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OTTO BALESTRO-BELLISCIONI-BOSCO-CALDERINI-CINTI FOTI-FREDDI-GARBINI-LAPROVITERA-LEONI-LO PRESTI MARCHESINI-MAZZONI-MEDICI-PARRANO-PEDICHINI PRUDENZI-PURI A.-PURI L.-RECCHIA-SCHIAZZANO SEGA-SELLERIO-SPANETTA-TIBERI- VIVIANI della Tuscia aperiodico di novelle e varia umanità ispirato a

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OTTO

BALESTRO-BELLISCIONI-BOSCO-CALDERINI-CINTIFOTI-FREDDI-GARBINI-LAPROVITERA-LEONI-LO PRESTI

MARCHESINI-MAZZONI-MEDICI-PARRANO-PEDICHINIPRUDENZI-PURI A.-PURI L.-RECCHIA-SCHIAZZANO

SEGA-SELLERIO-SPANETTA-TIBERI- VIVIANI

della Tusciaaperiodico di novelle e varia umanità

ispirato a

SELEZIONE DI OPERE DEI NOSTRI COLLABORATORI

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EditorialeQuesto è l’ultimo numero della rivistaGRANDI FIRME DELLA TUSCIA con-fezionato da Pier Luigi Leoni.Va tra i ricordi cari.D’ora innanzi si occuperà di questa pubbli-cazione l’ASSOCIAZIONE PIER LUIGILEONI, costituita da suoi amici per conti-nuarne l’attività di promozione culturale. Vogliamo ricordarlo ai lettori con pocherighe scritte da Dante Freddi il giorno dellasua scomparsa e che esprimono sentimentiche condividiamo, che sono i nostri.« A presto Pier Luigi. Quando Dio vorrà,sperando di aver meritato di starti vicino, po-tremo godere ancora del piacere dell’amicizia,dell’amore che ci ha legati per oltre quaran-t’anni : stima reciproca, scambio, ricerca deltempo da vivere insieme, voglia di impararedall’altro, gusto di condividere letture, pen-sieri, progetti, azioni, comportamenti, vi-sioni, valori, scazzafrullonate. E anche ri-cette. Non siamo stati sempre d’accordo sututto, ci mancherebbe, ma la tua onestà intel-lettuale riusciva comunque ad arricchirmi emodificarmi. Tu mi mancherai nella vita diogni giorno, perché ogni giorno mi hai resopiù leggero stare su questa terra e ti ho amato.A presto, amico carissimo».

INDICE1 Silvano Balestro: PICCOLI CUORICINI

2 Mirko Belliscioni: OBLINDO

2 Marianna Bosco: SFUMATURE

5 Laura Calderini: NON SONO UNA SCRITTRICE

7 Maria Virginia Cinti: MARE

7 Nicola Foti: SARAI TENUE RESPIRO NAVIGAMMO

8 Dante Freddi: IN GITA SCOLASTICAQUELLA VOLTA CHE HO VISTO DIO

10 Igino Garbini: IN TRASFERTA CON LA CARTOMANTE

14 Andrea Laprovitera: SCRIVIAMO SULLA SABBIA

16 Pier Luigi Leoni: NAZIONALI ZIGRINATE

17 Aldo Lo Presti: IL SEGRETO DELLA PIGRIZIA

18 Gianni Marchesini: CAPPUCCETTO ROSSO

20 Maria Beatrice Mazzoni: ENTANGLED

22 Barbara Medici: COME IL CIELO D’OLANDA

26 Giulia Parrano: ZORA

29 Luca Pedichini: LA RIFORMA DELLA SCUOLA

30 Enzo Prudenzi: VOGLIO VOLARE NEL VENTO DELLA VITA

32 Antonietta Puri: VENTO

34 Loretta Puri: MASTER SCEFFE

35 Nicoletta Recchia: L’AMOR MATURO

38 Andrea Schiazzano: I SOGNI FERITI

40 Laura Sega: IL SOGNO

42 Paola Sellerio: IL POZZO DI SAN PATRIZIO

44 Angelo Spanetta: CREMA AL MASCARPONECON AMARETTI AL CAFFÈ

45 Mario Tiberi: PER CHI NON CONOSCE CHI OPERA PER IL BENE DELL’UMANITÀ

46 Valeria Viviani: IL NONNO

e

Associazione CulturalePier Luigi Leoni

presentano una iniziativaeditoriale senza scopo di lucroispirata alla celebre rivista di

Pitigrilli

Stampa: Controstampa srl - AcquapendenteDicembre 2018

associazione [email protected]

•www.letteralbar.it

[email protected]

DIREZIONE REDAZIONEPROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE

Lamapian Cat i l e spLaura Calder in i

Mario T i b er iPier Luig i LeoniAngelo Spanet ta

LETTERALBAR è un circolo di Orvieto cherealizza iniziative culturali, in particolarepromuove la lettura e la scrittura sia di testiletterari che di saggi di storia locale e di cul-tura generale. Ha curato fino ad ora questapubblicazione, che dal prossimo numero saràaffidata all’ASSOCIAZIONE PIER LUIGI LEONI,costituita per tenere viva la memoria diLeoni e continuare la sua opera di promo-zione culturale. Lo spirito della pubblica-zione, le finalità, le persone impegnate sonole medesime.I soci, consapevoli dell’appartenenza storicadell’area orvietana alla Tuscia, ambiscono,con questa rivista, a coinvolgere i Tusci delLazio e della Toscana in una operazione squi-sitamente ed esclusivamente letteraria. L’as-senza di ogni scopo di lucro garantisce chel’interesse perseguito è soltanto la soddisfa-zione del piacere di scrivere, di leggere e di es-sere letti.Il riferimento alla celebre rivista di Pitigrilli,che, dal 1924 al 1938, lanciò molti grandiscrittori italiani, vuole semplicemente sotto-lineare il tono delle composizioni pubblicateche, anche quando hanno contenuti dram-matici o culturali, nascono come diverti-mento degli autori.La rinuncia programmatica all’attualità de-termina la aperiodicità della rivista. Essaesce ogni volta che è pronta, vale a dire ognivolta che un numero adeguato di autori s’in-contra con le disponibilità di tempo e dimezzi finanziari del circolo.Gli autori non percepiscono compensi, se nondue copie della rivista, e conservano la pro-prietà dei diritti d’autore. Le spese di stampae di promozione sono coperte con contributidi estimatori. I redattori si ripagano esclusi-vamente con la soddisfazione di vedere la ri-vista letta e apprezzata da qualcuno.

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Silvano Balestro

PICCOLI CUORICINI

Il cuore, raggelato dalla cattiveria umana, siapre alla speranza di una vittoria dell’amore.

È una notte fredda di dicembre e non riescoa dormire. Fuori nevica. Guardo i fiocchiche scendono lentamente e hanno già co-perto tutto di bianco. La neve comincia apesare sui rami degli alberi che sembranotristi e soli in mezzo a quel candore. Ancheio sono triste e mi si affollano nella menteneri pensieri. Sembrano premermi sul cuorele manine fredde di moltitudini di bambinivittime della crudeltà, dell’insipienza edell’egoismo degli adulti. Vittime delleteste bacate che riempiono il mondo. Mi sispezzerebbe il cuore se non riuscissi a rea-gire col calore di un amore profondo per chisoffre e con la speranza che possano preva-lere nel mondo l’amore e la giustizia. Riescocosì a pensare alla primavera, che non è vi-cina, ma che dovrà venire. E immagino diprendere per mano tanti bambini e di por-tarli a correre nei prati, per finire la corsasu un bel torrente di acqua chiara e fresca. Ma la neve è sempre più alta e la notte èsempre più fredda e silenziosa. E penso atanti piccoli esseri umani che incespicanosu strade impervie e piene di ostacoli senzapossibilità di giungere a una meta chepossa dirsi umana. Come si fa ad abbrac-ciare i propri figli e manifestargli tutto il

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nostro amore senza soffrire per tanti figli dimamma che nessuno abbraccia e che nes-suno ama? Eppure basterebbe stendere le braccia perincontrare tante mani da stringere. Apro un po’ la finestra della mia stanza perprovare a far uscire la tristezza. Ma ilfreddo m’assale e, perché non m’entri nelcuore, non mi resta che pregare e stringerefortemente a me il bambino immaginarioche rappresenta tutti i bambini che sof-frono. E li rappresenta con tanta intensitàche sento battere il suo cuoricino.Dovrà esserci una primavera tiepida e lu-minosa in cui potremo stringere le maninedi tutti i bambini del mondo e intonarecanzoni di felicità. L’amore che è nel fondodei cuori umani, ignorato, represso e com-presso, schiacciato da tanta neve gelida,dovrà pur esplodere.

Ammirare soltanto le opere degne di am-mirazione è indizio di gusto incerto. Ilvero tatto letterario, la passione auten-tica, apprezzano il fascino del poeta mi-nore e la finezza di prose secondarie.

•Chi cita un autore dimostra di non esserestato capace di assimilarlo.

•È sufficiente l’impatto di un verso per faresplodere i detriti che seppellisconol’anima.

•Essere prolissi è permettere al lettore dianticipare ciò che stiamo per dire.

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Mirko Belliscioni

OBLINDO

Vi sono fiori tropo belli che non devono essere colti.

Oblindo lavorava in un grande deposito diderrate alimentari come magazziniere.Poteva godersi tutto il pomeriggio, infattiera impegnato solamente fino alle 14.00.Solitamente usava trascorrere le ore liberepasseggiando nel parco della sua città. Spessoportava con sé qualcosa da leggere, un libro,un giornale, un programma teatrale.Verso la metà delle sue camminate si fer-mava ad un chiosco in mezzo al parco perun gelato, o una bibita.Negli ultimi tempi aveva iniziato a racco-gliere fiori per adornare il suo piccolo sog-giorno.Un giorno, mentre strappava qualche fiorequa e là, ne vide uno di una bellezza inde-scrivibile.Non poté resistere e lo mise assieme aglialtri già raccolti in una pagina di giornalearrotolata.Appena a casa riempì una brocca d’acquae ci adagiò tutti i fiori di quel giorno.Pose il più bello proprio al centro, in modoche potesse risaltare ancora di più.Oblindo si accorse che tutti i fiori eranocome quando li aveva presi nel parco, menoquello in mezzo.Infatti, dopo un’ora era già appassito, avista d’occhio perdeva colore e sostanza.

Marianna Bosco

SFUMATURE

Un idillio nella campagna umbra. Due personesensibili creano e vivono un momento di perfe-zione artistica ed emotiva che in natura non c’è.

«Sai cos’è la perfezione?» le domandò abruciapelo… «No, non lo so, non credo esi-sta; puoi pensare che qualcosa lo sia, qual-cosa che ti crea un’emozione sconvolgenteche ti tocca l’anima e si riflette nel mondocircostante.» Non si aspettava questa ri-sposta, la guardò perplesso. «Non credi cheesista un mondo perfetto? Dove tutto girisempre nel verso giusto?» «No, non locredo; credo che esista un mondo fatto dimille e infinite sfumature.» Lei continuòcon voce tenue ad argomentare la sua tesi.«Quindi? Cosa intendi?» «Intendo che ogniocchio si abitua a guardare le sfumatureche più lo attraggono, che più lo colpi-scono, quindi ciò che il mio occhio vede per-fetto in una di queste sfumature, magariper te non lo è.» Nico aggrottò le sopracci-glia e continuò insistente a domandare:«Così pensi che guardandoci adesso, io e te,uno di fronte all’altra, stiamo guardandoinconsapevolmente imperfezioni e perfe-zioni diverse?» «Sì lo credo.» «E se io inveceti dicessi che ho e sento davanti a me la per-fezione che ho sempre cercato?» «Non cicrederei.» «E perché?» «Perché davanti ate ci sono io e io non sono perfetta, sonouna semplice sfumatura come tante che ti

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sono passate davanti agli occhi...» «Sì, forsesu questo hai ragione, tante cose sono pas-sate e passeranno davanti ai nostri occhi,ma io non sto parlando né di passato né difuturo, io sto parlando di questo attimo, iodavanti a te, tu davanti a me, nulla più. Inquesto momento tu sei perfetto centro deimiei pensieri.» Queste parole si disperseronel vento gelido di novembre che lenta-mente si alzava dalle colline tinteggiate diverde smeraldo della dolce Umbria. Scese ilsilenzio per un istante in cui le mani si sfio-rarono sul tavolo e gli occhi di Aurora si ab-bassarono leggermente a cercare di nascon-dere l’imbarazzo. Aveva sostenuto losguardo dolce e penetrante di Nico pertutto il tempo del loro dialogo, mentre sen-tiva il cuore tamburellare sempre più forteall’interno della cassa toracica. Temeva lefacesse da cassa di risonanza e quel martel-lare costante arrivasse alle sue orecchie.Così aveva cercato di tenerlo a bada con lesue parole anche se le sembrava non fosselei a pronunciarle. Due sconosciuti insiemeper la prima volta a parlare di perfezione,lei che si sentiva la più imperfetta delledonne. Ora se ne stava lì in silenzio, a occhibassi, cercando di respirare più che poteva,e il suono di una fresca risata arrivò ad in-terrompere il flusso accelerato dei suoi pen-sieri. «Ecco, ora lo vedo, forse hai ragione,siamo legati ad infinite sfumature, ora nevedo una nel rosso tenue della tua ingenuatimidezza e questo mi rende ancora più le-gato alla mia certezza, di questo momentoche è esattamente come quello che imma-ginavo da giorni.» Aurora alzò gli occhi,sorrise timida: «E come lo immaginavi?»«Esattamente così, io e te, un cielo di un ce-

leste brillante, i tuoi occhi e una montagnadi sensazioni da vivere…» «Io non lo so, hosmesso di immaginare nell’istante esatto incui ho capito che tutto poteva diventare re-altà.» «Perché hai smesso? Hai avutopaura, ti stai pentendo di averlo fatto?» Eun leggero velo di grigio si posò testardosugli occhi di Nico…. «Forse le tue aspet-tative sono state deluse?» «No, assoluta-mente no, ho semplicemente smesso di im-maginare perché era un’emozione talmenteforte da farmi scoppiare l’anima. Così misono detta che sarebbe stato meglio aspet-tare e vivere.» Sfiorò le sue mani, manibelle, forti… Amava le mani e accarezzòquelle di Nico che proprio con le sue manicreava la sua arte. Non osò dirglielo, eraforse ancora presto per esprimere così lasua sfumatura di perfezione. Ma le aveva lìdavanti, mani di artista, mani che creavanotutto ciò che lei amava più di ogni altracosa al mondo. Avrebbe potuto ammirarlee sfiorarle all’infinito, immaginando di riu-scire, anche per un solo istante, a intrec-ciarle alle sue. Sarebbe stato il suo ricordopiù bello, il suo strano sogno fatto realtà,inaspettato come la neve candida dimarzo… sconvolgente. Le mani di un arti-sta tutte per lei. Poteva mai esprimere que-sto pensiero? Non sapeva nemmeno lei tra-mutarlo in parole, tanto strano le sem-brava. Eppure era così; le mani, la sua os-sessione, mani che si muovevano veloci,mani che creavano l’ insieme della forma edel colore, come quelle di un pianista checorrevano veloci sulla tastiera. Mani in co-stante fluire. Mise la sua piccola mano suquella di Nico, rise, erano fredde… Sì, forseera il vento gelido che spazzava via ogni

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cosa. Però non se l’aspettava. Si guarda-rono di nuovo intensamente: quelle maniche davano tanto, regalavano emozioni vi-sive, magiche, ipnotiche quasi, chissà checosa avrebbero potuto creare in quel giornocosì particolare e quasi certamente unico.Fu scossa da un leggero brivido. Nico laguardò preoccupato: «Hai freddo, en-triamo dentro.» «Sì, forse è meglio.» Maquel brivido, Aurora lo sapeva, non era do-vuto al freddo autunnale, era l’emozioneprovata per tutto quel susseguirsi di eventi,di preparativi, che avevano dato vita alloro strano e inaspettato conoscersi. «Ecco,sobbalzò, ho trovato la mia sfumatura.»Rise soddisfatta come ad avvalorare ancoracon più forza la sua tesi iniziale. «E qualesarebbe? Ora sono curioso… » «La mia sfu-matura perfetta è l’ incastro di tutto, ognicosa stabilita esattamente così come do-veva andare, nessuna interferenza, nessuncontrattempo, tutto precisamente comeavevo desiderato fin dal primo istante.» «Perché cosa pensavi? che le cose sarebberoandate storte? Pensavi che alla fine mi sareitirato indietro?» «Sì, no, boh… sai ognivolta mi manca un pezzo per completare ilpuzzle, invece stavolta è tutto magica-mente incastrato nel modo giusto.» «Pensisia magia? O semplicemente il fatto che ècosì che doveva essere? Qualcosa di assolu-tamente normale, due persone che si cono-scono, si attraggono e hanno voglia di stareun po’ insieme. Non ci vedo nulla di magicoin questo…» «Sì, hai ragione, ma io sonoconvinta che le cose abbiano un loro dise-gno particolare.» «Guarda questo cielo, peresempio, grigio fino a ieri, di un grigio topotriste e snervante..» «Non parlarmi di topi,

ne ho già visti fin troppi corrermi intorno,dannati esserini imprendibili.» Risero in-sieme… «Ecco, appunto, vedi? Oggi io e tequi insieme e improvvisamente il vento hadissolto le nubi regalandoci questo cielo ce-leste, quasi che il lago avesse deciso di ri-flettersi in alto, la luce che lo penetra, lesfumature di blu, azzurro cobalto, mare esole e acqua, un enorme miscuglio…» Cosavuoi dire?» «Voglio dire che tutto questonon è successo per caso, voglio dire che nonavrebbe avuto senso il grigio per noi in que-sta giornata ancora tutta da decidere.»«Eh no! è già decisa, tu sai cosa voglio date, io so cosa vuoi da me.» «Sì, certo, lo so,ma questo non vuol dire che tutto saràcome vogliamo… aspetta… c’è un giornointero per noi, o vuoi già conoscere la fine?»«No, non voglio, in questo esatto momento,qui nel silenzio di questa stanza, voglio solosmettere di parlare…» Così la prese, lastrinse in un tenero abbraccio, occhi che leentrarono davvero dentro fino a sfiorarle ilcuore, a toccare le corde più interne dellasua essenza, un nuovo brivido le sfiorò laschiena e non pensò più a nulla, voleva sol-tanto rimanere in quell’abbraccio. Uno sco-nosciuto? No, non lo era più, non sentivapiù la distanza dell’imbarazzo, delle sensa-zioni paurose, no… Si rilassò finalmente, siconcentrò sul colore verde ipnotico dei suoiocchi e unì le sue labbra alle sue. Ne eracerta, quella sarebbe stata la sua giornatapiù splendente dove tutti i colori che luitanto amava, avrebbero preso forma nellecose, nelle emozioni che avrebbero provato.Ancora di più esaltata dal pensiero chel’uomo che aveva davanti, come lei e più dilei, i colori non solo li amava, ma li sentiva

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sotto pelle, li mescolava e rimescolava nelcontinuo vortice della sua vita. I compagni,gli amici più fedeli che avesse mai avuto .Con le movenze sinuose di una ballerina,l’odore, la vivacità delle tinte impregna-vano e si adagiavano su ogni cosa. Cavolo,come era difficile guardarlo negli occhi. Loabbracciava, lo baciava, ma gli occhi no;era impressionante la loro potenza emo-tiva. Ogni tanto Aurora si distraeva, la suagioiosa esuberanza lasciava il posto perqualche istante ad una sorta di ammiratareverenza. L’unico modo per non pensarci,per smettere di sentirsi così dannatamenteimpacciata davanti a Nico, era guardarloper ciò che era: un uomo, semplicemente unuomo... ok, ammettiamolo, un uomo terri-bilmente affascinante, sognatore quasiquanto lei, ma anche deciso e passionale.No, non ci riusciva, continuava a sentirsipiccola tra le sue braccia… eppure… ep-pure… era la sensazione più bella e intensache avesse mai sentito da un anno o unavita a questa parte. Stava quasi dimenti-cando come fosse fatto il sole e ora, all’im-provviso, nel buio delle sue strane giornatearrugginite dal tempo, era arrivato il solebrillante, giallo intenso. E ancora, ancoracolori a illuminare il pomeriggio, la luce chesi rifletteva ovunque, occhi, pelle, il violatenue della lavanda, il marrone intenso diquella stanza, ecco la sua nuova sfuma-tura…. Era così come piaceva a lei, un leg-gero tuffo all’ indietro nel tempo, in quelcasale quasi solitario tra alberi e boschi epecore e lei persa nel suo sogno sempre piùcolorato.

Laura Calderini

NON SONOUNA SCRITTRICE

Laura svela il personale travaglio da cui è sboc-ciato il suo romanzo “Il segreto di Blanca”.

Mi capitò, senza che in realtà me ne rendessidel tutto conto, di riuscire non solo a siste-mare alcune pagine della mia vita ma addi-rittura di dar loro una veste decorosa e farleuscire allo scoperto. Il gioco mi piacquemolto; molto meno la consapevolezza chemai e poi mai sarei stata in grado di scriverealcunché di diverso da esperienze personali.Quindi proseguii cimentandomi con rac-conti di vita vissuta… ma il seme della pre-sunzione e della sfida con me stessa si eraormai ficcato in testa e non mi dava tregua. Un giorno, venni a sapere che una donna - aOrvieto ci si conosce bene o male tutti - ri-masta incinta dopo anni di tentativi e cure,nonostante l’assoluto riposo e altrettantecure per proteggere quella gravidanza,aveva perso il bambino. Non che fosse unastoria particolarmente originale ma comin-ciai a buttare giù alcune riflessioni.Dopo diverso tempo la incontro con unacarrozzina e, incredula, nonostante non cifosse una confidenza tale da permettermidi farlo, la fermo e le chiedo con finta na-turalezza se fosse il suo bimbo: «Bimba!!»mi risponde radiosa «Zoe».Con commozione nemmeno troppo velata,augurai ad ambedue ogni bene e... la miastoria ebbe inizio.

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Non avevo assolutamente idea di quello cheavrei scritto, ma cominciai a vivere in unostato di ispirazione continua e incalzante chedovevo tenere imbrigliata finché, nei ritaglidi tempo, riuscivo a lasciarla defluire attra-verso le dita che picchiavano sulla tastiera.L’esperienza scrittoria è certamente esaltanteperché permette/costringe di/a muoversi con-temporaneamente tra realtà e fantasia o me-glio tra realtà reale e realtà virtuale - spessola seconda esigendo l’attenzione in via esclu-siva - e mantenendosi, quindi, sempre moltoalto il livello di adrenalina e bassa la perce-zione del tempo che passa.Quando si arriva in fondo, però, ti rendiconto che il percorso è stato lunghissimo(almeno due anni) e travagliato (veglie not-turne, pianti e strepiti, rinunce, ferie incompagnia di vocabolario e computer etc.);scrivere non è cosa da poco: occorre buonavolontà (il tempo a disposizione per chi la-vora è poco e mal distribuito e deve essereottimizzato, perché la mente in quei mo-menti deve essere sgombra da ogni altropensiero), impegno nel cercare di non ca-dere nel banale (bisogna leggere, documen-tarsi, interpellare, informarsi), allenamento(parole, frasi, periodi, richiedono continuarielaborazione, studio della grammatica,della sintassi etc.), tanta pazienza (devi leg-gere, rileggere, rifilare, e poi leggere, rileg-gere e rifilare) e umiltà (quando credi di es-sere arrivata al prodotto finito e decidi difarlo uscire, devi predisporre l’animo all’ac-cettazione delle critiche e dei consigli). E,alla fine, non è detto che si riesca nell’in-tento; quanto meno che ci si riesca in ma-niera decente e decorosa -come scrittura- eonesta -come intenzioni-.“Il segreto di Blanca” è diviso in due fasi

temporali: la prima 1993: Lorna, ormaiquarantenne, scopre di essere incinta e de-cide di trascorrere la gravidanza nella suaamata Ischia, dove possiede un’antica torreristrutturata, la torre degli aranci, insiemea Francisca, la sua governante colombianae alla nipotina di lei Blanca, figlia di Paula.La seconda 2014: Ellin, impiegata in unabiblioteca e aspirante scrittrice, in vacanzaa Ischia, riuscirà a portare alla luce il se-greto di Blanca, appunto.In questo mio libro parlo quindi di mater-nità, di violenza e di dolore (nel passato diFrancisca esiste una grande tragedia che con-dizionerà le sorti dei personaggi), di perdita(ognuno perderà degli affetti) e perdizione(storie di vendette e alcoolismo), di silenzi(Paula e Blanca coveranno il loro dolore inun mutismo indotto) e risentimenti; inevita-bilmente d’amore, (Lorna e Luca, Ellin eMarco), di devozione (Francisca e Lorna), diincomprensione e compassione. Ma alla finetutti i pezzi andranno al loro posto lasciandoche la riconciliazione dei sentimenti dia ori-gine al perdono e alla speranza.In questi anni, tante le intuizioni e le ispi-razioni, tanti gli spunti e le coincidenze;una per tutte l’aver fascinosamente chia-mato “ELLIN”, la protagonista della se-conda parte del libro, per la quale conces-sione ringrazio Franco Del Moro.

“Il giorno dopo Ellin rimase in albergo etrascorse la mattina in piscina. Era im-mersa nella lettura quando un’ombra si al-lungò fra le pagine.«Ciao» disse una voce maschile.«Ciao» rispose lei continuando a leggere.«Posso sdraiarmi qui vicino?» indicando lasdraio.«Fai pure» disse in tono piuttosto spazientito.

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«Bene. Mi chiamo Marco e tu?» fingendo dinon accorgersene.«Ellin» e finalmente alzò lo sguardo decisaa liberarsi di quello scocciatore, ma sibloccò appena in tempo. Marco era un belragazzo su cui aveva già posato gli occhiqualche giorno prima.«Nome molto inconsueto. Da dove saltafuori?» seguitò lui guardandola con inno-cente sfrontatezza.Lei ammorbidì il tono cercando di rime-diare: «Sembra che mio padre, durante laguardia nella garitta della caserma, abbialetto una frase che più o meno recitava:‘Esiste la luce in noi’ e per passare il temposi sia divertito ad anagrammare le letterefinché, leggendo solo le iniziali delle cinqueparole, pronunciò l’acrostico ELLIN. De-cise che aveva una sua musicalità e che glisarebbe piaciuto metterlo come nome a unafutura figlia. Eccomi qua».”

Maria Virginia Cinti

MARE

Voci salgono dal marecome lamenti di balene in amorediventano: “Voci di dentro”Non conoscevamo il mareci hanno detto che lì è nata la vita.Siamo entrati nella sua pancia, ci siamoaffidati come a una vecchia madre.Di notte le stelle e la luna illuminavano

i nostri volti dagli occhi impauritiabbracciati ai nostri figli vinceva l’amore sulla paura, ma abbiamo capitoche non c’era amore sulla terra.Dove ora siamo vediamo l’altro che è in noi.Difficile imparare la vita.Ora le nostre sofferenze si sono dissolte, la nostra anima ha non più costrizioni, la nostra dignità non è più calpestata.Ora siamo liberi e leggeri come in una sfera di cristallo.Siamo ancora nella notte stellata, lo sguardo alle cose celestiabbiamo fatto della nostra vitaun’avventura.Il nostro battello ha preso il largo.

Nicola Foti

SARAI TENUE RESPIRO

Sarai tenue respiroE battitoQuando saremoUnico corpoSospeso il tempoL’animaSi dilateràE silenziSolo energiaScorreràCome in un fioreVivràLa bellezzaChe muore Ancora viva

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NAVIGAMMO

NavigammoIn mari di silenziE notti di tempestaL’agile legnoNon squassòQuando battemmo forteSugli scogliCome orridi gigantiRocce aguzzeE tenebrosi anfrattiSenza cibo né acquaQuel giorno il capitanoCapì ch’era il momentoE in volo si levòCome urlante gabbianoNoi lo seguimmoIncreduliE già avevamo aliAi nostri fianchiLa nave in seccaHa perso ormai il suo nomeSulla chigliaSiamo anime libereSplendentiMacchie vagantiNel sole incandescente Del tramonto

Dante Freddi

IN GITA SCOLASTICAQUELLA VOLTA CHE

HO VISTO DIO

In una gita scolastica può succedere di tutto.

Quell’anno, eravamo a metà degli anni Ot-tanta, l’istituto per ragionieri di Orvietodecise di organizzare una gita scolasticasulla neve. Era la prima volta in tuttal’Umbria, regione in cui ovviamente nonera presente una tradizione sciistica. I pro-blemi da superare per consentire l’approva-zione del progetto da parte di Consigliod’Istituto e Provveditorato erano molte-plici, a iniziare dalle spese che avrebberodovuto sostenere i ragazzi. Poi c’era biso-gno della motivazione didattica. La gitaavrebbe riguardato soltanto terze e quarteclassi. Erano troppo acerbi i ragazzi diprima e seconda e le quinte avevano giàpronta la loro gita di fine anno.Animatori del progetto erano il professoredi Italiano e Storia Bertoni, che non avevamai messo ai piedi un paio di sci, il vicepre-side Luciani, provetto sciatore e responsa-bile organizzativo, e la nuova preside, unaquarantenne romana al primo incarico, at-tenta, disponibile, appassionata dellascuola e solidale, anche per simpatia perso-nale, con gli altri due colleghi. Natural-mente si aggregarono anche i professori dieducazione fisica, seppure non tutti con

Forse non c’è scempiaggine pari a quelladi passare la vita a leggere scrittori me-diocri perché sono nostri contemporanei.

•I libri intelligenti dicono le stesse cose deilibri stupidi, ma hanno autori diversi.

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medesimo entusiasmo, data l’originalitàdella disciplina, assente nel curriculumdella gran parte. Fu trovato in Trentino unhotel sobrio, poco costoso, isolato.La scelta era tra due discipline sciistiche,dipendente più dai quattrini disponibili infamiglia che dalla consapevolezza sportiva:sci alpino e di fondo. Il primo richiedevapiù spese e un’attrezzatura più complessa.Nello sci di fondo, a parte il noleggio deglisci, ci si poteva arrangiare e in più c’era unaprofessoressa di educazione fisica che si ri-velò una maestra eccellente e gratuita. Io avevo messo insieme i soldi appena suf-ficienti per l’iscrizione, una calzamaglia sucui vestivo un paio di pantaloni di nylon,un bel giaccone rosso, con l’interno estrai-bile in piuma d’oca. Mi sentivo adeguato ebello. A diciotto anni ero proprio bello equella gita avrebbe arricchito certamentele mie misere esperienze sessuali. Il noleg-gio degli sci costò poco e in quell’albergoisolato non c’erano occasione di spesa.A metà febbraio partimmo con due auto-bus e fu un’avventura indimenticabile: inquella gita scolastica vidi Dio. Le cose andarono così come vi racconto,più o meno.Per poter giustificare la gita con contenutipassabili, il programma prevedeva un corsodi “Parole e musica”, una specie di lezione didue ore al giorno, una cinquantina di ragazziper volta. Teneva l’incontro il professore Ber-toni e la musica che accompagnava le “pa-role” la selezionò Luciani. C’era un salonemolto grande nel piano interrato dell’al-bergo, un vecchio stabile isolato, con il pavi-mento in legno, la pista di fondo lì vicino, undue o tre stelle in cui non potevamo né allon-

tanarci né fare troppi danni. I ragazzi cheavevano scelto la discesa partivano la mat-tina con l’autobus e raggiungevano una sta-zione sciistica a una trentina di chilometri.Al ritorno era il loro turno di “lezione”.La prima sera il professor Bertoni ci fecedei discorsi strani sulla capacità della no-stra mente, sulle nostre straordinarie po-tenzialità e ci fece sperimentare alcuni eser-cizi di rilassamento, lo stato ideale, diceva,per comprendere le parole e ascoltare lamusica. Gli esercizi dei giorni successivi au-mentarono la mia capacità di rilassarmi evedere immagini mentali dettagliate, quasirealtà. Eravamo tutti coinvolti, anche i piùresistenti, anche quelli che avevano timorea chiudere gli occhi e lasciarsi andare. No-nostante fossimo una cinquantina per ognilezione, sdraiati sul pavimento, con un ma-glione sotto la testa, non c’era uno che fia-tava, soprattutto negli esercizi in rilassa-mento. Quando invece si parlava e ci siscambiavano impressioni con il professore,c’era una tranquillità inusuale e qualsiasitentativo di distrazione veniva frenato, per-ché Bertoni conosceva tutti per nome e ciriportava a lui prima che la mente si av-viasse per altre diramazioni, lontane dadove eravamo. E poi, essere conosciuti tuttiper nome, anche chi non era delle sue classi,rendeva più stretto il rapporto di fiducia emaggiore la sua possibilità di controllodell’assemblea.Straordinario l’esercizio costruito sulla mu-sica delle Quattro stagioni di Vivaldi, in cuiil professore ci portava in una condizione dirilassamento e ci descriveva la natura checambiava. Nella mente, ricordo, fluivanosensazioni legate alle immagini suggerite

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dalle “parole” che accompagnavano la“musica”, ma erano dentro di me, arriva-vano dalla mia vita: freddo e caldo, neve esole accecante d’Estate, il mio cane che miveniva incontro e alzava nella corsa fogliesecche, l’ansa del Paglia dove andavo apesca in Primavera, verso la Selva diMeana, il luogo che veniva alla mia mentenei momenti di pace e dove stavo bene. Intanto la professoressa Bonucci mi avevainsegnato a sciare sulla pista di fondo e lavacanza si rivelava fantastica. Avevo anchefatto amicizia con Laura, una della quartaA, bella, proprio bella, ma la vidi che fami-liarizzava molto da vicino con Roberto,troppo da vicino, e questo rovinò un po’ laperfezione di quei giorni e mortificò le mieaspettative sessuali.L’ultimo giorno, dopo che avevamo impa-rato a rilassarci velocemente e a costruireimmagini mentali dense come la realtà,Bertoni ci avviò all’esercizio finale del corso.Sdraiati sul pavimento, ci tenevamo permano. Il professore ci guidò fino a raggiun-gere un buon rilassamento. Poi con un sot-tofondo musicale incalzante ci guidò fuorida quella stanza, sopra l’albergo, e poi soprai monti e poi sopra l’Italia e poi sempre piùlontano, sopra il mondo e poi ancora più suverso un’immagine che ormai potevamo co-struirci soltanto noi. La musica era trion-fante e io vidi la luce da cui tutto provenivae dove tutto andava. Vidi Dio.Sentii Laura che mi stringeva forte la manoe piangeva. Vittorio, dall’altra parte, nonsi era alzato di un palmo, era rimasto spiac-cicato su quel pavimento e russava.

Igino Garbini

IN TRASFERTACON LA CARTOMANTE

Una ragazza per niente scema alle prese conun intreccio di magia e puttanesimo.

«Dopodomani dovrò fare un tour nellaCittà Eterna, già tutto predisposto, perchénon vieni con me? Che impegni hai?» chiesela maga a Priscilla.«Niente di importante, lo sai. Ma che vai afare?»«Mi ha telefonato quella mia amica che ge-stisce un hotel vicino alla stazione. Dice cheha già preso qualche appuntamento per lemie consultazioni esoteriche. Si tratta didue o tre giorni, vitto compreso in questoposto che è anche interessante. Poi quandovuoi, se ti va, dopo due o tre fermate te nevai a vedere i negozi in centro dove vannoquelli che hanno capito come si vive.»«Devo pensarci», rispose Priscilla spiazzatada quell’offerta inattesa.«Fai come credi… Se vieni mi fa piacere, losai. Comunque mia cara devi un po’ rea-gire, anche rimanere troppo passivi rende iproblemi più gravi. I cambiamenti li hovisti nelle carte, sono chiari ma questi di-pendono anche da te» le dichiarò la magautilizzando una delle sue formule più con-solidate.«Hai detto tre giorni? Ci penserò» risposePriscilla ancora dubbiosa.

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«Tu ci pensi troppo alle cose, non ruminaresul passato, dài muoviti! Se vieni devo te-lefonare subito alla mia amica per dirle checi stai anche tu. Non è un problema maperò devo avvertirla.»«Questa tua amica è la proprietaria dell’al-bergo?» le chiese ancora Priscilla per rap-presentarsi meglio la situazione.«Sì. Proprietaria anche di altri due apparta-menti nello stesso palazzo. Il marito, un ve-dovo molto più vecchio di lei, l’ha lasciatabene ma lei più che altro è una manager,molto esperta nelle pubbliche relazioni.»«Ok, vengo!» rispose alla fine Priscilla pen-sando ai soliti lunghi pomeriggi davantialla televisione.

“Nell’atrio del palazzo umbertino non c’erala hall dell’albergo, soltanto una targa diplastica illuminata vicino alla porta del-l’ascensore con scritto: Pensione Alba, 2°piano. Era uguale a quella che stava fuorivicino al portone sulla strada”.

«Alba è il nome della tua amica?» chiesePriscilla entrando nel piccolo e traballanteascensore vintage protetto da pareti in ferrobattuto.«No, ma la chiamano tutti così, ormai s’èrassegnata, puoi chiamarla anche tu così,signora Alba… Se non chiudi bene le portequesto non parte» disse la maga premendoil pulsante di salita per la seconda volta.«Ma ho chiuso bene!» rispose Priscilla esa-minando ancora quei malfermi sportelliniin legno e vetro.«Apri e richiudi, prova ancora, ogni tantomanca il contatto», le disse la maga inca-strata tra i trolley e con un enorme beautycase in finto coccodrillo in mano.

«Ci siamo, intanto suona!» ordinò la magaancora immobilizzata dai bagagli quandoarrivarono al piano.

«Accomodatevi», disse un portiere indianoal profumo di curry con camicia bianca epantaloni neri, mentre sistemava un con-sunto spessore di legno sotto una preten-ziosa porta in vetro e ottoni lucidi per farpassare agevolmente i bagagli.»«La signora Alba non c’è?» gli chiese lamaga entrando.«La signora la chiamo subito, sta nel sa-lotto rosa», annunciò il domestico men-tendo secondo le istruzioni ricevute. «Sei tu Lunetta? La mia sexy maghetta?»chiedeva Alba da lontano, ché aveva rico-nosciuto la voce dell’amica.«Sì Alba sono io!»«Scusatemi, mi stavo occupando dei mieirestauri mattutini. Sto ancora in vestaglia,lavori in corso, non vi impaurite, arrivo»,annunciò l’ albergatrice prima di apparirecon i bigodini celesti tra i capelli biondi os-sigenati.«Come stai cara?» le chiese la maga sbaciuc-chiando le guance incipriate della tenutaria.«Un po’ stanca ma mi difendo. E questabambolina che hai portato con te è una tuaamichetta?» «Sì, si chiama Priscilla, un tesoro vero? Propriouna caramellina!» diceva facendosi da parte permostrare meglio la figura nell’insieme.«Buon giorno signora!» disse Priscilla col-pita dalle pantofoline con tacco alto da pinup foderate con la stessa seta verde acquadella vestaglia.«Chiamami pure Alba, cara, tornate dallaspiaggia, siete state al mare?»«No, sai per viaggiare in macchina con que-

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sto caldo ci siamo mese un po’ in libertà.Scusaci, forse così siamo un po’ sconce.»«No, sconce no, ma tu Lunetta sai che ionon sono una bacchettona ma per il decorodell’albergo faccio molta attenzione atutto. Questo è un posto che è frequentatoda professionisti, diplomatici, alti prelati.Insomma anche la forma qui conta», chiarìla signora Alba.«E io sono anche tutta sudata», ammisePriscilla stiracchiando il suo striminzitoprendisole appiccicoso.«E secondo me sei anche un po’ puzzolente,dovrai fare una bella doccetta. Però credimiè una super femminuccia», aggiunse la ma-ghetta con affetto. «Si vede subito che questo esserino è l’og-getto del desiderio di tutti gli uomini»,commentò Alba con tono professionale.«Non direi proprio, mi ha anche lasciato dapoco il fidanzato», rispose Priscilla. «Sì, io mi riferisco agli uomini maturi» e poirivolgendosi all’amica maga: «Ti ho la-sciato la stanza quella con lo studiolo e vi-cino allo scrittoio ho messo il tuo tavolinotondo, tutto pronto. Ho preparato anche lecandele per i riti. Ho già preso qualche ap-puntamento, anche dopo le nove. Uno è lamia parrucchiera e l’altro per una personache lavora da un dentista, prima nonavrebbero potuto.» «Va benissimo Alba, se per te a quell’ora nonè disturbo per me va benissimo, grazie.»«Poi ti dirò altro, adesso scusami, devo con-tinuare i miei restauri. Ma questa tuaamica è una apprendista cartomante?»chiese Alba con disinvoltura. «No, è soltanto una mia amica che ho con-vinta ad accompagnarmi, sai, sta attraver-

sando un periodo di attesa per una nuovaoccupazione. Al momento ha tanto tempolibero.»«Ah povera cara, con quello che costa lavita oggi. . .Sì però si vede che non è cometante di quelle ragazze che purtroppo si in-contrano oggi, tutte uguali, solo tatuaggi egrilli per la testa. Oltre ad essere moltodolce e sensuale a prima vista mi pare chesia una di quelle piena di senso pratico.»«No, Priscilla non ha nessun tatuaggio, al-meno credo…» commentò la maghetta.«Hai controllato bene?» le chiese con sor-riso malizioso Alba lasciando trapelare im-prudentemente una visione molto disincan-tata della sessualità.«No, non ho nessun tatuaggio però forsequalche grillo in testa sì, come tutte.»«L’importante è sapere che nella vita nonti regala niente nessuno, bisogna avere deisolidi valori di riferimento. Questi ai gio-vani d’oggi purtroppo mancano. Forse ècolpa del consumismo, noi gli abbiamo datotutto e subito, ai nostri tempi era diverso…», commentò Alba tanto per far trionfarequalche rassicurante luogo comune.«In che senso?» chiese Priscilla«Nel senso che basta aprire il giornale, miacara. Nei i tempi che corrono c’è soltantoegoismo, c’è la crisi delle vocazioni deipreti, e le donne, mi spiace dirlo, sono lepeggiori, hanno perso anche valore dellamaternità, non fanno più figli per non ro-vinare le tette, una volta non era così. »«Perché?» chiese ingenuamente Priscilla,che ancora non aveva messo a fuoco il per-sonaggio che aveva difronte.«Allora cara signorina, intanto non c’è piùgratitudine. Tanto per farle un esempio, la

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penultima persona che ho aiutato aveva la-sciato il marito, che tra l’altro faceva il me-dico e guadagnava benino, mi viene presen-tata dalla mia manicure e mi chiede se po-teva fare qualche lavoretto qui in albergoper non dormire sotto un ponte. L’accolgocome una figlia e devo dire anche che lei iprimi tempi si dava da fare e si faceva volerbene da tutti. Poi all’improvviso, una sera,ricordo che era il mese mariano ed ero tor-nata dalle funzioni serali, mi dice: “O midai tremila euro o ti denuncio”.»«Ti denuncio per che cosa?» chiese Priscillache si stava avvicinando goffamente allacruda realtà delle pensioncine post Merlin.«Ma questa ragazza beveva?» chiese la ma-ghetta per divagare.«Voleva ricattarmi, dopo che l’ho accolta ele ho dato da mangiare, l’ho trattata comeuna regina, mi ha detto che io l’avrei isti-gata a poi sfruttata, io sarei stata per leidopo tutto una sfruttatrice. Io!»«Ma poi come è finita?”«Io sono una signora, è finita che anche sela spesa del riscaldamento, del telefono,delle tasse, insomma tutto è sempre a caricomio e sebbene anche il mio amico commis-sario mi avesse detto di non preoccuparmi,nel liquidarle la settimana non le ho adde-bitato il conto della lavanderia, duecentoeuro. Tanto per chiudere la faccenda.»«Quindi non le hai detratto i duecento eurodal suo guadagno settimanale.» «Sì, ha preso tutti mille e trecento della set-timana senza la detrazione della lavande-ria. Scusate ma forse sta suonando il tele-fono», disse prima di allontanarsi… seb-bene non fosse vero. Non aveva più nienteda dire.

«Ma questa?» esclamò Priscilla una voltarimasta sola con la maga.«Questa ti ha detto tutto subito, è statachiara, ha giocato a carte scoperte. Ti hafiutato, le sei piaciuta e ti ha offerto unacollaborazione professionale. Considera cheè una serissima manager nel settore pierre.»«Ma ’sta vecchia per me è scema! Ma cheha capito? Per chi mi ha preso?»«Non precipitare, stasera chiederemo allecarte, quelle non mentono. Anch’io sonouna sensitiva e seria operatrice dell’occultoe voglio soltanto aiutarti a realizzare testessa. Però quello che è scritto …èscritto.»

I libri non sono strumenti di perfezione,ma barricate contro il tedio.

•I piatti elaborati dalla letteratura mo-derna sono più da cuoco che da buongu-staio.

•I progressi della stampa hanno incorag-giato la moltiplicazione di libri sciatti eprolissi, mentre l’obbligo di ricorrere alloscrivano e al rotolo di papiro inducevaall’accuratezza e alla brevità. Ieri l’im-perfezione di un testo era involontaria,oggi non è detto che lo sia. Le rotative vo-mitano immondizia che non aspira a es-sere nient’altro.

•Il romanzo aggiunge alla storia la suaterza dimensione.

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Andrea Laprovitera

SCRIVIAMOSULLA SABBIA

Toccante ricordo del grande orvietano LuigiBarzini.

6 settembre 1947. Scriviamo sulla sabbia…tutto quello che scriviamo, che poi è il no-stro unico modo per lasciare una traccia delnostro passaggio su questa terra, è scrittosulla sabbia. Non resterà inciso sulla durapietra, non ci sarà tra milioni di anni a fa-vore di qualche studioso che sarà lì a cer-care di decifrare la nostra comunicazione,ma sparirà per sempre. Sarà inghiottitodalla sabbia stessa, oppure cancellato dal-l’acqua (che ha la sua memoria che nonvuole dividere con noi) o, infine, sarà cal-pestato da altri piedi. Niente resterà incisosulla sabbia e la nostra memoria, sparirà in-sieme a noi. Questo è il destino di noi uomini? Non la-sciare nessuna traccia del nostro passaggiosu questa terra? Eppure io credevo davveroa quello che facevo, credevo che lo scriverefosse come vivere e mi nutrivo di quella vitache andavo a cercare in ogni parte delmondo, lasciando indietro, e di questo nonmi pentirò mai abbastanza, anche la fami-glia e gli affetti più cari.La mia avventura è iniziata nel 1874, ma imiei ricordi balzano prepotenti al momentoin cui ho intrapreso la mia carriera da gior-nalista, inseguendo un sogno che era ancheuna vocazione. All’inizio del secolo sonostato a Londra, poi in Siberia (1901) e a

Mosca (1902), quindi ho attraversato laguerra Russo-Giapponese, c’è chi dice cheabbia scritto i più bei reportage di guerradel tempo, anche se non credo ci sia nulladi bello in un massacro. Io raccontavo, cer-cavo di farlo nella maniera migliore, ma co-stava fatica, paura e, a volte, anche dolore.Era però un tempo diverso allora, il mondosi stava ancora costruendo, la politica e lageografia erano talmente legate tra loro chedistinguerle era difficile. I confini si sposta-vano ogni giorno e dovevi stare attento adove ti addormentavi perché rischiavi disvegliarti in un’altra nazione. Quando la guerra finì, avevo bisogno di leg-gerezza, di avventura sì, ma quella purafatta di emozioni e sensazioni, non di fucilie baionette. Trovai nel raid automobilisticodel 1907 Pechino-Parigi e nell’ottimo pilotaScipione Borghese, il gusto della sfida. Gra-zie al mio giornale, ottenni di diventareparte del suo equipaggio. Per la primavolta un giornalista era anche protagonistadel fatto che stava narrando e non solospettatore. Vincemmo la gara, fu un trionfoper Scipione, per l’Italia e anche per me.Scrissi belle pagine, dense d’emozione e sen-timento, le mie parole, a volte, venivanocancellate dalla pioggia battente, la miamano, intirizzita dal freddo, non riusciva astringere la penna, eppure ricordo queigiorni come una grande gioia. Nella vita di uno che fa il mio mestiere civuole anche fortuna, un po’ di faccia tostae una buona dose di coraggio o incoscienza,se così possiamo chiamarla… era scoppiatala prima guerra mondiale, i tedeschi ave-vano invaso il Belgio e io, in quei giorni, mitrovavo proprio a Parigi e decisi di provare

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a raggiungere Bruxelles. Mentre tutti scap-pavano, giornalisti compresi, io arrivavo, fucosì che riuscì a scrivere, a presa diretta, senon i più belli di sicuro i primi articoli sullaguerra che stava iniziando e che avrebbecoinvolto tutti.Finita la prima guerra mondiale (ma a queltempo la chiamavamo solo Guerra perchéancora non sapevamo che ce ne sarebbestata una seconda e sarebbe servita una nu-merazione) mi trasferii con tutta la fami-glia a New York. Il nuovo mondo, la pro-messa di qualcosa di nuovo, ancora unavolta era la sete d’avventura che mi co-stringeva a spostarmi, come se lo starefermo, proprio come quei pesci che respi-rano solo se stanno in movimento, avessedecretato la mia fine. Fondai un giornalededicato agli immigrati Italiani perché sisentissero a casa anche lontani, ma nonebbe fortuna. Pochi sapevano leggere ec’era ancora diffidenza verso gli stranieri daparte degli americani.Tornai a casa appena in tempo, dopo che ilmio sogno editoriale era fallito, per scoprireche l’Italia era cambiata. Del mio rapportocon Mussolini e con il fascismo preferisconon ricordare, troppo recenti sono i fatti enon ho avuto ancora il tempo per sedimen-tarli nella mia mente, se mai ne sarò ingrado. So che sono passato attraversoun’altra guerra, la seconda, so che ho vistoi miei figli fatti prigionieri e morire lontanida casa. Mi chiedo se questo dolore ha unsenso e cosa si può scrivere in proposito.Non mi viene in mente nulla, sono un gior-nalista, vivo di cronaca e realtà, la fede èun’altra cosa, non so se sono in grado dicredere, ma ci sto provando.

Ora sono vecchio e quasi povero, non ho piùun lavoro e anche i sogni, come la giovi-nezza, sono fuggiti via. Ieri ho preso unadose troppo grande di tranquillanti, ma vo-levo dormire e fare un sonno senza sogniche per me sono dolorosi come gli incubi.Forse ho esagerato, come detto in prece-denza, non mi sono sentito bene e ora mitrovo in ospedale, da solo…Dovrei comunque essere grato alla vita,alla mia vita che mi ha dato tanto e forsenon è vero che le nostre parole vengonoscritte sulla sabbia, forse qualcosa restadavvero impresso… se non nei libri, almenonella memoria di chi ci ha conosciuto, neicuori dei nostri amici, nei figli che lasciamonel mondo, nelle persone che ci hanno vo-luto bene. Sono passato attraverso due se-coli, dalle carrozze e i cavalli alle auto dacorsa e gli aerei, forse il mio tempo qui è fi-nito. Chissà se anche aldilà di questa vita,nel mondo che ci aspetta, c’è bisogno di uninviato speciale?Sono pensieri troppo profondi, ora sonotroppo stanco, voglio solo chiudere gli occhie dormire. Riprenderò a scrivere il mio dia-rio domani, tanto non lo leggerà mai nes-suno… o forse sì, in fondo chi può direcome andranno davvero le cose. Buona notte a tutti i lettori, dal vostro in-viato...Luigi Barzini

(N.B: questa è una lettera “immaginaria”di Luigi Barzini che il giornalista scrive ilgiorno della morte nella quale ripercorre ifatti salienti della sua vita)

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Pier Luigi Leoni

NAZIONALI ZIGRINATE

Malinconico trasferimento di un frate cercatore.

Ero pratico del convento di San Rocco. Fudunque con la giusta dose d’energia che tiraila corda della campanella. Contai fino acento, il tempo solitamente necessario perudire i sandali di fra Leone che s’avvicinavaalla porta per aprirla, un po’ seccato e un po’circospetto. «Sia lodato Gesù Cristo!» dissisorridendo. E lui, sorridendo: «Sempre sialodato!» I sorrisi erano appropriati perchénon recavo seccature, ma piccoli doni chemio padre m’incaricava spesso di recapitareai suoi amici Frati Minori del convento diFarnese. Quella volta, incartati in un fogliodel Messaggero, portavo una scatola di Si-gari toscani per fra Leone e una stecca di Na-zionali zigrinate per padre Giorgio, il guar-diano, massima autorità del convento.Sigari e sigarette provenivano da Roma,dove mio padre si recava ogni tanto per farevisita alla libreria del suo amico editore Ar-mando, specializzato in testi di pedagogia. Le Nazionali zigrinate, che non si vende-vano nei paesi, piacevano al padre guar-diano perché la cartina non era tenutadalla colla. Cosa che sembrava renderle piùgradevoli e meno insalubri.Fra Leone era di poche parole. Intascò i si-gari, mi disse di salutare mio padre e m’in-formò che il guardiano era nell’orto. Raggiunsi padre Giorgio, che chiuse il bre-

viario e mi venne incontro. Dopo brevi con-venevoli, m’invitò a sedergli accanto su unmuretto, all’ombra di una pergola carica diuva non ancora matura. Si accese una na-zionale con una zippo e mi raccomandò dinon imparare a fumare; poi socchiuse gliocchi in atteggiamento di meditazione e,dopo qualche minuto, gli tornarono le pa-role: «Un tempo, dall’orto del convento,contemplavo ben altro panorama. Il con-vento di Santa Maria del Giglio a Bolsenasi affacciava su quello splendido lago chereagisce all’umore del vento cambiando so-vente colore e, quando si agita, non hanulla da invidiare al mare… Ma non eracosì per fra Giacinto, il cercatore che stavaqui a Farnese molto prima di fra Leone.Quando il padre guardiano gli comunicòl’ordine del padre provinciale di trasferirsia Bolsena, dove c’era bisogno di un nuovocercatore, fu preso dallo sconforto: “Quitutti mi vogliono bene; quando mi affaccioall’uscio di una casa, non faccio in tempo apronunciare il pace e bene che m’invitano asedere alla loro mensa. Se hanno cotto ilpane la mattina, mi offrono un pezzo di fo-caccia ancora tiepida. Comunque mi dànnogenerosamente da mangiare e mettonosempre a tavola il fiasco del vino. Che saràdi me a Bolsena, dove non mi conosce nes-suno?” Il padre guardiano cercò di conso-larlo dicendogli che Bolsena era una bellacittadina e c’erano vigne e oliveti, tanti ortie un grande e bellissimo lago. “Ma gente ac-quatica amicizia non pratica” si lagnò fraGiacinto. Né si convinse quando il guar-diano tentò di spiegargli che quel proverbioriguardava i porti di mare, dove approdatanta gente sconosciuta cui non è il caso di

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dare troppa confidenza. Ma i timori di fraGiacinto non erano ingiustificati. Non per-ché i bolsenesi fossero inospitali, ma perchéci vuole tempo per la messa a punto di giu-ste armonie tra persone che non si cono-scono a fondo. Quindi niente focaccia evino per il povero cercatore, niente inviti amangiare insieme. Cosicché fra Giacinto, alrientro dalla magra questua, soleva sederesu un masso davanti al convento di SantaMaria del Giglio e sfogarsi nel suo dialettociociaro, guardando sconsolato il pano-rama: “Ecco ’o lago, Giaci’. Attríppete”.»«Ma fra Giacinto pensava solo ad attrip-parsi?»«T’invito a considerare la cosa sotto unaltro aspetto. Fra Giacinto era un imitatoredi Gesù più di quanto non gl’imponesse laregola francescana. Gesù raccomandava aisuoi di entrare nella casa di chiunque e disedere alla sua mensa. Fra Giacinto,quand’era a Farnese, entrando in una po-vera casa verso sera, tirava fuori dalle sac-cocce qualche caramella, che aveva elemo-sinato al caffè o nelle botteghe, e facevacontenti i bambini. Costoro gradivano, masolo dopo aver ricevuto un tacito assensodagli adulti. Poi, se non aveva ancora ce-nato, accettava senza complimenti l’invitoa sedersi a mensa, benediceva l’immanca-bile piatto di pasta e fagioli e condividevacon la famiglia un po’ del cacio che recavanella bisaccia. Il vino non era quello buonoe a giusta temperatura del convento; ma,come puoi ben capire, non era la piccoladose di alcol che scaldava il vecchio cuoredi fra Giacinto.»

Aldo Lo Presti

IL SEGRETODELLA PIGRIZIA

La dolcezza della pigrizia sfuma nel presagiodi una brutta fine.

Ricordo quando molto tempo fa presi la de-cisione irrevocabile di non viaggiare più.Oddio, non che fino a quel momento fossistato un viaggiatore instancabile, tutt’altro.Onestamente, quindi, questo estremo radi-calismo non comportò chissà quale dolo-rosa rinuncia.Del resto, è universalmente noto che ogniscelta esclude tra tutte le alternative possi-bili quelle meno desiderabili, o che si sup-pone siano tali.Molto semplicemente m’accorsi di non es-sere affatto predisposto al nuovo, essen-done anzi fin troppo poco sensibilmente at-tratto.In effetti, nulla del viaggio riusciva a se-durmi: né i preparativi e né, tanto meno, laprospettiva di stare lontano dalle comoditàdella mia meravigliosa casa. E dico meravigliosa dal momento che hosempre associato all’idea del viaggio quelladella fatica e non della distrazione o del-l’evasione oppure, peggio ancora, del diver-timento.Oggi, però, di fronte non alla possibilità maalla certezza di vedermi decapitato, sven-trato, fiammeggiato, legato ed infine roso-lato, ancorché dolcemente, penso proprioche sarebbe stato meglio continuare a viag-giare piuttosto che voler fare solo il piccione.

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Gianni Marchesini

CAPPUCCETTO ROSSO

Una riedizione orvietana della favola, nellaquale vince il lupo.

Verso le tre di notte arrivò una telefonataal soccorso ACI della Stazione Ferroviariadi Orvieto.La moglie di Romolo accese la lampada sulcomodino: «Oh, ogni notte sta manfrina,possibile che tutti hanno rimesso l’inci-dente a st’ora?»Il mezzo del soccorso era parcheggiato disotto sul piazzale antistante l’officina diRomolo S., che aveva già infilato il suogiaccone rosso con il cappuccio.«Ti lamenti pure? Se l’armadio è pieno discarpe devi ringrazià ’ste chiamate dinotte, o mi sbaglio?» «Beh, a me mi scassano i coglioni uguale.Non se pò di’?».«Di’ ’n po’ quello che te pare, ma ce scom-metto che manco fò in tempo a ritornà chedomani hai visto un paio de scarpe che tesanno ’n amore..«Può essere…»

Quando Romolo partì cominciava a scenderela nebbia. Una nuvolaglia di svolazzi bassa,fantasmi evanescenti affiancavano il camionpreceduto da rotoli goffi fumogeni che anda-vano a disfarsi schiacciati dalle ruote.Il potente faro al centro, sopra la cabina,sparava un fascio di luce gialla abitata da un

mondo di pulviscolo e di insetti scriteriati.Aveva telefonato un tizio che diceva di tro-varsi per la strada del lago di Corbara conuna macchina catapultata dentro unaforma. Romolo godeva della solitudine perlui più ghiotta nella sua calda cabina, “lacameretta che non aveva mai posseduto”,il tabacco e la nafta, quegli odori consueticon la foto delle teste di lui e della sua bam-bina infilate in un salvagente a papera,emergenti dalle acque del lago di Bolsena.Ora la nebbia si era infittita, lo spettro delcamion procedeva come un mammouth inuna palude densa di vapori. La debole lucedel faro aveva calato il mondo dentro unaglassa biancastra di zucchero volante.Romolo decise di fermare il mezzo. Cosìscese per capire dove si trovasse mano-vrando il faro verso i lati della strada. C’erauna greppia alta contenuta da una rete diferro. A occhio e croce si trovava all’altezzadei Fori di Baschi. Avrebbe dovuto conti-nuare dritto dunque, alla cieca e a passod’uomo, fino alla stazione di Baschi dove lastrada faceva un’ampia curva a sinistra.Nel risalire il mezzo parve avvertire lo stri-dere di un graffio sulla lamiera dell’altrosportello. Volse lo sguardo in quel puntogiusto in tempo per scorgere il ritrarsi diuna zampa di animale.Corse allora dall’altra parte del camion.Nulla. Salì e fu per partire quando ungrande botto seguito dal tonfo di un corpolo fece saltare sul sedile. Pulì, frenetico, ilvetro dall’interno. Due occhi di bestia loguardavano, ebeti e feroci. Il lupo gli avevapoggiato le zampe anteriori e schiacciato ilmuso addosso al vetro tra i due tergicri-stalli e con le zampe posteriori toccava

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terra. Un animale lungo due metri, calcolòRomolo. “Parto, parto. Io parto..” disse frasé. Il lupo, ora a quattro zampe, si diressefulmineo davanti al camion. Romolo lovide procedere e subito indietreggiare piùvolte, sbirciarlo irrequieto e annusarel’asfalto, girare su se stesso torvo davantiai fari. Capì che tentava di indicargli lastrada. Il lupo si avviò infatti, deciso, alcentro dell’asfalto con il muso allungatoper proseguire con andazzo feroce. Romololo seguì fino alla stazione di Baschi dove labestia, in un lampo, si fece inghiottire dalnero fondo della campagna alberata.

Ora la nebbia s’era diradata. Romolo nonsi sentiva bene. Come se per strada avesseperduto una parte di sé. Quell’apparizioneimprovvisa, impensabile, il fatto accaduto,avevano dello sconvolgente: un lupo che ar-riva per soccorrere proprio il camion delsoccorso, nella nebbia. Come poteva spie-garsi? L’istinto negato del capobranco,forse? Ah, quanto è debole l’uomo, pen-sava, se appena non vede più il mondo cedealla prima bestia che arriva il comandodelle sue faccende.

Quando scorse il tipo che lo attendeva sulciglio della strada, un tremore freddo an-cora gli percorreva il corpo. Chiuse con di-sappunto il giubbone rosso e ne sollevò ilcappuccio.«Ciò messo tanto, vero? Ma purtroppo èscesa quella straccio de nebbia! Dov’è lamacchina?»L’uomo non lo guardò. Indossava unagiacca pesante allacciata fino al collo. Feceun cenno con il capo verso il campo doveun’auto verde scura era appoggiata alla

terra sollevata dall’aratro come se dormissepoggiata su un fianco.«Ora m’accosto e la tiriamo su. Voi mon-tate sul camion che avrete freddo.»Romolo scese per attaccare il gancio allamacchina, l’uomo salì illuminato e ab-buiato dalla luce intermittente del gobbo.«Il libretto di circolazione è intestato aMarta Marisi?» domandò Romolo chestava salendo al posto di guida.«È mia cognata, la macchina è sua…»«E voi?».«Io che?»«Voi come ce sete finito fuori strada, la mac-china non s’è fatta niente.. Com’è successo?».«Venivo da Perugia, m’ha attraversato uncinghiale…»«’Ste bestie! Mica se sa quante so’ diven-tate, stanno dappertutto…»

Il tremore sudaticcio di Romolo non ces-sava. Anzi, la presenza di quell’uomo loacuiva. La sua assenza sinistra, il volto ce-lato dentro i baveri allacciati, il silenzio an-simante, il parlare crudo, strafottente..Romolo raccontò del lupo, del modo oltrel’ umano con il quale gli aveva fatto stradasalvandolo dalla nebbia che lo avevaescluso dalla visione del mondo.L’uomo accennò un sorriso perfido: «Conquel giaccone che portate v’avrà scambiatoper Cappuccetto Rosso.»«Pò essere», rispose Romolo seccato e ac-costò brusco il mezzo in uno slargo di terrabattuta.«Ve dispiace se scendo a fa’ ’n goccio d’ac-qua che la ’sto a tene’ da più de ’n’ora?»«Scendo. Scendo anch’io…»

Alle sei e trenta del mattino la moglie diRomolo apprese da due Carabinieri che il

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titolare del soccorso ACI di Orvieto Scalo,suo marito Romolo S. era stato rinvenutomorto riverso al suolo con indosso il suogiubbone rosso lacerato in più parti nellapiazzola seminterrata appena i Fori di Ba-schi accanto al suo mezzo e che nel baga-gliaio della macchina che trasportava, erastato rinvenuto il cadavere di una certaMarta Marisi.Ambedue le vittime, sulla base dei primiaccertamenti, sembravano essere statesgozzate da una bestia feroce, presumibil-mente un lupo, le cui tracce erano state se-gnalate accanto al camion.

Maria Beatrice Mazzoni

ENTANGLED

Episodi “intrecciati”. “Citazione” della mec-canica quantistica, con effetto sorprendente einquietante.

La luce della luna piena sembrava forzarel’entrata della caverna in un silenzio abba-cinante che stordiva di contorni bianchi gliocchi ancora addormentati di Zeta. Distesasulla pietra fredda la donna contemplava isuoi pensieri come fugaci schizzi di luce ecolori sullo sfondo nero del buio. Il pesantemasso resisteva eppure fuori c’ era il mondocon i suoi immensi spazi e con troppi per-ché. Accanto a Zeta il capobranco odorosodi muschio e carne dormiva abbracciatoalla pesante clava. Gli altri, uomini edonne, giacevano qua e là’ più lontano dall’entrata. Zeta pensò alla giornata trascorsacome sempre, al vociare continuo delledonne, al ripetitivo raschiare della pietrasulle pelli, alle bacche raccolte, al ritornodel gruppo dei cacciatori. Questo era il suoieri, questo sarebbe stato anche il suo do-mani. Ma allora perché una strana tensionele impediva di abbandonarsi alla stan-chezza? Perché quella notte doveva esserediversa? Forse era colpa della luna. Il discodella dea bianca la invitava a pensare. Macosa voleva da lei la luna? Era forse invi-diosa del suo ramo di magnolia? Il suo com-pagno gliel’ aveva donato e l’avrebbe por-tato sempre con sé. Ora tutti avrebbero ri-

Il vantaggio dell’aforisma sul sistema èla facilità con cui si dimostra la sua in-sufficienza. Tra poche parole è difficilenascondersi come tra pochi alberi.

•L’oscurità di un testo non è un difettoquando quello che dice può essere dettosolo in modo oscuro.

•La coscienza tende, come un ragno, larete del lessico per catturare le idee chevolano negli spazi interiori come insettiebbri.

•La letteratura, se diverte chi la fa, annoiachi la legge.

•La prolissità non è un eccesso di parole,ma una carenza di idee.

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conosciuto in lei la donna più importantedel branco, la sacerdotessa, il tramite tra laterra e il cielo. Era ciò che Zeta desideravapiù di ogni altra cosa, ma non capiva cometutto ciò potesse essere. Troppo grande erail mondo là fuori e troppo piccola lei.

800 000 anni più in là nello spazio-tempo,su una piccola isola di fronte alle costegiapponesi il vecchio professore PrometeusYaro scrutava il cielo col cannocchiale.L’elicottero con i viveri ancora non si ve-deva. Forse c’ erano stati ritardi a causa deicontrolli militari.... Prometeus gettò via ilcannocchiale e, passeggiando nervosa-mente avanti e indietro, prese dalla tascaun’ampolla di vetro con uno strano li-quido…esclamando: «Maledetti neutrini.Se solo aveste più massa!» Da circa cinqueanni il famoso fisico nucleare, abbandonatii contatti con il resto del mondo, si dedi-cava alle sue ricerche solitarie. Aveva pia-nificato tutto con estremo rigore: vendutitutti i suoi beni, e comprato un isolotto dalgoverno giapponese, vi aveva segretamenteimpiantato un supercollisore di particelle.L’ unica persona al corrente dei suoi studiera il fedele maggiordomo Tofu, tanto si-lenzioso quanto zelante. Ogni settimanaTofu arrivava con l’ elicottero portandotutto il necessario per sfamare il padrone eassicurargli ogni tranquillità. Tofu igno-rava completamente lo scopo delle ricerchedi Prometeus. In realtà il professore avevain mente un’ idea grandiosa: un viaggio neltempo indietro di 800.000 anni fino allapreistoria. Voleva portare un grande donoall’ umanità: le conoscenze moderne inepoca antica. Cosa sarebbe accaduto se la

specie umana avesse avuto il doppio deltempo per progredire?Se qualcuno avesse accelerato il processo diconoscenza l’epoca contemporanea sarebbestata sicuramente migliore. Così ragionavatra sé il buon Prometeus.

Zeta quel giorno era stanca e desiderava re-stare un po’ sola. Si allontanò dalle altredonne con la scusa di cercare una selce. Siritrovò in breve sulla scogliera. Ai suoi piedil’ enorme distesa azzurra mormorava comeper rimproverarla. Si sedette su una piccolasporgenza rocciosa e socchiuse gli occhi, mali riaprì improvvisamente… una lucebianca l’ avvolse. Al bagliore improvviso diuna saetta e poi al rumore sordo che l’ ac-compagnò le compagne accorsero: un pic-colo fuoco scoppiettava là dove prima c’eraZeta. Il ramo di magnolia dai bianchi fioriiniziava ad ardere. Le compagne lo preseroe lo portarono al capobranco per annun-ciare la strana scomparsa. Ora il fuoco nonfaceva più paura: era un dono di Zeta, lasacerdotessa della luce. All’improvviso quelmattino qualcosa accadde. In un attimo loschermo del rivelatore impazzì, l’anellod’accumulazione entrò in funzione da solo,il motore del demagnetizzatore s’accese.Ora la capsula spaziotemporale registravaun quantitativo di energia sufficiente perandare fino al Paleolitico e tornare nellostesso giorno. Prometeus impostò i dati infretta: “Sarò di ritorno in tempo per capire,si disse, ah…il tempo…” e rise di cuorecome da anni non faceva. Quando Tofu loritrovò, carbonizzato e felice, lo schermomostrava ancora la data e l’ora : 6 agosto1945, ore 8.15.

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Barbara Medici

COME IL CIELOD’OLANDA

Irrequieto, plumbeo poi d’un tratto sereno,il cielo del Nord si apre e si allarga, respiraprofondamente con il vento che soffia vigo-roso e apre squarci tra le nubi, che solo al-lora si mettono in rapido movimento. Tal-volta ci sono nuvole arricciate che sovra-stano la campagna e riflettono sui campi leloro ombre sconnesse. Altre volte la lucevibra nella sua intensità e allora il cielo sifonde con il mare in un tutt’uno. Sconfi-nato, il cielo d’Olanda è potente, carico dipromesse e temperamento, ma basta un at-timo, un mutar di corrente, ed ecco che iventi umidi vi addensano alte nubi dalleforme più insolite o vi trasportano com-patte masse di grigi nembi. Poi, una rafficaimprovvisa, nata là nel mare del Nord,spazza via i vapori e apre gli orizzonti a unsole radioso che brilla nell’aria tersa. Sem-plice nella sua improvvisa complessità, ap-parentemente infinito eppure estrema-mente limitato, così questo cielo scuotel’animo sensibile in profondità, lo fa vi-brare al suo ritmo, lo stupisce e intimorisce,lo abbatte e poi lo risolleva.Quando è sereno, si riflette senza pudoresulle acque dei canali, fa da sfondo alle di-stese multicolore di tulipani, vive e ride allogirare delle pale dei mulini. Poi d’un trattosi abbatte plumbeo sul mare in burrasca, siispessisce e cala sulle dighe, precipita suitetti stretti delle case storte, fa da quintaalle facciate a campana. Ma ci sono anche

giornate in cui il cielo olandese apparebianco e piatto, così monotono che ti per-mea di pigrizia mista a tristezza, senti-mento che diventa melanconia quando calala nebbia e tutto si sfalda inesorabilmente.C’è tanta, tantissima varietà di pose in que-sto film che somiglia così tanto alla vita.Stati d’animo che si alternano, fasi e storieche cambiano; dolori e gioie, affanni, tempe-ste di ogni sorta alternate a momenti diquiete. Tutto insieme, un vortice di muta-menti la cui somma da un unico risultato perognuno di noi. Sorprendente, burrascosa, in-domabile, incontrollabile, poetica: così lavita e il cielo sotto il quale scorre. In tantihanno tentato e tenteranno di carpirne ilsenso, stabilire una regolarità nella casualità,una consolatoria ricorrenza di cicli.Per oltre due secoli la pittura di paesaggiofiamminga ha studiato acque, terra e cielo.Alcuni hanno puntato sulla precisione e lafedeltà realistica per coglierne l’essenza,altri ne hanno esplorato la valenza simbo-lica. Tutti hanno cercato un significato, unarazionalità, una regola che confortasse dal-l’ignoto. Ma non c’è un senso quando uncielo incredibilmente sereno d’una giornatad’estate muta repentinamente al passaggiod’una nube. Pare quasi che cambi stagionee latitudine, perché in men che non si dicaarriva una brezza maligna, portatrice di nu-vole color piombo che corrono ad oscurarel’orizzonte, per poi aggregarsi ed aprirsi alloscrosciare della pioggia. È stato un attimo,un cambio di scena da maestro nel teatrodella vita. Incostante come l’esistenza ter-rena, il cielo d’Olanda somma in sé tutte lestagioni. Caleidoscopio di cui godere e dasopportare, cielo e vita sono agenda su cuil’esistenza prende nota di sé nella speranza

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di trovare una chiave di volta. O almenouna chiave, anche arrugginita.Poi ci sono giorni, pochi e tersi come uncielo limpido, in cui lo senti prima con i tuoisensi e poi con la mente. È nel flusso vitaleil senso, nel qui e ora, nel sapersi piegare aiventi e alle tempeste dell’esistenza come ungiovane ramoscello: flessibile, saldamenteancorato a qualcosa, non si spezza ma sop-porta la burrasca e va avanti. Non c’è altroda fare. Una nuvola dopo l’altra, un piededopo l’altro. Scorre la vita sotto il cielod’Olanda come le nuvole che vi si affollanoper poi ripartire alla prima brezza buona.

HOBBEMA

Meindert Hobbema, Viale a Middelharnis, 1689, oliosu tela (103,5x141 cm) Londra, National Gallery

Amsterdam, dicembre 1709“L’avere come maestro lo stimato e da tuttiammirato van Ruisdael, non ha fatto di meun grande pittore; eccomi qui, solo e po-vero, a pochi passi dalla morte”, fu l’amaropensiero. Lì nel suo tugurio di RozengrachtStreet, Amsterdam, il vecchio era scosso daforti colpi di tosse. In quella stessa via 30anni prima era spirato van Rijn, anche luiin miseria e con solo i suoi amati strumentidi lavoro. Almeno però, prima che la for-tuna gli voltasse le spalle, i suoi dipinti

erano stati richiesti ed ammirati, e chissà,in futuro lo stile di Rembrandt sarebbestato apprezzato. Per lui invece, non v’erasperanza alcuna. E d’altra parte lui non po-teva considerarsi un pittore.

Meindert era nato nel 1638, in quella cittàin cui aveva vissuto gran parte della pro-pria vita. Figlio del carpentiere LubbertMeyndertsz, a 15 anni era stato messo inorfanotrofio insieme al fratello minore ealla sorella. Aveva scelto lui di chiamarsiHobbema, “giovane uomo”, perché questoera. Crebbe per forza di necessità, cometutti quelli che non avevano una famigliasu cui fare affidamento. Crebbe con il desi-derio di fare qualcosa nella vita. Poi ungiorno, ormai adulto, incontrò il grandepittore Jacob von Ruisdael, che lo presecon sé come apprendista e ne fece il suo pu-pillo. Con lui viaggiò nelle campagned’Olanda, alla ricerca di mulini e boschi dadipingere, animato dalla competizione conil suo protettore. Trascorse oltre due anni,dal 1655 al 1657 in viaggio al seguito diRuysdael, fermandosi in varie località, spe-cie nell’Est, dove fra le province di Drenthee Gheldria abbondavano quei siti pittore-schi che erano allora tutta materia da di-pingere. Perché in quegli anni il ritratto dipaesaggio era molto richiesto dalla borghe-sia olandese, al pari delle nature morte e deiritratti. Era la sua occasione, forse l’unica,e la colse. Ma non aveva un tratto che po-tesse definire proprio, stava ancora cer-cando la sua strada… Firmò delle opereche non ebbero il successo riservato algrande Ruisdael, maestro dei paesaggiolandesi, ma continuò lo stesso a seguire lastrada dell’arte per alcuni anni, senza suc-cesso, vivendo nell’ombra dei più grandi,

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senza riuscire a dare un senso alla sua esi-stenza. Poi la vita lo cinse nella sua spirale:l’incontro con Eeltije Vinck of Gorcum,cuoca del borgomastro di Amsterdam epoco dopo il matrimonio, celebrato il 2 no-vembre 1668 nella Oude Kerk. Aveva 30anni. In quello stesso anno assunse l’inca-rico di funzionario doganale per la verificadi pesi e misure dei vini importati.Con una moglie e uno stipendio, e poi deifigli, restava ben poco tempo per dedicarsialla pittura. D’altronde, non sentiva diavere qualcosa di speciale da dire. Pervent’anni mise da parte tele e pennelli, poiun giorno, mentre era impegnato con carteda firmare, bolle di vini appena importatidalla Borgogna e conti da controllare,scorse una cartella che non ricordava diavere, eppure a guardarla gli sembrava fa-miliare. La prese, soffiò via lo spesso stratodi polvere che la copriva e la aprì. Dentrovi trovò dei vecchi schizzi fatti anni primaquando viaggiava con Ruisdael. Uno inparticolare catturò la sua attenzione: raffi-gurava un lungo viale alberato, un villaggiosullo sfondo e ai lati campi coltivati e qual-che casa. Ora ricordava…

Olanda, 1689Erano in viaggio da settimane. Partiti daAmsterdam, erano diretti alle isole occiden-tali. Ruisdael voleva vedere dal vivo cielitempestosi ed ampi orizzonti, aveva biso-gno di cogliere i movimenti delle nubi inprossimità del mare, al confine con la terra,e di catturarne mutevolezze e colori. Cosìerano partiti ed avevano fatto tappa adHaarlem, per poi proseguire in direzione diLeida, passando per L’Aja e poi scendendofino a Rotterdam. Da lì avevano costeg-

giato il fiume fino al bacino d’acqua di Ha-ringvliet, che avevano attraversato in tra-ghetto. Una volta sbarcati avevano risalitoil canale, lasciandosi alle spalle Oostplaat.A breve distanza avevano incontrato il vil-laggio di Middelharnis. Per arrivarci ave-vano seguito la stretta strada di campagna,un lungo viale alberato che si perdeva inlontananza sotto un cielo azzurro percorsoda grandi nuvole minacciose. La strada erafiancheggiata da alti ontani dal tronco con-torto ed esile, la cima coperta da pochefronde, sicuramente piantati da poco. Il sel-ciato di terra chiara conduceva al villaggio,di cui si poteva vedere nitidamente, a sini-stra, la grande chiesa con il suo campanile.C’erano poche persone a quell’ora: unuomo incedeva lungo il viale, elegante-mente vestito, seguito dal proprio cane,mentre a destra un giovane e una donnachiacchieravano fra loro davanti ad ungruppo di case. Vicino al suo punto di os-servazione c’era poi un uomo occupato apotare alcune file di alberelli. Poi giù infondo al viale, in prossimità del villaggio,scorse delle sagome, ma erano distanti e siriusciva a malapena a percepirne le ombre.E pensò che quell’immagine, nella sua in-terezza, fosse ciò che da mesi stava cer-cando. C’erano la vita e la minaccia allastessa, rappresentata dalle grandi nuvoleplumbee; c’erano i sogni e le contraddizionidi quella sua terra, così ordinata e rassicu-rante a destra, laddove la mano dell’uomoaveva lavorato la terra e piantato gli alberi,ma selvaggia e indomita a sinistra, con ilboschetto e i cespugli inselvatichiti. Con ilmaestro si erano fermati sull’argine, luiaveva sistemato i cavalletti e poi si eranomessi al lavoro, ma mentre Ruisdael si con-

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centrava sul cielo e sull’inafferrabilità diquelle nuvole, lui aveva abbassato la suaprospettiva e si era messo al centro del vialeche conduceva a Middelharnis. Aveva usatoil carboncino per fare lo schizzo, partendoproprio dal tratteggio del viale alberato,per poi concentrarsi sulla disposizione degliedifici, quindi aveva spostato l’attenzioneprima a destra, sugli alberelli coltivati or-dinatamente, poi a sinistra, sulla natura li-bera e selvaggia. Aveva cercato di disegnareogni possibile dettaglio prima che la lucecalasse e non si potesse più lavorare. Alcielo aveva dedicato poca attenzione:avrebbe poi usato lo schizzo fatto dal mae-stro per colmare quel vuoto. Perché a luiinteressava la strada: sapeva dove condu-ceva, ma a vederla così si aveva l’impres-sione che potesse portare ovunque un uomodesiderasse o magari osasse andare. Perchélui non aveva mai osato, non aveva ambi-zioni. Ma adesso, lì e in quei mesi, avevasentito aprirsi nell’animo la porta dell’ispi-razione: che fosse davvero tutto possibile?Forse in quel 1689 era arrivata la sua occa-sione perché un giorno qualcuno si ricor-dasse di lui, per essere finalmente e piena-mente fiero di sé, per fare davvero qualcosadi buono. Quei solchi sulla via, lasciati daicarretti, gli apparvero allora come le rughelasciate dalla vita sulla fronte, sulle mani esoprattutto nell’animo, tracce inesorabilipresenti in ognuno di noi, che a guardarli adistanza di tempo generano persino qual-che rimpianto e, talvolta, un sorriso, mache restano comunque indelebili. Quandoera sceso il sole avevano ripreso le loro coseed erano andati al villaggio, ma a percor-rerlo davvero quel viale non aveva provatolo stesso fremito di piacere che aveva avver-

tito nell’osservarlo e immaginarlo. L’attesaera stata ancora una volta superiore alla re-altà. Mangiarono e dormirono nella lo-canda, poi il giorno seguente ripartirono.Poche settimane dopo fecero ritorno adAmsterdam. Ruisdael iniziò a lavorare suglistudi fatti in quei mesi e produceva opere agrande velocità. I suoi cieli tempestosierano sempre più richiesti. Lui invece eratornato a vini e dazi, ma non riusciva a met-tere via i disegni del viale di Middelharnis:c’era qualcosa di incompiuto che reclamavaa gran voce di uscire allo scoperto, di vivere.

Poi un giorno aveva trovato fra le sue cartequel disegno, e subito sentì risvegliarsi ilsangue nelle vene, sentì che doveva dare unsenso compiuto a quella via che portavaovunque e da nessuna parte. Così prese unatela, la preparò a dovere e iniziò a tratteg-giare di nuovo il viale, la chiesa, gli alberi ei campi usando i suoi disegni preparatori.Quando fu soddisfatto delle proporzioni edei volumi passò al colore. Non riusciva astaccarsi da quel viale: forse era solo un’os-sessione, o magari era arrivata l’occasionedi una vita. Il pennello fluiva sulla telasenza incontrare ostacoli, come sapesse giàdove andare. Solo il cielo rappresentava unproblema: Hobbema si sentiva incerto sulladisposizione di quelle nuvole, così chieseall’amico Ruisdael di mostrargli gli schizzifatti in quel viaggio. A quelli si ispirò per ilcielo su Middelharnis, pur capendo da su-bito che le sue nuvole non avevano la stessapotenza di quelle dipinte dal maestro. D’al-tronde, per lui il vero protagonista era ilviale. Poi terminò, e si sentì soddisfatto edappagato come se fosse stato infine quellolo scopo ultimo, il modo più autentico peresprimere se stesso. E con sua grande sor-

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presa Ruisadel apprezzò molto il quadro fi-nito, al punto che si offrì di trovare un buonacquirente. A ripensarci lo ricorda ancoraquel nodo alla gola e quel senso di angosciache lo colse: non aveva immaginato di se-pararsi dal dipinto, in fondo lui non era unpittore… ci aveva provato ma ormai queltempo era finito. Però aveva colto quell’at-timo fugace in cui l’ispirazione ci illuminae ci fa sentire che stiamo facendo la cosagiusta, ciò per cui siamo venuti al mondo.E allora capì che solo dando al dipinto lapossibilità di vivere al di fuori del suo au-tore avrebbe potuto compierne il destino.

Amsterdam, dicembre 1709Gli anni erano trascorsi lenti ed indorabili,senza mutamenti, né troppo miserevoli nétroppo lieti. Adesso, con la falce dellamorte a pochi passi dal suo giaciglio e quelvecchio schizzo in mano, si domandò chefine avesse fatto il suo dipinto del viale aMiddleharnis. L’ultima volta che ne avevachiesto notizie gli fu detto che lo aveva ac-quistato il consiglio cittadino del villaggiodal lungo viale alberato. E se lo immaginòcome era allora, con quei tronchi esili eppurtenacemente radicati a terra, in balia delvento e delle tempeste. Si chiese se fosseroancora ai lati di quella strada o se qualcunonel tempo fosse stato abbattuto, dall’uomoo dal destino. E si rivide lì, il bianco vialedavanti a sé: immaginò di seguire quei sol-chi, alzare la mano in direzione del conta-dino intento a curare i suoi alberelli, per poiincrociare l’uomo con il cane e salutarlo conun cenno del cappello, voltarsi verso la cop-pia intenta a parlottare e capire che eranodue giovani fidanzati, quindi proseguire inmezzo agli ontani e… ma il disegno glicadde dalle mani.

Giulia Parrano

ZORA

Storia di una possibile rinascita del pianetaTerra da una possibile catastrofe.

Dietro la finestra dove un pallido raggio disole attraversava l’aria grigia, Zora si guar-dava le mani. Mani che infaticabili e pa-zienti, ma ormai stanche, avevano lavoratoa lungo alla rigenerazione di androidi, chepochi e malridotti erano scampati insiemea una manciata di umani, a un cataclismache un tempo aveva sconvolto la terra. Unvecchio scuro palazzo rimasto in piedi,dopo tutto quello sconvolgimento era usatocome laboratorio e deposito di rottami re-cuperati nel tempo. Materiale prezioso perla riparazione dei robot ancora efficienti.In quel laboratorio, Zora era nata e cre-sciuta. E lì, bravissima, era rimasta conti-nuando il lavoro, dopo la morte dei geni-tori, con la sola compagnia di Eli. Eli erauna droide-babysitter che i genitori le ave-vano assegnato alla nascita.Il pulviscolo denso e pesante aveva inghiot-tito quel pallido raggio di sole. Zora infilòcon stizza le mani gonfie di stanchezza nelletasche del grembiule, poi lentamente si ac-costò al tavolo dove il corpo artificiale diEli era disteso con il torace aperto. Per l’en-nesima volta, Zora guardò impotente quelcorpo sintetico che non riusciva più a rige-nerare. Certo, lei aveva cercato, cercato ecercato ancora, tra i mucchi di rottamisempre più grandi la fibra e i sensori perpoter riattivare quel cuore spento. Ma di

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buono in quei mucchi non c’era più niente,tutto era inutilizzabile… come le suemani… sempre più dolenti. Zora si sedettedavanti al quel corpo consunto. Avvilita, loguardò ancora: chi era per lei, Eli? Solo lacompagnia di un robot che aveva fin dallanascita? L’unica amica? O solo il riflesso disé stessa? Pensava addormentandosi con latesta poggiata sul tavolo. Si risvegliò al-l’alba. Il grigiore, lo stesso grigiore di tuttii giorni schiariva la stanza. Si alzò pesante-mente dalla sedia , aveva le gambe intorpi-dite, girò per la stanza vuota, in una agitataincertezza. Certo! L’avrebbero portata viase non poteva più lavorare. Via! Alla perife-ria insieme ai vecchi e ai malati. Erano ledure regole della città, che viveva al limitedella sopravvivenza. Sentì dei passi pesantiche si avvicinavano lungo il corridoio, allar-mata, rimase in ascolto dietro la porta, conil fiato sospeso, e respirò soltanto quando lisentì allontanarsi sulle scale. Non erano ve-nuti per lei. Non questa volta.Piegato sul tavolo, accanto a Eli c’era il suoindistruttibile costume rosa (tipico delledroidi-baby-sitter) e completo di marsupio.Un pensiero, un’idea di fuga balenò nellamente di Zora. Sapeva che solo loro, gli an-droidi potevano entrare e uscire libera-mente dalla città. Senza pensarci due volte,con gesti febbrili s’infilò il costume rosa eriempì il marsupio con le scarse provviste.Poi nascose Eli. Non voleva che finisse nelmucchio di rottami. La nascose in unostanzino che solo lei conosceva, celato die-tro l’unico armadio della stanza. Scese lescale con i piccoli identici passi dei robot.Era mattina inoltrata, nessuno badava alei. Sui marciapiedi qualche guardia-an-

droide controllava lo scarso via-vai dellagente dai volti chiusi e tristi. Due droidi-sentinelle erano a guardia dell’unica portadella città. Nessun umano poteva usciresenza lasciapassare. Non badarono a lei,che attenta ai piccoli-identici passi, con ilcuore in gola, usciva dalla città.Fuori si trovò su un sentiero polveroso alcentro di una terra scura, bruciata. Cam-minò di buon passo per un tratto poi, respi-rando tranquillamente, sentendosi al si-curo, si volse a guardare la città. Dalla pe-riferia dietro la palizzata, dove stavanotutte le persone non più autosufficienti, sa-liva il fumo. Saliva davanti alla città deso-lata e nera.Libera!...era libera! se lo ripeté, e se lo ri-peté travolta da una vertigine gioiosa chenon aveva mai provato.All’imbrunire camminava ancora su quelsentiero polveroso, in mezzo alla terrabrulla. Aveva la gola secca e gli occhi gonfidalla polvere. Non aveva più acqua e pocoera rimasto delle provviste. La felicità perquell’improvvisa libertà conquistata, si eratramutata lentamente in smarrimento.Non aveva incontrato nessuno: né animaliné androidi e tantomeno umani. E quando,sfinita, pensava di non farcela più, propriolì, sul ciglio del sentiero vide tra lo scuriredella sera, delle rovine; vi si inoltrava unostretto passaggio, ancora visibile, che finivasu un spiazzo. Al centro, dal tubo corrosodi una fontana quasi tutta crollata, uscivaun rivolo d’acqua. Zora assetata com’era,vi incollò le labbra aride, e bevve avida-mente. Poi si rannicchiò in un angolo tra lerovine, sopra un mucchio di vecchie foglieportate dal vento. Si addormentò con in

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bocca un vago sapore metallico, lasciatodall’acqua. Il biancore dell’alba che filtravatra le rovine la svegliò, dalla terra salivauna foschia lieve. Finì l’ultimo bocconedelle sue magre provviste e dopo aver dinuovo bevuto abbondantemente, si rimisein cammino. Man mano che procedeva laterra intorno a lei diventava sempre menodesolata, Qua e là chiazze di verde compa-rivano sempre più spesso e l’aria era piùchiara. Poi lo vide… Un uomo, con una tu-nica e una barba bianca veniva verso di lei.Non credeva ai suoi occhi era… una vi-sione, sì, una visione, si pizzicò più volte ilbraccio, ma la visione non svanì; anzi eralì, davanti a lei e le chiedeva, gentilmentema con occhi indagatori: «Chi sei?» «Michiamo Zora, vengo da una città senzanome, che si trova a un giorno di cam-mino.» L’uomo non le chiese altro, ma lefece cenno di seguirlo.Poco dopo il sentiero cominciò a restrin-gersi e a serpeggiare tra i sassi caduti dallerovine. Rovine che apparivano sempre piùestese. Camminarono a lungo su una pistaaccidentata. L’uomo si muoveva rapido,zampettando su gambe magre come stec-chi, tanto che Zora su quel duro percorsofaticava a stargli dietro, distratta anche dauna vegetazione sempre più folta, che lariempiva di meraviglia. Era già seraquando la pista finì di fronte a un anfrattoverde, lussureggiante. Vi passarono piegatiin avanti attraverso un pertugio dissimu-lato tra le foglie.E fuori, ciò che apparve, lasciò Zora senzafiato: piccoli appezzamenti di terreno col-tivato scendevano sulle rive di un placidolago azzurro, in alto su uno spiazzo, conalle spalle un giovane bosco rigoglioso, una

bassa costruzione in parte danneggiata e ri-parata con materiali più vari, aveva un cor-tile. Al centro ardeva un fuoco; intorno unesiguo numero di abitanti aspettava dimangiare. Una donna, in un angolo, suicarboni incandescenti, mescolava unazuppa dentro un pentolone. Quando li vi-dero arrivare, la guardarono stupiti, poi ri-volsero occhiate interrogative all’uomo che,mentre si accomodava nell’unico postovuoto, il suo, disse qualcosa che li tranquil-lizzò. Poi tutti si strinsero invitando Zoraa sedersi tra loro, che stanca e turbata dallaloro curiosità, accettò con piacere la sco-della di zuppa che le veniva offerta. Cominciò così la sua vita tra quella gente.Su un lato di quell’edificio, in una grandesala, erano raccolte un’infinità di cose, por-tate lì dai sopravvissuti al cataclisma e la-sciate alle generazioni successive. Zora vipassava molto tempo, le mani erano miglio-rate, così cercava e riparava oggetti che po-tevano essere utili al villaggio. Poi ungiorno, per caso, trovò un libro. Lo sfogliòcuriosa; era pieno d’illustrazioni che la in-cantarono. Però non capiva quei piccolisegni, che sotto le illustrazioni riempivanole pagine, anche se intuiva che narravanola storia del pianeta. Così corse dal Maestro(Il Maestro era l’uomo che l’aveva portataal villaggio) e gli chiese, con la voce raucaper l’emozione, di insegnare a scrivereanche a lei, come faceva con i bambini delvillaggio. A mano a mano che imparava aleggere, passava sempre più tempo tra ilibri. Quasi non s’accorse che era arrivatol’inverno. Quel giorno faceva molto freddo.Il cielo era basso e scuro, tirava un ventogelido, così, tutti stavano davanti al fuoco

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all’interno della casa. Il maestro leggeva,gli altri lo ascoltavano attenti, i bambinimezzo addormentati stavano abbracciatialle madri. All’improvviso si sentì bussarecon forza alla porta. Il Maestro attonitosmise di leggere, e guardò gli altri stupitiquanto lui. Il silenzio era assoluto, si sen-tiva solo il crepitare della fiamma. Poi unbambino stropicciandosi gli occhi scesedalle ginocchia della madre, corse allaporta. L’aprì.Un giovane uomo e una donna sfiniti e ba-gnati entrarono tra lo sbalordimento ditutti. La donna era in avanzato stato digravidanza «Aiutateci ! disse il giovane,mia moglie ha le doglie. Camminiamo datre giorni.»«Ma come siete arrivati qui?» chiese il Mae-stro con un tono sorpreso nella voce.«Ci ha guidati il fumo che abbiamo visto dalsentiero», disse il giovane mentre allungavale mani grandi e callose davanti alla fiammadel camino. Intanto la moglie con il voltocontratto dalla fatica, sfinita dal doloredelle doglie, era stata fatta distendere concura su un giaciglio dalle altre donne, che lerimasero accanto aiutandola a partorire.Albeggiava, era un gelido mattino d’in-verno. Durante la notte era nevicato. Zora,con il bambino tra le braccia, che aveva co-perto con i panni più caldi, guardava da die-tro l’unica finestra intatta, il cielo grigio ebasso dell’alba. Una coltre bianca, immaco-lata copriva la terra. Zora strinse la piccolamano del bambino. Sapeva che un giorno, isegni del destino incisi sul palmo di quellapiccola mano, avrebbero solcato quella can-dida distesa. La terra era uscita dal lungotorpore … Tutto ricominciava.

Luca Pedichini

LA RIFORMADELLA SCUOLA

Ipotetica, ma non improbabile catastrofe dellascuola in mano ai suoi riformatori ministeriali.

Era il nostro momento e ci chiamò.Lo intuivamo già da tempo. Era sempre intiro e lo ripeteva come una nenia sfog-giando il sorrisone delle grandi occasioni edun foglio di carta.Noi dovevamo leggere ogni stupida frasecon voce tonante.Prove, ogni settimana in un crescendo co-stante.Ci chiedevamo cosa avesse voluto otteneredalle nostre giovani voci già così poco abi-tuate a parlare, figuriamoci a tuonare comesoldati di un altro tempo.Forse voleva solo pavoneggiarsi o come di-ceva spesso, educarci.Quale parte di una commedia stava elabo-rando?Ma stavolta era per noi.Noi della quinta B, del piano terzo, di quellascuola che il tempo aveva già corroso.Le scale con i loro consueti cigolii, le antechiuse a stento, i bagni senza riparo, senzaspecchi, bagni fetidi.Studiare lì era già un esame superato.Ci riunimmo in quella palestra di sport delpassato.«Sarete i protagonisti del domani. Se non

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andrete all’estero potrete marcire in questestrade fino ad essere vecchi nell’animaancor prima che nel corpo.»Fu questa la premessa del prof.«Oggi potrete dire che i giorni vissuti tra ibanchi saranno eletti a guida di una vita.»Poi un cenno che richiamò il silenzio. Noi,generazioni di penne a sfera, subivamo ognisanto giorno i programmi del ministero peressere classe dirigente di domani.I futuri dirigenti di un altro fallimento.Tutto era scritto su quel foglio che svento-lava nelle sue mani, quel foglio che adessopretendeva di essere letto con tono vivo erombante.Il prof ci fece disporre per tutto le spaziodella palestra. Si diceva che da un mo-mento all’altro sarebbe apparso il ministro,la scorta, la processione dei dirigenti. Oc-casione per metterci in mostra e come sem-pre i leccaculo già spintonavano per leprime file.Arrivò il Ministro e subito prima loschiocco di mani del prof che, come unmaestro d’orchestra, portando gli indici alcielo, sancì l’inizio.«EVVIVA LA RIFORMA DELLASCUOLA! EVVIVA IL MINISTRO!» ri-suonò come un inno in tutto il palazzo, nelpaese e nella mente boriosa del ministro.Risuonò e iniziarono a cadere calcinacci, lerampe delle scale collassarono, le porte sischiantarono contro i corridoi e quando isolai crollarono l’ultimo VIVA LASCUOLA si strozzò nelle nostre gole pienedi polvere prima di morire.

Enzo Prudenzi

VOGLIO VOLARENEL VENTODELLA VITA

Una donna che ha cercato di adattarsi almondo com’è ritorna delusa alla fede e agliideali della giovinezza.

Ho incontrato Rachele qualche giorno fa,casualmente, dopo tanto tempo che non lavedevo.Bionda, alta, lineamenti delicati, ne ero in-vaghito dai tempi della scuola.In realtà Rachele annoverava tra i proprifans tutto l’universo maschile del liceo. Ele compagne erano per nulla invidiose per-ché lei non ne voleva sapere dei corteggia-tori, respingendo tutte le proposte e leavances dei ragazzi. Tutta casa, scuola echiesa andava a Messa e faceva la comu-nione la domenica, si dedicava ai poveri, fa-ceva l’accompagnatrice ai malati in viaggioper Medjugorje o Lourdes.Diceva di voler tendere a una condizione fi-nalizzata a emanciparsi dal proprio ego, ve-dere faccia a faccia Dio e identificarsi cosìcon tutto ciò che vive, in maniera da amareogni creatura, anche la più modesta, comesi ama se stessi: quindi integrità morale,onestà, assenza di malizia, castità, dominiodelle pulsioni della mente e del corpo, eranole sue coordinate di vita.Quando qualche ragazzo “ci provava” lei

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arrossiva, abbassava gli occhi quasi a schi-vare l’impatto, fuggiva via con la scusa diun impegno vero o ipotetico.Pensavamo tutti, noi compagni di studio,che si sarebbe fatta suora, magari missio-naria, per dare tutto e di più agli altri: e sa-rebbe stato un peccato, pensavamo inoltrecon malizia, perché in effetti era una bellaragazza, che sarebbe divenuta una belladonna, una cara invidiabile moglie.Io ero riuscito a stabilire con Rachele unrapporto più penetrante di quello deglialtri: con me riusciva ad aprirsi, a raccon-tarmi i suoi stati d’animo, le sue passioni evocazioni, i suoi sogni e desideri. Confessan-domi tra l’altro che sarebbe voluta arrivarevergine al matrimonio riuscii almeno a ca-pire che non si sarebbe fatta missionaria.Mi parlava di un mondo più conforme aldecoro, alla dignità, al pudore e soprattuttopiù giusto: dove i ricchi fossero stati menoricchi e i poveri meno poveri e i modesti piùgratificati. Frasi ricorrenti e scontate, maproblematiche ancora oggi attuali e perciòirrisolte. Cercava già da allora quell’isolache non c’è.Ma mi parlava anche di una adolescenzavissuta con solitudine esistenziale, di man-canza di certezze assolute e del vivere incompagnia di molti dubbi, di avere accet-tato i limiti imposti dalla natura umana ene parlava come fosse una donna molto piùmatura della ragazza dalla giovane etàquale era.Dopo il diploma di maturità ognuno presela propria strada in due facoltà universita-rie diverse: qualche sporadico contatto te-lefonico fino a che non ci sentimmo più,anche se con mio grande rammarico.

Averla incontrata a distanza di oltre ven-t’anni mi ha confermato quello che tuttiimmaginavamo: sempre bionda, i linea-menti sempre dolci, la maturità la rendevaancora più bella di come me la ricordavo.Tanta commozione da entrambe le parti,abbracci, una sentita emozione interna cheentrambi abbiamo avuto modo di riuscirea mascherare.Ho riconosciuto anche la sua voce quandosi è messa a parlare dei professori, dei nomidi chi era in classe con noi, delle circostanzee occasioni vissute a scuola.E poi ancora complimenti, effusioni, gioiareciproca.Seduti al bar dell’angolo abbiano ordinatoun aperitivo: un analcolico io, un gin toniclei che mi ricordavo essere astemia. Ave-vamo venti anni di vita da raccontarci, ma-trimoni, figli, lavoro …Ha cominciato col narrarmi la sua meta-morfosi. Si era sposata con un collega di la-voro al quale, da cattolica, aveva offerto lasua verginità, poi però si era separata dalmarito senza averne avuto figli, qualcheflirt dopo la separazione, ora conviveva conun uomo più giovane di lei. Impiegata inun ente pubblico e impegnata nel sinda-cato, non frequentava più parrocchie o mis-sioni. Mentre mi raccontava, parlando an-siosamente e non stupendosi del mio stu-pore, io l’ascoltavo senza proferire parola e,nel vederla così caratterialmente cambiata,subivo il suo nuovo charme, il sex appeal esoprattutto il carisma che emanava.«Scherzo volentieri, ho amici, mi diverto, illavoro va bene… sono gentile con il pros-simo e a tutto ciò posso aggiungere ancorala mia bellezza.»” mi diceva tra l’altro.

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Si dimostrava sicura di sé, aveva un lavoroimportante, aveva una sua pagina facebook,twittava, interfacciava su whatsapp… duecellulari tra le mani. Capii che demandavala sua felicità, o almeno quella che dimo-strava essere tale, ai risultati nel lavoro enel sociale, talvolta nemmeno del tutto di-pendenti da lei; risultati prevalentementedi carattere materiale da fare a pugni conil concetto spirituale, come felicità, surro-gato di autostima, e ciò sviluppava in leiuna forza di volontà nevrotica.Le chiesi allora se riteneva che la vita chestava vivendo fosse quella che si era sceltao piuttosto era stata indotta da altro, se siera mai interrogata recentemente su chifosse lei veramente e che cosa avrebbe vo-luto dalla vita stessa, se accettava il mondocosì com’era, se si sentiva realizzata in que-sto tipo di esistenza che era in palese nettocontrasto con le sue vocazioni giovanili.Si fece pensierosa per un po’ e a me sembrònel contempo di averla messa in difficoltà.Chinò gli occhi, vidi le sue guance bagnatedi lacrime che tentai di asciugare, mentreun singhiozzo le si strozzava in gola.«Sai ? …Ho mentito…. Ho mentito sulmio stato d’animo. Faccio sì la vita che tiho detto, ma non sono per nulla appagatae felice. E ho pensato molto in questi ultimitempi a quello che mi hai detto tu po-canzi…. E ti debbo fare una confidenza…una cosa che ho programmato da un po’ ditempo: voglio volare nel vento della vita;ho già pianificato ogni cosa… Alla fine diquesto mese mi ritiro in un eremo per unameditazione spirituale e chissà… che que-sto ritiro non sia definitivo!»

Antonietta Puri

VENTO

Il vento, che rappresenta nella Bibbia il mo-vimento dello Spirito, costringe l’Autrice auna intensa meditazione.

TeofanieCominciò nella tarda mattinata di un mer-coledì, il primo mercoledì di gennaio e delnuovo anno.Parlo del vento. Cominciò che ero in piazzadel Duomo, appena dopo aver chiuso l’om-brello che mi aveva riparato fino a quel mo-mento da una pioviggine tetra. Di colpo ilcielo si aprì e un raggio di sole accese l’orodella cuspide centrale della facciata - quasil’annuncio di una teofania - dove un Cristoin trono, in tutta la sua regalità, incoro-nava sua madre, appena assunta in cielo.Contemporaneamente, venni investita dauna folata gelida che mi scompigliò i ca-pelli, rivoltandoli prima a destra poi a sini-stra, cacciandomeli a tutta forza negli occhie appiccicandomeli sul rossetto . Rabbrivi-dii fino al midollo; mi strinsi forte nel piu-mino, ne chiusi la zip fino al collo e avvolsila mia sciarpa in un’altra spira. Era un vento che sapeva di neve, un ventoda nord che, portando con sé invisibili aghidi ghiaccio, raccolti sull’Appennino, ferivale pelle. Dicono che la voce di Dio venga danord, portata dal vento.

Respiro della TerraIl vento gelido continuò per tutta la notte,per tutta la giornata successiva e nei giorni

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che seguirono, superando le tradizionali seriedi tre, sei, nove giorni di durata; imperversòsenza tregua, squassando le persiane, minac-ciando di sradicarle dai cardini; rovesciò te-gole e vasi, frustò, piegò e spezzò rami, torsee scompigliò le chiome degli alti pini fletten-done i tronchi; fece volare, a nugoli, insiemeagli storni, le residue foglie secche dei plataniche mulinavano a lungo nell’aria, prima diposarsi a terra e spiccare di nuovo il volo.Erano tempi duri per il mondo: delitti ese-crati e inauditi si perpetravano tra simili econtro la natura: vidi nel vento tempestosol’inspirare sibilante della terra e il suo pro-lungato espirare per risucchiare ed espelleretutto il male che noi, insetti molesti, voracie distruttivi le stiamo procurando.

InformazioniDal decimo giorno in poi, cominciai a nonpoterne più di quel rombo continuo ed esa-sperante che si arrestava per pochi minuti eriprendeva con maggiore forza. Non uscivoquasi più, se non per andare al lavoro. Di-ventò quasi impossibile camminare per lestrade battute dal vento di nord est che titoglieva il respiro se lo affrontavi, o ti spin-tonava sgarbatamente se gli voltavi le spalle.Perché? C’era bisogno di risposte. Volli im-maginare che il vento, con la sua insistenzaprepotente venisse da luoghi altri per por-tare informazioni che, tuttavia, nessuno riu-sciva a comprendere, se non lavorando difantasia; allora cercai di dargli voce: ”Ehi,voi…, sono venuto a ripulirvi le coscienze…È ora che vi risvegliate! Non sentite l’arianuova che tira? Mettete spirito fresco inquello che fate! Il mio rumore assordantevuole solo tacitarvi le menti, le vuole svuo-tare dagli arzigogoli insensati perché pos-siate riempirle di senno…”. Mah, chissà…!

Tentazioni. Instabilità dell’Amore e dei giuramenti di fedeltàAl ventesimo giorno di bufera, quasi maiconsolata da un raggio di sole, se non brevee temporaneo, mi sentii vagamente isterica,ma al tempo stesso molle e languida: volevofare, disfare, fare di nuovo…, ma non fa-cevo nulla e poiché - come si sa - l’ozio è ilpadre dei vizi, e nonostante fossi ormaiconvinta che il vento stesse facendoun’opera di repulisti generale, la mia mentecominciò a divagare e ad indulgere versoinutili e sterili rimuginamenti, seguiti da un“Perché no?”. Era sempre colpa del vento:tutto porta con sé, persino le tentazioni equanto di inaspettato può sorprenderti.Seguì, sempre accompagnato dal leitmotiveolico, il frutto dell’apprendimento pre-gresso; ed era sempre colpa del vento che,come d’improvviso si alza, altrettanto re-pentinamente si ferma e tace.

Raggelamento della coscienza e vaticinioPoi cadde la neve; cadde compatta easciutta da un cielo bianco opalescente e,sospinta dal vento di borea, si addossavamulinando contro gli spigoli delle case econtro i vetri delle finestre, colpendoli confitte raffiche di piccoli fiocchi induriti. Lamia consapevolezza raggelata postulava illetargo. Pur di non ascoltarmi, avrei prefe-rito addormentarmi sotto quella gelida col-tre, senza mangiare, senza bere, senza muo-vermi, senza quasi respirare… morire o ger-mogliare. Ma non dormii; chiusi gli occhi escesi in profondità dentro di me, a lungo, elì dentro rimasi sgomenta nel constatarecome il mio paesaggio interiore fosse ingom-bro di vecchia neve, spalata, ammassata,sporca, che da tempo parlava e vaticinava.

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Un raggio di sole improvviso e inaspettatoportò un grato tepore. Interpretai il vatici-nio come buono. Ma il vento soffiava forte,modificando la forma delle candide dune.Eravamo al venticinquesimo giorno di tra-montana, che continuava a imperversareurlando, soffiando, scuotendo, ma da qual-che raro segnale si poteva intuire che ormaisarebbe durata ancora per poco. La neve siera completamente disciolta.

Contesto e moraleÈ un racconto questo? Non saprei: è forsepiù una cronaca metafisica (mi si perdonil’espressione), ma ho voluto registrarla peruna singolarità, forse insignificante per chilegge, ma non per me.Ieri l’altro leggevo il libro di Murakami“L’elefante scomparso ed altri racconti” edero giunta al racconto intitolato “Il secondoassalto a una panetteria” quando, distur-bata o meglio turbata ancora una voltadalle raffiche del vento, sospirando, inter-ruppi brevemente la lettura e mi dissi: “Maperché questo vento non la finisce più…;saremo condannati a subirlo notte e giornoper l’eternità? Dio, fai che passi…, non losopporto più. Che assillo continuo e insen-sato…!”. E via dicendo, con altre meste la-mentazioni. Riaprii il volume dove tenevol’indice come segnalibro e finii il racconto.D’improvviso il vento cessò. Quasi non riu-scivo a crederci. Voltai pagina per leggere ilsuccessivo e il titolo era: ”Il vento del mondoscatenato”. Il protagonista, verso la fine delracconto - che è in prima persona - parlacon la sua fidanzata che è intenta a prepa-rare una cenetta intima : “Chissà come maitutt’a un tratto si è messo a soffiare con tantaforza, e poi altrettanto improvvisamente ha

smesso?” le ho chiesto. “Mah, chi lo sa!”, harisposto lei, sempre voltandomi la schiena,mentre sbucciava con le unghie i gamberetti.“Ci sono un sacco di cose che non sappiamo,a proposito del vento. Come ci sono un saccodi cose che non sappiamo a proposito dellastoria antica, dei tumori, del fondo marino,del cosmo o del sesso”.

Credo in un senso recondito della realtà.

Loretta Puri

MASTER SCEFFE

Loretta se la prende con gli chef stellati di-cendo loro, in vernacolo bolsenese, che sap-piamo benissimo che ci stanno prendendo peri fondelli.

Ma mó, Antonino Cannavacciuolo conquella gran panza che s’aritrova, mica pen-sarà che davero davero je credemo chemagna le corna de le lumache prima mari-nate coll’aceto barsamico, poe fritte corburro chiarificato, poe ancora affumicateco’ un legnarello de gèrso moro e ’nfine’mpiattate cor pisello odoroso caramel-lato... Ma daje retta! Come nun pò èsse che’r granne sceffe stellato Carlo Cracco,quanno s’aritira a la sera, ne la su’ bella cu-cina Scavolini, se mette a fa’ ’r piccione ri-pieno… ma ripieno de che? Ma pe’ riempìco’ n’oliva tagiasca ’no scialacotto cascatodar nido e quindi aggià spiumato, daje ’na

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riggiratela mar tegame quanto quanto,perché sinnò perde tutte le propietà nutri-tive e organolettiche, adaggiallo poretto suun letto de miele d’acascia, perché ’piccionese sa, se sposa bene coll’ape, e pe’ finì co’’na grattatella de scorza de limone per giu-sto apporto calorico, che cacchio de cucinaadè? Me le sapete di’? Ma poe che becchefine che ciànno ‘ste cuoche... ce l’ò ancheco’ Mauro Colagreco de Toppe Sceffe, sì,quello che dice: tres, dos, uno, vamos! Maanche lue, tarchiato ‘n quer modo, pensateche davero davero magna quello che cucinain televisione? Capirae, vònno sentì dentroa la bocca de tutto e de più… Co’ un miseroassaggino, vònno sentì le rotondità ner pa-lato! ’R croccante e ’r morvido in un’armo-nia colorata, ’r callo e ’r freddo in una sin-fonia flautata, ’r dorce, ’r salato e ’r pizzi-core giusto senza spigne troppo, che esplo-dono tutte ner gustoso e ner soddisfacente!Ma porettannóe che coraggio! ’Nvece ve ledico io queste che sognono… sognono detrovà dentro a la closce ’n ber piatto de mi-nestra de patate e faciole fatta cor battutocome se faceva ’na vorta, col lardo, la per-sia e l’ajo, con ’n soffritto che durava lemezz’ore e cor bolloretto finanta a sera, nole mattarìe! Qué, sognono lòro, je piace-rebbe sentì là pe le vicole quer tin tin tin dercurtello su la battilarda e quell’odore bonoche te consolava, che anche noe nun sen-timo più da anne e annorum pe dà retta maste sceffe stellate che dettono pure le tempe!Che co’ cinque minute a tocco d’orologgio,pretendono che vae col laccio a la cerca deun majale vivo, possibilmente de razza decinta senese, che lo scanne, che je sfile tutto’r budello culario, che però t’à da servì solo’n pezzetto bada bene, e sto pezzetto l’àe da

riempì de Puzzone de Moena, poe l’àe da fa’a fettine non tanto grosse e non tanto fine,e doppo ’na bella sporverata de zuccoro ecannella, l’àe da mette su per ‘r forno a mi-croonne, e all’urtimo minuto l’àe da’mpiattà co du’ pele d’erba cipollina sbol-lentata ner Cannonau! Ma n’è mejo ’nabella scarmarice su la bracia??? Ve dirrò dipiù, se queste vengono a Borzena e assag-giono la sbroscia fatta coll’acqua del lago,cotta mar pignatto sur foco, se leccono artroche le baffe… e si vònno, sa quante budelleraschiate sur trasto de la barca e buscighede tinca je ce famo trovà drento! Ma volemoscherzà davero davero?

Nicoletta Recchia

L’AMOR MATURO

Un anziano non si rassegna alla solitudine.Cerca l’amore vero e, dopo deludenti espe-rienze occasionali, incontra l’anima gemellanel circolo anziani. Proprio dove non inten-deva cercarla.

“Non sono un rottame nonostante l’età lopossa far pensare!”. Giovanni questa frasese la ripeteva come un mantra. Ammiravaancora le donne. Le vedeva passare, annu-sava il loro profumo di rose e miele, cercavagli occhi intensi di malizie velate e si per-deva nelle curve dolci di latte e velluto. Leaveva sempre cercate le donne, corteggiate,stare in loro compagnia, fare sesso con loro.

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Alcune le aveva amate, altre ingannatespudoratamente. Le desiderava ancoratanto, ma ora si sentiva diverso. Qualcosain lui era cambiato. Provava paura! Unapaura che non è vigliaccheria, ma consape-volezza che non poteva più permettersi ditardare. Sentiva l’urgenza di un amore.L’amore vero, quello capace di muoveretutto, sempre.Quanto tempo era che non amava. Sussur-rare ti amo, stringere al petto una donna,baciarne le labbra socchiuse, offerte con fi-ducia per abbandonarsi insieme e sciogliersinel desiderio. Quanto tempo era che nonamava. Troppo! Doveva forse rinunciarci,assopire ogni emozione, frenare ogni im-pulso, solo per la convenzione che vuole ivecchi senza più stimoli. No, mai! Non cirinunciava. E non sopportava di esserechiamato vecchio! Aveva anni vissuti,molti. Aveva amato, aveva sbagliato. Avevalavorato molto, nell’attesa di un tempo mi-gliore che ancora aspettava. Era passatotutto in fretta, senza che se ne accorgesse.Con arroganza aveva creduto di avere tuttoil tempo che voleva, per fare ciò che deside-rava. Ma il tempo era passato in un attimo,in un batter di ciglia.I figli gli dicevano di stare tranquillo, di go-dersi la vecchiaia, lo volevano accanto alcamino con il plaid sulle ginocchia. Ma chene sapevano loro di quello che gli ardevadentro, quale fuoco si tormentava per tro-vare il suo sfogo. Che ne sapevano loro dellasmania di vita che sentiva ancora e ancora. Giovanni si era iscritto ad un sito Web d’in-contri. Una buona opportunità di incon-trare donne. Era stato facile iscriversi,aveva solo dovuto pagare un abbonamento

e compilare il suo profilo con i dati perso-nali. Foto accuratamente scelta, data di na-scita, altezza, peso, colore occhi e capelli,città di residenza, titolo di studio, lavoro,reddito e una piccola descrizione d’effettodi sé stesso, per far colpo sulle eventualidonne che avrebbero visitato il suo profilo.Requisiti della sua ricerca, una signora ma-tura, dinamica, desiderosa di vivere ancorabelle emozioni, per una relazione seria e sen-timentale. Durante la giornata si collegavaal sito col telefonino. Faceva scorrere i pro-fili delle donne utenti del sito, li leggeva at-tentamente e se ne trovava uno consono aisuoi gusti, inviava un messaggio in chat easpettava la risposta. Ora l’astuzia per es-sere preso in considerazione dalla signoracontattata, era di inviare un primo salutosimpatico, quasi ruffiano, facendo compli-menti per il profilo della stessa. Poi aggiun-gere alle parole di saluto un emoji con fac-cina ammiccante. Giovanni riponeva moltesperanze in questa ricerca in rete.Gli amici lo avevano messo in guardia daeventuali donne mercenarie che popolanoquesti siti. Ma lui non era certo un ragaz-zino e, se pur nuovo a questo tipo di espe-rienza, capiva perfettamente che potevaimbattersi in una donna di questo tipo. Lasoluzione era selezionare con molta atten-zione. I contatti in chat diventarono semprepiù numerosi, lo scambio di messaggi in-tenso e Giovanni iniziò a incontrare alcunedi quelle donne, accuratamente selezionate,che ovviamente avevano accettato il suo in-vito. Ogni volta era un’emozione conoscereuna donna, uscire con lei, chiacchierare,una cena insieme e poi, se il piacere era re-ciproco, organizzare una serata intima. Si

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sentiva eccitato, aveva le vertigini come inuna giostra. Incontrava una donna dopol’altra. Passava le giornate a contattarle, ainviare messaggi, a organizzare incontri. Ilsesso non mancava. Le frequentava perqualche tempo e poi non riusciva ad andareoltre. Consumato il primo momento di at-trazione, si esauriva l’interesse, svuotato diogni sostanza. A poco a poco l’eccitazionedel primo momento si spense. Dopo ognifrequentazione finita, si sentiva più triste.Non era più appagato dal sesso fine a séstesso e capiva che era amaramente difficiletrovare la persona giusta da amare, conquesto sistema.Un giorno un amico lo invitò ad andare conlui al circolo che frequentava. Gli disse cheavrebbe avuto la possibilità di conosceremolte persone. Giovanni non era molto en-tusiasta, quel luogo gli sembrava un ritrovodi gente ormai decrepita, che giocava acarte e organizzava cene caserecce. Ma pernon dare un dispiacere al suo amico che in-sisteva tanto, accettò. Era un martedì po-meriggio, un giorno senza pretese e ambi-zioni. Giovanni si disse che avrebbe fattoun giro a carte, parlato del più e del meno,preso una caffè, mangiato qualche biscot-tino fatto dalle signore del circolo e poi sa-rebbe ritornato a casa. Il suo amico lopassò a prendere e andarono insieme. Il cir-colo era dentro la villa comunale dovec’erano i giardini pubblici. Era un belposto, questo bisognava ammetterlo. C’eraanche un laghetto con cigni e papere. Il baraveva una bella sala grande e fuori sul giar-dino un’area con tavoli, proprio di fronte allaghetto. Giovanni si accomodò ad uno diquesti, mentre il suo amico andava a pren-

dere due caffè. Sorseggiando silenziosa-mente il caffè, se ne stava seduto a guar-dare due cigni che sfiorando la superficiedell’acqua con eleganza candida, giravanocercandosi l’un l’altra. È risaputo come icigni siano fedeli. Una volta trovato il com-pagno o la compagna giusta, restano in-sieme tutta la vita. Mentre assaporaval’aroma intenso del caffè, fissava quei cignie si perdeva nella loro danza amorosa.Ad un certo punto il suo campo visivo fuattraversato da una donna che si appre-stava a gettare del cibo ai cigni. La sua vi-sione fu disturbata e guardò quella donna.Era una signora piacente, con un visodolce. La osservò incuriosito. Finito di dareil cibo ai cigni, la donna si girò e, evidente-mente sentendosi osservata, lo ricambiòcon un sorriso. Lui rispose sorridendo conun certo imbarazzo e distolse immediata-mente lo sguardo. La signora andò ad ac-comodarsi in un tavolo vicino, con quelleche dovevano essere le sue amiche. Ledonne si misero a chiacchierare e a bere deltè con biscotti. Giovanni non poteva fare ameno di guardarle con la coda dell’occhio.Chiacchieravano, si agitavano, scoppiavanoin risate, si alzavano, andavano, ritorna-vano, sorseggiavano il tè, mangiavano i bi-scotti e parlavano, parlavano. Poi, proprioquella signora si alzò con il cestino dei bi-scotti per offrirli a tutti. Si avvicinò a Gio-vanni che, più imbarazzato di prima, neprese uno e ringraziò. Da vicino la guardòmeglio, aveva due occhi azzurri intensi e simuoveva con grazia. Ne era affascinato, do-veva confessarlo. Chiese al suo amico comesi chiamasse e se fosse una signora libera.Anna, si chiamava Anna ed era vedova.

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Ormai il pomeriggio volgeva alla sera edera tempo di rientrare. Il giorno dopo Gio-vanni andò al circolo da solo. Sperava di in-contrarla. Tutta la sera prima aveva imma-ginato un modo per parlare con lei, per co-noscerla. Si sentiva impreparato, non sa-peva come affrontare il primo approccio.Con le donne che aveva frequentato in quelperiodo, era stato facile, le aveva contattatetramite il sito d’incontri. Ma con lei, conAnna, era diverso. Comunque non si sco-raggiò. Dopo tutto bastava essere sponta-nei, presentarsi, offrire un caffè o un tè etutto si sarebbe svolto naturalmente.Appena arrivato la vide. Stava sul marginedel lago a guardare i cigni. Perfetto, dovevasolo avvicinarsi e iniziare a parlare. Eraemozionato. Appena due passi dietro chelei si girò e si illuminò in un grande sorriso.Giovanni si presentò e le si mise affianco.Lei disse solo il suo nome. Rimasero a guar-dare i cigni in silenzio. Poi la invitò a pren-dere qualcosa al bar. Si misero seduti e par-larono per tutto il pomeriggio. Era buioormai quando si lasciarono. Il giorno doposi incontrarono ancora, davanti al laghettoa guardare i cigni. Giovanni ormai era completamente cottodi quella donna. La invitò il sabato a cenae poi a ballare. Incominciarono a frequen-tarsi assiduamente, facevano molte cose in-sieme. Condividevano delle passioni co-muni, come il teatro, la lettura, la buonamusica. Sentiva un forte desiderio perAnna. Aveva capito da alcuni atteggia-menti, che anche lei provava lo stesso desi-derio, ma non voleva forzare la mano. Ungiorno Anna lo invitò a cena a casa sua. PerGiovanni fu una felicità profonda che nonsentiva più da molto tempo.

Rifletteva. Se avesse frequentato primaquel circolo, si sarebbe risparmiato tantedelusioni. Le amicizie si fanno condivi-dendo i propri interessi, scambiare pensieri,idee, frequentandosi in maniera spontanea.Solo questo può far nascere un sentimento.Giovanni ora lo sapeva. Davanti alla portadi Anna si sentiva come un adolescente alprimo appuntamento. Suonato il campa-nello, restava lì in piedi con le rose in mano.Lei aprì la porta e lo accolse con quel suosorriso dolce. Giovanni entrò col cuorepieno d’amore.

Andrea Schiazzano

I SOGNI FERITI

Fantasticherie di uno scrittore possibile.

La luna è crescente, magnifica nel suo pal-lore splendente, m’ispira sogni e versetti.Compongo pagine a caso, cerco un nessoma penso che posso farne anche a meno,posso evitare di spremermi le meningianche stasera nel tentativo di scrivere qual-cosa di soddisfacente, tanto è vano da unpezzo. Procedo a tentoni fra scarabocchi efrasi ridondanti, di colpo si materializza da-vanti a me, chiaro come la luna, un titolo:“Cecità di un poeta in bilico fra perdizione edisoccupazione”. Parole che mi eccitano e

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suonano potenti - il banale potere della ve-rità -, ma, dopo un momento, so già che do-mani lo sostituirò (con uno più breve ma-gari). Di nuovo uno sguardo alla luna, poichino sul taccuino a scrivere “Oggi mi sonosvegliato e ho pensato «Per fortuna!»”.Non è vero, ma può essere un inizio convin-cente per uno dei miei soliti flussi di co-scienza nero su bianco... il mio professoredi inglese mi aveva detto di non fidarmitroppo di Joyce!Il mio professore di inglese, per la cronaca,mi diceva di non fidarmi troppo di nessunautore, pena la depersonalizzazione: sonosempre stato un tipo influenzabile e nonpotevo rischiare di assumermi la responsa-bilità di pensieri altrui e ideali marci, soloapparentemente per me illuminanti. Ungiorno si permise persino di suggerirmil’abbandono della strada letteraria, di pro-gettarmi un futuro fattibile e facile, diguardare a orizzonti possibili e di accanto-nare l’ambizione per accettare il limitedell’essere umano in quanto umano, vinco-lante e imprescindibile per il raggiungi-mento della felicità, a suo dire. Era statoun sognatore, mi raccontava, e non volevaprovassi la medesima sua delusione nellacollisione dolorosissima con la realtà. Presile sue parole come una sfida. Quindi, natu-ralmente, la collisione fu ancora più dolo-rosa.I miei genitori credevano nelle mie velleitàdi scrittore, o forse, più concretamente,nella mia caparbietà. Provarono malde-stramente a nascondermi la loro delusionequando, ottenuto l’agognato diploma clas-sico, annunciai di non voler diventare giu-dice come mio padre o pediatra come mia

madre. Io volevo fare - rullo di tamburi - loscrittore. Così, mentre mio fratello esaudivai desideri di papà e mia sorella soddisfacevale aspettative della mamma, io, che ho sfio-rato la pubblicazione dei miei scritti benquattro volte, mi ritrovo qui, stasera, a go-dere della malinconia della notte da solo.Un panorama romantico da vivere con untaccuino, oggetto magico della mia fiaba ir-realizzata, escamotage narrativo per arri-vare da nessuna parte; un panorama ro-mantico che non posso condividere con nes-suno, eccezion fatta per una leggera formadi depressione leopardiana. Ce l’avevo, “l’amichetta”, nomignolo concui i miei nonni usavano riferirsi a una miaipotetica fidanzata. Mi ha lasciato e mi haispirato più quando mi ha lasciato chequando mi ha baciato. Una volta distruttoil mito dell’amore, all’alba dei trent’anni,potevo ricostruirlo senza coinvolgimenti efantasticarci su, cioè idealizzarlo senza bru-ciarmi. Altro fallimento, perché, a metà delmio romanzo sull’amore, mi è morto il PC,portando con sé quella storia che, avrei de-ciso poco dopo, non avrei mai più riscritto.Mi sa che era destino. Il sole si erge timido sul mio capo, posso an-cora guardarlo senza giocarmi la vista. Èl’immagine con cui si concluderà il mioprossimo libro. Questo me lo pubblicano,sono sicuro. Parla di uno scrittore senzasanti in paradiso, che, dopo una nottatasveglio a contemplare la luna, arriva allasvolta con una storia incredibile, la sua. Èora di alzarmi e cercare un bar per fare co-lazione: ho fame di cornetti e di vita.

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Laura Sega

IL SOGNO

La storia di un orfanello che, a disagio nelmondo, volle raggiungere la mamma.

Quasi tutte le sere, quando l’imbrunire ini-ziava a concedere i colori rossastri al cielo,Vincenzino saliva le scale di quella minu-scola casa rialzata scavata nel grigioreumido del tufo.Eppure, quel tratto mesto e muffo si facevanobile passaggio ai suoi occhi spalancati eingenui: era l’antro amorevole e sicuro dacui scorgere un “domani”.Ad aspettarlo, acquiescente e materna c’eraChecchina, una giovane sposa e mamma delpiccolo Luchetto, un fagottino rosa tremo-lante di non più di dieci chilogrammi.Da quando la madre di Vincenzino eramorta, il padre, rozzo bracciante marem-mano, trovatosi improvvisamente nonadatto e solo, s’era accompagnato a un’al-tra donna che ben presto esercitò la mali-gnità propria delle peggiori matrigne.Le crude angherie spinsero il povero Vin-cenzino a rinchiudersi in un dolore com-presso che riusciva a sciogliere solo nell’af-fetto di quella modesta e fresca famiglia.Quel pomeriggio, mentre Checchina dime-nava i polsi sulla sfoglia paglierina delle fet-tuccine, Vincenzino, paziente guardiano delsugo, mescolava con metodo affinché quellonon raggrumasse intorno al rame della pi-gnatta. Questa era appoggiata sull’ultimo

cerchio della ghisa nerastra della stufa chesprigionava un odore acre di fuliggine e po-modoro.Tutto a un tratto si alienò, trascinato nellatenebra della sua solitudine. Vincenzino,nell’assenza vitale del suo sguardo torse dilato il busto reclamando sommessamentesu di sé attenzione, e senza che i suoi occhispenti seguissero quel gesto inconsapevoledisse: «Checchì, la matrigna è tanto cattivacon me. Voglio andare dalla mamma.»Il suono ovattato e ramingo di quelle parolesi fece eco assordante. Il crocifisso dell’an-gusta cucina spoglia precipitò dalla paretespandendo a terra la polvere rugginosa delsuo chiodo.L’aria ormai rarefatta si tagliò netta nel-l’insostenibile rumore del silenzio imposses-satosi di tutto.Checchina, impietrita, rifugiò in un’appa-rente pacatezza il suo spaventato stupore.Il sugo si animò minaccioso nel ritmo im-preciso e denso del suo bollore. Il suo cuore,rallentando, si unì in un tetro contrap-punto allo spasmo ansimante e liquido diquel tegame infuocato. Nell’imbarazzo diun abborracciato disimpegno ingoiò quel-l’aria e la spinse fino allo stomaco tanto chele fu difficile rifiatare per intervenire decisae perentoria: «Ma si può sapere che dici?Non dire mai più una cosa simile!»Smorzò così, in uno sgrido impulsivo, inge-nuo e un po’ sguaiato, quello che fu unostrappo violento e strano alla normalità diquel pomeriggio.Vincenzino si raccolse dentro le spallestrette e, salutando Checchina, disse: «Civediamo domani!»

L’indomani Checchina non si svegliò ripo-

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sata. Tentò un accenno complice al maritonella ricerca miserevole di tacita compren-sione, ma con lo sguardo allusivo e colpe-vole di chi non riesce a trattenere il peso diuna minaccia incombente.Rimase così, rappresa e vittima della suastessa inespressa angoscia.Come tutti i sabati, Vincenzino non andavaa scuola così si presentò presto a casa diChecchina che dopo avergli preparato la co-lazione gli chiese di tenere un po’ in braccioLuchetto.Il ragazzo, orgoglioso, baloccava con inso-lita disinvoltura il piccolo il quale rispon-deva agitandosi vivace e allegro tra le suebraccia.Nel gioco di quei movimenti, imprevedibil-mente, il bambino gli fuggì dalla presa.Prima che Vincenzino realizzasse l’immedia-tezza del pericolo, Luchetto era già cadutoa terra esplodendo in un pianto accorato.Checchina corse a raccogliere Luchetto chegià rideva e, portandoselo al petto, non riu-scì a trattenere un secco e violento rimpro-vero per Vincenzino. Il primigenio istintomaterno prevalse sulla sua solita indul-genza tanto che il ragazzo, colpevolizzato,si chiuse nel mutismo e senza salutare se neandò.

Il giorno abbandonava pian piano il suochiarore e Checchina sentiva a poco a pocoaffiorare l’oppressione di un senso di colpa.Invocò il perdono di qualche stella irrevo-cabile che invece si dissolse nel blu severodella notte. Chiusi finalmente gli occhi, Checchina siaddormentò e sognò, si agitò, contenuta eimpotente prigioniera del suo letto teatrodi immagini inverosimili e irreali.

Al risveglio si spogliò della cautela che inprecedenza le impedì di liberarsi e allegge-rirsi di quell’ansia e riferì al marito di averfatto un sogno tremendo. Lui, accarezzan-dole i capelli, mitigò il suo volto preoccu-pato impedendole, di fatto, di raccontarlo.

Era domenica e quando fu quasi l’ora dipranzo Checchina notò che Vincenzino nonera arrivato con la sua solita puntualità.Il marito, da poco rientrato dalle riposantichiacchiere domenicali di piazza con gliamici di sempre, avvicinandosi a Checchinache apparecchiava la tavola, le disse: «Di-cono che Vincenzino non si trova. Da ierisera nessuno lo ha più visto.»Per la seconda volta quella stanza divennetestimone narrante di pensieri angosciosiormai dissolti nel suono malinconico di uninconfessato presagio.Checchina raccolse gli occhi e le mani, re-spirò e dopo una breve pausa disse: «Vin-cenzino è morto. È salito sulla quercia giùa Musignano. Gli ho detto di scendere, malui ha continuato fino su in cima. Il ramosi è spezzato e lui è caduto sui sassi dentroil ruscello che arriva alla cartiera. L’ha tra-scinato la corrente fin laggiù. L’ho sognatostanotte.»

L’indomani, si seppe che Vincenzino fu tro-vato lì, dove terminava il corso d’acqua,alla cartiera. Senza vita.A Musignano c’era un ramo spezzato, sottola quercia.

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Paola Sellerio

IL POZZODI SAN PATRIZIO

Racconto di un capolavoro.

Durante l’estate di qualche anno fa, misono trovata a viaggiare in lungo e in largoattraverso l’Irlanda. Si è fatto molto amareda me quel paese che prima non conoscevo,ma tra le molte soddisfazioni mi ha datoanche una delusione.Pure in capo al mondo, lo ammetto, restola piccola provinciale che cerca intorno congli occhi quello che ha lasciato nel propriopaese per un senso di consolante apparte-nenza. Ho fatto l’errore di immaginare nelluogo dove è nato e vissuto, le tracce di quelSan Patrizio il cui nome è caro, a chi è or-vietano come me. Pensavo infatti di tro-varvi un richiamo al “nostro” mirabilepozzo. Papa Clemente VII nel 1527, reducedal sacco di Roma per mano dei Lanziche-necchi, lo volle come opera fondamentalesulla rupe, suo luogo di rifugio. Perse peròla sua iniziale denominazione di pozzo dellaRocca e fu associato, in epoca ottocentesca,al nome del Santo.Purtroppo la figura di quel monaco, vis-suto nel lontano quinto secolo, è avvoltadalle nebbie dei secoli. In particolare il pro-fondo e famoso antro, da cui il Santo pro-fondeva i suoi insegnamenti, evocativo diquello della nostra città, non è visitabile.Posto su un’isoletta del Donegal, è stato

più volte chiuso e riaperto per volere di papie monarchi. Infine, nella seppur antica cat-tedrale di Dublino a lui dedicata, la mia de-lusione è stata tangibile. Quasi niente in-fatti del Santo e del suo tempo, emergononella chiesa, per i tanti rifacimenti. Nel sot-tosuolo della stessa ho trovato addiritturauna caffetteria, si proprio una caffetteria,dove si vendevano anche tazze ed aforismidi Oscar Wild. Forse sarò una turista e cometale superficiale, ma ho pensato che quelnome in Irlanda oggi ricorda solo allegreparate cittadine, con esibizioni di cappelliverdi e trifogli di plastica.A me quel nome suscita invece un ricordo vi-scerale, profondo, che tocca corde inconsce,tanta è la carica delle sensazioni che vi lego.

I miei occhi lo scoprono dall’alto, mentrescendo per un viale fresco e alberato, op-pure dai giardini pubblici che lo circon-dano, con diverse prospettive che ne rive-lano i particolari e la struttura esterna.La forma prima di tutto. Circolare. Per-fetta. Elegante. Calda del colore dei mat-toncini, con cui è costruita. Un sobrio fre-gio in pietra bianca, corre a sovrastarla. Lasommità declina internamente fino alla cu-pola di rete metallica che ne protegge labocca, rivolta verso il cielo. Una lapide dimarmo, incastonata nel muro e scritta inlatino, ricorda come quello che la naturanon fornisce, possa essere dato dall’ingegnoumano. Il pozzo mirabolante è incastonatoin una depressione del terreno, sul limitaredella rupe. Oltre c’è la valle del Paglia inlontananza, su cui affacciarsi austero.Fuori c’è la luce accecante dell’estate, chemi rassicura con le sue certezze ed il teporedei sui raggi.

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Ma ecco che varco la porta modesta e ab-bandono il mondo del certo. Il pavimentodeclina subito su lastre che si rincorrono se-guendo l’andamento della corona circolarecon bassi gradini protetti da un cordolo.Solo pochi passi incerti, per saggiarne lastrana andatura. Un mezzo giro privo dialtro; solo muro e gradini. Ecco che i mieiocchi si abituano alla penombra. I rumoridell’esterno si allontanano. Echi di voci cheesprimono emozione e stupore, mi colpi-scono. Provengono dal basso, sotto i mieipiedi. Il primo finestrone appare sulla de-stra, specchiandosi nel gemello di fronte.Non posso resistere all’impulso di affac-ciarmi spingendo la testa in fuori. Un bri-vido corre lungo la schiena. La vertiginesimmetrica delle pareti che sprofondano,cattura, squilibra, fa trattenere il fiato.Raggi di luce che penetrano dalla cupolatrafiggono lo spazio vuoto fino al fondo, ri-flettendosi nell’acqua. Fasci di luci soffuseazzurre e verdi, per le erbe rampicanti trale grate, per i muschi microscopici delle pie-tre e per il cielo che vuole entrare, tingonole pareti brune. Ogni altro colore è cancel-lato, perso, dimenticato. Scendo, lenta-mente, seguendo le luci basse che illumi-nano i gradini. Le finestre si rincorrono. Cene sono settanta. Appoggio la mano sullaparete, ne sento la porosità e la sensazionedi umidità che aumenta, mentre procedo.Ogni tanto mi affaccio, scoprendo di frontea me, nel finestrone simmetrico il volto in-credulo di un turista. Sembra vicino, quasici potremmo toccare, invece so benissimoche lui non percorre la mia stessa scalata,ma quella che risale, quindi è lontano al-meno quanto la profondità del pozzo in-

tero. Anche lui guarda in basso e poi inalto, per valutare il percorso fatto o ancorada fare. Ci sorridiamo. Stiamo condivi-dendo una esperienza particolare, nonpenso che la potrà dimenticare facilmente.Proseguo la discesa, monotona, disorien-tante, seguendo una curva stretta che pareinfinita. Solo il fresco che aumenta e la luceche diminuisce, mi danno il senso di unalenta progressione. Sono quasi sul fondo,adesso. Il buio è profondo, quasi liquido,nonostante le luci elettriche. La luce natu-rale stenta ad arrivare fin laggiù. Si diceche siano 54 i metri di profondità, altri par-lano di 62. Non importa poi molto. Sonocertamente all’altezza della base dellarupe, dove una falda di acqua purissima,filtrata dal tufo, è stata intercettata dalloscavo. L’aria umida riempie i polmoni, pe-sante. I piedi toccano infine la passerellametallica che attraversa il pozzo appenasopra il pelo dell’acqua. I rumori sono ovat-tati adesso e l’eco della mia voce vola inalto rimbalzando tra le pareti. Il turista haconcluso il suo percorso, sento il rumore deltornello meccanico che gira. Ormai è fuori.Sono sola. Nel silenzio che ora vince, sisente distintamente il rumore amplificatodelle gocce di condensa che cadono nell’ac-qua cristallina. Il fiato si colora di bianco.Rabbrividisco. Un senso di timore forseevocato dal mio inconscio. Qua, nel buio enell’umidità di questo mondo oscuro vivol’esatto opposto del simbolo della mia città.Nello stesso momento infatti, sulla facciataslanciata del duomo baciato dal sole, i mo-saici risplendono d’oro e di calore, mentrefrotte di turisti vocianti riempiono lapiazza. Anche Orvieto, come ogni uomo o

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donna, ha i suoi lati opposti e nel contempocomplementari. Dalla passerella guardo inalto. L’occhio di luce, lontano come un mi-raggio mi chiama. È tempo di risalire. Per-corro lentamente la scala opposta, identica.Ho il tempo di ammirare ora, prendendofiato, i particolari dell’opera che nella di-scesa emozionante mi sono persa. Il soffittodella scala non troppo alto, ad arco, cheprosegue appoggiandosi su pareti scavateda migliaia di colpi. Ancora oggi si possonocontare. Posso immaginare quegli stru-menti, nelle mani di operai vestiti in foggecinquecentesche, sotto gli occhi attentidell’architetto Antonio da Sangallo il Gio-vane, che ne misura la precisione. Mi stu-pisco della perfezione e della funzionalitàdi quest’ opera, progettata e realizzata insoli dieci anni per supplire all’approvvigio-namento di acqua in epoche di assedi e bat-taglie. Sorrido pensando alla sua, casualema bizzarra, somiglianza con l’immaginedel DNA umano che, solo secoli più tardi,è entrato nella conoscenza collettiva.Umane, ma anche animali le fatiche che nesono state per secoli testimoni. Immaginole infinite volte di quel percorso fatto daimuli pazienti e dai loro addetti. Due bariliper ogni animale, attaccati alla soma, veni-vano continuamente riempiti sul fondo esvuotati alla sommità, con un flusso conti-nuo e ordinato, che non si imbrogliava mai.Mentre risalgo, il calore aumenta e il fiatoa volte manca. Lancio un ultimo sguardoverso il fondo. Mi trasmette ancora mera-viglia. L’escursione termica è fortissima, lamaglia madida di sudore, gli occhi accecatidal sole estivo, ma la cognizione che i 248bassi gradini travalicano il puro senso geo-

metrico della loro funzione, è una certezza.Ho perso il conto di quante volte, nella miavita, ho fatto quel viaggio, accompa-gnando gli amici, che nel tempo sono ve-nuti a farmi visita. Ogni volta sono stataansiosa di farlo per poter godere del lorostupore e ogni volta il pozzo ha regalato lestesse, identiche emozioni anche a me.

Angelo Spanetta

CREMAAL MASCARPONECON AMARETTI

AL CAFFÈ

Un semplice ma gustoso dessert da assapo-rare in serenità in queste calde sere di au-tunno.

Ingredienti:500 g. di mascarpone6 tuorli di uovo50 ml di acqua150 g. di zuccherocaffè espresso 2 tazzine150 g. di amaretti

Esecuzione:Spatolare in una ciotola il mascarpone perrenderlo cremoso e facilmente lavorabile.

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In un pentolino unire l’acqua allo zuccheroe cuocere lo sciroppo fino a portarlo ad unatemperatura di circa 121° (quando fa lebollicine bianche è pronto).Mettere i tuorli in una ciotola e iniziare amontarli con uno sbattitore, unire a filo losciroppo d’ acqua e zucchero caldo e mon-tarli fino a completo raffreddamento.Con l’aiuto di una spatola unire il mascar-pone lavorato in precedenza, poi conti-nuare a montare con lo sbattitore fino a ot-tenere una crema liscia e omogenea.Disporre sul fondo di una coppa o di un bic-chiere largo un paio di amaretti sbriciolati,poi unire uno strato di crema e tre amarettiinteri bagnati nel caffè.Formare un altro strato di crema, poi dueamaretti interi bagnati nel caffè e coprirecon un paio di amaretti sbriciolati e un cuc-chiaino di caffè; guarnire con due o trechicchi di caffè interi e una leggera spolve-rata di un misto di cacao amaro e polveredi caffè.Conservare in frigo almeno 2/3 ore prima diservire.Questo semplice dolce al cucchiaio conqui-sterà i vostri amici.E, come disse Snoopy: È sorprendentequanti amici si hanno quando si pos-siede uno stampo per dolci.

Mario Tiberi

PER CHI NON CONOSCECHI OPERA PER IL

BENE DELL’UMANITÀ

“Sono un essere umano, non ritengo a meestraneo nulla che sia umano” (Homo sum,humani nihil a me alienum puto). Così sen-tenziò Publio Terenzio Afro quando gli fufatta notare la sua origine non propriamenteromana. Ebbene, sono passati quasi duemilaanni e i ritornelli su chi sei, chi ti ha generato,dove sei nato, perché ti trovi qui e non al-trove, ancora non trovano soddisfacenti ri-sposte. O meglio, le trovano quasi esclusiva-mente tra coloro che, senza farsi eccessive do-mande o porsi questioni di natura coscien-ziale, impiegano parte del loro tempo per de-dicarsi agli sventurati e agli infelici. E ope-rano in silenzio, quasi nascondendosi, timo-rosi del clamore popolare e, ancor più, di ri-cevere benemerenze e medaglie al valore.Tra questi coloro, una soffice e soave men-zione va riservata a quelle che coram populoe nel corso di decenni e decenni sono state de-finite le “Dame della Carità”. Donne, e oggianche uomini, semplici e comuni, non eroineo eroi ma, più naturalmente, esseri umaniche hanno compreso appieno come l’uomoche provvede all’altro uomo si ponga alla ra-dice di una civiltà che intende fondarsi sullagiustizia sociale e sulla legalità giuridica.Pur tra alterne vicende, mi sono sempregiudicato un uomo circondato da “buona

Le frasi sono pietruzze che lo scrittoregetta nell’animo del lettore. Il diametrodelle onde concentriche che esse formanodipende dalla larghezza dello stagno.

•Lo scrittore cerca con la sintassi di resti-tuire al pensiero la semplicità che le pa-role gli tolgono.

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sorte” e, quindi, almeno negli ultimi tempinon mi sono potuto sottrarre dal rivolgereparte delle mie attenzioni a chi, o per sven-tura accidentale o per essere stato eglistesso causa dei suoi mali, sia nato o vissutoda meno fortunato di me.Se fossi in voi, ogni tanto una capatina invia Albani 13/15 a Orvieto io la farei!

Nota di P. L. LeoniIn via Albani c’è la sede del Gruppo di Vo-lontariato Vincenziano San Vincenzo de’Paoli. La vita e le opere di questo grandesanto del Seicento francese non sono argo-mento che può essere svolto in questa piccolarivista. Mi limito a puntualizzare che leDame della Carità, dette in seguito ancheDame di San Vincenzo, furono organizzate edisciplinate dal Santo per dare la possibilitàalle signore della classe agiata di esercitare laloro generosità senza abbandonare le famiglie.Anzi, approfittando delle disponibilità dellefamiglie. Nell’ultimo mezzo secolo, essendosimolto estesa la classe agiata e sembrando unastonatura l’esclusione dei maschi dalla bene-merita organizzazione, fu varata una riformaper ammettere volontari di entrambi i sessi edi ogni condizione sociale. Però esistono an-cora ricchi e poveri, con diverse possibilità difare e ricevere del bene, ed esistono ancora ma-schi e femmine con le loro particolari sensi-bilità. Penso sia per questo che ancora oggisiano le signore, nei Gruppi di VolontariatoVincenziano, a dare esempio agli uomini didedizione assennata, di consapevolezza deibisogni dei veri poveri, di costanza e spiritodi sacrificio. Tanto che la gente si ostina achiamarle Dame di San Vincenzo. Il qualesapeva bene che “la mano che muove la cullamuove il mondo”.

Valeria Viviani

IL NONNO

La fortuna di avere un nonno amorevole, sag-gio, maestro di vita.

«Guadagna di più chi lavora seduto». Que-sto adagio del nonno paterno faceva partedel vademecum che Giovanni recava beneimpresso nella memoria, anche in virtùdelle frequenti citazioni. Il nonno ricono-sceva la propria indole, oltre all’aspetto fi-sico, in quel nipote non molto robusto enon molto vivace. Un altro adagio, che do-veva tenerlo lontano dall’agricoltura, causadella sofferenza dei suoi antenati fino al bi-snonno, era: «Pesa meno la penna che lavanga». Ma quello che più intrigava Gio-vanni era in spagnolo e recitava: «El hom-bre che trabaja pierde un tiempo precioso(l’uomo che lavora perde del tempo pre-zioso)». Certo, si trattava di un volgare pa-radosso, ma che meno paradossale appa-riva in bocca al nonno, impiegato comunaleperché, tra le due guerre, era uno dei pochigiovanotti che, nel paese, sapevano leggere,scrivere e tenere i conti. Aveva superatouna specie di concorso per il non ambitis-simo posto di “alunno d’ordine senza sti-pendio”, il primo gradino della carriera bu-rocratica. Il suo voto più alto e decisivol’aveva ottenuto nella calligrafia.Il nonno si era sempre amorevolmente oc-cupato di Giovanni, anche per supplire alpadre, impegnatissimo nel commercio deicereali e quasi sempre incavolato, e allamadre ipocondriaca. Il pomeriggio lo por-tava con sé in municipio, dove si recava

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spesso per quel rito chiamato lavoro stra-ordinario: un modo di arrotondare lo sti-pendio ammazzando il tempo in un am-biente tranquillo, discreto e familiare. Aiu-tava Giovanni a fare i compiti e lo educavaall’adempimento del dovere col minimo af-faticamento e cercando di vaccinarlo con-tro le ambizioni con le quali il mondo(erano i tempi del cosiddetto miracolo eco-nomico) poteva infettarlo.Il nonno raccomandava a Giovanni il ri-spetto per i maestri e per i professori, magl’insegnava anche le sottigliezze psicologi-che per risultare loro gradevole senza dege-nerare nel lecchinaggio. Così Giovanni andava avanti negli studisenza eccellere e senza affannarsi. «Il ragazzo è educato e rispettoso. Nellostudio fa quello che può. Cercate di accon-tentarvi; non tutti sono nati per diventarescienziati.» Questo, in sostanza, dicevanogl’insegnanti alla madre ansiosa, più impe-gnata nelle visite mediche che nelle visitescolastiche. Ma essa non era così stupida danon capire che gl’insegnanti si preoccupa-vano più di essere rispettati che di aver ache fare con dei geni. Erano altri gli assiliimmaginari che la costringevano sempresull’orlo dell’esaurimento nervoso.Quando Giovanni prese la licenza di scuolamedia, tutti i parenti e affini si ritennero indovere di mettere becco nella scelta dellascuola media superiore. Nessuno consi-gliava il liceo classico, sottintendendo chela pesantezza di quegli studi avrebbe stres-sato il ragazzo. Il più gettonato era l’Isti-tuto tecnico commerciale, per farne un ra-gioniere e scoraggiare future velleità uni-versitarie.

Naturalmente fu il nonno a decidere, conl’assenso convinto del ragazzo. Così Gio-vanni fu iscritto all’Istituto magistrale. Ilnonno lo preferiva perché, all’epoca, quelcorso di studi era quadriennale e il diplomaaveva lo stesso valore nei concorsi pubblicia posti concetto. Inoltre, se fosse venutavoglia a Giovanni di fare il maestro elemen-tare, avrebbe potuto usufruire dei posti aquel tempo riservati ai maschi. E poi lastrada dell’università non era preclusa, per-ché esisteva la Facoltà di Magistero riser-vata ai diplomati dell’Istituto magistrale. Quel diploma escludeva l’accesso a lucroseprofessioni, ma garantiva una placida vitadi provincia, lontana dalla durezza del-l’agricoltura, dall’impegno faticoso nell’ar-tigianato e dai rischi del commercio.L’unica paura del nonno era che il nipotedovesse poi sentirsi umiliato, come era perun certo tempo capitato a lui, di frontetutti coloro che, grazie agli studi classici,avevano dimestichezza con l’etimologiagreca di molti termini usati soprattuttonella filosofia, nelle scienze e, in partico-lare, nella medicina.Perciò regalò al nipote, oltre a un buon vo-cabolario della lingua italiana, da teneresempre a portata di mano quando leggevae scriveva, un dizionario etimologico.Furono preziosi i consigli del nonno per so-pravvivere dignitosamente nell’Istitutomagistrale, dove il rapporto femmine-ma-schi era di 9 a 1. Andare sempre a scuola preparato sulla le-zione del giorno per non aver paura delleinterrogazioni.Presentarsi sempre volontario alle interro-gazioni quando l’insegnante, non avendo

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voglia di arrabbiarsi, ricorreva a questoespediente. Quando avesse avuto seria difficoltà a ca-pire un libro di testo, avrebbe dovuto rivol-gersi al nonno, che avrebbe giudicato se ladifficoltà dipendeva dalla studente, che an-dava perciò aiutato, o dall’autore dl libro.Non tutti coloro che scrivono libri per lescuole sanno scrivere. Meglio allora trovarsiun altro testo.

Così Giovanni se la cavò senza brillanti ri-sultati, ma senza mai dover riparare mate-rie. Perciò, durante le estati, poteva dedi-carsi alla lettura dei romanzi consigliati dalnonno, sia italiani che francesi, inglesi,russi e americani. Di altri romanzi, che aproprio giudizio avevano un successo im-meritato, il nonno forniva il riassunto e lastroncatura.Nel quarto e ultimo anno scolastico, Gio-vanni fece amicizia con una ripetente.Come lui né bella né brutta, né alta nébassa, né bionda né mora, né stupida néparticolarmente intelligente. Non le man-cava niente per essere la sua anima gemella,se non la protezione e l’assistenza di unnonno come il suo.Giovanni fu accolto a casa di Fiammettaper aiutarla a preparare nuovamentel’esame di diploma colmando le lacune do-vute non a mancanza di capacità e volontà,ma solo di metodo.Così fu amore, intenso e rispettoso, che sfo-ciò in un fidanzamento ufficiale, graditodalle famiglie, e un riuscito se non brillanteesame di diploma.Il nonno era raggiante, ma il suo orologiobiologico si avviava ormai a battere le ul-time ore. Volle Giovanni accanto a sé du-

rante la sua malattia e chiese che, quandopossibile, fosse accompagnato dalla fidan-zata.Giovanni si rendeva conto che il nonno loconsiderava il proprio capolavoro, lo scopodel suo passaggio in questo mondo, la cretache si era lasciata modellare dall’artista chesapeva valutarne e rispettarne la natura, laconsistenza e il destino.E la fidanzata era fatta della stessa pasta.Furono giorni in cui il nonno comprese luistesso pienamente la propria visione dellavita e, meticolosamente e amorevolmente,la espose ai fidanzati.Essi appresero così che il nonno era impe-gnati ad amare gli esseri visibili e invisibiliche si occupavano di loro.

Limitando il nostro uditorio limitiamo inostri passi falsi. La solitudine è l’unicoarbitro incorruttibile.

•Lo scrittore bene educato cerca di esserechiaro. Ma non imputiamo sempre la no-stra inettitudine alla sua maleducazione.Spiegare invece di alludere presupponesprezzo per il lettore.

•Non c’è stupidaggine che non possa es-sere riscattata da una prosa elegante.Non dobbiamo scrivere come parliamo,ma come dovremmo parlare.

•Ogni fatto è sempre meno interessantedel racconto che se ne fa.

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EditorialeQuesto è l’ultimo numero della rivistaGRANDI FIRME DELLA TUSCIA con-fezionato da Pier Luigi Leoni.Va tra i ricordi cari.D’ora innanzi si occuperà di questa pubbli-cazione l’ASSOCIAZIONE PIER LUIGILEONI, costituita da suoi amici per conti-nuarne l’attività di promozione culturale. Vogliamo ricordarlo ai lettori con pocherighe scritte da Dante Freddi il giorno dellasua scomparsa e che esprimono sentimentiche condividiamo, che sono i nostri.« A presto Pier Luigi. Quando Dio vorrà,sperando di aver meritato di starti vicino, po-tremo godere ancora del piacere dell’amicizia,dell’amore che ci ha legati per oltre quaran-t’anni : stima reciproca, scambio, ricerca deltempo da vivere insieme, voglia di impararedall’altro, gusto di condividere letture, pen-sieri, progetti, azioni, comportamenti, vi-sioni, valori, scazzafrullonate. E anche ri-cette. Non siamo stati sempre d’accordo sututto, ci mancherebbe, ma la tua onestà intel-lettuale riusciva comunque ad arricchirmi emodificarmi. Tu mi mancherai nella vita diogni giorno, perché ogni giorno mi hai resopiù leggero stare su questa terra e ti ho amato.A presto, amico carissimo».

INDICE1 Silvano Balestro: PICCOLI CUORICINI

2 Mirko Belliscioni: OBLINDO

2 Marianna Bosco: SFUMATURE

5 Laura Calderini: NON SONO UNA SCRITTRICE

7 Maria Virginia Cinti: MARE

7 Nicola Foti: SARAI TENUE RESPIRO NAVIGAMMO

8 Dante Freddi: IN GITA SCOLASTICAQUELLA VOLTA CHE HO VISTO DIO

10 Igino Garbini: IN TRASFERTA CON LA CARTOMANTE

14 Andrea Laprovitera: SCRIVIAMO SULLA SABBIA

16 Pier Luigi Leoni: NAZIONALI ZIGRINATE

17 Aldo Lo Presti: IL SEGRETO DELLA PIGRIZIA

18 Gianni Marchesini: CAPPUCCETTO ROSSO

20 Maria Beatrice Mazzoni: ENTANGLED

22 Barbara Medici: COME IL CIELO D’OLANDA

26 Giulia Parrano: ZORA

29 Luca Pedichini: LA RIFORMA DELLA SCUOLA

30 Enzo Prudenzi: VOGLIO VOLARE NEL VENTO DELLA VITA

32 Antonietta Puri: VENTO

34 Loretta Puri: MASTER SCEFFE

35 Nicoletta Recchia: L’AMOR MATURO

38 Andrea Schiazzano: I SOGNI FERITI

40 Laura Sega: IL SOGNO

42 Paola Sellerio: IL POZZO DI SAN PATRIZIO

44 Angelo Spanetta: CREMA AL MASCARPONECON AMARETTI AL CAFFÈ

45 Mario Tiberi: PER CHI NON CONOSCE CHI OPERA PER IL BENE DELL’UMANITÀ

46 Valeria Viviani: IL NONNO

e

Associazione CulturalePier Luigi Leoni

presentano una iniziativaeditoriale senza scopo di lucroispirata alla celebre rivista di

Pitigrilli

Stampa: Controstampa srl - AcquapendenteDicembre 2018

associazione [email protected]

•www.letteralbar.it

[email protected]

DIREZIONE REDAZIONEPROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE

Lamapian Cat i l e spLaura Calder in i

Mario T i b er iPier Luig i LeoniAngelo Spanet ta

LETTERALBAR è un circolo di Orvieto cherealizza iniziative culturali, in particolarepromuove la lettura e la scrittura sia di testiletterari che di saggi di storia locale e di cul-tura generale. Ha curato fino ad ora questapubblicazione, che dal prossimo numero saràaffidata all’ASSOCIAZIONE PIER LUIGI LEONI,costituita per tenere viva la memoria diLeoni e continuare la sua opera di promo-zione culturale. Lo spirito della pubblica-zione, le finalità, le persone impegnate sonole medesime.I soci, consapevoli dell’appartenenza storicadell’area orvietana alla Tuscia, ambiscono,con questa rivista, a coinvolgere i Tusci delLazio e della Toscana in una operazione squi-sitamente ed esclusivamente letteraria. L’as-senza di ogni scopo di lucro garantisce chel’interesse perseguito è soltanto la soddisfa-zione del piacere di scrivere, di leggere e di es-sere letti.Il riferimento alla celebre rivista di Pitigrilli,che, dal 1924 al 1938, lanciò molti grandiscrittori italiani, vuole semplicemente sotto-lineare il tono delle composizioni pubblicateche, anche quando hanno contenuti dram-matici o culturali, nascono come diverti-mento degli autori.La rinuncia programmatica all’attualità de-termina la aperiodicità della rivista. Essaesce ogni volta che è pronta, vale a dire ognivolta che un numero adeguato di autori s’in-contra con le disponibilità di tempo e dimezzi finanziari del circolo.Gli autori non percepiscono compensi, se nondue copie della rivista, e conservano la pro-prietà dei diritti d’autore. Le spese di stampae di promozione sono coperte con contributidi estimatori. I redattori si ripagano esclusi-vamente con la soddisfazione di vedere la ri-vista letta e apprezzata da qualcuno.

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OTTO

BALESTRO-BELLISCIONI-BOSCO-CALDERINI-CINTIFOTI-FREDDI-GARBINI-LAPROVITERA-LEONI-LO PRESTI

MARCHESINI-MAZZONI-MEDICI-PARRANO-PEDICHINIPRUDENZI-PURI A.-PURI L.-RECCHIA-SCHIAZZANO

SEGA-SELLERIO-SPANETTA-TIBERI- VIVIANI

della Tusciaaperiodico di novelle e varia umanità

ispirato a

SELEZIONE DI OPERE DEI NOSTRI COLLABORATORI

Copertina Le grandi firme_Layout 1 23/11/18 11.25 Pagina 1