’Unhcr era attestato su circa 76 milioni di dol- lari. Alla fine degli anni ’80, la popolazione rifugiata era passata a poco meno di 15 milioni di persone, e il bilancio dell’Unhcr era salito a oltre 580 milioni di dollari. In quegli anni, l’organizzazione fornì assistenza a un livello molto maggiore che in pre- cedenza, e uno dei principali problemi fu quello della gestione di grandi campi pro- fughi. Come già in Indocina, per l’Unhcr un’altra grave preoccupazione fu rappresen- tata dalla presenza di elementi armati nei campi. 5 Le guerre per procura in Africa, Asia e America centrale

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Gli anni ’80 furono caratterizzati, su tutto il pianeta, da un inasprimento delle tensionidella guerra fredda e da guerre per procura nei paesi in via di sviluppo. Nel corso deldecennio, le superpotenze intervennero in conflitti locali che avrebbero potuto esseredi piccole dimensioni e di breve durata, ma che invece subirono una escalation, dandoluogo a massicci esodi di popolazione. Nel presente capitolo ci si concentrerà su treregioni in cui si verificarono crisi di rifugiati di grandi dimensioni: il Corno d’Africa,l’Afghanistan e l’America centrale. L’Unhcr svolse un ruolo di primaria importanza,intervenendo in ciascuna di esse.

Sebbene alcuni dei conflitti descritti nel capitolo fossero già iniziati negli anni ’70,o ancora prima, qui si porrà l’accento sugli anni ’80. Nel Corno d’Africa, una serie diguerre, aggravate dalla carestia, costrinsero milioni di persone, in vari momenti, adabbandonare le loro case. In Afghanistan, un nuovo conflitto di vaste proporzioni, inuna regione di grande importanza strategica, obbligò oltre sei milioni di persone acercare rifugio nei paesi limitrofi. In America centrale, tre guerre diverse provocaronol’esodo di oltre due milioni di abitanti.

Tali crisi di rifugiati presentarono complesse sfide sia per i paesi ospitanti che perla comunità internazionale. Per la prima volta, l’Unhcr si trovò a dover reagire a emer-genze di rifugiati molteplici e su larga scala, in tre continenti diversi contemporanea-mente. Per di più, l’organizzazione doveva agire sotto le particolari pressioni derivan-ti dal coinvolgimento delle superpotenze. Quasi tutti i finanziamenti, e buona partedel personale, venivano dai paesi occidentali. Poiché molte delle consistenti popola-zioni rifugiate degli anni ’80, fra cui gli afghani, gli etiopi e i nicaraguensi, fuggiva-no da paesi con governi comunisti o socialisti, gli occidentali avevano anche interessid’ordine geopolitico nel finanziare i programmi dell’Unhcr. Nel frattempo, il bloccosovietico, che considerava l’Onu essenzialmente filo-occidentale, non sosteneva néfinanziava l’Unhcr.

Negli anni ’80, con l’insorgere di crisi di rifugiati su scala mondiale, il bilanciodell’organizzazione aumentò vertiginosamente. Nel 1975, in tutto il mondo c’erano2,8 milioni di rifugiati, e il bilancio dell’Unhcr era attestato su circa 76 milioni di dol-lari. Alla fine degli anni ’80, la popolazione rifugiata era passata a poco meno di 15milioni di persone, e il bilancio dell’Unhcr era salito a oltre 580 milioni di dollari. Inquegli anni, l’organizzazione fornì assistenza a un livello molto maggiore che in pre-cedenza, e uno dei principali problemi fu quello della gestione di grandi campi pro-fughi. Come già in Indocina, per l’Unhcr un’altra grave preoccupazione fu rappresen-tata dalla presenza di elementi armati nei campi.

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I movimenti di rifugiati descritti nel presente capitolo non furono affatto gli unicidegli anni ’80. Esodi massicci di popolazione ebbero luogo anche in varie altre regio-ni: per esempio, dallo Sri Lanka verso l’India, dall’Uganda nel Sudan meridionale,dall’Angola nella Zambia e nello Zaire, e dal Mozambico in sei paesi confinanti diver-si [cfr. riquadro 5.2]. In ognuno di questi casi, l’Unhcr intervenne fornendo prote-zione e assistenza ai rifugiati.

Guerra e carestia nel Corno d’AfricaNegli ultimi anni ’70 e nei primi anni ’80, il Corno d’Africa fu teatro di numerosi movi-menti di rifugiati su vasta scala: la guerra, la carestia e gli esodi di massa richiamaronol’attenzione mondiale, mentre il coinvolgimento delle superpotenze attizzò i conflitti,ingigantendone le conseguenze. Molti etiopi, in parte originari dell’Eritrea – che allorafaceva parte dell’Etiopia – cercarono rifugio nel Sudan, in Somalia e a Gibuti, mentre ungran numero di sudanesi e di somali cercarono riparo in Etiopia.

Alla fine degli anni ’70, si verificò un drastico mutamento di alleanze tra Etiopiae Somalia e le superpotenze. Nel 1977, in Etiopia, il consolidamento del potere nellemani del tenente colonnello Menghistu Haile Mariam portò il paese a chiedere l’ap-poggio dell’Unione sovietica, rompendo con l’alleato tradizionale, gli Stati Uniti. Diconseguenza, questi aumentarono il loro sostegno ai governi del Sudan e dellaSomalia, con rilevanti conseguenze sui conflitti nell’area.

I rifugiati etiopici in SomaliaAlcuni movimenti su vasta scala di rifugiati dall’Etiopia verso la Somalia ebbero iniziogià alla fine degli anni ’70.Approfittando degli sconvolgimenti interni dell’Etiopia, nel

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Popolazioni rifugiate in Etiopia, Kenya,Somalia e Sudan, 1982–99

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Mili

oni

1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998

Sudan Somalia Kenya Etiopia

Fig. 5.1

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1977 il presidente somalo Siad Barre invase la regione etiopica dell’Ogaden.All’inizio,le forze somale ebbero qualche successo, ma quando l’Unione sovietica trasferì il pro-prio sostegno al regime marxista del presidente Menghistu, le forze etiopiche riusci-rono a respingere l’invasione e, all’inizio del 1978, le truppe somale furono ricaccia-te oltre il confine. Centinaia di migliaia di profughi di etnia somala dell’Ogaden, inEtiopia, temendo rappresaglie per la loro partecipazione all’ondata di violenze cheaveva preceduto l’invasione somala, fuggirono in Somalia. Altri 45mila raggiunsero lavicina Gibuti.

Nel 1979, il governo somalo chiese l’assistenza dell’Unhcr, e l’organizzazione loaiutò ad allestire e gestire grandi campi profughi. Nel breve termine, questi campi con-tribuirono a migliorare la situazione dei rifugiati, molti dei quali erano denutriti omalati, ma i problemi insiti nei campi di grandi dimensioni e sovraffollati si manife-starono sempre più chiaramente [cfr. riquadro 5.1]. I campi divennero così vasti dasuperare in estensione la maggior parte delle città somale. I rifugiati, perlopiù nomadi,avevano difficoltà ad adattarsi a una vita sedentaria. Per cercare di ridurre la loro dipen-denza dagli aiuti umanitari, l’Unhcr diede avvio ad alcuni progetti agricoli che ebbero,però, poco successo, soprattutto per la scarsezza di terre coltivabili e acqua.

I rapporti dell’Unhcr col governo somalo furono messi a dura prova dal “gioco deinumeri”.All’inizio, il governo somalo sosteneva che nel paese si trovavano 500mila rifugia-ti, mentre l’organizzazione riteneva che fossero solo 80mila. Dopo un secondo afflusso di

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250 500

Chilometri

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ETIOPIA

SOMALIA

GIBUTI

UGANDA

SUDAN

KENYAOCE

ANO I

NDIAN

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Mar Rosso

Confine di stato

Confine non definitivoConfine amministrativoMovimenti di rifugiati

LEGGENDACapitale di stato

Golfo di Aden

KHARTOUM

GIBUTI

ADDIS ABEBA

MOGADISCIO

KAMPALA

ERITREA

Principali flussi di rifugiati in Africa nordorientale, anni ‘80 Cartina 5.1

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Riquadro 5.1 Campi e insediamenti di rifugiati

I massicci esodi di rifugiati deglianni ’80 videro sorgere, nei paesiospitanti, grandi campi profughi ealtri tipi di insediamenti organizzati.In Africa, in particolare, larealizzazione di tali campi profughicominciò a rimpiazzare la precedenteprassi, consistente nel lasciare che irifugiati si mescolassero allapopolazione locale.

Ormai da parecchi anni, i campiprofughi sono oggetto di critichegeneralizzate. L’Unhcr, in particolare,è considerato responsabile sia dellapolitica che consiste nella lorocreazione, sia dei problemi in essiriscontrati. I critici sostengono che icampi sono pericolosi e inutili, eche si dovrebbero cercare alternativequali la sistemazione autonoma(vale a dire l’inserimento deirifugiati fra la popolazione locale) i.

Le caratteristiche dei campiprofughi

Non esiste una chiara definizione diche cosa esattamente caratterizzi un“campo profughi”. L’espressione èutilizzata per definire insediamentiumani molto diversi per dimensioni ecaratteristiche. In generale, si trattadi zone recintate, cui hanno accessoi rifugiati e coloro che li assistono,dove vengono fornite protezione eassistenza fino a quando i rifugiatipossono rimpatriare in pienasicurezza o essere reinsediati altrove.A differenza di altri tipid’insediamento, quali quelli agricolio i “villaggi di rifugiati” sorti inPakistan negli anni ’80 e ’90, disolito i campi profughi non sonoautosufficienti.

Di norma i campi sono destinati adessere temporanei, e sono costruiti inconseguenza. In molti casi, tuttavia,rimangono in piedi una decina d’annio anche più, causando nuovi problemi.Gli impianti idrici e le fogne spessonon sopportano un utilizzo prolungatoe, col crescere delle dimensioni dellefamiglie, i terreni destinati aglialloggi diventano troppo piccoli. In

molti campi, non c’è una sufficientedisponibilità di legna da ardere e irifugiati devono andarne in cerca fuoridei campi, provocando ildisboscamento e altri problemiambientali. Quando i problemisuperano i limiti dei campi,coinvolgendo anche la popolazioneospitante, i governi spesso impongonorestrizioni ai rifugiati, riducendo laloro libertà di movimento e di lavorofuori dei campi.

In molti campi profughi, uno deiproblemi più gravi sta nel fatto che leautorità non forniscono ai rifugiatiuna totale protezione, in particolareperché, in molti casi, i campi sitrovano all’interno o in vicinanza dizone di conflitto. Alla lunga, i campipossono diventare luoghi pericolosi,con un elevato tasso di criminalità,infestati dal traffico di armi e droga edalla presenza del crimineorganizzato. I rifugiati spesso visubiscono violenze domestiche eintimidazioni fisiche. A volte, deigruppi armati assumono il controllodei campi o li utilizzano come basi,come nel caso dei mujahedin inPakistan, dei contras in Honduras e,più di recente, degli interahamwenello Zaire orientale [cfr. riquadro10.1]. A mano a mano che i campiperdono il loro carattere civile,trasformandosi in covi di gruppiarmati, sono presi di mira dalle forzenemiche. In passato, i campi sonospesso stati bombardati, colpiti datiri d’artiglieria, presi d’assalto percatturare ostaggi, automezzi erifornimenti, e hanno visto gruppiarmati impegnati in una frenetica“caccia all’uomo”. In tali circostanze,i paesi ospitanti considerano i campiprofughi come un’accresciutaminaccia per la sicurezza eimpongono maggiori restrizioni airifugiati.

La sistemazione autonoma èpreferibile?

I critici accusano l’Unhcr di preferire icampi profughi alla sistemazioneautonoma, perché offrono le migliori

condizioni per la gestione deirifugiati e l’assistenza al rimpatrio.Affermano che i campi sono pericolosie inutili, e che si possono sempretrovare valide alternative. Una diqueste è la “sistemazione autonomaassistita”, in cui i rifugiati sonoaiutati a stabilirsi in mezzo allapopolazione locale. I criticiasseriscono che in tal modo i rifugiatistanno meglio, sono più al sicuro, piùliberi, e vivono in condizioni piùsopportabili che nei campi o in altriinsediamenti organizzati. L’assuntoimplicito è che, se avessero lapossibilità di scegliere, nonsceglierebbero mai di stabilirsinei campi.

A prima vista, può apparire ovvioche nessuno deciderebbe di vivere inun campo profughi se potesse viverealtrove. In molti casi, però, la realtàè più complessa. Le ipotesigeneriche su pretese condizioni divita migliori fuori dei campi nonsono adeguatamente corroborate daricerche pratiche. Non è affattocerto che i rifugiati che si sistemanodi propria iniziativa siano più alsicuro o se la passino meglio che neicampi. A seconda delle circostanze,quelli che vivono fuori dei campipossono incontrare una serie diproblemi di sicurezza ed economici,che vanno dalle minacce di unapopolazione locale ostile, agliattacchi di gruppi ribelli e alreclutamento forzato in tali gruppi.I rifugiati che si sistemanoautonomamente possono rischiare diessere radunati dalle autorità etrasferiti altrove, oppure costretti adandare in campi profughi, come èavvenuto a Karachi e Peshawar, inPakistan, a metà degli anni ’80.

Dal punto di vista del rifugiato, inrealtà il campo può rappresentareuna scelta più sicura, anchematerialmente, rispetto ad unasistemazione indipendente. Di fatto,i rifugiati e i loro leader spesso siorganizzano in insediamenti simili acampi profughi, ancora prima chel’Unhcr o un’altra organizzazioneumanitaria metta in piedi un

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programma di assistenza. Né si devedare per scontato che i campi sianosempre posti squallidi, deprimenti,popolati da vittime dipendenti epassive. Al contrario, in molti casisono luoghi pulsanti di attivitàsociale ed economica.

La maggioranza dei campi dimaggiori dimensioni si trasformanoin importanti zone di attivitàeconomica anche per la zonacircostante, con animati mercati,ristoranti e altri servizi, gestiti dairifugiati e che attraggono lapopolazione di un vasto territorio ii.Ad esempio, Khao-I-Dang, un campodi rifugiati cambogiani alla frontierathailandese, è stato a lungo famoso,negli anni ’80, per la sua schiera diristoranti e il suo fiorente servizio dibici-taxi. Anche nel campo dirifugiati ruandesi di Goma, nell’estdello Zaire, esisteva fra il 1994 e il1997 un mercato molto frequentato.Per dare un’idea del volume diattività economica, alla fine del 1995in certi giorni vi si macellavano finoa 20 capi di bestiame.

Se è vero che malattie come ilcolera possono diffondersifacilmente nei campi costruiti infretta e sovrappopolati, in molti casi– in particolare dopo la fase inizialedell’emergenza – i rifugiatibeneficiano di cure mediche, corsiscolastici e altri servizi moltomigliori che la popolazione locale.Di conseguenza, le organizzazioniumanitarie che lavorano nei campiforniscono sempre più spessol’assistenza sanitaria, ladivulgazione agricola e l’istruzione,non solo ai rifugiati, ma anche agliabitanti della zona. Non si vuole conciò far credere che i campi sianosempre una risorsa per le regioniche li ospitano: i benefici economicipossono essere controbilanciati daaltri problemi, che vanno peròridimensionati. Il dibattito suivantaggi e gli svantaggi dei campiprofughi deve svolgersi nel quadrodi una chiara visione del lorofunzionamento e del loro impattosulla regione.

La politica ufficiale dell’Unhcr è dievitare l’installazione dei campi, seesistono valide alternative. Ciò èchiaramente affermato nelloHandbook for Emergencies (Manualeper le emergenze) ed è una delleprime regole per le squadre dipronto intervento. In molti casi, è ilpaese ospitante che insiste per lacreazione dei campi, oppure sono irifugiati stessi che si aggregano ingruppi di vaste dimensioni, creandoinsediamenti che finiscono conl’assumere la forma di campi,quando entrano in scena gli aiutiinternazionali.

La preferenza di molti paesi ospitantiper i campi piuttosto che per lasistemazione autonoma si basa, disolito, su tre fattori: in primo luogo,presunte esigenze di sicurezza; insecondo luogo, la possibilità diorganizzare il rimpatrio; e, in terzoluogo, quella di attrarre gli aiutiinternazionali, attraverso la creazioned’insediamenti ben visibili. A taleriguardo, è legittimo e necessariointerrogarsi sulle motivazioni deipolitici che insistono per la creazionedei campi, specialmente quandosarebbe possibile una sistemazioneindividuale. Nel contempo, enonostante l’articolo 26 dellaConvenzione Onu del 1951, relativoal diritto dei rifugiati alla scelta delluogo di residenza e alla libertà dimovimento, i giuristi riconoscono chei paesi ospitanti hannoeffettivamente il diritto di accoglierei rifugiati in appositi campi o in zonea ciò destinate, purché sianorispettate le norme minime sultrattamento loro riservato. Date leconsiderazioni politiche, economichee giuridiche che sottendono lacreazione dei campi profughi, le tesigeneriche in favore dellasistemazione autonoma avrannodifficilmente un impatto significativosulla politica di molti paesi ospitanti.

Una distinzione imprecisa

Il dibattito sui campi profughi hasollevato una serie di importanti

interrogativi. In pratica, tuttavia, dirado i rifugiati che vi sono ospitatie quelli che si sistemano di propriainiziativa costituiscono duecategorie distinte. Tranne eccezioniquali i campi d’internamento diHong Kong, negli anni ’80 e neiprimi anni ’90, la maggioranza deicampi organizzati non confinano irifugiati all’interno della lororecinzione. Al contrario, in molticasi questi possono entrarne euscirne liberamente per lavorare,commerciare o coltivare la terra, oanche per fare una visita al paesed’origine, come molti fanno prima dirimpatriare. Una volta costretti adabbandonare le loro case, i rifugiativalutano le proprie prospettive escelgono fra i campi profughi e lelocalità vicine. Può accadere chealcuni membri della famiglia vivanonei campi, mentre altri si avvalgonodelle opportunità esistenti al difuori. Ciò significa che, di frequente,non esiste una chiara delimitazionefra la comunità ospitata in uncampo profughi e quella che vivenella zona circostante.

Per molti aspetti, il dibattito trasostenitori e oppositori dei campinon ha ben messo a fuoco laquestione. I campi profughi nonsono di per sé luoghi pericolosi odestabilizzanti, né la sistemazioneautonoma costituisce sempre lamigliore alternativa per i rifugiati. Ilvero problema, per i paesi ospitanti,le organizzazioni umanitarie e ipolitici, è far sì che i rifugiatipossano godere di condizioni di vitasicure, serene e dignitose, chevivano o no nei campi. I campipossono servire bene allo scopo ses’impedisce che diventinomilitarizzati, se vi è imposto l’ordinepubblico, se vi sono forniti inmisura adeguata l’assistenza medica,l’istruzione e altri servizi essenzialie se i rifugiati hanno la possibilitàdi provvedere al propriosostentamento. È a questi fini chedovrebbe indirizzarsi l’azioneumanitaria.

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profughi, nel 1981, la cifra pubblicata dal governo somalo passò a due milioni, mentre perl’Unhcr, gli altri organismi dell’Onu e le organizzazioni non governative (Ong) il loro nume-ro era compreso fra 450mila e 620mila 1. In precedenza, si era calcolato che l’intera popola-zione dell’Ogaden fosse molto al di sotto di un milione di abitanti.

Dopo l’insuccesso dei tentativi dell’Unhcr per procedere a un censimento attendibile,nel 1982 le agenzie dell’Onu raggiunsero un accordo col governo somalo su una “cifra diprogrammazione” di 700mila rifugiati. Rimase questo, fino al 1985, il numero ufficialedei rifugiati in Somalia, sul quale si basavano tutti gli aiuti dell’Unhcr, e ciò malgrado ilfatto che, nel 1984, l’organizzazione valutasse in oltre 300mila il numero di quelli già rim-patriati in Etiopia. Le pressioni degli Stati Uniti, che a quell’epoca avevano un proprio inte-resse geopolitico nel sostenere la Somalia, contribuirono alla continuata accettazione, daparte degli altri donatori occidentali, delle cifre inflazionate del governo somalo.

Il governo somalo beneficiò in vari modi dell’assistenza internazionale, che in que-gli anni affluiva in abbondanza nel paese. Gli aiuti forniti da organizzazioni comel’Unhcr e il Programma alimentare mondiale (Pam), per soddisfare i bisogni dei rifu-giati, erano solo una parte di quelli totali forniti al paese. Gli aiuti ebbero un rilevanteimpatto sull’economia somala nel suo complesso: secondo una stima, a metà degli anni’80 rappresentavano non meno di un quarto del prodotto nazionale lordo 2.

Fra il 1984 e il 1986, in Somalia si verificarono ulteriori afflussi di rifugiati.Durante lo stesso periodo, un gran numero di profughi tornarono dalla Somalia inEtiopia. Alla fine degli anni ’80, però, le denunce sempre più frequenti di violazionigeneralizzate dei diritti umani, commesse dal governo somalo, portarono a un drasti-co calo degli aiuti militari americani, che furono completamente sospesi nel 1989.Nell’agosto dello stesso anno, con un’azione senza precedenti, l’Unhcr e il Pam sospe-sero la fornitura di aiuti alla Somalia nordoccidentale, dopo l’insuccesso di ripetutisforzi per evitare che fossero dirottati. Due anni dopo, il presidente Barre fu rovescia-to e il paese precipitò in un abisso di violenza, carestia ed esodi di popolazione, il piùgrave della sua storia [cfr. riquadro 10.3].

I rifugiati etiopici in Sudan

I primi rifugiati ufficialmente riconosciuti provenienti dall’Eritrea, che aveva fattoparte di una federazione con l’Etiopia, ma che era stata ridotta nel 1962 al rango diuna provincia, nel nord del paese, erano arrivati nel Sudan fin dal 1967 3. Cercavanoscampo dalle conseguenze di una lotta armata per conquistare il diritto all’autodeter-minazione, che si protraeva dagli inizi degli anni ’60. Nel 1970, l’Unhcr collaborò allacreazione del primo campo loro destinato nel Sudan.

Negli anni ’70, dei rifugiati fuggirono pure in gran numero da altre regionidell’Etiopia verso il Sudan. La cruenta e prolungata rivoluzione, seguita al rovescia-mento, nel 1974, dell’imperatore autocratico Haile Selassie, fu conosciuta al suo apicecome il “terrore rosso”. La fazione militare di sinistra che prese il potere, nota colnome di “Derg”, uccise o imprigionò migliaia di avversari politici, sindacalisti e stu-denti, provocando un incessante esodo di rifugiati dal paese.

Nel 1977, i rifugiati eritrei nel Sudan erano già 200mila.Tale cifra aumentò rapi-damente nel 1978, allorché il governo etiopico, che ora riceveva massicci aiuti sovie-

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tici ed era reso baldanzoso dalla recente vittoria sulla Somalia, sferrò una grandeoffensiva contro le forze di opposizione eritree. Alla fine dello stesso anno, un esododi massa portò il numero complessivo dei rifugiati etiopici nel Sudan a oltre 400mila,provenienti in maggioranza dall’Eritrea.

All’inizio, i rifugiati furono bene accolti dal governo sudanese e dalla popolazio-ne locale, nell’est del paese. Con l’aumentare del loro numero, però, crebbe anche ilrisentimento degli abitanti, che cominciarono a vederli come una minaccia per la sta-bilità della regione orientale. I combattimenti in Eritrea avevano spesso avuto luogoin vicinanza della frontiera col Sudan o addirittura su suolo sudanese 4. Il paese dove-va far fronte a una crescente crisi economica, aggravata da una serie di magri raccol-ti ad est, per cui il governo chiese l’intervento dell’Unhcr.

L’organizzazione collaborò strettamente con le autorità sudanesi alla creazione diuna serie di insediamenti per rifugiati. Nel 1984, il numero dei profughi etiopici eraormai salito a qualcosa come mezzo milione, di cui circa 128mila vivevano in 23insediamenti appositamente realizzati, mentre gli altri si erano sistemati spontanea-mente in città e villaggi, nella zona di confine. All’inizio, l’Unhcr sperava che l’agri-coltura e le possibilità di lavoro in grandi aziende agricole meccanizzate avrebberoconsentito ai rifugiati di rendersi autosufficienti, ma ben presto fu chiaro che tale

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Nel Sudan, a metà degli anni ‘80, alcuni fra centinaia di migliaia di etiopi fuggiti a causa della guerra e della carestia.(UNHCR/M. VANAPPELGHEM/1985)

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Riquadro 5.2 I rifugiati mozambicani nel Malawi

Per buona parte degli anni ’80, imozambicani costituirono, dopo ipalestinesi e gli afghani, la terzapopolazione rifugiata al mondo. Eranofuggiti dal proprio paese nel corso diuna guerra devastatrice, iniziata nel1976 e finita solo nel 1992. Leconseguenze per i paesi vicini che neaccolsero la grande maggioranzaandarono ben al di là della protezionefornita loro.

Il conflitto mozambicano scoppiòpoco dopo l’indipendenza del paese,ottenuta nel 1975. Quando ilPortogallo abbandonòprecipitosamente le colonie, dopo lacaduta del regime militare di Lisbona,il Fronte di liberazione del Mozambico(Frente de Libertação de Moçambique– Frelimo), che sin dal 1964 avevacondotto contro i portoghesi unasporadica guerriglia, assunse ilpotere. Un conflitto civile coinvolseallora il Frelimo e la Resistenzanazionale mozambicana (ResistênciaNacional Moçambicana – Renamo), ungruppo insurrezionale messo in piedie sostenuto dai governi minoritaribianchi della Rhodesia e delSudafrica.

Nel corso della guerra, le forze dellaRenamo andarono adottando tattichesempre più brutali, per tenere sottocontrollo la popolazione delle zoned’operazione. Dovunque andassero, laterrorizzavano sistematicamente conuccisioni, mutilazioni, stupri esaccheggi. Via via che allargavano lezone da loro controllate, crescevavertiginosamente il numero degliabitanti in fuga. Anche le forze delFrelimo ricorsero ad azioni sempre piùefferate, cosicché la Renamo siassicurò un certo sostegno popolare.

La crisi di rifugiati raggiunse il suoapice nel 1992, allorché già qualcosacome 1,7 milioni di mozambicanierano rifugiati nei paesi limitrofi, ealmeno il doppio erano sfollati.Alcune zone abbandonate daiprofughi rimasero praticamente vuote.Ad esempio, in numerosi distrettidella provincia di Tete, era fuggitonon meno del 90% degli abitanti.Oltre a costringere all’esodo, fra il1976 e il 1992, un totale di circa 5,7milioni di persone, il conflitto feceoltre un milione di morti e rese orfanicentinaia di migliaia di bambini.

I mozambicani, tuttavia, non furonogli unici a soffrire delle conseguenzedel conflitto. Ne fecero le speseanche gli abitanti dei paesiconfinanti, che dovettero dividere coni rifugiati le loro magre risorse estrutture sociali e, a volte, anche leloro terre. Ospitarono i mozambicaniil Malawi, il Sudafrica, lo Swaziland,la Repubblica unita di Tanzania, laZambia e lo Zimbabwe.

Il Malawi apre le porte

Di gran lunga il paese che subì ilmaggiore impatto fu il Malawi, unpaese piccolo, impoverito edensamente popolato, che fece laparte del leone nell’accogliere iprofughi mozambicani. Nel periodoculminante dell’esodo, questi erano1,1 milioni, pari al 10% dellapopolazione del Malawi.Il paese non era in condizioni digestire un afflusso di rifugiati di talidimensioni. A metà degli anni ’80,era il sesto paese più povero delmondo e uno dei meno sviluppati delcontinente africano. Il 50% dei

bambini erano denutriti e lamortalità infantile era al quartoposto nelle statistiche mondiali.Benché in alcune zone i rifugiatifossero più numerosi dellapopolazione locale, sino ad unrapporto di tre a due, raramentel’accoglienza vacillò. Molti deiprimi rifugiati, etnicamente affinialla popolazione locale, si eranoinseriti in mezzo a questo. Alcunierano riusciti a ottenere dellaterra, ma gli altri dipendevanodagli aiuti internazionali.

Nei primi dieci anni del conflittoin Mozambico, il governo delMalawi, che forniva un sostegnoocculto alla Renamo, si oppose aun’assistenza internazionale airifugiati, e cercò di far fronte ailoro bisogni attraverso leinfrastrutture e i servizi pubbliciesistenti, consentendo ai rifugiatidi ricorrere agli ambulatori, agliospedali locali ai limitati servizisociali e assistenziali. In seguito,nel 1986, lo stesso anno in cui sipiegò alla pressione dei paesivicini per porre fine al sostegnoalla Renamo, il Malawi riconobbe lasua incapacità di far fronteall’afflusso e chiese aiuto all’Unhcr.

In un primo tempo,l’organizzazione cercò di dareimpulso al programma governativodi assistenza ai rifugiati attraversoi meccanismi già esistenti. IlProgramma alimentare mondiale(Pam) intervenne fornendo aiutialimentari. Anche con talesostegno, tuttavia, le istituzioninazionali non riuscivano nemmenolontanamente a soddisfareadeguatamente i bisogni della

obiettivo sarebbe stato difficile da raggiungere. In un rapporto dell’Unhcr di quelperiodo si osservava: “si contano sulle dita di una mano gli insediamenti che dispon-gono di terre e risorse idriche sufficienti per pensare realisticamente al raggiungi-mento dell’autosufficienza” 5.

Gli scontri tra le forze governative etiopiche e i gruppi d’opposizione armati eri-trei, come pure tra le fazioni eritree rivali, continuarono a provocare un esodo di rifu-giati dall’Eritrea verso il Sudan. Ma un’altra crisi di grandi dimensioni si profilava

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Le guerre per procura

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popolazione locale e dei rifugiati.Quando, nel 1987, il numero deirifugiati subì un’impennata, il Malawichiese all’Unhcr di organizzare deicampi profughi e diede disposizioniaffinché tutti i nuovi rifugiati vi sitrasferissero. Il governo, inoltre, vietòalla popolazione locale di fornire loroterreni agricoli. Alla fine, oltre i dueterzi dei rifugiati fuggiti nel Malawi –1,1 milioni – si insediarono nei campiprofughi.

Benché per l’Unhcr, il Pam e le altreagenzie tale sistemazione rendesse lecose più facili, anche la sempliceassistenza di sostentamento rimanevaun compito gigantesco. Privo disbocchi diretti al mare, il Malawiaveva una rete stradale in cattivostato e i camion scarseggiavano.Molti campi profughi erano accessibilisolo attraverso strade sterrate,inadatte ai veicoli pesanti. Il trafficoaveva gravemente danneggiato lestrade ed i ponti. Per la distribuzionedegli aiuti alimentari, le agenzieumanitarie avevano noleggiato buonaparte dei camion disponibili nelpaese, e questo aveva creatodifficoltà agli agricoltori e aicommercianti per il trasporto delleloro merci. L’Unhcr e il Pam avevanoproblemi nella gestione delle scorted’emergenza, data l’inadeguatezza deitrasporti e dei magazzini. Nederivarono interruzioni negliapprovvigionamenti alimentari e unpreoccupante aumento dellamalnutrizione fra i rifugiati.

Pur non disponendo, in genere, diterre coltivabili, questi avevanotrovato ugualmente il modo diguadagnare qualcosa. Più del 90% diloro svolgeva attività economiche,

quali la fabbricazione e la vendita divasellame, la macinazione delgranturco, l’allevamento e la venditadi animali domestici, la fabbricazionedella birra. Molti poi vendevano oscambiavano parte delle razionialimentari, per procurarsi altri generidi prima necessità, come carne,verdura fresca o sapone. I rifugiatipiù poveri, alcuni dei quali nonavevano neppure le tesserealimentari, sopravvivevano tagliandola legna da ardere. Nel Malawi,l’abbattimento su vasta scala deglialberi ha causato un disboscamentocosì esteso che l’ambiente continua arisentirne le conseguenze.

Considerando la durata dellapermanenza e le dimensioni dellapopolazione rifugiata, fu degna dinota l’assenza di conflitti aperti conla popolazione locale. Nel 1992,tuttavia, il lungo soggiornocominciava a rendere tesi i rapporti. Iproblemi riguardavano soprattuttol’impatto della loro presenzasull’economia, le conseguenzeambientali quali il disboscamento, lacriminalità e altri problemi sociali. Lasituazione fu esacerbata dalla siccitàche colpì gran parte della regione frail 1992 e l’inizio del 1993. Sebbenegli aiuti destinati ai rifugiati fosserodistribuiti anche alla popolazionelocale che soffriva per la siccità,andarono aumentando i furti neidepositi e nei centri di distribuzionedei viveri. In alcuni campi profughi ipozzi rimasero a secco, causandoproblemi sanitari e un focolaio dicolera che si estese anche allapopolazione locale.

I costi occulti

Queste conseguenze rappresentanoi costi occulti sostenuti dai paesiche ospitano una numerosapopolazione rifugiata, inparticolare quando anch’essi sonofra i paesi più poveri del mondo. Irifugiati possono esercitareun’influenza positiva sui paesiospitanti, ma in alcuni casi la loropresenza può anche avere unimpatto negativo di vasta portata.Ne possono soffrire l’economia el’ambiente, come pure l’equilibriosociopolitico locale, e si possonoavere serie implicazioni anche perla pace e la sicurezza a livellonazionale, regionale ointernazionale.

Le iniziative per lo sviluppo deipaesi ospitanti possono esserecompromesse e distorte, quando lapresenza dei rifugiati tende fino allimite di rottura la disponibilità dibeni e servizi. In molti casi, perfar fronte alle necessità piùimmediate dei rifugiati – viveri,alloggi di fortuna e sicurezza – leautorità statali si vedono obbligatea stornare fondi da più vastiprogetti di sviluppo. Nel Malawi,uno studio patrocinato dalla Bancamondiale ha accertato che, anchetenendo conto degli aiutiinternazionali erogati attraversol’Unhcr, fra il 1988 e il 1990 furonospesi per l’assistenza ai rifugiatiqualcosa come 25 milioni di dollariprovenienti da fondi pubblici,stornati da altri progetti.

all’orizzonte, questa volta nella regione etiopica del Tigrè: generando un afflusso anco-ra maggiore di etiopi nel Sudan, avrebbe creato ancora maggiori difficoltà per il paesee costituito per l’Unhcr una delle più grandi sfide della sua storia.

La carestia in Etiopia e i nuovi esodi di rifugiatiNel 1984, in Etiopia si verificò una carestia che diede luogo a una delle crisi umani-tarie più largamente pubblicizzate in tempi recenti. Come osservò un commentatore:

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I RIFUGIATI NEL MONDO

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“La carestia dell’Etiopia settentrionale, che nel 1984 ha richiamato l’attenzione deimedia di tutto il pianeta, è stata un terremoto nel mondo umanitario” 6. Il numerodelle vittime fu valutato in un milione 7. La siccità ne fu ritenuta la principale causa,ma la realtà era ben più complessa. Così la descrisse un analista:

La siccità e i magri raccolti hanno certo contribuito alla carestia, ma non l’hanno provocata.Anche la politica economica e agricola del governo [etiopico] vi ha contribuito, ma non è statafondamentale. La causa principale è stata la campagna controrivoluzionaria condotta, fra il1980 e il 1985, dall’esercito e dall’aeronautica etiopici nel Tigrè e nel Wollo... [che compren-deva] la tattica della terra bruciata, la requisizione dei viveri da parte dei militari, il blocco deiviveri e degli abitanti assediati... e il razionamento dei generi alimentari 8.

Il governo etiopico permise ai paesi donatori e alle organizzazioni internazionalidi fornire aiuti alimentari, ma impedì loro di assistere le vittime della carestia, nellezone controllate dai gruppi armati d’opposizione dell’Eritrea e del Tigrè. Di conse-guenza, le organizzazioni umanitarie presenti in Etiopia non poterono assistere diret-tamente gli abitanti delle due principali zone colpite. Sin dall’inizio degli anni ’80, unconsorzio di Ong che operava con base nel Sudan si sforzava di nutrire la popolazio-ne delle zone controllate dai ribelli, in Eritrea e nel Tigrè, fornendo generi elementa-ri con operazioni clandestine notturne, attraversando il confine fra il Sudan e l’Etiopia.All’epoca, quel tipo d’azione umanitaria fu giudicato molto radicale.

L’operazione transfrontaliera dal Sudan non riuscì, tuttavia, a soddisfare le neces-sità della popolazione delle zone colpite, e centinaia di migliaia di abitanti disperatinon ebbero altra scelta che di trasferirsi nelle zone controllate dal governo.Altri rinun-ciarono a farlo, soprattutto per il timore di essere arrestati o raggruppati in vista di untrasferimento forzato. Il risultato fu un esodo in massa di etiopi principalmente versoil Sudan, ma anche verso la Somalia e Gibuti.

Fra l’ottobre 1984 e il marzo 1985, nel Sudan arrivarono circa 300mila rifugiatietiopici, in maggioranza dal Tigrè, che avevano abbandonato l’Etiopia con un movi-mento accuratamente organizzato dalla Relief Society of Tigray (Rest), sostanzialmen-te emanazione civile del Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf). La Rest avevaannunciato che, se non fossero stati forniti ulteriori aiuti alimentari nello stesso Tigrè,non sarebbe stata in grado di mantenervi i propri assistiti.

Se è vero che alcuni osservatori sostennero che i nuovi arrivati cercavano scampodalla carestia piuttosto che dal conflitto, l’Unhcr li considerò comunque rifugiati. Lapossibilità di un massiccio afflusso era già stata contemplata, ed era stato lanciato l’al-larme, alla fine del 1983. Quando si verificò, un anno dopo, le dimensioni e la rapi-dità dell’arrivo dei rifugiati nel Sudan furono molto maggiori del previsto. Molti arri-vavano in condizioni fisiche così precarie che gli aiuti giungevano troppo tardi.All’inizio, la situazione nei campi profughi, allestiti precipitosamente, era cattiva, e lamortalità era elevata. Molti morirono di malattie legate alla malnutrizione, e un foco-laio di morbillo, particolarmente virulento, fece molte vittime fra i bambini.

Nello stesso periodo in cui gli etiopi del Tigrè entravano nel Sudan, la carestia –aggravata dal conflitto in Eritrea, che faceva allora parte dell’Etiopia – provocò un ulte-riore afflusso di popolazione nel Sudan. I nuovi profughi arrivavano nei campi che giàospitavano gli eritrei. Wad Sherif, un campo predisposto per ospitare 5mila rifugiati,

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giunse rapidamente ad accoglierne 128mila, divenendo così uno dei più grandi campiprofughi al mondo 9. L’Unhcr e le Ong che con esso collaboravano fecero ogni sforzoper accogliere i nuovi arrivati nel campo, costruendo i necessari magazzini, ambula-tori e centri nutrizionali.

In collaborazione con altri organismi umanitari internazionali, governi e donato-ri, l’Unhcr organizzò un ponte aereo per trasportare viveri e altri generi di primanecessità, e dislocò sul terreno squadre sanitarie e volontari. Nei paesi occidentali, deimusicisti e altri artisti, guidati da Bob Geldof, si misero alla testa di iniziative moltomediatizzate per il reperimento di fondi, fra cui Live Aid e Band Aid, che raccolseromilioni di dollari a beneficio delle vittime della carestia, non solo in Etiopia e nelSudan, ma anche in tutta l’Africa subsahariana. Nel 1985, per il solo programma peril Sudan i donatori versarono all’Unhcr 76 milioni di dollari, importo pari a tutto ilbilancio mondiale dell’organizzazione, appena 10 anni prima 10.

All’inizio del 1986, l’Unhcr riferiva: “la mobilitazione internazionale ha dato i suoirisultati, e la situazione [in Sudan] è notevolmente migliorata... Le immagini insosteni-bili di bambini denutriti e di uomini e donne vaganti con aria sperduta... appartengo-no ormai al passato” 11. Nel maggio 1985, in Etiopia aveva ricominciato a piovere e ilTplf incoraggiò i suoi seguaci a tornare alle loro case. A metà del 1987, oltre 170miladi loro erano già rimpatriati. A differenza dei tigrini, però, la maggioranza degli eritreigiunti nel Sudan nel 1984-85 non rientrarono; anzi, i combattimenti e la persistentecarestia in Eritrea portarono nuovi afflussi di eritrei nel Sudan.

Nel corso degli anni ’80, l’Etiopia aveva non solo generato rifugiati, ma neaveva anche ospitato in gran numero. A partire dal 1983, quando nel Sudan meri-dionale ripresero i combattimenti fra l’Esercito popolare di liberazione del Sudan(Spla) e le forze governative, moltissimi abitanti erano stati costretti all’esodo e,alla fine del decennio, oltre 350mila abitanti del sud erano fuggiti in Etiopia, nellaregione di Gambela. L’Unhcr assistette il governo etiopico per rispondere alle loronecessità, ma l’accesso ai campi profughi, che fornivano appoggio all’Spla, fuspesso limitato. Nel 1987-88, inoltre, circa 365mila somali cercarono scampo inEtiopia, per sfuggire agli scontri fra le forze governative somale e i ribelli cherivendicavano l’indipendenza della Somalia nordoccidentale. Questi rifugiati furo-no ospitati in grandi campi nella zona di Hartisheik, e l’Unhcr coordinò gli aiutiinternazionali loro destinati.

La disgregazione dell’Unione sovietica e la fine della guerra fredda segnarono lafine, in Etiopia, anche per il regime marxista del presidente Menghistu. Nel maggio1991, il Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea (Eplf) occupò la maggiore città eri-trea, Asmara, mettendo così termine alla più lunga guerra civile africana e spianandoil terreno per l’indipendenza, proclamata nel 1993. Meno di una settimana dopo laconquista di Asmara, le forze guidate dal Tplf entrarono nella capitale etiopica, AddisAbeba; per l’esercito etiopico fu la disfatta e il presidente Menghistu fu deposto.

I rifugiati afghani in Pakistan e IranAnche l’Afghanistan – un altro dei paesi più poveri e meno sviluppati del pianeta –generò, negli anni ’80, massicci movimenti di rifugiati. Sebbene i conflitti che li pro-

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vocarono avessero radici locali, l’enorme dimensione degli esodi di popolazione fulargamente dovuta al sostanziale coinvolgimento delle superpotenze in quella regioned’importanza strategica.

La crisi ebbe inizio nell’aprile 1978, quando un gruppo di intellettuali, condottida Nur Mohammad Taraki, si impadronì del potere, cercando di creare uno statocomunista. Il nuovo governo realizzò vaste riforme sociali, che suscitarono il risenti-mento delle popolazioni rurali, profondamente tradizionali, a beneficio delle qualierano destinate. L’opposizione, sia politica che militare, dilagò rapidamente. Il regime,che riceveva una massiccia assistenza militare dall’Unione sovietica, reagì duramente.Come scrisse un commentatore:

Le élite religiose, politiche e intellettuali sono state imprigionate o giustiziate; gli attacchi ter-restri e i bombardamenti aerei hanno distrutto dei villaggi e ucciso un numero imprecisato diabitanti delle zone rurali. Si ritiene che..., fra l’aprile 1978 e il dicembre 1979, siano scom-parsi o siano stati eliminati da 50 a 100mila abitanti 12.

Nel giro di pochi mesi, gli afghani cominciarono a fuggire in due paesi limitrofi,il Pakistan e l’Iran. Malgrado le pressioni esercitate dal governo afghano e da quellosovietico sul governo pakistano perché respingesse i rifugiati, questi furono beneaccolti 13. Nell’agosto 1978, circa 3mila di loro avevano cercato scampo in Pakistan;all’inizio del 1979, la cifra era ormai salita a oltre 20mila.

Quando i primi rifugiati cominciarono ad arrivare in Pakistan, l’Unhcr non avevaun proprio ufficio nel paese: i rifugiati chiesero quindi aiuto al Programma di svilup-po delle Nazioni Unite (Undp). A sua volta, questo chiese fondi all’Unhcr per forni-re un’assistenza temporanea ai casi più bisognosi 14. Più tardi, nell’aprile 1979, ilgoverno pakistano richiese formalmente l’intervento dell’organizzazione 15. Dopo duemissioni di valutazione in Pakistan, l’Unhcr raccolse oltre 15 milioni di dollari perl’assistenza ai rifugiati, e nell’ottobre 1979 aprì un proprio ufficio a Islamabad 16.

Intanto, in Afghanistan l’opposizione armata al governo comunista guadagnavaterreno. A fine dicembre 1979, l’Unione sovietica, temendo la perdita di un alleatoimportante sul proprio fianco meridionale, invase il paese, provocando un massiccioesodo di popolazione. Nel giro di poche settimane, 600mila afghani cercarono ripa-ro in Pakistan e Iran. I rifugiati continuarono a fuggire dall’Afghanistan per tutto ildecennio. Nel dicembre 1990, l’Unhcr valutava in oltre 6,3 milioni il loro numero neipaesi confinanti, di cui 3,3 milioni in Pakistan e 3 milioni in Iran. A quell’epoca, gliafghani costituivano ormai la più numerosa popolazione rifugiata al mondo.

Le disparità nell’assistenza ai rifugiati in Pakistan e Iran

La situazione dei rifugiati afghani in Pakistan presentava un notevole contrasto conquella dei loro connazionali in Iran. In Pakistan, i rifugiati erano soprattutto di etniapashtun, e cercarono asilo principalmente nelle regioni del paese dominate dalla loroetnia. L’Unhcr realizzò oltre 300 “villaggi di rifugiati”, che ospitavano la maggioran-za di loro. In Iran, invece, i rifugiati afghani erano per la maggior parte di etnia tagi-ca, uzbeca e hazara, con solo un modesto numero di pashtun. Relativamente pochi di

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loro erano alloggiati in campi profughi, mentre i più si erano dispersi nelle città, pic-cole e grandi, di tutto il paese, dove vivevano mescolati alla popolazione locale. Moltiriuscirono a trovare lavoro, anche perché molti iraniani erano stati arruolati per laguerra contro l’Iraq, scoppiata nel settembre 1980.

Anche il livello degli aiuti internazionali forniti ai rifugiati afghani in Pakistan ein Iran presentava marcate differenze. Negli anni ’80, i donatori contribuirono coningenti stanziamenti all’assistenza a quelli ospitati nel primo paese, mentre furonomolto meno generosi con quelli che vivevano nel secondo, sebbene costituissero aquell’epoca una delle più numerose popolazioni rifugiate al mondo.

In un primo tempo, il governo iraniano si era astenuto dal chiedere l’interventodella comunità internazionale in favore dei rifugiati. A seguito della rivoluzione isla-mica del 1979, i rapporti fra il nuovo governo e i paesi occidentali erano al punto dirottura. Inoltre, nel novembre 1979, l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran,in cui studenti radicali sequestrarono decine di ostaggi americani, aveva avuto luogo

Le guerre per procura

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0 200 400

Kilometri

Rep. soc. sov. dell’Uzbekistan

Rep. soc. sov. del Turkmenistan Rep. soc. sov. del Tagikistan

KABUL

Mare Arabico

MarCaspio

3.060.000 rifugiati(residenti perlopiù in aree urbane) 3.250.000 rifugiati

INDIA

PAKISTAN

AFGHANISTANREPUBBLICA ISLAMICA D’IRAN

UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE

ISLAMABAD

TEHERAN

LEGGENDA

Capitale di stato

Principali campi/insediamentidi rifugiatiConfine di stato

Confini delle repubblichesovieticheMovimenti di rifugiati

Chilometri

Principali flussi di rifugiati afghani, 1979–90 Cartina 5.2

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appena un mese prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La tensione che ne eraderivata fra l’Iran e le potenze occidentali aveva contribuito alla decisione iraniana dinon chiedere aiuti internazionali, considerati “occidentali”.

La situazione in Iran cambiò nel 1980, in larga misura a causa della guerra conl’Iraq, scoppiata quell’anno, che generò un nuovo afflusso di rifugiati, questa volta ira-cheni sciiti, creando ancora maggiori difficoltà per l’Iran. Due mesi dopo, il governoiraniano richiedeva ufficialmente l’assistenza dell’Unhcr. Il viceministro degli Esteriiraniano scrisse all’Alto Commissario, Poul Hartling: “Abbiamo accolto decine dimigliaia di rifugiati da tali due paesi, e li abbiamo assistiti... con le nostre risorse finan-ziarie”. Aggiungendo che l’Iran non disponeva dei mezzi necessari per continuare adassistere adeguatamente i rifugiati, il governo chiedeva all’organizzazione di “varareun vasto programma di aiuti umanitari per questi innocenti che... devono essere assi-stiti alla pari di tutti gli altri rifugiati” 17.

In Iran, però, gli aiuti internazionali tardarono ad arrivare, e l’Unhcr si trovò alleprese con le disparità nella risposta internazionale alle crisi di rifugiati in Pakistan e inIran. Come si osservava, nel giugno 1981, in un promemoria interno dell’Unhcr:“Dopo un anno e mezzo senza aiuti esterni e spesso senza lavoro, [i rifugiati afghaniin Iran sono] in una situazione molto difficile... Non possiamo più chiudere gli occhidavanti alle evidenti necessità dei rifugiati afghani in Iran, che si trovano nella stessasituazione di quelli ospitati nel Pakistan o in India e che sono, a prima facie, [rifugiati]ai sensi del nostro mandato, come è stato confermato dalla Divisione protezione” 18.Sebbene l’Unhcr finisse con l’ottenere fondi anche per i rifugiati afghani in Iran, ladisparità nelle spese sostenute in Pakistan e in Iran rimase notevole per tutti gli anni’80 e ’90. Fra il 1979 e il 1997, l’Unhcr spese oltre un miliardo di dollari per i rifu-giati afghani in Pakistan, ma solo 150 milioni per quelli in Iran.

Nel Pakistan, l’Unhcr, come anche altri organismi dell’Onu, singoli governi e deci-ne di Ong internazionali, fornirono ai rifugiati viveri, acqua, cure mediche, serviziigienici e scuole. La proliferazione delle Ong, iniziata nel Sudest asiatico negli anni’70, continuò nel Pakistan. Alla fine degli anni ’80, in quell’operazione umanitariaerano coinvolte oltre un centinaio di Ong internazionali: fra di esse, molte Ongmusulmane, che lavoravano per la prima volta in stretta collaborazione con l’Unhcr.Questo pagava gli stipendi a oltre 6.500 dipendenti locali, molti dei quali assunti dalCommissariato pakistano per i rifugiati afghani 19.

Per ragioni di politica interna, il governo pakistano non intendeva assegnare airifugiati, provenienti in maggioranza da zone rurali, terre da coltivare. I rifugiati pote-vano, però, circolare liberamente nel paese, il che aiutò molti di loro a trovare un lavo-ro.A metà degli anni ’80, l’Unhcr lanciò una vasta gamma di programmi – piccoli cre-diti, formazione professionale, progetti edilizi – per dare ai rifugiati un lavoro e inse-gnare loro un mestiere, incoraggiandoli nel contempo a rendersi maggiormente auto-sufficienti. Molti di tali programmi, tuttavia, furono sospesi su pressante richiesta delgoverno pakistano, il quale sosteneva che, in assenza di analoghi programmi a bene-ficio della popolazione locale, potevano insorgere tensioni fra questa e i rifugiati.

A partire dal 1984, l’Unhcr e la Banca mondiale vararono, in collaborazione con ilgoverno pakistano, un programma congiunto, conosciuto come Generation project for refugeesareas (progetto di attività remunerative per le zone di rifugiati). Con investimenti di 85

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milioni di dollari su 12 anni, comprendeva circa 300 iniziative diverse, distribuite in treprovince che ospitavano rifugiati: rimboschimento, sistemazione idrogeologica, irriga-zione, riparazione e costruzione di strade. Si ritenne, in genere, che il programma aves-se un impatto rilevante e positivo 20. Tali progetti, nonché la possibilità di lavorare al difuori dei villaggi di rifugiati, aiutarono molti di loro a conseguire l’autosufficienza entroil decennio.

In Iran, un programma analogo fu lanciato alla fine degli anni ’80, negli estesipascoli del Khorasan meridionale. Si trattava questa volta di un progetto congiunto fra

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Paesi d’asilo

Anno Pakistan Iran India Federazione russaa Altrib Totale

1979 402.000 100.000 – – – 502.000

1980 1.428.000 300.000 – – – 1.728.000

1981 2.375.000 1.500.000 2.700 – – 3.877.700

1982 2.877.000 1.500.000 3.400 – – 4.380.400

1983 2.873.000 1.700.000 5.300 – – 4.578.300

1984 2.500.000 1.800.000 5.900 – – 4.305.900

1985 2.730.000 1.880.000 5.700 – – 4.615.700

1986 2.878.000 2.190.000 5.500 – – 5.073.500

1987 3.156.000 2.350.000 5.200 – – 5.511.200

1988 3.255.000 2.350.000 4.900 – – 5.609.900

1989 3.272.000 2.350.000 8.500 – – 5.630.500

1990 3.253.000 3.061.000 11.900 – – 6.325.900

1991 3.098.000 3.187.000 9.800 – – 6.294.800

1992 1.627.000 2.901.000 11.000 8.800 3.000 4.550.800

1993 1.477.000 1.850.000 24.400 24.900 11.900 3.388.200

1994 1.053.000 1.623.000 22.400 28.300 12.300 2.739.000

1995 1.200.000 1.429.000 19.900 18.300 9.700 2.676.900

1996 1.200.000 1.415.000 18.600 20.400 10.700 2.664.700

1997 1.200.000 1.412.000 17.500 21.700 12.500 2.663.700

1998 1.200.000 1.401.000 16.100 8.700 8.400 2.634.200

1999 1.200.000 1.325.700 14.500 12.600 10.000 2.562.800

Note:Le cifre si riferiscono al 31 dicembre di ogni anno.a Solo i richiedenti asilo registrati presso l’Unhcr. Secondo l’Unhcr, alla fine del 1999 altri 100mila afghani erano bisognosi di protezione.b Kazakistan, Kirghisistan, Tagikistan, Turkmenistan and Uzbekistan.

Popolazioni rifugiate afghane, secondo il paesed’asilo, 1979–99

Fig. 5.2

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l’Unhcr e il Fondo internazionale di sviluppo agricolo (Ifad), realizzato d’intesa colgoverno iraniano. Come per altre iniziative da attuare in tale paese, però, i donatorifurono meno disposti a fornire i fondi necessari. Dei 18 milioni di dollari inizialmenterichiesti dall’Unhcr e dall’Ifad, solo un terzo arrivarono effettivamente durante ilprimo quinquennio del programma.

Un’altra differenza di rilievo fra l’assistenza ai rifugiati in Pakistan e in Iranriguardava il settore dell’istruzione. In Pakistan, molti ragazzi frequentavano le scuo-le finanziate dall’Unhcr nei villaggi di rifugiati; le ragazze, invece, vi erano menonumerose, a causa di tradizioni culturali discriminatorie che rendevano difficile permolte di loro seguirne i corsi. Un numero rilevante di ragazzi, inoltre, riceveva un’i-struzione nelle madrasas (scuole religiose) private, con le quali l’Unhcr non avevaalcun rapporto. A metà degli anni ’90, alcuni dei ragazzi cresciuti come rifugiati inPakistan e che avevano frequentato le madrasas, divennero membri dirigenti delmovimento islamico dei taliban, che si impadronì del potere in Afghanistan. In Iran,invece, i giovani rifugiati erano iscritti nelle scuole iraniane e le ragazze potevano fre-quentarle molto più facilmente. Negli anni ’90, quando ebbe veramente inizio il rim-patrio in Afghanistan, l’accesso delle ragazze all’istruzione era spesso citato dai rifu-giati come motivo per non volere ritornare in Afghanistan, dove tale accesso era proi-bito dai taliban.

I problemi di sicurezza in Pakistan

Per tutti gli anni ’80, per l’Unhcr l’utilizzazione dei villaggi di rifugiati come basi daparte dei vari gruppi islamici della resistenza armata afghana – noti collettivamente colnome di mujahedin – fu fonte di grave preoccupazione. Gli Stati Uniti, i loro alleati evari paesi islamici fornivano ai mujahedin ingenti risorse militari e finanziarie. Si ritie-ne che, fra il 1982 e il 1991, i soli Stati Uniti abbiano fornito aiuti per due miliardidi dollari 21. Dato che appoggiavano i mujahedin nella loro lotta contro il regime diKabul, sostenuto dai sovietici, molti donatori erano disposti a chiudere un occhio sullapresenza di combattenti armati nei villaggi di rifugiati ed erano, per di più, disposti atollerare il dirottamento su larga scala degli aiuti umanitari a scopi militari. Questoindusse, all’epoca, alcuni osservatori a descrivere i villaggi di rifugiati come “comu-nità di rifugiati combattenti” 22.

Nel 1984, dato il deterioramento della situazione della sicurezza in molti villaggidi rifugiati, l’Unhcr cercò di allontanarli dalle frontiere, sia per proteggere i profughidagli attacchi delle forze sovietiche e di quelle governative afghane, sia per impedireai ribelli di utilizzare i villaggi stessi come basi. In quel periodo, era normale trovare,in molti villaggi di rifugiati, pezzi d’artiglieria antiaerea ed altre armi pesanti. Nelluglio 1984, il direttore della Protezione internazionale dell’Unhcr sostenne che l’or-ganizzazione non dovesse assistere più i villaggi che non adottassero misure per impe-dire tale militarizzazione: “il mantenimento del carattere civile dei villaggi di rifugia-ti assistiti dall’Unhcr è essenziale per tutelare il carattere apolitico e umanitario del-l’organizzazione... Qualora non siano adottate le necessarie misure correttive [allonta-namento delle armi], saremmo favorevoli alla cessazione dell’assistenza ai villaggi inquestione” 23. Sollecitò, inoltre, il personale sul terreno a compiere “ogni sforzo per

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incoraggiare i rifugiati... a trasferirsi, per la loro stessa incolumità, in idonee localitàalternative”, avvertendo però che sarebbe stato “insensato e controproducente ricor-rere a qualsiasi forma di coercizione” 24.

I timori dell’Unhcr per la sicurezza dei rifugiati si rivelarono fondati. A metà del1984, le forze sovietiche e quelle governative afghane sferrarono una serie di attacchi inPakistan partendo dall’Afghanistan, in cui rimasero uccisi o feriti molti rifugiati. Nel1986-87, ulteriori attacchi fecero altre centinaia di vittime nei loro ranghi. Le stesse unitàmilitari condussero, inoltre, attacchi contro civili pakistani, attizzando la tensione fra lapopolazione locale e i rifugiati. Alla fine del 1986, apparentemente per placare l’ira degliabitanti del luogo, le autorità pakistane raggrupparono oltre 50mila afghani che viveva-no, senza autorizzazione, a Peshawar e li rimandarono nei rispettivi insediamenti.

Più o meno nello stesso periodo, le autorità pakistane adottarono altre rigorosemisure per il raggruppamento dei rifugiati, soprattutto per motivi di sicurezza. Nelcorso di un particolare episodio, le autorità locali di Karachi, la maggiore città delpaese, raggrupparono oltre 18.500 rifugiati afghani di etnia tagica, uzbeca e turkme-na, distrussero i loro alloggi di fortuna e li allontanarono dalla città, trasferendoli inuna nuova località, a una decina di chilometri, dove fu appositamente costruito unnuovo villaggio. All’epoca, l’Unhcr aveva denunciato il modo in cui i rifugiati eranostati trattati, ma l’organizzazione finì con l’erogare oltre 400mila dollari per contri-buire alla realizzazione delle infrastrutture essenziali.

Nel frattempo, in vicinanza della frontiera, i timori dell’Unhcr per l’incolumità deirifugiati non si tradussero in misure concrete per la smilitarizzazione dei villaggi dirifugiati. Per tutti gli anni ’80, i mujahedin continuarono a entrarne e uscirne indi-sturbati. Nel 1989, le forze sovietiche finirono col ritirarsi dall’Afghanistan, ma la guer-ra continuò fra i mujahedin e il regime comunista di Kabul. Dopo che, nel 1992, imujahedin si impadronirono del potere, in molte regioni i combattimenti continuaro-no fra le loro varie fazioni, molte delle quali operavano da basi situate in Pakistan, percui nei villaggi di rifugiati si perpetuarono i problemi legati alla sicurezza.

Gli esodi di massa nel Centroamerica

Nel corso degli anni ’80, l’Unhcr fu coinvolto per la prima volta nel Centromerica,teatro di tre guerre civili: nel Nicaragua, in El Salvador e nel Guatemala. In ognuno diquesti paesi, la rivolta e la conseguente repressione causarono enormi perdite di viteumane ed esodi su larga scala: in totale, oltre due milioni di abitanti furono strappatialle loro case. Per decenni, già prima degli anni ’80, nella regione si erano registrativiolenti scontri, fra i poveri senzaterra che chiedevano riforme sociali e agrarie e l’é-lite dei proprietari terrieri, sostenuti dai militari. Durante varie amministrazioni suc-cessive, gli Stati Uniti avevano appoggiato i governi di destra della regione, con l’in-tento di fermare quella che vedevano come la propagazione del comunismo vicino alleloro frontiere, e anche per tutelare i loro interessi economici nell’area. I movimentiribelli sorti nella regione furono influenzati, e in una certa misura sostenuti, dal regi-me comunista di Cuba.

Le guerre per procura

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0 150

Kilometri

300

HONDURAS

EL SALVADOR

MESSICO

GUATEMALA

BELIZE

NICARAGUA

COSTA RICA

PANAMA

TEGUCIGALPA

SAN SALVADOR

GUATEMALA

MANAGUA

PANAMA

SAN JOSÉ

Confine di statoMovimenti di rifugiati

Principali campi/insediamentidi rifugiati

LEGGENDACapitale di stato

O C E A N O P A C I F I C O

M a r d e i C a r a i b i

G o l f o d e lM e s s i c o

BELMOPAN

Nel Nicaragua, gli Stati Uniti appoggiavano da tre generazioni il regime deiSomoza. Negli anni ’70, i partiti politici, gli studenti, i sindacati e molti esponentidella borghesia e della chiesa cattolica si coalizzarono contro l’ultimo di quei dittato-ri, Anastasio Somoza Debayle. Il Fronte sandinista di liberazione nazionale, una for-mazione di sinistra, fece notevoli progressi, e nel luglio 1979 Somoza fuggì dal paese,lasciando il potere ai sandinisti.

Nel giro di poche settimane, molti nicaraguensi agiati e della borghesia, e migliaiadi esponenti dell’amministrazione e delle forze armate di Somoza abbandonarono ilpaese. Nel frattempo, la maggioranza dei nicaraguensi che in passato erano andati in

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Principali flussi di rifugiatiin Centroamerica negli anni ‘80 Cartina 5.3

Chilometri

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esilio cominciarono a rimpatriare 25. Alcuni di quelli fuggiti nell’Honduras costituiro-no un gruppo armato di opposizione denominato “contras” (dallo spagnolo contra-revolucionarios). Durante tutta la guerra, negli anni ’80, gli Stati Uniti, che vedevanoil governo sandinista del Nicaragua come una minaccia per i loro interessi, fornironoai contras notevoli aiuti.

Sempre durante gli anni ’70, in El Salvador, che era stato tormentato sin dal tempodell’indipendenza da frequenti colpi di stato e violenze politiche, si affermarono alcu-ni gruppi ribelli, seppure frammentati. Spesso incoraggiati dal clero cattolico, migliaiadi contadini aderirono alle organizzazioni che invocavano la riforma agraria e unamaggiore giustizia sociale. Il governo reagì intensificando la repressione e migliaia dipersone furono uccise, per motivi politici.

Anziché soffocare l’opposizione, gli attacchi suscitarono un maggiore appoggio airibelli, in particolare nelle zone rurali. Nel gennaio 1981, un vasto schieramento digruppi d’opposizione costituì il Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale(Fmln), che si affermò in molte zone come una importante presenza militare e diven-ne una forza politica di rilievo, sia nel paese che all’estero. Per reazione, gli Stati Unitiaumentarono gli aiuti militari al governo di El Salvador, e parteciparono più diretta-mente alla campagna delle forze armate contro l’Fmln. Il conflitto fra i militari salva-doregni e il Fronte continuò per tutti gli anni ’80.

Anche nel Guatemala, negli anni ’70 dei gruppi ribelli erano insorti contro il regimemilitare. Godevano dell’appoggio di buona parte della popolazione autoctona che, pur

Riquadro 5.3 La dichiarazione di Cartagena del 1984

Nel novembre 1984, in reazione alla crisi di rifugiati allora in atto inAmerica centrale, un gruppo di rappresentanti dei governi, professoriuniversitari e giuristi centroamericani, messicani e panamensi, si riunìa Cartagena, in Colombia, per elaborare quella che divenne laDichiarazione di Cartagena sui rifugiati.

Pur essendo strutturata sulla falsariga della Convenzione delle NazioniUnite del 1951, la Dichiarazione di Cartagena estende, come laConvenzione dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua) del 1969, ladefinizione di rifugiato contenuta nello strumento dell’Onu facendovirientrare coloro i quali fuggono dal loro paese

...perché la loro vita, la loro sicurezza o la loro libertà è minacciatada violenze generalizzate, un’aggressione straniera, un conflittointerno, massicce violazioni dei diritti umani o altre gravi turbativedell’ordine pubblico.

Benché non giuridicamente vincolante, la Dichiarazione di Cartagena èstata ripetutamente avallata dall’Assemblea generale dell’Organizzazionedegli stati americani. La maggior parte dei paesi centroamericani e lati-noamericani hanno aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiatie/o al Protocollo aggiuntivo, e perlopiù applicano regolarmente ladefinizione di rifugiato più estensiva, contenuta nella Dichiarazione.Alcuni di essi hanno addirittura recepito la definizione stessa nellerispettive legislazioni nazionali.

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costituendo la maggioranza, era esclusa da ogni partecipazione nella vita politica ed eco-nomica del paese. Alla fine del 1981, i militari sferrarono una campagna controrivolu-zionaria che durò un anno e mezzo, che aveva come obiettivo non solo i guerriglieri, maanche i villaggi amerindiani, considerati basi d’appoggio ai ribelli. Decine di migliaia dicivili, in maggioranza indios, furono uccisi o scomparvero 26. Al culmine della violenza,si calcola che un milione di abitanti fossero sfollati in conseguenza della campagna mili-tare.Alcuni mesi dopo, i vari gruppi della guerriglia si unirono per costituire l’Unità rivo-luzionaria nazionale guatemalteca. Malgrado il sostegno popolare, questa non riuscì,però, a costituire una seria minaccia per le truppe governative. Nel 1983, l’esercito gua-temalteco l’aveva ormai costretta a ritirarsi in zone montane isolate, dove rimase nellaclandestinità fino all’inizio dei colloqui di pace, verso la fine del decennio.

La maggior parte dei due milioni di abitanti costretti all’esodo dai conflitti arma-ti del Nicaragua, di El Salvador e del Guatemala vissero come sfollati nei rispettivipaesi, o come stranieri, privi di documenti, in vari paesi del Centroamerica e delNordamerica: Honduras, Messico, Costarica, Belize e Panama, come anche Stati Unitie Canada. Di quelli che abbandonarono il loro paese, solo 150mila circa furono rico-nosciuti come rifugiati, in paesi centroamericani e in Messico. Delle centinaia dimigliaia che ripararono negli Stati Uniti, solo relativamente pochi furono consideratirifugiati. La maggior parte di loro non ebbe la possibilità di chiedere tale status, oppu-re preferì non fare la domanda, per timore di un’espulsione in caso di rifiuto.

La maggioranza degli oltre mezzo milioni di esuli del Centroamerica fuggiti negli StatiUniti, dunque, non ricevettero protezione come rifugiati. L’atteggiamento americano neiconfronti degli esuli centroamericani fu fortemente influenzato da considerazioni politiche.I nicaraguensi erano generalmente bene accolti e beneficiavano dell’asilo, mentre un grannumero di guatemaltechi e di salvadoregni si videro rifiutare l’asilo e furono oggetto di prov-vedimenti d’espulsione, anche se di fatto gli Stati Uniti tollerarono la permanenza di alcuni

Principali popolazioni rifugiate registratein Centroamerica e Messico, 1980–99

0.0

0. 4

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1.0

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1980/81

Mili

oni

82/83 84/85 86/87 88/89 90/91 92/93 94/95 96/97

Messico Costa Rica Honduras Guatemala

0. 2

98/99

Fig. 5.3

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Rifugiati secondo la principale regione d’asilo,1975–2000*

0

1

4

5

6

7

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9

1975 1980 1985 1990 1995 2000

Mili

oni

2

3

Africa Asia Europa Americhe

Fig. 5.4

* Non sono compresi i rifugiati palestinesi assistiti dall’Agenzia dell’Onu di soccorso e lavoro per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente (Unrwa).

gruppi. Anche la Costarica, l’Honduras e il Messico accolsero varie centinaia di migliaia diesuli centroamericani, dei quali solo 143mila circa furono considerati come rifugiati 27. Duedelle maggiori concentrazioni di rifugiati ufficialmente riconosciuti si trovavano in Hondurase Messico. Nel 1986, l’Honduras ospitava qualcosa come 68mila rifugiati, di cui circa 43miladel Nicaragua, circa 24mila di El Salvador e un ridotto numero del Guatemala, mentre ilMessico ospitava circa 46mila guatemaltechi, riconosciuti come rifugiati, e molti altri, nonregistrati ufficialmente 28.

Per l’Unhcr, le attività di protezione e assistenza in favore dei due gruppi diversidi rifugiati presenti nell’Honduras erano limitate dalla politica della guerra fredda eda altre considerazioni politiche. Il governo honduregno, che dipendeva dagli aiutiamericani, accoglieva con favore i rifugiati nicaraguensi che fuggivano dal governosandinista, mentre era estremamente sospettoso nei confronti di quelli di El Salvador.Le disparità nel trattamento riservato dalle autorità dell’Honduras ai due gruppi dirifugiati crearono gravi problemi all’Unhcr. Sebbene la maggioranza dei rifugiati uffi-cialmente riconosciuti fossero alloggiati in campi profughi gestiti dall’organizzazione,la loro situazione era molto diversa: ai rifugiati nicaraguensi era consentito entrarne euscirne liberamente, mentre quelli salvadoregni erano costretti a soggiornare in campichiusi, sorvegliati dalle forze armate.

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Riquadro 5.4 Il Cile sotto il generale Pinochet

A differenza della maggior parte deipaesi latinoamericani, il Cile nonaveva, prima del 1973, unatradizione di intervento militarenella politica, ed era consideratouna delle democrazie più stabili delcontinente. L’11 settembre 1973,però, il generale Augusto Pinochetsferrava un attacco armato contro ilgoverno democraticamente elettodel presidente Salvador Allende. Ilcolpo di stato era rapidamenteseguito dalla repressione di ogniattività politica e dall’arresto inmassa di decine di migliaia disostenitori del precedente governosocialista. In tutto il paese eraproclamato lo stato d’assedio.

La tortura, le sparizioni e leuccisioni furono generalizzate,soprattutto durante i primi mesidella giunta militare Si calcola cheoltre 4mila persone siano stateuccise e circa 60mila arrestate,benché in maggioranza detenutesolo per breve tempo. Il parlamentofu chiuso e furono effettuateepurazioni di sospetti simpatizzantidella sinistra. Un rapporto dell’epocadell’Unhcr paragonò la situazione aquella del periodo fascista,nell’Europa degli anni ’30 iii.

I rifugiati già presenti in Cile

Per l’Unhcr, il colpo di stato cileno ele sue conseguenze rappresentaronouna prova molto impegnativa. Il Cileospitava già alcune migliaia dirifugiati e di esuli politici, che viavevano cercato asilo negli anniprecedenti. A metà del 1972, ilgoverno Allende valutava il loronumero in circa 5mila. Molti eranoarrivati dopo l’elezione di Allendenel 1970, in fuga da paesi congoverni di destra o per sostenerequella che vedevano comeun’esperienza socialista irripetibile.

Due giorni dopo il colpo di stato,l’Alto Commissario Sadruddin AgaKhan telegrafava al nuovo ministrodegli Esteri, contrammiraglio IsmaelHuerta Díaz, sollecitando il governo

a onorare i propri obblighi ai sensidella Convenzione Onu del 1951 suirifugiati e del Protocollo del 1967,ratificati dal governo Allende nel1972 iv. Se il Cile non avessesottoscritto tali strumenti, quasicertamente i negoziati dell’Unhcr colnuovo governo non avrebbero avutolo stesso esito positivo. Il 20settembre 1973, l’Unhcr apriva unproprio ufficio nella capitale,Santiago.

Nel corso dello stesso mese, ilgoverno autorizzava l’istituzione diun Comitato nazionale di aiuto airifugiati (Conar). Le organizzazionireligiose e le agenzie volontarie chene facevano parte crearono 26 centridi accoglienza per i rifugiati, 15 aSantiago e 11 nelle province. In talicentri, si aiutavano i “rifugiatirientranti nel mandato” a mettere inordine i loro documenti e siorganizzava il loro trasferimento inpaesi di reinsediamento. A finesettembre, nei centri erano già statiregistrati 600 rifugiati, e il 23ottobre il loro numero era salito a1.022.

Varie altre centinaia di rifugiatisenzatetto furono alloggiate, indiversi periodi, in una dipendenzadell’ambasciata svizzera, colconsenso del governo cileno. La casasuiza offrì asilo, in attesa di unreinsediamento all’estero, acentinaia di rifugiati, inmaggioranza brasiliani, uruguaiani eboliviani, che rientravano nelmandato dell’Unhcr, erano statirilasciati dal carcere ed eranooggetto di un’ordinanza diespulsione.

Il Conar operava sotto l’egidadell’Unhcr, che gli aveva offertoassistenza per la soluzione deiproblemi dei rifugiati. Al marzo1974, delle 3.574 persone registratepresso il Comitato, 2.608 erano giàstate reinsediate in una quarantinadi paesi, comprese 288 rimpatriatenei rispettivi paesi d’origine. Inoltre,circa 1.500 persone erano riparateclandestinamente in Perù e

Argentina. Su una spesa totale di300mila dollari, sostenuta dal Conarin quel periodo, circa 215mila eranostati stanziati dall’Unhcr.

L’esilio dei cileni

Sin dall’inizio, il regime di Pinochetutilizzò l’esilio nell’ambito della suastrategia volta a ridisegnare la cartapolitica del Cile, eliminandone cosìle precedenti tradizioni politiche. Ilnumero degli arrestati era tale che ilmaggiore stadio di calcio diSantiago fu trasformato in unimmenso centro d’internamento.

Le espulsioni erano effettuate aisensi del decreto legge n. 81, delnovembre 1973, che dava al regimeun potere praticamenteincondizionato in tale campo. Apartire dal dicembre 1974, aidetenuti nel quadro dello statod’assedio, ancora in attesa digiudizio, fu consentito far domandadi rilascio, condizionatoall’immediata espulsione. Nell’aprile1975, il decreto legge n. 504 esteseil provvedimento ai detenuti giàcondannati.

Il Comitato intergovernativo per lemigrazioni europee, il Comitatointernazionale della Croce Rossa el’Unhcr svolsero un ruoloimportante, a fianco delle Ongnazionali, per permettere a migliaiadi cileni di lasciare il paese. L’Unhcrricevette anche notevole appoggioda altre istituzioni delle NazioniUnite: in particolare,l’Organizzazione internazionale dellavoro (Oil), il Programma disviluppo delle Nazioni Unite (Undp)e l’Organizzazione delle NazioniUnite per l’educazione, la scienza ela cultura (Unesco). L’AltoCommissariato istituì, all’inizio diottobre 1973, una procedura per ladeterminazione dello status dirifugiato, per decidere se gliindividui avessero in Cile un fondatotimore di persecuzione, senzaconsiderare se fosse il paesed’origine o semplicemente di stabile

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residenza. Per molti rifugiati eranecessaria la procedura più rapidapossibile, perché temevano l’arrestoo perfino la morte per mano delleautorità.

Come per l’esodo dall’Ungheria,quasi vent’anni prima, i rifugiati sidispersero in mezzo mondo. Circa110 paesi, dall’Islanda e Cipro alKenya e Capo Verde, accolsero icileni in vista del reinsediamento.All’inizio, molti fuggirono versoaltri paesi latinoamericani, fra cui ilPerù, l’Argentina e il Brasile. Lepossibilità lavorative in tali paesi,però, erano molto limitate e, dopoil colpo di stato del 1976 inArgentina, il vicino immediato delCile non risultò più molto attraente.Le altre principali destinazioni deirifugiati cileni furono la Francia, laSvezia, il Canada, il Messico,l’Australia e la Nuova Zelanda.

L’Unhcr fece anche appello ai paesidell’Europa orientale per accoglieredei rifugiati cileni. Un migliaio circadi loro si recò di propria iniziativanella Repubblica democraticatedesca (Germania orientale) ealtrettanti andarono, con l’aiutodell’organizzazione, in Romania.Gruppi meno numerosi raggiunseroaltri paesi dell’Europa orientale, fracui la Bulgaria e la Jugoslavia:unico paese del blocco orientalecon il quale l’Unhcr aveva finoallora relazioni di qualche rilievo.L’appello rivolto dall’Unhcr a questipaesi era una novità, in un’epoca incui l’Unione sovietica guardavaancora l’organizzazione conmalcelato sospetto.

L’asilo diplomatico

Molte ambasciate di Santiago siispirarono alla consolidata prassilatinoamericana che consisteva nelgarantire la protezione diplomaticaa chi si trovasse nei loro locali. Nelgiro di pochi giorni dal colpo distato, oltre 3.500 cileni avevanochiesto asilo nelle ambasciate,soprattutto in quelle di Argentina,

Francia, Italia, Messico, Paesi Bassi,Panama, Svezia e Venezuela. In unincidente avvenuto nel dicembre1973, Harald Edelstam,l’ambasciatore svedese, fu espulsoper il ruolo particolarmente attivosvolto nel concedere l’asilodiplomatico.

Grazie ai propri “buoni uffici”,l’Unhcr intervenne in loro aiuto e, ametà ottobre, con la sua assistenzae l’accordo del governo, era giàstato concesso un salvacondotto a4.761 richiedenti asilo, inmaggioranza cileni. A maggio del1974, il ministero degli Esteri neaveva concesso circa 8mila v.

Le “oasi di sicurezza”

Il decreto legge n. 1308, del 3ottobre 1973, apportòun’importante innovazione nellamoderna prassi internazionalerelativa all’asilo: la creazione, nellostesso Cile, delle cosiddette “oasi disicurezza” per rifugiati stranieri,garantite dal governo cileno. Nellazona di Santiago ne furono istituitein tutto sei. Inizialmente, le oasi disicurezza furono rispettate dalregime, ma alla fine del 1973 untelegramma dell’Unhcr rilevava chela situazione dell’ordine pubblicorelativamente ai rifugiati apparivaestremamente tesa. Il messaggioindicava che forse la giunta militaresi proponeva di chiuderle,insistendo per la creazione di centridi transito al di fuori del Cile vi.Colmo dell’ironia, era quantochiedevano anche molti degli stessirifugiati.

Nell’aprile del 1974, l’Ufficiodell’Unhcr a Santiago calcolava in15mila il numero delle personeancora detenute, in tutto il paese,per motivi politici. Permanevano lelimitazioni delle libertà civili epolitiche e persisteva la carenza diun qualunque ordinamentogiuridico. Fu in tali condizioni cherimasero in funzione, per buonaparte del 1974, le sei oasi di

sicurezza. Un certo numero dicittadini cileni in attesa direinsediamento furono purealloggiati in un’oasi creata, sotto laprotezione della bandiera delleNazioni Unite, col decreto legge n.1698, del 17 ottobre 1974. Vi siprecisava che il centro potevaaccogliere rifugiati stranieri, comepure parenti di rifugiati cileni giàall’estero, in attesa diricongiungimento familiare. I cilenierano ammessi nell’oasi di sicurezzasolo su autorizzazione del ministerodell’Interno. La presenza deicittadini cileni significava chel’Unhcr si interessava sempre più acasi di ricongiungimento familiare,reinsediando le famiglie di cileniche avevano già trovato asiloall’estero.

Con la graduale partenza deirifugiati, il numero delle oasi disicurezza si ridusse sempre più. Allafine del 1975, quasi tutti i rifugiatistranieri che non potevano rimanerein Cile erano stati reinsediati inmodo soddisfacente e, nell’aprile1976, fu chiusa l’ultima oasisuperstite.

Una pietra miliare per l’Unhcr

L’operazione dell’Unhcr in Cile,iniziata nel 1973, rappresentòun’importante pietra miliare nellastoria dell’organizzazione. Fu laprima operazione su vasta scala inAmerica latina. Non si dispone dicifre esatte quanto al numero dellepersone fuggite in esilio negli anniin cui il generale Pinochet fu capodi stato. Fino a tutto il 1980, ilsolo Comitato intergovernativo perle migrazioni europee permise a20mila persone di lasciare il paese.Altre fonti calcolano in non menodi 200mila il totale di quantifuggirono il regime,volontariamente o a seguito diespulsioni vii.

Le guerre per procura

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I rifugiati nicaraguensi in HondurasI primi rifugiati nicaraguensi erano arrivati nel vicino Honduras nel 1981. La mag-gioranza di loro (circa 30mila) erano indios miskitos, che cercavano di sfuggire siaagli scontri fra le forze dei contras e quelle sandiniste, nelle loro zone d’origine,sia ai tentativi del governo sandinista per trasferirli altrove. All’incirca 14mila deimiskitos del Nicaragua vivevano in campi allestiti dall’Unhcr. I rimanenti 8milarifugiati nicaraguensi erano di origine spagnola o mista, conosciuti come “ladi-nos”, e continuarono ad affluire nell’Honduras per tutti i primi anni ’80. Molti,come i miskitos, cercavano scampo dai combattimenti fra i contras e le forze san-diniste. Altri erano reclute dei contras, stabilitesi in campi da questi gestiti lungo lafrontiera.

L’Unhcr tentò di mantenere una chiara divisione fra le basi dei contras e gli inse-diamenti dei rifugiati, cercando di allontanare questi ultimi dal confine. Era noto, tut-tavia, che i contras operavano da campi profughi gestiti dall’Unhcr e dal Comitatointernazionale della Croce rossa: una situazione che un osservatore descrisse come “unesempio dell’utilizzazione più estrema dei rifugiati come pedine in un gioco politi-co” 29. La presenza di gruppi armati nei campi dei rifugiati nicaraguensinell’Honduras, come quella dei gruppi armati afghani nei villaggi di rifugiati delPakistan, metteva gli esuli in grave pericolo. Ma poiché sia gli Stati Uniti chel’Honduras sostenevano i contras, l’Unhcr non potè impedire loro di operare daicampi stessi. Nel frattempo, alcune Ong criticavano l’Unhcr perché non proteggevaadeguatamente i rifugiati.

Nel 1987, l’afflusso dei rifugiati aumentò notevolmente, soprattutto in risposta auna campagna di reclutamento militare del governo sandinista. Nel dicembre 1987,l’Unhcr aveva registrato poco meno di 16mila rifugiati ladinos, all’incirca il doppiorispetto alla fine del 1986. Nel 1988, sulla scia dell’affare Irangate, il Congresso degliStati Uniti vietò ogni aiuto ai contras. Senza gli aiuti americani, la posizione dei con-tras fu indebolita e il conflitto giunse a un punto morto. Alcuni mesi dopo i sandini-sti e l’opposizione, ivi compresi i contras, intavolarono un “dialogo nazionale” cheportò, nel 1989, a una serie di accordi miranti a porre termine alla guerra.

I rifugiati salvadoregni in Honduras

I primi gruppi di rifugiati di El Salvador arrivarono in Honduras nel 1980. In unprimo tempo, si sistemarono senza difficoltà in varie località presso la frontiera, e inparticolare a La Virtud. Con l’arrivo di altri rifugiati, però, le autorità cercarono di farcessare gli insediamenti spontanei. Il governo vedeva gli esuli come dei sostenitori deiguerriglieri, e li trattava con diffidenza e ostilità. Nel maggio 1980, ad esempio, letruppe honduregne respinsero centinaia di rifugiati che cercavano scampo dagli attac-chi dei militari di El Salvador. Molti di quelli così respinti finirono poi uccisi.Ciononostante, malgrado la cattiva accoglienza che ricevevano, l’intensificarsi degliscontri in El Salvador continuò a costringere migliaia di abitanti a cercare riparo inHonduras. All’inizio del 1981, la popolazione salvadoregna rifugiata nel paese saliva a30mila unità.

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In Honduras, i rifugiati non trovarono la sicurezza sperata. Secondo un’infermie-ra europea che lavorava a La Virtud: “i militari salvadoregni, in base a un accordo conquelli honduregni di stanza a La Virtud, sono entrati liberamente nel territoriodell’Honduras. Alcuni rifugiati sono scomparsi, altri sono stati rinvenuti morti, altriancora sono stati arrestati dall’esercito honduregno” 30. L’Unhcr elevò una formaleprotesta contro le incursioni, come pure fecero degli alti prelati cattolici della regio-ne, ma con scarso risultato.

In seguito, nell’ottobre 1981, il governo dell’Honduras annunciò l’intenzione ditrasferire i rifugiati da La Virtud a Mesa Grande, località più lontana dalla frontiera, conlo scopo dichiarato di proteggerli, cosa che l’Unhcr non poteva che appoggiare.Alcune Ong e altri osservatori ritennero, però, che i veri obiettivi del governo fosse-ro di impedire ai rifugiati di aiutare i guerriglieri salvadoregni e di sgombrare la zonadi frontiera, in modo che i militari dell’Honduras e quelli di El Salvador avessero mag-giore libertà d’azione. I rifugiati e la maggior parte delle Ong che operavano a LaVirtud erano contrari al trasferimento, sostenendo che li avrebbe lasciati ancor più allamercè dell’ostilità dei militari honduregni.

La situazione divenne esplosiva il 16 novembre 1981, quando forze militare eparamilitari di El Salvador entrarono a La Virtud e rapirono un certo numero di rifu-giati. Il governo dell’Honduras sfruttò l’incursione come pretesto per procedereimmediatamente al trasferimento, sebbene i preparativi a Mesa Grande non fosseroancora ultimati. Malgrado l’opposizione dei rifugiati e malgrado i propri timori,all’Unhcr non rimase altra alternativa che di collaborare all’operazione. Nel giro dicinque mesi, furono trasferiti 7.500 rifugiati. Altri 5mila rientrarono in El Salvador,piuttosto che spostarsi a Mesa Grande. Il trasferimento creò nuovi problemi: moltedelle infrastrutture promesse non furono mai realizzate, e la situazione dei rifugiatirisultò molto peggiore di quando erano a La Virtud. Di conseguenza, aumentò la dif-fidenza dei rifugiati nei confronti sia delle autorità dell’Honduras che dell’Unhcr.

La politica del governo honduregno, consistente nell’alloggiare i rifugiati di ElSalvador in campi chiusi, rendeva loro difficile raggiungere l’autosufficienza. Nonpotevano cercare lavoro fuori dei campi profughi, e addirittura potevano coltivare laterra solo entro il perimetro dei campi stessi, il che limitava le coltivazioni possibili.Malgrado ciò, i rifugiati erano pieni di risorse: piantarono i loro orti, finendo col sod-disfare tutto il fabbisogno di ortaggi del campo. Realizzarono inoltre vivai che pro-dussero tonnellate di pesce, allevarono suini e pollame, e crearono laboratori in cuiproducevano la maggioranza degli indumenti, delle calzature e delle amache di cuiavevano bisogno.

Durante un altro controverso incidente, nel 1983, il governo dell’Honduras annun-ciò ai rifugiati salvadoregni del campo di Colomoncagua, presso la frontiera con ElSalvador, che anche loro avrebbero dovuto essere trasferiti o rientrare nel paese d’ori-gine. L’Unhcr approvava il trasferimento, ma avvertì il governo dell’Honduras che sisarebbe opposto ad ogni tentativo di rimpatriare i rifugiati con la forza 31. Nel frattem-po, le Ong internazionali appoggiavano la resistenza dei rifugiati al trasloco. Alla fine,le autorità honduregne fecero marcia indietro e i rifugiati non furono costretti a parti-re, ma le condizioni nel campo di Colomoncagua rimasero tese e pericolose. Sin dall’i-

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nizio, vi si erano registrati molti problemi di sicurezza, fra cui violenti attacchi ai dannidei rifugiati, a volte in combutta con militari di El Salvador. Un certo numero di altriincidenti, poi, furono originati da conflitti fra gli stessi rifugiati, in particolare quandocercavano di rimpatriare contro la volontà dei loro leader.

Nei campi occupati dai rifugiati salvadoregni, l’Unhcr si trovò fra l’incudine e ilmartello. I governi dell’Honduras e degli Stati Uniti volevano un controllo più rigo-roso sulle attività dei rifugiati, mentre questi, come anche la maggior parte delle Ongattive nei campi stessi, esigevano più libertà. In varie occasioni, il personale dell’Unhcrsul terreno fu vittima di violenze fisiche ad opera delle autorità honduregne.

Anche i rapporti dell’Unhcr con le Ong stesse erano estremamente tesi. Spessoqueste consideravano l’Unhcr alleato del governo honduregno e di quello americano,generalmente ostili ai rifugiati di El Salvador.A quell’epoca, un funzionario dell’Unhcrscriveva: “in nessun altro paese dove ho lavorato in precedenza il personale interna-zionale delle agenzie volontarie dimostrava tanta ostilità nei confronti dell’Unhcr,come a Mesa Grande e Colomoncagua” 32.

I rifugiati guatemaltechi in Messico

Negli anni ’80, il Messico – come del resto l’Honduras – non aveva firmato né laConvenzione Onu del 1951 sui rifugiati né il Protocollo aggiuntivo del 1967. Quando,nel 1981, esuli guatemaltechi cominciarono ad arrivare in gran numero in Messico,migliaia di loro furono rapidamente espulsi. Dopo una serie di proteste internaziona-li, tuttavia, il governo messicano instaurò una procedura di registrazione per i rifugiatiguatemaltechi e consentì di rimanere nel paese a 46mila di loro, una parte soltantodegli oltre 200mila guatemaltechi entrati fra il 1981 e il 1982. Nel 1982, l’Unhcr aprìil primo ufficio in Messico.

Molti di coloro che si erano registrati erano arrivati in regioni del Messico in cuii guatemaltechi tradizionalmente immigravano in cerca di lavoro, e in cui per loro erafacile mescolarsi alla forza lavoro locale e a quella immigrata. Inoltre, non meno di50mila di loro si erano spinti fino alla capitale, Città del Messico, dove non era previ-sta la possibilità di registrarsi. Altri arrivarono nel paese dopo che il governo avevaposto fine alla procedura di registrazione. Tutti i rifugiati non registrati vivevano nelcostante timore dell’espulsione.

Quelli registrati, dal canto loro, erano disseminati in una cinquantina di campiprofughi, in zone isolate della giungla del Chiapas, uno stato molto impoverito, con-finante col Guatemala. Le condizioni di vita nei campi erano del tutto insoddisfacen-ti. A partire dal 1984, il governo messicano, consapevole della situazione, adottò unapolitica consistente nel trasferire i rifugiati dal Chiapas in nuovi insediamenti, situatinegli stati del Campeche e del Quintana Roo, nella penisola dello Yucatán. In com-plesso, furono trasferiti circa 18mila rifugiati. Il governo sosteneva, non senza unacerta ragione, che il trasferimento fosse necessario perché i militari guatemaltechi ave-vano sferrato, attraversando la frontiera, vari attacchi contro gli insediamenti dei rifu-giati. Al tempo stesso, il governatore del Chiapas si opponeva violentemente alla pre-senza dei rifugiati, mentre la penisola dello Yucatán era una regione sottosviluppata,in cui i rifugiati potevano collaborare a iniziative di sviluppo.

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Circa 25mila dei rifugiati registrati nel Chiapas si opposero al trasferimentoverso Campeche e Quintana Roo, e rimasero dov’erano. Il governo messicano sco-raggiò le Ong messicane dall’assisterli. I bassi salari che ricevevano quando lavora-vano e l’impossibilità di disporre di terra e di servizi sociali, rendevano estrema-mente difficili le loro condizioni di vita, e nel 1987 un certo numero di loro anda-rono via dai campi, alcuni rimpatriando in Guatemala. In seguito, tuttavia, la situa-zione in materia di sicurezza e le condizioni di vita dei rifugiati ospitati nel Chiapasmigliorarono sensibilmente.

A partire dal 1984, il governo messicano – in collaborazione con l’Unhcr e le Ong– fornì ai rifugiati sistemati negli stati del Campeche e del Quintana Roo della terra,alloggi di fortuna, aiuti alimentari e un’assistenza sociale completa. Tali insediamentiebbero notevole successo, sul piano dell’autosufficienza e dell’integrazione dei rifugia-ti. La maggior parte di quelli che vi si erano trasferiti vi rimasero in permanenza, e ilgoverno messicano finì col concedere loro la cittadinanza.

La risoluzione dei conflitti e il rimpatrio

All’inizio degli anni ’80, si era ancora in piena guerra fredda. Alla fine del decennio,sia l’Unhcr che il paesaggio politico mondiale erano profondamente mutatiL’organizzazione aveva registrato una notevole espansione, non solo come personale ebilancio, ma anche per l’estensione del sue attività. Nel contempo, molti conflitti cheavevano caratterizzato l’ultimo decennio della guerra fredda si erano conclusi o siavviavano a soluzione.

Nel caso dell’Afghanistan, le truppe sovietiche si ritirarono dal paese nel 1989,poco tempo prima della disgregrazione della stessa Unione sovietica. Nel 1992, ilregime comunista da questa lasciato al potere a Kabul fu rovesciato dai mujahedin,spianando la strada al rimpatrio, nel corso degli anni ’90, di qualcosa come quattromilioni di afghani.

In Etiopia, il governo del presidente Menghistu fu deposto nel 1991, dando luogoa un periodo di relativa calma. In Eritrea, la guerra civile più lunga del continente afri-cano terminò nel 1991, e nel 1993 il paese ottenne l’indipendenza.

In America centrale, il processo di pace avviato nel 1987 a Esquipulas materia-lizzava la determinazione dei dirigenti centroamericani di porre fine ai conflittinella regione. Nel Nicaragua, una conclusione negoziata del conflitto fra il governoe i contras ebbe inizio nel 1989, e l’anno dopo il governo sandinista fu sconfittonelle elezioni. In El Salvador e in Guatemala, gli accordi formali di pace furono con-clusi rispettivamente nel 1992 e nel 1996, ma molti rifugiati erano già rimpatriatiprima di tali date. All’inizio degli anni ’90, il centro dell’attenzione dell’Unhcr sispostò quindi sul rimpatrio.

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