Le Foreste Di Darkover di Marion Zimmer Bradley

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7/18/2019 Le Foreste Di Darkover di Marion Zimmer Bradley http://slidepdf.com/reader/full/le-foreste-di-darkover-di-marion-zimmer-bradley 1/74 MARION ZIMMER BRADLEY LE FORESTE DI DARKOVER (The Planet Savers, 1962) CAPITOLO 1 LA FEBBEE Quando mi svegliai, pensando di essere solo, ero sdraiato su un divano di pelle in una stanza bianca e spoglia con enormi finestre che alternavano vetri trasparenti a vetri opachi, dietro i quali il profilo delle montagne con le cime innevate diventava un'ombra pallida dai tenui riflessi metallici, glaciali. La memoria e l'abitudine diedero un nome a tutto ciò che mi circondava: l'ufficio spoglio, il bagliore aranciato del grande sole, le montagne in lon- tananza. Ma dietro una lucida scrivania di vetro era seduto un uomo che mi guardava fissamente... e quell'uomo io non lo avevo mai visto prima. Era grassottello e non giovane, con sopracciglia fulve e radi capelli al- trettanto fulvi attorno al cranio, per il resto completamente calvo e rosa. Indossava il camice bianco regolamentare con i caducei intrecciati sulla ta- sca e sulla manica che dichiaravano la sua apparteneneza al Servizio Me- dico del Quartier Generale Civile della Città Commerciale Terrestre.

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Terrore, pericolo e morte non sono finiti per gli abitanti di Darkover, esiliati nelle lande desolate e deserte ai margini dei territori occupati dagli uomini. Con una guida alla lettura alla saga di Darkover.

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MARION ZIMMER BRADLEYLE FORESTE DI DARKOVER

(The Planet Savers, 1962)

CAPITOLO 1LA FEBBEE

Quando mi svegliai, pensando di essere solo, ero sdraiato su un divanodi pelle in una stanza bianca e spoglia con enormi finestre che alternavanovetri trasparenti a vetri opachi, dietro i quali il profilo delle montagne conle cime innevate diventava un'ombra pallida dai tenui riflessi metallici,

glaciali.La memoria e l'abitudine diedero un nome a tutto ciò che mi circondava:l'ufficio spoglio, il bagliore aranciato del grande sole, le montagne in lon-tananza. Ma dietro una lucida scrivania di vetro era seduto un uomo che miguardava fissamente... e quell'uomo io non lo avevo mai visto prima.

Era grassottello e non giovane, con sopracciglia fulve e radi capelli al-trettanto fulvi attorno al cranio, per il resto completamente calvo e rosa.Indossava il camice bianco regolamentare con i caducei intrecciati sulla ta-

sca e sulla manica che dichiaravano la sua apparteneneza al Servizio Me-dico del Quartier Generale Civile della Città Commerciale Terrestre.

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 Naturalmente tutti questi particolari non li notai consciamente, perchéfacevano parte del mondo che aveva preso forma attorno a me quando a-vevo aperto gli occhi, come le montagne conosciute e il sole familiare.

«Le dispiacerebbe dirmi come si chiama?» mi chiese in tono amichevoleil dottore, come se fosse una cosa del tutto normale trovare un perfettosconosciuto che si faceva un sonnellino sul suo divano.

Mi parve comunque una richiesta ragionevole: se io avessi trovato qual-cuno che si era accomodato nel mio ufficio (ammesso che io avessi avutoun ufficio), gli avrei fatto la stessa domanda. Mi girai per mettere le gambegiù dal divano e fui costretto a puntellarmi con una mano perché la stanza prese a girarmi vorticosamente intorno.

«Al posto suo non cercherei ancora di mettermi seduto», mi consigliò lui

mentre il pavimento tornava al suo posto. Poi ripeté educatamente, ma coninsistenza: «Qual è il suo nome?»

«Oh, già, il mio nome.» Mi chiamavo... annaspai attraverso quelli chesembravano strati di indistinto grigiore, cercando disperatamente di pro-nunciare il suono più familiare di tutti: il mio nome. Mi chiamavo... macerto, mi chiamavo... «È ridicolo», esclamai con una punta di isterismonella voce e poi deglutii, più di una volta.

«Si calmi», mi esortò l'uomo grassottello in tono tranquillo. Già, più fa-

cile a dirsi che a farsi. Lo fissai, in preda a un panico crescente e chiesi:«Ma... ho avuto un'amnesia o qualcosa del genere?»

«Qualcosa del genere.»«Come mi chiamo?»«Su, su, stia tranquillo! Sono certo che tra poco lo ricorderà. Nel frat-

tempo sono sicuro che è in grado di rispondere ad altre domande. Quantianni ha?»

«Ventidue», risposi senza esitare.

«Interessante.  In-te-res-san-te!»  affermò l'uomo grassottello scrivendoqualcosa su una scheda. «Sa dove ci troviamo?»

Osservai l'ufficio. «Al QG terrestre, e dalla sua uniforme direi che siamoall'Ottavo Piano... Sezione Medica.»

Lui annuì e scrisse un altro appunto, sporgendo in fuori le labbra. «Sa...dirmi su che pianeta siamo?»

Era da ridere. «Darkover... spero!» risposi con una risatina nervosa. «Ese vuole sapere il nome delle lune, o la data della fondazione della Città

Commerciale, o cose simili...»Anche l'uomo grassottello rise con me. «Ricorda dove è nato?»

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«Su Samarra. Sono venuto qui a tre anni; mio padre era nel Dipartimen-to Cartografia ed Esplorazione...» Mi interruppi di colpo. «È morto!»

«Sa dirmi il nome di suo padre?»«Come me. Jay... Jason...» Il lampo di memoria mi abbandonò nel mez-

zo della parola; c'eravamo quasi, ma non del tutto. «Stiamo andando benis-simo», mi incoraggiò il dottore.

«Lei non mi ha detto niente», lo accusai. «Chi è lei? E perché mi fa tuttequeste domande?»

Lui mi indicò la targhetta sulla scrivania: aggrottando la fronte, compitaile lettere. «Randall... Forth... Capo... Dipartimento...» e il dottor Forth pre-se un altro appunto. «Sarebbe Dottor Forth, vero?»

«Lei non lo sa?»

Abbassai lo sguardo e scossi il capo. «Magari il dottor Forth sono io», dissi, notando solo in quel momento che anch'io indossavo un camice bianco con il caduceo. Ma quell'abbigliamento mi comunicava una sensa-zione sbagliata, come se stessi indossando gli abiti di un altra persona.  Ionon ero un dottore (o lo ero?). Scostai leggermente una manica, scoprendouna lunga cicatrice triangolare che stava sotto il polsino. Il dottor Forth (aquel punto ero sicuro che il dottor Forth fosse lui), seguì la direzione delmio sguardo.

«Come si è fatto quella cicatrice?»«In un combattimento col coltello. Una banda di coloro-che-non-

 possono-entrare-nelle-città ci ha sorpresi sulle colline e noi...» di nuovo iricordi mi vennero a mancare e proseguii disperato: «È tutto confuso! Cosasta succedendo? Perché sono al Dipartimento Medico? Ho avuto un inci-dente? Soffro di amnesia?»

«Non esattamente. Le spiegherò.»Mi alzai e andai alla finestra un po' incerto sulle gambe, perché i miei

 piedi avrebbero voluto prendersela comoda, mentre io mi sentivo come in-trappolato in una rete da cui volevo uscire a tutti i costi. Arrivato alla fine-stra, la stanza restò ferma per un po' e io aspirai a fondo grandi boccate diaria fresca e dolce. «Credo che mi farebbe bene bere qualcosa», dissi poi.

«Ottima idea, anche se di solito non lo raccomando.» Forth frugò in uncassetto e tirò fuori una bottiglia piatta, dalla quale versò un liquido del co-lore del tè in un bicchiere di plastica. Poi ne versò un altro po' per sé.«Tenga... e si sieda, mi rende nervoso vederla in piedi.»

Io non mi sedetti, anzi, mi diressi alla porta e la spalancai.«Cosa c'è che non va? Può uscire, se vuole, ma non preferisce invece se-

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dersi e parlare per qualche minuto?» chiese il dottore con voce tranquilla e per niente ansiosa. «E comunque, dove vuole andare?»

La domanda mi mise a disagio. Trassi un paio di respiri profondi e rien-trai nella stanza. «Beva», disse Forth e io bevvi tutto d'un fiato. Poi, senzache glielo chiedessi, riempì di nuovo il bicchiere e io mandai giù anchequella dose, sentendo finalmente il peso che avevo sullo stomaco dissol-versi e scomparire.

«Anche claustrofobia. Tipico», disse Forth, prendendo un ennesimo ap- punto sulla cartella. Tutta quella faccenda cominciava a stancarmi; mi giraiverso di lui per dirglielo chiaro e di colpo invece mi accorsi di essere di-vertito... o forse era solo l'effetto del liquore. Forth sembrava un omettocosì ridicolo, richiuso lì in quell'ufficio, a parlare di claustrofobia e a os-

servarmi come se fossi uno scarafaggio mutante. Buttai il bicchiere in uncestino.

«Non le sembra che sia arrivato il momento per qualcuna di quelle spie-gazioni?»

«Se crede di sentirsela... Come sta in questo momento?»«Bene», affermai ritornando al divano e sdraiandomi, perfettamente a

mio agio. «Cosa c'era in quella bevanda?»«Segreto professionale», rispose. Forth ridacchiando. «Dunque, il modo

 più semplice per spiegare sarebbe quello di farle guardare il film che ab- biamo fatto ieri.»

«Guardare...» mi interruppi. «È lei che perde tempo».Il dottore schiacciò un pulsante sulla scrivania e parlò nel microfono.

«Sorveglianza? Fate passare il nastro...» snocciolò una serie di numeri in-comprensibili, mentre io me ne stavo disteso tutto comodo sul divano.Forth attese la risposta poi schiacciò un altro pulsante e una serie di per-siane di metallo si abbassarono senza far rumore oscurando le finestre.

L'oscurità mi parve stranamente più normale della luce; mi sistemai in una posizione più comoda e guardai una delle pareti trasformarsi in unoschermo. Il dottor Forth venne a sedersi accanto a me sul divano di cuoio,ma nel film il dottor Forth era seduto alla scrivania e guardava un altrouomo, un perfetto sconosciuto, che stava entrando nel suo ufficio.

Come Forth, anche il nuovo venuto indossava un camice bianco con ilcaduceo. Mi bastò guardarlo per provare per lui un'antipatia istintiva: erasulla trentina, alto e magro, con un'espressione altera e dura sul viso. «Si

sieda, dottore», disse il dottor Forth del film. Io trassi un lungo respiro, so- praffatto da una strana sensa2ione.

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Sono già stato qui; questa cosa l'ho già vista accadere. (Una strana sensazione di sdoppiamento si era impadronita di me: ero lì

seduto a guardare il film e sapevo perfettamente di essere seduto a guarda-re, ma come avviene nei sogni, dove chi sta sognando guarda lo svolgersidell'azione e al tempo stesso vi partecipa.)

«Si sieda, dottore», ripeté Forth. «Ha portato i rapporti?»L'uomo prese posto nella sedia indicata, restando seduto sul bordo, con

la schiena eretta, sporgendosi in avanti quanto bastava per passare a Forthuna cartelletta piena di fogli. Forth la prese ma non l'aprì. «Cosa ne pensa,dottor Allison?»

«Non esistono dubbi o margini di errore.» Allison aveva un tono di voce piuttosto stridulo ed enfatico e pronunciava le parole con estrema precisio-

ne. «Segue l'andamento statistico di tutti i casi registrati di Febbre dei Qua-rantotto anni... a proposito, non siete riusciti a trovare un termine migliore per definire questa epidemia? La definizione "Febbre dei Quarantotto an-ni" porta a pensare a una febbre che dura quarantotto anni, e non a un'epi-demia che ricorre ogni quarantotto anni.»

«Una febbre che durasse 48 anni sarebbe una gran bella febbre», risposeForth con un sorriso cupo. «Comunque è l'unico nome che abbiamo almomento. Trovi lei un nome adatto e andrà benissimo: il Morbo di Alli-

son?»Allison accolse quell'amichevole suggerimento con espressione corruc-

ciata. «Da quello che mi sembra di capire, l'epidemia si collega una voltaogni quarantotto anni alla congiunzione delle quattro lune e questo spiega perché i darkovani sono superstiziosi nei confronti di questo evento astro-nomico. Le lune hanno orbite molto eccentriche... in questo campo ne somolto poco, sto semplicemente citando il dottor Moore. Se la malattia sidiffonde attraverso un vettore animale, non lo abbiamo mai scoperto. La

diffusione dell'epidemia avviene sempre allo stesso modo: prima pochi ca-si nel distretto delle montagne, il mese dopo un centinaio di casi in questaregione del pianeta. Poi tre mesi esatti di stasi. Quando si manifesta il nuo-vo focolaio, i casi sono già saliti all'ordine delle migliaia e dopo altri tremesi l'epidemia è ormai diventata un vero e proprio flagello per l'intera popolazione di Darkover.»

«La situazione è esattamente questa», convenne il dottor Forth. I duemedici si chinarono sulla cartelletta e Allison si ritrasse leggermente per 

evitare di sfiorare il collega.«Noi terrestri abbiamo un contratto commerciale di centocinquantadue

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anni con i darkovani», disse Forth. «Alla prima epidemia di questa febbredei quarantotto anni sono sopravvissuti un decina di uomini su trecento; idarkovani erano messi ancora peggio. L'ultima epidemia è stata meno am- pia, ma ugualmente devastante: pare che abbia una percentuale di mortalitàdell'ottantasette per cento, per gli esseri umani, mentre, a quanto si dice, gliArboricoli ne sono immuni.»

«I darkovani la chiamano la Febbre degli Arboricoli o del Piccolo Popo-lo, dottor Forth, proprio perché quella popolazione ne è praticamente im-mune. Presso di loro si manifesta solo come una malattia infantile e quan-do scoppia nella sua forma più virulenta ogni quarantotto anni, la maggior  parte del Piccolo Popolo ne è immune. Io stesso ho preso la malattia da bambino... forse ne è al corrente.»

Forth annuì. «Lei potrebbe essere l'unico terrestre che ha contratto lamalattia ed è sopravvissuto.»

«L'incubazione della febbre avviene presso gli Arboricoli», disse Alli-son. «Direi che l'unica cosa logica da fare sarebbe buttare un paio di bom- be all'idrogeno sui villaggi arborei... e spazzarli via una volta per sempre.»

(Fu tale la furia che mi prese a quelle parole, che mi irrigidii sul sofàcome un pezzo di legno e il dottor Forth mi mise una mano sulla spalla,mormorando: «Stia calmo, amico!»)

L'espressione del dottor Forth sullo schermo era alquanto seccata e Alli-son proseguì con una smorfia disgustata: «Non intendevo in senso lettera-le. Ma il Piccolo Popolo non è di razza umana, non si tratterebbe di geno-cidio, ma solo di una misura di salute pubblica».

Il dottor Forth assunse un'espressione sconvolta, rendendosi conto che ilcollega più giovane stava parlando seriamente. «È compito della CentraleGalattica stabilire se sono stupidi animali o esseri intelligenti e se può ve-nir riconosciuto loro lo status di civiltà. Tutti i precedenti su Darkover ten-

dono a riconoscerli come uomini... e poi, buon Dio, Jay, lei sarebbe conogni probabilità chiamato come teste della difesa! Come può affermare chenon sono esseri umani, proprio lei, dopo l'esperienza che ha vissuto con lo-ro? E comunque prima che siano o meno riconosciuti come esseri senzien-ti, più della metà degli esseri umani già riconosciuti come tali di Darkover sarebbe morta. Ci serve una soluzione migliore.»

Spinse indietro la sedia e guardò fuori dalla finestra.«Non entrerò nel merito della questione politica», proseguì, «perché né

io né lei ci interessiamo di politica e non siamo esperti in materia, ma do-vrebbe essere stupido, sordo e cieco per non rendersi conto che fino ad ora

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Darkover non si è smosso di un millimetro nelle sue convinzioni. I darko-vani sono molto più avanti di nói in alcune scienze e fino ad oggi hannosempre sostenuto che la Terra non ha nulla da offrire loro. Ma - e si trattadi una ma importante - sanno, e sono disposti ad ammettere che la nostrascienza medica è migliore della loro.»

«Dal momento che la loro è praticamente inesistente.»«Esatto: e questa potrebbe essere la prima breccia nella barriera. Forse

lei non è in grado di rendersi conto del significato di questo gesto ma ilLegato ha ricevuto un'offerta dagli Hastur in persona.»

«Dovrei forse sentirmi impressionato?» mormorò Jay Alison.«Su Darkover è proprio il caso di sentirsi impressionati quando un Ha-

stur si degna di notare qualcosa!»

«Mi sembra di capire che sono telepati, o qualcosa di simile.»«Telepati, psicocinetici, parapsichici e più o meno tutto il resto. Sono in

tutto e per tutto considerati gli Dèi di Darkover. E uno degli Hastur, unomolto giovane e anche poco importante, lo ammetto, il nipote del vec-chio... è venuto di persona, dico di persona, nell'ufficio del Legato e si èofferto, in cambio del nostro aiuto, a debellare la febbre dei quarantottoanni, di addestrare alcuni terrestri scelti nella meccanica delle matrici.»

«Santo Cielo!» Era una concessione che andava al di là di ogni aspetta-

tiva terrestre; per un secolo infatti avevano cercato in tutti i modi di avere,rubare, implorare o comprare una qualche conoscenza della meccanica del-le matrici (quella incredibile disciplina in grado di trasformare la materiain energia pura e viceversa senza passaggi intermedi e soprattutto senzasottoprodotti tossici). Era stata proprio la meccanica delle matrici che ave-va reso Darkover virtualmente immune alle lusinghe dell'avanzata tecno-logia terrestre.

«Personalmente ritengo che la scienza darkovana sia sopravvalutata»,

disse Jay. «Ma mi rendo conto del valore propagandistico...»«Per non parlare del valore umanitario della scoperta della cura...»Jay Allison scrollò le spalle con assoluta noncuranza. «Direi che la cosa

importante è questa: siamo o no in grado di curare la febbre degli Arbori-coli?»

«Non ancora, ma sappiamo da dove cominciare. Durante l'ultima epide-mia uno scienziato terrestre ha scoperto nel sangue del Piccolo Popolo unanticorpo contro la febbre che, isolato e trasformato in vaccino, potrebbe

riportare la forma virulenta dell'epidemia nelle proporzioni di una semplicemalattia infantile. Sfortunatamente anch'egli morì durante l'epidemia, sen-

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za portare a termine il suo lavoro e i suoi appunti sono rimasti nel dimenti-catoio fino a quest'anno. Su Darkover abbiamo oggi 18.000 uomini con leloro famiglie, Jay. In tutta sincerità, se perdiamo troppo personale dovre-mo ritirarci dal pianeta; le alte gerarchle terrestri possono anche passaresopra la perdita di un gruppo di commercianti di professione, ma non di u-n'intera colonia della Città Commerciale. Per non parlare poi della perditadi prestigio che subiremmo se la nostra tanto decantata scienza medica nonfosse in grado di salvare Darkover da un'epidemia. Ci restano soltanto cin-que mesi e in questo lasso di tempo non siamo in grado di sintetizzare unsiero: dobbiamo appellarci al Piccolo Popolo ed è per questo che l'ho fattachiamare. Lei conosce gli Arboricoli meglio di qualunque altro terrestre,deve saperne più di chiunque altro su di loro. Ha passato nove anni della

sua vita nel Nido.»

(Nell'ufficio buio di Forth mi raddrizzai di colpo, sopraffatto da un lam- po di ricordi. Jay Allison, pensai, aveva parecchi anni più di me, ma io elui avevamo una cosa in comune: quel pallone gonfiato aveva condiviso lamia stessa stupenda esperienza degli anni dell'infanzia trascorsi in un mon-do alieno!)

Jay Allison corrugò la fronte scontento. «Sono passati molti anni, ero

 poco più di un bambino. Mio padre è precipitato con un aereo durante unaspedizione cartografica sugli Hellers... Dio solo sa come gli era venuto inmente di sorvolare quella zona con un velivolo leggero. Io sono soprav-vissuto all'atterraggio per pura fortuna e sono vissuto con il Piccolo Popolo(almeno così mi hanno detto) fino ai tredici ò quattordici anni. Ma non miricordo molto, i ragazzini non sono particolarmente osservatori.»

Forth si sporse sulla scrivania, fissandolo attentamente. «Ma lei parla laloro lingua, vero?»

«La parlavo. Forse sarei in grado di ricordarla sotto ipnosi. Perché? De-vo forse tradurre qualcosa?»

«Non esattamente. Stavamo pensando di mandarla con una spedizione presso gli Arboricoli.»

(Guardando il viso sconvolto di Jay, pensai tra me: «Dio, che avventura!Chissà... chissà se vogliono che l'accompagni anch'io?»)

«Si tratterà di un viaggio molto difficile», stava spiegando il dottor Forth. «Lei conosce gli Hellers, ma se non sbaglio, prima di entrare nel

Servizio Medico, scalava montagne per passatempo...»«Ho superato la fase infantile dei passatempi parecchi anni fa, signore»,

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ribatté rigido Allison.«Le forniremo le migliori guide che saremo in grado di trovare, sia dar-

kovane che terrestri, ma loro non sarebbero mai in grado di fare l'unica co-sa che serve: quella può farla solo lei, Jay. Lei conosce il Piccolo Popolo, potrebbe riuscire a persuaderli a fare quello che non hanno mai fatto pri-ma.»

«Vale a dire?» chiese Allison in tono sospettoso.«Allontanarsi dalle montagne, mandarci dei volontari... dei donatori di

sangue... se avessimo abbastanza sangue su cui lavorare, potremmo esserein grado di isolare l'anticorpo e sintetizzarlo in tempo per impedire all'epi-demia di raggiungere il suo picco massimo. È una missione difficile e pe-ricolosissima, ma qualcuno deve pur intraprenderla e temo che lei sia l'uni-

ca persona qualificata.»«Preferisco il mio primo suggerimento: far scomparire gli Arboricoli e

gli Hellers dalla faccia del pianeta con una bomba.» Sul viso di Jay Allisonera disegnata un'espressione di profondo disgusto che riuscì a cancellaredopo un minuto. «No, non intendevo davvero. In teoria capisco la necessi-tà della spedizione, solo che...» si interruppe e deglutì.

«La prego, dica quello che stava per dire.»«Non sono sicuro di essere qualificato come lei pensa. No, non mi inter-

rompa: trovo disgustosi i nativi di Darkover, anche gli umani. In quanto alPiccolo Popolo...»

(Ero furioso e stavo diventando impaziente. Nell'oscurità sussurrai aForth: «Spenga quel maledetto film: non potete mandare quel tizio in unamissione simile. Piuttosto...» «Stia zitto e ascolti!» scattò Forth. Stetti zit-to.)

Jay Allison non stava recitando: era davvero disgustato e in preda al pa-nico. Stava cercando di spiegare per quale ragione aveva persino rifiutato

di insegnare all'Istituto di Medicina fondato dai terrestri per i darkovani,ma Forth non lo lasciò finire, interrompendolo in tono irritato.

«Tutto questo lo sappiamo benissimo. È chiaro che non le è mai passato per la testa che per noi sia una grande seccatura il fatto che queste cono-scenze di importanza vitale siano, per pura sfortuna, in possesso dell'unicouomo troppo testardo per usarle come si deve?»

Jay non batté ciglio; io al suo posto sarei diventato piccolo piccolo. «Nesono sempre stato perfettamente consapevole, dottore.»

Forth trasse un respiro profondo. «Le concedo che in questo momentolei non ci è di molta utilità. Ma cosa sa di psicodinamica applicata?»

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«Molto poco, mi spiace dirlo.» Allison non sembrava affatto dispiaciuto,ma piuttosto annoiato a morte di tutta la conversazione.

«Posso essere franco... e scendere nel personale?»«Prego, non sono permaloso.»«Molto bene, dottor Allison. Dunque, normalmente, una persona repres-

sa e controllata come lei possiede una personalità sussidiaria molto defini-ta. Negli individui nevrotici, i tratti di questa duplice personalità a volte sidividono e abbiamo una sindrome conosciuta con il nome di personalitàmultipla o altenarata.»

«Mi è capitato di studiare qualcuno dei casi classici: non c'era forse unadonna con ben quattro personalità separate?»

«Esatto. Lei comunque non è nevrotico e in circostanze ordinarie il suo

alter ego represso non potrebbe mai prendere il sopravvento sulla sua per-sonalità.»

«Molte grazie», fu l'ironica risposta di Jay. «Avrei potuto perdere il son-no al pensiero.»

«Ma ciò nonostante, io sono convinto che lei abbia una personalità sus-sidiaria che non si manifesta mai. Questo alter ego, chiamiamolo Jay, a-vrebbe tutte le caratteristiche che lei reprime. Sarebbe socievole mentre leiè schivo e studioso; avventuroso quanto lei è cauto; ciarliero quanto lei è

taciturno; potrebbe amare l'esercizio e il movimento, mentre lei frequentala palestra solo per ragioni di salute. E potrebbe addirittura ricordare con piacere gli arboricoli che lei invece disprezza.»

«In breve, un miscuglio di tutte le caratteristiche più sgradevoli?»«Si potrebbe anche dire così. Di certo possiederebbe tutte quelle caratte-

ristiche che lei, Jay, considera sgradevoli. Ma se si potesse liberarlo trami-te l'ipnosi e la suggestione, potrebbe essere l'uomo adatto per questo lavo-ro.»

«Ma lei come fa a sapere che io abbia davvero questa... questo alter e-go?»

«Non lo so, ma è un'ipotesi molto plausibile. La maggior parte delle per-sonalità represse... disciplinate», si corresse Forth con un tossettina di scu-sa, «posseggono una personalità secondaria nascosta. Non le capita mai,molto di rado, naturalmente, di ritrovarsi a fare delle cose assolutamentenon in carattere con le sua personalità?»

«Be', sì...» confessò Jay (ed ebbi l'impressione che la cosa lo cogliesse di

sorpresa). «L'altro giorno, ad esempio... in genere vesto in modo moltoclassico e conservatore», proseguì dando un'occhiata al camice, «mi sono

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ritrovato a comprare...» si interruppe di nuovo e il suo viso assunse unosgradevole color terracotta quando terminò controvoglia, «una camiciasportiva rossa a fiori!»

(Seduto al buio avvertii una vaga compassione per quel povero diavolo,tanto sconvolto e vergognoso per l'unico impulso umano che avesse maiavuto).

Sullo schermo, Allison corrugò la fronte e disse in tono seccato: «Unimpulso... folle».

«Dal suo punto di vista forse, ma potrebbe anche essere stato il gesto diquel Jay che si nasconde in lei. Cosa ne dice, Allison? Lei potrebbe esserel'unico terrestre di Darkover, forse addirittura l'unico essere umano in gra-do di avventurarsi nella terra degli Arboricoli senza essere ucciso.»

«Signore... come cittadino dell'Impero non ho molta scelta, vero?»«Ascolti, Jay», disse Forth, e io sentii il suo sincero tentativo di superare

la barriera e di toccare, toccare davvero, quel giovanotto freddo e distacca-to, «noi non possiamo ordinare a nessuno di fare una cosa simile. A parte i pericoli fisici della missione, questo tentativo potrebbe distruggere forse per sempre il suo equilibrio psichico. Quello che le sto chiedendo è di of-frirsi volontario per qualcosa che va al di là del suo dovere, qualcosa di piùalto. Da uomo a uomo, cosa mi risponde?»

Io sarei stato commosso da quelle parole... e anche sentendole così, diseconda mano, mi commossi. Jay Allison guardò il pavimento e vidi chetorceva le dita lunghe e sensibili da chirurgo, facendo schioccare le noc-che. «Non ho nessuna scelta in entrambi i casi, dottore», disse alla fine.«Correrò il rischio: andrò presso il Piccolo Popolo.»

CAPITOLO 2DOPPIA PERSONALITÀ

Lo schermo si oscurò e Forth riaccese le luci. «Allora?» disse.«Allora?» ribattei io con lo stesso tono, e in quel momento mi accorsi

che stavo facendo schioccare le nocche delle dita con lo stesso gesto ner-voso di Allison quando aveva preso la sua dolorosa decisione. Esasperato,allontanai le mani l'una dall'altra e mi alzai.

«Immagino che non abbia funzionato con quel pallone gonfiato e cheabbiate quindi deciso di rivolgervi a me. Certo, io andrò dal Piccolo Popo-

lo, ma non con quel bastardo di Allison - con quel tipo non andrei da nes-suna parte, ma io parlo la loro lingua e per di più senza bisogno di ipnosi.»

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Forth mi stava fissando con attenzione. «Dunque questo lo ha ricorda-to?»

«Ma che diavolo, sì», risposi. «Mio padre è precipitato negli Hellers euna banda del Piccolo Popolo mi ha trovato mezzo morto. Sono vissutocon gli Arboricoli fino a quindici anni, poi l'Anziano ha deciso che erotroppo umano per loro e così mi hanno portato oltre il passo Dammerung ehanno fatto in modo di farmi arrivare qui. Certo, adesso mi ricordo tutto.Ho passato quindici anni nell'Orfanotrofio degli Spaziali, poi ho comincia-to a lavorare accompagnando i turisti terrestri in partite di caccia e così via, perché mi piaceva stare tra le montagne. Io...» mi interruppi perché Forthcontinuava a fissarmi.

«Perché non si risiede? Non riesce a stare fermo un minuto?» Mi sedetti,

riluttante. «Crede che questo lavoro le piacerebbe?.»«Sarebbe un lavoro duro», risposi riflettendo. «Il Popolo del Cielo...»

 proseguii usando il nome che gli Arboricoli davano a loro stessi, «non amagli sconosciuti. Però si potrebbe persuaderli. La parte più pericolosa sareb- be arrivare là: non è ancora stato costruito l'aereo o l'elicottero in grado disopportare le correnti degli Hellers e di atterrare senza incidenti: quindidovremmo andare a piedi, partendo da Carthon. Mi servono scalatori pro-fessionisti, montanari...»

«Quindi lei non condivide l'atteggiamento di Allison?»«Maledizione, non mi insulti!» esclamai, alzandomi di nuovo in piedi,

quasi senza accorgermene, e prendendo a camminare avanti e indietro per l'ufficio. Forth mi guardò e rifletté ad alta voce: «Cos'è la personalità, infondo? Una maschera di emozioni sovrapposta al corpo e all'intelletto.Cambia il punto di vista, cambia le emozioni e i desideri ed ecco che, conlo stesso corpo e le stesse esperienze passate, si ha un uomo nuovo».

Mi girai di scatto, perché un terribile sospetto, troppo mostruoso perché

osassi esprimerlo, stava facendosi strada nella mia mente. Forth toccò un pulsante e il viso di Jay Allison immobile, apparve sullo schermo. PoiForth mi mise in mano uno specchio e disse: «Jay Allison, si guardi».

Guardai.«No», dissi. «No, no.»Fofth non discusse, ma alzò un dito grassottello e indicò. «Guardi», dis-

se muovendo il dito mentre parlava, «altezza della fronte, taglio degli zi-gomi. Le sopracciglia hanno un aspetto diverso e così anche la bocca, per-

ché diversa è l'espressione, ma la struttura ossea, il naso, il mento...»Udii la mia voce emettere un suono stridulo e scaraventai a terra lo spec-

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chio. Forth mi afferrò il braccio. «Calma, amico!»Ritrovai un filo di voce (che non assomigliava affatto a quella di Jay Al-

lison). «Allora io sono... Jay? Jay Allison con l'amnesia?»«Non esattamente.» Forth si asciugò la fronte con la manica immacolata

del camice, che rimase macchiata di sudore. «No, santo cielo, non il JayAllison che conosco io!» Trasse un lungo respiro ed esclamò: «E si sieda!Chiunque lei sia, si sieda!»

Mi sedetti... con cautela. Non molto sicuro.«Ma l'uomo che Jay Allison avrebbe potuto essere con una diversa pre-

disposizione caratteriale. Anzi, direi, l'uomo che Jay Allison aveva comin-ciato a essere... l'uomo che ha rifiutato di essere. Nel suo subconscio hacostruito delle barriere contro tutta una serie di ricordi e la soglia sublimi-

nale...»«Doc, non capisco un acca di psichiatria.»Forth mi guardò. «E lei ricorda la lingua del Piccolo Popolo. Lo pensa-

vo: in lei la personalità di Allison è soppressa come lo era stata la sua inlui.»

«Una cosa, dottore: io non capisco un accidente di epidemie e fattorisanguigni. Questa parte della mia personalità non ha mai studiato medici-na.» Raccolsi lo specchio e studiai cupo il viso che vi era riflesso. Gli zi-

gomi alti e sottili, la fronte spaziosa ombreggiata da ruvidi capelli neri cheAllison teneva lisci e pettinati all'indietro e che ora erano arruffati e scom- posti. Continuavo a non trovare nessuna somiglianza con il dottore. Nem-meno le nostre voci si somigliavano: la sua aveva un timbro piuttosto alto,mentre la mia, da quel poco che potevo sentire, era più sonora e di un'inte-ra ottava più bassa. Eppure tutte e due quelle voci venivano emesse dallestesse corde vocali, a meno che Forth non stesse giocandomi uno scherzoincomprensibile e molto macabro.

«Davvero ho studiato medicina? È l'ultima cosa che mi passerebbe per lamente. È un lavoro onesto, lo so, ma io non sono mai stato tanto intellet-tuale.»

«Lei... o piuttosto Jay Allison è uno specialista di parassitologia darko-vana e anche un chirurgo molto abile e competente.» Forth appoggiò ilmento sulla mano, osservandomi attento. Poi aggrottò la fronte e proseguì:«Devo dire che il cambiamento fisico è ancor più sorprendente di quello psicologico; non l'avrei riconosciuta».

«Lo stesso vale per me, nemmeno io mi riconosco. E quel che è peggio»,aggiunsi, «quel Jay Allison non mi piace per niente, per usare un eufemi-

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smo. Se lui... ma non posso chiamarlo lui, vero?»«Non vedo perché no: lei non è Jay Allison più di quanto lo sia io. Tanto

 per cominciare lei è più giovane, di ben dieci anni. Dubito che qualcunodei suoi amici (ammesso che ne abbia) la riconoscerebbe. Lei... continuarea chiamarla Jay mi sembra ridicolo. Come preferisce che la chiami?»

«Non me ne importa molto, ma mi chiami Jason.»«Le si adatta», fu l'enigmatico commento di Forth. «Allora senta, Jason;

vorrei poterle concedere qualche giorno per adattarsi alla sua nuova perso-nalità, ma purtroppo il tempo stringe. Se la sente di andare in volo a Car-thon questa sera? Ho scelto con molta cura la sua squadra e li ho già man-dati avanti. Vi incontrerete là.»

Lo fissai attonito: la stanza si era fatta di colpo opprimente e facevo fati-

ca a respirare. «Era piuttosto sicuro dei risultati, vero?» chiesi meraviglia-to.

Forth si limitò a guardarmi per quello che mi parve un interminabile mi-nuto; poi disse a bassa voce: «No, non ero affatto sicuro. Ma se la sua per-sonalità non fosse saltata fuori e non fossi riuscito a persuadere Jay, avreidovuto tentare io stesso.»

Al QG terrestre Jason Allison Junior risultava residente nell'appartamen-

to 1214 del Residence medico. Trovai le stanze senza problemi, anche sementre percorrevo a grandi passi il corridoio silenzióso, attrassi lo sguardoincuriosito di un dottore anziano. L'appartamento, composto da una came-ra da letto, un minuscolo soggiorno e un bagno, era deprimente: immacola-to, neutro e privo di personalità come l'uomo che l'aveva abitato. Mi aggi-rai inquieto per le stanze, cercando qualche traccia familiare che indicasseche negli ultimi undici anni ero vissuto lì.

Jay Allison aveva trentaquattro anni. Io invece, quando Forth mi aveva

chiesto l'età avevo risposto senza esitazione ventidue. Nella mia memorianon c'erano vuoti; dal momento in cui Jay Allison aveva nominato il Pic-colo Popolo, tutto il passato mi era tornato in mente e l'avevo davanti agliocchi, preciso, fino al pasto della sera prima (solo che quella cena l'avevoconsumata dodici anni prima!) Ricordavo mio padre, un uomo taciturno,con il volto segnato dalle rughe, che amava volare, scattando una fotogra-fia dopo l'altra dal suo aereo per il meticoloso lavoro di esplorazione e car-tografia. Gli piaceva portarmi con sé nei suoi voli e io avevo sorvolato pra-

ticamente ogni metro quadrato del pianeta. Nessun altro aveva mai osatosorvolare gli Hellers, tranne le grosse astronavi commerciali che si mante-

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nevano ad un'altitudine di sicurezza. Ricordavo vagamente la caduta delvelivolo, le mani sconosciute che mi avevano estratto dal relitto e le setti-mane passate in delirio, mentre mi riprendevo, amorevolmente curato dauna delle femmine cinguettanti con gli occhi rossi del Piccolo Popolo. Intutto avevo passato otto anni nel Nido, che però non era affatto un nido,ma una vasta città aerea costruita sugli enormi rami degli alberi. Insieme ai piccoli e delicati umanoidi che erano i miei compagni di gioco avevo rac-colto noci e germogli, teso trappole per gli animaletti arborei di cui si ci- bavano gli arboricoli, imparato a tessere le tele ricavate dalle fibre di pian-te parassite coltivate sui fusti degli alberi e in tutti quegli otto anni avevomesso piede a terra meno di una decina di volte, anche se avevo percorsocentinaia di chilometri sulle strade arboree che correvano molto al di sopra

del terreno della foresta.Poi la dolorosa decisione dell'Anziano che mi aveva dichiarato troppo a-

lieno rispetto a loro e il viaggio difficile e pericoloso che i miei genitori efratelli adottivi del Piccolo Popolo avevano intrapreso per portarmi fuoridagli Hellers e farmi arrivare sano e salvo alla Città Commerciale. Dopodue anni di difficile e ribelle riadattamento fisico e mentale alla vita diurna(il Piccolo Popolo, con gli occhi da gufo, ci vedeva meglio di notte e la vi-ta presso di loro era in gran parte notturna), avevo trovato il mio posto in

quel nuovo mondo e mi ero sistemato. Ma gli anni seguenti (dopo che JayAllison aveva preso il sopravvento, probabilmente da uno schema di ricor-di comune a tutti e due) erano scomparsi nel limbo del subconscio.

C'era un raccoglitore pieno di microschede: ne presi una e la infilai nelvisore, con la strana sensazione di spiare e con il fiato sospeso nell'attesa diudire il passo cadenzato e la voce acuta di Jay Allison che mi chiedeva co-sa diavolo credevo di fare, cacciando il naso nelle sue cose. Con l'occhio alvisore lessi dapprima a caso qualcosa a proposito della riduzione delle frat-

ture composte, poi mi resi conto che di un intero paragrafo avevo capitoesattamente tre parole. Mi appoggiai un pugno sulla fronte e udii le paroleriecheggiare vanamente nel cervello: « Lacerazione... versamento prima-

rio... siero e liquido linfatico... tessuto di granulazione...». Quelle parole probabilmente un significato l'avevano e un tempo dovevo averlo saputo;ma, se avevo un'istruzione medica, non ne ricordavo una sola sillaba. Nondistinguevo una frattura da una frazione.

Preso da una improvvisa frenesia, mi strappai di dosso il camice bianco

e indossai la prima camicia che trovai, un indumento cremisi che in quellafila di tessuti bianchi spiccava come un variopinto uccello tropicale su una

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distesa di neve. Mi misi a frugare nei cassetti e negli armadi: dimenticatain un angolo trovai un'altra microscheda che mi parve famigliare e, quandola inserii nel visore, scoprii che si trattava di un libro sull'alpinismo, che per quanto strano potesse sembrare, ricordavo di aver comprato in gioven-tù. Quella scoperta fugò anche gli ultimi dubbi; era chiaro che l'avevocomprato prima che le due personalità divergessero e si separassero in mo-do tanto netto, diventando Jason e Jay. Stavo cominciando a credere, nonad accettare, ma semplicemente a credere che fosse successo. Il libro appa-riva molto usato e i bordi della scheda erano così consunti che avevo dovu-to guidarla a mano nella fessura del visore.

Sotto una pila di biancheria pulita e meticolosamente piegata trovai una bottiglia di whisky mezza piena e mi tornarono in mente le parole del dot-

tor Forth. che affermava di non aver mai visto Jay Allison bere e pensai:«Che povero scemo!» Mi versai un dito di liquore e mi sedetti, sfogliandodistrattamente il libro sull'alpinismo.

La mia ipotesi era che solo quando ero entrato alla scuola di medicina lemie due personalità avessero cominciato a divergere in maniera drastica...tanto drastica che dovevano esserci stati giorni e settimane, e anche anni,in cui il dottor Jay Allison mi aveva tenuto prigioniero. Cercai di far qua-drare le date nella mente consultando persino un calendario, ma quella vi-

sta mi procurò una scossa tale che lo appoggiai a faccia in giù. Lo avreiaperto quando fossi stato un po' sbronzo.

Chissà se i ricordi particolareggiati della mia adolescenza e dei miei ven-t'anni erano gli stessi che aveva il dottor Allison. Non mi sembrava possi- bile: la gente applica un meccanismo selettivo ai ricordi e a quello chevuole dimenticare, quindi giorno dopo giorno, settimana dopo settimana eanno dopò anno, la personalità dominante del dottor Jay Allison mi avevaconfinato sempre più in disparte fino a trasformare quel giovane allegro,

 per più di metà darkovano, amante delle montagne e malato di nostalgia per un mondo non umano, nello studente di medicina freddo e austero chesi tuffava nel lavoro per dimenticare. Ma io, Jason, io ero sempre rimastocome osservatore nascosto, come la persona che Jay Allison non osava es-sere. Perché lui aveva superato i trenta, mentre io avevo solo ventidue an-ni?

Un trillo infranse il silenzio della stanza; ci misi un po' a trovare l'inter-fono sulla parete. «Chi è?» chiesi. E una voce sconosciuta rispose: «Il dot-

tor Allison?»«Non c'è nessuno che si chiama così, qui», risposi automaticamente, e

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stavo per rimettere a posto il ricevitore, quando mi fermai e, con esitazio-ne, dissi: «È lei, dottor Forth?»

Era lui e trassi un sospiro di sollievo. Non volevo nemmeno pensare acosa avrei detto se qualcun altro avesse insistito per sapere per quale ra-gione rispondevo al citofono privato del dottor Allison. Quando Forth ebbefinito di parlare, mi avvicinai allo specchio e mi guardai, cercando di ritro-vare dietro il mio viso i lineamenti angolosi di quell'estraneo, il dottor Al-lison. Stavo perdendo tempo, mentre il mio cervello elencava mentalmentele cose necessarie per una spedizione in montagna e la lunga abitudine aorganizzare spedizioni aggiungeva giacche a vento e calze di lana. Il visoche mi guardava era un viso giovane, senza rughe, con qualche lentiggine,lo stesso viso di sempre, tranne che per l'abbronzatura che non c'era più;

Jay Allison mi aveva tenuto al chiuso per troppo tempo. All'improvvisocolpii lo specchio con un pugno.

«Va' al diavolo, dottor Jay Allison», esclamai, e andai a controllare se ilmio alter ego aveva tenuto degli indumenti che si potevano utilizzare per quel viaggio.

CAPITOLO 3LA SPEDIZIONE

Il dottor Forth mi stava aspettando al piccolo eliporto sul tetto, accantoad un elicottero, uno di quelli piuttosto vecchi che venivano assegnati alservizio medico quando erano troppo malandati per essere usati in missioniad alta priorità. Forth osservò con espressione meravigliata la mia camiciacremisi, ma non fece commenti e mi salutò come se niente fosse. «Salve,Jason. C'è una cosa che dobbiamo decidere immediatamente: riveliamo al-la squadra la sua vera identità?»

Scossi la testa con decisione. «Io non sono Jay Allison; non voglio né ilsuo nome né la sua reputazione. A meno che tra gli uomini non ci sia qual-cuno che conosce Allison di vista...» «Qualcuno c'è, ma non credo proprioche la riconoscerebbero.»

«Gli dica che sono il suo fratello gemello», dissi senza entusiasmo.«Non sarà necessario, la rassomiglianza non è sufficiente.» Forth si girò

e fece un cenno a un uomo che stava facendo qualcosa accanto all'elicotte-ro e mentre questi si avvicinava, mi disse sottovoce: «Adesso vedrà cosa

intendo».L'uomo indossava l'uniforme delle Forze Spaziali, di cuoio nero con un

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 piccolo arcobaleno di stelle su di una manica, tutte di diverso colore, cheindicavano il numero di pianeti sui quali aveva prestato servizio. Era unuomo non giovane, attorno alla cinquantina, massiccio e muscoloso, con ilvolto segnato dalle rughe e un labbro spaccato. Mi piacque subito; ci strin-gemmo la mano e Forth disse: «Questo è il nostro uomo, Kendricks: sichiama Jason ed è un esperto del Piccolo Popolo. Jason, questo è Buck Kendricks».

«Lieto di conoscerla, Jason.» Mi parve che Kendricks mi fissasse per qualche secondo di troppo. «L'elicottero è pronto, salite... dottore, lei vienecon noi fino a Carthon, vero?»

Ci infilammo le giacche a vento e l'elicottero si librò senza fare rumorenel cielo rosso pallido. Seduto accanto a Forth, guardai Darkover che si

svelava sotto di noi attraverso una coltre di rade nuvole lilla.«Kendricks mi ha guardato in modo strano, Doc. Cosa lo rode?»«Conosce Jay Allison da otto anni», rispose Forth a bassa voce, «eppure

non l'ha riconosciuta.»Con mio grande sollievo, la cosa finì lì e non se ne parlò più. Invece,

mentre il rotore silenzioso ci trasportava lontano dalla zona della CittàCommerciale, parlammo di Darkover. Forth mi ragguagliò sulla Febbredegli Arboricoli e riuscì a darmi qualche idea su cosa fossero i fattori san-

guigni e sul perché fosse necessario persuadere cinquanta o sessanta diquegli umanoidi a tornare a Thendara con noi, per donare sangue da cui i-solare e poi sintetizzare l'anticorpo.

Se fossi riuscito in una simile impresa, avrei fatto una cosa senza prece-denti. La maggior parte degli Arboricoli non toccavano mai terra in tutta lavita, tranne quando dovevano valicare i passi al di sopra della linea dellenevi perenni. Forse meno di una decina di loro, compresi i miei genitoriadottivi che avevano intrapreso il faticoso viaggio per farmi attraversare il

 passo Dammerung, avevano mai valicato la catena di montagne attorno alloro territorio che li isolava dal resto del mondo. Qualche volta gli uomini penetravano nella foresta alla ricerca del Piccolo Popolo, ma si trattava diun traffico a senso unico: il Piccolo Popolo non andava mai alla ricerca de-gli uomini. 

Parlammo anche di quegli esseri umani che erano penetrati nel territoriodegli Arboricoli, attraversando le montagne che erano state ribattezzateHellers dai primi terrestri che avevano cercato di sorvolarle a una quota

 più bassa o a una velocità inferiore a quella di un'astronave.«Che mi dice della squadra che ha scelto? Non sono terrestri?»

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Forth scosse il capo. «Sarebbe un assassinio mandare negli Hellers qual-cuno chiaramente identificabile come terrestre. Sa come la pensa il PiccoloPopolo sugli stranieri che penetrano nel loro territorio.» Lo sapevo ecco-me. «In ogni caso», proseguì il dottore, «due terrestri ci saranno.»

«Ma non conoscono Jay Allison?» Non volevo dovermi anche preoccu- pare che qualcuno, chiunque, potesse riconoscermi e si aspettasse dunquedi vedermi comportare come il mio alter ego dimenticato.

«Kendricks la conosce. Ma sarò assolutamente sincero con lei: non homai conosciuto molto bene Jay Allison, se non come collega. Negli ultimidue giorni, durante le sedute ipnotiche, sono venuto a conoscenza di uncerto numero di cose che lui non si sarebbe mai sognato di dire né a me néa nessun altro, se fosse stato cosciente. Ma quelle confidenze rientrano nel

segreto professionale... anche per quello che la riguarda. E per questa ra-gione ho scelto di mandare Kendricks, e lei dovrà correre il rischio di esse-re riconosciuto. Non è Carthon quella laggiù?»

Carthon era adagiata ai piedi delle colline alla base degli Hellers, antica,massiccia e color marrone bruciato per la polvere di cinquemila anni. I bambini corsero fuori dalle case per guardare l'elicottero che atterrava vi-cino alla città, perché erano pochi gli aerei che volavano a quota tanto bas-

sa da poter essere visti, e nessuno così pericolosamente vicino agli Hellers.Forth ci aveva fatti precedere dalla squadra, che era stata alloggiata in un

grande edificio abbandonato alla periferia della città, che avrebbe potutoessere un enorme magazzino o un palazzo in rovina. All'interno vi eranoun paio di grossi camion arruginiti e mal ridotti, pronti per essere demolitiavrei detto, come avveniva per tutti i macchinari importati dalla Terra. C'e-rano animali da soma, sagome scure nella penombra, e casse ammontic-chiate in una sorta di ordinato disordine. Nell'angolo più lontano era acce-

so un fuoco attorno al quale erano seduti a chiacchierare cinque o sei uo-mini in abiti darkovani: camicie a maniche lunghe, pantaloni aderenti estivali bassi. Quando Forth, Kendricks e io entrammo si alzarono e il dot-tore li salutò in un darkovano zoppicante con un accento atroce, poi passòsubito a parlare terrestre standard, lasciando che uno di loro traducesse.

Il dottore mi presentò semplicemente come «Jason», secondo l'uso dar-kovano e io osservai attentamente gli uomini, ad uno ad uno. Un tempo,quando facevo dell'alpinismo per diletto, preferivo scegliere attentamente

gli uomini che portavo con me, ma era chiaro che chiunque avesse sceltoquesta squadra sapeva il fatto suo.

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Tre di loro erano darkovani delle montagne, uomini snelli, robusti, che siassomigliavano tanto da poter essere fratelli (e infatti più tardi scoprii chelo erano) : Hjalmar, Garin e Vardo, tutti e tre intorno al metro e novanta distatura; Hjalmar poi sovrastava i fratelli (che non imparai mai distinguerel'uno dall'altro) addirittura di tutta la testa. Il quarto uomo, con i capellirossi, era vestito meglio degli altri e mi venne presentato come Lerrys Ri-denow (il doppio nome stava ad indicare l'aristocrazia di rango di Darko-ver): era agile e muscoloso, ma le mani erano un po' troppo curate per es-sere quelle di un montanaro e mi chiesi quanta esperienza avesse di alpini-smo.

Il quinto uomo mi strinse la mano e si rivolse a Kendricks e Forth comese fossero vecchi amici. «Non ci siamo già visti da qualche parte, Jason?»

Aveva l'aspetto di un darkovano e indossava abiti darkovani, ma Forthmi aveva messo in guardia, quindi pensai che la miglior difesa fosse l'at-tacco. «Non sei un terrestre?»

«Mio padre lo era», rispose lui e io capii; era una situazione non moltoinsolita, ma piuttosto delicata su un pianeta come Darkover. «Dobbiamoesserci incontrati al QG», risposi con noncuranza, «ma non riesco a ricor-dare dove.»

«Mi chiamo Rafe Scott. Credevo di conoscere la maggior parte delle

guide professioniste di Darkover, ma ammetto di non venire spesso negliHellers», confessò. «Che strada prenderemo?»

Mi ritrovai così al centro del gruppo di uomini, accettai una delle piccolee dolci sigarette darkovane e guardai la mappa che qualcuno aveva schiz-zato sulla parte superiore di una cassa. Mi feci prestare una matita da RafieScott e disegnai una sommaria mappa del territorio che ricordavo senza in-certezze dal tempo della mia infanzia. Forse i fattori sanguigni mi lascia-vano stranito, ma quando si trattava di alpinismo ero nel mio campo. Rafe,

Lerrys e i tre fratelli darkovani si affollarono alle mie spalle per guardarelo schizzo e Lerrys indicò con un dito il sentiero che avevo segnato.

«Qui l'altezza è piuttosto pericolosa», disse in tono diffidente. «Durantela campagna di 'Narr il Piccolo Popolo ci ha attaccati proprio in quel pun-to, e combattere lungo quelle strette cenge non è stato affatto facile.»

Lo guardai con nuovo rispetto: anche se aveva le mani da damerino, erachiaro che conosceva il territorio. Kendricks batté la mano sul fulminatoreche portava al fianco e disse torvo: «Ma questa non è la campagna di 'Narr.

Vorrei proprio vedere se il Piccolo Popolo ci attaccherà, se avrò uno diquesti».

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«Ma non lo avrai», disse una voce forte e autoritaria alle nostre spalle.«Metti via quell'arma, amico!»

Sia Kendricks che io ci girammo di scatto per vedere chi aveva parlato,un giovane darkovano alto, ancora nascosto nell'ombra. Il nuovo arrivato sirivolse direttamente a me.

«Mi dicono che siete un terrestre ma che conoscete bene il Piccolo Po- polo... certo non avrete intenzione di usare contro di loro armi a fusione oa fissione?»

Di colpo mi ricordai che adesso eravamo in territorio darkovano e chedovevamo fare i conti con il loro orrore verso tutte le armi che avevanouna gittata superiore al braccio dell'uomo che le impugnava. Che si trattas-se di una normale pistola a proiettili o di una bomba al super cobalto, per i

darkovani era la stessa cosa.«Ma non possiamo viaggiare disarmati nel territorio del Piccolo Popo-

lo!» Protestò Kendricks. «Incontreremo di certo delle bande di quelle crea-ture e quei loro lunghi coltelli sono molto pericolosi!»

«Non ho nessuna obiezione se tu o qualcun altro si porta un coltello per difesa personale», rispose il darkovano con voce tranquilla.

«Un coltello?»  ruggì Kendricks. «Ascolta un po', giovanotto... ma chicredi di essere?»

Un mormorio si levò tra i darkovani e l'uomo in ombra rispose: «RegisHastur».

Kendricks strabuzzò gli occhi. Fui sul punto di avere anch'io la stessareazione, ma poi decisi che era arrivato il momento di assumere il coman-do delle operazioni. Ora o mai più. «Va bene, qui sono io che comando.Buck, dammi il fulminatore.»

Kendricks mi guardò con odio per qualche secondo, mentre io mi chie-devo cosa avrei fatto se non mi avesse consegnato l'arma; poi, lentamente,

Buck slacciò il cinturone e mi porse il fulminatore, dalla parte del calcio. Non mi ero mai reso conto di quanto sembrasse svestito un uomo del

Servizio Spaziale senza un'arma al fianco. Tenni ostentatamente in manol'arma per qualche istante, mentre Regis Hastur usciva dall'ombra. Era altoe aveva i capelli rossi e la carnagione chiara caratteristica dell'aristocraziadarkovana. Sul suo volto c'era un'impronta indefinibile... arroganza, forse,o la consapevolezza che gli Hastur avevano governato quel mondo per se-coli prima che i terrestri arrivassero con le loro navi e portassero il com-

mercio e l'universo alle soglie delle loro case. Mi guardava come se appro-vasse il mio gesto e questo rendeva la situazione ancora peggiore di prima.

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Così, rivolgendomi a lui nella forma rispettosa della lingua darkovanausata verso un superiore (cosa che lui era), ma mantenendo un tono di voceduro, dissi: «Nei miei viaggi c'è un solo capo, nobile Hastur, e in questoviaggio in particolare quel capo sono io. Se desiderate discutere del fattoche si possano o meno portare armi, vi suggerisco di discuterne con me in privato... e lasciare che sia io a dare gli ordini».

Sentii uno dei darkovani ansimare; stavo rischiando, avrei potuto essereaggredito per il mio tono, ma con un gruppo di uomini così misto, dovevoimpormi subito, altrimenti sarei stato messo fuori gioco. Non lasciai a Re-gis Hastur neppure il tempo di rispondere e dissi: «Venite da questa parte,intendevo comunque parlarvi».

Mi seguì e a quel punto mi ricordai di respirare. Lo condussi in un ango-

lo deserto di quell'edificio immenso e gli chiesi: «Ditemi un po': cosa ci fa-te qui? Non avrete per caso intenzione di attraversare le montagne connoi?»

Lui sostenne il mio sguardo senza battere ciglio. «Certamente.»«Per quale ragione?» gemetti. «Voi siete il nipote del Reggente; la gente

importante non si caccia in imprese pericolose. Se vi succede qualcosa, nesarò ritenuto responsabile io!» Avrei avuto già abbastanza guai anche sen-za essere costretto a fare da balia a uno dei personaggi più riveriti di tutto

quel maledetto pianeta! Non volevo ritrovarmi tra i piedi qualcuno da sor-vegliare o da trattare con deferenza o, peggio ancora, da ascoltare.

Lui corrugò leggermente la fronte ed ebbi la sgradevole impressione chesapesse cosa stavo pensando. «In primo luogo, non credete che per il Pic-colo Popolo sarà un segno di rispetto la presenza di un Hastur che viene arichiedere i loro favori?»

Aveva ragione. Gli arboricoli in genere non prestavano alcuna attenzio-ne alle cose degli esseri umani, se non per considerarli una preda da spo-

gliare quando sconfinavano nel loro territorio senza permesso; ma ancheloro, come tutto Darkover, veneravano gli Hastur e la presenza del nipotedel Reggente poteva essere un'accorta mossa diplomatica. Se i darkovaniinviavano il loro personaggio più importante, forse il Piccolo Popolo ci a-vrebbe ascoltati.

«In secondo luogo», proseguì Regis Hastur, «i darkovani sono il mio popolo e spetta a me negoziare per loro. In terzo luogo conosco il dialettodel Piccolo Popolo, non benissimo, ma sono in grado di parlarlo un poco.

E, da ultimo, ho scalato montagne tutta la vita: da dilettante, certo, ma sta-te sicuro che non vi sarò d'impaccio.»

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 Non c'era molto da ribattere a quel discorso; Hastur aveva chiariti tutti i punti... tutti, forse, tranne uno. Dopo un attimo aggiunse, con aria sagace:«Per ora non preoccupatevi; sono ben felice di cedervi il comando. Per oranon reclamerò il... privilegio».

Dovetti accontentarmi della sua affermazione.

Darkover è un pianeta civilizzato con un tenore di vita piuttosto alto, manon è una cultura meccanizzata o tecnologica. Poca estrazione di mineralie quasi nessuna fabbrica, e le poche impiantate dalle imprese terrestri nonavevano fatto una gran fortuna: al di fuori della Città Commerciale mac-chinari e mezzi di trasporto sono praticamente sconosciuti.

Mentre gli uomini controllavano e caricavano le provviste e Rafe Scott

andava a prendere contatto con degli amici per organizzare i dettagli del-l'ultimo minuto, io rimasi con il dottor Forth per memorizzare le cognizio-ni mediche che avrei dovuto spiegare con chiarezza al Piccolo Popolo.

«Se solo fossimo riusciti a lasciarle le sue conoscenze mediche!»«Il guaio è che fare il dottore non si adatta alla mia personalità», risposi.

Mi sentivo assurdamente felice. Dal punto in cui ero seduto, sollevando latesta riuscivo a vedere il panorama di colline verde cupo che si stendevadietro Garthon e individuare la strada di pietra, una specie di nastro bianco,

che avremmo seguito per là prima parte del viaggio. Forth però non condi-videva il mio entusiasmo.

«Lo sa, Jason, esiste un pericolo reale...»«Crede che mi importi del pericolo? O teme forse che diventi... temera-

rio?»«Non esattamente. Non si tratta di un pericolo fisico: è un pericolo emo-

tivo... o meglio, intellettuale.»«Diavolo, dottore, non conosce altro linguaggio che quelle cavoiate psi-

cologiche?»«Mi lasci finire, Jason. Jay Allison era represso e supercontrollato, ma

lei è fin troppo impulsivo. Le manca un bilanciere, per così dire; e se corretroppi rischi, il suo alter ego sepolto potrebbe tornare in superficie e rias-sumere il comando per pura auto-conservazione.»

«In altre parole», dissi ridendo, «se spavento a morte il buon vecchio Al-lison, potrebbe cominciare a rivoltarsi nella tomba?»

Forth tossicchiò, nascondendo un sorriso, e ammise che sì, le cose pote-

vano anche stare così. Gli diedi una pacca sulla spalla per rassicurarlo edissi: «Se lo scordi. Ho promesso di essere buono, sobrio e laborioso, ma

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c'è forse una legge che mi proibisca di godermi quello che faccio?»Qualcuno uscì dall'edificio, ex magazzino o ex palazzo, e gridò: «Jason!

È arrivata la guida». Io mi alzai in piedi, rivolgendo un gran sorriso aForth. «Non si preoccupi: ci siamo sbarazzati di Jay Allison», gli dissi, erientrai nell'edificio per conoscere l'altra guida che avevano assunto.

«Che mi venisse un colpo!» pensai, quando vidi che la guida era unadonna.

Era di bassa statura rispetto alla media delle donne darkovane, di costi-tuzione minuta, il genere di corpo che a un primo sguardo si sarebbe potu-to definire da adolescente o da ragazzo e non certo femminile. Capelli cortie ricci, di un nero con riflessi blu, che ombreggiavano un viso abbronzatoè occhi con ciglia tanto folte che non riuscii a distinguere il colore. Aveva

un naso leggermente camuso che avrebbe potuto essere ridicolo e che leconferiva invece un'aria arrogante. La bocca era grande e le guance roton-de.

Tese la mano a palmo in su e si presentò con tono pacato: «Kyla n'haRainéach, Libera Amazzone e guida».

Risposi al gesto con un cenno del capo, aggrottando la fronte. La Legadelle Libere Amazzoni, o Rinunciatarie, aveva rappresentanti praticamentein ogni professione, ma quella di guida alpinistica mi sembrava piuttosto

 bizzarra anche per un'amazzone. Certo la ragazza pareva agile e resistentee il suo corpo, nascosto sotto la camicia pesante, privo di fianchi e di senoquasi quanto il mio: solo le gambe lunghe e snelle erano indiscutibilmentefemminili.

Gli uomini stavano controllando le provviste e caricandole sui camion;con la coda dell'occhio notai che anche Regis Hastur non disdegnava la sua parte di lavoro e stava caricando e sollevando casse come tutti gli altri. Misedetti su un sacco ancora a terra e feci cenno alla ragazza di sedersi.

«Hai esperienza di guida? Ci inoltreremo negli Hellers attraverso ilDammerung ed è un sentiero duro anche per un professionista.»

«L'anno scorso ero con la spedizione terrestre di Cartografia ed Esplora-zione che ha attraversato la catena del Polo Sud.»

«Sei mai stata negli Hellers? Se mi succede qualcosa, saresti capace diriportare il gruppo sano e salvo a Carthon?»

Lei abbassò lo sguardo sulle dita tozze. «Sono certa di essere in grado»,disse, e fece per alzarsi. «È tutto?»

«Ancora una cosa», dissi facendole cenno di fermarsi. «Kyla, tu sarail'unica donna tra otto uomini...»

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Lei arricciò il naso camuso, «Non mi aspetto di vederti strisciare sotto lemie coperte, se è questo che intendi. Non è nel mio contratto... spero!»

Mi sentii arrossire come un ragazzine. Accidenti a quella donna! «Nelmio non c'è di certo», scartai. «Ma non posso rispondere per gli altri setteuomini, alcuni dei quali sono rudi montanari.» E, mentre lo dicevo, michiesi perché poi dovessi preoccuparmi tanto: di certo una libera amazzoneera in grado di difendere la sua virtù, oppure no, a seconda di quello chevoleva, senza nessun bisogno di aiuto da parte mia. Così cercai di scusarmiaggiungendo: «In ogni caso sarai un elemento di disturbo... e io non voglioneanche delle risse!»

Lei emise uno strano suono di gola, come se fosse divertita. «Nel nume-ro c'è sicurezza e... sei a conoscenza degli effetti fisiologici che provoca

l'altitudine agli uomini abituati a vivere a livello del mare?» Di colpo gettòindietro la testa e il suono di gola si trasformò in una risata allegra. «Jason,io sono una Libera Amazzone e questo significa... no, non sono stata ca-strata, anche se alcune di noi lo sono. Ma hai la mia parola che non creeròguai di natura squisitamente femminile.» Si alzò. «E adesso, se non ti spia-ce, vorrei controllare l'attrezzatura da montagna.»

I suoi occhi stavano ancora ridendo di me, ma chissà perché, non me neimportava.

CAPITOLO 4VERSO CARTHON

Ci mettemmo in viaggio quella sera, un piccolo gruppo stranamente as-sortito, con un camion per le provviste e un altro in cui erano stipati gli a-nimali da soma, per niente soddisfatti di quella sistemazione. L'antica stra-da di pietra, sbrecciata e segnata qua e là dalle piene e dal limo dei secoli,

era stata progettata per essere percorsa solo dai piedi degli uomini e dallezampe degli animali. Oltrepassammo minuscoli villaggi e fattorie isolate equalcuna delle Torri solitarie dove i tecnici delle matrici lavoravano in so-litudine con l'antica scienza di Darkover, torri di pietra grezza che a voltedi notte brillavano come fari azzurri nell'oscurità.

Kendricks guidava il camion in cui erano stipati gli animali e se la gode-va un mondo. Rafe e io invece ci alternavamo al volante di quello delle provviste, dividendo il largo sedile anteriore con Regis Hastur e Kyla,

mentre gli altri uomini avevano trovato posto tra le casse e i sacchi di provviste. Una volta, mentre Rafe era alla guida e la ragazza sonnecchiava

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con il mantello sopra il volto per ripararsi dal sole, Regis mi chiese: «Co-me sono le città aeree?»

Cercai di spiegarglielo, ma non sono mai stato bravo a mettere in parolele descrizioni e quando Hastur si accorse che non ero disposto a parlare,non fece altre domande e io mi ritrovai libero di riandare con il pensiero aquello che sapevo degli Arboricoli e del loro mondo.

A quanto sembra la natura segue uno schema di similarità su tutti i pia-neti abitati, che tende verso l'economia e la semplicità della forma umana.La stazione eretta, le braccia snodate, i pollici opponibili, la sensibilità alcolore dei nodi e dei coni oculari, lo sviluppo del linguaggio e il lungosvezzamento da parte dei genitori... tutte queste cose paiono essere in-dispensabili alla crescita della civiltà che alla fine viene definita umana. A

 parte variazioni di poco conto dovute al clima, gli abitanti di Darkover o diMegaera non sono distinguibili da un terrestre o da un abitante di Sirio; ledifferenze sono soprattutto culturali e a volte una cultura isolata si sviluppain una direzione insolita o si ferma a uno stadio primordiale, a metà stradanella scala dell'evoluzione, che, perlomeno sui pianeti conosciuti, conside-ra ancora l' Homo sapiens come la più complessa delle forme della natura.

Il Piccolo Popolo era una sorta di gradino intermedio, una pausa evoluti-va che si era dimostrata piuttosto lunga. Quando il ramo principale dell'e-

voluzione su Darkover aveva abbandonato gli alberi e aveva ingaggiato lalotta per l'esistenza a terra, alcuni erano rimasti indietro. Ma l'evoluzione per loro non si era fermata, semplicemente si erano sviluppati nell'homo

arborens, umanoidi notturni, nictalopi che trascorrevano la loro esistenzanelle immense foreste.

Il camion sobbalzò sulla strada piena di buche. Il vento era gelido. Ilveicolo era solo un mezzo di trasporto ridotto all'essenziale che non avevalussi come i finestrini. Mi svegliai di soprassalto... a quali sciocchezze sta-

vo pensando? Idee vaghe a proposito dell'evoluzione si rincorrevano nellamia mente come bolle scoppiate... il Piccolo Popolo? Era solo il PiccoloPopolo, chi poteva spiegarli? Jay Allison, forse? Rafe voltò la testa e michiese: «Dove ci fermiamo per la notte? Sta facendo buio e dobbiamo an-cora inventariare il materiale!» Mi scossi e ripresi in mano la guida dellaspedizione.

Ma una volta parcheggiati i camion, issata una tenda e scaricati e impa-stoiati gli animali e dopo aver cominciato la cernita dell'equipaggiamento,

me ne restai disteso sveglio, ad ascoltare il sonoro ronfare di Kendricks,terrorizzato all'idea di addormentarmi. Quando avevo sonnecchiato sul

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camion, avevo avuto uno strano e agghiacciante vuoto di coscienza: ero io,ma al tempo stesso non ero io, che mi trastullavo con pensieri che non ri-conoscevo come miei. Se mi fossi addormentato chi sarei stato al mio ri-sveglio?

Avevamo piantato il campo nella curva di un grande fiume poco profon-do, il Kadarin, considerato per tradizione il punto di non ritorno da darko-vani e terrestri. Al di là del fiume si stendevano fitte foreste e, ancora oltre,le pendici degli Hellers, che si innalzavano e si innalzavano, ricoperte diforeste impenetrabili in ogni gola e in ogni valle, e in mezzo a quelle fore-ste viveva il Piccolo Popolo.

Ma anche se tutto quel territorio era fittamente popolato di colonie diconfine e di nidi, non sarebbe servito a nulla parlare con loro: avremmo

dovuto trattare direttamente con l'Anziano del Nordest, dove avevo tra-scorso la maggior parte della mia infanzia.

Da tempo immemorabile il Piccolo Popolo, generalmente inoffensivo,aveva mantenuto confini ben definiti tra le loro terre e quelle degli uominiche vivevano al suolo: gli Arboricoli non si avventuravano mai al di quadel Kadarin e dal canto loro gli umani che sconfinavano nel territorio delPiccolo Popolo diventavano automaticamente, in virtù di quei confini, pre-de da cacciare.

Alcune comunità montane darkovane avevano trattati di scambio con ilPiccolo Popolo, al quale vendevano stoffe, metalli forgiati, piccole suppel-lettili in cambio di noci, cortecce per tintura e foglie e certi particolari tipidi muschi dalle virtù medicinali. E in alcuni casi il Piccolo Popolo permet-teva loro di cacciare nelle foreste senza essere molestati. Ma altri esseriumani che si fossero avventurati nel loro territorio, correvano il rischio divenir attaccati senza pietà. Gli abitanti degli alberi non erano feroci, nonuccidevano per il piacere di farlo, ma attaccavano in gruppi di venti o tren-

ta e la loro preda veniva spogliata di tutto quello che era possibile traspor-tare.

Viaggiare attraverso il loro territorio sarebbe stato pericoloso.

Seduto davanti alla tenda, contemplavo la distesa d'acqua che il sorgeredel sole colorava di rosa. Gli animali pascolavano nell'erba bassa dietro latenda; i camion erano sfingi ricoperti da teloni carichi di rugiada. RegisHastur usci dalla tenda sfregandosi gli occhi e si unì a me sul greto del fiu-

me.«Cosa ne pensate? Sarà un viaggio difficile?»

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«No, non direi; conosco i sentieri principali e so come tenermi alla larga.È solo...» esitai, e Regis mi incitò: «Che cosa?»

«Be'... è... siete voi», dissi dopo qualche istante. «Se vi accade qualcosa,tutto Darkover me ne riterrà responsabile.»

Lui sorrise e nella luce rossa parve la personificazione di un'antica leg-genda. «Responsabile? Voi non mi date l'impressione di essere il tipo chesi preoccupa, Jason. Per che razza di inetto mi prendete? So come cavar-mela tra le montagne e non ho paura del Piccolo Popolo, anche se non loconosco quanto voi. Avanti... vado a prenderla io la colazione o andatevoi?»

Scrollai le spalle e mi diedi da fare accanto al fuoco. Regis aveva fatto lasua parte di lavoro ad ogni fermata, senza ostentazione e con assoluta natu-

ralezza e questo aveva sorpreso gli altri due terrestri, Rafe e Kendricks,che davano per scontato i capi lasciassero ai poveri soldati semplici tutti ilavori più umili. Ma nonostante le rigide distinzioni di casta, quel genere didifferenze sociali terrestri su Darkover semplicemente non esistevano. Neppure la galanteria aveva corso, e solo Kendricks trovò qualcosa da ridi-re quando Kyla si assunse il compito di governare le bestie da soma e fecela sua parte a caricare casse e sacchi.

Dopo un po' Regis mi raggiunse accanto al fuoco. I tre fratelli montanari

si erano svegliati e ora erano al fiume a lavarsi rumorosamente. Gli altridormivano ancora. «Devo farli uscire?» mi chiese.

«Non ce n'è bisogno. Il Kadarin è alimentato dalle maree dell'oceano e per guadarlo dovremo aspettare la bassa marea. Prima di poter attraversaresenza rovinare tutto l'equipaggiamento sarà quasi mezzogiorno.»

Regis annusò la pentola. «Ha un buon profumo», dichiarò e vi immersela sua scodella, poi si sedette tenendo in equilibrio il cibo su un ginocchio.Seguii il suo esempio e Regis domandò: «Parlatemi un po' di voi, Jason:

come mai sapete tante cose sul Piccolo Popolo? Lerrys ha partecipato allacampagna di 'Narr, ma voi mi sembrate troppo giovane per esserci stato.»

«Sono più vecchio di quello che sembro», risposi, «ma non abbastanzavecchio da aver partecipato alla campagna.» (Durante la breve guerra civi-le sui monti combattuta dai darkovani contro il Piccolo Popolo di 'Narr, ioavevo undici anni e avevo spiato gli invasori umani; ma questo a Regisnon lo dissi.)

«Sharra! Eravate voi?» Il principe darkovano sembrava sinceramente

impressionato. «Non mi stupisco che vi abbiano assegnato l'incarico! Co-me vi invidio, Jason!»

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Io risi - una risata breve e secca.«No, sul serio, Jason. Da ragazzo ho cercato di entrare nel Servizio Spa-

ziale Terrestre, ma la mia famiglia alla fine è riuscita a convincermi che,come Hastur, avevo già un lavoro che mi aspettava.... che noi Hastur ave-vamo il compito e la missione di mantenere le pacifiche relazioni tra terre-stri e darkovani. Questo mi mette terribilmente in svantaggio, sapete: tutti pensano che dovrei andarmene in giro con i cuscini attorno alla testa per non farmi male se cado.»

«E allora perché diavolo vi hanno lasciato partecipare ad una missionetanto pericolosa?» sbottai.

L'Hastur sbatté gli occhi, ma l'espressione del suo viso rimase assoluta-mente imperturbabile e la sua voce normale. «Ho fatto notare al mio signo-

re che ero stato molto assiduo nei miei doveri nei confronti degli Hastur:ho cinque figli, di cui tre legittimi, che sono nati negli ultimi due anni.»

Il cibo mi andò di traverso, sputacchiai ed esplosi in una risata, mentreRegis si alzava in piedi e andava a lavare la scodella nel fiume.

Quando lasciammo il campo il sole era già alto. Mentre gli altri carica-vano gli ultimi attrezzi, pronti a salire in sella, diedi a Kyla l'incarico di preparare gli zaini che ci saremmo caricati in spalla quando il sentiero sa-

rebbe diventato impraticabile per le bestie da soma, e poi mi diressi sulgreto per controllare la profondità del guado e osservai le alte catene mon-tuose avvolte nella bruma rossastra.

Gli uomini stavano smontando e impacchettando la piccola tenda cheavremmo usato nella foresta; erano di ottimo umore e si davano da farescherzando tra loro. Erano una buona squadra, come avevo già scoperto:Rafe e Lerrys e i tre fratelli darkovani erano instancabili, sempre allegri eabituati alla montagna. Su Kendricks, che si trovava fuori dal suo elemen-

to, si poteva contare perché eseguisse gli ordini e io sentivo di poter far ri-corso a lui. Per quanto strano possa sembrare, proprio il fatto che fosse ter-restre mi dava una sensazione di conforto, mentre all'inizio avevo credutoche sarebbe stata una seccatura.

La ragazza, Kyla, era ancora un'entità sconosciuta: era molto silenziosa etesa, faceva fino in fondo la sua parte, ma raramente dava un suggerimen-to, forse perché non eravamo ancora entrati nel territorio delle montagne.Finora con me era stata schiva e di poche parole, anche se invece si com-

 portava naturalmente con i darkovani e io la lasciavo fare.«Ehi, Jason, datti una mossa», gridò qualcuno e io ritornai verso la radu-

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ra, socchiudendo gli occhi per il sole. Quel gesto mi procurò una fitta didolore e mi resi conto all'improvviso di cosa doveva essere successo. Ilgiorno prima, viaggiando nel camion scoperto e quella mattina, non più a- bituato al sole cocente di quelle latitudini, non avevo preso le precauzionicontro le scottature e la mia faccia era tutta rossa e scottata. Mi avvicinai aKyla, che stava assicurando l'ultimo sacco su uno degli animali, lavoro nelquale era maestra.

 Non mi lasciò neppure parlare, ma prese atto della situazione. Mi lanciòuno sguardo divertito e accennò con la testa al mio viso. «Scottato? Mettiun po' di questo», disse porgendomi un tubetto di crema. Lo presi e lospremetti, con una certa imperizia. Allora lei me lo tolse di mano, schiac-ciò una certa quantità di pomata bianca sul palmo della mano e mi disse:

«China la testa e sta' fermo».Mi spalmò la crema sulla fronte e sulle guànce: era fresca e idratante.

Feci per ringraziarla, ma mi interruppi perché lei scoppiò in una risata.«Cosa diavolo c'è?»

«Dovresti vederti!» gorgogliò. Non ero per niente divertito; senza dubbio dovevo avere un aspetto grot-

tesco, senza dubbio lei aveva il diritto di ridere di me, ma la cosa non migarbava affatto. Per cercare di recuperare un po' dell'autorità che mi sem-

 brava di avere perso, le chiesi: «Hai suddiviso i carichi negli zaini?»«È tutto pronto, tranne i sacchi a pelo. Non ero certa di quanto potessero

 pesare gli zaini», rispose. «Jason, hai degli occhiali da sole per quando ar-riveremo sulla neve?» Io annuì e lei proseguì in tono severo: «Non dimen-ticarteli. La cecità da riflesso, ti do la mia parola, è anche più sgradevoledelle scottature... e molto dolorosa!»

«Accidenti, ragazza, non sono mica stupido!» esplosi.«E allora avresti dovuto sapere come evitare di scottarti», ribatté con

quella sua voce totalmente priva di espressione. «Ecco, questa tienila in ta-sca», proseguì porgendomi il tubetto di crema. «Forse farei meglio a con-trollare anche gli altri per assicurarmi che non se ne siano dimenticati.»Ciò detto se ne andò senza aggiungere altro, lasciandomi con la sgradevoleimpressione che fosse stata lei ad avere la meglio e che mi considerasse un povero irresponsabile.

Forth aveva detto praticamente la stessa cosa.Dissi ai tre fratelli darkovani di far attraversare le bestie da soma nella

 parte più bassa del guado e indicai a Lerrys e Kyla di cavalcare a fianco diKendricks, che non era abituato ai gorghi insidiosi e alle correnti improv-

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vise dei fiumi di montagna. Rafe non riuscì a far entrare nell'acqua il suocavallo e alla fine smontò di sella, si tolse gli stivali e lo trascinò nel fiumetenendolo per le briglie. Io attraversai per ultimo, cavalcando a fianco diRegis Hastur, attento ai possibili pericoli e riflettendo imbronciato che una persona tanto importante per la politica di Darkover non avrebbe dovutorischiare la vita in una missione come quella. Se il Legato terrestre (impro- babile evenienza!) fosse venuto con noi, sarebbe stato circondato dal Ser-vizio Segreto, dalle guardie del corpo, con ogni possibile precauzione con-tro incidenti, attentati o disavventure.

Cavalcammo tutto il giorno, accampandoci poi nel punto più alto cheriuscimmo a raggiungere a cavallo e con gli animali da soma. Il giorno se-guente cominciava la parte difficile del viaggio, la scalata vera e propria,

da fare a piedi. Ci accampammo, ma io dormii molto male. Kendricks,Lerrys e Rafe avevano mal di testa dovuto al sole e all'aria rarefatta; io eroabituato all'altitudine, ma avvertivo ugualmente una sgradevole pressionealle orecchie. Con molta arroganza Regis negò di provare qualsiasi disa-gio, ma continuò a gemere e a gridare nel sonno fino a quando Lerrys nongli diede un calcio; allora rimase sdraiato in silenzio, ma senza più dormi-re, credo. Kyla sembrava risentire meno di tutti, perché era stata per untempo più lungo di tutti noi ad altitudini maggiori. Ma al mattino seguente

 profonde occhiaie scure le segnavano gli occhi.Ma nessuno si lamentò mentre ci preparavamo per l'ultima, lunga ar-

rampicata. Con un po' di fortuna, avremmo potuto attraversare il Damme-rung prima del calar della notte, o almeno bivaccare molto vicino al passo.Quella notte avevamo rizzato il campo nell'ultimo punto in piano; impa-stoiammo gli animali in modo che non si allontanassero, gli lasciammo pa-recchio cibo e ci caricammo con lo stretto indispensabile per la scalata.Prima di attaccare il sentiero ripido e scosceso (poco più di una traccia)

guardai Kyla e ordinai: «Il primo pezzo lo faremo in cordata».Uno dei tre fratelli mi gettò un'occhiata sprezzante. «E ti definisci un al-

 pinista, Jason? Ma se anche la mia sorellina sarebbe in grado di fare quelsentiero senza nemmeno bisogno di una spintarella sul sedere!»

Sollevai il mento e ricambiai l'occhiataccia. «Le rocce sono pericolose etra di noi c'è chi non è assolutamente abituato a procedere in cordata. Èmeglio che ci abituiamo tutti, perché quando cominceranno i passaggi dif-ficili, voglio che tutti sappiano cosa si deve fare.»

Continuavano a non essere convinti, ma nessuno protestò fino a quandonon piazzai il massiccio Kendricks al centro della seconda cordata. Il terre-

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stre guardò torvo la sottile corda di nylon e chiese con un certa apprensio-ne: «Non sarebbe meglio se stessi per ultimo fino a quando non ho impara-to quello che devo? Schiacciato in mezzo a voi due potrei fare qualche stu- pidaggine!»

Hjalmar scoppiò in una risata fragorosa e lo informò che la posizionecentrale in una cordata a tre era sempre destinata al più debole, ai princi- pianti e ai dilettanti. Mi aspettavo che Kendricks si ribellasse, ma il grossoterrestre e il gigante darkovano si limitarono a squadrarsi a vicenda, poiKendricks scrollò le spalle, e legò la corda alla cintura. Kyla ammonì lui eLerrys a non guardare in basso quando attraversavano i passaggi esposti eci mettemmo in cammino.

Il primo tratto fu fin troppo facile, un sentiero largo e segnato che si i-

nerpicava serpeggiando per qualche chilometro; fermandoci a riposare per qualche minuto, ci voltammo e vedemmo tutta la valle distesa sotto di noi.A poco a poco il sentiero si fece più ripido, raggiungendo in alcuni puntiuna pendenza di quasi cinquanta gradi, cosparso di ghiaia, sassi smossi elastroni, costringendoci a fare molta attenzione a dove mettevamo i piedi ead afferrarci agli appigli o appoggiarci contro le rocce. Saggiavo ogni mas-so con estrema cautela, perché il mio peso contro una roccia smossa a-vrebbe potuto farla precipitare addosso agli altri. Subito dietro di me, sepa-

rato da un paio di metri di corda lenta veniva uno dei tre fratelli darkovani(Vardo, credo); l'omone scivolò un paio di volte sulla ghiaia, strattonan-domi con forza e mormorò qualcosa a bassa voce; aveva ragione: in realtà,su pendii come quelli, dove cadere non era pericoloso, sarebbe stato me-glio avanzare senza corda, così un eventuale scivolone avrebbe dato fa-stidio solo a chi scivolava. Ma quella prova mi serviva per capire quelloche avevo bisogno di sapere, cioè che genere di alpinisti stavo per portareattraverso gli Hellers.

Lungo una parete rocciosa il sentiero si restrinse a una cengia di unaquarantina di centimetri ricoperta di arbusti e ghiaietta e con uno stra- piombo di circa quindici metri; un passaggio normale per un alpinista e-sperto, per il quale quaranta centimetri erano come un'autostrada a quattrocorsie. Kendricks, un po' nervoso, fece una battuta a proposito del-l'equilibrista che camminava sul filo, ma quando venne il suo turno, attra-versò sicuro senza perdere l'equilibrio. Anche gli altri tre dilettanti, Lerrys,Rafe e Regis attraversarono senza esitare, ma io mi chiesi come se la sa-

rebbero cavata con un precipizio più profondo; per un vero alpinista unsentiero è sempre un sentiero, sia che corra in mezzo a un prato o a venti

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centimetri di altezza e a uno strapiombo di centocinquanta metri o addirit-tura su una parete a tremila metri da terra.

Attraversata la cengia, il sentiero peggiorò, diventando ancora più ripidoe, a tratti, solo una debole traccia che si inoltrava tra fitti cespugli e bo-schetti di alberi, le cui radici contorte lo nascondevano in parecchi punti,mentre in altri era stato completamente coperto dalla vegetazione. Fummocostretti ad aprirci la strada tra un intrico di rovi che non sarebbero stati unostacolo per un arboricolo, ma che invece facevano dolere i nostri corpi a- bituati al terreno per lo sforzo di scavalcarli o attraversarli; in un puntotrovammo il sentiero ostruito da alcuni tronchi, forse trasportati a valle dauna valanga o da un alluvione. Aggirarli carponi per circa un centinaio dimetri su un nevaio, piegati in avanti per non perdere l'equilibrio, passando

uno alla volta, fu lungo e faticoso, ma nessuno osò in quella circostanzalamentarsi di essere legato alla corda.

Verso mezzogiorno ebbi per la prima volta la sensazione che non fossi-mo soli sulla montagna.

Dapprima fu solo la fugace impressione di un movimento colto con lacoda dell'occhio, l'ombra di un'ombra, ma la quarta volta che lo vidi, chia-mai sottovoce Kyla: «Visto niente?»

«Stavo cominciando a pensare che fosse l'altitudine, o che ci fosse qual-

cosa che non andava nei miei occhi. Ho visto, Jason.»«Cerca un posto dove possiamo riposarci», le ordinai. Ci inerpicammo

lungo un passaggio leggermente incavato, seguiti dall'altro lato dall'imper-cettibile movimento nel sottobosco. «Sarò contento quanto usciremo daqui», mormorai alla ragazza. «Almeno saremo in grado di vedere chi ci se-gue!»

«Se si dovesse arrivare al combattimento», disse lei con mia sorpresa,«preferirei farlo sulla ghiaia che sul ghiaccio!».

Da dietro una collinetta giungeva un rumore assordante. Kyla vi si ar-rampicò e restando in equilibrio su una radice incuneata nella roccia, misele mani a coppa attorno alla bocca e gridò: «Rapide!»

Mi arrampicai anch'io in cima al passaggio e guardai nella stretta forra:lì, il sentiero che avevamo seguito era attraversato e cancellato dalle rapide profonde e turbinose di un torrente di montagna.

A meno di dieci metri di distanza il corso d'acqua si tramutava in una piena ghiacciata, quasi una cascata che saltava dal bordo di un dirupo so-

 pra di noi e nella sua corsa aveva scavato una gola profonda un metro emezzo nel fianco della montagna e precipitava verso il basso con un frago-

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re che mi faceva rimbombare le orecchie. Era violentissima, e chiunque visi fosse avventurato avrebbe immediatamente perso l'equilibrio e sarebbestato trascinato via per chilometri dalla forza della corrente lungo il fiancodella montagna.

Rafe si arrampicò con cautela sul piccolo argine scavato dal torrente e sichinò per raccogliere l'acqua nel palmo della mano e berla. «Accidenti, è più gelida del nono inferno di Zandru! Deve arrivare dritta dal ghiacciaio!»

E infatti era così: ricordavo il sentiero e ricordavo quel punto. Kendrickssi unì a me sulla riva del torrente e chiese: «Come facciamo ad attraversar-lo?»

«Non lo so ancora», risposi, studiando il torrente impetuoso. A circa seimetri sopra le nostre teste enormi alberi con le radici contorte e per metà

scoperte dalle piene ricorrenti, protendevano i loro robusti rami sopra lerapide e tra due di quegli alberi dondolava uno dei precari ponti di lianedel Piccolo Popolo, sospeso a soli tre metri dall'acqua.

 Neppure io avevo mai imparato a camminare senza aiuto su quei pontisospesi, perché le braccia umane non sono più brachiopodi. Un tempo for-se avrei potuto farcela, ma in quel momento, se non ci fossi stato costretto, provarci era fuori questione. Forse Rafe o Lerrys, che erano atletici e dicorporatura leggera, avrebbero potuto farlo come pezzo di bravura, a terra,

su un campo d'erba, ma sopra il fianco di una montagna rocciosa e scosce-sa, dove cadere significava venir trascinati per chilometri lungo un torrenteimpetuoso, ne dubitavo. Quindi il ponte sospeso del Piccolo Popolo erafuori questione... che altre scelte ci restavano?

Feci un cenno a Kendricks, che era l'uomo al quale in quel momento sa-rei stato sicuro di poter affidare la mia vita, e gli dissi: «Parrebbe inguada- bile, ma secondo me due uomini con i piedi ben saldi potrebbero attraver-sarlo. Gli altri potrebbero tenerci assicurati con le corde, in caso venissimo

sbalzati via. Se riusciamo ad arrivare alla riva opposta, possiamo tendereuna corda da quello spuntone di roccia...». Lo indicai con una mano, e ag-giunsi: «Gli altri possono attraversare tenendosi alla fune. I primi due uo-mini sarebbero i soli a correre dei rischi. Te la senti di tentare?»

Lui non mi rispose subito, e io apprezzai la sua prudenza, ma si avvicinòal bordo della forra e guardò le acque impetuose; certo, se fossimo statispazzati via gli altri avrebbero comunque potuto recuperarci con la corda,ma non se fossimo stati maciullati sulle rocce. E in quel momento, ancora

un volta, colsi il movimento furtivo nel sottobosco: se gli Arboricoli aves-sero scelto di attaccarci in quel punto, mentre eravamo per metà dentro e

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 per metà fuori dalle rapide, saremmo stati una preda fin troppo facile evulnerabile.

«Dovremmo poter assicurare una fune con un sistema più semplice»,disse Hjalmar, e prese una delle corde di riserva dal suo zaino, la arrotolò,fece un cappio ad una delle estremità e poi, mantenendosi in equilibrio precario sul bordo delle rapide, la lanciò verso lo spuntone di roccia cheavevo indicato in precedenza a Kendricks. «Se riesco ad agganciarla...»

Il lancio fu troppo corto: Hjalmar raccolse la fune e riprovò. Fece altritre tentativi infruttuosi e alla fine, mentre tutti trattenevamo il fiato, il cap- pio si infilò nello spuntone. Tirammo delicatamente la fune, finché non fu ben dritta e tesa sulle rapide e il nodo non si strinse fino al limite massimo.Allora Hjalmar sorrise e respirò.

«Ecco», disse, e diede un violento strattone alla fune, per saggiarne laresistenza. Lo spuntone roccioso cedette con uno schiocco secco, e precipi-tò nelle rapide, rischiando di trascinare con sé anche Hjalmar. Il masso ro-tolò rimbalzando nell'acqua, sollevando alti spruzzi e portandosi via tuttala corda.

Restammo immobili, a guardare affascinati e inorriditi per un intero mi-nuto, mentre Hjalmar imprecava in modo irripetibile nel dialetto dellemontagne, imitato dai fratelli. «Come diavolo facevo a sapere che quella

maledetta roccia si sarebbe spaccata in due?»«Meglio che si sia spaccata adesso che non quando stavamo attraversan-

do», disse Kyla per nulla turbata. «Io ho un'idea migliore.» Parlando slegòla corda che la teneva legata intorno alla vita e ne legò un'altra attraverso lacintura, poi diede l'estremità a Lerrys. «Tienila forte», gli disse; poi si tolseil telo impermeabile e rimase in piedi rabbrividendo con indosso solo unleggero maglione. Poi si sfilò anche gli stivali e me li gettò. «E adesso is-sami sulle tue spalle, Hjalmar.»

Troppo tardi capii cosa intendeva fare e gridai: «No, non cercare di...»ma lei si era già issata sul precario trespolo rappresentato dalle possentispalle del darkovano e aveva afferrato uno dei cappi di liane che sporgeva-no dalla parte inferiore del ponte sospeso e rimase appesa per qualche i-stante, mentre le corde vegetali dondolavano e cedevano sotto il suo pesosia pur leggero.

«Hjalmar! Lerrys! Tiratela giù!»«Io sono la più leggera di tutti», gridò Kyla con voce acuta, «e non sono

abbastanza robusta per aiutarvi a tenere le corde! E tieni ben stretta quellafune, Lerrys», aggiunse con voce che tremava un poco. «Se la lasci andare,

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sarà stato tutto inutile!»Afferrò saldamente il cappio e con la mano libera si sporse per afferrare

quello dopo, ormai sospesa sopra le rapide. Stringendo le labbra, feci se-gno agli altri di allargarsi sulla riva... non che avremmo potuto fare moltose fosse caduta.

All'improvviso Hjalmar, vedendo la ragazza raggiungere il terzo cappio,che dondolò in modo orribile sotto il suo peso, gridò: «Kyla! Attenta! L'al-tro cappio... non toccarlo... è marcio, sfilacciato!»

Kyla portò anche la mano destra sul terzo cappio, poi si tese per afferra-re il quinto, mancò la presa, si diede un'altra spinta e finalmente si aggrap- pò, con il fiato corto all'appiglio. Io guardavo, terrorizzato: quella maledet-ta ragazza avrebbe dovuto dirmi quali erano le sue intenzioni!

Kyla guardò in basso e noi scorgemmo l'espressione del suo viso, teso per lo sforzo, che luccicava per la patina di crema da sole e di sudore. Lasua minuscola figura dondolava sospesa a tre metri sopra le acque vortico-se e se avesse perso l'appiglio, solo un miracolo avrebbe potuto salvarla.Rimase sospesa per un minuto, poi riprese a dondolarsi avanti e indietro ela terza volta si lanciò in avanti per afferrare l'ultimo cappio.

La liana le scivolò tra le dita, lei cercò di afferrarla con l'altra mano esotto il suo peso la fune si abbassò verso l'acqua, scorrendole tra le dita e

 poi, con uno schiocco, si ruppe a metà. Lanciò un urlo mentre si contorce-va freneticamente nell'aria e atterrò per metà fuori e per metà dentro l'ac-qua... ma sulla riva opposta. Si trascinò fuori dal torrente e rimase accuc-ciata a terra, bagnata fino alla vita, ma in salvo.

I darkovani gridavano felici. Io feci cenno a Lerrys di legare ben strettoil capo della corda ad una radice sporgente e poi gridai: «Sei ferita?» A ge-sti Kyla mi fece capire che il fragore delle rapide copriva le mie parole e poi si chinò per assicurare il suo capo della corda. Sempre a gesti le feci

capire di controllare che i nodi fossero ben stretti, perché se qualcuno dinoi fosse scivolato, lei non era abbastanza forte da fare da ancora.

Tirai io stesso la fune per saggiarne la resistenza e vidi che era ben salda.Allora mi misi i suoi stivali attorno al collo e poi afferrando la corda, in-sieme a Kendricks entrai in acqua.

Era ancora più gelata di quanto mi aspettassi e il primo passo per poconon fu l'ultimo, perché la violenza delle rapide mi fece cadere in ginocchioe sarei finito lungo e disteso se non avessi avuto la corda a cui aggrappar-

mi. Buck Kendricks mi afferrò, e per farlo dovette abbandonare la presasulla corda e io imprecai contro di lui, dicendogliene di tutti i colori mentre

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mi rimetteva in piedi e insieme lottavamo contro la corrente.Mentre avanzavamo a fatica nelle acque turbinose, fui costretto ad am-

mettere tra me che non saremmo mai riusciti ad attraversare senza la cordache Kyla aveva rischiato la vita per portare dall'altra parte.

Rabbrividendo, arrivammo alla riva opposta e ci mettemmo all'asciutto.Feci cenno agli altri di attraversare due alla volta e in quel momento Kylami afferrò il braccio: «Jason...»

«Dopo, maledizione!» urlai per farmi udire al di sopra del ruggito delleacque, mentre sporgevo un braccio per aiutare Rafe a salire sull'argine.

«Non posso... aspettare!» mi urlò nell'orecchio, con le mani chiuse amegafono intorno alla bocca. «Che cosa?» gridai voltandomi verso di lei.

«Ci sono degli... Arboricoli... sulla cima del ponte! Li ho visti! Sono sta-

ti loro a tagliare quel cappio!»Regis e Hjalmar arrivarono per ultimi; a un passo dalla sponda Regis,

che era leggero e di corporatura snella, perse l'equilibrio e cadde in acqua.Hjalmar si voltò per afferrarlo, ma io gli urlai di non farlo, perché eranoancora assicurati l'uno all'altro con le corde e se queste si fossero attorci-gliate, qualcuno avrebbe potuto annegare. Entrai in acqua con Lerrys e in-sieme tirammo fuori Regis, che tossicchiò e sputò, bagnato fino al midollo.

Dissi a Lerrys di lasciare quella corda fissa (anche se avevo poche spe-

ranze che l'avremmo ritrovata al nostro ritorno) e poi mi guardai rapida-mente intorno, incerto sul da farsi. Rafe e Regis e io eravamo bagnati fra-dici, mentre gli altri erano bagnati dalle ginocchia in giù e a quell'altitudineera pericoloso, anche se non eravamo ancora tanto in alto da temere il con-gelamento. Arboricoli o non Arboricoli, dovevamo comunque correre il ri-schio di trovare un posto dove accendere un fuoco per asciugarci.

«Lassù, c'è una radura», dissi, e incominciai a salire.Adesso la scalata era difficile, tanto che in alcuni punti fummo costretti

ad avanzare afferrandoci a degli appigli e appiattendoci contro una pareteche appariva liscia come una tavola. Mentre salivamo, prese a soffiare ilvento, che fischiava attraverso gli alberi e spazzava le rocce, insinuando lesue dita gelide sotto i nostri abiti fradici. Kendricks era in difficoltà e do-vetti aiutarlo, ma il freddo rendeva difficili le cose anche a me. Arrivammoalla radura, un piccolo spiazzo spoglio su di una bassa cresta, e ordinai aidue fratelli darkovani, che tra noi erano i più asciutti, di raccogliere arbustisecchi e di accendere il fuoco. Mancava ancora un po' al tramonto e non

sarebbe stato il momento di preparare il campo, ma prima che i nostri ve-stiti fossero stati abbastanza asciutti sarebbe stato quasi l'imbrunire, così

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diedi ordine di montare ugualmente la tenda. Poi mi rivolsi a Kyla, infuria-to:

«Sentimi bene: un'altra volta non fare più una cosa così azzardata a me-no che non te lo ordini io!»

«Non prendetevela troppo con lei», intervenne Regis, «non saremmomai riusciti a passare senza quella corda fissa. Ottimo lavoro, ragazza.»

«Voi non immischiatevi!» scattai. Aveva ragione lui, ma mi sentii ribol-lire di rabbia vedendo il volto sereno di Kyla illuminarsi di piacere a quellalode.

Il fatto era (fui costretto ad ammettere con me stesso) che con la suacorporatura leggera la ragazza avrebbe corso meno rischi sul ponte sospesoche in mezzo a quelle acque turbinanti. Questo però non contribuì a met-

termi di buon umore, e l'interferenza di Regis Hastur e il sorriso soddisfat-to della ragazza non facevano che rinfocolare il mio risentimento.

Ero indeciso se chiederle cos'altro avesse visto sul ponte, ma poi rinun-ciai; ci avevano risparmiato un attacco sulle rapide, quindi non era esclusoche un gruppo non ostile di arboricoli stesse semplicemente sorvegliandola nostra avanzata o, addirittura, che sapessero addirittura che la nostra erauna missione pacifica.

Ma non ci credetti neppure per un istante: se c'era una cosa che sapevo

degli Arboricoli, era che non li si poteva giudicare secondo parametri u-mani. Cercai di mettermi nei panni di uno di loro, per indovinare cosa a-vrebbero fatto, ma il mio cervello non riusciva più a ritrovare la loro men-talità.

I fratelli darkovani avevano acceso un fuoco senza minimamente curarsidi essere osservati e secondo me il morale e il benessere del mio piccologruppo era più importante della cautela, in quel momento; e i fatti parverodarmi ragione. Radunati attorno al fuoco, mentre i nostri abiti si asciuga-

vano e con una bella tazza di infuso bollente tra le mani, l'ottimismo parveritornare. Mentre Hjalmar le curava la mano che si era escoriata quando laliana le era scivolata tra le dita, Kyla scherzava con gli uomini a propositodella sua esibizione acrobatica.

Ci eravamo accampati sulla sommità di una catena parallela agli Hellerse la catena principale si stendeva davanti ai nostri occhi, trasformata in unarcobaleno di colori dal sole al tramonto: verdi, turchesi e rosa... quellemontagne erano ancora più belle di quanto le ricordassi. La cima che ave-

vamo appena scalato aveva nascosto alla nostra vista il vero massiccio evidi Kendricks spalancare gli occhi quando si rese conto che avevamo ap-

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 pena superato il primo passo e che la parte più difficile doveva ancora ve-nire. La vera catena montuosa si innalzava davanti a noi, ricoperta di fitteforeste sui pendii più bassi e costellata di rocce e granito nelle parti alte,come il paesaggio di una luna deserta e priva di aria. E, sopra le rocce, lecime delle montagne ricoperte di neve bianca e accecante. Da uno dei pic-chi scendeva un ghiacciaio, una sorta di cascata congelata, come se si fossefermata all'improvviso. Ad alta voce, pronunciai il nome usato dal PiccoloPopolo per quelle montagne e lo tradussi per gli altri: «Il Muro Attorno alMondo».

«È un nome adatto», disse Lerrys, che si era avvicinato con la tazza inmano a guardare le montagne. «Jason, quel picco alto non è mai stato sca-lato, vero?»

«Non me lo ricordo», risposi battendo i denti, e tornai verso il fuoco.Regis osservò il lontano ghiacciaio e mormorò: «Non sembra così inespu-gnabile; potrebbe esserci un passaggio lungo il versante occidentale...Hjalmar, non eri con quella spedizione che ha scalato e fotografato l'AltoKimbi?»

Il gigante annuì, con un sorriso orgoglioso. «Siamo arrivati a poche de-cine di metri dalla cima, poi è scoppiata una tormenta e siamo stati costret-ti a tornare indietro. Un giorno affronteremo il Muro Attorno al Mondo... è

già stato tentato, ma nessuno ha mai scalato il picco.»«E nessuno ci riuscirà mai», affermò Lerrys deciso. «Ci sono sessanta

metri di parete rocciosa liscia e a strapiombo... Principe Regis, ci vorreb- bero le ali per arrivarci. E poi c'è quella parete dove cadono le valanghe,quella chiamata la Strada dell'Inferno...»

«Non me ne importa niente se non è mai stato scalato o se non lo saràmai», interruppe Kendricks irritato, «di sicuro non lo scaleremo noi!» Miguardò e aggiunse: «Almeno lo spero!»

«No, non lo scaleremo», risposi, lieto dell'interruzione. Se i più giovanie i principianti volevano dilettarsi progettando ipotetici attacchi alle cateneinespugnabili, meglio per loro, ma dal mio punto di vista era semplicemen-te una perdita di tempo. Mostrai a Kendricks un punto nella catena, di pa-recchio più basso delle cime e ben riparato da valanghe su entrambi i lati.

«Quello è il Dammerung, è di lì che passeremo. Non ci avvicineremo al-le punte più alte; il passo raggiunge un'altitudine di meno di seimila metri,anche se ci sono alcune cenge e passaggi pericolosi. Se ci riusciremo ci

terremo alla larga dalle principali vie aeree e da tutti i villaggi del PiccoloPopolo segnati sulle carte, però potremmo imbatterci in bande giro-

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vaghe...» Di colpo presi una decisione e feci cenno a tutti di avvicinarsi.«Da questo momento in avanti», dissi mettendoli al corrente della situa-

zione, «potremmo venire attaccati. Kyla, racconta quello che hai visto.»Lei posò la tazza e il suo viso assunse un'espressione seria mentre rac-

contava quello che era accaduto sul ponte. «Siamo in missione pacifica,ma questo loro non lo sanno ancora. Quello che dovete tenere bene a men-te, è che non vogliono uccidere, ma solo derubarci e al massimo ferirci. Seci mostreremo determinati», concluse tirando fuori il coltello, che si infilòcon gesto deciso nella cintura, «se ne andranno di nuovo.»

Lerrys mostrò una corta spada che fino a quel momento avevo ritenutoun puro oggetto ornamentale, e disse: «Ti spiace se aggiungo qualche altracosa, Jason? È quanto ricordo dalla campagna di 'Narr: gli Arboricoli

combattono corpo a corpo e combattono sporco, secondo quelle che sonole nostre idee». Si guardò intorno con espressione fiera e un sorriso gli il-luminò il viso non rasato. «Un'ultima cosa: preferirei avere spazio di ma-novra. Dobbiamo per forza stare in cordata quando ci rimetteremo incammino?»

Io riflettei. Il suo entusiasmo alla prospettiva di un combattimento midava fastidio e al tempo stesso, inspiegabilmente, mi rassicurava. «Noncostringerò nessuno a stare legato, se si sente più sicuro senza corda», ri-

sposi. «Ma lo decideremo quando verrà il momento. Il mio potere è che gliArboricoli sono abituati a correre sui sentieri stretti e noi no: la loro primatattica sarà probabilmente quella di cercare di buttarci di sotto, ad uno aduno. Se saremo in cordata, potremo respingerli meglio.» Conclusi l'argo-mento aggiungendo: «In questo momento la cosa importante è di asciugar-ci».

Kendricks rimase al mio fianco dopo che gli altri tornarono a radunarsiaccanto al fuoco, e fissò la fissa foresta che si stendeva sotto il nostro

campo. «Sembra che questo posto sia stato già usato come accampamen-to», disse. «Non siamo vulnerabili agli attacchi qui come lo saremmo inqualunque altro posto?»

Aveva centrato proprio l'unica cosa di cui non volevo parlare: quella ra-dura era fin troppo esposta. «Qui almeno non ci sono troppi cornicioni dacui farci cadere!»

«E tu hai l'unico fulminatore che ci abbiano lasciato!» mormorò lui.«L'ho lasciato a Carthon», gli rivelai. Poi decisi di dirgli come stavano le

cose.«Ascolta, Buck: se uccidiamo anche un solo Arboricolo, a meno che non

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sia in duello ad armi pari e per difesa, potremo dire addio alla spedizione etornare a casa. La nostra è una missione pacifica e siamo qui per chiedereun favore. Anche se siamo attaccati, uccideremo solo se saremo costretti afarlo... e in combattimento!»

«Maledetto pianeta primitivo...»«Preferiresti forse morire della febbre degli Arboricoli?»«Tanto qui finiremo per prenderla comunque!» ribatté furente. «Tu sei

immune, a te non importa, sei al sicuro! Ma tutti noi siamo in missionesuicida... e, maledizione, se muoio voglio portarmi con me qualcuna diquelle maledette scimmie!»

Io chinai il capo, mordendomi le labbra e non dissi nulla; non potevo prendermela con Buck se la pensava così. Dopo qualche istante, indicai di

nuovo il passo. «Non è molto lontano; una volta superato il Dammerung, ilcammino verso la città degli Arboricoli è facile. Al di là è tutto civilizza-to.»

«Forse tu la chiamerai civiltà» ribatté Kendricks e mi voltò le spalle.«Vieni, finiamo di asciugarci i piedi.»E in quel momento ci attaccarono.

CAPITOLO 5

LA CITTA ARBOREA

Il grido di Kendricks fu l'unico avvertimento che sentii prima di accor-germi che qualcosa cercava di arrampicarsi sulla mia schiena. Girai su mestesso e strappai via la creatura; in quel momento vidi che tutta la raduraera piena di esseri pelosi e bianchi che correvano da tutte le parti. Misi lemani intorno alla bocca e urlai nell'unico dialetto del Piccolo Popolo checonoscevo: «Fermatevi! Veniamo in pace!»

Uno dei nostri assalitori gridò qualcosa di incomprensibile e si lanciò sudi me... erano di un'altra tribù! Scorsi un viso ricoperto di peluria bianca esenza mento, alterato dall'ira, un piccolo coltello... era una femmina! E-strassi il mio pugnale e cercai di parare il colpo che la creatura mi vibròcon estrema violenza. Avvertii un dolore lancinante sulle nocche della ma-no, le dita mollarono la presa e il coltello cadde a terra; la femmina lo af-ferrò e fuggì con il bottino, arrampicandosi con sorprendente agilità sullecime degli alberi.

Tenendomi stretta la mano ferita, mi guardai intorno e vidi Regis Hastur che lottava al limitare del declivio con due di quelle creature. Un pensiero

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agghiacciante mi attraversò la mente: se lo avessero ucciso, tutto Darkover si sarebbe sollevato e avrebbe sterminato gli Arboricoli, e sarebbe stata tut-ta colpa mia. Poi Regis riuscì a liberare una mano e fece un curioso gestocon le dita.

Fu come una grossa vampata verde lunga un metro, o forse era una palladi fuoco. Esplose sul volto bianco di una delle creature, che lanciò un urlodi terrore e di angoscia, si sfregò gli occhi e, gemendo di dolore, cercò ve-locemente scampo sugli alberi. Gli Arboricoli emisero all'unisono un lungogemito, si riunirono e fuggirono nell'ombra. Rafe gridò qualcosa di osceno, poi un'altra vampata azzurra inseguì il branco in ritirata. Uno degli uma-noidi cadde senza emettere un suono, precipitando oltre la scarpata, privodi sensi.

Corsi verso Rafe e lottai con lui per strappargli lo storditore che il terre-stre aveva estratto da sotto la camicia, dove lo aveva nascosto. «Maledettostupido!» lo aggredii, «potresti aver rovinato tutto!»

«Se non lo avessi fatto lo avrebbero ucciso», ribatté lui furente; eviden-temente non si era accorto di come Regis si fosse difeso con assoluta effi-cienza. Rafe fece un cenno verso il branco in ritirata e sbottò con astio:«Perché non vai con i tuoi amici?»

Con una mossa che credevo di aver dimenticato, strinsi la mano attorno

alle nocche di Rafe e premetti con forza: le dita gli si intorpidirono e io af-ferrai lo storditore e lo buttai nel burrone.

«Una sola parola e fai anche tu la stessa fine», lo ammonii. «Chi è feri-to?»

Garin sbatteva gli occhi con aria inebetita, ancora stordito da un colpoalla testa; Regis aveva una ferita sulla fronte da cui usciva sangue e Hjal-mar aveva un taglio in una coscia. Le mie nocche erano tagliate fino all'os-so e la mano stava perdendo sensibilità. Passò qualche minuto prima che ci

accorgessimo di Kyla, piegata in due e ammutolita per il dolore. Quando latoccammo cadde all'indietro, diventando pallida come un cencio. Lasdraiammo a terra nel punto in cui era caduta, le togliemmo la camicia eKendricks si avvicinò per esaminare la ferita. «Un taglio netto», disse, maio non lo udii. Dentro di me era scattato qualcosa, come una mano che mistringesse il cervello, e...

Ansimando in preda ad un'improvvisa vertigine, il dottor Jay Allison si

guardò intorno: non era nell'ufficio del dottor Forth, ma in piedi, in equili- brio precario sul bordo di una roccia. Chiuse gli occhi per un istante, chie-

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dendosi se per caso quello non fosse uno dei suoi incubi peggiori e quandoli riaprì, si trovò di fronte un viso familiare.

Buck Kendricks era bianco come un cencio, con la bocca spalancata.«Jay! Dottor Allison... per l'amor di Dio...»

L'addestramento medico crea reazioni che sono quasi riflessi condizio-nati; Jay Allison recuperò in parte il senso della realtà rendendosi contoche davanti a lui era sdraiato qualcuno, mezzo nudo e che sanguinava ab- bondantemente. Fece cenno a tutti quegli sconosciuti di allontanarsi e dissenel suo pessimo darkovano: «Fatevi da parte, questo è il mio lavoro». Nonconosceva abbastanza bene la lingua per usare parole più forti, così si ri-volse a Kendricks in terrestre:

«Buck, fa allontanare questa gente, lasciate respirare il paziente. Dov'è

la mia valigetta con gli strumenti chirurgici?» Si chinò ad esaminare la fe-rita e solo in quel momento si rese conto che il suo paziente era una donna,e anche giovane.

La ferita era solo una lacerazione superficiale e qualunque fosse stato lostrumento affilato che l'aveva inflitta era stato deviato da una costola senza penetrare nel tessuto polmonare. Aveva bisogno di una sutura, ma quellache Kendricks gli aveva porto era solo una cassetta di pronto soccorso e per giunta poco fornita, così il dottor Allison disinfettò la ferita e la coprì

con una striscia di plastica graffata che avrebbe dovuto fermare ulterioriemorragie. Aveva appena finito la medicazione che la ragazza si mosse edisse con voce esitante: «Jason...»

«Dottor Allison», la corresse lui secco, un poco sorpreso (solo un poco, perché la sorpresa precedente non lasciava posto per quelle di poco conto)che lei sapesse il suo nome. Kendricks parlò in fretta alla ragazza in unodei dialetti darkovani che Allison non conosceva e poi prese in disparteJay, dove nessuno poteva sentirli e disse con voce scossa: «Jay, non sape-

vo... non lo avrei mai creduto... lei è il dottor Allison? Buon Dio... Jason!»Poi si avvicinò in fretta. «Cosa succede? Oh, Cristo, Jay, non mi svenga

 proprio adesso!»

Jay si rendeva conto che non aveva fatto proprio una bella figura, machiunque avesse avuto qualcosa da obiettare, pensò risentito, poteva fareuna prova di persona: addormentarsi in un comodo ufficio, al chiuso, e ri-svegliarsi su uno spuntone di roccia in mezzo al nulla. Gli faceva male una

mano, vide che sanguinava e piegò le dita per accertarsi che nessun tendinefosse stato leso. «Come è successo?» chiese ad alta voce.

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«Abbassi la voce, signore... o parli darkovano!» Jay sbatté di nuovo le palpebre, ma Kendricks continuava ad essere l'unica cosa familiare inquell'universo che gli faceva girare la testa. L'uomo delle Forze Spaziali bisbigliò con voce, roca: «Giuro davanti a Dio, Jay, non ne avevo la più pallida idea... e ci conosciamo da quanto? Otto, nove anni?»

«Quell'idiota di Forth!» esplose Allison, l'unico epiteto che la sua menteriservata conoscesse.

Qualcuno gridò: «Jason!» in tono imperioso e Kendricks disse con vocescossa: «Jay, se la vedono... lei non è più lo stesso uomo, letteralmente!»

«Ovviamente no.» Guardò la tenda, con un palo ancora da fissare. «C'èqualcuno là dentro?»

«Non ancora.» Kendricks quasi lo spinse all'interno. «Gli dirò io qualco-

sa.» Prese un radiante dalla tasca, lo mise a terra e in quella luce tremolan-te fissò Jay, imprecando poi in modo colorito. «Starà... se la sente di resta-re qua dentro?»

Jay si limitò ad annuire perché non aveva più la forza di parlare; stavacercando con tutto se stesso di mantenere i nervi saldi, perché se non cifosse riuscito, si sarebbe messo ad urlare come un pazzo. Passò un po' ditempo, poi udì un rumore all'esterno, un discreto colpetto di tosse, e unuomo entrò nella tenda.

Era senza dubbio un aristocratico darkovano, e il suo aspetto era vaga-mente familiare, anche se Jay non aveva alcun ricordo cosciente di averlovisto in precedenza. Alto e slanciato, possedeva quella bellezza maschile perfetta e squisita che si trovava a volte tra i darkovani. Si rivolse a Jaycon familiarità, ma anche con sorprendente cortesia:

«Ho detto loro che non dovevano disturbarvi per qualche momento, chela ferita alla mano è peggiore di quanto credessimo. Le mani di un medicosono uno strumento delicato, dottor Allison, e spero proprio che la vostra

non sia ferita gravemente. Mi permettete di dare un'occhiata?»Con un gesto automatico, Jay Allison ritrasse la mano, poi, conscio di

quanto fosse maleducato quel comportamento, lasciò che lo sconosciuto la prendesse ed esaminasse le dita. «Non mi sembra una ferita preoccupate.Ero sicuro che ci fosse qualcosa d'altro», disse il darkovano, fissandolocon occhi seri. «Non ricordate neppure il mio nome, vero, dottor Allison?»

«Voi sapete chi sono?»«Il dottor Forth non me l'ha detto, ma noi Hastur siamo telepatici, Ja-

son... vi chiedo scusa, dottor Allison. Fin dal principio sapevo che eravate posseduto da un dio o da un demone.»

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«Superstizioni senza senso», sbottò Allison, «tipico di un darkovano!»«È solo un modo conveniente di spiegare le cose, nient'altro», ribatté il

giovane Hastur passando sopra alla scortesia del tono.«Immagino che potrei imparare la vostra terminologia, se pensassi che

ne vale la pena. Ho avuto l'addestramento psi e sono in grado di riconosce-re quando metà dell'anima di un uomo è stata spodestata dall'altra metà.Forse potrei restituirvi la vostra personalità...»

«Se credete che permetterei a qualche svitato darkovano di pasticciarecon la mia mente...» cominciò Jay scaldandosi e poi si interruppe. Sotto losguardo grave di Regis, una strana umiltà lo pervase: quel gruppo di uomi-ni avevano bisogno del loro capo ed era ovvio che lui, Jay Allison, non erail capo di cui avevano bisogno. Si coprì gli occhi con una mano.

Regis si chinò e gli mise una mano sulla spalla, in un gesto di compas-sione, ma Jay la scrollò via e quando riuscì di nuovo a parlare, il suo tonofu amaro, freddo e sulla difensiva.

«Va bene. La cosa importante è questo lavoro: io non sono in grado difarlo, Jason sì. Voi siete un parapsichico: se siete in grado di riportarmi aquello che ero prima... avanti, fate pure!»

Fissai Regis, passandomi una mano sulla fronte. «Cosa è successo?»

domandai e poi aggiunsi con apprensione improvvisa: «Dov'è Kyla? Eraferita...»

«Kyla sta bene», rispose Regis, ma io balzai in piedi per accertarmene.Kyla era a terra, avvolta nelle copertele stava bevendo qualcosa di caldoappoggiandosi a un gomito? Nell'aria c'era un buon odore di cibo. FissaiRegis e gli chiesi: «Non sarò mica svenuto per un graffietto come questo?»osservando con indifferenza la mia mano.

«Aspettate...» Regis mi trattenne. «Non uscite ancora. Ricordate cosa è

successo, dottor Allison?»Lo fissai sentendomi pervadere dall'orrore, le mie peggiori paure si era-

no avverate. «Voi... siete cambiato», proseguì Regis a bassa voce. «Proba- bilmente lo spavento di aver visto...» Si interruppe a metà della frase, e io proseguii: «L'ultima cosa che ricordo è di aver visto Kyla che sanguinavaquando le abbiamo tolto la camicia. Ma, buon Dio, un po' di sangue nonavrebbe certo potuto spaventare me, e Jay Allison è un chirurgo... è possi- bile che la vista di una ferita lo abbia fatto emergere con tanta violenza?»

«Non potrei dirlo.» Ma sembrava che Regis ne sapesse di più di quantovolesse dire. «Non credo che il dottor Allison... non vi assomiglia per nien-

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te... fosse molto preoccupato per Kyla. Voi lo siete?»«Maledizione, certo che lo sono. Voglio accertarmi che stia bene...» mi

interruppi di colpo. «Regis... hanno visto tutti quello che è successo?»«Solo io e Kendricks, e non diremo una parola», mi rassicurò.«Grazie», dissi, e sentii la sua mano posarsi sulla mia spalla in un gesto

di conforto. Maledizione, semidio o principe, Regis mi piaceva. Uscii e presi del cibo dalla pentola e mi sedetti accanto a Kyla e Ken-

dricks per mangiare. Mi sentivo debole e scosso; era la reazione e in piùmi rendevo conto che non potevamo restare in quel posto, era troppo vul-nerabile agli attacchi. E nelle condizioni in cui ci trovavamo, lo eravamoanche noi. Se fossimo riusciti a proseguire di buon passo tanto da arrivarevicini al Dammerung per quella sera, il giorno dopo avremmo potuto attra-

versarlo senza problemi, prima che il sole scaldasse la neve e ci trovassimoa dovere fare i conti con le slavine e la fanghiglia mista a neve. Al di là delDammerung conoscevo le tribù ed ero in grado di parlare la loro lingua.

Lo dissi agli altri e Kendricks gettò un'occhiata dubbiosa a Kyla. «Saràin grado di proseguire?»

«Può forse restare qui?» ribattei. Mi accostai a lei e le domandai:«Come va la tua ferita? Credi di farcela a muoverti?»«Ma certo che posso continuare! Non sono una ragazzetta, ti dico, sono

una libera amazzone!» esclamò in tono deciso, scostando le coperte chequalcuno le aveva avvolto intorno alle gambe. Si alzò stringendo le labbra,ma si avviò a passi lunghi e sicuri verso il fuoco chiedendo dell'altra zup- pa.

Pochi minuti dopo togliemmo il campo. La banda di Arboricole ci avevaderubato di tutto quello che era stata in grado di portare via e non avevanessun senso smontare e portarsi dietro la tenda: sarebbero ritornate a prendersela. E poi, se al ritorno avessimo avuto una scorta di Arboricoli,

non ne avremmo avuto alcun bisogno. Ordinai di lasciare tutto, tranne lecose leggere e esaminai tutti gli zaini: razioni per la notte che avremmotrascorso sul passo, le poche coperte che ci erano rimaste, corde, occhialida sole. Il resto non ci serviva e li convinsi a lasciare tutto lì.

Il cammino peggiorò; in primo luogo il sole stava calando e il vento del-la sera era gelato. Poi quasi tutti erano stati feriti, in un modo o nell'altro, equesto ci ostacolava nella scalata. Kyla era pallida e si muoveva con gestirigidi, ma non si risparmiava; Kendricks soffriva terribilmente per l'altitu-

dine e cercai di aiutarlo in tutti i modi, ma con il taglio che mi stava irrigi-dendo la mano nemmeno io me la cavavo troppo bene.

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Ci trovammo di fronte ad un passaggio costituito da una roccia liscia,che ci costrinse ad appiattirci come insetti contro la parete, e a usare ognifessura come appigli per le mani e i piedi. Era per me un punto di orgogliofare il capo cordata e non mi risparmiai, ma quando terminammo la scalatadella parete e ci arrampicammo sulla sporgenza da cui ripartiva il sentiero,decisi di cedere e mandai avanti il veterano Lerrys, che era molto più ingamba di tanti scalatori professionisti.

«Credevo che avessi detto che questo era un sentiero!»  borbottò.Stirai la bocca in quello che volevo fosse un sorriso, ma non mi venne

troppo bene. «Per un Arboricolo questa è una passeggiata. E nessun altro siavventura mai da queste parti.»

Avanzavamo lentamente sulla neve; un paio di volte fummo costretti ad

attraversare piccoli nevai e a un certo punto una breve, violenta tempesta cicostrinse a fermarci per venti minuti, raggruppandoci gli uni contro gli altrisu una piccola sporgenza, afferrati alle rocce per resistere alle folate divento gelido misto a neve.

Quella notte bivaccammo in un crepaccio molto al di sopra della lineadegli alberi, dove il vento aveva quasi del tutto spazzato via laneve e dovesolo i cespugli più caparbi e resistenti restavano aggrappati alla roccia. Nestrappammo alcuni e li usammo per farne un riparo contro il vento. Ci

sdraiammo gli uni vicino agli altri è tutti - ne sono certo - pensavamo conamaro rimpianto alla nostra confortevole tenda e all'attrezzatura che ave-vamo lasciato al campo.

Quella notte mi rimase impressa nella memoria come una delle più mi-serevoli della mia vita. L'altitudine non mi dava fastidio, sentivo solo unleggero ronzio alle orecchie, ma gli altri non se la cavavano con così poco.Gli uomini avevano un violento mal di testa, Kyla soffriva sicuramentemolto per la ferita al fianco e Kendricks aveva continui attacchi di mal di

altitudine, nella forma peggiore, con vomito e crampi. Ero molto preoccu- pato per tutti loro, ma non c'era nulla che potessi fare: l'unica cura per ilmal di montagna era l'ossigeno o un'altitudine inferiore, e nessuna delledue cose era a portata di mano.

Ci sdraiammo sotto quel rudimentale riparo di arbusti, condividendo lecoperte e il calore dei nostri corpi. Diedi un'ultima occhiata intorno primadi strisciare accanto a Kendricks e vidi che la ragazza si era sistemata un po' lontana dagli altri. Fui sul punto di dire qualcosa, ma Kendricks mi

 precedette.«È meglio che tu venga qui vicino a noi, ragazza. Non devi preoccuparti

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di scherzi poco gradevoli», disse in tono freddo ma non sgarbato.Kyla mi rivolse un fuggevole sorriso e io mi resi conto che stava ren-

dendomi partecipe di una grave infrazione da parte del grosso montanaro aquella che i darkovani consideravano l'etichetta dei rifugi di montagna. Marispose ugualmente con voce fredda e secca: «Non sono affatto preoccupa-ta». Infatti slacciò la giacca pesante e si infilò sotto le coperte tra noi due.

Lo spazio era decisamente esiguo e freddo, nonostante le termocoperte.Stavamo stretti gli uni contro gli altri, e Kyla appoggiò la testa sulla miaspalla. La sentii stringersi ancor di più a me, mezza addormentata, alla ri-cerca di un po' di calore, e mi resi conto che ero ben cosciente della sua vi-cinanza e che le ero grato. Un'altra donna avrebbe protestato, se non altro per formalità, trovandosi costretta a dividere le coperte con due estranei e

capii che se Kyla avesse rifiutato di sdraiarsi accanto a noi, avrebbe attiratomolta più attenzione sul suo sesso che non comportandosi come aveva in-vece fatto fino ad allora comportandosi come un uomo.

La sentii tremare e le sussurrai: «Ti fa male la ferita? Hai freddo?»«Un po'. Anche per me è passato molto tempo dall'ultima volta che sono

stata a queste altitudini. Ma la verità è... che non riesco a togliermi dallamente quelle femmine.»

Kendricks tossì e si mosse. «Non capisco: quelle creature che ci hanno

attaccato, erano tutte femmine?»«Tra il Popolo del Cielo», gli spiegai, «come dappertutto, nascono più

femmine che maschi. Ma l'esistenza degli Arboricoli ha un equilibrio così preciso che non c'è posto per le donne in sovrannumero nel Nido... nellecittà. Così, quando una ragazza del Piccolo Popolo diventa adulta, le altredonne la cacciano dalla città a calci e pugni e lei è costretta a vagare nellaforesta fino a quando qualche maschio non la va a cercare e la riporta in-dietro come la sua donna. Allora non può più essere scacciata... ma se non

 può avere figli, possono costringerla a fare da serva alle altre mogli del suomaschio.»

Kendricks emise un grugnito di disgusto.«Tu pensi che sia crudele», disse Kyla infervorandosi, «ma nella foresta

 possono vivere e sono in grado di trovare cibo, non muoiono né fanno lafame. Molte di loro preferiscono la vita della foresta alla vita nei Nidi e ri-fiutano e lottano contro i maschi che le avvicinano. Noi che ci definiamoumani, spesso trattiamo molto peggio le donne che non servono.»

Tacque e sospirò, come se soffrisse per la ferita. Kendricks non replicò esi limitò ad emettere un altro grugnito indefinito. Io dovetti fare un enorme

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sforzo su me stesso per non toccare Kyla, costringendomi a ricordare chiera e alla fine dissi: «È meglio che la smettiamo di parlare; gli altri voglio-no dormire, anche se noi non ci riusciamo».

Dopo un po' sentii Kendricks russare e avvertii il respiro lento e regolaredi Kyla. Assonnato, mi chiesi che effetto avrebbe avuto su Jay quella si-tuazione: lui che odiava i darkovani ed evitava qualunque contatto con aglialtri esseri umani, ritrovarsi schiacciato tra una libera amazzone darkovanae una mezza dozzina di sconosciuti. Ma scacciai subito quel pensiero, neltimore che potesse in qualche modo risvegliare la sua personalità nel miocervello.

Ma dovevo pensare a qualcosa, a qualsiasi cosa, per allontanare da me laconsapevolezza fin troppo acuta della testa della donna sulla mia spalla,

del suo lento respiro che mi scaldava il collo. Solo con un terribile sforzodi autocontrollo mi trattenni dal posare la mano sul suo seno caldo e mor- bido sotto il leggero maglione. Mi chiesi come mai Forth mi avesse defini-to indisciplinato: non potevo rischiare la mia posizione di capo della spe-dizione facendo degli approcci indesiderati alla nostra guida, donna, amaz-zone o qualsiasi altra cosa fosse.

Chissà perché la ragazza era diventata il perno di tutti i miei pensieri. Non faceva parte del QG terrestre, non faceva parte di nessun mondo che

Jay Allison poteva aver conosciuto: lei apparteneva interamente a Jason, almio mondo. Nel dormiveglia mi smarrii in un sogno in cui correvo comese volassi lungo le strade arboree, inseguendo la forma distante di una ra-gazza cacciata quel giorno dal Nido tra calci e invettive. L'avrei trovata daqualche parte in mezzo alle foglie, e insieme saremmo ritornati alla città,lei con il capo inghirlandato dai fiori rossi della prescelta e le stesse donneche l'avevano cacciata le si sarebbero affollate attorno per darle il bentor-nato. La donna in fuga si guardò alle spalle con gli occhi di Kyla, poi la

sua forma mutò e in mezzo a noi, nella strada sugli alberi, era in piedi ildottor Forth, con l'emblema del caduceo sul camice spianato come un ba-stone rosso. Kendricks, con l'uniforme del Servizio Spaziale ci minacciavacon un fulminatore e di colpo anche Regis Hastur indossava un'uniformedel Servizio Spaziale e diceva: «Jay Allison, Jay Allison», mentre la stradaarborea si incrinava e cedeva sotto di noi e tutti precipitavamo lungo la ca-scata, sempre più giù, sempre più giù...

«Svegliati!» sussurrò Kyla, dandomi una gomitata nel fianco. Aprii gli

occhi nell'oscurità affollata, cercando di afferrare gli ultimi rimasugli delsogno che svaniva. «Cosa succede?»

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«Stavi gemendo. Forse un attacco di mal di montagna?»Accorgendomi di averle passato un braccio intorno alle spalle, borbottai

e mi scostai in fretta. Dopo un po' ripresi sonno e dormii un sonno inquie-to.

Prima dell'alba uscimmo stancamente dal nostro precario bivacco, inti-rizziti, per niente riposati e indolenziti, ma pronti a metterci in marcia. Laneve era dura, la luce fioca, ma in quel punto il sentiero non era difficile.Dopo tutti i guai sui pendii più bassi, credo che anche i principianti avesse-ro perso il desiderio per le scalate avventurose e sono sicuro che tutti era-vamo più che felici che l'attraversamento del Dammerung si svolgessesenza incidenti e senza clamori.

Quando raggiungemmo il passo stava sorgendo il sole e ci fermammo per qualche istante, stretti gli uni agli altri in quella piccola strettoia tra levette incombenti.

Hjalmar guardò pensoso i picchi innevati.«Come vorrei poterli scalare.»Regis gli rivolse un sorriso amichevole. «Un giorno, e ti do la mia parola

di Hastur, farai parte di quella spedizione.» Gli occhi del gigante brillaronodi gioia. Rivolgendosi a me, Regis disse con calore: «Che ne dite, Jason?

Facciamo un patto? Lo scaleremo insieme il prossimo anno?»Stavo per ricambiare quel sorriso amichevole, quando un demone cupo e

amaro si risvegliò dentro di me. Quando quella missione fosse finita, miresi conto all'improvviso, io non sarei più esistito, non sarei più esistito danessuna parte; io ero un surrogato, un frammento di Jay Allison, e a mis-sione ultimata il dottor Forth e le sue tecniche ipnotiche mi avrebbero ri- portato in quello che veniva considerato il mio posto... vale a dire nel lim- bo. Dopo questa avventura in corsa contro il tempo e contro la necessità,

non avrei mai più scalato montagne. Serrai le labbra e la mia bocca diven-ne una sottile fessura piena di ostilità a cui non ero abituato: «Ne ripar-leremo al nostro ritorno... se ritorneremo. Adesso è meglio rimetterci inmarcia. Tra noi c'è chi ha bisogno di scendere ad altitudini inferiori», ri-sposi.

A differenza del sentiero lungo la parte esterna della catena montuosa,quello che scendeva dal passo Dammerung era ben segnato e visibile e sisnodava giù per il pendio, permettendoci di camminare agevolmente in fila

indiana. Quando ci lasciammo alle spalle la neve e la bruma si alzò, ve-demmo sotto di noi quello che pareva un enorme tappeto verde con lampi

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di colori luminosi. Indicai i colori ai miei compagni.«Le cime degli alberi della Foresta Settentrionale... e i colori che vede-

te... sono nelle strade della Città Arborea.»Un'ora di cammino ci portò fino al limitare della foresta. Tenevamo un

 passo sostenuto, dimenticando la stanchezza, ansiosi di raggiungere la città prima del cadere della notte. La foresta era silenziosa, fin troppo, quasiminacciosa nel suo silenzio. Da qualche parte sopra le nostre teste, sui fittirami che a tratti escludevano del tutto la luce del sole, correvano le stradedella città, intersecandosi tra loro; e infatti di tanto in tanto udivo dei fru-scii, il frammento di un suono, una voce, l'eco di un canto.

«È molto buio, qua sotto», commentò Rafe. «Chiunque fosse costretto avivere qui dovrebbe vivere sulla cima degli alberi, altrimenti diventerebbe

completamente cieco!»Kendricks mi sussurrò: «Siamo seguiti? Ci attaccheranno?»«Non credo. I suoni che senti sono solo gli abitanti della città intenti alle

loro occupazioni giornaliere, là in alto.»«Devono essere delle ben strane occupazioni», intervenne Regis curioso;

e mentre percorrevamo il terreno muschioso e ricoperto di aghi di pino, gliraccontai qualcosa della vita degli Arboricoli. Ormai non avevo più paura:se avessimo incontrato qualcuno, avrei parlato la loro lingua e avrei potuto

farmi riconoscere, dire cosa volevo e fare il nome dei miei genitori adotti-vi. A quanto sembrava, un po' della mia fiducia si era comunicata ancheagli altri.

Ma mentre ci inoltravamo in un territorio più familiare, mi fermai dicolpo dandomi una manata sulla fronte.

«Lo sapevo che avevo dimenticato qualcosa!» esclamai. «Sono statolontano troppo tempo, ecco il perché. Kyla.»

«Cosa c'entra Kyla?»

Fu la ragazza stessa a spiegarlo, con quel suo tono uniforme di voce. «Iosono una donna senza uomo e non è permesso alle donne sole di entrarenel Nido.»

«Allora non è un problema», disse Lerrys. «Non deve fare altro che ap- partenere a uno di noi.» Non ebbe bisogno di aggiungere altro, e nessunolo pretendeva: gli aristocratici darkovani non portavano le loro donne inviaggi come quello e le loro donne non erano come Kyla.

I tre fratelli si offrirono volontari con molto entusiasmo e Rafe se ne uscì

con un suggerimento osceno. Kyla corrugò la fronte in un gesto ostinato,stringendo le labbra in quella che avrebbe potuto essere una smorfia di

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rabbia o di imbarazzo. «Se credi che abbia bisogno della tua protezione...!»«Kyla», dissi in tono secco, «è sotto la mia protezione. Verrà presentata

come la mia donna... e trattata come tale.»Rafe storse la bocca in un sorriso nient'affatto divertente. «Dunque il ca-

 po tiene per sé tutto il meglio, vedo.»Sul mio viso dovette disegnarsi un'espressione feroce, perché Rafe fece

lentamente un passo indietro. «Kyla è la nostra guida ed è indispensabile»,dissi costringendomi a mantenere calma la voce. «Se mi succede qualcosa,lei è l'unica che può riportarvi indietro, quindi sono personalmente respon-sabile della sua salvezza. È chiaro?»

Mentre proseguivamo lungo il sentiero, la tenue luce verde scomparve.«Siamo proprio sotto la Città Arborea», sussurrai e indicai verso l'alto.

Tutto attorno a noi si innalzavano i Cento Alberi, pilastri tanto grandi chequattro uomini che si tenessero per mano non avrebbero potuto circondar-ne il tronco con le braccia. Gli alberi si slanciavano verso l'alto per un cen-tinaio di metri prima di distendere i rami intrecciati sopra i quali non si ve-deva altro che oscurità.

Eppure il bosco non era buio, ma illuminato dall'incredibile fosforescen-za dei funghi che crescevano sui tronchi, formando bizzarri motivi orna-mentali e in gabbie di fibra trasparente ronzavano sommessi insetti lumi-

nosi grandi come una mano.Mentre guardavo, un Arboricolo, completamente nudo a parte uno stret-

to perizoma attorno ai fianchi e un cappello, scese dal tronco e passò dauna gabbia all'altra, nutrendo gli insetti con pezzetti di fungo fosforescenteche prendeva da un cesto che aveva al braccio.

Lo chiamai nella sua lingua e lui lasciò cadere il cesto con un'esclama-zione di stupore, il corpo magro pronto a fuggire o a scappare per dare l'al-larme.

«Ma io appartengo al Nido», gli dissi ancora e feci il nome dei miei ge-nitori adottivi. Lui allora venne verso di me, afferrandomi gli avambraccicon le lunghe dita calde, in un gesto di benvenuto.

«Jason? Sì, ho sentito parlare di te, tanto tempo fa», disse con una vocegentile e cinguettante. «Tu sei a casa... ma questi altri?» E fece un gestonervoso indicando i miei compagni.

«Sono miei amici», lo rassicurai, «e siamo venuti a implorare un'udienza presso l'Anziano. Per questa notte cerco riparo presso i miei genitori, se

vorranno riceverci.»L'Arboricolo alzò la testa ed emise un basso richiamo: agile come un fu-

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retto, un bimbo scese dal tronco e prese il cesto. L'adulto disse: «Io michiamo Carrho. Forse sarebbe meglio se vi guidassi io dai tuoi genitori a-dottivi, così nessuno vi fermerà».

Mi sentii sollevato; non avevo mai visto Carrho, ma mi sembrava piace-volmente familiare. Guidati da lui, salimmo in fila la stretta scala scavataall'interno del tronco ed emergemmo in una piazza ariosa, ombreggiatadalle foglie più alte e immersa in un delicato crepuscolo verde. Mi sentivosfinito, ma felice. Ce l'avevamo fatta.

Kendricks si avventurò cauto sul pavimento dondolante e morbido della piazza, che cedeva leggermente ad ogni passo e imprecò senza risparmiarsiin una lingua che, per fortuna, solo io e Rafe capivamo. Arboricoli curiosisi riversarono nella strada, cinguettando sorpresi e dandoci il loro benve-

nuto.Rafe e Kendricks dimostrarono un considerevole disprezzo quando mi

videro salutare con affetto i miei genitori adottivi. Erano invecchiati e midispiacque constatarlo; la loro pelliccia si era ingrigita, le dita prensili dei piedi e delle mani erano chiaramente affette da qualche malanno reumati-co, gli occhi rossi erano appannati e opachi. Mi diedero il benvenuto nellaloro casa e disposero affinché i miei compagni venissero alloggiati in unacasa vuota poco lontano. In quanto a me, insistettero perché restassi con

loro, e naturalmente Kyla doveva accompagnarmi.«Non potremmo accamparci a terra, invece?» chiese Kendricks guar-

dando in tralice e con un certo disgusto il modesto rifugio.«I nostri ospiti si offenderebbero», ribattei in tono fermo. Io non trovavo

niente che non andasse in quella casa, il tetto era costituito da corteccia in-trecciata, il pavimento ricoperto da muschio coltivato... certo, il posto eraabbandonato, un po' umido, ma a prova di intemperie e molto confortevoledal mio punto di vista.

La prima cosa da fare era inviare un messaggio all'Anziano, per chieder-gli che ci concedesse un'udienza e quel compito venne assolto da uno deimiei fratelli adottivi. Poi ci venne servito un pasto a base di miele di ger-mogli, insetti e uova di uccelli; lo gustai, ritrovando in esso la familiaritàdel cibo a cui mi ero abituato da bambino, ma degli altri, solo Kyla mangiòcon appetito e Regis Hastur con interessata curiosità.

Adempiuti gli obblighi dell'ospitalità, i miei genitori adottivi mi chieseroil nome dei componenti del mio gruppo, e io li presentai ad uno ad uno.

Quando nominai Regis Hastur, rimasero per un attimo in stupefatto silen-zio e poi lanciarono un'esclamazione sorpresa, e gentilmente, ma con fer-

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mezza, insistettero che la loro casa era indegna di ospitare il figlio di unHastur, che avrebbe ricevuto un'ospitalità degna di lui nel Nido Reale del-l'Anziano.

Regis non poteva rifiutare senza apparire scortese e, quando il messag-gero tornò, si preparò ad accompagnarlo, ma prima di andarsene mi presein disparte.

«Non mi piace dividermi da voi...»«Sarete perfettamente al sicuro.»«Non è di questo che mi preoccupo, dottor Allison.»«Chiamatemi Jason», lo corressi irritato. «È proprio questo il punto», ri-

 batté Regis con espressione tesa. «Dovrete essere il dottor Allison, doma-ni, quando si tratterà di spiegare all'Anziano lo scopo della nostra missio-

ne, ma dovrete anche essere il Jason che lui conosce.»«E allora...?»«Vorrei non dovervi lasciare. Vorrei che poteste, restare con gli uomini

che vi conoscono solo come Jason, invece di restare solo... o soltanto conKyla.»

C'era qualcosa di strano nella sua espressione e mi chiesi cosa potessesignificare; era possibile che lui, un Hastur fosse geloso di Kyla? Geloso dime? Non mi era mai venuto in mente che potesse provare qualcosa per la

ragazza. Cercai di prenderla alla leggera.«Kyla potrebbe essermi d'aiuto.»«Ma è stata proprio lei a far rinascere Jay Allison la prima volta», ribatté

senza cambiare tono. E poi, sorprendentemente, rise. «Ma forse avete ra-gione.. forse Kyla riuscirà a... spaventare il dottor Allison, se dovesse ri- presentarsi.»

CAPITOLO 6

IL PATTO

Le braci del fuoco morente conferivano strane sfumature di colore al vi-so di Kyla, alle sue spalle e ai riccioli neri. Ora che eravamo soli, mi senti-vo perduto. «Non riesci a dormire, Jason?» Scossi il capo. «Meglio dormi-re finché puoi.» Ma io sentivo che tra tutte, quella era proprio la notte incui non osavo chiudere gli occhi, per paura di risvegliarmi trasformato inquel Jay Allison che odiavo. Per un attimo vidi quella stanza con i suoi oc-

chi: per lui, abituato alle piastrelle asettiche dei corridoi e degli ambientidel QG terrestre, non sarebbe stata confortevole e pulita, ma sporca e anti-

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gienica come la tana di una bestia.«Sei uno strano uomo, Jason», disse Kyla riflettendo ad alta voce. «Che

genere di uomo sei... nel mondo dei terrestri?» Risi, ma non c'era allegrianella mia risata. Di colpo capii che dovevo dirle tutta la verità.

«Kyla, l'uomo che conosci con il mio nome non esiste; io sono stato cre-ato specificamente per questa missione. Quando sarà finita, neppure io esi-sterò più.»

Lei mi fissò ad occhi spalancati. «Ho... sentito parlare dei terrestri e del-la loro... scienza... che costruiscono uomini che non sono veri, uomini dimetallo, non di ossa e carne.»

Prima che quell'ingenuo e primitivo terrore la sopraffacesse, tesi la mano bendata, le presi le dita e le feci scorrere sulle mie. «Ti sembra metallo,

questo? No, no, Kyla. Ma l'uomo che conosci come Jason... non sarò io...sarò una persona diversa.» Come potevo spiegare a Kyla cos'era una per-sonalità secondaria, quando neppure io lo capivo fino in fondo?

Stringendomi le dita tra le sue, lei disse piano: «Una volta... una volta hovisto qualcun altro... guardarmi dai tuoi occhi: un fantasma».

Scossi il capo con violenza. «Per i terrestri, il fantasma sono io!»«Povero fantasma», sussurrò lei.La sua pietà mi ferì, non la volevo.

«Quello che non ricordo non posso rimpiangerlo. Probabilmente non ri-corderò neppure te.» Ma mentivo: sapevo che anche se avrei sicuramentedimenticato tutto il resto, senza rimpianti perché non avrei ricordato, non potevo sopportare di perdere lei, che il mio fantasma avrebbe vagato in-quieto per l'eternità se l'avessi dimenticata. Guardai Kyla, dall'altra partedel fuoco, seduta a gambe incrociate nella luce fioca dei pochi tizzoni ar-denti rimasti nel braciere: si era tolta gli informi indumenti che portava inviaggio e indossava solo una specie di camiciola aderente, semplice come

l'abitino di un bimbo, ma stranamente sensuale. Sotto l'indumento si intra-vedeva la fasciatura della ferita e un ricordo spurio, che non mi ap- parteneva, commentò in un angolo del mio cervello che se quella ferita nonfosse stata suturata a dovere, sarebbe rimasta una cicatrice visibile. Visibile

a chi? Lei tese una mano, in un gesto implorante. «Jason! Jason...?»Avevo perso il controllo di me stesso: avevo la sensazione di essere in

 piedi, piccolo e spaventato in un'enorme stanza riecheggiante che era la

mente di Jay Allison, con il tetto che stava per cadermi addosso. L'imma-gine di Kyla si sfocava, andava e veniva, dolce e infinitamente desiderabile

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e poi, come se la guardassi dalla parte sbagliata di un cannocchiale, lonta-na, distaccata e ripugnante come un insetto osservato al microscopio.

Sentii le sue dita stringermi una spalla e tesi una mano per scostarle,«Jason», mi implorò, «non allontanarti da me in questo modo! Parlami,

dimmi!»Ma le sue parole mi arrivavano attraverso il vuoto... sapevo che dall'in-

contro del giorno seguente dipendevano cose vitali, che solo Jason avrebbe potuto ottenere da quell'incontro, che per qualche oscura ragione i terrestrilo avevano cacciato in quell'inferno di dannazione e tortura... oh, sì... laFebbre degli Arboricoli...

Jay Allison scostò con violenza la mano della ragazza e imprecò furente,

cercando di raccogliere i propri pensieri e di concentrarli su quello che do-veva fare e dire per convincere il Piccolo Popolo del loro dovere verso ilresto del pianeta. Come se quelli, che non erano neppure umani, possedes-sero un senso del dovere!

Con un impeto di emozione a lui del tutto estranea, desiderò di esserecon gli altri. Kendricks: adesso capiva con esattezza la ragione per cuiForth lo aveva fatto seguire dal grosso e affidabile uomo delle Forze Spa-ziali. E quel darkovano affascinante è arrogante... dov'era? Perplesso, Jay

guardò la ragazza: non voleva rivelarle che non era affatto sicuro di quelloche doveva fare o dire e che ricordava ben poco di quello che Jason erastato in procinto di fare pochi istanti prima.

Fu sul punto di chiedere: «Dove è andato il giovane Hastur?» ma poi un pensiero improvviso - e logico - gli disse che un ospite di quell'importanzadoveva essere alloggiato con l'Anziano. E un'ondata di disperazione si im- padronì di lui, quando si rese conto che non parlava neppure più là linguadegli Arboricoli, che questa era completamente scomparsa dalla sua me-

moria.«Tu...» annaspò disperatamente alla ricerca del nome della ragazza,

«Kyla. Tu non parli la lingua del Piccolo Popolo, vero?»«Solo qualche parola, niente di più. Perché?» Si era ritirata in un angolo

della minuscola stanza, sempre non molto lontana da lui, e Jay si chiesesenza molto interesse cosa diavolo fosse stato sul punto di fare quel danna-to del suo alter ego. Con Jason non si poteva mai sapere. Jay sollevò il ca- po, sorridendo malinconico.

«Siediti, bambina; non c'è niente di cui avere paura.»«Sto... sto cercando di capire...». La ragazza lo toccò di nuovo, nell'evi-

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dente tentativo di vincere il suo terrore. «Non è facile... quando... quandotu ti trasformi in qualcun altro sotto i miei occhi...» Jay si accorse che sta-va tremando, in preda ad una paura reale.

«Non ho intenzione di trasformarmi in un pipistrello e volare via», ledisse con voce stanca. «Sono solo un povero diavolo di dottore che si ècacciato in un pasticcio tremendo.» Stava pensando che non c'era nessunaragione di dare sfogo alla sua amarezza e al suo risentimento prendendose-la con quella povera ragazza. Dio solo sapeva cosa poteva averle fatto pas-sare quell'irresponsabile del suo alter ego: Forth aveva ammesso che la personalità di quel pallone gonfiato di "Jason" era un miscuglio di tutte lequalità peggiori che Jay aveva lottato tutta la vita per sopprimere. Con unosforzo di volontà, il dottore si trattenne dal scostarle ancora la mano.

«Jason... non scivolare via così! Pensa! Cerca di mantenere il controllodi te stesso!»

Jason lasciò cadere la testa tra le mani, cercando di trovare un senso aquello che la ragazza aveva detto. Di certo in quella luce fioca non potevaessersi accorta fino in fondo dei sottili cambiamenti di espressione del suoviso ed era chiaro che pensava di parlare con Jason. Non sembrava moltointelligente.

«Pensa a domani, Jason. Cosa gli dirai? Pensa ai tuoi genitori...»

Jay Allison si chiese cosa avrebbero pensato i suoi genitori adottivi tro-vando un estraneo, perché lui si sentiva un estraneo. Eppure, quella seradoveva essere entrato in quella casa e aver parlato... disperato, frugò nellamemoria alla ricerca di qualche frammento della lingua degli Arboricoli:l'aveva parlata da bambino, doveva ricordarne quanto bastava per parlarealla donna che era stata una tenera madre adottiva per il suo figlio alieno.Cercò di costringere le labbra a pronunciare quelle parole estranee...

Di nuovo si coprì il viso con le mani. Era Jason la parte di lui che ricor-

dava la lingua del Piccolo Popolo, quella era la cosa importante che dove-va ricordare: Jason non era un estraneo ostile, non era uno sconosciuto chesi era intrufolato nel suo corpo. Jason era la parte perduta della sua perso-nalità e in quel momento era la parte più maledettamente necessaria. Se so-lo ci fosse stato un modo di ricatturare i ricordi di Jason, le sue capacità,senza perdere la personalità di Jay... «Lasciami pensare», disse alla ragaz-za. «Lasciami...» Con sorpresa e orrore sentì la sua bocca parlare una lin-gua sconosciuta: «Lasciami solo, vuoi?»

«Forse», pensò Jay, «potrei restare me stesso se riuscissi a ricordare ilresto.» Il dottor Forth aveva detto che Jason avrebbe ricordato con gratitu-

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dine il Piccolo Popolo, non con disgusto.Jay frugò nella propria memoria ma non trovò altro che l'ormai nota fru-

strazione: anni passati in una terra aliena, lontano dagli esseri umani cheerano i suoi simili, abbandonato e in esilio.

 Mio padre mi ha lasciato solo: ha fatto precipitare l'aereo e non l'ho più

rivisto e lo odio per avermi abbandonato... Ma suo padre non lo aveva abbandonato, aveva cercato di far atterrare

l'aereo per salvare entrambi. Non era colpa di nessuno...Solo di mio padre, perché aveva voluto sorvolare gli Hellers per avven-

turarsi in una terra che non era degli uomini...  Nemmeno lui apparteneva a quella terra. Eppure gli Arboricoli, che lui

considerava poco più che bestie vagabonde, avevano accolto quel bimbo

alieno nella loro città, nelle loro case, nei loro cuori. Lo avevano amato. Elui...

«...e io amavo loro», mi sentii dire ad alta voce e subito mi resi contoche Kyla mi aveva afferrato per un braccio e mi fissava con uno sguardoimplorante. Scossi il capo, confuso, per schiarirmi le idee. «Cosa succe-de?»

«Mi hai spaventata», rispose con voce scossa e tremante e all'improvviso

capii cosa doveva essere successo. Una rabbia violenta nei confronti di JayAllison mi invase: non mi concedeva neppure quel misero frammento divita che mi ero costruito da solo, ma insisteva a spuntare strisciando male-volo dalla mia mente. Quanto doveva odiarmi! Ma non poteva odiarmineppure la metà di quanto io odiavo lui, maledizione! Oltre a tutto il resto,aveva spaventato a morte Kyla!

La ragazza era inginocchiata vicino a me, molto vicina, e io mi resi con-to che c'era un unico modo di combattere lo spettro di Jay Allison: rispe-

dirlo all'inferno a cui apparteneva. Lui era l'uomo che odiava tutto tranne ilmondo gelido e austero in cui aveva trasformato la sua vita. Il viso di Kyla,dolce, attento e implorante, era levato verso di me e con un gesto im- provviso tesi le braccia, la strinsi a me e la baciai con passione.

«Un fantasma potrebbe fare questo?» le chiesi. «O questo?»«No... oh, no», sussurrò lei, e mi passò le braccia attorno al collo. Men-

tre la distendevo sul muschio morbido e profumato che ricopriva la stanza,sentii il fantasma oscuro dell'altra metà di me stesso assottigliarsi, rimpic-

ciolire e scomparire.Regis aveva avuto ragione. Quello era l'unico modo.

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 L'Anziano non era affatto anziano, era semplicemente un titolo onorifi-

co. Era giovane, poco più vecchio di me, ma aveva un portamento e unadignità e quella stessa strana e indefinibile qualità che avevo riscontrato inRegis Hastur. Era qualcosa che, probabilmente, l'Impero Terrestre aveva perso nel suo espandersi da un pianeta all'altro: la consapevolezza di sape-re qual era il proprio posto, una dignità che non aveva bisogno di ricono-scimento perché quel riconoscimento non le era mai mancato.

Come tutti gli Arboricoli, non aveva mento e le orecchie erano prive dilobi; il corpo, ricoperto da una folta pelliccia, aveva un aspetto ben pocoumano. Parlava a voce molto bassa (il Piccolo Popolo ha un udito moltofine) e dovetti tendere le orecchie per sentirlo e ricordarmi di parlare sotto-

voce anch'io.Mi tese la mano e io vi chinai sopra la testa mormorando: «Faccio atto di

sottomissione, o Anziano».«Alzati, figlio mio e siedi», mi rispose con la sua voce gentile e cinguet-

tante. «Sei il benvenuto qui, ma temo che tu abbia abusato della nostra fi-ducia in te. Ti avevamo rimandato dalla tua gente perché sentivamo che sa-resti stato più felice tra loro. Non ti abbiamo mai mostrato altro che genti-lezza, dunque perché dopo tanti anni ritorni con degli uomini armati?

La riprovazione nei suoi occhi era un inizio tutt'altro che promettente.«O Anziano», risposi umilmente, «gli uomini che sono con me non sono

armati. Una banda di coloro-che-non-possono-entrare-nelle-città ci ha at-taccati e noi ci siamo difesi. Ho viaggiato in compagnia di altri uomini so-lo perché temevo di attraversare da solo i passi.»

«Ma questo spiega forse la ragione per cui sei tornato?» Il rimproveronella sua voce era motivato.

«O Anziano», dissi allora, «noi veniamo come supplicanti. Il mio popolo

si appella al tuo popolo nella speranza che vogliate essere...» stavo per diretanto umani, ma mi interruppi e mi corressi, «che vogliate trattarlo con lagentilezza con cui avete trattato me tanto tempo fa.»

L'espressione del suo viso non mutò. «Cosa chiedete?»Glielo spiegai, annaspando alla ricerca delle parole, non conoscendo i

termini tecnici e sapendo che comunque non avrei trovato l'equivalentenella lingua del Piccolo Popolo. Lui mi ascoltò, ponendo qualche domandamolto appropriata di tanto in tanto. Quando accennai all'offerta del Legato

terrestre di riconoscere gli Arboricoli come popolo sovrano e indipendente,lui aggrottò la fronte e mi rimproverò:

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«Noi del Popolo del Cielo non abbiamo alcun rapporto con i terrestri enon sappiamo che farcene del loro riconoscimento... o della mancanza ditale riconoscimento.»

 Non avevo nulla da ribattere a quell'affermazione e l'Anziano proseguì,gentilmente ma con indifferenza: «Non ci piace pensare che la febbre che per noi è solo una insignificante malattia dei bambini possa causare lamorte di tanti della vostra specie. Ma in tutta onestà non potete biasimarenoi; non potete dire che siamo noi a diffondere la malattia: noi non ci av-venturiamo mai al di là delle montagne. È forse colpa nostra se i venticambiano o le lune si congiungono nel cielo? Quando per gli uomini ègiunto il tempo di morire, essi muoiono». Tese le mani, in un gesto di con-gedo. «Darò ai tuoi uomini un salvacondotto fino al fiume, Jason. Non tor-

nare.»Regis Hastur si alzò di colpo e si portò davanti a lui. «Vuoi ascoltarmi,

Padre?» usò quel titolo onorifico senza esitazione e l'Anziano rispose a di-sagio: «Il figlio di Hastur non avrà mai bisogno di parlare come supplice alPopolo del Cielo!»

«Ma ciò nonostante, tu ascoltami come un supplice, o Padre», risposeRegis sottovoce. «Non sono i terrestri alieni e stranieri che ti supplicano.Dagli alieni della Terra abbiamo imparato una cosa, che invece voi non

avete ancora imparato. Io sono giovane e non è decoroso che sia io ad in-segnartelo, ma tu hai detto: "È forse colpa nostra se le lune si congiungononel cielo?" No, certo. Ma noi abbiamo imparato dai terrestri a non attribui-re alle lune del cielo la colpa della nostra ignoranza delle vie degli Dei...vale a dire le vie della malattia, della povertà e della miseria.»

«Strane parole queste, per un Hastur», affermò l'Anziano, dispiaciuto.«Questi sono strani tempi per un Hastur», rispose Regis con voce più al-

ta e l'Anziano trasalì. Regis allora moderò il tono, ma continuò appassiona-

tamente: «Voi date la colpa alle lune del cielo: io dico che le lune non han-no colpa, né i venti né gli Dei. Gli Dei mandano questi affanni agli uomini per mettere alla prova il loro coraggio, per scoprire se hanno la volontà disuperarli!»

Sulla fronte dell'Anziano si disegnò una profonda ruga verticale e l'Ar- boricolo disse con pungente disprezzo: «È dunque questa la stirpe di re cheora viene chiamata Hastur?»

«Uomo, dio, o Hastur, io non sono troppo arrogante e orgoglioso da ri-

fiutarmi di implorare per il mio popolo», ribatté Regis avvampando di rab- bia. «Mai in tutta la storia di Darkover un Hastur si è trovato in piedi din-

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nanzi a voi ad implorare...»«... per gli uomini di un altro mondo!»«... per gli uomini del nostro mondo! Anziano, io potrei restarmene al si-

curo nel castello degli Hastur dove neppure la morte potrebbe toccarmifinché non mi fossi stancato di vivere! Ma ho preferito imparare nuove viteda uomini nuovi. I terrestri hanno qualcosa da insegnare persino agli Ha-stur e sono in grado di trovare un rimedio alla febbre degli Arboricoli.» Sivoltò a guardarmi, per farmi capire che adesso toccava a me proseguire eio dissi: «Io non sono uno straniero di un altro mondo, Anziano: io sonostato un figlio nella tua casa e forse sono stato mandato per insegnarvi acombattere il destino. Non posso credere che voi siate indifferenti allamorte».

E all'improvviso, senza quasi sapere quello che facevo finché non mi ri-trovai in ginocchio, mi inginocchiai davanti a lui e sollevai lo sguardo sulvolto severo, remoto e tranquillo di quell'essere non umano.

«Padre mio», dissi, «tu hai preso un uomo morente e un bimbo morenteda un aereo in fiamme quando persino quelli della loro stessa razza avreb- bero potuto spogliarli di tutto ciò che avevano e lasciarli là morire. Tu haisalvato il bimbo, lo hai adottato e trattato come un figlio, e quando rag-giunse l'età in cui avrebbe potuto soffrire restando con voi, tu hai permesso

a una dozzina di uomini del tuo popolo di rischiare la loro vita per riportar-lo dalla sua gente. Non puoi chiedermi di credere che sei indifferente allamorte di un milione di appartenenti alla mia gente, quando il destino diuno solo di loro ha saputo suscitare la tua compassione!»

Ci fu un momento di silenzio e poi l'Anziano disse: «No, non indifferen-te, ma impotente. La mia gente muore quando si allontana dalle montagne,l'aria per loro è troppo ricca, il cibo è inadatto, la luce li tortura e li acceca.Posso mandare a soffrire e morire coloro che mi chiamano Padre?»

E allora un ricordo, rimasto sepolto per tutta la mia vita, risorse all'im- provviso. «Ascoltami, Padre», dissi in tono incalzante, «nel mondo in cuivivo ora sono chiamato un uomo saggio. Non c'è bisogno che tu mi creda,ma ascoltami: io conosco la tua gente, essi sono la mia gente. Ricordo chequando vi lasciai, più di una dozzina degli amici dei miei genitori adottivisi offrirono di accompagnarmi, ben consapevoli di rischiare la vita. Io eroun ragazzo e non mi rendevo conto del sacrificio che facevano, ma li ve-devo soffrire a mano a mano che scendevamo dalle montagne e giurai...

giurai...» parlavo con difficoltà, costringendo le parole a uscire dalla boccariluttante «...che dal momento che altri avevano sofferto così tanto per me,

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avrei passato la mia vita a curare le sofferenze degli altri. Padre, i terrestrimi chiamano medico, saggio guaritore. Quando saremo tra i terrestri, potròfare in modo che la mia gente, se vorrà venire con noi e aiutarci, abbia ariache può respirare e cibo adatto a loro e difesa contro la luce. Io non ti chie-do di mandare nessuno, Padre: ti chiedo solo di dire ai tuoi figli ciò che ioho detto a te. Se conosco il tuo popolo, che è e sarà per sempre il mio po- polo, centinaia di loro si offriranno di tornare con me. E tu sarai testimonedi ciò che il tuo figlio adottivo qui giura: che se uno solo dei tuoi figli mo-rirà, allora il tuo figlio alieno ne risponderà con la sua stessa vita.»

Le parole mi erano uscite di getto, come una piena inarrestabile e nonerano tutte farina del mio sacco: qualcosa, dentro di me, mi aveva fatto ri-cordare che Jay Allison aveva il potere di fare quelle promesse. E per la

 prima volta cominciai a rendermi conto di quale forza, di quale senso dicolpa, di quale dedizione avesse agito in Jay Allison distaccandolo da me.Rimasi inginocchiato ai piedi dell'Anziano, sopraffatto, vergognoso dellacosa che ero diventato: Jay Allison valeva dieci volte me. Irresponsabile,aveva detto Forth, senza alcuno scopo, privo di equilibrio interiore. Che di-ritto avevo di disprezzare il mio alter ego?

Alla fine sentii la mano dell'Anziano sfiorarmi la testa.«Alzati, figlio mio», disse. «Risponderò per il mio popolo. E perdona i

miei dubbi e le mie esitazioni.»

Per parecchi minuti dopo aver lasciata la sala delle udienze né io né Re-gis pronunciammo parola; poi, quasi all'unisono, ci voltammo l'uno versol'altro. Fu Regis il primo a parlare, in tono serio:

«Avete fatto una cosa meravigliosa, Jason. Non credevo che avrebbe ac-consentito».

«È stato il vostro discorso a convincerlo», ribattei convinto. Ero ancora

 pervaso da quel nuovo stato d'animo, da quella serietà inattesa... ma unanuova sensazione di esultanza stava nascendo in me. Maledizione, ce l'a-vevo fatta! Che Jay Allison provasse a fare altrettanto!

Regis aveva ancora quell'espressione grave. «Avrebbe rifiutato, ma voivi siete appellato a lui come uno della sua gente. Ma non è stato neppurequesto... è stato qualcosa d'altro, di più...» Con un gesto imbarazzato, Re-gis mi passò un braccio attorno alle spalle e sbottò in fretta: «Penso che ilDipartimento Medico terrestre abbia fatto un inferno della vostra vita, Ja-

son! E anche se milioni di vite saranno salvate, sarà difficile perdonarli per quello che vi hanno fatto!»

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 CAPITOLO 7

RITORNO AL QG

Il giorno seguente, nel pomeriggio, l'Anziano ci mandò a chiamare e cidisse che cento uomini si erano offerti volontari per tornare con noi ed era-no disposti a donare il proprio sangue e sottoporsi agli esperimenti per lericerche del vaccino contro la Febbre degli Arboricoli.

Guidati da cento Arboricoli che ci proteggevano dagli attacchi e che era-no in grado di scegliere i sentieri più agevoli, il viaggio di ritorno attraver-so le montagne, così penoso e difficile all'andata, si trasformò in una spe-cie di passeggiata.

Quando iniziammo la lunga discesa verso le pendici delle montagne, pe-rò, gli Arboricoli, che non erano abituati a camminare al suolo e che sof-frivano per l'altitudine più bassa, cominciarono a indebolirsi. E a mano amano che noi ci rinfrancavamo, un numero sempre maggiore di loro davasegni di cedimento e fummo costretti a rallentare di molto l'andatura. Equando finalmente raggiungemmo la radura in cui avevamo lasciato gli a-nimali da soma, neppure Kendricks poté più fingere di restare insensibiledi fronte alle sofferenze di quegli «animali non umani». Fu Rafe Scott ad

avvicinarsi a me e a dirmi disperato: «Jason, questi poveri disgraziati nonce la faranno mai ad arrivare a Carthon. Lerrys e io conosciamo il territo-rio: lascia che andiamo avanti, da soli viaggeremo molto più in fretta, e aCarthon potremo organizzare un trasporto... magari potremo ottenere unaereo pressurizzato per portarli a destinazione. Da Carthon potremo anchemandare un messaggio in modo che al Quartier Generale terrestre faccianoi preparativi necessari per accoglierli.»

Quella sua richiesta mi sorprese e mascherai il senso di colpa per non

averci pensato da solo con l'ironia: «Pensavo che non te ne importasse unaccidente dei "miei amici".»

«Credo di averli giudicati male», ammise Rafe controvoglia. «Stanno passando le pene dell'inferno solo per il senso del dovere, quindi devonoessere molto diversi da come li avevo immaginati.»

Regis, che aveva sentito Rafe proporrai il suo piano, intervenne tranquil-lo: «Non c'è bisogno che voi due andiate avanti, Rafe. Io posso mandareun messaggio molto più in fretta.»

Avevo dimenticato che Regis era un telepate addestrato. «Ci sono dellelimitazioni di distanza e di spazio per questi messaggi», proseguì l'Hastur,

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«ma Darkover possiede una rete regolare di "informatori" che possono i-noltrare i messaggi, e uno di questi è una ragazza che vive proprio al con-fine con la Zona Terrestre. Se mi direte come può fare per aver accesso alQG terrestre...» arrossì leggermente e spiegò, «da quello che ho sentito deiterrestri, non avrebbe molta fortuna se si presentasse semplicemente all'in-gresso del QG dicendo di avere un messaggio telepatico da riferire, vero?»

L'immagine che quella descrizione mi portò alla mente mi fece sorride-re. «Temo proprio di no», ammisi. «Ditele di presentarsi al dottor Forth edi riferirgli il messaggio da parte del dottor Jay Allison.»

Regis mi rivolse un'occhiata curiosa. Era la prima volta che pronunciavoil mio nome dove anche gli altri potevano sentirmi, ma si limitò ad annuiresenza fare commenti. Per le due ore seguenti mi parve più affaccendato del

solito, ma dopo un po' tornò da me e mi disse che il messaggio era arrivatoa destinazione. E qualche tempo dopo mi riferì la risposta: un aereo ci a-vrebbe attesi, non a Carthon, ma in un piccolo villaggio nelle vicinanze delguado del Kadarin dove avevamo lasciato i camion.

Quella sera, dopo esserci accampati, dedicammo la nostra attenzione atutta una serie di problemi pratici che andavano risolti: il luogo e il mo-mento esatto per attraversare il guado, cercare di rassicurare i terrorizzatiArboricoli, che erano riusciti a sopportare di allontanarsi dalle loro foreste,

ma che avrebbero ancora dovuto superare l'ultimo ostacolo rappresentatodal guado del fiume; dispensare il poco aiuto che era in nostro potere aimalati. Ma dopo aver fatto tutto quello che potevo e dopo che il silenzio fusceso sul campo, rimasi seduto davanti al fuoco, a fissare le fiamme, spro-fondato in una dolorosa apatia. L'indomani avremmo attraversato il fiumee poche ore più tardi saremmo arrivati al Quartier Generale terrestre. E al-lora...

E allora... e allora nulla: io sarei svanito, avrei cessato completamente di

esistere in qualunque luogo, sarei stato solo un fantasma vagabondo cheturbava i sogni inquieti di Jay Allison. E mentre lui avrebbe seguito lafredda routine delle sue rigide giornate, io non sarei stato che un vento or-mai passato, una bolla scoppiata, una nuvola svanita.

Il profumo di rose e di zafferano della legna che bruciava diede corpo aimiei sogni. Ancora una volta, come quella notte nella Città Arborea, Kylaera scivolata al mio fianco accanto al fuoco: alzai lo sguardo e di colpo ca- pii che non avrei potuto sopportarlo. La strinsi a me e mormorai: «Oh,

Kyla... Kyla, non mi ricorderò neppure di te!»Lei respinse le mie mani, si inginocchiò e mi disse in tono pressante:

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«Jason, ascoltami: siamo vicini a Carthon, gli altri sono in grado di prose-guire da soli. Perché vuoi tornare? Scompari ora e non tornare mai più! Noi due possiamo...» si interruppe all'improvviso, arrossendo, sopraffattadalla timidezza e concluse in un sussurro, «Darkover è un mondo vasto,Jason, grande quanto basta per nasconderci. Non credo che sprecherannomolto tempo per cercarci.»

 No, non lo avrebbero fatto. Avrei potuto dire a Kendricks (non a Regis,il telepate avrebbe capito subito che mentivo) che li precedevo a Carthoncon Kyla e quando si fossero resi conto che ero fuggito, sarebbero statitroppo preoccupati di riportare sani e salvi gli Arboricoli al QG per spreca-re molto tempo alla ricerca di un fuggiasco. Quello era il mio mondo, unmondo in cui non sarei stato solo.

«Kyla, Kyla», esclamai disperato e impotente, stringendola con forza ame. Lei chiuse gli occhi e io fissai a lungo il suo viso: non era bello, no,ma era un viso di donna coraggiosa, appassionata e ricca di tante altre vir-tù. Era uno sguardo di addio, lo sapevo, anche se lei non se ne rendevaconto.

Dopo un istante lei si scostò e la sua voce priva di tono era ancora piùdolce e sommessa del solito: «Sarà meglio che ce ne andiamo prima che sisveglino gli altri.» Si accorse che non mi muovevo. «Jason...»

 Non potei guardarla. Nascondendo il viso tra le mani dissi: «No, Kyla.Ho... ho promesso all'Anziano che mi sarei preso cura del mio popolo nelmondo dei terrestri.»

«Ma tu non sarai là per prenderti cura di loro!»«Scriverò una lettera per ricordarmene», risposi triste. «Jay Allison ha

un fortissimo senso del dovere: si prenderà cura di loro al posto mio. Nongli piacerà, ma farà quello che deve, fino in fondo. Lui è un uomo miglioredi me, Kyla, è meglio che tu mi dimentichi, io non sono mai esistito», ter-

minai cupo. Non poteva finire così. Di fronte al mio inspiegabile rifiuto, Kyla scop-

 piò in lacrime, mi pregò, mi implorò di non abbandonarla. Alla fine fuggìsinghiozzando e io mi distesi accanto al fuoco, maledicendo Forth, la miafollia, ma soprattutto maledicendo Jay Allison e odiando il mio alter ego diun odio ardente e rabbioso.

Poco prima dell'alba, muovendomi alla luce del bivacco, sentii le bracciadi Kyla circondarmi il collo e il suo corpo stringersi al mio, scosso da sin-

ghiozzi irrefrenabili.«Non posso convincerti e non posso cambiarti», gemette, «e anche se

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 potessi non lo farei. Ma finché posso... finché posso, ti avrò, finché sei an-cora tu.»

La strinsi a me con violenza e in quegli istanti la mia paura del domani,l'odio e l'amarezza nei confronti di chi aveva giocato con la mia vita, ven-nero spazzati via dalla dolcezza delle sue labbra calde e arrendevoli controle mie. E nella luce del fuoco morente, disperato, sapendo che avrei dimen-ticato ogni cosa, la presi e l'amai.

Qualunque cosa fosse stata di me l'indomani, quella notte ero soltantosuo.

E capii allora cosa dovevano provare gli uomini che amavano nell'ombraincombente della morte... Per me era ancora peggio, perché sarei vissutocome il gelido fantasma di me stesso per giorni lunghi e freddi e notti an-

cor più lunghe e fredde. Fu un amore disperato, selvaggio, violento perchétutti e due cercavamo di concentrare in pochi istanti una vita che non a-vremmo mai potuto avere. Quando, nella pallida luce dell'alba, guardai ilvolto bagnato di lacrime di Kyla, la mia amarezza era scomparsa.

Sarei stato spazzato via per sempre, sarei diventato un fantasma, una de- bole traccia che lentamente si estingue nella memoria di un uomo. Ma finoall'ultima scintilla morente di ricordo, l'avrei amata, e nel mio limbo sareistato grato, se ai fantasmi era concesso di provare gratitudine, a coloro che

mi avevano chiamato dal nulla in cui dimoravo per farmi conoscere tuttoquesto: l'impeto della lotta e l'amore dei compagni, i venti tersi delle mon-tagne sul mio viso, un'ultima avventura, le labbra calde di una donna tra lemie braccia.

 Nelle poche settimane di vita che mi erano state concesse avevo sofferto,gioito e amato più di quanto Jay Allison avrebbe mai potuto nel corso ditutta la sua fredda e monotona esistenza. Non gli invidiavo la sua vita. Non più.

Il pomeriggio seguente, attraversando il piccolo villaggio dove ci atten-deva il velivolo, notammo che il quartiere più povero era deserto; non unadonna davanti alle case, non un uomo in strada, non un bimbo che giocavanella piazza polverosa.

«È cominciata», disse Regis cupo e si staccò da noi per accostarsi all'u-scio di un'abitazione silenziosa. Dopo un momento mi fece cenno e io miavvicinai per guardare all'interno.

Avrei preferito non averlo fatto, perché quello che vidi non potrò maidimenticarlo. Dentro giacevano un vecchio, due giovani donne e una mez-

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za dozzina di bambini tra i quattro e i quindici anni. Il vecchio, una delledonne e uno dei bambini erano stati composti in un sudario con il voltocoperto da rami freschi, secondo l'usanza darkovana. L'altra donna era ran-nicchiata accanto al focolare, morente, con l'abito di ruvida stoffa imbratta-to di vomito. I bambini... ancora adesso non riesco a pensare ai bambinisenza sentirmi male. Uno, molto piccolo, era ancora stretto tra le bracciadella donna quando costei era crollata a terra ed era riuscito a liberarsi astento... ma per poco. Gli altri erano in una condizione indescrivibile e lacosa peggiore era che uno di loro si muoveva ancora, debolmente, senzache si potesse fare nulla. Regis si allontanò dalla porta e si appoggiò alla parete coprendosi il volto con le mani: era visibilmente scosso, e non, co-me pensai in un primo tempo, per il disgusto, ma per il dolore. Non riusci-

va a trattenere le lacrime e quando lo presi per un braccio per portarlo via,si appoggiò pesantemente alla mia spalla.

«O Dei, Jason», disse con voce quasi incomprensibile, rotta dal pianto,«quei bambini, quei bambini... se mai hai avuto dubbi su quello che staifacendo, o che hai fatto, pensa a quello che hai visto, pensa che potrestiavere salvato un intero mondo da un destino funesto, pensa che sei riuscitoa fare qualcosa che neppure un Hastur era in grado di fare!»

Sentii la gola che mi si chiudeva per qualcosa che non era solo imbaraz-

zo. «Meglio aspettare di essere sicuri che i terrestri riescano nel loro inten-to. Ed è meglio che tu ti allontani in fretta: io sono immune, ma tu no, ma-ledizione!» Fui costretto a trascinarlo di peso, come un bambino, lontanoda quella casa. Regis sollevò lo sguardo fissandomi con un'intensità che mi parve insostenibile. «Credimi», mi disse, «avrei dato senza esitazione lavita per riuscire a fare quello che hai fatto tu.»

Era una strana specie di elogio, ma chissà perché lo trovai confortante. Edopo, mentre attraversavamo a cavallo il villaggio, cercai di dimenticare

tutto, impegnandomi solo a rassicurare i terrorizzati Arboricoli che nonavevano mai visto una città, né visto o udito un aereo. Evitai Kyla: non vo-levo parlarle ancora, dirle di nuovo addio.

Forth aveva fatto un ottimo lavoro con la preparazione degli alloggi per il Piccolo Popolo e, dopo averli sistemati nel miglior modo possibile e ras-sicurati come potevo, scesi stancamente e indossai gli abiti di Jay Allison.Guardai fuori dalla finestra, verso le montagne lontane. Quand'ero un ra-

gazzo sperduto in un mondo alieno, avevo comprato un libro su quellemontagne, e Jay l'aveva conservato come se fosse un frammento enigmati-

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co di un'altra personalità. Una frase di quel libro riafforò prepotentementenella memoria:

C'è qualcosa nascosto... vai a cercarlo... C'è qualcosa che si è perduto al di là delle montagne... Avevo appena cominciato a vivere, meritavo qualcosa di meglio che non

scomparire proprio quando avevo appena scoperto la vita. Meritava forsedi vivere l'uomo che vivere non sapeva? Jay Allison, quell'uomo freddoche non aveva mai guardato al di là, di nessuna montagna. Perché dovevosmarrirmi in lui?

Qualcosa che si era perduto al di là delle montagne... Nulla si era perdu-to, tranne me stesso. Stavo cominciando ad odiare quell'eccesso di sensodel dovere che mi aveva riportato lì. Ora, quando ormai era troppo tardi,

ero assalito dal rimorso: Kyla mi aveva offerto la vita, e io l'avevo respin-ta.

Potevo rimpiangere quello che non avrei ricordato? Entrai nell'ufficio diForth come se stessi per affrontare il Giudice Supremo.

Forth mi rivolse un caloroso saluto.«Si sieda e mi racconti tutto», mi incitò. Io avrei preferito non parlare e

invece, come costretto da un forza irresistibile, gli feci un rapporto com- pleto. Mentre parlavo, nalla mia mente si presentarono strani lampi di co-

scienza. Quando mi accorsi che non stavo facendo altro che rispondere adun comando post-ipnotico, che anzi ero di nuovo sotto ipnosi, era troppotardi e potei solo pensare che quell'esperienza era peggiore della morte, perché in un certo senso sarei rimasto vivo.

Jay Allison si raddrizzò sulla sedia, sistemandosi il camice e distenden-do la bocca in quello che per lui era un gelido sorriso. «Dunque immaginoche l'esperimento sia stato un successo?»

«Un successo completo.» La voce di Forth era stranamente brusca e sec-

cata, ma Jay non si turbò: da anni ormai sapeva di non piacere alla gran parte dei suoi colleghi e dei suoi sottoposti e aveva da tempo smesso di preoccuparsene.

«Gli Arboricoli hanno accettato?»«Hanno accettato», confermò Forth sorpreso. «Non ricorda proprio nul-

la?»«Solo qualche frammento, come un incubo.» Jay Allison posò lo sguar-

do, sul dorso della mano, flettendo cautamente le dita e toccando la ferita

quasi del tutto rimarginata. Forth seguì la direzione del suo sguardo e dissein tono comprensivo: «Non si preoccupi per la sua mano, l'ho esaminata

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con molta cura, ne recupererà totalmente l'uso».«Mi sembra che sia stato un rischio molto grave», commentò Jay severo.

«Non si è mai soffermato a pensare cosa avrebbe significato per me perde-re l'uso della mano?»

«Mi è sembrato un rischio giustificabile, anche se l'avesse perso», rispo-se secco Forth. «Jay, ho registrato tutta la storia su nastro, proprio come miaveva chiesto. Forse non le piacerà avere un vuoto nella memoria. Vuolesentire quello che ha fatto il suo alter ego?»

Jay esitò un istante e poi si levò in piedi. «No, non credo proprio che miimporti di saperlo.» Si fermò, sentendo uno strano indolenzimento ai mu-scoli e aggrottò la fronte.

Cosa era successo? Perché quel lieve strappo gli procurava un dolore più

 profondo e più acuto? Forth lo stava guardando e Jay chiese irritato: «Cosac'è?»

«La sua freddezza è davvero incredibile, Jay.»«Non capisco cosa intenda, signore.»«Ne ero certo», mormorò Forth. «Che buffo: mi piaceva la sua persona-

lità alternativa.»Jay storse la bocca in un sorriso privo di allegria.«Ne ero certo anch'io», disse, e si girò per uscire. «Andiamo, se devo

cominciare a lavorare sul serio, è meglio che controlli i volontari e riguardigli appunti.»

Le cime innevate delle montagne attirarono il suo sguardo, trattenendo-lo: una specie di indovinello, un rompicapo forse, gli attraversò la mente.

«Ridicolo», disse, e uscì dall'ufficio.

CAPITOLO 8KYLA

Quattro mesi più tardi, Jay Allison e Randall Forth osservavano insiemel'ultimo aereo che si allontanava, riportando gli ultimi volontari a Carthone alle loro montagne. «Sarei dovuto tornare a Carthon con loro», commen-tò Jay imbronciato. Forth guardò l'uomo alto che osservava le montagne esi chiese cosa c'era dietro quei gesti misurati e quell'umore malinconico.

«Ha fatto abbastanza, Jay», disse. «Ha lavorato duramente, tanto che ilLegato Thurmond mi ha fatto sapere che lei riceverà un encomio ufficiale

e una promozione. Senza parlare di quello che ha fatto nella Città Arbore-a.» Mise una mano sulla spalla del collega, ma Jay la scrollò via con un

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gesto impaziente.Durante tutto il lungo e faticoso processo per isolare l'anticorpo, Jay a-

veva lavorato instancabilmente e senza risparmiarsi, dormendo pochissimoe rimuginando silenzioso, ma facile a lasciarsi andare a scoppi d'ira sel-vaggia. Si era preoccupato degli Arboricoli con sollecitudine quasi pater-na, ma anche con un certo distacco; non aveva tralasciato nulla perché sisentissero a proprio agio, ma si era sempre rifiutato di vederli di persona,se non nei casi indispensabili.

«Abbiamo fatto un gioco pericoloso», pensò Forth. «Jay Allison era riu-scito a costruirsi una vita sua e noi abbiamo disturbato quell'equilibrio.Abbiamo forse distrutto quest'uomo? Certo, è sacrificabile, ma, maledizio-ne! quale perdita!»

«E allora perché non è tornato in aereo con loro a Carthon?» gli chiese.«Kendricks li ha accompagnati, lo sa, e fino all'ultimo minuto si aspettavache andasse anche lei.»

Jay non rispose; aveva evitato Kendricks che era stato l'unico testimonedel suo sdoppiamento di personalità. In preda a pensieri ossessivi, evitaretutte le persone che lo avevano conosciuto come Jason era diventata per ildottor Allison un'idiosincrasia. Una volta, incontrando Rafe Scott al pian-terreno del QG, aveva precipitosamente fatto dietro-front ed era scappato

correndo come un pazzo per i corridoi e le sale pur di evitare di trovarsifaccia a faccia con lui; aveva salito di gran carriera quattro piani di scalee'si era rifugiato nelle sue stanze, con il cuore che gli martellava in petto,trafelato e spaventato come fosse stato inseguito da una muta di cani. «Semi ha fatto venire qui per farmi una predica perché mi rifiuto di fare un al-tro viaggio negli Hellers...»

«No, no», lo interruppe Forth in tono conciliante, «sta per ricevere visi-te. Regis Hastur ha mandato un messaggio dicendo che desidera vederla.

In caso non si ricordasse di lui, ha fatto parte del Progetto Jason...»«Me lo ricordo», rispose Jay cupo. Era forse l'unico ricordo chiaro che

aveva: l'incubo sulla cresta della montagna, la mano ferita, il corpo quasinudo della donna darkovana... e, a offuscare quei ricordi, quell'aristocrati-co darkovano troppo avvenente, che l'aveva rimandato nell'ombra per far risorgere Jason. «Come psichiatra vale più di lei, Forth; mi ha ritrasforma-to in Jason in un batter d'occhio, mentre a lei ci sono volute una mezzadozzina di sedute ipnotiche.»

«Ho sentito parlare dei poteri psi degli Hastur, ma non ho mai avuto lafortuna di conoscerne uno di persona», rispose Forth. «Mi racconti: che

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cosa ha fatto?»Jay mosse le spalle esasperato, un movimento troppo controllato per es-

sere una vera scrollata di spalle. «Perché non lo chiede a lui? Senta, Forth,non ci tengo molto a vederlo; io non l'ho fatto per Darkover, l'ho fatto per-ché era il mio lavoro e preferirei dimenticarmi di tutta la faccenda. Perchénon gli parla lei?»

«Ho avuto la netta sensazione che volesse parlare con lei personalmente.Jay, lei ha fatto una cosa stupenda! Maledizione, perché non si lascia un po' andare, sia normale... per una volta! Ma come, io scoppierei d'orgogliose uno degli Hastur insistesse per congratularsi con me di persona!»

Un fremito contorse le labbra di Jay, che parlò con voce tremante, cer-cando di controllare l'esasperazione: «Forse per lei sarebbe così, ma per 

me non lo è».«Be', temo invece che sarà costretto a vederlo. Nessuno su Darkover ri-

fiuta la richiesta di un Hastur... e certo non una richiesta ragionevole comequesta.» Forth si sedette accanto alla scrivania; Jay colpì violentemente iltavolo con un pugno e quando riabbassò la mano, un sottile rivolo di san-gue gli macchiava le nocche. Dopo un minuto si diresse al divano e si se-dette rigido e con la schiena eretta, senza dire una parola. Nessuno dei due parlò fino a quando Forth trasalì al suono di un cicalino, tirò verso di sé il

microfono e disse: «Gli dica che siamo onorati... eccetera, eccetera; sa qua-li sono le frasi di rito in queste occasioni e lo mandi su».

Jay intrecciò le dita e con un gesto per lui insolito, fece scorrere il polli-ce sulla cicatrice ancora visibile sulle nocche. Forth si accorse che il silen-zio era diverso e fu sul punto di parlare per spezzarlo, ma prima che potes-se dire qualcosa la porta dell'ufficio si aprì senza fare rumore e Regis Ha-stur entrò nella stanza.

Forth si alzò educatamente e Jay balzò in piedi come una marionetta

strattonata dai fili di un burattinaio. Il giovane principe darkovano gli ri-volse un sorriso affabile.

«Non preoccupatevi, è una visita informale, ed è per questa ragione chesono venuto io da voi invece di invitarvi al Castello. Dottor Forth, è un piacere rivedervi: spero che la nostra gratitudine potrà presto assumere unaforma più tangibile. Non abbiamo più avuto un solo decesso per febbredegli arboricoli da quando avete distribuito il siero.»

Immobile, Jay osservò l'anziano collega soccombere totalmente al fasci-

no deliberato del giovane. Il suo viso segnato e grassoccio si illuminò di unsorriso compiaciuto e Forth rispose: «I doni che avete mandato a vostro

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nome agli arboricoli sono stati molto apprezzati, nobile Hastur».«Pensate forse che qualcuno di noi possa mai dimenticare quello che

hanno fatto?», replicò Regis. Poi si voltò verso la finestra e rivolse un sor-riso incerto all'uomo che era rimasto in piedi dopo quel gesto di conven-zionale educazione.

«Dottor Allison, si ricorda di me?»«Mi ricordo di lei», rispose Jay controvoglia.La sua voce rimase sospesa nella stanza, risuonandogli come un rombo

nelle orecchie. Tutte le notti insonni, gli incubi, le meditazioni cupe, l'odiorepresso per Darkover e i ricordi che aveva cercato di seppellire, esploseroin un'amarezza intrattenibile verso quel giovanotto troppo affascinante, cheera un semidio su quel mondo e che l'aveva umiliato, ripudiato per l'odiato

Jason. Di colpo, per Jay, Regis divenne il simbolo di un mondo che lo de-testava, che lo costringeva in un ruolo e in una forma falsa.

 Nella stanza sembrò alzarsi un vento scuro e sferzante. «La ricordo ec-come», ripeté con voce roca, e fece un passo avanti, gettandosi sul darko-vano.

La violenza di quel colpo inaspettato fece roteare Regis su se stesso enell'istante che seguì Jay, che non aveva mai toccato un altro essere uma-no, se non con i guanti da chirurgo, per guarirlo, afferrò alla gola Regis

con una stretta d'acciaio. Il mondo si ridusse ad una nuvola di rabbia rossa.Si udì gridare, ci furono dei rumori e un'esplosione lancinante nel suo cer-vello...

«È meglio che beva questo», avvertì Forth. Mi resi conto che stavo rigi-rando tra le mani un bicchiere di plastica. Mentre lo portavo alle labbra,Forth si sedette, scosso e tremante. Regis scostò la mano con la quale sistava massaggiando la gola e disse con voce rauca: «Credo che farebbe

 bene anche a me, dottore».Posai il bicchiere di whisky. «Fareste meglio a bere acqua finché non vi

sarà passato l'indolenzimento ai muscoli della gola», intervenni, e andai ariempirgli un bicchiere di plastica, senza pensarci. Glielo porsi, mi inter-ruppi sgomento a metà gesto, la mano mi tremò, e versai qualche goccia.«Bevete», riuscii a dire con voce tremante.

Regis deglutì un sorso, a fatica e disse: «È stata colpa mia. nel momentoin cui ho visto Jay Allison... ho capito che era sull'orlo della pazzia. L'avrei

fermato prima, se non mi avesse colto di sorpresa».«Ma avete visto... lui... io sono Jay Allison», dissi, poi mi cedettero le

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ginocchia e fui costretto a sedermi. «Cosa diavolo è questa faccenda? Ionon sono Jay... ma non sono neppure Jason...»

Ero in grado di ricordare tutta la mia vita, ma l'angolazione era cambia-ta: provavo ancora il vecchio amore, la vecchia nostalgia per il Piccolo Po- polo, ma al tempo stesso sapevo, con certezza assoluta, qual era la mia i-dentità: io ero il dottor Jason Allison Junior, che aveva abbandonato l'alpi-nismo per diventare specialista in parassitologia darkovana. Non il Jay cheaveva rifiutato il mondo e non il Jason che dal mondo era stato rifiutato.Ma allora chi ero?

«Io vi ho già visto... una volta», disse Regis con voce sommessa, «quan-do vi siete inginocchiato dinanzi all'Anziano del Piccolo Popolo... e dalquel darkovano superstizioso e ignorante che sono, ho pensato che eravate

un uomo che per una volta era riuscito a trovare l'equilibrio tra il suo de-mone e il suo dio», concluse con un sorriso irònico.

Fissai sconcertato il giovane Hastur; pochi secondi prima stringevo tra lemani la sua gola; Jay, o Jàson, sconvolto dall'odio e dalla gelosia verso sestesso, poteva anche non assumersi la responsabilità del gesto del suo alter ego.

Ma io non potevo.«Potremmo scegliere la soluzione più facile», disse Regis, «e organizza-

re le cose in modo da non rivederci mai più. O potremmo scegliere la stra-da più difficile.» Tese la mano e dopo un attimo compresi e ci stringemmola mano, come due estranei che si conoscessero in quel momento. «Il vo-stro lavoro con il Piccolo Popolo è terminato, ma noi Hastur abbiamo datola nostra parola di insegnare ad alcuni terrestri qualcosa della nostra scien-za, la meccanica delle matrici», proseguì il darkovano. «Dottor Alli-son...Jason...tu conosci Darkover e credo che potremmo lavorare insieme.E inoltre tu ne sai parecchio sullo sdoppiamento mentale. Sono venuto qui

 per farti una richiesta: te la sentiresti di essere uno di quei terrestri? Sarestiun soggetto ideale.»

Guardai fuori dalla finestra le montagne lontane. Quel lavoro sarebbestato qualcosa che avrebbe potuto soddisfare entrambe le mie personalità:la forza irresistibile, l'oggetto inamovibile... e nessun fantasma che si aggi-rava nel mio cervello. «Lo farò», dissi a Regis. Poi, deliberatamente, glivoltai le spalle e mi recai negli alloggi, ora deserti, che avevano ospitato ilPiccolo Popolo. Con i miei nuovi ricordi doppi, o completi, nella mia men-

te si era risvegliato un altro fantasma e ricordavo una donna che era appar-sa brevemente a Jay Allison, senza che lui la notasse, che aveva lavorato

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con gli Arboricoli, tollerata perché era in grado di parlare la loro lingua.Aprii la porta, ispezionai in fretta le stanze e gridai: «Kyla!» e lei arrivò.Correndo. Affannata. Mia.

All'ultimo istante si ritrasse dal mio abbraccio e sussurrò: «Sei Jason...ma c'è qualcosa di diverso, di più...»

«Non so chi sono», ammisi sottovoce, «ma sono io. Forse per la primavolta. Vuoi aiutarmi a scoprire finalmente chi sono?»

La strinsi al petto, cercando di ritrovare dentro di me un filo che unisse iricordi di ieri con i sogni di domani. Per tutta la vita avevo percorso unostrano e oscuro cammino verso un orizzonte sconosciuto e ora che l'avevoraggiunto mi rendevo conto che segnava solo il confine di una terra ignota.

Kyla e io l'avremmo esplorata insieme.

FINE