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Ricerca CeMiSS 2008 Criminalità organizzata: costo implicito ed elemento di rigidità nello sviluppo dell’economia italiana Direttore della Ricerca Dott.ssa Olimpia SCOPELLITI

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Ricerca CeMiSS 2008

Criminalità organizzata: costo implicito ed element o di rigidità nello sviluppo dell’economia italiana

Direttore della Ricerca

Dott.ssa Olimpia SCOPELLITI

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Tema “libero”, ma non troppo!

Chissà in quanti provano la stessa rabbia e la stessa frustrazione di Italo1! Ma chi è Italo? Un grazioso pupazzetto, un fumetto, un logo? No, Italo è tutti noi, la parte sana dell’Italia che non riesce a decollare e ad uscire da un’impasse che dura da troppo tempo oramai. È l’economia di un Paese che conosce da sempre eccellenza e declino, difficoltà e ricchezza, emergenze croniche, è l’emblema di un Paese che sbaglia pur sapendo di sbagliare. Si dice che la nostra Terra (o l’Italia, qui) non sia un’eredità del passato, ma un prestito dal nostro futuro. Ne consegue che dobbiamo rispettarla e fare del tutto per consegnarla ai posteri nelle condizioni migliori, per non privarli dell’opportunità di fruirne. Al limite, in condizioni non peggiori di come l’abbiamo ricevuta dai nostri padri! La fruibilità di un simbolo come Italo è proprio quella di una comunicazione immediata, priva di orpelli, carica di un messaggio chiaro e semplice da veicolare ad un pubblico quanto più vasto possibile. Italo parla la lingua di tutti: di chi vuole vedere un alto profilo intellettuale condensato in un disegno, ma anche di un bambino che vede un pupazzo e che, ascoltando la sua storia, prova dispiacere perché vorrebbe che saltasse leggero, perché vorrebbe giocare a “caccia al tesoro” per trovare la chiave e liberare il suo amico. Italo è uno strumento educativo: se si limitasse a fotografare la realtà statica, non svolgerebbe alcuna funzione. Italo, al contrario, poiché sa dove trovare la chiave della sua libertà, orienta tutti i suoi sforzi per raggiungere l’obiettivo. In questo senso, ha qualcosa da comunicare a tutti, grandi e piccini, e li invita a non restare spettatori impotenti di fronte all’implosione/ impoverimento/ inaridimento/ involuzione del proprio futuro. Contro tutto questo, Italo ha un’espressione battagliera, se lo si osserva attentamente. Allora, interroghiamo Italo e impariamo ad ascoltare le sue risposte, le sue esigenze, le sue difficoltà. E facciamo altresì autocoscienza per comprendere quanti capitali restano non sfruttati e quante potenzialità sono sottovalutate, non sollecitate, quante idee rimangono senza persone coraggiose che le mettano in pratica.

1 L’ispirazione per l’immagine di Italo nasce da una ClipArt di Microsoft Office, ma la colorazione e il messaggio sono pienamente originali.

”Italo è un simpatico pupazzetto sgangherato. Non è perfetto, non è simmetrico, e a volte ha i contorni un po’ incerti. Veste un delizioso pigiamino a strisce… tricolore! Prova dei sentimenti e delle emozioni: l’espressione del suo volto è un po’ angosciata, confusa, ma anche indispettita. Il problema di Italo è una grossa palla al piede: un peso di piombo nero che gli impedisce di camminare e che lo obbliga a trascinarsi con fatica. Le sue gambe mingherline non riescono a sostenere un tale peso e sono malferme. Italo sa dove si trova la chiave che potrebbe aprire il lucchetto che lo tiene avvinto a quella palla al piede, ma è così appesantito da non riuscire a saltare per afferrarla…”

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Abstract.

L’economia italiana è da tempo ingessata per una serie di ragioni: elevata pressione

fiscale, spesa pubblica eccessiva, questione salariale, crescita del livello dei prezzi e del

costo della vita, scarsa competitività nel settore hi-tech, declino nel livello culturale della

popolazione, scarsa sicurezza sul lavoro, stagnazione demografica, ripercussioni della

difficile congiuntura economica internazionale.

Ci sono costi sociali ed economici di lungo periodo che vengono incorporati nel sistema e

dei quali risulta sempre più difficile liberarsi: ne ricaviamo subito un’immagine icastica di

Paese “zavorrato ”. Fra i vari sintomi di appesantimento dell’economia, in questa ricerca

consideriamo la presenza della criminalità organizzata.

I costi, in questo modo, divengono insostenibili perché le occasioni mancate di sviluppo

lasciano dietro di loro una scia di “desertificazione”, un inaridimento del dinamismo e della

spinta all’innovazione. Nel lungo periodo, risulta mortificata l’intera funzionalità del sistema

economico.

Bisogna, pertanto, introdurre una buona dose di scientificità nell’analisi dal momento che

vi è urgenza di mettere a punto delle metodologie valutative che forniscano delle

concrete indicazioni di policy.

Il nostro viaggio inizia dai soldi e segue il percorso del denaro: quello sporco per come

viene ripulito ed introdotto nei circuiti finanziari legali; quello pubblico per come viene

distorto dagli obiettivi di crescita e di sviluppo cui è originariamente destinato; quello

estorto e prelevato in via parassitaria rispetto alle attività economiche lecite. L’obiettivo è,

dunque, quello di individuare i meccanismi attraverso i quali la criminalità organizzata

determina un’interferenza rispetto al sano sviluppo economico del Paese. Ci chiediamo,

cioè, se sia un elemento che ormai va purtroppo considerato come qualcosa di

strutturalmente incorporato nel funzionamento economico dell’Italia, alla luce della

tendenza alla “managerializzazione” dell’attività criminale e della sua progressiva mimesi

nella società.

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Executive summary.

Che cosa rende, ancora oggi, di estrema attualità parlare di “mafie” e di criminalità

organizzata? Che cosa fa sì che scrivere di questa piaga sia un’operazione editoriale di

sicuro successo?

Nel mare magnum delle immagini, delle notizie, dei nomi e dei fatti si è creato lo spazio

per un’informazione speculativa e di consumo, a volte distorta, a volte scomoda e

censurata. Strillata ma spesso rimasta inascoltata; allarmata e gonfiata oppure taciuta e

soffocata nel più assordante dei silenzi: un grande pentolone in cui c’è posto per tutto, di

tutti.

Com’è noto, però, il clamore e gli schiamazzi non aiutano a portare chiarezza né rigore

scientifico per comprendere in profondità i meccanismi di funzionamento ed evoluzione del

modus agendi di un universo sì parallelo ma non lontano dal mondo reale, dove anzi ha

messo radici sottili e ben ramificate ovunque.

Quanto oggi sia difficile discernere tra criminale e non è diretta conseguenza della

“promiscuità globale” in cui siamo immersi: aprire rotte e frontiere, collegare gli estremi

della Terra in tempo reale, facilitare la mobilità di “cose, capitali e persone”, ha

rappresentato una ghiotta opportunità anche per le organizzazioni criminali, ne ha

stimolato il parassitismo e la predatorietà, ha consentito loro di inserirsi progressivamente

nell’intero sistema.

La “liquidità ” di cui parla Z. Baumann è la metafora di una società divenuta permeabile,

fluida, destrutturata nei sentimenti, nelle azioni, nelle capacità e che, in questo senso,

perde anche nell’incisività delle proprie decisioni.

Più di altri, questo è il tempo delle risorse materiali limitate ma delle opportunità illimitate:

le organizzazioni criminali, in quanto fuori legge, possono approfittare senza scrupolo di

ogni chance – da qualunque parte provenga – e si fanno beffe delle risorse molto limitate

e vincolate di cui dispongono le forze deputate alla prevenzione/ repressione dei reati.

Non c’è rassegnazione nel constatare che la soluzione è ben lungi dal concretizzarsi,

bensì emerge la richiesta di un supplemento d’analisi, di uno sforzo di comprensione che

consenta di progettare alternative praticabili .

È un fatto che la mafia abbia una sua storia, una sua evoluzione costellata di strategie che

le hanno consentito di sopravvivere, di riprodursi, di allargare il ventaglio

dei propri interessi. Ha la forza di una secolare tradizione alle spalle, ha

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le sue leggi, i suoi “valori”, ma il rispetto del passato non si è trasformato in una gabbia,

cioè in un elemento “statico”, bensì in una risorsa che ne mantiene la coesione interna e

l’aderenza ad un patrimonio comune. Ciò nondimeno questo non ha interferito con lo

spirito imprenditoriale e la capacità di re-inventarsi per saper aggredire ogni spazio

d’interesse che la nuova economia ha aperto in così breve tempo a livello globale.

Parte da queste preliminari osservazioni un percorso di ricerca ed analisi decisamente

articolato che si andrà dipanando secondo un approccio economico supportato da

metodologie statistiche, senza perdere quello che può essere il contributo dell’apporto

storico-sociologico.

Questa analisi ha un punto di partenza ben preciso che s’inquadra in un contesto

specifico: l’interrogativo fondamentale, al quale si tenterà di dare una risposta, riguarda le

problematiche di efficienza ed efficacia nel settore della sicurezza, nella prospettiva di una

criminalità organizzata letta con gli occhi di chi la deve combattere, per capire come

affrontarla.

Come si darà conto nel prosieguo, è ormai acclarato che la criminalità organizzata

rappresenta una voce di costo supplementare ed aggiuntiva che è di ostacolo per lo

sviluppo socio-economico del Paese.

Numerosi studi empirici hanno incontestabilmente dimostrato che tale presenza illegale sul

territorio ha dei pesanti effetti distorcenti sulla concorrenza, sull’immagine della nostra

penisola percepita all’estero e, di conseguenza, sulla sua attrattività dal punto di vista della

convenienza degli investimenti.

Ci si potrebbe chiedere se c’è una data di nascita, una nazionalità, un fattore

scatenante per il sorgere della criminalità organizzata. Ma seguirebbe

immediatamente un altro interrogativo: quanto è utile sapere da quando esiste se ormai è

chiaro che c’è e si manifesta? È questione da storiografi, peraltro non ancora pacifica.

Il “quando” è più utile se posto in relazione ad altri elementi: il problema nasce quando si

ammette di averlo, quando si decide di affrontarlo, quando si comincia a modificare un

codice penale per accoglierne la definizione e prevedere delle pene, quando si decide di

elaborare una strategia preventivo-repressiva, quando si studiano gli effetti, le

contaminazioni e i danni prodotti dalla presenza della criminalità organizzata all’interno del

tessuto sociale di un Paese.

Il “che cosa” è anch’esso un problema tutt’altro che prossimo alla soluzione: il fenomeno

criminale ha cambiato faccia più e più volte. In tempi assai vicini a noi si assiste ad una

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fase di transizione che sta quasi “professionalizzando” il crimine, dandogli un volto sempre

più confondibile all’interno della società.

Il “come” si può ricostruire – purtroppo – sempre a posteriori: come si organizza, come

agisce, come si autoalimenta.

Il “perché” ha provato a spiegarcelo quasi 40 anni il prof. Gary Becker e l’ha rintracciato,

ad esempio, nell’equilibrio costi-benefici che un individuo o un gruppo raggiungono

attraverso la differenza tra il profitto ricavato con l’azione criminosa e il rischio di essere

scoperti e puniti.

Economica e razionale è la scelta; economico è lo scopo ultimo dell’azione criminale;

economici sono anche gli effetti di una capillare presenza della criminalità sul territorio.

Di conseguenza, economica sarà anche la prospettiva d’analisi, perché è chiaro che essa

incorpora e non prescinde dai nessi di causalità con gli aspetti socio-criminologici e

persino politici del fenomeno stesso.

Quale che sia l’origine o la caratteristica dell’organizzazione criminale, non si può fare

come se non ci fosse. E quindi bisogna “attrezzarsi”, nel senso che, una volta ammessa la

sua presenza, la si deve qualificare come uno svantaggio competitivo che affligge in varia

misura l’intera Italia, con catastrofiche proporzioni per il suo Mezzogiorno.

Per quanto ci è dato di conoscere, gli approcci alla criminalità organizzata di stampo

mafioso che si sono succeduti fino ad oggi hanno inquadrato la questione da un solo

punto di vista: la storia o la cronaca, la criminologia, gli affari. Sul business, poi, ci si è

frammentati tra usura, racket delle estorsioni, crimini finanziari, partecipazioni mafiose ad

imprese più o meno legali, traffico di droga, armi ed esseri umani.

Ci si è spinti sino a “stimare” il PIL mafioso, il giro d’affari annualmente realizzato, con

l’avvertenza che si tratta pur sempre di un fenomeno parzialmente sommerso, quindi

inconoscibile e pertanto congetturale.

In questo caso, invece, si tenterà un approccio “collect”, più ampio e stratificato, per

giungere ad una matrice di sintesi che consenta di apprezzare fino in fondo qual è

l’effettivo “peso-zavorra” con cui la criminalità organizzata ostacola il decollo economico

italiano.

È tutta colpa delle mafie? Ovviamente no. Nel senso che non può tacersi una congiuntura

economica internazionale assai problematica e non possono ignorarsi le altre carenze

strutturali del “sistema-Paese”, ma è altrettanto certo che la presenza pervasiva e diffusa

di un “mafia climate ” costituisce quantomeno un ulteriore svantaggio per l’Italia, essendo

in grado di sottrarre risorse strategiche per lo sviluppo territoriale e riuscendo, così, a

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scoraggiare gli investimenti ed affievolire il consolidarsi di uno spirito di “entrepreneurship”

radicato e condiviso.

Nelle more di queste osservazioni preliminari introduciamo un termine scelto in modo

tutt’altro che casuale: il monopolio . Questo è un elemento al quale sarebbe opportuno

dedicare una certa attenzione, perché consente di introdurre un’interpretazione molto

“manageriale” dell’affare mafioso, che ormai ha perso gran parte della sua connotazione

sacrale per sfociare in una questione di business, capace di sganciarsi persino dal

territorio originario.

D’altronde, la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese sono raggruppate sotto la più

ampia dicitura di organizzazione criminale, la quale sta semplicemente ad indicare che

determinati scopi illeciti vengono perseguiti attraverso metodi altrettanto illegali, in modo

sistematico e non occasionale, traendo forza dal fatto di essere strutturata ed

istituzionalizzata al proprio interno, quindi stabile.

Quanto di “tradizionale” sia rimasto nei comportamenti mafiosi è tutto da dimostrare e

valutare.

In Italia, il matrimonio è “a tre piazze ”: lo Stato, il mercato e la criminalità organizzata.

Tutti e tre a caccia di profitti, di rendite, di monopoli, con la non trascurabile differenza che

le varie mafie fanno uso della minaccia violenta, dell’intimidazione, del ricatto,

distinguendosi da un qualunque altro gruppo d’interesse o lobby.

Con l’ulteriore conseguenza che lo Stato non può arretrare dal confronto, non può sottrarsi

al dovere di reprimere il fenomeno e, nella scelta tra “burro” e “cannoni”, deve

obbligatoriamente bruciare delle risorse irrecuperabili.

Come si vede, dunque, sono molteplici i canali attraverso cui le organizzazioni criminali si

trasformano in pesanti zavorre:

� limitazione e distorsione della concorrenza,

� mortificazione dell’immagine del Paese, con conseguente ulteriore perdita di

occasioni d’investimento,

� spreco di risorse per la repressione e la garanzia della sicurezza.

Quella che ne deriva è una “contabilità” incredibilmente ricca e complessa, fatta di costi

diretti ed indiretti, pur sempre riconducibili alla presenza della criminalità.

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Per approfondire queste dinamiche, adotteremo un punto di vista variabile che ci porterà

ad immedesimarci ora nei meccanismi comportamentali ed operativi della criminalità

organizzata, ora nelle forme di interferenza che le attività economiche ed il mercato in

generale subiscono.

Per quanto riguarda, invece, lo Stato esauriremo il discorso in due tranches:

a) in questa parte introduttiva della ricerca tratteremo delle questioni di sicurezza

legate alle modalità repressive e ai costi di un’azione pubblica per la legalità;

b) dal capitolo 4 in poi, invece, ci occuperemo di rilanciare il settore della ricerca nel

campo degli studi sulla criminalità organizzata, elaborando un metodo d’analisi

“preventivo” volto ad individuare i settori economici più vulnerabili ed appetibili per

l’aggressione criminale. Da questo punto di vista, vi è un suggerimento implicito per

modificare e ridisegnare gli orientamenti di policy.

Introdurre subito le questioni legate alla sicurezza contribuisce ad identificare con

maggiore precisione il focus del nostro lavoro: di fronte alla denominazione del PON

“Sicurezza per lo sviluppo”, una ricerca intitolata “Criminalità organizzata: costo implicito

ed elemento di rigidità nello sviluppo economico italiano” potrebbe sembrare una “costola”

del Programma Operativo, quasi che presentasse una contiguità concettuale.

In realtà, la ricerca che presentiamo fornisce un’analisi che sta “a monte” del PON, perché

suggerisce metodi e non progetti da finanziare, studiando meccanismi , punti deboli ed

incongruenze del sistema italiano. La divergenza è piuttosto netta:

il PON ha come obiettivo la “produzione di sicurezza2” per realizzare

le condizioni ritenute catalizzatrici dello sviluppo economico.

In questo senso, la criminalità organizzata non viene analizzata a fondo in quanto se ne

ammette l’esistenza e tanto basta per giustificare l’azione di contrasto. L’attenzione,

quindi, si orienta tutta sul “come” combatterla nel modo più efficace possibile e con il

miglior impatto sociale.

Com’è noto, infatti, il concetto di “sicurezza” assume una connotazione peculiare se riferito

in particolare a determinate aree dell’Italia perché l’associazione mentale tra Sud e

sicurezza rimanda immediatamente – quasi automaticamente – alla presenza della

criminalità organizzata di stampo mafioso.

2 L’Autorità di Gestione del PON “Sicurezza per lo sviluppo – obiettivo Convergenza” 2007-2013 si esprime in questi termini: «Si rivela imprescindibile una globale azione di concertazione con tutti i soggetti – pubblici e privati – che possono fattivamente concorrere a “produrre” il bene sicurezza secondo una logica interdisciplinare, sinergica, tesa al “fare sistema” con tutte le componenti attive, siano esse le amministrazioni centrali o locali, le aziende e le filiere produttive e commerciali, ovvero le formazioni associazionistiche e di categoria».

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La nostra prospettiva è parzialmente diversa da questa impostazione e parte da una

definizione più accurata del termine “sicurezza”. Nel documento approvato dalla riunione

di Presidenza del Forum generale italiano per la sicurezza urbana nel giugno del 2005,

viene offerta una definizione di “politiche di sicurezza” soddisfacente: «Le politiche di

sicurezza riguardano l’intera popolazione, la qualità delle relazioni sociali e interpersonali,

la qualità dell’ambiente urbano, mentre le politiche criminali riguardano solo la prevenzione

e repressione di determinati comportamenti personali qualificati come reati. In sostanza, le

politiche criminali sono solo una parte, più o meno rilevante a seconda dei contesti, delle

politiche di sicurezza. L’equivoco nasce dal fatto che in Italia, anche per mancanza di

esperienze diverse, per politiche di sicurezza si finisce per intendere le sole politiche di

prevenzione e repressione della criminalità, tradotte in “sicurezza pubblica” o “pubblica

sicurezza”. In questo caso la lingua italiana non aiuta; chi parla francese o inglese ha due

diversi termini per indicare, da un lato, la sicurezza urbana in senso ampio, dall’altro quella

specifica che si riferisce all’azione della polizia contro la criminalità: securité e sureté in

francese, safety e security in inglese.»

Ci vuole molta prudenza nel considerare la sicurezza un “bene”, quasi

fosse un prodotto seriale che si compra e si vende.

La sicurezza non è una saponetta! Nel senso che non esiste una

formula chimica che dia le istruzioni per realizzarla. E non esisteranno mai mille sicurezze

della stessa forma, colore, prezzo, come una tavoletta di sapone.

Con questa metafora un po’ grossolana si vuole mettere in evidenza che ci sono equivoci

nei quali non bisogna incorrere: soprattutto negli ultimi anni si è assistito ad una notevole

espansione del mercato della sicurezza privata, fatto di vigilanti, telecamere a circuito

chiuso, allarmi sofisticati. In questo senso, la sicurezza è diventata un “prodotto” al quale

può accedere chi ha un reddito sufficiente, a scapito dei soggetti più deboli che ne

rimangono sprovvisti.

Assumere invece il bene della sicurezza come “bene pubblico” significa operare per la

tutela dei diritti di tutti. La sicurezza non è pertanto un “nuovo” diritto, ma lo stato di

benessere che consegue alla tutela dei diritti di tutti. Una sorta di rivoluzione copernicana:

il tema della sicurezza si converte pertanto dalle politiche volte a soddisfare “il diritto alla

sicurezza” a quelle orientate a garantire “la sicurezza dei diritti”3.

3 Massimo Pavarini, “Il governo del bene pubblico della sicurezza a Bologna”, 2005.

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La nostra ricerca suggerisce appunto come studiare un settore ed

evidenziarne le peculiarità per scegliere in anticipo come impedire

le possibili infiltrazioni criminali. L’impostazione da noi seguita, dunque, rappresenta in

qualche modo l’antecedente logico del PON. Inoltre, il nostro lavoro si concentra

esclusivamente sull’infiltrazione della criminalità organizzata all’interno delle attività

economiche lecite – siano esse private o pubbliche – trascurando tutti gli altri ambiti di

azione illecita da parte delle mafie, i quali giustificano la repressione e le politiche di

prevenzione programmate dal PON.

Sebbene alcuni termini come “analisi di contesto” e “valutazione ex-ante” siano utilizzati in

entrambe i lavori, essi hanno una valenza totalmente diversa: nel PON l’analisi di contesto

si limita a tracciare un quadro delle Regioni obiettivo Convergenza di tipo

macroeconomico e la valutazione ex-ante riguarda i profili di coerenza ed efficacia delle

azioni programmate.

Nel nostro lavoro, invece, l’obiettivo è quello di analizzare ogni singolo settore economico:

il metodo che illustreremo nel capitolo 4 comprende l’esame del contesto regionale come

primo step, ma in seguito giunge ad approfondire il singolo mercato considerato e a

contestualizzare persino i vari casi concreti. Di conseguenza, il livello di disaggregazione

dei dati e dell’ambito territoriale è di gran lunga diverso.

Un’ulteriore particolarità riguarda il fatto che, mentre nell’analisi di contesto del PON le

carenze economiche e le criticità criminali sono descrittivamente giustapposte, nel nostro

lavoro cerchiamo le superfici di contiguità e reciproca contaminazione introducendo il

concetto di “mercato grigio ” come area di mescolanza fra elementi leciti ed illeciti.

Un’ultima osservazione ci porta a suffragare il salto di qualità che questa ricerca tenta di

fare: leggendo le varie formulazioni dell’analisi SWOT riferite alle problematiche delle

Regioni meridionali ad alta presenza criminale, si percepisce una grave forma di miopia .

In altri termini, sembra mancare la giusta proiezione nel futuro di questi strumenti d’analisi:

il limite manifesto è quello di codificare la situazione presente, con un orizzonte temporale

di previsione arroccato nel breve periodo.

Dinamismo , flessibilità ed adattabilità si sono rivelati i connotati principali della

criminalità organizzata al cospetto dell’economia. Come evidenzieremo attraverso alcuni

esempi concreti, il livello di raffinatezza raggiunto nei metodi, la fluidità nel creare contatti

e relazioni in qualunque ambiente del pianeta sono gli elementi meno controllabili e

pertanto costituiscono le minacce più subdole per l’intero sistema.

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La complessità tecnologica e la crescente componente soft4 che caratterizzano già oggi

l’economia – e che in futuro saranno sempre più cospicue – sono ancora troppo poco

prioritizzate .

Una volta introdotto lo specifico contesto in cui si sviluppa questo lavoro di ricerca, ne

riassumiamo brevemente il piano dei contenuti.

Partendo dall’assunto che esiste una fondamentale differenza tra il concetto di “mafia” e

quello di “criminalità organizzata”, nel capitolo 1 si dedica un apposito spazio alla

definizione del fenomeno: attraverso la tassonomia di Dwight Smith e le distinzioni fatte

dal prof. C. Fijnaut, sono chiarite le caratteristiche dell’infiltrazione criminale nelle

attività economiche e si rende conto del fatto che gli elementi etnici di appartenenza

territoriale sono ingredienti fondamentali della mafia ma non si identificano con l’intero

universo della criminalità organizzata.

Nel secondo capitolo, si esamina la realtà albanese dal punto di vista delle interferenze

criminali con la transizione verso lo sviluppo economico dopo il crollo del regime

comunista. Come si vedrà, sembra essere un termine di paragone piuttosto efficace

soprattutto per quanto riguarda la vulnerabilità delle amministrazioni locali che

gestiscono finanziamenti volti al ripristino della legalità.

Il terzo capitolo descrive i meccanismi macroeconomici e microeconomici attraverso i

quali la presenza diffusa della criminalità organizzata sul territorio si trasforma in un costo

aggiuntivo per lo sviluppo economico. Viene analizzata l’evoluzione dei metodi operativi e

dei settori d’interesse per l’infiltrazione mafiosa, con riferimento sia alla singola azienda

che al circuito di reddito prodotto dall’intero sistema considerato. Di particolare pregio è

l’elaborazione del modello con cui spiegare le aree di cointeressenza tra economia e

criminalità: esso si rappresenta attraverso l’intersezione di due insiemi, vale a dire il

mercato nero dell’illecito e quello bianco delle attività pulite e lecite. Nell’area in cui si

sovrappongono i due mercati, nasce quello grigio in cui si combinano elementi leciti ed

illeciti, con una frontiera mobile che può espandersi e diventare sempre più invadente nei

confronti del mercato bianco.

Inoltre, si traccia il profilo della cd “mafia imprenditrice” e delle forme con cui il capitale

illecito penetra nell’economia e si sostituisce a quello lecito degli altri operatori pubblici e

4 Per componente soft intendiamo:

• gli orientamenti finanziari dell’economia globale, • l’interdipendenza dei mercati, • l’effetto domino che ogni fenomeno può innescare, • il progressivo allontanamento dall’economia reale e dalla sua componente hard, • l’allentamento dei legami territoriali di “cose, persone, capitali”.

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privati, attraverso la costruzione di una matrice McKinsey adattata alle caratteristiche della

criminalità: da un lato i legami di sangue e con il territorio, dall’altro lato gli interessi

suscitati dalla nuova economia globalizzata e moderna.

Al capitolo terzo è allegata una breve appendice storico-bibliografica: essa contiene le

recensioni dei testi di recente pubblicazione che affrontano l’universo della criminalità

organizzata dal punto di vista delle origini e della storia.

Il capitolo quarto, invece, inaugura una sorta di seconda parte della ricerca, con un

carattere più spiccatamente empirico. Dopo aver chiarito definizioni e meccanismi nei

primi tre capitoli, si è posta l’esigenza di non restare ancorati ad un profilo esclusivamente

compilativo: è stato perciò elaborato un metodo che consente di analizzare i vari settori

dell’economia secondo una struttura a strati (cipolla). Si parte da un inquadramento del

contesto generale dal punto di vista economico e criminale per poi definire gli aspetti

caratteristici del settore esaminato, comprese le vulnerabilità legislative e tutte le

debolezze che lo rendono aggredibile dalla c.o.

Dopo contesto e mercato, l’interesse va rivolto all’analisi dei singoli case-study, ossia le

esperienze di infiltrazione criminale di cui si abbia già conoscenza, per individuare gli

schemi comportamentali messi in atto dalle mafie.

L’assunto fondamentale di questo metodo consiste nella convinzione che sulla base delle

esperienze passate, sia possibile prevedere le azioni future da parte della criminalità

organizzata. Agendo in maniera tempistica sulle debolezze del sistema, si dovrebbe poter

impedire l’infiltrazione.

Il capitolo quinto presenta un approfondito esempio di applicazione del metodo preventivo

appena descritto: il settore prescelto è l’infiltrazione della criminalità organizzata all’interno

delle attività portuali di Gioia Tauro. Pertanto, il capitolo è strutturato come segue: una

prima parte descrive il contesto economico della regione calabrese in generale; una

seconda parte realizza lo “zoom” sull’area portuale di Gioia Tauro, raccontando le

specificità e le debolezze del mercato della logistica, evidenziando le modalità

d’infiltrazione prescelte dalla ‘ndrangheta di cui è stata chiarita la storica presenza sul

territorio. A coronamento dell’evoluzione nei metodi criminali posti in atto a Gioia Tauro, si

propone la ricostruzione dello script comportamentale rivelato dall’operazione giudiziaria

“Cent’anni di storia”.

Per non appesantire il già ricco apparato concettuale del capitolo, sono state allegate due

appendici: nella prima vi sono alcune tavole statistiche che riportano i dati macroeconomici

fondamentali per la ricostruzione del contesto economico calabrese; la seconda, invece,

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riporta la cronaca di una visita personalmente condotta dal ricercatore presso il porto di

Gioia Tauro.

Nel capitolo sesto, infine, per trarre le somme di tutto il percorso di studio, si riportano

alcuni ulteriori esempi di case-study e si provvede ad un aggiornamento del modello

beckeriano di convenienza economica a delinquere, sulla base delle consapevolezze

raggiunte attraverso la ricerca, nonché ad un test empirico della bontà del metodo

preventivo sul settore della grande distribuzione commerciale in Calabria (in quanto si

rivela un possibile ambito a forte vulnerabilità per l’infiltrazione criminale).

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CAPITOLO I

Questioni terminologiche di tutta rilevanza.

Premessa

Come anticipato, le coordinate principali di questa ricerca riguardano:

a) un focus non generalizzato su tutto l’universo della criminalità organizzata, bensì

sull’infiltrazione criminale all’interno delle attività economiche lecite come ostacolo ai

regolari meccanismi di concorrenza e sviluppo economico;

b) l’individuazione di alcune variabili-sentinella per evidenziare punti deboli e vulnerabilità

dei settori economici ed impedire così interferenze criminali.

In questo capitolo iniziamo ad affrontare gli obiettivi del punto a) sotto il profilo definitorio,

per inquadrare l’ambito di lavoro all’interno del quale muoverà i passi la nostra ricerca.

1.1 La tassonomia delle attività economiche.

R. T. Naylor (1997) osservava che se la battaglia al crimine organizzato, nonostante

l’ingente profusione di risorse, non dava i frutti sperati, ciò poteva dipendere da un’erronea

interpretazione della natura e del funzionamento del mercato criminale.

Il che può avvenire sia all’interno dei confini nazionali che nei confronti di organizzazioni

criminali cross-border.

Inoltre, non si tratta di comprendere solo il funzionamento della criminalità, bensì la sua

fonte generatrice e l’impatto che produce sulla società.

Si può annotare, ad esempio, che c’è una tendenza piuttosto forte ad enfatizzare l’etnicità

(mafia russa, siciliana, cartelli colombiani…) anziché includere più utilmente nella

distinzione i problemi di marginalizzazione socio-economica che possono condurre ad

attività illecite.

Se si accetta la nozione che il crimine organizzato è innanzitutto un fenomeno economico,

l’identità etnica diventa poco più che un dettaglio irrilevante.

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In effetti, Dwight Smith (1991) ha spiegato che la modalità di approccio alla criminalità

organizzata ne determina poi l’interpretazione e le possibili soluzioni. Già decenni prima,

inserendosi a pieno titolo nel filone beckeriano dell’approccio economico al crimine, Smith

aveva elaborato una sorta di tassonomia delle attività economiche per evidenziare come

l’elemento criminale e quello etnico fossero due categorie piuttosto distinte, il secondo

incluso nel primo ma non sufficiente a definirlo interamente.

1.2 I problemi internazionali di definizione della criminalità organizzata.

Infatti, sempre in tema di problematiche definitorie, una “vexata quaestio” riguarda proprio

l’ampiezza e la qualità di una probabile e soddisfacente definizione di criminalità

organizzata.

Si rileva che c’è stata una grande influenza statunitense sui concetti adottati in sede

europea, con la conseguenza che l’approccio americano tende ad enfatizzare il “chi” più

del “cosa” del crimine organizzato. Inoltre, e su questo punto è utile attirare l’attenzione, le

questioni definitorie non sono astratte tavole rotonde accademiche, in quanto hanno effetti

diretti sulla percezione politica del fenomeno e sul modo in cui si risponde al crimine.

ATTIVITA’ ECONOMICA

LEGALE ILLEGALE

NON ORGANIZZATA ORGANIZZATA

NON ETNICA* ETNICA

NON ITALIANA * * ITALIANA

* Di recente e’ questa la forma che prevale, perche’ ha maggior peso la questione organizzativa e non l’ identità geografica o culturale del gruppo criminale. * * All’epoca di questa tassonomia (intorno agli anni ’70) non era ancora collassato l’ impero sovietico, la Cina era incredibilmente lontana e non era ancora iniziata l’era della globalizzazione contemporanea: le categorie criminologiche erano dicotomizzate in mafia italiana e un generico “altro” per indicare differenti nazionalita’ .

Dwight Smith_ Tassonomia delle attività economiche

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Un ulteriore elemento di complessità che si aggiunge riguarda l’inquadramento della

criminalità organizzata in una prospettiva transnazionale o all’interno di un contesto

multigiurisdizionale.

Come organismi sopranazionali, USA e UE tendono ad utilizzare definizioni “pigliatutto”,

ossia generiche e onnicomprensive. In buona sostanza, la maggior parte dei trattati

internazionali o delle dichiarazioni congiunte riproducono l’idea che la criminalità

organizzata sia un’associazione strutturata, che coinvolge due o più persone, la cui azione

illecita abbia il carattere della stabilità nel tempo e alla cui gravità siano connesse pene

detentive di una certa durata minima.

Come si può intuire, dunque, questa definizione lascia inevasa una serie di domande

relative, ad esempio, al numero di soggetti coinvolti cui non corrisponde il grado di

pericolosità né di penetrazione all’interno della società.

A ciò consegue, evidentemente, che risulta più complesso anche stabilire quali reati si

debbano considerare tali: in un contesto globalizzato, con una pluralità di codici penali e

giurisdizioni, non è irrilevante poter distinguere tra azioni illecite e comportamenti che,

invece, risultano illegali per alcuni Paesi, mentre sono tollerati o incoraggiati in altri.

Si tratta di un ovvio riflesso della pluralità culturale, sebbene in questo settore la

mancanza di omogeneità definitoria e standardizzazione penale rappresentino dei grossi

ostacoli per una lotta più efficace al crimine organizzato transnazionale.

In questo senso, risulta interessante riflettere sulla novità introdotta dalla commissione

parlamentare olandese Fijnaut (v. oltre) che, nel fornire le linee-guida alla polizia, ha inteso

che si è in presenza di crimine organizzato

se i gruppi che conseguono guadagni illeciti commettono crimini

con gravi conseguenze per la società, e sono in grado di occultare

questi reati in maniera relativamente efficace, soprattutto dimostrando

che possono usare violenza fisica oppure ricorrere alla corruzione.

Come si può notare, l’introduzione dell’espressione “gravi conseguenze per la società”

apre un fronte interpretativo molto ampio perché consente di focalizzare l’attenzione

sull’impatto sociale delle attività illecite. Da questo consegue un’interessante apertura agli

elementi qualitativi e di contesto che caratterizzano il benessere sociale sacrificato

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dall’azione criminale: si introduce una “flessibilità” che contribuisce a calibrare meglio le

risposte istituzionali tese al contrasto degli illeciti.

In ambito definitorio, alcune fondamentali chiarificazioni in termini di portata e sostanza del

fenomeno criminale ci vengono dal Prof. Cyrille Fijnaut , uno dei massimi esperti mondiali

sull’argomento.

Egli ribadisce, ad esempio, che negli anni ’80 e ’90 era ancora opinione diffusa che la

criminalità organizzata fosse un problema in Cina, Sicilia, Giappone, grandi città del Nord

America, mentre non esisteva altrove.

Da qui nasce l’interrogativo su che cosa sia la criminalità organizzata, aprendo gli spazi

per la sua definizione.

Fijnaut5 si spiega in questi termini: «Generalmente distinguo due forme principali di

criminalità organizzata: la prima consiste nel commercio di beni e servizi sul mercato nero,

siano essi droga, armi, diamanti o esseri umani. Se questo avviene in maniera piuttosto

organizzata, come attività principale, siamo in prossimità delle “mafie”.

La seconda grande categoria della criminalità organizzata consiste nel controllo illegale di

affari economici leciti. Se sono controllati cantieri edili e trasporti, se è possibile costruire

un monopolio in alcune industrie attraverso l’intimidazione e la corruzione delle autorità,

con atti tesi a scoraggiare la concorrenza, fino al ricorso in estrema ratio all’omicidio, si

crea un controllo illecito dell’economia.

Questa è la prospettiva in cui inquadro personalmente la criminalità organizzata, senza

bisogno di specificare che le due forme possono essere interconnesse: i proventi del

mercato nero ben possono essere investiti nel controllo illecito del mercato legale».

Se la connessione è di questo tipo, l’approccio al crimine organizzato richiede

necessariamente di disporre di una “intelligence ” che sappia individuare “chi ” si inserisce

illecitamente nel normale funzionamento dei mercati. Dunque, diventa un problema di

adeguata formazione delle forze di intelligence, di rendere noti agli investigatori i mercati,

i loro meccanismi di funzionamento, le loro vulnerabilità, cosicché l’azione si possa

concentrare sui gruppi criminali, sulle loro reti e famiglie.

Il punto è cruciale, visto e considerato che non è un problema esclusivamente numerico: di

fronte al fatto che si costituiscono gruppi e reti di relazioni fra un potenziale numero di

individui, è necessario saper risalire con precisione alle menti dell’organizzazione, ai loro

contatti, a tutte le ramificazioni dei loro affari. 5 Libera traduzione da un’intervista rilasciata dal Prof. Cyrille Fijnaut nel 2003 sul tema “On organised crime and police cooperation in the European Union- lessons learned”.

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Il Prof. Fijnaut introduce un elemento di grande rilevanza: la questione delle risorse

limitate.

Non sono ovviamente disponibili tanti investigatori di alta specializzazione quanti

servirebbero per perseguire tutta la criminalità organizzata. Di conseguenza, si rende

necessaria un’accurata selezione dei casi da affrontare, sulla base di un’attenta

valutazione dell’impatto sociale negativo causato appunto dalla criminalità. Nella

medesima direzione va dunque il suggerimento per un’armonizzazione di metodi e

standard, nonché una più proficua circolazione informativa.

Ancora sulla comprensione del fenomeno: nel crimine organizzato la corruzione non è

l’elemento distintivo per eccellenza, altrimenti si ricadrebbe nell’ipotesi di criminalità dei

“colletti bianchi”. Viceversa, ciò che caratterizza le varie forme di “mafia” è la volontà e la

capacità di usare la violenza, l’intimidazione, l’omicidio.

Quanto alla questione dell’etnia di appartenenza, bisogna concludere che l’identità

comune non rileva di per sé, non è decisiva in quanto tale, ma solo in relazione ad uno

degli “ingredienti” fondamentali per svolgere un’azione criminale, ossia un’operazione

illecita su larga scala: la fiducia (solo in ultima analisi resta da esperire la violenza).

I contesti operativi sono ad alto rischio e solo un meccanismo come quello fiduciario può

garantire il successo. In questo senso, l’appartenenza territoriale – etnica e/o familiare –

può contribuire a creare e consolidare i networks dell’organizzazione.

Familiarità ed etnia hanno solo questo ruolo, in quanto è possibile osservare che sono

stati instaurati proficui rapporti di collaborazione tra gruppi organizzati di varia nazionalità,

poiché questo è funzionale alla cura degli affari. Non bisogna dimenticare, infatti, che

l’organizzazione criminale agisce in piena razionalità, secondo un continuo calcolo costi-

benefici teso ad ottimizzare profitti e risultati.

1.3 Gli effetti “economici” dell’infiltrazione crim inale.

Una questione molto delicata riguarda i presunti “effetti positivi” del riciclaggio del denaro

sporco: la prudenza è d’obbligo in questo caso.

Dunque: vi è unanimità d’opinioni e una grande produzione scientifica riguardo agli effetti

negativi, socialmente e legalmente, della criminalità organizzata, ma vi è molto meno

spazio per affrontare l’altra faccia della medaglia. Nel senso che, dal punto di vista

puramente economico, il reinvestimento può essere positivo.

È opinione di chi scrive che la questione vada approfondita come segue (e certamente

non sarà sfuggito al Prof. Fijnaut): il denaro sporco, procurato in qualunque modo illecito si

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voglia considerare, è e resta comunque sporco. Non c’è “lavaggio” che lo possa purificare

geneticamente.

Ciò premesso, se viene investito, può trasformarsi in opere funzionali allo sviluppo. Quindi,

in teoria e solo da un punto di vista squisitamente economico, si può intravedere un

elemento di positività.

Tuttavia, bisogna anche considerare che si attiva un circuito di sviluppo non perfettamente

virtuoso:

1. in primo luogo, lo sviluppo che può derivare è pur sempre inficiato dalla tara

genetica di nascere da denaro sporco. Eticamente è uno sviluppo insostenibile:

per i criminali, di certo, “pecunia non olet”, ma si può dire altrettanto per la gente

che dovesse percepire degli stipendi “insanguinati”? Inoltre, risulta abbastanza

grottesco immaginare che delle imprese “non pulite” possano esibire un loro

bilancio di responsabilità sociale e rispettoso dell’ambiente!

2. in secondo luogo, se si ha ben chiara l’importanza del fatto che lo sviluppo di un

territorio debba fondarsi sulla partecipazione bottom-up delle comunità locali, si

comprende che l’investimento verrà invece pur sempre fatto nell’interesse del

criminale e non della popolazione. Vi è, dunque, il fondato rischio che questo

presunto sviluppo sia fortemente opportunistico e predatorio nei confronti del

territorio.

Solo laddove si tengano in conto questi “difetti” che affliggono uno sviluppo attivato sulla

base di investimenti fatti con l’obiettivo di riciclare denaro sporco, si può affermare che la

criminalità organizzata ha un qualche effetto “positivo” per l’economia.

Il Prof. Cyrille Fijnaut conlude con queste parole la sua intervista: «Organized crime is not

a separate wing in the social fabric of our societies. You should not isolate your organized

crime problems. And particularly you shouldn’t say, it is a criminal law problem because

then you are lost in the long run, then you are isolating the problem and you reduce your

organized crime problem to a procedural problem. But that is an absolutely unwise and

unacceptable approach. The containment of organized crime amounts to close

cooperation between administrative and judicial authorities. They all should be involved.

Otherwise you can’t control the problem6».

6 «La criminalità organizzata non è un’ala separata del nostro edificio sociale. Non bisogna isolare i propri problemi di criminalità organizzata. Ma soprattutto non bisogna ritenerlo un problema di legge penale, perché si cadrebbe nella trappola di isolare la criminalità organizzata e ridurla ad una mera questione procedurale. Questo risulterebbe un

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Sembra la migliore indicazione di policy che si possa ricavare come lezione da

un’esperienza ventennale di studio e contrasto della criminalità organizzata,

un’acquisizione che incontra molta condivisione in tutti gli ambienti di governo ma che al

contempo stenta a tradursi in un’azione sistematica ed efficace.

approccio sconsiderato ed inaccettabile. Il contenimento del crimine organizzato corrisponde ad una stretta cooperazione tra autorità giudiziarie ed amministrative. Tutte devono essere coinvolte. Altrimenti il problema sfugge al controllo».

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CAPITOLO II

Uno sguardo appena oltre l’Adriatico: l’utilità del la comparazione.

Premessa.

In questo capitolo anticiperemo sinteticamente le problematiche affrontate in seguito,

usufruendo ora di una prospettiva di tipo comparatistico.

Per rintracciare le modalità con cui una criminalità organizzata compatta ed aggressiva

s’infiltra all’interno delle attività economiche lecite in un Paese in fase di transizione verso

un asset di mercato e un miglioramento del benessere sociale, passeremo qui in rassegna

l’emblematica esperienza dell’Albania, dove le pratiche corruttive ed estorsive sono ben

“visibili” nel loro sviluppo.

Riteniamo, infatti, che lo strumento del raffronto con altre realtà per evidenziare similitudini

e discrepanze, sia di una certa utilità per una più rapida circolazione delle informazioni, per

la configurabilità di scenari futuribili, per l’elaborazione di soluzioni sempre più adeguate e

pertinenti ai problemi di cui siano state individuate con chiarezza le peculiarità ed i punti

deboli.

2.1 La situazione di criminalità in Albania.

Il problema della lotta contro la criminalità organizzata non ha ancora oggi una definizione

chiara nella legislazione albanese. Le due istituzioni che si occupano della lotta contro la

criminalità organizzata sono la Polizia dello Stato per la criminalità organizzata e il

Ministero Pubblico, ma tra questi due organi manca in gran parte il coordinamento

dell’azione. Numerosi e famosi sono i casi in cui i criminali vengono arrestati dalla polizia e

subito dopo vengono rilasciati dalla corte o vengono condannati a scontare una pena che

non è proporzionale al loro reato.

Le altre carenze che si notano hanno che fare con il sistema dell’ indagine. Si ritiene,

infatti, che essa possa facilmente essere compromessa a causa della corruzione: in molti

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casi gli investigatori vengono minacciati dai criminali. In tali circostanze, è abbastanza

ovvia la percezione che la gente ha al riguardo, secondo cui i criminali e i politici sono

privilegiati rispetto alla legge.

Sino alle più recenti rilevazioni, è stato possibile individuare il fatto che l’Albania si trovi al

centro di un circolo vizioso: ogni istituzione soffre dell’infiltrazione della criminalità

organizzata, il che ostacola lo sviluppo democratico ed economico del Paese. Qualunque

tentativo di cambiare la situazione si dimostra inefficace, come è stato il Patto di Stabilità

per il Sud Est Europa: la corruzione e le connivenze a qualunque livello politico-

istituzionale sono talmente capillari da vanificare ogni programma teso a smantellarle.

Il background di questo Paese balcanico, come gli altri stati limitrofi del resto, riguarda

processi di transizione che seguono la caduta del comunismo e che lo stanno

traghettando verso un’economia di mercato, sistemi elettorali trasparenti e democratici,

comportando numerosi cambiamenti strutturali.

Tutte le problematiche che sono esplose dopo il collasso comunista hanno creato a

maggior ragione un clima favorevole per l’instaurarsi di una contiguità e cointeressenza

tra la criminalità organizzata e le istituzioni, indebolendo il ruolo della legge stessa.

Questo sistema di relazioni reciproche ha prodotto un elevato tasso di corruttela, tanto da

generare la denominazione di un paradigma noto come “balcanizzazione della politica”.

Come è noto, nel corso degli anni i singoli Paesi balcanici si sono largamente differenziati

in base alle performances democratiche ed economiche, tanto che alcune di queste

nazioni hanno già fatto il loro ingresso a pieno titolo nell’Unione Europea.

Altri Paesi, invece, stentano ancora ad accedere ai negoziati per l’ingresso in Europa in

quanto i loro risultati non sono del tutto soddisfacenti in termini di lotta alla corruzione,

diffusione della cultura della legalità, trasparenza amministrativa e così via.

In anni recenti, le guerre civili scatenatesi per problemi etnici (e non solo) di convivenza

hanno di molto “affossato” la transizione, creando ulteriori canali per la diffusione della

criminalità.

Dunque, le necessità di stabilizzazione risultano complementari a qualunque altro sforzo di

liberalizzazione e democratizzazione dell’Albania.

Per quanto riguarda le caratteristiche della criminalità organizzata albanese, secondo la

tassonomia di Smith essa è ancorata su forti basi etniche. I clan sembrano essere più forti

che mai: sono organizzati in piccoli gruppi, secondo un “assetto variabile” che risponde

alle esigenze specifiche di ogni attività illecita praticata.

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L’aspetto più rilevante è l’appartenenza alla medesima “tribù”: il senso dell’identità è molto

forte, tanto da non consentire l’ingresso di membri estranei.

Da questa descrizione si potrebbe ricavare l’erronea impressione che manchi del

dinamismo, mentre bisogna rilevare la grande abilità di questi clan nell’instaurare solide

alleanze internazionali con altri gruppi. In questo caso, ad esempio, la vicinanza

geografica all’Italia è fatale.

Le attività criminali svolte sul territorio, a livello capillare, ricordano molto certi metodi

“nostrani”: in Albania la corruzione è molto simile all’estorsione del pizzo in Italia, anzi è

ancora più diffusa.

Corrompere un qualunque funzionario pubblico, un medico, un poliziotto, un doganiere, è

pratica diffusa e tollerata, in una sorta di giustificazionismo rassegnato all’ineluttabilità del

fenomeno: l’integrità morale, in caso di necessità, di urgenza e di bisogno, diventa un

bene facilmente sacrificabile che deve sopportare il compromesso.

Chiamiamola una sorta di sovrattassa inclusa negli ordinari costi del servizio. Mutatis

mutandis, sembra la descrizione del costo implicito che le imprese sottoposte al giogo del

racket devono considerare nelle loro voci dei costi fissi di produzione.

Quindi, in Albania le relazioni sembrano fondarsi principalmente sulla fedeltà e sulla

dipendenza piuttosto che sulla professionalità e la trasparenza.

Le ragioni della tolleranza nei confronti della dilagante corruzione risiedono in larga parte

nel fatto che i salari corrisposti nell’impiego pubblico sono irrisori: questa è una forte spinta

ad incappare nella tentazione della tangente.

Tuttavia, se il movente economico regge nel caso di impieghi di basso profilo, non vale

altrettanto per la Presidenza del Paese, il suo Governo, il Parlamento, gli Ufficiali di Polizia

e di dogana. Questi sono i massimi livelli istituzionali, le leading authorities in tema di

democrazia e trasparenza, eppure sono i centri principali della corruzione, costituiscono

relazioni di forte complicità con i clan criminali che ne sfruttano il potere e la protezione

(una schermatura piuttosto potente viene dai massimi ranghi della politica).

Si è, dunque, realizzata una combinazione negativa di elementi vecchi e nuovi nella

gestione di cambiamenti impetuosi: per queste ragioni, l’assistenza europea si è rivelata

indispensabile nel programmare un’azione di potenziamento della governance e delle

istituzioni locali.

Un esempio illuminante può venire dallo scarso successo conseguito dal Programma di

Monitoraggio Anti-Corruzione elaborato per i Paesi Sud-Est balcanici.

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Ebbene, nel tentativo di responsabilizzare le autorità locali a gestire i fondi di tale

programma, si deve calcolare il forte rischio che la corruzione divori quel denaro.

Infatti, il successo potrà variare da un Paese all’altro proprio in ragione del tasso di

corruzione presente.

Quindi, se la gestione dei progetti ricade nelle mani di autorità corrotte, vi è il rischio che il

programma attivi involontariamente un’allocazione di risorse e denaro pubblico a favore di

attività della criminalità organizzata.

Le maggiori difficoltà sorgono nel caso in cui debbano essere gli enti locali a gestire la

realizzazione di progetti importanti, e magari anche validi, senza però possedere

l’indispensabile bagaglio di competenze adeguate a condurre fino in fondo l’azione:

sebbene, in ossequio anche alla sussidiarietà, siano le autorità locali quelle più adatte e

consapevoli delle problematiche territoriali, ciò non esclude che la loro debolezza

istituzionale possa produrre effetti indesiderati. Tutto questo rende cruciale la decisione di

come e quanto assistere dall’alto (top-down) tali enti.

Un’applicazione del genere richiede, innanzitutto, delle condizioni di base quali, ad

esempio, quella di dotarsi di un quadro legislativo, di migliorare l’amministrazione pubblica,

di semplificare le procedure amministrative e, infine, quella di perfezionare la

professionalità degli impiegati che hanno a che fare con i settori pubblici.

Si può, in conclusione, rappresentare il cd “circolo vizioso albanese ” e, nel prossimo

capitolo, vedremo quante somiglianze lo accomunano al “modello italiano del mercato

bianco, grigio e nero”.

In Albania, le istituzioni e i pubblici ufficiali hanno dei legami con la criminalità

organizzata e sono corrotti

Le pratiche corrotte vengono combattute attraverso i

finanziamenti europei di sostegno ai programmi per la legalità e la

trasparenza

I progetti finanziati dall’Europa vengono gestiti

dalle autorità e dalle istituzioni locali. Esse ricevono anche fondi

pubblici

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CAPITOLO III

La c.o. come costo implicito nello sviluppo economi co.

Premessa.

Per poter concretamente documentare in che termini la presenza di una criminalità

organizzata sul territorio costituisce un costo sociale, ossia un elemento che sottrae ed

inquina le risorse economiche, ostacolando lo sviluppo economico sano e duraturo, sono

state elaborate una serie di tecniche per la stima dei costi, di cui forniremo una breve

rassegna a supporto della ricostruzione che stiamo conducendo.

3.1 Classificazione dei costi del crimine.

In via preliminare, bisogna distinguere tra costi privati (diretti) – quando il danno è

arrecato agli individui, alle famiglie, alle imprese e alle istituzioni – e costi esterni , ossia

legati ai danni che la società intera subisce in termini di aumento del rischio (percepito e

reale).

Per far fronte alle dinamiche criminali, in presenza di stringenti vincoli di bilancio che

impongono una forte ottimizzazione della spesa, si va incontro ad un inevitabile trade-off,

o cd. costo-opportunità: si tratta dell’ammontare di risorse riallocate che avrebbero avuto

una destinazione diversa in mancanza di rischio-criminalità o di eventi delittuosi.

I costi, poi, hanno un “peso” diverso da parametrare rispetto a due coordinate

fondamentali, vale a dire la numerosità/ frequenza dei delitti (per tipologia di reato) e la

gravità del singolo fatto criminale.

Al di là delle differenze di metodo nel condurre le stime, la considerazione dei costi riferiti

alla criminalità assolve ad una pluralità di funzioni ad alto impatto positivo. Gli indicatori di

costo, infatti, poiché rispondono a quesiti del tipo:

come usare le risorse in maniera efficace, ripartendole nel modo migliore tra

prevenzione, repressione e cura delle conseguenze del crimine,

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possono contribuire ad aumentare la consapevolezza sociale e dei policy-makers,

possono suggerire allocazioni efficienti e valutare ex-post i benefici prodotti dalle

specifiche misure adottate, rilevandone l’efficacia.

Se dal piano generale degli obiettivi e delle funzioni, ci spostiamo ai metodi di stima dei

costi, dobbiamo innanzi tutto distinguere tra:

• stima aggregata , ossia un approccio che contabilizza le informazioni provenienti

dalla spesa pubblica per la sicurezza, dal circuito giudiziario e così via, per

rapportarle a grandezze “macro” come il Pil;

• stima puntuale , ossia riferita alla singola fattispecie criminale, in modo da tenere in

considerazione tutte le diversità che ruotano attorno agli eventi delittuosi. La stima,

infatti, terrà conto – come abbiamo anticipato – della gravità, frequenza e

complessità del reato per valutarne correttamente il negativo impatto sociale, ma

soprattutto per fornire indicazioni di policy più mirate e concrete, nonché politiche

monitorabili in fase di implementazione.

La difficoltà di eseguire la stima dei costi riflette anche il grado di complessità dei reati

considerati: infatti, risulta più ostico stimare l’associazione mafiosa, il racket dell’usura e

delle estorsioni, soprattutto in considerazione del tasso di sommerso e di non-denuncia ( =

parte occulta del fenomeno) che distorce la stima effettiva del reato.

Inoltre, non dobbiamo dimenticarlo, il crimine di stampo mafioso è spesso coperto da

un’intera mentalità, da un insieme di valori e comportamenti omertosi allargati all’intero

contesto ambientale. Il timore di ripercussioni e rappresaglie contribuisce in larga misura

ad abbassare il numero delle denunce, ma ottiene contemporaneamente l’effetto di

incrementare i costi esterni del fenomeno criminale.

Per queste ragioni, in effetti, solo negli ultimi anni gli studi commissionati in Italia stanno

utilizzando la metodologia alternativa delle Indagini di Vittimizzazione (IDV) per stimare il

sommerso non “catturato” dalle statistiche ufficiali (si cerca di scoprire così il numero

oscuro dei reati).

Una volta stimata la numerosità dei reati, il loro costo viene classificato secondo dei

“capitoli di spesa” come nei procedimenti contabili:

• costi di anticipazione comprendono tutta la spesa per prevenzione, monitoraggio,

controllo, costo sociale della paura e del rischio percepito;

• costi di conseguenza sono connessi al danno prodotto dal reato in termini di

tangibilità monetaria (danno ai beni, lesioni, mancato guadagno, ecc);

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• costi di risposta , in quanto non c’è inerzia ma vengono attivate misure di contrasto

e repressione del crimine.

3.2 Gli svantaggi della presenza criminale.

In base a queste premesse di ordine generale, e ricordando che il focus principale del

nostro lavoro è quello di ricostruire i meccanismi attraverso i quali la criminalità

organizzata ostacola lo sviluppo economico italiano infiltrandosi nelle attività lecite, il costo

delle “mafie” sul quale appunteremo la nostra attenzione è quello sociale subìto in maniera

più o meno diretta dall’economia nel suo insieme, perché “accettare le regole mafiose del

mercato non è soltanto affare del singolo operatore commerciale ma ha conseguenze

negative per tutti”.

Iniziamo questo percorso partendo dalla constatazione che “l’impresa gestita dalla

criminalità beneficia di una posizione di vantaggio sulle altre imprese, che vanifica di fatto

il normale gioco della concorrenza e che si traduce in un danno per l’intero sistema

economico” (Salvatore Caradonna, 2008).

Per approfondire questi concetti, dobbiamo ora concentrarci sull’esame di alcuni momenti

fondamentali della dinamica che si sviluppa nelle relazioni tra criminalità organizzata ed

attività economiche. In particolare, vedremo:

1. come la mafia si sostituisce alle regole del mercato e costruisce artificialmente un

proprio monopolio sul territorio;

2. quali attività economiche legali siano per loro natura maggiormente “aggredibili ” da

parte della criminalità;

3. come venga alterata la struttura dei costi aziendali , al momento in cui si deve

incorporare e contabilizzare anche l’uscita che va sotto la voce “sicurezza,

protezione, pizzo, richieste mafiose di altro genere…”;

4. quali modalità di infiltrazione e commistione vengono realizzate tra capitale privato

e capitale proveniente da traffici illeciti della c.o.

3.2.1 La teoria del monopolio.

Per raggiungere la stabilità ed infiltrarsi in una consistente fetta delle attività economiche

lecite, la criminalità organizzata deve ottenere un controllo monopolistico del territorio e del

mercato. Cerchiamo di comprendere il perché.

Chi governa e controlla una zona, vi impone le sue regole, disciplina i conflitti: per essere

efficace, questa attività deve essere svolta necessariamente in regime di monopolio, in

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quanto non può aversi nel medesimo territorio una pluralità di poteri coercitivi, sanzionatori

e di regolazione dei mercati.

In questo senso, la criminalità opera una forma di “sostituzione” nei confronti dello Stato e

del libero mercato, intercettando una rendita da posizionamento che riesce a garantirsi

attraverso il ricorso all’intimidazione e alla violenza, se necessario.

Considerevoli sono, infatti, i vantaggi del quasi-monopolio:

• il riparo dalla concorrenza,

• una competitività che la mafia impone sugli altri,

• violazione/ elusione delle leggi di tutela perché alle mafie poco importa la “salute”

del lavoro,

• capitali propri a costo zero,

• creazione artificiale di barriere all’entrata.

La “lotta” per la conquista del premio, ossia l’accaparramento della rendita monopolistica,

ha un peso ancor più rilevante nel caso di economie caratterizzate da una forte incidenza

della spesa pubblica in rapporto al Pil.

In questi contesti, diversi gruppi di interesse competono per l’aggiudicazione di

trasferimenti pubblici o per l’approvazione e l’implementazione di particolari politiche

economiche. Nella sua versione più trasparente, l’azione di rent-seeking si concreta

nell’esistenza di lobbisti che competono nella persuasione di diversi policy-maker al fine di

assicurarsi l’approvazione di politiche economiche in favore dei propri gruppi di riferimento.

Questo approccio teorico è applicabile allo studio del crimine organizzato nel momento in

cui si consideri la competizione violenta per l’appropriazione di rendite tra diversi gruppi

criminali ovvero tra gruppi criminali e Stato.

Nel momento in cui si consideri esclusivamente l’attività dei gruppi criminali in attività

economiche legali, se è vero che il crimine organizzato è tale solo se compete per la

creazione ed il mantenimento di monopoli, esso non è teoricamente distante da gruppi di

imprese che competono per l’assegnazione privilegiata di fondi pubblici che costituiscono

rendite. In questa ottica, il fenomeno del crimine organizzato non sarebbe altro che una

manifestazione violenta delle famose pratiche di rent-seeking. In ultima analisi,

un’organizzazione criminale non sarebbe altro che un “lobbista” che per assicurarsi le

rendite derivanti da una posizione di monopolio faccia ricorso in maniera sistematica e

continuata alla pratica violenta.

Per approfondire questa idea, facciamo riferimento al recente studio pubblicato da

Stergios Skaperdas e Costantinos Syropoulos , intitolato “burro e cannoni”, ossia la

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dinamica conflittuale che si sviluppa tra due sistemi economici in miniatura per

l’accaparramento di risorse produttive.

Il che, mutatis mutandis, ci dice come vengono allocate le risorse nazionali per produrre

beni oppure sicurezza, ossia armarsi per fronteggiare il contendente, con le conseguenti

ricadute sul benessere sociale raggiunto.

Gli agenti dividono una propria dotazione di risorse in “burro” e “cannoni”: maggiore sarà

l’intensità del conflitto, maggiori saranno gli investimenti in cannoni e minori gli investimenti

in burro. Di conseguenza, la torta prodotta sarà minore della torta che sarebbe stata

prodotta se gli agenti avessero investito l’intera dotazione di risorse in burro.

Il costo sociale del conflitto è dato dalla produzione di torte che è andata perduta a causa

degli investimenti in cannoni.

Questo tipo di interpretazione, nella recente letteratura economica, è generalizzabile a tutti

quegli scenari in cui i diritti di proprietà non siano pienamente garantiti da un’autorità

sovrana quale lo Stato. Nel momento in cui i diritti di proprietà e i contratti non sono

pienamente garantiti da un’unica autorità, la distribuzione delle risorse segue la

distribuzione del potere e dei rapporti di forza e delinea un quadro tipico di “fallimento dello

Stato”.

Il crimine organizzato sarebbe una sorta di quasi-Stato che compete con lo Stato stesso

per definire la propria sfera di potere e di controllo sull’allocazione delle risorse.

Analogamente, gli investimenti in cannoni aumentano nel livello di risorse soggette ad

appropriazione. Le organizzazioni criminali sarebbero, dunque, delle organizzazioni in

grado di competere con gli Stati non solo dal punto di vista delle tecnologia “militare” ma

anche al grado di efficacia di enforcement dei contratti e dei diritti di proprietà. La

competizione violenta tra Stato e organizzazione criminale quindi determina l’allocazione

di risorse in seno al sistema considerato.

La distribuzione di cannoni determina il potere di un agente e quindi la ‘fetta di torta’ che

andrà a conquistare. Tale competizione violenta tra Stato e organizzazione criminale,

determina pertanto un risultato sub-ottimale nel senso di Pareto.

Nella realtà, tuttavia, esistono settori più complessi che presentano diversi livelli di

produttività e diversi assetti istituzionali.

Nell’ambito dell’economia legale il crimine organizzato compete in maniera violenta per

l’appropriazione di rendite distorcendo la concorrenza e l’allocazione delle risorse sia

pubbliche sia private. Tale competizione violenta è perpetrata sia nei confronti dello Stato

sia nei confronti di altre organizzazioni criminali, ma anche di imprenditori.

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Naturalmente, maggiore è l’ammontare di risorse appropriabili maggiore sarà il ricorso alla

pratica violenta da parte del crimine organizzato. Pertanto, maggiori saranno le risorse

pubbliche da appropriare più intensa sarà la competizione violenta e il conseguente costo

sociale.

È stato rilevato che il livello di pratica violenta tende ad aumentare in presenza di una

molteplicità di gruppi criminali, in quanto essi competono per assicurarsi l’esclusività di

sfruttamento di un mercato o di un territorio e che l’esistenza di gruppi criminali determina

un costo sociale evidenziato dalla distorsione nell’allocazione delle risorse a favore delle

attività improduttive.

3.2.2 Imprese vulnerabili.

Una volta che la criminalità organizzata si sia appropriata di un monopolio sul territorio,

passa ad infiltrarsi nelle attività economiche lecite, secondo un diverso grado di maggiore

o minore vulnerabilità delle stesse.

A questo proposito, diversi studi hanno dimostrato che la maggiore incidenza

d’infiltrazione criminale si riscontra in attività economiche – ossia imprese – dotate delle

seguenti caratteristiche:

• dimensioni ridotte,

• appartenenza a settori tradizionali e/ o low tech,

• impegno in attività fortemente legate al territorio,

• attività in settori dove è forte l’intervento pubblico.

Intervenendo, dunque, con un’analisi che misuri a) il livello tecnologico raggiunto

dall’economia; b) il peso relativo dell’attività considerata rispetto all’intera economia

territoriale, nonché c) il numero di addetti, d) la loro produttività ed e) il livello di

partecipazione pubblica, è possibile ricostruire delle interessanti correlazioni positive con

la presenza criminale.

Il procedimento econometrico standard per la misurazione di tali connessioni, prevede che

vengano messe in relazione degli indici che rappresentano delle proxies credibili della

presenza criminale sul territorio, con delle variabili che descrivono l’economia: riferiremo

qui sinteticamente l’esito di alcune verifiche empiriche.

In particolare:

1) la relazione tra c.o. e divario regionale di produttività;

2) la relazione tra la presenza della c.o. e il flusso di IDE (Investimenti Diretti Esteri)

che viene perso (a livello provinciale).

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1) Quando si afferma che l’economia nel Mezzogiorno d’Italia soffre di un gap nei confronti

del resto del Paese anche a causa della criminalità organizzata, ci si sofferma poco sul

livello di produttività 7 di ciascun settore.

Questo metodo consente, infatti, di comprendere quali momenti della struttura produttiva si

manifestino le principali vulnerabilità, partendo dal presupposto che la crescita economica

sia realizzabile appunto con un alto tasso di innovazione/ ricerca e con sensibili incrementi

della produttività.

Quindi, l’economia non cresce se la produttività è scarsa e si mantiene immobile. Inoltre,

in base a quanto stiamo sostenendo, la presenza della c.o. sul territorio può senz’altro

costituire un disincentivo agli incrementi di produttività. Con l’analisi econometrica è stato

possibile stabilire con una certa precisione anche in quali settori dell’economia la

produttività del lavoro risulti “inceppata”.

Scomponendo l’attività economica in vari sottogruppi, si nota che la criminalità organizzata

pesa sul sistema creditizio come elemento che innalza il costo del denaro ed aumenta la

rischiosità; nei confronti dell’industria manifatturiera, invece, i fattori ambientali

condizionano, nelle regioni meridionali; in modo particolare le imprese di piccola e media

dimensione dei settori “tradizionale” e “specializzati” e con maggiore rilevanza quelle

aziende che non esportano i loro prodotti.

Alla luce dei vari studi econometrici risulta dimostrata e verificata l’esistenza di una

relazione – con effetti evidentemente negativi – tra alcuni fattori ambientali, quali la

criminalità organizzata, e le performances economiche – specie di produttività – dei settori

considerati. In special modo, poi, le imprese che operano in un mercato strettamente

locale sono maggiormente influenzabili dalle condizioni ambientali come la criminalità.

Si è rilevato che “Agricoltura” e “Costruzioni”8 sono le attività economiche più

pesantemente condizionate dall’influenza criminale in quanto presentano dei forti legami

con il territorio ed il mercato locale.

7 In Italia le politiche volte a ridurre i divari territoriali tra Centro-Nord e Mezzogiorno hanno dato particolare enfasi ai divari di reddito pro-capite e di occupazione attraverso politiche di sostegno al reddito e creazione di posti di lavoro nel pubblico impiego, senza tuttavia provvedere alla riduzione dei divari di produttività. Questa diversa comprensione del contenuto del “problema economico meridionale” ha fatto sì che, nonostante i notevoli sforzi compiuti, dopo quasi 50 anni di politiche per il Mezzogiorno, il dualismo ed i divari tra Centro-Nord e Sud dell’Italia siano rimasti pressoché inalterati. 8 Questo risultato ci è confermato anche dall’ Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione attraverso lo studio “I pericoli di condizionamento della Pubblica Amministrazione da parte della criminalità organizzata”, (giugno 2006): «Per la ’Ndrangheta i settori privilegiati, per l’entità delle risorse che in essi confluiscono, risultano essere gli appalti pubblici, specie quelli dell’edilizia civile, e dell’agricoltura».

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Sono entrambi dei settori “tradizionali”, a scarso contenuto tecnologico, ma soprattutto

sono fortemente assistiti e dipendenti dalla spesa pubblica.

2) Per l’operare combinato di una serie di circostanze negative (ridotte dimensioni del

mercato di sbocco; assenza di economie di agglomerazione; assenza di altre imprese

estere e scarsità della spesa in R&S) è noto che il Sud dell’Italia attrae una quota davvero

irrisoria dei flussi di IDE in entrata nel Paese.

È stato dimostrato che, a parità di altre condizioni, la presenza/ la frequenza di alcuni reati

rivelatori di un inquinamento mafioso, influenzano significativamente e negativamente gli

IDE in entrata nelle province italiane (questo è il livello di disaggregazione territoriale dei

dati prescelto).

La relazione negativa, inoltre, si allarga anche al Pil pro-capite provinciale.

Si parte da una realtà complessiva che ammonisce come ad eccezione della Lombardia,

le regioni italiane attraggono, in media, circa il 40% in meno di IDE rispetto ad altre regioni

europee con caratteristiche simili.

A questo dato va poi aggiunta l’ulteriore perdita netta subita dalle regioni meridionali

dovuta all’immagine deteriore che la presenza criminale contribuisce sensibilmente a

costruire. Per l’operare combinato di queste rigidità, la conseguenza è un’inefficiente

distribuzione delle risorse e un minor livello di attività economica; quindi, l’esistenza di

criminalità rappresenta un concreto fattore di svantaggio competitivo nazionale che si

proietta a livello internazionale, dato che fiducia e reputazione rappresentano componenti

essenziali per l’iniziale sviluppo di un mercato dei capitali.

Delle scelte d’investimento effettuate dall’imprenditore e delle relative motivazioni

riferiremo più avanti, parlando a proposito dei costi aziendali.

3.2.3 Fattore di costo interno alle aziende.

Abbiamo esaminato il movente dell’infiltrazione criminale nelle attività economiche ( =

rendita monopolistica) e abbiamo identificato alcuni dei settori più vulnerabili e

frequentemente aggrediti.

Risponderemo ora ad un’altra questione molto importante: vedremo in che modo si

raggiunge un equilibrio stabile di coesistenza tra la criminalità e l’economia, esaminando

l’incidenza della c.o. sulla struttura dei costi aziendali.

Seguiremo due approcci complementari: il primo è di tipo “macro” e servirà a descrivere

l’equilibrio di sottosviluppo depressivo che la presenza criminale determina sul territorio,

soprattutto in rapporto al livello di sicurezza e all’immagine dei luoghi come elementi che

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rendono meno attrattivo e profittevole l’investimento nelle aree interessate dal fenomeno

mafioso.

In secondo luogo, adottando una prospettiva di tipo “micro”, esamineremo il modo in cui gli

individui si adattano a tale presenza, imparando a gestirne il costo e convivendoci.

3.2.3.a Approccio macro: l’equazione mafia = sottos viluppo.

Sebbene non siano stati individuati precisi canali direzionali e chiari nessi causa-effetto nei

rapporti tra gli standard di sicurezza e il livello di sviluppo economico, è certo che sono

forze tra loro dipendenti, che esercitano influenze reciproche.

Lo stesso Ministro Pisanu ha affermato nel 2005 che “se è vero che la sicurezza non è

solamente un bene individuale e collettivo di valore assoluto, ma anche una condizione

preliminare per il progresso economico e sociale, è altrettanto vero che da sola non fa lo

sviluppo. È necessaria ma non sufficiente.”

Sicurezza umana e sviluppo economico sono due twin goals , due obiettivi gemelli:

devono necessariamente progredire insieme, simmetricamente, poiché un’alterazione del

loro equilibrio o una distorsione tra gli elementi di raccordo renderebbero precaria la tenuta

sociale.

La mancanza di sicurezza si qualifica come un variegato mix di minacce all’incolumità

degli individui, alti tassi di criminalità, accesa conflittualità sociale, marcata disuguaglianza

distributiva, difficoltà di accesso e fruizione dei più elementari diritti per i cittadini: questa

complessa combinazione di fattori dimostra, innanzi tutto, che le problematiche da

affrontare non sono dunque risolvibili con le sole “azioni di polizia”.

La promozione di uno sviluppo “includente” può presentarsi come valida alternativa al

conflitto e alle degenerazioni criminali. Lo sviluppo, in quanto progresso del bene-essere

umano , comprende infatti una miriade di micro-obiettivi che tutti insieme contribuiscono

alla “salute” del tessuto sociale, alla sua coesione e all’equilibrio della sua crescita.

Sviluppo è sinonimo di occupazione, crescita dei redditi, innovazione tecnologica, ma

anche di spirito della legalità, assenza di impedimenti alla libera iniziativa economica,

concorrenza leale, istruzione accessibile e disponibile per tutti, supporto alle situazioni di

disagio.

Come ha sostenuto Amartya Sen 9, l’obiettivo dello sviluppo dovrebbe essere l’incremento

delle capacità e delle opportunità da offrire agli individui, mettendoli dunque in condizione

di vivere qualitativamente meglio e più a lungo. 9 Nato nel Bengala nel 1933, ha insegnato a Calcutta, Cambridge, Delhi, alla London School of Economics, a Oxford e Harvard. Premio Nobel per l’economia nel 1998.

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Ancora Sen (1999), con una definizione onnicomprensiva, esplicita come la sicurezza

umana consista esattamente nella rimozione – almeno una riduzione – di tutte le forme

di precarietà (insicurezza) che affliggono gli indi vidui .

La relazione che intercorre tra livello di sviluppo e grado di sicurezza, soprattutto nel

contesto di un Paese con conflitti interni dovuti ad alti differenziali di sviluppo tra le sue

regioni, si presenta come un nesso di reciprocità dall’equilibrio molto delicato.

Un paradigma corretto, capace di innescare un circolo virtuoso di crescita, muove da un

buon livello di sicurezza che stimola lo sviluppo delle attività economiche e produce più

benessere, il quale – a sua volta – determina un ulteriore miglioramento degli standards di

sicurezza.

La dinamica appena descritta si presenta spesso alterata, laddove si osserva lo

sfasamento dei due twin goals: si possono creare circoli viziosi di sicurezza-con-

stagnazione oppure crescita-non-includente .

Il raggiungimento di elevati standards di sicurezza, da solo, non è in grado di attivare e

garantire dinamismo economico: un territorio sicuro resta, tuttavia, stagnante se non

dispone delle necessarie infrastrutture, dei collegamenti, delle risorse. La mancanza di

sicurezza è ciò che macroscopicamente allontana gli imprenditori da un territorio, ma, per

essere attrattivo, l’ambiente non deve soffrire di debolezze strutturali.

Nel caso contrario, la “crescita non includente” si caratterizza per la presenza nello stesso

territorio di limitate zone di ricchezza e prosperità, chiuse come un enclave all’interno di

aree meno progredite e sicure. Sulle linee di frontiere è altamente probabile lo sviluppo di

un conflitto, quando vengano in contatto/contrasto i differenziali di benessere tra le regioni.

In questo caso, la porzione territoriale più sviluppata non può contare su un background

condiviso altrettanto favorevole, poiché è chiaro che i percorsi di crescita sono stati distorti

dalla mancata inclusione – attraverso gli strumenti della governance integrata e coordinata

– di tutti gli attori rilevanti del territorio.

Una serie di modelli econometrici consentono di valutare il peso dell’economia illegale:

uno di questi, nella doppia versione “Reuter 1 e 2 ”, mostra quale riduzione del reddito,

attraverso un meccanismo di tipo moltiplicatore keynesiano , si produce all’interno di un

circuito economico regolare nel momento in cui si inserisce il coefficiente della presenza

criminale. Poiché il fattore entra nell’equazione preceduto da un segno negativo, esso

indica una quota di capitale “cattivo” che sottrae risorse al sistema .

Il settore criminale produce e consuma beni e servizi illeciti: nel modello Reuter 1, il

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consumo criminale è soddisfatto da produttori esterni e rappresenta sottrazione netta di

spesa. In altri termini, ciò che è speso per consumo di beni illeciti è sottratto al consumo

“legale”. Questa distorsione del flusso di consumo ha un’impronta di tipo keynesiano: il

consumo legale amplifica il reddito nazionale, mentre tutto ciò che è tolto a questo

consumo, ha un effetto (de)moltiplicatore di mortificazione del reddito. Tutto questo

dipende algebricamente dal fatto che, nell’equazione del consumo, la propensione illegale

è rappresentata da un coefficiente negativo che riduce il numeratore del reddito finale

prodotto. Nella variante Reuter 2, il problema affrontato è quello di domanda criminale

interna al sistema legale, con effetti non sottrattivi ma redistributivi sul reddito finale. Ciò

significa che una parte della domanda di beni leciti è alimentata da redditi criminali: in

questo caso, se l’intero reddito fosse speso in beni leciti, non si avrebbero effetti negativi.

Poiché, però, non è ipotizzabile una propensione al consumo pari al 100%, non l’intero

reddito viene re-immesso nel sistema economico e questo provoca pertanto “una

contrazione nel reddito effettivamente prodotto a parità di risorse disponibili e di

opportunità di mercato”.

Avendo introdotto l’elemento macroeconomico del moltiplicatore, s’intende che la

presenza di una diffusa e pervasiva criminalità produce anche notevoli interferenze

rispetto all’efficacia della politica fiscale. Bisogna, infatti, rilevare una notevole contrazione

del gettito fiscale dovuta essenzialmente alla somma nefasta di due elementi: la spinta

diretta all’evasione fiscale (prelievo legale ed illecito sono costi insostenibili che, in qualche

modo, bisogna ammortizzare e recuperare) e l’effetto de-moltiplicativo del reddito

attraverso la generale depressione del sistema economico nel suo complesso.

In definitiva, “tutto ciò che influenza negativamente le prospettive dinamiche del

rendimento netto dell’acquisto dei beni capitali, riduce il valore dell’efficienza marginale del

capitale e deprime conseguenzialmente l’investimento. Dacché si può comprendere

perché la presenza del crimine organizzato può – da un punto di vista macroeconomico –

deprimere l’investimento in un’area geografica”.

Nella congerie dei fattori che influenzano le scelte d’investimento rientrano a pieno titolo

anche l’immagine e la fama di cui gode un territorio: pertanto, un luogo condizionato da

carenze strutturali e da scarsi standards di sicurezza non risulta attrattivo per imprenditori

ed investitori. Inoltre, se tali condizioni inducono – com’è ovvio attendersi – un elevato

tasso migratorio, il territorio depaupera anche le sue energie lavorative, influenzando

ancor più negativamente la percezione delle vicende economiche e dei rischi che

possono derivare dalla violenza criminale.

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Non solo, quindi, il fronte del reddito risulta inficiato dalla presenza criminale, bensì anche

– e forse con maggiore danno – l’area dell’investimento risulta problematicamente

influenzata. Consideriamo, ad esempio, i cd. costi fissi di sviluppo: essendo legati al futuro

dell’impresa, eventuali tagli nei costi di sviluppo non presentano nel breve termine alcun

inconveniente, permettendo anzi di migliorare il risultato reddituale attraverso una

riduzione dei costi fissi totali. Le conseguenze negative di questo tipo di azioni si

manifestano solo nel medio-lungo periodo, quando cominceranno a farsi sentire gli effetti

del mancato impegno nello sviluppo aziendale. Si deteriorano tutte le performances: di

prodotto, d’immagine, di personale ( = l’efficienza in generale).

Non c’è possibilità di mantenere quote di mercato e si resta “imbottigliati” in una

sopravvivenza statica, priva di innovazioni.

3.2.3.b Approccio micro: la struttura dei costi del la singola azienda.

Sul finire del paragrafo precedente si è fatto cenno alle scelte aziendali in rapporto al costo

dell’investimento di lungo termine per lo sviluppo e l’espansione futura dell’impresa,

giustificando così quel contributo al sottosviluppo macroeconomico che deriva dal

mancato investimento.

La prospettiva riguardava, quindi, l’influenza del condizionamento ambientale sulle scelte

imprenditoriali, ma pur sempre nell’ottica del benessere sociale prodotto, ossia una

grandezza aggregata.

In questo caso, invece, analizzeremo le scelte individuali dell’imprenditore ed i suoi

comportamenti adattivi nel contatto con la criminalità organizzata.

La domanda cruciale diventa, allora, di questo genere: quanto costa fare impresa in

termini di profittabilità, di accessibilità alle risorse, di tutela dei diritti di proprietà, di

rapporto costi-benefici nella scelta fra attività imprenditoriale legale o illecita?

L’intreccio tra scelte d’investimento/ comportamento dell’imprenditore e il peso della

criminalità organizzata è molto articolato: da un lato, la mafia, che penetra nell’economia

ed impone la sua attività di taglieggiamento, introita un lucro consistente e dimostra altresì

di affermare la propria supremazia, il proprio potere di controllo “militare” e in certo modo

“politico” del territorio.

Dal canto suo, l’imprenditore può dimostrare un atteggiamento “acquiescente”, “resistente”

oppure “connivente” nei suoi rapporti con la criminalità organizzata. Per una serie di

valutazioni, sempre in base ad un’analisi dei costi da sostenere, l’imprenditore può

“piegarsi” al ricatto mafioso oppure “opporre resistenza” in base all’opzione che ritiene più

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“conveniente”, meno dispendiosa non solo in termini monetari, ma anche alla luce di altre

forme di rischio.

È chiaro comunque che tanto l’acquiescenza che la resistenza alle pressioni

dell’organizzazione criminale configurano l’esistenza di un costo innaturale e aggiuntivo

sulla conduzione dell’impresa. E ciò differenzia – a parità di ogni altra condizione – le

prospettive di redditività di un investimento, a seconda che questo venga intrapreso in

contesti “legali” o (per così dire) a “criminalità ordinaria”, oppure in territori soggetti a

controllo mafioso.

In altre parole, è dimostrato che se viene limitata la libertà di conduzione dell’impresa per

via di un’ingerenza criminale eccessiva, il RISULTATO OPERATIVO NON POTRA’ CHE

DISTANZIARSI DAI TARGET EFFICIENTI EVENTUALMENTE PREDETERMINATI.

Tutti questi elementi influenzano in modo diretto la struttura dei costi dell’impresa,

aumentando il costo per unità di prodotto ovvero riducendo il rendimento dei fattori

produttivi, provocando in ultima istanza una riduzione nell’efficienza dell’impresa, dato che,

a parità di fattori impiegati, l’impresa è in grado di offrire al mercato una minore quantità di

prodotto, vedendo anche ridotto il margine di profitto ottenibile tramite l’attività di

produzione.

Non può farsi a meno di considerare le basi fondanti dei meccanismi economici, quali la

concorrenza per l’allocazione ottima delle risorse e la produzione in regime di massima

efficienza, secondo le preferenze espresse dalla domanda e nel contesto di prezzi che

riflettono tutte queste scelte/ informazioni. Qualunque elemento di disturbo introduca delle

varianti in questi equilibri, determina a vario titolo delle perdite di efficienza del sistema.

Vale a dire che nella misura in cui la presenza della criminalità organizzata modifica la

struttura competitiva dei mercati “aggrediti”, imponendo scelte e creando monopoli

“innaturali” e di fatto, tale presenza finisce con l’intaccare direttamente i presupposti del

funzionamento dell’economia di mercato, pregiudicandone la possibilità di conseguire un

risultato sociale “ottimo”.

Si determinano così delle alterazioni nella struttura dei costi di produzione , che si

riflettono pesantemente sui prezzi finali. In ogni caso, si produce un allontanamento

strutturale 10 dal modello di efficienza del mercato.

Senza voler trasformare – poco opportunamente – questa trattazione in un manuale di

economia aziendale, è appena il caso di chiarire alcuni fondamenti di teoria dell’impresa

10 Bisogna riflettere attentamente sul significato di STRUTTURALE: questo aggettivo in economia è sinonimo di congenito, ossia di caratteristica intrinseca e sistematica, differenziandosi da congiunturale, che invece significa l’opposto, cioè temporaneo, transitorio, senza il carattere della permanenza.

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che più direttamente risultano “aggrediti” e distorti in caso di contaminazione con la

criminalità organizzata.

A) L’imprenditore di weberiana memoria è un soggetto dotato di uno spirito

innovativo, orientato al rischio nell’attività economica, capace di introdurre

cambiamenti migliorativi nel mondo produttivo. La sua remunerazione è costituita

dal profitto ottenuto con la vendita del prodotto sul mercato, una volta che abbia

coperto i costi di produzione. Per realizzare tutto questo, l’imprenditore si avvale di

una complessa organizzazione di risorse umane e strumentali che egli è capace di

governare e adattare tempestivamente alle mutate esigenze del mercato.

B) Nella creazione dell’attività, l’imprenditore investe capitale proprio e lo conferisce

appunto in vista della remunerazione. Il portafoglio delle scelte d’investimento è

accuratamente composto dall’imprenditore sulla base di molteplici considerazioni e

combinato nell’ottica di un rischio minore possibile. Per quel che interessa in questa

sede, la localizzazione dell’impresa è fortemente condizionata dalla vicinanza alle

risorse di cui bisogna approvvigionarsi, ma anche dall’ampiezza del mercato di

sbocco. La scelta di investire, quindi, prende in considerazione l’attrattività

complessiva del territorio: con questa espressione s’intende un’articolata

combinazione di fattori, tra cui le risorse, la qualità di vita, il livello di sicurezza, la

qualità e l’accessibilità del capitale umano e della tradizione produttiva territoriale,

l’efficienza dei collegamenti, le infrastrutture, e così via.

C) L’imprenditore, sulla base della capacità produttiva installata e dello stato di

avanzamento tecnologico di cui dispone, determina il volume di produzione dei beni

e l’erogazione dei servizi. Il prezzo finale di vendita sarà composto dal costo dei

fattori produttivi (capitale, lavoro, materie prime), maggiorato del margine di profitto

che s’intende ottenere, e – com’è ovvio attendersi – compatibile con l’esistenza di

produttori concorrenti ed eventualmente più competitivi. La funzione dei costi,

quindi, è formata da una lunga serie di voci, ad esempio: materie prime, lavoratori,

ammortamento degli impianti, spese per la ricerca e lo sviluppo, indagini di

mercato, operazioni pubblicitarie e promozionali, espansione della capacità

produttiva, e così via. In assetti “normali”, il mercato dei prezzi riflette tutte queste

informazioni, cioè internalizza la struttura dei costi .

La teoria dell’efficienza-x si occupa proprio di evidenziare e favorire lo sviluppo di tutti gli

elementi “non tradizionali” il cui miglioramento può potenziare il rendimento produttivo

degli impianti a parità di risorse impiegate. Tali fattori riguardano sia l’ambiente relazionale

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e organizzativo “interno” all’impresa, sia l’ambiente relazionale “esterno” alle singole unità

produttive.

Nel caso di una pervasiva presenza/ ingerenza della criminalità organizzata, risultano

evidentemente condizionati tutti gli elementi di competitività, dinamismo economico ed

efficienza allocativa che dovrebbero invece caratterizzare un’economia libera e

concorrenziale.

Tale ingerenza può inficiare la capacità di selezione delle risorse umane e di gestione del

personale, la libertà di scelta dei canali di approvvigionamento del capitale circolante, la

possibilità di selezionare la clientela secondo le strategie di mercato ritenute ottimali.

Chiameremo tale efficienza negativa “inefficacia-c ”, designando con questa espressione

l’insieme di appesantimento dei costi e riduzione d el rendimento dei fattori

riconducibile alla pressione esercitata dall’organi zzazione criminale sulla gestione

dell’impresa .

Non tutti gli elementi sono ugualmente coinvolti nella perdita di efficienza causata dalla

presenza criminale. Infatti, i fattori “x” di efficienza governabili direttamente dall’impresa

possono essere anche totalmente sviluppati e potenziati al massimo; ciononostante, i

fattori “c” di inefficienza possono determinare risultati di gestione anche molto distanti

da quelli designati dalla massimizzazione del rendimento dei fattori impiegati.

In conclusione, esiste una “massa critica” di pressione della criminalità organizzata,

superata la quale le imprese sono spinte a “chiudere” e/ o trasferire gli impianti.

Si tratta di imprese marginali che si estinguono perché la loro struttura dei costi diviene

insostenibile, oppure le imprese più flessibili ed efficienti sono rapide nel cogliere altrove

opportunità più profittevoli.

Le imprese che permangono sul territorio devono necessariamente adottare un

atteggiamento connivente – come prima descritto – che, partendo da una visione della

criminalità come elemento connaturato all’ambiente, tentano di internalizzare i costi di tale

presenza, neutralizzando così il peso delle inefficienze-c.

Riassumendo le nostre conclusioni: l’impresa dovrà fare i conti con la propria struttura

costi-ricavi, tenendo in considerazione il break-even-point 11 e tutti gli elementi che

possono rendere i ricavi insufficienti a coprire i costi di produzione. Da questa analisi

deriveranno le possibili reazioni dell’impresa: di fronte all’insostenibilità dei costi o della

competitività esterna, essa chiuderà, delocalizzerà oppure rintraccerà degli spazi di

11 Il punto di pareggio rappresenta per l’azienda l’intersezione tra la curva dei propri costi e quella dei ricavi, ossia la quantità di produzione che – venduta – consente di coprire i costi sostenuti senza subire perdite. Tutto ciò che sarà venduto in eccesso rispetto a questa quantità critica, permetterà di ottenere un margine di profitto.

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cointeressenza con l’organizzazione criminale, stabilendo forme di convivenza più o meno

accettate.

Con la conseguenza che, nel contesto illegale, non è necessariamente l’impresa più

efficiente a sopravvivere perché migliore. Infatti, l’efficienza è anche il frutto della mobilità

e della capacità del management aziendale di individuare le opportunità presenti sui vari

mercati e coglierle tempestivamente, grazie ad un accurato apporto di informazioni.

Da questo punto di vista, perciò, la scrematura imposta dalla criminalità avrebbe le

caratteristiche di “selezione avversa12” facendo fuggire quelle più efficienti e mantenendo

in loco quelle relativamente meno produttive.

Date tutte le considerazione sulla convenienza allocativa, sui costi da affrontare, sulle

possibilità di difendersi e resistere senza sconfitta agli assalti mafiosi, si comprende

agevolmente che la presenza della mafia può determinare non solamente la chiusura degli

impianti esistenti, la loro scomparsa dal mercato o la rilocalizzazione in altri distretti

produttivi, ma anche un freno all’investimento (dall’esterno, cioè nuovo ed in ingresso), la

riduzione della capacità di attivazione delle risorse su base territoriale.

3.3 La sostituzione del capitale mafioso a quello l ecito: evoluzione del modus

operandi .

Fino a questo momento abbiamo genericamente parlato di “presenza” o infiltrazione della

c.o. all’interno delle attività economiche lecite, ma i tempi sono ora maturi (perché ci siamo

dotati di alcuni strumenti concettuali indispensabili) per aprire un’ampia pagina del nostro

lavoro alla ricerca delle modalità concrete, delle tecniche operative e dell’evoluzione nel

tempo dei rapporti tra “mafie” ed economia.

È in atto da qualche anno una vera e propria mutazione genetica del modus operandi della

criminalità mafiosa: si osserva una progressiva smaterializzazione dei legami di sangue, a

favore di una più spiccata “imprenditorializzazione” delle attività, con un forte orientamento

ai patti di valenza strategica, funzionali agli interessi di business.

Pur senza perdere l’efferatezza originaria, pur conservando la stessa capacità di colpire

con violenza, gran parte dei connotati “mafiosi” sono un po’ arretrati a favore di un

concetto diverso di criminalità organizzata, in cui conta molto l’opportunità di concludere

affari vantaggiosi.

12 Il meccanismo dell’adverse selection rappresenta una delle forme paradigmatiche di market failure. Esso si basa sull’asimmetria informativa: fra le due parti, solo una conosce in pieno determinate informazioni strategiche e non ha interesse a renderle note alla controparte. Vendendo meno la trasparenza, il meccanismo di mercato non è più efficace: il prezzo non funge più da indicatore del valore e della qualità del bene. Si crea così un effetto perverso in cui la buona qualità, o l’efficienza nel nostro caso, non è più oggetto di scambio e restano in piedi solo imprese improduttive.

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In passato, l’accumulazione del denaro era un mezzo; oggi è un fine, il principale degli

obiettivi.

Per queste ragioni, i metodi si sono evoluti, sono profondamente cambiati e si sono

trasformati in sofisticate tecniche economico-finanziarie, affievolendo sempre di più la

nettezza del confine fra attività illecite ed attività lecite realizzate da criminali.

Pare giocarsi tutta qui la partita del futuro: oggetti illegali del mercato non sono più i beni e

i servizi, bensì gli imprenditori e le loro aziende (con un diverso grado di coinvolgimento

che va dalla partecipazione al controllo mafioso integrale).

La mafia di oggi ha un volto diverso, quello di un insospettabile ed affermato manager, di

un imprenditore che investe – rischia – guadagna – produce – commercia.

Più che “l’inabissamento” come pax mafiosa e fine della stagione stragista, qui si rileva un

confondersi della mafia all’interno della società: essa non è solo silenziosa, è diventata

quasi indistinguibile dal tessuto socio-economico circostante.

Inizia da qui una fase di analisi e di recupero storico che condurremo per riportare alla luce

quelli che Pino Arlacchi13 definisce mafiosi “idealtipici”, vale a dire figure stereotipate che

raccolgono caratteristiche generali e comuni a tutti, senza però distinguere tra i singoli

dettagli individuali: si opera per categorie.

Affronteremo l’analisi in due momenti: un passaggio squisitamente storico servirà ad

inquadrare le origini del fenomeno ma soprattutto i cambiamenti intervenuti nei valori

fondanti; un secondo passaggio invece concentrerà l’attenzione sulla progressiva

convergenza che si è consolidata nella zona grigia compresa tra l’economia, gli

investimenti per lo sviluppo – incluse le relative scelte politiche – e gli interessi della

criminalità nella doppia versione dell’accaparramento di denaro pulito (specialmente

pubblico) e del riciclaggio di capitali sporchi propri.

Della mafia Arlacchi nota subito che l’unica regola davvero fondamentale in ogni tempo e

in ogni luogo postula “pecunia non olet ”.

In origine quello della mafia è un ruolo solo parassitario e di mediazione dei conflitti sociali

interni alle comunità locali di appartenenza. Ad avere preminenza, in questa fase, sono il

cd. onore e la forza di affermarlo, anche violentemente. Tutto cambia all’indomani del

boom economico degli anni ’60, quando il potere e la ricchezza accumulata non sono più i

mezzi ma i fini ultimi: «il mantenimento della supremazia impone adesso la disponibilità di

ricchezze e consumi crescenti».

13 Pino Arlacchi è professore ordinario di Sociologia generale presso l’Università di Sassari. È stato deputato e senatore del Parlamento italiano, e vicesegretario dell’ONU dal 1997 al 2002.

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In questo momento, dunque, l’iniezione di denaro pubblico diviene cruciale nel rendere

attrattivo il settore edilizio legato ai programmi per la costruzione di grandi opere ed

infrastrutture. Si tratta del prodromico avvio di un’altra trasformazione del mafioso tipico:

da lì a poco le fortune accumulate saranno ingentissime, procurate con spregiudicatezza

da parte dei nuovi mafiosi imprenditori.

Lo Stato perde il monopolio della violenza ed essa diventa strumento economico efficace

e potente nelle mani di una criminalità che non è trattenuta dagli stessi freni di natura

legale e culturale che agiscono sugli altri imprenditori.

Secondo questa genesi, dunque, la mafia diventa imprenditrice perché si occupa

direttamente di ingerirsi nell’economia, trasferendovi i propri metodi illegali e violenti.

Questa espansione imprenditoriale continua fino a quando la territorialità, il connotato più

caratteristico e primigenio del comportamento mafioso, non si traduce in un vincolo troppo

stretto che risulta di ostacolo al raggiungimento di ulteriore potere e genera un conflitto di

tutti contro tutti.

Che la contaminazione dell’economia legale potesse raggiungere le notevoli proporzioni di

cui ancora a stento riusciamo ad individuare le dimensioni, lo vaticinava già il giudice

Giovanni Falcone ben 16 anni or sono, scrivendo che se le tangenti del racket

diminuiscono – o meglio si trasformano – ciò può significare che il mafioso tende a

trasformarsi lui stesso in imprenditore, a investire in imprese i profitti illeciti del traffico di

droga. La crescente presenza di Cosa Nostra sul mercato legale non rappresenta un

segnale positivo per l’economia in generale.

Era, dunque, l’economia “in genere”, cioè tutta, ad essere ritenuta in pericolo, non solo

qualche sua frazione illegale, perché l’intuizione aveva visto molto lontano nel rischio di

una silente, inesorabile e inestricabile infiltrazione dell’organizzazione criminale ovunque

se ne fosse presentata la profittevole occasione.

Con il tempo, i vari studi e le cronache giudiziarie hanno chiarito che esiste una

diversificata gamma di atteggiamenti “imprenditoriali” da parte mafiosa, che vanno

dall’assunzione diretta dell’impresa, alla partecipazione e al semplice “prelievo” parassita.

Passando rapidamente in rassegna alcuni meccanismi, possiamo osservare – ad esempio

– l’incremento della pressione estorsiva o la sua progressiva trasformazione in usura. Un

metodo, quest’ultimo, che consente alla mafia prima di controllare e poi di appropriarsi

direttamente dell’impresa, il che è redditizio se si vuole concentrare l’attenzione in quel

settore produttivo, ma è un vantaggio anche perché consente di riciclare denaro sporco

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proveniente da altre attività illecite e, a ben guardare, costituisce pure un avvertimento per

una eventuale concorrenza.

L’estorsione pura e semplice, invece, è e resta un efficace metodo di controllo capillare

dell’economia locale, in quanto si rapporta con precisione “contabile” al giro d’affari e

costituisce un “bene rifugio” per la criminalità, un flusso costante ed inesauribile di risorse

finanziarie pulite e a basso costo (procurate cioè con minacce che siano credibili e

qualche avvertimento più concreto; per non dire che spesso è direttamente l’imprenditore

o il commerciante a cercare il mafioso per “mettersi in regola”).

Per chiarire i termini della questione, c’è un rigoroso ordine cronologico da seguire, in

quanto vi è una linea evolutiva del fenomeno che nel tempo ne ha prodotto una vera e

propria mutazione genetica ed una notevole diversificazione. Insomma, il progresso è

avvenuto per fasi e aggiustamenti successivi, a seconda dell’opportunità più conveniente e

meno rischiosa.

Dalle cronache giudiziarie e dalla ricostruzione del modus operandi mafioso si perviene,

infine, a codificare dei modelli e dei paradigmi più generali, di grande utilità per formulare

analisi e prevedere soluzioni.

Un primo step ci porta ad evidenziare la crisi dell’impresa mafiosa: è, infatti, una

definizione oramai datata, risalente alla legislazione degli anni ’80. Essa comprende due

elementi principali: il capitale impiegato nell’impresa è frutto di attività illecite – sebbene la

produzione sia orientata a beni e servizi leciti – e il punto di forza dell’azienda sta nella sua

capacità di intimidazione (la quale non coincide necessariamente con un’azione esplicita

di violenza).

In che modo – cioè con quali meccanismi di accumulazione – si è formato il capitale

investito e quali metodi intimidatori vengono messi in campo per realizzare l’affermazione

sul mercato?

La storia economica italiana c’insegna che gli anni ’60-’70 sono stati indubbiamente

costellati da un notevole boom produttivo e soprattutto dalla costruzione massiccia di

infrastrutture nel Paese. Qui affonda le radici anche un’effervescenza economica degli

associati alle organizzazioni mafiose.

In queste fasi iniziali, l’accumulazione di capitale avviene attraverso riscatti di sequestri di

persona, mazzette, in un rapporto simbiotico e complementare con la spesa pubblica.

Ecco, dunque, che alle attività illecite “classiche” si aggiunge e si sovrappone l’avvio di

un’attività economica lecita sul piano produttivo, con la creazione di propri strumenti

imprenditoriali.

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Con la creazione dell’impresa mafiosa si passa infatti dalla fase tradizionale di

immobilizzazione della ricchezza a quella moderna di accumulazione del capitale, poiché

la parte più consistente del denaro “rastrellato” in modo criminale viene messo in

circolazione e viene impegnato in attività produttive al fine di una sua ulteriore

valorizzazione.

Il connotato principale di queste prime imprese mafiose è la forte caratterizzazione

personale: la conduzione imprenditoriale degli affari è in mano al mafioso fondatore. Tutto

ruota attorno a lui e lui esercita l’attività per mezzo dei suoi familiari.

L’impresa mafiosa compendia una serie di funzioni e risponde ad esigenze di varia natura:

è infatti uno strumento più “moderno” di riciclaggio del denaro, ma insieme anche uno

strumento di copertura dell’attività più specificamente criminale; persegue obiettivi di

produzione di surplus economico e di valorizzazione del capitale, e quindi esercita

un’attività produttiva, ma risponde anche all’esigenza di una più efficace forma di controllo

sociale e insieme di legittimazione del nuovo potere economico e politico

dell’organizzazione criminale.

Il sodalizio con la spesa pubblica si salda nel momento in cui si comprende che questo

settore può assicurare dei flussi sostanziosi di denaro. Adesso è necessario penetrare in

modo esteso le strutture periferiche dello Stato e compenetrarsi alle formazioni politiche

che gestiscono i flussi di spesa pubblica, se si vogliono rastrellare e drenare risorse, se si

vuole realizzare una forma di affermazione delle imprese mafiose, e quindi nuovi livelli di

accumulazione del capitale.

Nel momento di acme del dinamismo economico del Sud, fra gli anni ’60 e ’70, si afferma

e si consolida quel nesso fatale tra mafia, politica ed economia. La mafia si dimostra,

infatti, dinamica nell’effettuare una ri-articolazione dei propri interessi, passando

rapidamente dalle rendite fondiarie al ben più redditizio comparto dell’urbanizzazione.

Spostare l’asse principale dei propri interessi verso il settore edilizio si è rivelata una

mossa tempestiva, che ha ampiamente ripagato lo sforzo fatto.

L’affermazione dell’impresa mafiosa in questa fase è dovuta alla necessità di avere

“strumenti” adeguati per canalizzare risorse pubbliche e inserirsi nei nuovi processi

“produttivi” che si andavano affermando, e, per un altro verso ancora, è dovuta a motivi

“posizionali”, ossia alla necessità dei mafiosi di poter partecipare (anche sul terreno

economico) con altri settori della classe dirigente all’esercizio della funzione dominante nel

territorio in cui hanno un forte radicamento storico-sociale.

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Un’impresa così strutturata, con una forte impronta personale che lega l’andamento

economico dell’attività con le vicende individuali del suo imprenditore, è destinata

all’instabilità e all’insicurezza.

Vale a dire che la mancata separazione tra elemento sociale, politico ed economico ha

fatto esplodere la contraddizione dell’impresa mafiosa. C’è dunque bisogno di una

profonda ristrutturazione per superare la crisi e garantirsi la sopravvivenza.

In questa nuova fase – iniziata negli ’80 – l’obiettivo principale è quello di provvedere ad

una diversificazione degli investimenti, ovvero concentrarsi su settori differenti che

assicurino adeguati margini di remunerazione e bassi rischi. È così che ci si orienta ai

servizi pubblici come sanità, smaltimento dei rifiuti, ma anche reti commerciali e

finanziarie. L’impresa madre alimenta con i propri proventi una costellazione di altre

società che operano nel medesimo settore o in campi diversi.

Oltre la diversificazione, un’altra novità strategica riguarda il fatto che il mafioso non tende

più ad avere la titolarità formale della proprietà né compiti diretti di direzione e di gestione

dell’impresa; ma si limita a conservare la proprietà indiretta dell’impresa e la sua funzione

di direzione la esercita in modo sempre più mediato.

In questo modo si attiva un circuito di pulitura delle società, una separazione – attraverso

l’interposizione di vari agenti – fra il mafioso e l’impresa, che viene formalmente

legalizzata. Schermarsi dietro dei prestanome (o teste di legno) consente di mantenere

l’impresa “pulita”, soprattutto quando non ci si serve di familiari bensì di estranei, per

meglio mimetizzare l’impresa tra le pieghe dell’economia legale. La riconducibilità al

mafioso viene così resa quanto più difficile.

Questo processo, in alcuni casi, determina un complesso reticolo di partecipazioni

incrociate tra membri della famiglia (o dello stesso gruppo mafioso) e soci “esterni” con cui

si stabiliscono rapporti di compenetrazione e di cointeressenza.

Le imprese, organizzate secondo più convenienti forme societarie, non sono dell’unica

specie orientata alla produzione: sono state individuate e scoperte anche le cd. “imprese

cartiere”, la cui ragione di esistere si rintraccia nell’utilità di produrre carte, ossia fatture

false e documentazioni o attestazioni (senza alcun riscontro con la realtà).

Riassumendo, esistono tre principali modelli di imprese mafiose dedite alla produzione di

beni e servizi leciti:

a) l’impresa criminale-legale. È caratterizzata dal fatto che gli agenti che risultano

titolari formali e di fatto sono associati all’organizzazione mafiosa, che i metodi

concorrenziali sono di natura violenta e che il capitale è frutto dell’attività criminale;

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mentre i beni prodotti sono leciti e l’attività ha una forma giuridica formalmente

legale (forma originaria, archetipo di impresa mafiosa);

b) l’impresa illegale-legale. Si distingue per il fatto che il capitale è di origine criminale

e il proprietario effettivo è un criminale conosciuto come tale, mentre il titolare

formale risulta una persona apparentemente pulita e rispettabile (in realtà

prestanome del mafioso), il quale gestisce l’impresa secondo criteri legali e agisce

rispettando formalmente le logiche di mercato;

c) l’impresa legale-illegale. Si tratta di un’impresa nata come impresa legittima che, ad

un certo punto, entra in affari o, meglio, in rapporti di cointeressenza e di

compartecipazione con la mafia e i suoi capitali. In questo caso l’impresa si

presenta formalmente legittima e agisce secondo criteri di mercato, ma la sua

illegalità (o mafiosità) consiste nella compresenza di interessi, soci (spesso di fatto)

e capitali legali e illegali.

È, dunque, quest’ultima una forma di IMPRESA A PARTECIPAZIONE MAFIOSA : la

tradizionale impresa mafiosa di cui era titolare e amministratore direttamente il mafioso-

imprenditore è stata sostituita da queste nuove imprese “legalizzate”, che, pur non

rinunciando completamente alla forza di intimidazione dell’organizzazione a cui

appartengono, sono diventate nei fatti istituzioni e agenti del mercato vigente nelle realtà

territoriali in cui operano.

Da quando, con molte difficoltà, si è cominciato ad indagare sul fenomeno della

compartecipazione mafiosa, si è persino invertito il rapporto quantitativo delle confische di

beni immobili e quote societarie o altri titoli. Ciò sta a simboleggiare un ingresso

prepotente della mafia anche nel settore finanziario.

Quindi una delle finalità principali dell’impresa a partecipazione mafiosa è costituita proprio

dalla necessità di mimetizzare meglio gli investimenti mafiosi sul terreno imprenditoriale e

di impedire di risalire alle origini criminali della formazione del capitale. In molti casi proprio

questi meccanismi renderanno più difficoltoso il sequestro e la confisca giudiziaria dei

beni.

L’impresa a partecipazione mafiosa è strutturata sul binomio denaro-relazioni, nel senso

che utilizza prevalentemente il denaro e le relazioni imprenditoriali, politiche e

amministrative come strumenti di affermazione e di competizione: la violenza non

scompare del tutto ma rimane sullo sfondo ed entra in gioco come estrema ratio.

In sostanza, l’impresa a partecipazione mafiosa si caratterizza perché le quote societarie

sono stabilmente costituite dal capitale accumulato illecitamente. Tale forma di

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investimento, attraverso la “schermatura” dei prestanome, è la modalità più adeguata e

remunerativa per ripulire ingenti flussi di denaro sporco (sono società fondate su un “patto

leonino”, che è vietato dal codice civile!).

Proprio in campo finanziario, man mano che evolvono i mercati e si tenta di liberalizzarli,

sempre più facilmente la mafia riesce ad ottenere – per vie traverse e collaborazione di

insospettabili – quote azionarie di società di capitali. Attualmente le forme più diffuse di

questa pratica sono:

1. protezione-estorsione che, quando i malavitosi non si accontentano più, può

diventare pretesa di compartecipazione alla società acquisendone delle quote

significative del capitale di comando;

2. usura , nel qual caso il capitale sporco viene ripulito ed impiegato (è a costo zero!).

Chi ottiene il prestito, sopravvive ma si lega inestricabilmente a questo capestro.

Fino a quando non diventa obbligatorio cedere l’attività, farla rilevare o consentire

l’ingresso della mafia tramite cessione di quote sociali). L’usura praticata dei gruppi

mafiosi non è quindi un reato-fine, ma un reato strumentale e funzionale alla

compartecipazione o all’acquisizione di un’attività imprenditoriale o commerciale.

Ciò che colpisce di questo fenomeno è la convivenza di elementi al contempo produttivi

eppure parassitari da parte delle imprese mafiose. Non c’è intento innovativo nelle

produzioni mafiose, le quali operano in modo fortemente imitativo e con bassi livelli di

professionalità. L’ammodernamento tecnologico non è fra le priorità del mafioso-

imprenditore, perché la capacità produttiva e competitiva dell’impresa e la sua modernità

non sta nella struttura, ma proprio nelle relazioni di interdipendenza sociale che riesce a

costituire.

In buona sostanza, la criminalità organizzata ha lo scopo di concludere buoni affari, ossia

di riciclare in partecipazione e in acquisto di imprese, di negozi, di immobili e in operazioni

finanziarie il denaro estorto al Sud mediante racket, tangenti, truffe, appalti e quant’altro è

possibile ottenere in modi illeciti o falsamente leciti.

Comunque, a parte le cifre, dal 1982 al 2007 risulta dimostrato che il mercato mafioso è in

ascesa esponenziale e la società mafiosa è vista dagli ambienti industriali come la società

finanziaria più grande del continente e una delle maggiori di tutto il pianeta.

Con l’aiuto della grafica, proveremo ora a sintetizzare i complessi passaggi affrontati nel

corso del capitolo, rinviando all’appendice storico-bibliografica per l’approfondimento sulle

origini, l’etimologia e le caratteristiche tradizionali della criminalità organizzata.

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Figura 1_ La linea del tempo

In epoca di globalizzazione, la mafia imprenditrice diventa proprietaria al 100% di pacchetti di imprese e di

società

Con il progresso delle attività economiche e commerciali, la richiesta del “pizzo” e l’usura diventano una delle fonti principali di approvvigionamento di denaro per le cosche e consentono loro di entrare direttamente nelle

imprese

Anni ’60: cambia la vocazione economica dell’ Italia e si apre la stagione delle grandi opere infrastrutturali, degli indotti industriali sorretti da grandi investimenti pubblici (edilizia,

sanità, appalti)

In ambito agricolo si agiva con l’ imposizione di “guardianie” e manovalanza; Controllo delle elezioni (soprattutto locali) Mantenimento

della pace sociale

In origine si trattava di criminalità comune

che in seguito si organizzò (il periodo è quello

compreso fra il Settecento e l’Ottocento preunitario, con la fine del latifondo e la nascita della borghesia

capitalistica)

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Per esemplificare gli snodi evolutivi che si sono avuti nel corso della Storia all’interno delle organizzazioni mafiose, la figura 1 (pagina

precedente) mostra una “linea del tempo” disposta in maniera progressiva in base al verso delle frecce: in ogni casella sono state

sintetizzate le caratteristiche principali che hanno condotto al mutamento della c.o. da tradizionale ad imprenditrice.

Ancor più emblematica è la figura 2 (qui di seguito), strutturata come la nota “matrice McKinsey” 3x3 sull’evoluzione aziendale.

Figura 2_ Matrice McKinsey adattata all’evoluzione della mafia imprenditrice

MAFIA

TRADIZIONALE

MMAAFFIIAA

IIMMPPRREENNDDIITTRRIICCEE

?

POST-INDUSTRIALE INDUSTRIALE RURALE

FORTE (LEGAMI FAMILIARI)

MEDIO

(PARTECIPAZIONE DI ESTRANEI)

DEBOLE

(GLOBALIZZAZIONE)

L E G A M E

C O N

T E R R I T O R I O

STATO DELL ’ECONOMIA E COMPLESSITA ’

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In questo caso, si è tentato di mettere a sistema e “catturare” i passaggi più significativi,

secondo le coordinate “legame con il territorio” – che include anche i vincoli di parentela e

l’ammissione a partecipare degli estranei – e lo “stato dell’economia”, compreso il grado di

complessità del settore considerato.

Seguendo le frecce, si nota come, partendo da una situazione di tipo tradizionale, fondata

sulla forte impronta territoriale e sui vincoli di sangue, in rapporto ad un’economia piuttosto

povera e di carattere rurale, si è passati alla condizione di “mafia imprenditrice” attraverso

due canali.

In primo luogo, l’economia è diventata di tipo industriale (grandi opere ed infrastrutture,

dinamismo nei settori produttivi), rendendosi più ricca e complessa ed offrendo, dunque,

delle interessanti prospettive di profitto. Dallo sfruttamento parassitario delle risorse con

estorsioni e forme di imposizione esterna, si è passati ad un articolato sistema di patti

strategici con ambienti dell’imprenditoria che ha visto la scomposizione degli storici cartelli

mafiosi e la ricomposizione di nuove forme di alleanza.

In seconda battuta, vi è stata la necessità di adattare l’apparato valoriale mafioso alla

nuova realtà economica, attraverso l’emigrazione e la ramificazione dei contatti in tutto il

pianeta, ma anche stringendo delle alleanze strategiche con soggetti “estranei”.

La fase attuale, contraddistinta dal punto interrogativo, è caratterizzata dalla compresenza

di un’economia certamente ancora industriale e, per certi settori, già evoluta verso il post-

industriale. D’altro canto, dal punto di vista geopolitico e finanziario, la globalizzazione è la

sfida principale per tutti gli operatori.

Come e quando anche la mafia imprenditrice transiterà compiutamente verso l’era del

post-industriale è ancora piuttosto incerto.

Tuttavia, i primi segnali della marcata “managerializzazione” come nuova tendenza

strategica della c.o., vengono indicati nei grafici 1 e 2 che delineano il progressivo

aumento del livello d’istruzione e competenza raggiunto da alcuni membri, nonché la

deflazione registrata nell’uso di metodi violenti d’intimidazione e minaccia, ricorrendovi

solo in estrema ratio, all’esito di una fallita mediazione dei conflitti.

Grafico 1 Grafico 2

tempo

ricorso alla violenza

tempo

livello di istruzione

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La figura 3 rappresenta l’evoluzione dei metodi dell’organizzazione mafiosa ma dal punto

di vista degli equilibri di mercato e dello sviluppo economico complessivo raggiunto

all’interno del sistema considerato.

Figura 3_ L’intersezione dei mercati

Distingueremo i mercati in base al fatto che le attività abbiano ad oggetto un bene illecito,

siano compiute da soggetti illeciti e con metodi non ammessi dalla legge: se questo si

verifica tutto allo stesso tempo, il mercato sarà identificato con il colore nero e sarà

considerato illecito (i reati saranno, ad esempio, il traffico di droga e di armi, la tratta di

esseri umani, in gioco d’azzardo, e così via).

All’opposto, nell’insieme bianco sarà descritto il mercato perfettamente lecito (commercio,

banche, industrie).

Nell’area di intersezione tra i due mercati si sviluppa una zona di grigio, in cui le attività

sono contemporaneamente lecite ed illecite, secondo diverse combinazioni:

• soggetto lecito, ma oggetto e metodo illeciti;

• soggetto e fine illeciti, ma oggetto e metodo leciti.

Vi includeremo, pertanto, quei reati come l’estorsione, la corruzione, il pagamento di

tangenti, l’acquisizione di quote societarie, la manipolazione di gare d’appalto, il riciclaggio

di denaro.

Il mercato grigio, quindi, è la zona in cui vengono a contatto la criminalità e le attività

economiche più vulnerabili e passibili di infiltrazione illecita.

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Per spiegare la presenza e la direzione delle frecce di espansione, bisogna tener conto del

fatto che il mondo illecito e quello grigio, poiché non rispettano le regole, sono liberi da

vincoli e possono espandersi a seconda della convenienza. Viceversa, il mercato lecito è

sottoposto alla pressione congiunta del rispetto delle regole, della sostenibilità e della

competizione concorrenziale con gli altri operatori: questo ne limita enormemente e ne

rallenta le possibilità di sviluppo.

Questo nesso è ancora più chiaro se si guarda al grafico 3.

Grafico 3_ Il trend “empirico” dei mercati illecito , grigio e lecito

Precisiamo in primo luogo che si tratta di una ricostruzione empirica, per cui i valori di

volume sono arbitrari e privi di unità di misura. Con questo grafico si è inteso

semplicemente mettere a paragone le tendenze evolutive dei tre mercati.

Come illustrato in precedenza, il mondo dell’illecito non è oggetto d’interesse in questa

ricerca, ma è noto che il suo mercato è più florido di ogni altro affare economico, sebbene

le cifre siano oscure per via appunto dell’illiceità.

L’andamento sinusoidale con delle piccole oscillazioni indica la sostanziale stabilità del

volume d’affari anche in corrispondenza di un’efficace repressione, per cui le flessioni

saranno minime.

Ciò che, invece, risulta più interessante è l’andamento congiunto del mercato grigio e di

quello lecito: entrambi conoscono un notevole picco nel periodo del boom economico fra

gli anni ’60 e ’70, ma poi fanno registrare una profonda divergenza.

TRACCIATO EMPIRICO DEI TREND NEI MERCATI

0

200

400

600

800

1000

1200

POST-WAR

1960 1970 1980 1990 2000 ?

TEMPO

VO

LUM

E D

ELL

'EC

ON

OM

IA

ILLECITO

GRIGIO

LECITO

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La progressiva infiltrazione della criminalità nel settore lecito ha prodotto uno spostamento

nei volumi economici realizzati verso l’area del grigio. Il livello di parassitismo raggiunto in

questo mercato ha interferito con l’economia “libera” a tal punto da scaricare su di essa

tutti i costi della crisi globale, senza restarne scalfito e continuando a proliferare.

La conseguenza è una sostanziale stagnazione che tiene basso il livello di sviluppo: per la

somme di tutte queste pesanti distorsioni, il sistema economico “bianco” non riesce ad

innescare un tasso di crescita sufficientemente elevato da poter sopportare tali pressioni e

non può garantire che vengano raggiunti standard di benessere generalmente migliori, pur

in presenza di un’ampia fascia di “grigio”.

In definitiva, perché viene alimentata una spirale depressiva in cui il grigio “mangia” il

bianco?

La mafia che fa impresa, intraprende un’attività in cui c’è un capitale iniziale (illecitamente

accumulato) investito nella realizzazione di beni e servizi per il mercato con l’obiettivo del

profitto. Tuttavia:

• il capitale è sporco,

• i soggetti imprenditori, i gestori, i dipendenti appartengono all’ambiente della

criminalità organizzata oppure ne accettano consapevolmente lo stipendio,

• il sistema dei prezzi risulta alterato, in quanto non costituirà l’esito di un libero

confronto concorrenziale tra una pluralità di operatori economici,

• i proventi dell’impresa saranno re-investiti nei processi di R&S per il continuo

miglioramento della produzione, per rendere l’organizzazione più efficiente, per

incrementare la qualità del capitale umano aziendale? È molto più logico attendersi

uno scarso interesse dell’imprenditore-mafioso in questi processi aziendali, per

privilegiare lo sperpero personale, accumulare profitti egoisticamente o dirottarli

verso altre attività, secondo il circuito del modello Reuter.

Per tutte queste ragioni, l’impresa risulta comunque impoverita perché si regge su fragili

fondamenta di illegalità, mentre risulta alimentato un circolo vizioso che deprime la

competitività e lo sviluppo del sistema affetto dall’infiltrazione criminale nelle sue attività

economiche. Si realizza, quindi, una forma di convivenza e di equilibrio che posiziona il

mercato lecito molto al di sotto delle proprie potenzialità.

Anche in questo caso, il futuro è un grande punto interrogativo.

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CAPITOLO III

APPENDICE STORICO-BIBLIOGRAFICA.

Quest’appendice storico-bibliografica raccoglie una piccola rassegna di recensioni sui più

recenti testi pubblicati sulle origini e sul volto moderno della criminalità organizzata.

‘Ndrangheta e Storia Criminale, di Enzo Ciconte.

Nata in sordina, per decenni accomunata superficialmente alla mafia siciliana o alla

camorra, senza neppure un nome proprio, la criminalità calabrese si è poi saputa

distinguere per avere al centro della sua esistenza un perno: la coincidenza di sangue fra

famiglia naturale e famiglia mafiosa.

Si tratta di un nucleo originario che le ha assicurato stabilità ed impermeabilità al

fenomeno del pentitismo: anche i matrimoni e gli apparentamenti sono stati per decenni

delle scelte di alta valenza strategica per il “perpetuarsi della specie”.

C’è il sangue alla base di tutto: quello che lega le madri ai figli, quello che si versa

simbolicamente durante il rito di affiliazione, quello con cui si lava e si ripara l’onore leso,

si regolano i conti, si eliminano gli “scomodi” e si esercita la deterrenza verso qualunque

possibile concorrente.

Lo sguardo dello storico calabrese Enzo Ciconte14, nel libro ‘Ndrangheta (Prefazione di

Francesco Forgione), va ben oltre le accuse di arcaismo e tribalità come connotati

principali del fenomeno criminoso, in quanto egli rileva con acume che questa famiglia

mafiosa ha elaborato originali modalità di sopravvivenza, riuscendo a far convivere la

tradizione primigenia con slanci poderosi verso la modernità, grazie alla capacità di

cogliere ogni occasione d’affari e di proiettarsi a gran velocità nel business globale.

14 L’autore è uno storico calabrese, già deputato nella X legislatura, consulente presso la Commissione parlamentare antimafia dalla XIII alla XV legislatura (1997-2008). Presidente dell’Osservatorio tecnico-scientifico sulla sicurezza e la legalità della Regione Lazio, è stato docente presso le Università di Roma Tre e Bologna.

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L’autore fa molto di più: egli riparte dalle premesse di una terra sconosciuta e da una

mentalità difficile da esprimere, avviando così un percorso storico per rintracciare le

origini, anche etimologiche, del fenomeno criminale calabrese.

Nascono da lontano queste radici, da terre aspre, dimenticate, inospitali, periferiche e

diventano in pochi decenni delle forze occulte di straordinaria potenza e modernità, con

cellule di emigranti installate in tutti i centri nevralgici del pianeta, nel cuore pulsante degli

affari.

Quella della ‘ndrangheta è un’origine avvolta nel mito di una favola fondante, riccamente

simbolica: la storia dei tre cavalieri (spagnoli?) di nome Osso, Mastrosso e Carcagnosso.

Le lancette del tempo scorrono e siamo nel Settecento preunitario, quando incontriamo gli

oziosi “spanzati”, gente prepotente che disprezza e si fa beffe della giustizia, gente rimasta

impunita. Dal progressivo smantellamento della feudalità nasce una folta classe di

“bricconi”, pronti ad intrecciarsi con gli interessi dei ceti emergenti.

Dopo l’Unità d’Italia iniziano a comparire come bubboni sempre più diffusi i gruppi di quelli

che, prima del conio del termine ‘ndrangheta, erano detti genericamente “camorristi”.

L’autore sottolinea come non ci sia stato un grande interesse storico-scientifico

nell’analizzare il fenomeno, perché prevaleva l’idea che si trattasse di una mafia

esclusivamente legata ad un ambiente pastorale. «Insomma, una criminalità stracciona,

senza futuro, popolata di pezzenti».

La minuzia descrittiva non si disperde e dimostra grande tenuta nella narrazione di un

fenomeno che sta sempre sul labile confine fra realtà e leggenda d’altri tempi. I dettagli

sono pertinenti ed adducono prove, aggiungono informazioni preziose per costruire un

quadro di comprensione che sappia cogliere mutamenti e caratteri di continuità nelle

logiche perverse della ‘ndrangheta: dalle origini alla definizione, passando per etimologia,

stralci di confessioni, racconti mitici, elementi di successo e sintomi di cambiamento

strutturale per reggere al trascorrere del tempo, al mutare della società e dei suoi valori.

Sono pagine popolate da una moltitudine di nomi, località, rituali sinistri e fascinosi, ma il

tutto è funzionale per capire di cosa si sta parlando, e di chi. Quest’ultimo aspetto, forse, è

l’elemento più interessante e ricco di spunti, dal momento che riflette l’importanza della

questione personale e familiare nella logica di sopravvivenza e successo della

‘ndrangheta.

C’è tutto un mondo nato all’ombra della miseria rurale, sulla scorta di secolari battaglie

antifeudali: una lotta aspra come il territorio montuoso, a tratti impraticabile; un misto di

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sentimenti congestionati nell’uso improprio della violenza, strumento usato a presidio dei

valori d’onore, rispetto, promozione sociale e conquista del potere.

Nelle pieghe della Storia si rintracciano la superficialità delle istituzioni, la loro

intempestività nel riconoscere la pericolosità dalla ‘ndrangheta ed un lassismo nella

repressione che le hanno offerto su un piatto d’argento la possibilità di proliferare

indisturbata.

Nel testo sono compendiate tutte le tendenze evolutive e i fatti principali che hanno

contraddistinto decenni di storia della ‘ndrangheta: la prospettiva è quella di uno sguardo a

volo d’uccello sulle questioni rilevanti, sui personaggi più carismatici e significativi, sugli

affari e sui rapporti con la massoneria deviata, con la politica e con ogni settore

dell’economia, soprattutto nel campo degli appalti edilizi ed industriali.

Vi è poi un rapporto, ben sottolineato dall’autore in più punti del testo, di contraddizione

eppure serbatoio efficace di simbolismo tra la ‘ndrangheta e la fede cattolica: santini,

riunioni presso il celebre Santuario della Madonna di Polsi nel cuore dell’Aspromonte,

rituali di battesimo all’atto di affiliazione ma anche in occasione di avanzamenti di grado

nella ferrea gerarchia mafiosa.

Come non bastasse, in anni più vicini a noi, si è aperta la lunga stagione del massiccio

intervento statale tramite la spesa pubblica: flussi finanziari di incalcolabile portata sono

giunti nelle casse calabresi, ma non è accaduto nulla di neanche lontanamente

paragonabile all’innesco di un circolo virtuoso di sviluppo economico sostenibile. Sono lì a

dimostrarlo alcuni segni della violenza inflitta al territorio con l’edificazione di improbabili

poli industriali, due su tutti: il quinto centro siderurgico di Gioia Tauro e la centrale a

carbone di Saline Joniche.

Fatale per la politica ma prospero per la ‘ndrangheta è stato, infatti, l’incontro delle due: un

sodalizio che con il tempo è divenuto sempre più inestricabile, senza un chiaro confine,

senza una netta linea di demarcazione che potesse rendere la “cosa pubblica” immune e

pulita da certe contaminazioni. Auspicio del tutto irrealizzabile, visto che tra le ossessioni

della ‘ndrangheta c’è sempre stata la conquista elettorale, il condizionamento con ogni

mezzo della volontà politica dei cittadini.

Monografia asciutta, che si legge con speditezza e che ha il valore della sintesi, ma anche

dell’aggiornamento nei confronti di fatti risalenti a pochi mesi fa, tutti in corso di

approfondimento, eppure già rivelatori di cambiamenti strutturali interni alla ‘ndrangheta.

Si tratta di quei buoni colpi assestati dalle forze dell’ordine ed inquirenti verso latitanze

eccellenti, che offrono l’opportunità di ricavare nuove informazioni ed aprire così orizzonti

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inattesi su quella che, negli anni, è riuscita a consolidarsi come la forma di criminalità

organizzata più affidabile, forte e radicata del pianeta.

L’ampiezza dell’approfondimento storico e la comparazione ricca d’analisi e confronti si

ritrovano, invece, nell’altro volume pubblicato da Enzo Ciconte, sempre nel 2008: parliamo

di Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai

giorni nostri.

In questo lavoro ciclopico, il professor Ciconte si assume l’onere di impostare finalmente in

modo nuovo l’analisi del fenomeno mafioso, secondo un approccio onnicomprensivo:

s’incrociano percorsi storici, raffronti, s’accende un intenso dibattito ideologico e non si

tralascia di avventurarsi sul pericoloso terreno dei rapporti con lo stato, l’economia e la

chiesa.

Discutiamo di metodo. Già, perché l’autore rileva una condivisibile frammentarietà negli

studi sulla criminalità che si sono succeduti sino ad oggi: ogni libro, ogni saggio, persino

ogni film o “fiction”, hanno pur sempre adottato un punto di vista parziale, focalizzando di

volta in volta l’attenzione su uno solo degli aspetti cruciali che caratterizzano le varie mafie

italiane. Viceversa, non è possibile scorgere nel panorama delle ricerche storiche o

sociologiche nulla di completo ed incline ai paragoni per rintracciare similitudini e

divergenze.

Non è un caso, infatti, che la grafica di copertina riporti l’immagine di Cerbero, il mitico

cane a tre teste, proprio per rappresentare che mafia, ‘ndrangheta e camorra sono del pari

aggressive, fameliche e violente. Il corpo unico ne indica, invece, l’origine comune ed

alcuni elementi tipici, patrimonio genetico delle tre organizzazioni criminali.

C’è uno snodo dal quale l’autore prende le mosse per dipingere un affresco della

“resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri”, vale a

dire il momento in cui il banditismo, il brigantaggio e la criminalità individuale mercenaria

subiscono un’importante mutazione e si organizzano.

«Nella fase che si lasciava alle spalle il periodo feudale e che segnava l’inizio della

trionfale ascesa dell’egemonia borghese e dello sviluppo capitalistico, mutava lo scenario

della criminalità nel senso che per la prima volta nella storia d’Italia gruppi di uomini si

organizzavano e decidevano non solo di agire contro le leggi usando la violenza, ma

soprattutto di farsi proprie leggi, creare associazioni, forme organizzative, strutture stabili,

organismi in grado di durare nel tempo inventando ed elaborando linguaggi, modi di

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pensare, valori, una visione della vita e dei rapporti con gli altri, persone o istituzioni che

fossero».

Lo studioso ricostruisce l’ahimé lunga storia criminale italiana a partire dallo

smantellamento della feudalità e dal dinamismo sociale introdotto dalla borghesia

capitalistica emergente. In questo agitarsi di retaggi baronali duri a soccombere, con la

contrapposizione delle nuove forze che si stavano affrancando dal torpore feudale, non

poteva non annidarsi il seme del conflitto sociale, costituendo un terreno di coltura

particolarmente fertile per il proliferare della criminalità.

L’uso privato della violenza per mano borghese si pose come strumento per la conquista

del potere: la nuova proprietà terriera aveva bisogno d’imporsi sulla scena socio-

economica e questo rese «possibile la formazione di autonomi e organizzati agglomerati

criminali».

Tuttavia, non può parlarsi della violenza esclusivamente come mercanzia offerta dai

criminali, in quanto il connotato dell’organizzazione richiede una struttura che poggi su

basi ideologiche ed un patrimonio valoriale coesivo, condiviso dai suoi appartenenti: alla

nascita delle mafie contribuisce un’intera cultura, il che le rende forme organizzative

stabili, forti, impenetrabili e destinate a divenire durature.

Come nota giustamente Ciconte, «è difficile pensare che quel fenomeno che si sarebbe

poi chiamato mafia potesse essersi formato dall’oggi al domani, come d’incanto; è lecito

pensare che dovesse avere alle spalle un lavorio di formazione lungo, pluridecennale, un

lento processo di incubazione».

È il carattere di permanenza nel tempo dell’associazione criminale a destare sorpresa: si

decideva di costituirsi in gruppi organizzati per dedicarsi alle attività illecite “a tempo

indeterminato”, producendo addirittura regole e linee-guida, come le chiameremmo oggi.

La “mafia” eleva socialmente e conferisce uno status più prestigioso, consolida le posizioni

già alte e crea attorno a sé un consenso funzionale al suo perpetuarsi, con un ricorso alla

violenza solo in casi estremi.

Nell’Ottocento è frequentissimo che i capi svolgano ruoli di pacificazione sociale e

mediazione dei conflitti: la struttura si va stratificando con ruoli precisi, gerarchie e

divisione dei compiti.

Ancora un passo del testo, ci aiuterà a riassumere tutti i cambiamenti sostanziali

intervenuti all’interno di questa emergente realtà criminale: «che fosse maturato qualcosa

che si potrebbe definire un progetto impegnativo lo dimostravano: l’elaborazione e l’uso

dei codici; il ricorso frequente ai rituali; la ricerca di una mitologia in grado di giustificare le

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loro azioni e di attrarre nuovi adepti; la struttura gerarchica entro la quale ognuno

occupava un posto ben preciso e svolgeva un compito particolare; l’occupazione

permanente, non più transitoria del territorio; le relazioni con poteri politici e istituzionali; la

formazione di quadri criminali che avevano caratteristiche sia militari sia “politiche” […] in

grado cioè di influenzare con la forza e con la mediazione».

Fra simbologie e rituali, lo storico calabrese non manca di includere la pratica di tatuarsi

per ostentare la forza dell’appartenenza alla “casta” mafiosa, nonché il ruolo di

omogeneizzazione dei metodi e fucina per lo scambio di idee svolto dalla vita in carcere.

In generale, tutte le occasioni d’incontro e di permanenza in un luogo, potevano costituire

momenti di socializzazione criminale e diffusione del fenomeno.

La suggestione cresce man mano che si pone attenzione ai rituali e ai codici recanti

giuramenti e complesse procedure di affiliazione e passaggi di grado: tutto avvolto nel

simbolismo, in una mitologia difficile da decodificare che nella sua incomprensibilità ha

accresciuto il suo prestigio e ha suscitato maggiore rispetto.

D’altronde, questo è antropologicamente noto, ciò che non si afferra in pieno esercita un

fascino esoterico irresistibile, che l’autore non manca di descrivere accuratamente, con

speciale attenzione nel distinguere i rituali di mafia, ‘ndrangheta e camorra.

Sulla mafia si sono spese definizioni e polemiche d’ogni sorta nel corso di oltre un secolo:

dibattiti senza esclusione di colpi tra giornalisti, istituzioni, studiosi del fenomeno per dire

se c’è, cos’è e come agisce la mafia.

È molto interessante, invece, riflettere sugli assetti organizzativi adottati dalle varie mafie

nel meridione d’Italia e l’autore non manca di ricostruire con perizia tre fatti principali: in

Sicilia le varie associazioni hanno raggiunto l’equilibrio attraverso una struttura gerarchica

molto precisa ed una suddivisione quasi scientifica del territorio in zone di competenza,

come intuito e ben descritto dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi sul finire

dell’Ottocento.

Il secondo fatto rilevante riguarda l’organizzazione della ‘ndrangheta calabrese: qui la

struttura è vasta e ramificata, costituita sulla base delle ‘ndrine. «Queste ‘ndrine erano in

rapporti tra di loro, ma non c’era un capo che governava quella galassia di criminali perché

sin dalle origini la ‘ndrangheta ha avuto le caratteristiche di un’organizzazione familiare

che governava un determinato territorio».

Funzionò così almeno fino a quando non intervenne, nel 1991, una ristrutturazione ed una

pacificazione che pose fine alla faida sorta con l’omicidio di Paolo De Stefano: «la pace

portò ad un accordo tra tutte le principali cosche che ebbe l’effetto di dare vita ad una

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moderna e più funzionale spartizione degli affari e del territorio. Nacque la ‘ndrangheta

federata».

L’ingresso della ‘ndrangheta nella logge massoniche deviate e la costituzione della “Santa”

furono anch’essi passaggi strategici di un percorso di strutturazione attraverso il quale si

poteva venire in contatto con magistrati, uomini politici, imprenditori, forze dell’ordine ed

altri professionisti.

In terzo luogo, la camorra: questa è sempre stata “polverizzata” in un universo

frammentario di clan privi di un coordinamento centrale.

In ogni caso, però, non c’è organizzazione che tenga quando sulle mafie si abbatte il

flagello dei collaboratori di giustizia, gli unici in grado di sciogliere dubbi investigativi e di

fornire descrizioni circostanziate dell’azione mafiosa. Collaborazione, quella dei testimoni

di giustizia, dalla quale è risultata pressoché immune la ‘ndrangheta in forza della sua

struttura familiare che rende ben più difficile la via del pentimento e della denuncia.

In anni più moderni, particolarmente nel Secondo dopoguerra, sono intervenuti dei

cambiamenti strutturali significativi nelle organizzazioni mafiose e nei loro interessi:

l’ingente iniezione di denaro pubblico come investimento per lo sviluppo economico

meridionale attrasse fatalmente gli occhi e le mani cupide delle mafie, in special modo nel

settore degli appalti per le grandi opere infrastrutturali.

I metodi subirono un’evoluzione, passando dalla parassitaria riscossione del “pizzo” nei

confronti delle grandi imprese appaltatrici ad un’azione propria e diretta della mafia in

campo economico. Era nata la “mafia imprenditrice”, categoria criminologica di arlacchiana

paternità: le cosche intuirono che sarebbe stato molto più redditizio pilotare le offerte negli

appalti pubblici, intervenire con mezzi propri ed assicurare l’equità con sistemi di

turnazione dei vincitori, grazie a ribassi d’asta concordati.

In questo modo, attraverso la tecnica dei subappalti, nessuna aspettativa andava disattesa

e si manteneva il controllo di un settore capace di drenare incalcolabili flussi di denaro

pubblico direttamente nelle casse mafiose, grazie anche ad un sempre più conveniente,

stretto sodalizio con il mondo politico.

Dai lavori pubblici alla sanità, vista la medesima abbondanza di finanziamenti pubblici, il

passo era breve.

La storia criminale è al contempo Storia e Geografia: essa s’intreccia con la storia

dell’emigrazione, con la storia economica, con la storia della religione, con la storia della

globalizzazione e della nuova mobilità di soggetti e capitali. Pertanto, l’analisi va condotta

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senza soluzione di continuità, con un approccio al fenomeno che lo inquadri in un sistema

ancor più ampio e complesso, del quale costituisce una forza potentissima, non ignorabile.

Solo tenendo mente a queste direttrici fondamentali risulta più comprensibile l’espansione

territoriale di cui ha potuto fruire la criminalità, che si è insinuata nelle rotte mercantili di

tutto il pianeta (il commercio è più importante della stessa imprenditoria per la mafia, a

conferma del suo parassitismo e della sua predatorietà), che ha sparso le proprie spore

ovunque e che si è introdotta nei quartieri degli immigrati meridionali al Centro-Nord,

aggravandone – incurante – la ghettizzazione e le difficoltà d’integrazione. A questo

proposito, Ciconte rileva inequivocabilmente che «ci fu un ritardo, anche di tipo culturale,

nel comprendere quanto stava accadendo al Nord dove nel silenzio e nell’assoluta

indifferenza si stavano costituendo robusti insediamenti mafiosi».

Infatti, «bisognerà attendere il 1994, quasi a conclusione della Commissione presieduta da

Luciano Violante, per avere la prima organica relazione sulla presenza mafiosa nelle aree

non tradizionali firmata dal senatore Carlo Smuraglia, il che dà l’idea delle difficoltà di

analisi della progressione territoriale delle mafie».

La parte più consistente dell’intero libro è quella tesa a tracciare il profilo dei complessi

rapporti storicamente intercorsi tra le mafie, lo stato, la politica e l’economia. Anche in

questo frangente bisogna risalire alle origini del fenomeno criminale e ripercorrere le

stanze del tempo per individuare l’evoluzione delle “frequentazioni” avute con le forze

dell’ordine prima e con gli esponenti politici poi, in un sodalizio che ha messo alle corde la

democrazia e la trasparenza delle istituzioni.

La partita si gioca tutta sul terreno del potere: monarchico, repubblicano, liberale o

conservatore che sia, quando il potere è appannato, in difficoltà, messo in discussione,

non può fare altro che rivolgersi ai “servigi” offerti dai mafiosi, alleandosi con i criminali e

tollerandone un aumento di prestigio e peso politico. Assecondare l’idea che per il

mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza a livello locale fosse più efficace un

intervento mafioso e non quello delle forze di polizia, si è tradotto in una «cogestione tra

mafia e potere pubblico, tra potere illegale e potere legale».

«Un altro osservatorio particolarmente significativo del rapporto tra fenomeno mafioso e

pubblici poteri è quanto si andava determinando nelle amministrazioni comunali. Dopo

l’unità, la lotta per la conquista del potere locale nei comuni diventò aspra e i giochi politici

spietati».

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Si rileva un progressivo assottigliamento degli spazi pubblici, in favore di una visione

privatistica e di puro interesse personale, tramite una gestione edonistica del potere da

parte delle organizzazioni mafiose.

L’enfasi fascista e l’enorme dispiegamento di forze per la repressione del fenomeno

mafioso si dimostrarono ben presto per quel che erano: un gigante dai piedi d’argilla che

riuscì a colpire solo in minima parte le ali militari e più violente delle organizzazioni

criminali, lasciandone intatti il potere e le gerarchie.

Come abbiamo già rilevato per la questione degli appalti di lavori pubblici, anche per gli

assetti strutturali si delineano novità di svolta solo a partire dagli anni Cinquanta e

Sessanta: in seguito al boom economico, la nuova corsa al capitalismo ha aperto spazi

sempre più ampi per l’infiltrazione mafiosa persino nel mondo dell’alta finanza, al fine di

riciclare le cospicue fortune ormai accumulate come capitale originario.

Il dinamismo della criminalità è la nota più interessante tra tutte le peculiarità del

fenomeno: si scopre una capacità unica di tenere insieme il passato, il presente e il futuro

negli affari, nelle tecniche operative e nei contatti “giusti” con il mondo che conta.

È nelle ultime pagine, infine, che ritroviamo un racconto lineare e ben coordinato delle

vicende più recenti, quelle che negli scorsi venti anni sono state protagoniste della

cronaca giudiziaria e soprattutto mediatica: pagine di storia ancora da scrivere, il cui

seguito è atteso da tutti quanti hanno scelto di credere nell’utopia dello storico Francesco

Renda per “liberare l’Italia dalle mafie”, ben consapevoli che si tratta di un processo lungo,

un cammino difficile dall’esito non prevedibile.

Con tutta la folla di personaggi ed episodi che animano questa “storia criminale”, il libro si

legge con la stessa curiosità e passione di un romanzo, se non fosse che poi bisogna

svegliarsi dall’incanto e prendere nota che si tratta della realtà. Nient’altro, purtroppo, che

cruda realtà. Ancora oggi.

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di domini o della camorra ,

di Roberto Saviano.

Gomorra, la biblica città del peccato, una bolgia infernale di nefandezze. Ed è proprio

quello che emerge dal testo di Roberto Saviano, pluripremiato e tradotto in pellicola filmica

a tempo di record, palma d’oro a Cannes compresa.

Con il pregio di aver scelto un nome dalla sonorità quasi tenebrosa, molto vicina

all’universo di “camorra” che descrive. Simbolica, viscerale, teatrale, come solo la

criminalità campana sa essere.

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Lo hanno definito sconvolgente perché adopera metafore crude, che descrivono immagini

raccapriccianti, di una violenza inaudita. Sconvolgente sarebbe anche il coraggio di

avventurarsi in un terreno così difficile e irto di pericoli.

Ad essere critici fino in fondo – ed anche un po’ maligni – si dovrebbe rilevare che il

linguaggio e la spettacolarizzazione sono lo specchio dell’intero modo di comunicare di

oggi: il voyeurismo impera e allora tutti si cimentano nel produrre immagini e

stigmatizzazioni. Anche la camorra ha bisogno di alimentare il suo “mito” e fabbrica

simboli/ atteggiamenti da dare in pasto al pubblico.

La prima cruda realtà con cui si confronta il lettore sono i sodalizi tra la malavita campana

e quella cinese, ovvero un mondo d’affari fondato sui falsi, sullo sfruttamento del lavoro,

sull’immigrazione clandestina. È un nuovo modo di fare economia, illegale ovviamente:

un’impressionante ramificazione geografica in tutto il mondo di prodotti falsi, manipolati nei

sottoscala più reconditi di paesi e paesini campani a corona di Napoli.

Meccanismi contorti, intricati, scatole cinesi che servono a disperdere legami, collegamenti

e responsabilità. Richiedono lavori lunghi e certosina pazienza investigativa da parte delle

forze di polizia. E intanto proliferano come cellule di metastasi tumorali.

Le rotte del commercio internazionale aprono inattesi canali di scambio: sull’onda dei

jeans e delle borsette false non diventa poi così difficile imbattersi in traffici di droga e

quant’altro.

La flessibilità della camorra è la risposta alla necessità delle imprese di far muovere

capitale, di fondare e chiudere società, di far circolare danaro e di investire con agilità in

immobili senza l’eccessivo peso della scelta territoriale o della mediazione politica.

Le aziende dei clan hanno determinato piani regolatori, si sono infiltrate nelle ASL, hanno

acquistato terreni un attimo prima che fossero resi edificabili e poi costruito in subappalto

centri commerciali, hanno imposto feste patronali e le proprie imprese multiservice, dalle

mense alle ditte di pulizia, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti. Mai si era avuta una così

grande e schiacciante presenza degli affari criminali nella vita economica di un territorio

come negli ultimi dieci anni in Campania.

Al potere i clan di camorra giungono attraverso l’impero dei loro affari. E questa è

condizione sufficiente per dominare su tutto il resto.

Il Sistema era riuscito anche a trasformare la classica estorsione e le logiche d’usura.

Compresero che i commercianti avevano bisogno di liquidità, che le banche erano sempre

più rigide e s’inserirono nel rapporto tra fornitori e negozianti.

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I clan non sono come le banche che rispondono al debito arraffando tutto, il bene lo

utilizzano lasciando che ci lavorino le persone con esperienza che hanno perso la

proprietà.

È assai emblematico riflettere sul “come” la camorra percepisce e autodefinisce la propria

differenza rispetto ad altre forme di criminalità organizzata: non esiste il paradigma Stato-

antiStato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari: con, attraverso e senza lo Stato.

Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano: null’altro che imprenditori. Un

clan formato da aziendalisti violenti, manager killer, da edili e proprietari terrieri. Ognuno

con le proprie bande armate, consorziati tra loro con interessi in ogni ambito economico.

Il testo è una fotografia dettagliata e ben ricostruita della potenza camorristica e

dell’efferatezza dei suoi “metodi”: la scia di sangue che questa criminalità ha sparso è

interminabile.

Emerge con chiarezza una sua caratteristica distintiva: ci sono ramificazioni camorristiche

in ogni settore economico, con modalità organizzative volte alla massimizzazione del

profitto, con metodi spregiudicati, se necessario.

C’è anche una grande partecipazione femminile nel cuore degli affari e molta attenzione è

sempre riservata all’immagine, alle notizie che trapelano, agli scoop scandalistici.

S’indossano gli abiti tessuti e falsificati dalla camorra, si sniffa la cocaina smerciata dalla

camorra, si edifica col cemento della camorra, si leggono le notizie e le reciproche

diffamazioni suggerite dai clan… nessun settore è trascurato, nessun affare resta troppo a

lungo libero dall’infiltrazione imprenditoriale camorristica.

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CAPITOLO IV

La costruzione delle mappe di “rischio criminalità” nell’economia.

Premessa.

A questo punto del lavoro di ricerca, si è posta la necessità di operare una scelta:

permanere nel campo della sola teoria, lavorando attraverso il filtro di categorie generali e

modelli astratti, oppure tentare di “leggere” la realtà attraverso tali strumenti concettuali e

verificarne il potere di comprensione/ descrizione dei fenomeni.

Nel tentativo di rintracciare una risposta esaustiva e coerente, è nata una nuova

metodologia d’analisi che potremmo definire “preventiva” e che – in estrema sintesi –

consiste nell’individuare e proteggere alcuni settori, o singole attività economiche, persino

PRIMA che diventino oggetto delle mire da parte della criminalità organizzata.

La cautela è d’obbligo nell’impostare il discorso in questi termini perché l’obiettivo non è

quello di introdurre surrettiziamente un “tribunale dell’inquisizione” nei confronti della

libertà economica. Si tratta, più opportunamente, di fare un passo in avanti nelle

acquisizioni raggiunte fino ad oggi.

Vediamo in che modo.

Finora, grazie alle inchieste giudiziarie e alle indagini di polizia, è stato possibile ricostruire

ed elaborare alcuni dei passaggi fondamentali che conducono all’infiltrazione della

criminalità organizzata nelle attività economiche lecite, ostacolando lo sviluppo del

territorio.

Dalla pregressa rassegna di letteratura abbiamo potuto apprezzare in dettaglio come

agiscono tali meccanismi. Tuttavia, nella mente del ricercatore persiste un forte senso di

insoddisfazione. La ragione è facilmente intuibile: non si può essere del tutto contenti

quando si arriva sempre “dopo”.

La molla che stimola la ricerca è proprio l’insufficienza di un metodo che consente solo

un’analisi ex-post e quasi mai ex-ante del “rischio criminalità” rispetto all’economia.

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L’obiettivo, dunque, diventa questo: come mettere a frutto il bagaglio di know-how fin qui

accumulato.

Lo sforzo metodologico è ora quello di estrapolare ogni singolo settore economico

presente sul territorio e svilupparne un’analisi di contesto, legata al rapporto con il mercato

e alla presenza della criminalità organizzata.

4.1 Introduzione del metodo “preventivo” grazie all ’analisi di contesto.

Nell’attuale scenario degli studi condotti in materia di criminalità organizzata infiltrata nelle

attività economiche lecite, si segnalano due orientamenti principali e complementari:

1. l’analisi dei costi della sicurezza , con l’obiettivo di individuare le sacche di spreco

ed inefficienza, per progettare delle politiche ritagliate “su misura” rispetto alle

esigenze del territorio in base all’esatta conoscenza delle forme di criminalità ivi

esistenti;

2. l’elaborazione di misure preventive sulla base di indicatori di rischio per

quantificare e prioritizzare le possibilità di infiltrazione criminale nelle attività

economiche.

In entrambi i casi, come si può notare, lo step prodromico alle valutazioni di costo e di

rischio, in vista di migliori allocazioni delle risorse strategiche in funzione anti-crimine,

consiste nella conoscenza analitica e approfondita delle caratteristiche del territorio in

relazione ad una miriade di parametri, quali ad esempio:

- indicatori socio-economici;

- indici di delittuosità per tipologia di reato;

- dati demografici e di disgregazione sociale;

- storia criminale dell’area;

- presenza delle Forze di Polizia, ecc.

L’obiettivo è quello di superare i limiti di eccessiva sintesi e mancata indicazione delle

priorità che si riscontrano nell’analisi SWOT (Strength, Weaknesses, Opportunities,

Threats).

Il “nuovo” metodo si dipana in queste fasi successive:

a) definire i concetti principali relativi al settore considerato;

b) definire dove e come può verificarsi l’infiltrazione criminale, scomponendo l’attività

economica in una serie di fasi e sequenze successive;

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c) eseguire un’analisi di contesto che coinvolga le modalità di intervento pubblico e

tutte le caratterizzazioni territoriali;

d) eseguire un’analisi dei singoli casi concreti, compilando una sorte di scheda che

riassuma il luogo ed il periodo di svolgimento dei fatti, il caso ed i soggetti coinvolti,

quindi la sequenza di tutte le vicende rilevanti.

Una volta che sia stata sviluppata ed approfondita questa forma di conoscenza del

territorio, ci si trova in possesso degli strumenti necessari per incidere sul fattore tempo:

da qui nasce l’importanza di poter PRE-VEDERE le possibili evoluzioni criminali,

costruendo una sorta di “software meteorologico” che sia in grado di simulare i futuri esiti

di una penetrazione mafiosa nelle attività economiche lecite.

L’analisi “orizzontale” di questi fattori di rischio ne individua tre livelli di ampiezza diversi:

1. fattori di contesto legati all’ambiente criminale;

2. fattori legati al mercato di riferimento, cioè all’attività considerata (procedure,

leggi, vulnerabilità, ecc);

3. fattori legati al singolo intervento , ossia tutte quelle specifiche situazioni che si

sono verificate in rapporto al singolo caso o ai soggetti coinvolti.

Venendo ora a “scomporre” i fattori di rischio legati al contesto, al mercato e ai singoli

interventi in sub-voci specifiche, otteniamo una corrispondenza con i loro possibili effetti.

� L’alta presenza di organizzazioni criminali si traduce in una diffusa situazione di

omertà ed intricate “zone grigie” di connivenza con la società civile, realizzando un

controllo diretto e sistematico del territorio.

� Quando la criminalità organizzata riesce a mimetizzarsi senza destare allarme, ciò

le consente di condurre indisturbata i propri affari lungo canali paralleli di gestione

dell’economia.

� L’alta incidenza di una tipologia di reato in un determinato territorio contribuisce a

creare un ambiente favorevole perché mostra le sue vulnerabilità e continua ad

essere un terreno fertile per le varie “mafie”.

� Rispetto al mercato considerato, bisogna guardare alla trasparenza delle

procedure, ai margini di discrezionalità, all’effettiva contendibilità del mercato, al

grado di concorrenza e alla complessità dell’attività economica in causa (più è

unskilled labour intensive, più è vulnerabile).

� Con riferimento allo studio dei singoli casi sarà, infine, possibile evidenziare le varie

forme di condizionamento mafioso delle attività economiche. Esse consisteranno in:

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estorsioni, pagamento di tangenti, assunzione imposta di personale, obbligo di

rapporti con aziende mafiose o “gradite” ai clan, rapporti societari di controllo ed

influenza dominante, impiego di prestanome in appoggio alle attività di riciclaggio e

affidamento dei lavori, ecc.

Questa tecnica di scomposizione e di analisi “punto per punto” parte dal presupposto

razionale che dai comportamenti pregressi si possono ricavare delle linee di tendenza per

le possibili azioni future, quasi come nello svolgimento di un copione o di un clichè.

Il metodo degli script si basa sull’assunto fondamentale che la conoscenza del

comportamento umano deriva dalla comprensione dei suoi processi. Lo script è il copione

e consiste nella scomposizione di un fenomeno criminale in una sequenza di eventi o

scene correlati fra loro da rapporti di tipo causa-effetto oppure strumentale, ossia

funzionale al perseguimento di un altro obiettivo.

La scomposizione sequenziale, quindi, consente di comprendere ogni singola fase o

meccanismo delle modalità esecutive del fenomeno.

L’avvertenza fondamentale nell’utilizzo di questo metodo, però, riguarda il fatto che lo

script è un concetto flessibile in quanto non risponde necessariamente ad un

comportamento stereotipico. Si adatta e dipende da una serie di fattori:

a) il contesto,

b) il livello di complessità del progetto,

c) i mezzi a disposizione,

d) le circostanze ambientali (eventi imprevisti a favore/sfavore,

alternative praticabili o meno…).

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Nel grafico abbiamo riportato gli elementi essenziali del metodo preventivo, connettendoli

in base alle loro relazioni logico-funzionali. Il punto di partenza – che raccoglie il

suggerimento del Prof. C. Fijnaut (v. ante) – è lo studio dei casi, in quanto esso sarà

rivelatore delle dinamiche concrete di infiltrazione criminale all’interno delle attività

economiche.

Il caso, com’è logico attendersi, non è avulso dal contesto all’interno del quale si svolge,

anzi vi è legato da un rapporto bi-direzionale: il singolo intervento si verifica in

corrispondenza di uno specifico contesto e quest’ultimo, a sua volta, influenza in maniera

determinante le dinamiche concrete.

Il metodo per intervenire sul contesto e, quindi, sul caso concreto, consiste nell’analisi

orizzontale dei fattori di rischio (ricordiamo: contesto, mercato, singolo caso).

All’interno del caso esaminato sarà poi possibile osservare e rilevare le manifestazioni del

comportamento criminale. Lo strumento d’analisi che utilizzeremo per giungere alla

comprensione di tale processo è il metodo degli script che – come sappiamo – permette

di scomporre i meccanismi operativi criminali in sequenze comportamentali obbedienti ad

un copione.

OBIETTIVO: prevedere = individuare i meccanismi operativi ai quali obbedisce il comportamento criminale.

COME? Osservando il comportamento nel caso concreto.

ESAME DEL CASO

CONCRETO

CONTESTO

ANALISI DEI FATTORI DI

RISCHIO

MANIFESTAZIONI DI COMPORTAMENTO

CRIMINALE

METODO DEGLI

SCRIPT (sequenza di scene/ copione)

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Il processo inizia con l’analisi (1) di tutti i fattori di rischio presenti sul territorio rispetto al

tipo di mercato in esame, anche grazie alla memoria storica delle esperienze

precedentemente registrate. Dall’analisi si ricavano utili elementi di previsione (2) per i

futuri comportamenti criminali – compresi tutti i possibili effetti che ogni fattore di rischio

produce – al fine di centrare l’obiettivo (3) e mettere a punto delle azioni di prevenzione,

ovvero ricavare delle indicazioni di policy pertinenti.

L’anello finale, il feed-back (4), consente un monitoraggio continuo delle azioni intraprese,

dei risultati che esse determinano e permette di apportare dei rapidi adattamenti o delle

correzioni.

LLaa mmeettooddoollooggiiaa pprreevveenntt iivvaa ccoommee pprroocceessssoo ddii ccoonnoosscceennzzaa ee mmiinniieerraa ddii iinnddiiccaazziioonnii ddii ppooll iiccyy

1) ANALISI

2) PREVISIONE

3) OBIETTIVO 4) FEED-BACK

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La metodologia preventiva con il supporto del “case study”

CONCETTI PRELIMINARI = escursione dei concetti principali rispetto al settore economico considerato

CONTESTO = allargamento dello spettro visivo: geografia, parametri socio-economici, ambiente criminale, vulnerabilità del sistema normativo e di sicurezza

TECNICHE DI INFILTRAZIONE = esame step by step dei casi concreti per individuare le fasi e le modalità con cui avviene l’infiltrazione della criminalità organizzata

••ANALISI ORIZZONTALE DEI FATTORI DI RISCHIO ANALISI ORIZZONTALE DEI FATTORI DI RISCHIO

••METODO DEGLI SCRIPT METODO DEGLI SCRIPT

•TERRITORIO WHERE •PERIODO WHEN •CONTESTO WHY/ HOW •SINGOLO CASO WHAT •SOGGETTI COINVOLTI WHO

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CAPITOLO V

Case study : il porto di Gioia Tauro.

Premessa.

In questo capitolo ci addentreremo nel cuore applicativo del metodo di analisi preventiva

illustrato in precedenza.

Il case study che esamineremo è l’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia

portuale di Gioia Tauro. Prima di giungere al nocciolo dell’analisi, procederemo attraverso

dei “gusci”: in prima battuta, vedremo le condizioni economiche generali dell’intera regione

calabrese. Nel secondo passaggio ci avvicineremo all’area della Piana di Gioia Tauro

poiché costituisce il retroterra portuale ed infine giungeremo al terminal commerciale.

A questo punto, l’analisi diventerà più complessa e approfondita: inquadreremo il mercato

della logistica e le sue criticità prima in generale, con riferimento all’Italia, quindi vedremo

le peculiarità che assume nel porto di Gioia Tauro.

Solo dopo che avremo raggiunto una certa consapevolezza riguardo alla portata delle

problematiche dell’area portuale dal punto di vista dello sviluppo, della concorrenza degli

altri operatori mediterranei, del volume di affari gigantesco che vi ruota attorno e delle

potenzialità espansive del mercato, muteremo prospettiva e potremo introdurre le

questioni relative alla sicurezza nel porto dal punto di vista dell’infiltrazione criminale.

L’analisi del porto di Gioia Tauro ha storicamente “oscillato” tra eventi di sola cronaca

criminale oppure progetti di sviluppo economico ed investimenti per il potenziamento delle

sue attività. Viceversa, l’aspetto cruciale dell’analisi deve riguardare una sorta di

“interpolazione” tra due vicende così strettamente connesse: il porto di Gioia Tauro

rappresenta, in questo senso, una sorta di osservatorio privilegiato in cui rilevare le

diverse forme di commistione tra ‘ndrangheta ed attività economiche lecite.

Solo tenendo conto di questa doverosa premessa, è possibile provare ad applicare il

metodo preventivo appena messo a punto per individuare i fattori di rischio legati alla

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presenza criminale nelle attività economiche condotte all’interno dell’area “Piana di Gioia

Tauro”.

Nella parte che segue, svolgeremo un “two-step plan” tracciando un profilo analitico del

case study, per giungere infine alla compilazione della mappa di rischio sotto forma di

scheda sintetica. Con l’avvertenza che non vi è pretesa di completezza delle informazioni

e che, in ogni caso, bisogna sottoporre la scheda ad un aggiornamento periodico.

5.1 Analisi delle attività economiche in Calabria.

regione, la lentezza della trasformazione, il prevalere di segnali di stasi rispetto al

dinamismo necessario, sono connotati quasi “fisiologici”.

Il rischio di periferizzazione è molto alto se non si riacquista una forma di credibilità:

secondo la “teoria della storia e delle aspettative ” del Krugman, ad avere peso

determinante sono sia i comportamenti consolidati nel tempo, che le previsioni sui

vantaggi futuri che si possono ricavare dal mutamento di una data situazione iniziale.

La storia conta e anche le percezioni possono influenzare/orientare alcune dinamiche

economiche. Se tutto questo è vero, ben si comprende la preoccupazione in merito al

rischio di marginalizzazione corso dalla Calabria: la regione sta diventando il “Sud del

Sud ” in Italia e in Europa.

In Calabria sembra persino essersi esaurita la spinta propulsiva dei primi anni duemila,

quando i tassi di crescita erano superiori a quelli del Centro-Nord. Al momento attuale, i

gap strutturali sofferti dall’economia calabrese si sono consolidati, subendo una sorta di

cristallizzazione.

Rivolgendo lo sguardo alla Calabria si riscontra che la

debolezza del settore economico non permette di

raggiungere la massa critica nel livello delle variabili di

rottura per innescare un sano sviluppo, con ritmi di crescita

elevati, in grado di condurre rapidamente alla

convergenza con le altre regioni del Paese.

Sin dall’inizio del Novecento – e per tutti i decenni

successivi – la Calabria è stata destinataria di

provvedimenti legislativi ed economici straordinari

finalizzati all’industrializzazione ma la povertà relativa della

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5.2 La situazione attuale: alcuni indicatori “macro ” dell’economia calabrese

5.2.1. Profili generali

A conclusione dell’esperienza cinquantennale della Cassa del Mezzogiorno, i settori che

garantiscono più occupazione sono oggi l’edilizia e le costruzioni, nonché le

Amministrazioni pubbliche.

L’economia del Mezzogiorno – i dati lo dimostrano – ha subito una “terziarizzazione

anticipata ”, nel senso che la Pubblica amministrazione e il settore dei servizi (tradizionali

come il commercio) hanno assunto dimensioni storicamente ipertrofiche , hanno

funzionato da “spugne” per la disoccupazione eccedente, senza creare un solido tessuto

imprenditoriale.

Le capacità di assorbimento della manodopera espulsa dal settore agricolo a causa

dell’aumentata produttività – e grazie agli interventi realizzati nel primo decennio di attività

della Cassa – non hanno riguardato l’industria, vale a dire che il settore secondario è stato

quasi del tutto ignorato e by-passato.

Di fatto, le eccedenze di occupati nell’agricoltura si sono riversate nel terziario, senza

irrobustire l’imprenditoria, ma saturando solo l’area del commercio, dell’edilizia e

dell’amministazione.

Volendo, invece, esaminare i rapporti tra le economie italiane – in un Paese che procede a

diverse velocità – ne concluderemmo che è avvenuto un processo di integrazione passiva

di un’economia arretrata in una più avanzata, soprattutto in forza dei flussi migratori

sviluppatisi lungo la direttrice Sud-Nord.

5.2.2. Redditi e povertà

In base ai dati disponibili, risulta che il PIL per abitante in Calabria, espresso in pari potere

d’acquisto, è il 68% della media europea a 25 Stati membri. Esso è anche il valore più

basso rilevato in Italia: a paragone delle migliori performances nazionali registrate in

Trentino-Alto Adige, Lombardia ed Emilia Romagna, il reddito calabrese è addirittura pari a

un terzo.

Sono quasi 848 mila i calabresi, che vivono in condizioni di povertà o di quasi povertà, pari

al 41,8% della popolazione residente. Circa 296 mila sono le famiglie coinvolte nella

morsa della precarietà sociale: lo si evince da una ricerca effettuata da Eurispes Calabria

nei primi anni 2000.

Il numero di famiglie a rischio di povertà, in Calabria – spiega Eurispes Calabria – risulta

pari a 81.514 che, sommate alle 214.346 conteggiate dall'Istat come “relativamente

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povere”, porta a 295.860 il numero dei nuclei disagiati. Inferendo, inoltre, sulla popolazione

regionale, in considerazione del numero medio di componenti per famiglia, pari a 2,8

secondo l'ultimo censimento Istat, è possibile stimare nel numero di 228.239 i soggetti a

rischio di povertà, che sommati, a loro volta, al numero di persone povere certificate

dall'Istat (619.449) portano a 847.688 il totale complessivo dei disagiati in Calabria.

In altri termini, ciò equivale a dire che almeno il 41,8% della popolazione calabrese versa

in uno stato di quasi o totale indigenza socio-economica . La Calabria, con un indice pari

a 69 (posto pari a 100 il totale Italia) – secondo Eurispes Calabria – risulta la regione con

reddito familiare più basso, preceduta dalla sola Sicilia (68). La regione con il reddito

familiare più elevato, al contrario, risulta l'Emilia-Romagna, con un indice pari a 126;

seguono la Toscana (118) e la Lombardia (117), il Trentino e il Friuli (115) e le altre regioni

del Centro-Nord. Dai dati della Banca d'Italia, risulta che il reddito pro-capite mostra una

variabilità territoriale ancora superiore rispetto al reddito familiare, poiché le regioni

meridionali più povere sono anche quelle con maggior numero medio di componenti per

famiglia ed una minore percentuale di componenti percettori .

5.2.3. Qualità della vita e imprese

Alcuni segnali di risveglio sembrano giungere dal miglioramento della qualità di vita

registrato nelle province e tradotto in una classifica diffusa da “Il Sole-24Ore”.

Seppure in un contesto di debolezza generalizzata – come più volte ribadito – notiamo il

balzo in avanti compiuto da Vibo Valentia, risalita di ben 19 posizioni, dall’ultimo posto nel

2005 all’84esimo nel 2006. Un’altra provincia che si distingue positivamente è Crotone, in

quanto guadagna posizioni costantemente, senza brusche flessioni o impennate. Di

negativo, invece, c’è da registrare il peggioramento di Reggio Calabria.

In ogni caso, va sottolineata la permanenza di tutte le cinque province calabresi quasi in

fondo alla classifica sulla qualità della vita, ben al di sotto delle posizioni quanto meno

centrali.

Storicamente nota, la debolezza del tessuto produttivo regionale si manifesta in tutta la

sua gravità rispetto al settore industriale-manifatturiero: prevalgono nettamente le micro e

piccole imprese , le quali di rado giungono a superare la cinquantina di addetti.

La tesi della polverizzazione del tessuto industriale calabrese è confermata dall’operare

congiunto di una serie di indici: il tasso di natalità delle imprese porta le province ai primi

posti della classifica italiana, ma non è accompagnato da un’analoga vitalità del tasso di

industrializzazione, inteso come numero di addetti al settore.

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Se ne conclude che le imprese sono numerose e si rigenerano con un saldo attivo, ma

restano di piccole dimensioni, manifestando l’incapacità di crescere e persistere

autorevolmente sulla scena del mercato.

Questo modello non è riconoscibile altrove in Italia, dove le due aree territoriali (Nord

Ovest e Nord Est) a più spiccata vocazione manifatturiera hanno sviluppato la grande

impresa verticalmente integrata oppure, in alternativa, il distretto specializzato, sfruttando

sapientemente le economie di scala interne all’azienda o all’intero settore produttivo.

Gli strumenti messi a disposizione dall’econometria consentono di valutare il grado di

interdipendenza economica 15 esistente tra le due macroregioni del nostro Paese:

Centro-Nord e Mezzogiorno. A far perno sulle tavole interindustriali elaborate da Wassily

Leontief, ed estendendone il contenuto oltre che alle attività produttive anche al livello

della spesa per consumo, nonché agli effetti redistributivi, si giunge alla conclusione che

l’economia meridionale funge da mercato di sbocco per le produzioni realizzate nel resto

dell’Italia. La giustificazione di questa perdurante disparità sta nella mancata

diversificazione delle attività, nonché nella scarsa capacità produttiva del Meridione,

ancora poco integrato nel circuito delle relazioni interindustriali.

La spesa per investimenti, infatti, è un buon indicatore della propensione degli operatori ad

incrementare la propria capacità produttiva. L’investimento, vale a dire la domanda delle

imprese, deve poter contare sulla credibilità degli istituti finanziari e di drenaggio del

risparmio, necessita di regole trasparenti e certe, di flussi continui, di tassi d’interesse

accessibili, di garanzie non eccessive e paralizzanti, di tempi brevi per l’istruzione delle

pratiche. Laddove il tessuto economico si presenta fragile e sfilacciato, senza un

background di imprenditorialità solida, è più difficile che si manifesti la transizione verso i

modi di produzione moderni.

La Calabria, ad esempio, non possiede una memoria distrettuale, non può vantare la

stessa struttura economica presente in altre zone del Paese, dove la rete delle piccole e

medie imprese è fitta e trova al suo interno sempre nuove energie per portare avanti

l’innovazione e le capacità di attrazione. 15 L’interdipendenza economica fra regioni o imprese si misura attraverso un coefficiente che restituisce il grado di integrazione fra i soggetti considerati: l’indice è costruito a partire dalle matrici input-output dei beni finali e intermedi a seconda della zona di produzione e destinazione. Wassily Leontief (1906-1999)- economista russo e premio Nobel per l’economia nel 1973, dedicò gran parte dei suoi studi all’analisi input-output, ossia al processo estensivo tramite il quale gli input per un’industria si trasformano in output finali destinati al consumo oppure beni intermedi per altre industrie di trasformazione. Le “tavole interindustriali” consentono di valutare in quali proporzioni variano input-output quando interviene un cambiamento, ovvero si desidera ottenere un determinato risultato. In seguito, l’elaborazione di Leontief è stata espansa per coinvolgere altri parametri: è stata creata la SAM (Social Accounting Matrix), la matrice di contabilità sociale. Quest’ultima misura in maniera più completa ed integrata il grado di interdipendenza tra aree.

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5.2.4. Quadro occupazionale

Il quadro occupazionale che si ricava dalla lettura congiunta del Censimento Istat-2001 e

dal Rapporto sull’economia calabrese nel 2005 (Confindustria Cosenza), ci parla di circa

due milioni di residenti, 600.000 dei quali occupati: tradotto in termini percentuali, il tasso

di occupazione si aggira attorno al 44% circa, in ritardo del 20% rispetto alle macroaree

italiane del Centro-Nord. Di estremo rilievo vi è da constatare anche il fatto che il tasso di

disoccupazione di lunga durata (> 12 mesi) è, in Calabria, dell’8,4% contro il 3,7% della

media italiana.

Siffatta arretratezza conduce la Calabria ben lontano dalla possibilità di coronare entro il

2010 uno degli obiettivi più importanti posti dall’Agenda di Lisbona- 2000, ossia un tasso di

occupazione del 70%. A margine dell’aspetto puramente quantitativo, resta anche

l’impegno dell’Italia di intervenire sulla qualità occupazionale, facilitando l’inserimento dei

giovani, delle donne e il re-impiego degli anziani.

L’ambizione di questi progetti comunitari sta nel tentare di costruire una serie di strumenti

e politiche attive dell’occupazione: s’intende trasmettere il valore del lavoro e della

continua riqualificazione, elevando il livello della formazione e superando la barriera

assistenzialistica del reddito da sussidio o previdenza sociale. Metodologie, queste ultime,

purtroppo largamente in uso in Italia, specialmente nel Mezzogiorno.

Vi sono serie sproporzioni per quanto riguarda la composizione del quadro occupazionale,

dove la stragrande maggioranza dei lavoratori (oltre 411.000) sono in posizione

dipendente e subordinata, mentre gli imprenditori sono appena 13.091 .

Seguendo, invece, la classificazione per attività economica, vediamo che i settori agricolo,

industriale e terziario tradizionale raccolgono circa 400.000 occupati, mentre i restanti

200.000 sono impiegati in altre attività quali, meno genericamente, Pubblica

amministrazione, servizi personali e sociali, difesa, istruzione, ecc.

5.2.5. Esportazioni

Che gran parte dell’industria sia connessa con l’agricoltura e riguardi attività di

trasformazione di prodotti del settore primario, ci è confermato non solo dal numero di

addetti, ma anche dalla composizione delle esportazioni realizzate dalla Calabria. Senza

variare la linea di tendenza storica, anche nel 2006 (fra gennaio e settembre) il 17,3%

delle esportazioni è consistito in prodotti dell’agricoltura, dell’orticoltura e della floricoltura;

un altro 8,4% è risultato essere composto da preparati e conserve di frutta e ortaggi;

ancora un 6% a favore di altre categorie di prodotti alimentari.

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Sempre in connessione con le materie prime da trasformare, si evidenzia la consistente

quota di esportazione di prodotti chimici di base ed altri, articoli in materie plastiche e

gomma, con percentuali rispettivamente del 10,7%; 10,6%; 3,3% e 2,5%.

Si evidenzia, altresì, una notevole chiusura rispetto all’internazionalizzazione: la

propensione all’export è molto bassa in quanto rappresenta appena l’1,1% del PIL

regionale; ancor più limitato, quasi inesistente, risulta il flusso di IDE (Investimenti Diretti

Esteri) che fa il proprio ingresso nell’economia meridionale del Paese.

5.2.6. Turismo e ambiente

La Calabria ha un’esposizione costiera pari a circa 740 Km: la varietà di microclimi è

incrementata dalla presenza di una dorsale montuosa che attraversa l’intera regione,

alternandosi a vaste aree semicollinari terrazzate e coltivate.

Le peculiarità paesaggistiche si accompagnano, inoltre, a numerose testimonianze

storico-culturali ed artistico-archeologiche del passato della regione come colonia

magnogreca (e non solo).

Il turismo calabrese è, tuttavia, affetto da debolezza strutturale: si tratta principalmente di

un turismo di prossimità con forte incidenza di presenze locali e provenienti dalle altre

regioni del Sud.

Il comparto, con i suoi tanti difetti (l’eccessiva stagionalità, la spesa ridotta e la scarsa

presenza di clienti di lungo raggio), assume una grande valenza nel contesto

dell’economia locale e ne rappresenta uno dei settori propulsori.

Negli ultimi anni il comparto turistico ha attratto la maggior quota dei pochi investimenti

effettuati nella regione, pur se quelli provenienti dall’esterno restano ancora molto ridotti.

Lo sviluppo turistico di un territorio è inevitabilmente collegato ad un insieme di variabili fra

le quali i trasporti: questi risultano determinanti per il grado di accessibilità e la percezione

di vicinanza/lontananza per i potenziali visitatori.

In questo senso, si è consolidata un’immagine ben poco lusinghiera dell’efficienza

trasportistica calabrese, la quale evidenzia una serie di marcati gap strutturali: molti turisti

scelgono l’automobile per spostarsi e risultano fortemente penalizzati dalle condizioni in

cui versa, ad esempio, “l’eterno cantiere” dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.

Le aree dell’entroterra hanno un’accessibilità precaria e i luoghi turistici non hanno una

propria rete di trasporti che li connetta in circuito.

Il trasporto marittimo lamenta l’assenza di un porto attrezzato per ricevere navi da crociera

e i porti turistici hanno delle difficoltà nell’impostare politiche di sviluppo.

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Paradossalmente, il trasporto aereo è il settore che ha manifestato i più ampi segnali di

crescita, con l’inaugurazione di nuovi collegamenti diretti tramite l’aeroporto internazionale

di Lamezia Terme e il consistente aumento di compagnie aeree concorrenti che operano

allo scalo reggino.

Appare, dunque, di indubbia urgenza superare le criticità trasportistiche, per consegnare

anche al turismo degli efficaci strumenti di sviluppo.

5.2.7. Infrastrutture materiali e immateriali

Ciò che risulta in grado di pilotare lo sviluppo delle attività economiche, e di raccordarle

con la dotazione delle risorse territoriali, è il complesso sistema delle infrastrutture.

Esse sono di tipo materiale o intangibile, sono puntuali o ramificate a rete, s’integrano a

vicenda, interpolando, per così dire, la funzione della domanda territoriale.

In altre parole, risulta che la dotazione di infrastrutture diversificate ed interagenti tra loro

sia un forte elemento di attrattività del territorio nei confronti delle scelte localizzative

imprenditoriali.

Quanto a questo complesso infrastrutturale, la Calabria mostra di sé un volto ambiguo e

fortemente contraddittorio: esempi ne siano la questione stradale e ferroviaria, fino a

giungere alle opere pubbliche interrotte e inutilizzate, manifestazione più lampante, per

certi versi drammatica, di spreco del denaro pubblico senza saper gestire le occasioni

create in prospettiva di medio-lungo periodo.

La sofferenza della dotazione infrastrutturale in Calabria è significativamente diffusa

rispetto a tutti i settori, a partire da quello fisico di base, per giungere alle comunicazioni,

alle reti ambientali ed energetiche, ai servizi ad alta tecnologia.

La rete autostradale non è stata completata, quella ferroviaria scarseggia rispetto alle

dotazioni a doppio binario, l’alta velocità non esiste.

S’intravede un timido risveglio dell’attività aeroportuale, ma è controbilanciato dall’assenza

di poli intermodali della logistica per i collegamenti.

Medesima situazione si riscontra in merito ai porti : l’esposizione costiera della regione

non dovrebbe lasciar spazio a dubbi circa le potenzialità di sviluppo commerciale e

industriale annidate nelle attività portuali.

Eppure, proprio le carenze logistiche hanno relegato il porto di Gioia Tauro ad area di

mero transhipment e le hanno persino fatto perdere la leadership nel Mediterraneo.

Inoltre, non si può tralasciare la dimensione della sostenibilità per ogni progetto di sviluppo

che s’intraprende: l’obiettivo non è solo quello di un incremento del reddito o degli

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occupati, bensì quello di mantenere l’equilibrio intra e inter-generazionale delle risorse e

della qualità della vita complessivamente offerta ai cittadini nel tempo e nello spazio.

Questa consapevolezza passa, per la Calabria, attraverso la soluzione di nodi ambientali

come le reti idriche e di depurazione, il sistema integrato di raccolta differenziata e

riciclaggio per i rifiuti e gli scarti della produzione, la messa in sicurezza delle zone ad alto

rischio sismico e idrogeologico, la riqualificazione delle periferie urbane in stato di

degrado.

La valutazione d’impatto ambientale e sociale di ogni nuovo insediamento, sia esso

abitativo, industriale o turistico, deve entrare a far parte delle buone pratiche in uso

laddove per troppo tempo è stata perpetrata una sistematica opera di abuso del

territorio , un’espansione selvaggia, priva di regole e di severi regimi sanzionatori.

Ancora molto resta da fare per completare le reti di comunicazione e scambio delle

informazioni: l’accesso ai terminali informatici, ad internet e intranet, è uno degli aspetti

futuribili dello scenario economico al quale si stanno affacciando sempre più competi-

tivamente gli altri Paesi sviluppati.

5.2.8 Conclusioni: l’economia della conoscenza

Con queste deboli premesse, il passaggio all’economia della conoscenza si preannuncia

ricco di attriti: vi è da rilevare, infatti, la scarsità degli investimenti in Ricerca & Sviluppo

(appena lo 0,40% del PIL in Calabria), ma anche la produttività brevettuale, specie ad alta

tecnologia, risulta fortemente sottodimensionata.

Un’ulteriore riprova di quanto si sta sostenendo, si ricava dalla relazione inversa che

intercorre tra livello tecnologico incorporato nelle produzioni e numero di addetti al settore

manifatturiero. In altri termini, all’incremento della componente high-tech e knowledge-

intensive richieste dai settori produttivi, corrisponde un sempre più ridotto numero di

lavoratori. Il paradigma qui rappresentato innesca un circolo vizioso che spinge al ribasso

il contenuto tecnologico e di conoscenza delle attività economiche.

La mancanza di centri per l’alta formazione e la ricerca avanzata non contribuisce a

generare “cervelli ”, e per di più le imprese di piccole dimensioni hanno budget limitati da

devolvere ai programmi di Innovazione e R&S.

Le carenze formative, unite alla stagnazione generalizzata del tessuto produttivo, non

contribuiscono ad attrarre investimenti esterni.

Molta parte delle scelte localizzative delle imprese dipende oggi non solo dalla

“approvvigionabilità” dei fattori della produzione o dall’efficienza delle reti logistiche di

collegamento, ma dipende in misura crescente dalla qualità delle risorse umane disponibili

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sul territorio e dal sistema della conoscenza ivi reperibile. Nella fattispecie si tratta, ad

esempio, di competenze “country specific”, capitale tecnologico innovativo, sistema

universitario e della ricerca, oltre che, naturalmente, sicurezza socio-ambientale.

5.3 Zoom n. 1: dal contesto socio-economico regiona le alla Piana di Gioia Tauro.

Uno stralcio dell’opera di Enzo Ciconte, servirà ad inquadrare perfettamente le

problematiche connesse alla vocazione economica della Piana di Gioia Tauro:

“emporio del commercio oleario della Calabria”. Olio e agrumi costituivano la ricchezza di quella zona e già allora venivano esportati all’estero. La ricchezza richiamò sempre la voracità delle ‘ndrine che cercavano di accaparrarsi fette dell’economia inserendosi nel settore dell’intermediazione e della compravendita di prodotti della terra. La ‘ndrangheta a Gioia Tauro ha mostrato una notevole capacità di trasformarsi e di adattarsi ai mutamenti del tempo, e ha messo in luce la vitalità del ceppo familiare dei Piromalli che ha saputo sopravvivere ai cambiamenti imponendo sempre la propria signoria sul territorio. (pag. 158)

La Piana di Gioia Tauro ha una superficie complessiva di 954 km2 suddivisa in 33 comuni

che appartengono amministrativamente alla Provincia di Reggio Calabria.

La popolazione residente è di 177.000 abitanti (Istat 2001), il 32% della popolazione della

provincia di Reggio Calabria e il 9% circa della Calabria.

Dal punto di vista economico, nella Piana sono presenti 8.846 unità locali con 30.558

addetti. In particolare: 1.762 sono attività industriali (con 5.612 addetti), 3.804 sono attività

commerciali (con 6.443 addetti), 2.623 sono attività relative ad altri servizi (con 8.671

addetti) e 657 sono attività istituzionali (con 9.832 addetti).

Il 27% delle attività industriali presenti nel territorio della Piana sono concentrate nei

comuni di Gioia Tauro, San Ferdinando e Rosarno, nei cui territori è localizzato

l’agglomerato industriale di pertinenza del consorzio Asireg, suddiviso in due zone

industriali che si sviluppano immediatamente alle spalle del recinto portuale.

L’area della Piana gioiese è una realtà complessa fatta di 33 Comuni in cui l’industria non

riesce a mettere radici solide e anche l’agricoltura risulta in grave sofferenza, perdendo

La storia di Gioia Tauro è storia di un’area tra le più ricche della Calabria, e di una delle zone dove la presenza ‘ndranghetista risaliva all’Ottocento, quando sin dai decenni che precedettero l’unità erano stati impiantati agrumeti che andavano ad affiancare i secolari uliveti che rendevano Gioia Tauro un

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terreno sul piano della competitività in settori che in passato vantavano elementi di

eccellenza (es. gli agrumi e le clementine di Rosarno).

Dei 57 insediamenti produttivi dislocati nell’ultimo decennio tra le due zone industriali di

Gioia Tauro e San Ferdinando ne sono rimasti in piedi appena una decina, per ragioni

preoccupanti che vanno dalla presenza criminale alle ormai acclarate vischiosità del

sistema creditizio che impone un costo del denaro esorbitante ed insostenibile.

Il prodotto di queste debolezze strutturali e potenti distorsioni si riassume in un tasso di

disoccupazione che si aggira attorno al 30% nell’area che dovrebbe rappresentare il traino

economico dell’intera regione!

5.4 Zoom n. 2: dalla Piana al Porto di Gioia Tauro.

5.4.1 Analisi di contesto: il mercato della logisti ca.

LOGISTICA è un termine di origine greca che indicava le operazioni di computo e calcolo.

In seguito, il vocabolo è passato ad indicare quella sezione dell’arte militare che provvede

a garantire l’efficienza di tutto l’apparato bellico, organizzando in particolare il trasporto e

la distribuzione di viveri, munizioni, materiali necessari.

Per estensione, nelle grandi imprese moderne rappresenta la funzione aziendale che

presiede all’approvvigionamento e alla distribuzione fisica dei materiali, delle scorte, dei

prodotti finiti.

In ultima analisi, si tratta della sistemazione, definitiva o provvisoria, di cose e persone

nell’ambiente.

Data la crescente rilevanza del commercio internazionale e la relativa necessità di

specializzazione nel settore dei trasporti per incrementare l’efficienza ed abbattere i costi,

la logistica si è sviluppata come attività economica nel panorama dei servizi del settore

terziario: la funzione aziendale dedita al trasporto e alla distribuzione risulta vieppiù

esternalizzata, per essere affidata ad operatori specializzati.

Una componente infrastrutturale essenziale, soprattutto in funzione di un assetto

logisticamente efficiente e competitivo della rete complessiva di trasporto e

comunicazione, è quella di grandi nodi di scambio, perché consentono di sviluppare

l’integrazione tra modalità e fluidità dei transiti di persone e merci.

Gli impianti che svolgono principalmente questo ruolo sono porti, aeroporti e interporti che,

insieme alle loro infrastrutture di servizio e ai raccordi con le reti di trasporto terrestre,

rappresentano l’asse portante di un sistema logistico.

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La funzione di costo dell’azienda deve incorporare la curva del costo di trasporto (che

consente alle merci di essere distribuite in tutti i luoghi di destinazione): si pone, di

conseguenza, la questione della scelta della più opportuna combinazione di mezzi di

trasporto in vista della minimizzazione dei costi.

Le caratteristiche fisiche dello spazio molto spesso impongono la necessità di “spezzare”

le modalità di trasporto, utilizzando una pluralità di mezzi di trasporto ( = intermodalità ).

L’uso congiunto di più mezzi dà luogo alla “rottura del carico”, ossia ad operazioni di carico

e scarico delle merci ( = costi terminali di trasporto) che si svolgono nei nodi di cambio

della modalità.

La containerizzazione 16 delle merci è stata storicamente l’innovazione che ha introdotto

un notevole risparmio nel trasporto, in quanto non obbliga a frammentare il carico. Altra

questione, invece, riguarda il fatto di disporre di veicoli adatti alla prosecuzione del viaggio

dei container sino a destinazione.

Come abbiamo appena descritto, la valenza moderna delle infrastrutture logistiche è di

molto aumentata, al punto che l’Italia intera corre seri rischi di emarginazione economica

in rapporto all’accresciuta competitività di altre aree territoriali.

Il Mezzogiorno, poi, è afflitto in misura maggiore da problemi di perifericità , ossia distanza

geografica dai principali poli economici. Situazione non solo orografica e fisica, bensì

anche infrastrutturale, che limita di molto l’accessibilità potenziale dell’intera area

meridionale.

Che cosa manca per il decollo delle attività portuali, in Italia così come a Gioia Tauro?

Uno sviluppo adeguato dell’intermodalità nelle strutture puntuali. Il che consiste

“nell’integrazione con le vie di comunicazione terrestri, ma soprattutto nello sfruttamento

del transito” per installare un’impiantistica di trasformazione delle merci in prodotto finito.

Sono, dunque, molto deficitarie o del tutto inesistenti, le dotazioni per lo stoccaggio

(storage), la movimentazione e la lavorazione.

Visti tali deficit di dotazione, sia quantitativi che qualitativi, “l’allocazione degli stanziamenti

a favore delle regioni meridionali è sempre stata cospicua, potendo contare su vari

strumenti di intervento, nazionali e comunitari”.

In particolare, è possibile analizzarne alcuni fra i principali: gli Accordi di Programma

Quadro (APQ), la Legge-Obiettivo, i Piani Operativi Regionali e Nazionali (POR e PON).

16 L’unità di misura per i volumi di traffico è il TEU ( = Twenty-foot Equivalent Unit), ossia un container la cui lunghezza è di 20 piedi ( = 6 metri). Esiste anche il 2TEU, che corrisponde ad un container lungo il doppio ( = 40 piedi, 12 metri).

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L’APQ è uno strumento negoziale messo a punto per l’implementazione dello sviluppo

economico nelle aree depresse e sottoutilizzate del Paese: esso consiste nel

raggiungimento di intese fra una pluralità di enti territoriali competenti a decidere,

specialmente in materia di grandi opere ed infrastrutture.

Si tratta di un mezzo non solo per programmare, ma anche per conferire le risorse

necessarie alla realizzazione dei progetti stessi, a valere in varia misura sui bilanci degli

enti coinvolti. Sebbene l’obiettivo sia quello di incrementare il coordinamento istituzionale,

non può negarsi che la natura così composita degli APQ, soprattutto per quel che riguarda

gli elementi finanziari disponibili, si traduce in tassi molto scarsi di capacità di spesa e

realizzazione concreta delle opere.

Un tentativo di semplificazione per sveltire le procedure è stato fatto anche con la Legge-

Obiettivo, che reca risorse aggiuntive per le progettualità particolarmente complesse e ad

alto contenuto tecnologico. Tuttavia, è pur sempre lo stato di attuazione delle opere a non

essere soddisfacente.

Altri strumenti di programmazione e finanziamento sono i POR e i PON di settore, in parte

cofinanziati con i fondi strutturali comunitari.

Riassumendo: le problematiche connesse alla logistica portuale (nel nostro caso Gioia

Tauro) possono essere risolte attraverso la realizzazione di opere infrastrutturali ad alto

impatto sulla produttività. L’intervento pubblico risulta massiccio, in quanto è larvale o

inesistente l’apporto di capitale finanziario privato. Gli strumenti negoziali e di

programmazione sono numerosi e complessi, caratterizzati da lentezza procedurale,

scarso raggiungimento degli obiettivi e flussi di spesa cospicui, ancorché di difficile

gestione e controllo.

5.4.2 Passando dal contesto generale alle problemat iche di Gioia Tauro.

La storia economica di Gioia Tauro conosce la svolta 35 anni or sono, quando si decide di

virare dalla sua vocazione agricola per tentare di sviluppare un polo siderurgico con uno

scalo portuale al suo servizio (cd. “pacchetto Colombo”).

Com’è noto, la logica sottostante a questo genere di progetti piuttosto diffusi nell’Italia del

boom economico è denominata industrializzazione forzata secondo il modello del “polo e

dell’indotto17”.

17 La crescita economica non si realizza nella stessa misura in ogni luogo, ma ha origine in alcuni punti, o poli di sviluppo, nei quali si formano agglomerazioni industriali (Perroux). Intorno ai poli industriali, si genera una forza di attrazione e i lavoratori tenderanno a gravitare sul polo (pendolarismo), così come è probabile che si verifichi una tendenza spontanea delle imprese a concentrarsi in questa area, per sfruttare i vantaggi della prossimità con le altre

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porti internazionali da trasbordare su navi per il cabotaggio

interno e mediterraneo), mentre gli operatori portuali18 principali sono i cd. terminalisti .

imprese di agglomerazione). Le industrie in grado di creare dei veri e propri poli di sviluppo devono avere le caratteristiche di “industrie motrici”: devono essere di grandi dimensioni e avere una forte capacità innovativa e produttiva. Negli anni ’50 e ’60, numerosi paesi di seconda industrializzazione o in via di sviluppo hanno incentrato la propria crescita puntando su grandi industrie di base: industrie siderurgiche, metalmeccaniche, chimiche e energetiche. Sotto inteso a questo approccio è una considerazione fondamentale: i benefici che un impianto industriale apporta all’area circostante e all’intera nazione, non sono tanto di tipo diretto – come la distribuzione di salari ai lavoratori del polo – ma di tipo indiretto. Le imprese industriali grazie alle loro grandi dimensioni e alla loro enorme produttività, sono in grado di generare un effetto moltiplicatore che amplifica i meccanismi auto-propulsivi e cumulativi dello sviluppo. L’auspicio è inoltre che questi benefici rimangano in loco: la localizzazione di un industria può dar luogo ad un polo di sviluppo e ad un processo di modernizzazione, solo se questo agisce come motore e traino dell’intera economia regionale. Il problema è che in assenza di un conteso favorevole allo sviluppo di un indotto di questo tipo – per mancanza di risorse finanziarie, capacità imprenditoriali e di una cultura favorevole all’iniziativa individuale – questi grandi complessi industriali si possono trasformare in “cattedrali nel deserto”. L’industrializzazione non richiede solo l’importazione di tecnologie e capitali. Richiede anche uno specifico contesto culturale. Il rischio è che il polo tenda non tanto ad integrarsi con il territorio circostante, ma ad isolarsi da esso e ad integrarsi invece con reti che agiscono a livello globale e che a questa scala scambiano beni materiali e immateriali all’interno di strutture produttive e finanziarie integrate. Se valutati sul territorio tuttavia questi apparenti benefici diventano molto più evanescenti, e appaiono invece molto più evidenti i costi, le distorsioni e le contraddizioni di una “industrializzazione senza sviluppo” che caratterizza gran parte delle economie arretrate, e perfino aree interne ai paesi sviluppati. In questi termini, il concetto di polo è stato il modello ispiratore della politica di industrializzazione meridionale, ma si è tradotto in un clamoroso fallimento a causa della poca attenzione riservata al contesto socio-territoriale come fattore e destinatario dello sviluppo polarizzato programmato. 18 Secondo le informazioni fornite dall’Autorità Portuale di Gioia Tauro, questo è l’elenco delle imprese concessionarie che operano nell’hub:

� CEMENTI MERIDIONALE LTD S.r.l. si occupa di commercializzazione e stoccaggio in silos di cemento sfuso;

� N.G.I. svolge un servizio di traghetti con le isole Eolie e Milazzo; � SOCIETA' PETROLIFERA DI GIOIA TAURO. Il deposito, attualmente in fase di realizzazione, si

compone di 10 serbatoi circolari per carburanti liquidi, di cui 4 per gasolio, 4 per benzine super e due per olio combustibile, per un totale di circa 42.000 metri cubi, più 3 serbatoi cilindrici orizzontali per g.p.l. (gas propano liquido) per un totale di circa 4.500 metri cubi. Le petroliere e le gasiere, che dovrebbero rifornire il deposito, saranno di dimensioni non eccessive (20.000 DWT c.a.) per poter attraccare nell'accosto esterno, attualmente in fase di progettazione.

� ZEN MARINE S.r.l. Concessionaria di un'area demaniale marittima di mq 27.500 allo scopo di effettuare la manutenzione e la riparazione di parti di navi, nonché, la costruzione di unità da diporto.

� ZEN YACHT S.r.l. L'azienda ha in concessione un'area demaniale marittima di mq 32.378 dove effettua la costruzione e la riparazione di yacht.

� MARNAVI S.p.A. La società ha in concessione un punto di accosto per l'ormeggio delle navi cisterna adibite al servizio di fornitura d'acqua potabile per le isole Eolie.

Fallita la nascita del V Polo Siderurgico, restò pur sempre

da rimarcare l’eccezionale predisposizione della banchina

lineare di Gioia Tauro e la sua posizione centrale nel

Mediterraneo, a metà strada sulle rotte tra Suez e

Gibilterra, per l’approdo delle navi portacontainer.

Tutto quanto abbiamo premesso, serve a giustificare la

vocazione commerciale del porto di Gioia Tauro: l’attività

principale che vi si svolge è il transhipment ( =

movimentazione di merci e container provenienti da grandi

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- autovetture ( = BLG Automobile Logistics Italia),

- rinfusa ( = All Services s.c.a.r.l.).

Se si esaminano i dati relativi alle attività, si ricava che la struttura di Gioia Tauro ha

rappresentato per lungo tempo il primo porto mediterraneo per volume di merci trattate

annualmente, ma nel 2005-2006 la leadership è andata perduta a favore del porto

spagnolo di Algeciras a causa di una lieve – seppure significativa – contrazione dei traffici

da e verso l’approdo calabrese.

Non è possibile, invece, ricostruire le medesime informazioni per gli altri operatori portuali: se ne conosce solo la ragione sociale indicata nella denominazione:

� DITTA PREVARIN ALDINO � COOPMAR Sc.a.r.l. � ALL Services Coop. S.c.a.r.l. � Sea Work Service S.r.l. � Compagnia Impresa Lavoratori Portuali S.r.l.

Il complesso degli operatori portuali

va distinto in tre grandi categorie:

� terminalisti,

� concessionari,

� altri operatori.

I terminalisti, a loro volta, devono

essere classificati per tipo di attività:

- merci containerizzate (=Medcenter

Container Terminal s.p.a.),

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Volume Teus

3.261.034

3.160.981

2.938.176

2.700.000

2.800.000

2.900.000

3.000.000

3.100.000

3.200.000

3.300.000

2004 2005 2006

Passando, invece, ad esaminare i dati relativi all’anno 2008, il porto di Valencia ha

superato a luglio quello di Algeciras, per numero di TEU movimentati, ed è pronto a

contendere a Gioia Tauro il titolo di primo hub per container del Mediterraneo. Nei primi

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sette mesi del 2008 Valencia ha movimentato 1.974.251 TEU contro 1.925.715 TEU di

Algeciras. Si tratta di una differenza di 48.536 TEU che vale il primato spagnolo e proietta

lo scalo all’inseguimento di Gioia Tauro. Il porto calabrese nello stesso periodo è arrivato a

2.095.746 TEU, praticamente gli stessi dello scorso anno. Il sorpasso sarebbe possibile

già nel 2009, se verranno confermati i trend attuali. Algeciras è infatti sceso del 2,4%

rispetto ai primi sette mesi del 2007 e anche Gioia Tauro è in fase stagnante (-0,2%),

mentre Valencia vola con una crescita a due cifre del 13%, in controtendenza rispetto al

periodo non particolarmente brillante di tutta la portualità spagnola.

TEUs movimentati primi sette mesi 2008

1.974.2511.925.715

2.095.746

1.800.0001.850.0001.900.0001.950.0002.000.0002.050.0002.100.0002.150.000

Valencia Algeciras Gioia Tauro

5.4.3 Analisi del “caso concreto”.

All’intersezione delle questioni di criminalità ed economia nel porto, troviamo l’operazione

giudiziaria “Cent’anni di storia” che ci permette di compilare la mappa sintetica

dell’infiltrazione mafiosa nelle attività economiche.

OPERAZIONE “CENT’ANNI DI STORIA”.

• TERRITORIO: Calabria, Gioia Tauro

• PERIODO: luglio 2008

• CONTESTO: territorio storicamente controllato dalla famiglia Piromalli-Molé, con la

tipica struttura di ‘ndrina

• INFILTRAZIONE: penetrazione nella società terminalista per la movimentazione di

merci alla rinfusa nel porto di Gioia Tauro. Febbraio 2008: omicidio del boss Rocco

Molé. Alto rischio di faida e inizio di un processo scissionista all’interno della ‘ndrina

Piromalli-Molé. Origine dei contrasti: necessità di nuove alleanze (famiglia Alvaro, in

forte ascesa di potere) per ottenere la maggioranza societaria dell’operatore

portuale All Services.

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• SOGGETTI COINVOLTI: famiglia Piromalli, famiglia Molé, famiglia Alvaro della

località Sinopoli, società All Services s.c.a.r.l.

Zoom: le dinamiche di infiltrazione nel dettaglio.

• CONTESTO: Storicamente parlando, il clan Piromalli-Molè (per cento anni famiglia

unica, consacrata da vincoli di sangue e matrimoni) ha avuto un ruolo di netto

predominio nella Piana, riuscendo a restare al di fuori delle due famigerate guerre

di mafia che, in epoche successive, hanno insanguinato Reggio e il suo hinterland.

La famiglia Piromalli di Gioia Tauro, allora guidata da don Mommo, rimase fuori da

quel sanguinoso scontro, mirando a mantenere il potere nella Piana in una fase

storica in cui a Gioia Tauro si stavano realizzando disegni industriali che avrebbero

portato al fallimento del Quinto centro siderurgico ma alla costruzione di un porto

diventato nel tempo il primo scalo commerciale d’Europa. La Piana si è trasformata

così in una centrale operativa dello spaccio del narcotraffico, primo business della

‘ndrangheta, assieme al controllo di tutte le attività portuali e dintorni.

• INFILTRAZIONE: All Services è una società cooperativa attiva nel porto dal 1999,

con sede nell’area industriale di San Ferdinando. Si occupa del servizio di

“tramacco”, ossia non si limita a movimentare containers (come i terminalisti), bensì

carica – scarica – sposta merci alla rinfusa. Con l’incremento degli affari portuali a

partire dal 2006, le cosche locali hanno cominciato a manifestare interesse per

l’acquisizione di tale cooperativa, perchè il Porto diventa il business per una

‘ndrangheta disposta a fare impresa e proiettarsi negli affari del futuro. Da allora, i

Molé tentavano di far giungere imprenditori svizzeri, mentre i Piromalli avallavano

una cordata sostenuta da un’alleanza con l’emergente cosca Alvaro (molto ricca,

con la necessità di investire l’ingente capitale accumulato). A gennaio del 2008

l’alleanza dei Piromalli ha vinto un appalto al porto di Gioia Tauro e la società All

Services è passata nelle mani della cosca Alvaro. Dopo l’operazione “Cent’anni di

Storia”, l’intera cooperativa è stata posta sotto sequestro preventivo in via

d’urgenza.

• SCRIPT: il copione messo in atto dalle cosche in questa occasione si è articolato

come segue. L’obiettivo principale è quello di acquisire le quote di una società

molto profittevole, che partecipa a delle interessanti gare d’appalto per intercettare i

capitali puliti e riciclare quelli sporchi (altrove illecitamente accumulati). In questo

caso, il procedimento ha previsto l’individuazione di imprenditori puliti ed estranei

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con i quali entrare in contatto, affinché si dimostrassero “graditi” alla famiglia

Piromalli. Laddove si sono creati dei contrasti con i Molé circa la scelta degli

imprenditori, è stato possibile instaurare immediatamente un’altra alleanza più forte

e funzionale al raggiungimento dell’obiettivo. In seguito, avendo messo in piedi un

sistema di prestanome e avendo diluito la catena dei soggetti coinvolti fino a

mimetizzare la presenza della cosca, è stato possibile intervenire sulla gara

d’appalto e vincerla, accaparrandosi per questa via la proprietà della cooperativa.

Il “punto debole” dell’operazione che ha smantellato l’infiltrazione sta nel fatto di essere

stata innescata (o comunque accelerata) in seguito alla denuncia sporta da un operatore

della All Services che era stato licenziato dopo l’impossessamento da parte degli Alvaro.

Il che fa sorgere un dubbio: l’infiltrazione e l’inabissamento erano stati così ben condotti da

mimetizzarsi perfettamente con le attività portuali e senza denuncia non è chiaro se

sarebbe mai stata individuata la presenza criminale nella cooperativa.

Bisogna concluderne che non ci sono ancora meccanismi efficaci che funzionino da

campanelli d’allarme per snidare con anticipo questi tentativi di inquinamento criminale

delle attività economiche?

Proveremo ad accennare una risposta nel prossimo paragrafo, per poi arricchire l’analisi

nel capitolo seguente, con altri esempi concreti e l’elaborazione di un modello

econometrico.

5.5 Perché l’analisi SWOT non basta.

PUNTI DI FORZA

• Posizione geografica strategica sulla rotta Suez-Gibilterra

• Elevato numero di connessioni marittime e servizi

• Ottime dotazioni infrastrutturali: profondità del canale portuale, spazio nel retroporto

• Presenza dei principali operatori mondiali: Maersk Sealand, NYK, Gruppo Eurokai

• Destinatario di rilevanti flussi di finanziamenti pubblici nazionali e comunitari

• Presenza di un distretto tecnologico collegato con i più importanti centri di ricerca nazionali sulla logistica

FATTORI DI DEBOLEZZA

• Clima speciale poco favorevole all’iniziativa imprenditoriale, cui si aggiunge l’assenza di tradizione nel settore logistico

• Mancanza di una governance forte che individui obiettivi, programmi, scelte e attivi risorse con un forte sostegno politico

• Forte pressione della malavita organizzata • Lontananza dai mercati di sbocco • Carenza di spazi per attività port required • Problemi infrastrutturali in campo ferroviario

OPPORTUNITA’

• Crescita dei traffici containerizzati • Trasformazione di modelli organizzativi • Zona franca nel demanio portuale

MINACCE

• Crisi del modello di transhipment? • Concorrenza esercitata dai nuovi porti

entrati in esercizio di recente

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• Sviluppo di Gioia Tauro come hub di transhipment internazionale nel settore auto

• Terminal ferroviario • Finanza pubblica per il Mezzogiorno: risorse

programmate derivanti da fondi nazionali e comunitari per lo sviluppo

• Dipendenza dalle scelte dei grandi operatori portuali

L’analisi SWOT che abbiamo riportato riguarda nello specifico il porto di Gioia Tauro, ma

presenta una serie di limiti.

A ben guardare, gli ingenti flussi di fondi nazionali e comunitari sono elencati al contempo

come punto di forza attuale e opportunità per il futuro. Tuttavia, sembra una conclusione

affrettata che meriterebbe qualche riflessione in più.

Innanzi tutto, bisogna ricordare che proprio l’eccessiva dipendenza dal finanziamento

pubblico ha reso il settore vulnerabile all’infiltrazione della criminalità, come abbiamo

dimostrato nel capitolo sui costi della c.o. in termini di sviluppo mancato.

Sembra altresì difficile poter sostenere che i fondi comunitari rappresentano una grande

opportunità, visto che:

a) nel corso dei precedenti cicli di programmazione le capacità di spesa di

molte istituzioni si sono dimostrate insufficienti e fallimentari;

b) dopo il settennio 2007-2013 le regioni del Sud Italia usciranno dal quadro di

sostegno “obiettivo-Convergenza” e non potranno ulteriormente fruire dei

fondi strutturali nella massiccia misura in cui hanno fatto fino ad oggi.

Quanto all’opportunità di sviluppare Gioia Tauro come hub internazionale nel settore auto,

bisogna sottolineare la lentezza con cui procedono i lavori e la mancanza di grandi

operatori, data la presenza esclusiva di BLG Logistics.

Inoltre, deve venire in considerazione la potenziale pericolosità di un mercato

dell’automobile come fonte privilegiata di riciclaggio del denaro sporco. Non è da

trascurare, infatti, la già sproporzionata dimensione che questo mercato ha raggiunto nella

Piana di Gioia Tauro: tra saloni, concessionarie e rivendite mutlimarche, sembra essere

fiorita un’improbabile giungla.

Il che deve far riflettere, soprattutto in merito alla vendita delle auto usate, sul fatto che

nelle pieghe di un così diffuso settore possa trovare uno spazio conveniente anche

l’infiltrazione della c.o. (in molti casi già accertata).

Se la crescita dei traffici containerizzati è vista come un’opportunità da afferrare al più

presto per rimanere in corsa con gli altri grandi scali commerciali del Mediterraneo e

d’Europa, non è chiaro perchè si debba considerare una minaccia la possibile crisi del

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transhipment: forse sono allo studio nuove modalità di trasbordo e distribuzione delle

merci? Allora, a maggior ragione, le strutture portuali dovrebbero sorgere adeguatamente

flessibili sin da questi anni di intensa progettualità.

Quanto, infine, alla presenza di grandi operatori mondiali, le valutazioni devono essere

molto prudenti: Gioia Tauro potrebbe scontare, ad esempio, la scelta di Grand Alliance di

trasferirsi a Cagliari in seguito a un accordo con Contship che mira a salvare la

concessione nello scalo sardo.

Ma la situazione è pronta a ripetersi ogni qualvolta un operatore portuale individui delle

opzioni più convenienti ed attrattive. Dunque, la vera problematica è la scarsa

concorrenza, il basso numero di operatori che fruiscono dello scalo gioiese, in quanto si

determina una situazione di oligopolio.

Come dimostra questo esempio, il “metodo preventivo” di ricostruzione del contesto

permette di andare più a fondo nell’analisi e di mettere in evidenza delle criticità che a

prima vista neppure lo strumento dell’analisi SWOT consente di cogliere.

In siffatte condizioni, il sistema si presenta gravemente vulnerabile dall’aggressione

criminale attraverso vari canali:

� infiltrazione politica negli Enti locali che partecipano alle intese istituzionali (APQ,

erogazione di fondi...),

� sfruttamento di un vantaggio “just-in-time” : attivare i preparativi ( = acquisto di

materie prime e mezzi per la cantieristica; acquisto di terreni che si prevede

diventeranno edificabili e saranno espropriati; smobilizzo di risorse finanziarie

liquide; attivazione di nuove alleanze con soggetti dotati di competenze specifiche

nel settore d’interesse; costituzione di società ad hoc con l’individuazione di

prestanome) durante il lasso di tempo che separa l’annuncio di nuovi stanziamenti

e la pubblicazione del bando di gara, in quanto si tratta di un’informazione

strategica di cui si viene in possesso con largo anticipo,

� manipolazione delle gare di appalto e infiltrazione nei lavori (con una pluralità

di tecniche che vanno dagli accordi sulle offerte all’accaparramento di subappalti e

forniture, all’estorsione, all’imposizione di manodopera, e così via).

Le enormi potenzialità espansive delle attività portuali si scontrano, quindi, con due ordini

di ostacoli:

� un sistema di sicurezza non immune dal pericolo tangibile di infiltrazione mafiosa;

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� l’isolamento del porto rispetto al retroterra per mancanza di collegamenti viari, ma

anche di attività industriali per la trasformazione ed esercizi per la

commercializzazione.

Per queste ragioni si fa urgente la messa in sicurezza, potremmo dire la “sterilizzazione ”,

dell’area dal condizionamento distorsivo e frenante della ‘ndrangheta.

La port security comprende, dunque, dispositivi tecnologici per la sicurezza attiva e

passiva dell’area, da attivarsi mediante l’impiego di specifiche unità operative delle Forze

di polizia all’uopo costituite, ma anche per mezzo di grandi capacità di previsione e

prevenzione.

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CAPITOLO V

APPENDICE I

TAVOLE STATISTICHE DEGLI INDICATORI

MACROECONOMICI IN CALABRIA

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Calabria Italia popolazione totale* 2011466

PIL abitante (%) (UE25=100) 68 109 Tasso occupazione 44,60% 57,50% Tasso dispoccupazione 14% 7,70%

attività economiche principali (% totale occupati) agricoltura 12,4 4,2

Industria

19,3 (di cui il 10% solo

costruzioni) 30,8

settore terziario

68,3 (di cui il 15,3% solo commercio) 65

tasso totale di irregolarità nel lavoro 32% 13,50%

propensione all'export (% PIL) 1,1 21,5 spesa R&S (% PIL) 0,4 1,14

flussi IDE in entrata (% PIL) 0,1

(Mezzogiorno) 1,1 saldo migratorio interno -4,70% -0,70%

occupati* in cerca* studenti* casalinghe* ritirati* in altra condizione* totale 539915 175009 174161 225843 289095 271585 1675608

non classificati 335.858

agricoltura* industria* commercio* trasporti* credito assicurativo* altre attività* totale occupati 73267 115818 95369 24819 39150 191492 539915

PA; sevizi* sociali e

personali; istruzione, ecc

dipendente/subordinato* imprenditore* libero

professionista* in

proprio* socio

cooperativa* coadiuvante

familiare* 411774 13091 23149 84232 3845 3824

distribuzione demografica

Catanzaro Cosenza Crotone Vibo Valentia Reggio

Calabria totali popolazione Comune* 95251 72998 60010 33957 180353 442569popolazione provincia* 369578 733797 173122 170746 564223 2011466numero Comuni 80 155 27 50 97 409

popolazione media Comuni (escluso capoluogo) 3429,0875 4263,219355 4189,333 2735,78 3957,42268 3714,968574 * Censimento Istat-2001

* Il totale degli impiegati in attività di servizio e Pubblica amministrazione risulta pari al 35% del totale degli occupati: un evidente caso di sovradimensionamento del settore terziario rispetto alle esigenze produttive ed economiche della Regione. Se aggiungiamo come componente del terziario anche la categoria del commercio, il rapporto rispetto al totale degli occupati risulta addirittura del 53%.

I distretti industriali non sono diffusi in Calabria: si possono annoverare solo tre poli dell'agroalimentare concentrati a Bisignano, Maierato e nella zona della Sibaritide. Il commercio è il settore quantitativamente più presente, ma la Calabria rappresenta un mercato di sbocco per la produzione di beni finiti realizzati altrove. Il volume delle esportazioni è ridotto e riguarda soprattutto prodotti dell'industria alimentare, dell'orticoltura e della floricoltura, delle materie prime plastiche e derivate di lavorazioni chimiche. Le bilance commerciali di tutte le cinque province della Regione sono pesantemente passive, soprattutto dopo la crisi del 2005. Nel corso di altre rilevazioni, si è riscontrato uno scarso tasso di funzionamento degli Sportelli Unici per le Attività Produttive, progettati per costituire un aiuto alla semplificazione burocratica e una riduzione della tempistica per le pratiche di avvio di attività imprenditoriali. Molti Comuni non hanno attivato tali Sportelli oppure questi non lavorano in maniera adeguata. Dal quadro demografico in basso si deduce che la popolazione calabrese è disseminata in Comuni di piccola entità, della dimensione media di 3715 abitanti circa. Il caso di Vibo Valentia è ancora più emblematico: la dimensione di questa provincia è quasi uguale a quella di Crotone, ma il numero di Comuni è doppio. Il risultato è una popolazione media di appena 2735 abitanti. Questa distribuzione squilibrata è aggravata dai difficili collegamenti territoriali ed accentua la percezione di scollacciamento e frammentazione.

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Errore.

Nel Mezzogiorno d’ Italia non vi è scarsità d’ imprese, tuttavia è la loro dimensione a non essere adeguata alle esigenze attuali del mercato e della competitività. La microimpresa non ha la forza di imporsi nel contesto di mercati integrati e concorrenziali come quello europeo.

Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006

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L’ intera penisola non investe a sufficienza nel settore della Ricerca e dello Sviluppo, tuttavia questa carenza si avverte in maniera ben più marcata nelle regioni meridionali. Le dinamiche di spesa dimostrano che ci sono segnali di buona volontà verso la strada dell’economia della conoscenza, ma rimane il ritardo accumulato. La Calabria, in particolare, arretra quasi del 50% rispetto alla media del Mezzogiorno e raggiunge appena un terzo dell’ investimento medio registrato nell’area Centro-Nord del Paese.

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Ministero del Commercio Internazionale

La propensione all’esportazione è praticamente inesistente in Calabria: questo significa che il grado di internazionalizzazione della regione è molto scarso, a totale detrimento delle possibilità di crescita e di proiezione sui mercati esteri. In tempi di integrazione così spinta, non è possibile restare “ isolati” .

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Ministero del Commercio Internazionale

L’evidenza grafica dimostra che la Calabria è un importatore netto. In realtà, si nota anche come il livello delle esportazioni sia pressoché costante nel decennio, mentre le importazioni crescono più rapidamente. La Calabria permane nel suo stato di mercato di sbocco per beni finali realizzati presso altre realtà produttive.

I dati, sebbene non ripartibili a livello territoriale, dimostrano la scarsa attrattività esercitata dal Mezzogiorno sugli investimenti diretti esteri. Una conferma ci viene anche dalle analisi SVIMEZ.

Fatto 100 il valore del Centro-Nord, il Mezzogiorno ha una proporzione invisibile di IDE.

SVIMEZ- 2006

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Confindustria Cosenza- Rapporto sull’economia calabrese nel 2005

La tabella mostra un’analisi comparata del livello di spesa per lo sviluppo del settore pubblico allargato in Calabria, Lombardia, Emilia-Romagna e Mezzogiorno aggregato. Per ogni singolo settore, il livello di spesa in valore assoluto risulta per la Calabria di molto inferiore rispetto ai risultati di regioni “altamente performanti” . Alcune voci di spesa sono di dimensioni irrisorie in proporzione all’ importanza e al contributo che sono in grado di apportare allo sviluppo: esempi ne siano l’ambiente, i rifiuti, il ciclo integrato delle acque, la maggior parte dei settori concernenti la formazione, la ricerca, l’assistenza sociale, le telecomunicazioni e la sicurezza. Le aree che hanno ricevuto i maggiori incrementi di spesa nel corso dei sei anni considerati sono Energia (+6,8%); Industria e Servizi (+21,8%); Edilizia (+7,8%); Viabilità (+13%); Altri Trasporti (+6,8%). Da sempre questi sono i settori che assorbono le maggiori quote di spesa, dimostrando di non uscire dallo stato di criticità in cui versano.

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A livello ambientale, l’emergenza rifiuti pare lontana dal trovare una risoluzione, soprattutto vista la limitatezza della raccolta differenziata e la scarsa presenza di discariche speciali. Reti idriche e di depurazione non coprono completamente il territorio.

SVIMEZ- 2006

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L’hub interportuale costituisce una sorta di “concentratore” , ossia è una struttura che combina l’ intermodalità trasportistica. Il porto di Gioia Tauro, ad esempio, può diventare molto più efficace attraverso il collegamento stradale e ferroviario al resto della rete terrestre. Da sola, la dotazione portuale/aeroportuale non è sufficiente per contribuire allo sviluppo, poiché si rischia di isolare tali strutture. Vi è la necessità di una loro integrazione con il territorio: questo faciliterebbe l’accesso e i collegamenti, riducendo i costi. Inoltre, contribuirebbe alla diversificazione produttiva e incrementerebbe la qualità dei servizi connessi.

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Gioia Tauro è oggi una delle risorse più preziose della Calabria. Tuttavia è ancora oggi un progetto frenato, poco valorizzato. Bisogna fare di Gioia Tauro la “porta” europea e mediterranea della Cina e dell’ India. Un grande porto di trasbordo ma anche un grande porto commerciale, un grande porto industriale. Un porto cioè che non solo movimenti containers anonimi, bensì un porto con un retroterra di attività di trasformazione di parte delle merci contenute nei containers. E’ questa la sfida dei prossimi anni. Fare di Gioia Tauro e del suo interland un grande e articolato distretto della logistica e della produzione, un grande hub e un grande produttore tra estremo Occidente e estremo Oriente. Gioia Tauro è il nostro ariete nei processi di apertura alle nuove economie e alle società che si affacciano sul Mediterraneo. Confindustria Cosenza- Rapporto sull’economia calabrese nel 2004

Questo risultato va letto alla luce della scarsa dotazione interportuale di cui soffre Gioia Tauro. Il dato, infatti, dimostra che nel porto calabrese avviene esclusivamente la movimentazione di containers. Siamo di fronte a mero transhipment, senza attività connesse.

Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006

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Tassi sui prestiti a breve

7,00%

7,50%

8,00%

8,50%

9,00%

9,50%

2004 2005 2006

anni

valo

ri pe

rcen

tual

i Reggio Calabria

Catanzaro

Cosenza

Crotone

Vibo Valentia

Il Sole-24 Ore. 18 dicembre 2006

Il tasso d’ interesse sui prestiti a breve termine è, nelle province calabresi, molto più alto che nel resto del Paese. La media nazionale è del 6,60% nel 2006, mentre a Firenze, la prima provincia d’ Italia in merito ai tassi d’ interesse a breve, è del 4,43%

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Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006

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0

10

20

30

40

50

60

agricoltura industria (tot.) tot. settori

Calabria

Centro-Nord

Italia

SVIMEZ-2006

Sebbene non sia possibile effettuare stime quantitative puntuali sulle reali condizioni del mercato del lavoro irregolare, in quanto proprio per la sua natura sfugge al controllo e alla contabilizzazione, tuttavia è innegabile che l’ incidenza dell’ irregolarità sia alta in Calabria. Il suo tasso è proporzionale al numero di addetti al settore: l’agricoltura, ad esempio, ha il maggior numero di occupati e raggiunge un tasso di irregolarità pari al 52,9%. Analoga considerazione vale per il settore delle costruzioni.

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È ripreso, ed è particolarmente intenso, il flusso migratorio interno all’ Italia. La direzione è Sud-Nord, con una perdita per la Calabria di circa il 4,5 per 1000 della popolazione.

Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006

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CAPITOLO V

APPENDICE II

IL CASO DI GIOIA TAURO VISTO DA UN’ALTRA PROSPETTIV A

Un racconto… intitolato “I segni sul territorio”.

Questa breve appendice narrativa nasce dall’esigenza di lasciar parlare anche le

esperienze vissute in prima persona, al di là del grado di formalizzazione dei modelli e dei

paradigmi esplicativi. Perché ci sono cose difficili da spiegare “scientificamente” ma sono

lampanti e gridano a gran voce la loro parte di verità.

Il racconto che segue è la semplice cronaca di una giornata qualunque in cui il computer è

rimasto spento sul tavolo da lavoro, mentre gli occhi (anche quelli della mente) hanno

voluto sbirciare la realtà vera.

Un ricercatore che vive in Calabria e che si occupa di problematiche connesse al mancato

sviluppo economico per effetto (anche) del condizionamento criminale, non può trascurare

di recarsi personalmente a constatare lo “stato di salute” del porto di Gioia Tauro.

Chiamerò questo racconto “I segni sul territorio”: quelli che mi aspettavo di trovare e che

non c’erano; quelli che non dovrebbero essere lì e, invece, ci sono.

Lo sviluppo è visibile, innanzi tutto. Si percepisce già guardando un’area, poi si ricavano i

dati e si effettuano gli studi scientifici.

Ed io, a Gioia Tauro, lo sviluppo non l’ho visto. In secondo luogo, ho anche accertato che

non c’è, purtroppo.

Era il 15 settembre 2008, lunedì mattina di un periodo quasi autunnale: a rigore di logica,

dovrebbe essere un momento di piena, instancabile e laboriosa attività.

Con tutte queste aspettative, armata di pazienza per affrontare gli eterni cantieri

dell’autostrada SA-RC, giungo a Gioia Tauro.

All’improvviso, un risveglio traumatico. Anzi, la sconcertante conferma di un sospetto: lo

sviluppo è assente.

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La città accoglie malissimo: le strade sono ridotte letteralmente in brandelli di asfalto

cadente. Il tessuto urbano è ridotto ancora peggio: è fatiscente, privo di segnaletica

adeguata. Le abitazioni si presentano in forte degrado, semi-crollate o non completamente

edificate, in parte persino abbandonate.

Colpisce la forte concentrazione di grandi concessionarie di automobili: se ne conta una

ad ogni isolato. Il resto delle attività commerciali è costituito, invece, da una congerie di

piccoli agricoltori ambulanti o magazzini cinesi di abbigliamento (quelli con le lanterne

rosse come insegna).

Decido di non avventurarmi oltre nel centro della città, preferisco visitare l’area portuale. È

lì che vorrei cercare le risposte più importanti.

Il percorso per raggiungere il porto è complesso e tortuoso: capisco che di sicuro non è la

strada seguita dagli autotrasportatori.

Per come è disposto il porto, nel territorio di Gioia Tauro si trovano soltanto i centri

amministrativi: vedo in sequenza i palazzi dei Carabinieri, dei Vigili del Fuoco, della Polizia

di Stato; più in là trovo la Capitaneria di Porto e la sede della Port Authority (sui cancelli

leggo il cartello “Sorveglianza armata”).

Sembra un deserto, non c’è nessuno. Mi è chiaro che questa zona non è adibita alle

attività di carico e scarico: posso solo fruire di un colpo d’occhio sulle gru immobili e su

qualche container accatastato.

L’ingresso al porto e gli allacciamenti stradali si trovano qualche chilometro oltre, a San

Ferdinando. Imbocco la SS 18 Tirrenica inferiore: una bretella di asfalto che attraversa una

zona rurale, la cui vocazione agricola è interrotta di tanto in tanto da qualche impianto

dismesso.

Giunta all’ingresso del porto, non posso fare a meno di notare che ci sono dei grandi

segnali ad indicare la 1° e la 2° area industriale.

Area industriale? Io ho visto solo due colline con pochi alberi e senza impianti “industriali”,

neppure in costruzione. Ancora una curva e giungo alla dogana del porto: ovviamente

l’ingresso non è consentito senza l’autorizzazione della Port Authority, salvo poi sapere

che i principali traffici illegali di droga, armi e merci contraffatte passano per di là.

Mi dico che, se non posso entrare, posso aspettare fuori per cercare di osservare il

volume di traffico tir che si genera nella zona.

Niente da fare: da lì non è entrato né uscito alcun automezzo.

La visita si conclude con un sostanziale fallimento, ma è stata ugualmente ricca di spunti

analitici.

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La decisione di recarsi personalmente a visionare la zona portuale è nata dall’idea di non

accettare in maniera supina e passiva le notizie che si reperiscono su Gioia Tauro, perché

sono pur sempre filtrate dall’interprete e dalla fonte che le emette.

Il manzoniano “sugo” di questa avventura è molto chiaro: il porto di Gioia Tauro è una

bolla di sapone e in tanti anni di storia travagliata non ha mantenuto una sola delle sue

promesse. È nato, e vive, acefalo nell’indifferenza totale da parte della popolazione locale.

Il tessuto sociale retrostante è completamente sfilacciato, passivo, inerte.

I “segni sul territorio” che il vero sviluppo lascia, sono un paesaggio urbanizzato armonico,

in sintonia con l’ambiente circostante ed un equilibrio sostenibile, un benessere diffuso e

una partecipazione attiva da parte degli abitanti.

I luoghi non trasudano quel “climate” industriale e commerciale di cui dovrebbe essere

impregnata una zona con tale vocazione.

Viene da pensare che si sia verificato un “corto circuito” nei processi di analisi del territorio

nella fase cruciale in cui si deve individuare e potenziare la sua vocazione naturale. Ben

diversa e ben più accurata avrebbe dovuto essere l’azione di marketing territoriale che ha

portato, invece, solo immensi sprechi di denaro pubblico, investimenti sbagliati ed

improduttivi, incrementi feroci della predatorietà delle cosche criminali.

La ricerca di risposte e conferme ha generato nuove domande. Dalla lettura di questo

racconto si potrebbe dedurre che i milioni di container movimentati ogni anno nel

“principale porto del Mediterraneo” siano una bufala.

E invece no. Non è un problema di cifre.

I container e le grandi navi che entrano ed escono dal porto ci sono sicuramente. La

sfortuna, semmai, è stata quella di capitare lì in una giornata tranquilla e con poco

movimento.

La qustione è un’altra: bisogna ridimensionare il gran parlare che si è fatto sullo “sviluppo”

e sul “rilancio” dell’economia calabrese a partire dal porto di Gioia Tauro.

Ad oggi, quali e quanti benefici ha prodotto un decennio di transhipment? Per chi è un

vero affare?

Non c’è pessimismo in queste osservazioni, tanto meno un surrettizio tentativo di

politicizzare il problema.

Vi è solo il tentativo di introdurre una visione chiara e realistica dei risultati generati dal

combinarsi di decisioni accumulatesi nel tempo.

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D’altronde, il porto è lì e chiunque può vederlo. Ma anche le strade sfasciate, le case

diroccate, le industrie (inesistenti) stanno lì. E lì rimangono. A testimoniare che qualcosa di

importante, di sostanziale, di fondamentale non funziona come dovrebbe.

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CAPITOLO VI

Excursus di esempi concreti e costruzione di un modello gen erale.

Premessa.

In questo capitolo, continueremo a trarre degli elementi utili dall’analisi dei casi concreti

per confrontare differenti dinamiche comportamentali del crimine (gli script), al fine di

individuare un modello econometrico di ampia capacità descrittiva.

6.1 Ancora qualche esempio di script criminale.

Nel condurre la ricostruzione dei singoli casi, l’intervista concessa da un magistrato

reggino “dell’antimafia” ha permesso di individuare un paradigma insolito, una novità

nell’infiltrazione criminale. Esaminiamo la scansione dei fatti.

• APPALTO: restauro del Palazzo dell’Amministrazione Provinciale di Reggio

Calabria.

• VINCITORE: imprenditore edile di Genova.

• 1° VICENDA: un imprenditore reggino si offre di (a uto)aggiudicarsi in subappalto la

fornitura di mezzi tecnici ed eventualmente di manodopera in loco. Il titolare

dell’impresa rifiuta, in quanto possiede mezzi propri e la sua ditta è autosufficiente.

• 1° RITORSIONE: l’imprenditore reggino organizza un a incursione nel cantiere ed

impedisce ad interim la prosecuzione dei lavori.

• 2° VICENDA: i due imprenditori vengono in contatto e la richiesta estorsiva muta:

ora è fatta esplicitamente in denaro, ma con la “finalità” di raccogliere offerte utili al

sostentamento delle famiglie dei detenuti, per alleviarne le spese legali e la povertà.

Come giustificare dal punto di vista contabile le uscite?

• 1° NOVITA’: l’imprenditore reggino, in quanto tito lare anch’egli di una ditta edile, si

offre di fatturare il prezzo dell’estorsione attraverso l’emissione di documenti che

attestano la fornitura di materie prime ed inerti (mai consegnati, ovviamente). La

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fornitura fasulla, quindi, avrebbe consentito di giustificare tali voci di spesa nella

contabilità dei lavori.

• 2° NOVITA’: uno degli argomenti usati dall’imprend itore reggino per convincere il

genovese a pagare, ha riguardato il fatto che la “regolare” fattura sarebbe stata

fiscalmente detraibile , con la conseguente opportunità di ammortizzare in parte il

costo sostenuto per onorare il pagamento del pizzo.

• CONCLUSIONE: l’infiltrazione è rimasta allo stato di solo tentativo perché

l’imprenditore genovese si è rivolto all’autorità giudiziaria sin dalle prime richieste,

collaborando alla chiusura dell’indagine.

Nel tracciare un excursus dei cambiamenti intervenuti nelle tecniche operative adottate

dalla c.o., lo stesso magistrato individua tre fasi storicamente successive:

1) in passato, il medesimo vincitore della gara d’appalto chiedeva informazioni sul

“capo locale” per concordare la tranquillità nello svolgimento dei lavori.

Generalmente, il costo di queste “spese per la sicurezza” si aggirava intorno al 5%

dell’importo complessivo dei lavori. Con l’intermediazione di soggetti conoscenti era

persino possibile negoziare uno sconto che scendeva al 4%, oppure al 3,5%. Tutta

questa procedura di “preventiva e spontanea” iniziativa dell’imprenditore è sempre

stata denominata “mettersi in regola”.

2) In seguito, si è passati ad una forma mista che al prelievo in denaro ha cominciato

ad affiancare l’offerta di mezzi.

3) La forma più compiuta di infiltrazione è la tecnica moderna che tenta di orientare le

scelte dell’imprenditore sulla manodopera segnalata e sulla fornitura di materie

prime, rivolgendosi ad imprese già mafiose o comunque “satelliti” della cosca.

Questo è lo “stato dell’arte” per quanto riguarda gli script più frequentemente rilevabili in

materia di appalti pubblici per l’esecuzione di lavori o per la somministrazione di forniture.

Se, però, ricordiamo quanto specificato a proposito degli script nel capitolo di teoria,

nell’analisi di ulteriori casi, potremo riscontrare la flessibilità e le capacità di adattamento

che i comportamenti criminali riescono ad esprimere.

Un esempio completo ed organico del modello di “managerializzazione” che sta guidando

le nuove scelte strategiche da parte di Cosa Nostra siciliana, riguarda un complesso caso

che ha messo insieme le vicende di avvocati, società calcistiche ed interessi immobiliari.

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Si tratta di considerevoli investimenti orientati alla costruzione del nuovo stadio con

annesso ipermercato a Palermo, sfruttando peraltro l’indotto del club rosanero, senza

escludere gli 8 milioni di euro investiti su un complesso residenziale a Chioggia, in Veneto.

Anche le estorsioni hanno assunto una nuova modalità: biglietti gratuiti per assistere alle

partite del Palermo calcio giocate in casa, da spartirsi equamente tra tutte le famiglie sul

cui territorio ricade lo stadio.

Sempre in ambito sportivo, non può trascurarsi l’importanza del calcio-mercato, molto

florido ed appetibile per i faccendieri mafiosi mascherati da procuratori calcistici per i

talenti emergenti del pallone.

6.2 Uno script di “raffinatezza finanziaria”.

Un elemento ancora troppo trascurato, ma che riguarda da vicino ed in maniera

sostanziale la previsione di un efficace metodo preventivo, è la “rapidità adattiva ” che

alcune cosche mafiose stanno dimostrando negli anni.

Tale dinamismo, unito all’abilità nell’apportare degli adattamenti, è la chiave del successo

moderno per la criminalità organizzata.

Fonti della magistratura rivelano che sono già in atto degli imponenti riassetti strategici

all’interno degli ambienti criminali per instaurare rapporti con gli imprenditori ed i banchieri,

per attivare in particolare nuove forme di riciclaggio.

I legami con l’economia “reale” sono già stati chiariti nell’ambito del freno allo sviluppo che

la c.o. è in grado di rappresentare. Viceversa, per corroborare la tesi di un’urgente riforma

delle politiche di contrasto in senso preventivo, saranno ora esaminati gli aspetti legati

all’impressionante espansione conosciuta in anni recenti dall’economia “finanziaria”.

Com’è noto, attraverso l’emigrazione la criminalità organizzata ha potuto installare le

proprie basi in aree dell’Italia e del mondo che sono finanziariamente dinamiche ed

effervescenti.

Basterà citare, ad esempio, il caso della Lombardia. Qui l’economia reale è altamente

sviluppata ma non risulta essere stata troppo spesso vulnerabile all’infiltrazione criminale.

Viceversa, si tratta di una regione molto ricca ed avanzata sotto il profilo finanziario.

Ed è in questo settore che la c.o. ha mostrato di poter fare il cd “salto di qualità” nel

raffinare la propria capacità imprenditoriale. Sono stati elaborati, infatti, dei nuovi metodi

per riciclare denaro sporco: non avviene più il deposito di somme presso la banca, bensì si

ottengono dei prestiti sulla base di garanzie fittizie. La pulitura del denaro avviene al

momento della restituzione delle rate del prestito.

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Come si può notare, il metodo ha di ingegnoso il fatto che i capitali ottenuti in prestito sono

già puliti e sono immediatamente fruibili per concludere altri affari: appalti, società di

servizi e così via. Ciò che viene restituito, si “lava” al momento del saldo del debito,

ottenendo così una doppia “pulitura” dei capitali.

Il doppio vantaggio è solo criminale, in quanto si trasforma in un doppio danno per

l’economia: il capitale prestato passa dal mercato “bianco” lecito nelle mani della c.o. e

viene quindi spostato nell’area del grigio. Il denaro sporco restituito proviene, a sua volta,

dal mercato “nero” completamente illecito e si ripulisce passando nell’area del grigio.

Il risultato è una perdita netta per il mercato bianco ed una nuova espansione del grigio,

sempre più invadente.

Benché sia chiaro il meccanismo, perseguirlo efficacemente è piuttosto difficile perché:

- per stanare il riciclaggio bisogna partire dalla dimostrazione del reato

presupposto;

- la legge 231/2007 ha introdotto nuove e più severe responsabilità per i

professionisti in tema di segnalazione delle operazioni sospette, ma è una

disciplina scarsamente applicabile in mancanza di una riforma delle norme

vigenti sostanziali.

La conclusione è, dunque, davvero mortificante: “la ‘ndrangheta fa i suoi affari con una

capacità di aggiornamento spaventosa, a dispetto dell’assetto normativo che cammina

zoppicando al cospetto della locomotiva malavitosa”.

6.3 L’aggiornamento del modello di Gary Becker.

Queste amare e realistiche considerazioni non mettono la parola “fine” alla nostra ricerca,

bensì costituiscono uno stimolo per avviare un’interessante revisione del modello

beckeriano sulla scelta razionale di delinquere.

Procediamo per gradi.

L’obiettivo è quello di mettere a frutto le conoscenze e gli strumenti concettuali di cui ci

siamo dotati fino a questo punto. In particolare, vedremo in che modo può essere utile

l’analisi di contesto per costruire dei parametri significativi come indicatori di rischio.

Per tentare di raggiungere questo obiettivo, ripartiremo dal fil-rouge che ha informato tutto

il lavoro: abbiamo utilizzato una prospettiva esclusivamente economica per cercare di

comprendere a fondo i meccanismi comportamentali e le aree di interesse per la

criminalità organizzata, rifiutando – ma non disconoscendo! – un approccio all’argomento

più tradizionale a sfondo storico-giuridico.

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Abbiamo, infatti, rintracciato i segni della modernità mafiosa, i processi che stanno

cambiando la pelle ad un fenomeno che fino a qualche anno fa aveva ancora delle

coloriture folkloristiche come nell’immagine caricaturale che segue.

Figura 4_ "Probi, onesti, efficienti". Disegno di Pino Caruso

Sull’orma degli studi di Gary Becker, abbiamo potuto osservare come i comportamenti

criminali siano caratterizzati da razionalità, calcolo della convenienza costi-benefici, oggi

persino con una raffinatezza finanziaria che rivela un eccezionale dinamismo

imprenditoriale.

Il discorso porta necessariamente alla spiegazione del perché si commettono reati. Il

lavoro di Becker, considerato il caposcuola dell'analisi economica della criminalità e del

diritto penale, costituisce il quadro di riferimento teorico di tutti gli sviluppi successivi di

questa analisi. Per Becker «una persona commette un reato se l'utilità attesa è migliore di

quella che potrebbe ricevere usando il suo tempo ed altre risorse per altre attività». Come

per dire che un individuo sceglie di diventare criminale quando i benefici presunti di questa

attività sono maggiori di quelli derivanti da una opportunità legale, quando esistenti,

sottratti i costi.

Il comportamento criminale, secondo Becker, può essere spiegato all'interno di una

generale teoria economica per la quale il numero dei reati commessi da un individuo

dipende dalla probabilità di essere condannato, dalla presunta severità della sanzione, e

da altre variabili come il reddito disponibile per attività legali o illegali, variabili ambientali, e

variabili legate alla volontà di commettere un atto illegale. La formula base di questo

ragionamento viene così espressa:

0 = O(p; f; u)

dove O è il numero dei reati commessi da una persona in un particolare periodo, p la

probabilità di essere condannato per quel reato, f la sanzione per quel reato, u una

variabile comprensiva di tutte le altre influenze.

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Un aumento in p ed f cioè il prezzo del reato, dovrebbe ridurre l'utilità attesa dal

comportamento criminale e di conseguenza ridurre il numero dei reati. Così come

cambiamenti in alcune componenti di u, come l'aumento del reddito percepibile in una

attività legale, o un aumento nell'educazione a rispettare la legge, o altro ancora,

potrebbero ridurre gli incentivi ad entrare in attività illegali, e quindi di conseguenza ridurre

il numero dei reati. Schematizzando ulteriormente il ragionamento di Becker e attribuendo

un valore medio per ciascuna delle variabili p, f, u si può affermare che per ogni individuo il

numero dei reati O commessi in una data comunità è negativamente correlato a p, f, e u.

Questo modello spiega il comportamento di un ipotetico criminale razionale informato sui

costi ed i benefici della sue decisioni.

Tentiamo ora di esplicitare meglio il contenuto del modello: esso richiede la definizione di

tre set di variabili indipendenti.

Il primo riguarda la probabilità di essere arrestati/ condannati e la severità della sanzione

che verrebbe inflitta per quel reato. Il secondo set riguarda certe condizioni del mercato

del lavoro (tasso di disoccupazione e reddito medio) che influenzano l'alternativa tra lavoro

legale e reato. Il terzo, composto da variabili di controllo, riguarda certi tipi di condizioni

socio-economiche (composizione di età, razza, percentuale della popolazione vivente in

aree urbane) che in modo diverso possono influenzare la decisione di commettere un

reato.

Alla luce di tutte le informazioni di cui disponiamo oggi, e soprattutto sulla scorta del case

study applicato ad una pluralità di settori, possiamo tentare di aggiornare il modello

beckeriano, arricchendolo con nuovi parametri rappresentativi delle scelte criminali, al fine

di aumentarne il potere esplicativo e predittivo19.

Un sub-obiettivo di questa idea consiste nel costruire un sistema di campanelli d’allarme

sul modello della “bandierina rossa”: quando viene sventolata, significa che si è in

presenza di una realtà non più ignorabile, che necessita di risposte immediate.

In questo intento, ci aiuta il concetto di “suscettibilità criminale”: essa si misura attraverso il

grado in cui l'organizzazione e la struttura di una determinata attività creano incentivi per

attività criminali oppure procurano mezzi ed opportunità ai criminali dentro e fuori l'attività

per controllare e/o influenzare le componenti nevralgiche di quella attività.

Il risvolto della suscettibilità criminale è il “potenziale criminale” cioè la possibilità e la

capacità dei criminali di sfruttare le vulnerabilità di una determinata attività. Per analizzare

il grado di potenzialità criminale occorre identificare i diversi fattori di quella attività, come 19 Bisogna tuttavia premettere che la messa a punto dei parametri e il test del modello richiedono un tempo ed uno spazio ben più ampi. In questa sede si accenna solo ad una proposta interpretativa e di lavoro.

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l'ammontare del denaro che l'attività produce, la disponibilità di occupazioni che possono

procurare uno status legittimo ed un reddito ai criminali ed ai loro associati, ed il potenziale

dell'attività di ripulire denaro sporco o generare spese false in modo da dirottare

pagamenti illegali come tangenti, oppure evadere le tasse.

In questo senso, bisognerebbe – forse un po’ utopisticamente – considerare ogni singolo

settore economico e costruirne una mappa di rischio “infiltrazione” che tenga conto sia

delle specificità di contesto che delle vulnerabilità legislative.

Per quanto possibile, si deve effettuare la “traduzione” di questi elementi descrittivi in

parametri numerici, ossia individuare tutte quelle variabili tipiche del settore considerato

che possono destare l’interesse della c.o., consentendo di prevedere con quanta rapidità e

con quali strumenti i criminali adatteranno la propria struttura organizzativa per cogliere le

nuove opportunità.

Step 1: tradurre in parametri il contesto territoriale generale.

Le caratteristiche del territorio sono descritte, ad esempio, da alcuni indicatori

macroeconomici come:

- Pil regionale,

- Reddito pro-capite,

- Tasso di disoccupazione e composizione della forza lavoro per settore,

- Popolazione e densità demografica,

- Tasso migratorio,

- Indice di dotazione infrastrutturale,

- Dipendenza dalla spesa pubblica…

Per rappresentare le tendenze criminali regionali, sono interessanti le statistiche

giudiziarie e, qualora ritenute insufficienti, è possibile procedere con le IDV (Indagini di

Vittimizzazione).

Step 2: tradurre in parametri il singolo settore.

- il tasso di crescita occupazionale o reddituale del settore può essere visto

come un indicatore di profittabilità ed attrattività;

- il tasso di inflazione normativa, il tasso di tecnicismo, il tasso di

informatizzazione ed il livello di raffinatezza tecnologica sono tutti elementi

che consentono possibilità elusive e di aggiramento delle norme/ regole;

- il tasso di perseguimento giudiziario per il reato connesso allo specifico

settore, la severità della pena e il tasso effettivo di sconto della sanzione

(vista la tempistica processuale, gli orientamenti giurisprudenziali, ecc) sono

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parametri che determinano la convenienza a delinquere dal punto di vista

della impunità o comunque del basso costo sanzionatorio. Infatti, anche se il

settore dovesse presentarsi “interessante” sotto il profilo del livello di crescita

e di profitto, non ci si potrà avventurare nell’infiltrazione senza aver

considerato tutti i rischi di essere scoperti e condannati.

- Un indice di “country specific” come tasso di concentrazione territoriale è

utile perché se l’attività è molto diffusa sul territorio, l’infiltrazione può

facilmente confondersi con il tessuto economico locale, passando

inosservata come tutte le altre imprese “tipiche”, e non sarà dissonante dal

contesto.

- La presenza di criminalità già attiva e diffusa sul territorio può avere un

effetto ambiguo: per la cosca che decide di entrare in un mercato già

“occupato”, bisogna immaginare che potrebbero innescarsi due meccanismi

opposti, vale a dire l’apertura di conflitti e scontri oppure l’instaurarsi di

proficue alleanze.

Applicando questa tecnica, giungiamo alla seguente conclusione: il modello beckeriano

originario è un metodo “aperto” in funzione del tempo e dello spazio, nel senso che –

scegliendo di non esplicitare il vettore delle variabili stocastiche – divenuta flessibile e si

può di volta in volta adattare alle caratteristiche del momento storico e dell’area presa in

esame.

In questo modo si potranno evidenziare correlazioni positive sempre nuove ed inaspettate

fra fenomeni, aumentando il potere esplicativo del modello proprio perché sarà costruito

includendovi delle variabili opportune e significativamente rappresentative della realtà

considerata.

6.4 Un piccolo test : applicazione del metodo preventivo e dei vettori di Becker alla

grande distribuzione commerciale in Calabria.

Per concludere il nostro lavoro, ma in realtà per indicare una nuova pista da approfondire

in futuro per chiunque dovrà applicarsi all’elaborazione di strumenti preventivi per la lotta

all’infiltrazione criminale nelle attività economiche lecite, proviamo a testare le idee fin qui

proposte su un caso concreto: la distribuzione commerciale in Calabria.

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È all’osservazione da un po’ di tempo il sorgere in Calabria di numerosi centri commerciali

e supermercati20 di ogni sigla italiana, ma anche straniera.

Se aumentano gli operatori commerciali, quindi la varietà di prodotti e la relativa

concorrenza, non può che essere un fatto positivo per l’economia.

In generale, quest’affermazione può essere corretta e condivisibile nell’ottica di uno

sviluppo territoriale guidato dal commercio e dal dinamismo dell’import-export.

Se, però, l’area regionale in cui questo accade ha le caratteristiche economiche della

Calabria, bisognerà porsi qualche interrogativo supplementare.

Vediamo perché.

La popolazione calabrese non supera i 2.000.000 di abitanti, disseminati secondo una

notevole frammentazione demografica fra numerosi Comuni scarsamente popolati, tutti

distanti tra loro per diversi chilometri di strade contorte e di portata limitata per il traffico

commerciale.

Di conseguenza, la dimensione del mercato di sbocco per qualunque operatore

commerciale risulta piuttosto limitata e difficile da raggiungere capillarmente attraverso i

canali della distribuzione.

Lo scarso reddito disponibile, inoltre, influenza la struttura stessa della domanda,

orientandola verso il consumo di beni semplici e tradizionali.

Infine, sempre con riguardo alle caratteristiche dell’economia regionale, la Calabria è un

importatore netto di quasi tutte le categorie merceologiche: una rete distributiva così

diffusa non si giustifica, quindi, neppure con la necessità di commercializzare le produzioni

locali in quanto il settore dell’industria agroalimentare è molto ridotto, così come le altre

produzioni.

20 Secondo dati Istat (rilevamento della popolazione residente) e Federdistribuzione (numero e classificazione degli esercizi commerciali), si può calcolare la “densità” degli esercizi di distribuzione alimentare al dettaglio in rapporto alla popolazione regionale. [La scelta coinvolge la popolazione intera e gli esercizi alimentari per l’ovvio motivo che non bisogna segmentare il mercato, in quanto tutti sono consumatori di beni di prima necessità] - Calabria 1 negozio ogni 1562 abitanti; - Piemonte 1/2477 ab.; - Lombardia 1/2860 ab.; - Puglia 1/1671 ab. (con una notevole giustificazione data dalla struttura produttiva regionale); - Sicilia 1/2055 ab.; - Campania 1/2578 ab.; - Lazio 1/2311 ab.; - Toscana 1/2920 ab. Questa regione ha il numero di esercizi alimentari più simile alla Calabria (rispettivamente 1259 e 1285), ma ha quasi il doppio della popolazione calabrese. Come si può notare, sono state calcolate le densità commerciali in Regioni distribuite sull’intero territorio nazionale, disomogenee per tenore e qualità della vita, oppure simili alla Calabria per qualche caratteristica. In ogni caso, però, il valore calabrese si presenta come dissonante ed improprio, con un eccesso ingiustificato di esercizi commerciali alimentari.

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La presenza di queste condizioni, senza contare la consistente diffusione della criminalità

organizzata, fornisce un’abbondante mole di ragioni disincentivanti per l’imprenditore

della distribuzione a cimentarsi in quest’attività.

Eppure accade esattamente l’opposto, in palese contraddizione – peraltro – con

qualunque modello economico di convenienza localizzativa di ulteriori servizi commerciali,

soprattutto in vista del ridotto bacino d’utenza potenzialmente conseguibile.

Fino a qui abbiamo ricostruito il contesto generale, ma ancora due osservazioni

provengono dall’analisi del mercato specifico:

a) un’uniformità nel livello dei prezzi che, in contrasto con la numerosità di operatori

diversi e tutti teoricamente in concorrenza, tradisce invece dei comportamenti

oligopolistici;

b) la competenza legislativa in materia commerciale è divenuta di esclusiva potestà

regionale in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione.

Unitamente alle scelte anti-economiche, questo fattore legislativo è il secondo segnale che

sul settore della distribuzione commerciale in Calabria dovrebbe sventolarsi una

“bandierina rossa”. Approfondiamo il discorso.

Se i supermercati di diverse dimensioni21 riescono a moltiplicarsi sul territorio senza che vi

corrisponda un aumento della domanda da parte dei consumatori o senza una crescita

della popolazione, ciò significa che non siamo in presenza di norme che stabiliscano

distanze minime per l’apertura di nuovi esercizi o quantomeno un determinato rapporto

numerico tra popolazione e quantità di supermercati.

Una competenza legislativa esclusiva regionale, che si traduce altresì nel conferimento di

funzioni amministrative anche nei confronti di Province e Comuni, comporta un’ampia

discrezionalità politica, differente da regione a regione per quanto riguarda la materia

commerciale. Quindi, se da un lato ogni Regione può legiferare in base alle proprie

21 I punti vendita vengono generalmente classificati dalla grande distribuzione per canale in base alla loro dimensione effettivamente adibita ad area di vendita vera e propria, cioè senza calcolare eventuali gallerie commerciali, parcheggi, ecc. ed in base alla profondità dell'assortimento. Secondo la società Nielsen, i canali di vendita della grande distribuzione sono i seguenti:

• Ipermercato: struttura con un'area di vendita al dettaglio superiore ai 2.500 m2. • Supermercato: struttura con un'area di vendita al dettaglio che va dai 400 m2 ai 2.499 m2. • Libero Servizio: struttura con un'area di vendita al dettaglio che va dai 100 m2 ai 399 m2. • Discount: struttura in cui l'assortimento non prevede la presenza di prodotti di marca. • Cash and carry: struttura riservata alla vendita all'ingrosso. • Tradizionali: negozi che vendono prodotti di largo consumo di superficie inferiore ai 100 m2. • Self Service Specialisti Drug: negozi che vendono principalmente prodotti per la cura della casa e della

persona.

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esigenze, dall’altro lato il peso di un possibile “condizionamento esterno ” sulle

amministrazioni locali può farsi più invadente.

Soprattutto se, allargando ancora lo spettro visivo, vi includiamo il fatto che in particolare

nelle regioni del Mezzogiorno è possibile fruire di una serie di strumenti finanziari di

agevolazione per le iniziative imprenditoriali (es. il credito d’imposta et similia).

In queste condizioni non è difficile immaginare – e in alcune zone è già accaduto

realmente – nuovi canali per il riciclaggio del denaro sporco.

Come si può notare, il metodo preventivo ha funzionato: l’analisi di contesto, nonché

l’esame del settore specifico, unitamente alla conoscenza dello script comportamentale

individuato nel caso dei prestiti bancari in Lombardia, hanno prodotto la consapevolezza

che lo sviluppo anomalo della rete commerciale in Calabria merita di essere attenzionato e

sono stati, così, individuati anche i possibili canali attraverso i quali “il grigio invade il

bianco” (credito d’imposta e altre forme di sostegno pubblico, cartelli sui prezzi,

competenza normativa locale “influenzabile”, riciclaggio con denaro pulito incassato e

denaro sporco veicolato tramite l’acquisto della merce da rivendere…).

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M. Centorrino , A. La Spina , G. Signorino , Il nodo gordiano. Criminalità mafiosa e

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M. Centorrino , F. Ofria , L’impatto criminale sulla produttività del settore privato

dell’economia. Un’analisi regionale. 2203, Giuffré Editore, Milano

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123

A. La Spina , Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno. 2005, Il Mulino, Bologna

Enzo Fantò , L’impresa a partecipazione mafiosa. Economia legale ed economia

criminale. 1999, Edizioni Dedalo s.r.l., Bari

Moisés Naìm , Illecito. Come trafficanti, falsari e mafie internazionali stanno prendendo il

controllo dell’economia globale. 2006, Mondadori, Milano

Francesco Forgione , Amici come prima. Storia di mafia e politica nella Seconda

Repubblica. 2004, Editori Riuniti, Roma

Paola De Vivo , Ricominciare: il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo. 2006, Franco

Angeli, Milano

A. La Spina , La politica per il Mezzogiorno.

Matteo G. Carocci , Il marketing territoriale. Strategie per la competitività sostenibile del

territorio. 2006, Franco Angeli, Milano

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124

ARTICOLI SPECIALISTICI E WORKING PAPERS

Raul Caruso , Spesa pubblica e criminalità organizzata in Italia. Evidenza empirica su dati

panel nel periodo 1997-2003, gennaio 2008, Università Magna Graecia, Catanzaro

V. Daniele , U. Marani , Organized crime and Foreign Direct Investment: the Italian case,

gennaio 2008, Università Magna Graecia, Catanzaro e Università “Federico II”, Napoli

S. Skaperdas , C. Syropoulos , Guns, Butter and Openness: on the relationship between

security and trade, maggio 2001

Milorad Filipovic , Importance of institutional development for Western Balkan countries,

aprile 2006

Daniela Irrera , The Balkanisation of Politics: crime and corruption in Albania, maggio 2006

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125

INDICE

Abstract. 2

Executive summary. 3

CAPITOLO I

Questioni terminologiche di tutta rilevanza.

Premessa 13

1.1 La tassonomia delle attività economiche. 13

1.2 I problemi internazionali di definizione della criminalità organizzata. 14

1.3 Gli effetti “economici” dell’infiltrazione criminale. 17

CAPITOLO II

Uno sguardo appena oltre l’Adriatico: l’utilità della comparazione.

Premessa. 20

2.1 La situazione di criminalità in Albania. 20

CAPITOLO III

La c.o. come costo implicito nello sviluppo economico.

Premessa 24

3.1 Classificazione dei costi del crimine. 24

3.2 Gli svantaggi della presenza criminale. 26

3.2.1 La teoria del monopolio. 26

3.2.2 Imprese vulnerabili. 29

3.2.3 Fattore di costo interno alle aziende. 31

3.2.3.a Approccio macro: l’equazione mafia = sottosviluppo. 32

3.2.3.b Approccio micro: la struttura dei costi della singola azienda. 35

3.3 La sostituzione del capitale mafioso a quello lecito: evoluzione del modus

operandi. 39

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CAPITOLO III: APPENDICE STORICO-BIBLIOGRAFICA.

‘Ndrangheta e Storia Criminale, di Enzo Ciconte. 53

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra,

di Roberto Saviano. 53

CAPITOLO IV

La costruzione delle mappe di “rischio criminalità” nell’economia.

Premessa. 64

4.1 Introduzione del metodo “preventivo” grazie all’analisi di contesto. 65

CAPITOLO V

Case study: il porto di Gioia Tauro.

Premessa. 71

5.1 Analisi delle attività economiche in Calabria. 72

5.2 La situazione attuale: alcuni indicatori “macro” dell’economia calabres 73

5.2.1. Profili generali 73

5.2.2. Redditi e povertà 73

5.2.3. Qualità della vita e imprese 74

5.2.4. Quadro occupazionale 76

5.2.5. Esportazioni 76

5.2.6. Turismo e ambiente 77

5.2.7. Infrastrutture materiali e immateriali 78

5.2.8 Conclusioni: l’economia della conoscenza 79

5.3 Zoom n. 1: dal contesto socio-economico regionale alla Piana di Gioia

Tauro. 80

5.4 Zoom n. 2: dalla Piana al Porto di Gioia Tauro. 81

5.4.1 Analisi di contesto: il mercato della logistica. 51

5.4.2 Passando dal contesto generale alle problematiche di Gioia Tauro. 83

5.4.3 Analisi del “caso concreto”. 87

5.5 Perché l’analisi SWOT non basta 89

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CAPITOLO V ; APPENDICE 1

TAVOLE STATISTICHE DEGLI INDICATORI

MACROECONOMICI IN CALABRIA 93

CAPITOLO V APPENDICE II

IL CASO DI GIOIA TAURO VISTO DA UN’ALTRA PROSPETTIVA

Un racconto… intitolato “I segni sul territorio”. 107

CAPITOLO VI

Excursus di esempi concreti e costruzione di un modello generale.

Premessa. 111

6.1 Ancora qualche esempio di script criminale. 111

6.2 Uno script di “raffinatezza finanziaria”. 113

6.3 L’aggiornamento del modello di Gary Becker. 114

6.4 Un piccolo test: applicazione del metodo preventivo e dei vettori di Becker

alla grande distribuzione commerciale in Calabria. 118

BIBLIOGRAFIA 122

ARTICOLI SPECIALISTICI E WORKING PAPERS 124