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ELI GOTTLIEB LE COSE CHE SO DI LUI

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eli Gottlieb

le cose che so di lui

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

titolo originale: Now You See Him © 2008 by eli Gottlieb

traduzione di claudia Antinori

Redazione: edistudio, Milano

Citazione p. 40:William shakespeare, Amleto, trad. it. di eugenio Montale, oscar Mondadori, 1988.Citazione p. 62:Anton P. cechov, I quaderni del dottor Cechov, trad. it. di P. Zveteremich, Feltri-nelli, 1978.

i edizione 2010

© 2010 - ediZioNi PieMMe spa 20145 Milano - Via tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

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Capitolo 1

sarebbe giusto affermare che, nei tempi in cui viviamo, la gente è arrivata quasi a dubitare degli elementi basi-lari della vita stessa? che siamo diffidenti nei confronti del cibo? che abbiamo paura dei nostri stessi figli? e che oggi, di conseguenza, ognuno di noi vive in cima a una piramide d’ironia difensiva, rannicchiato lassù nel poco spazio che rimane sulla punta, guardando in ca-gnesco il panorama sottostante? in un’epoca di fosche visioni e ancora più fosche diagnosi, voglio mettere su-bito in chiaro una cosa e lo dichiaro apertamente: io lo amavo. sono cresciuto nella casa di fronte alla sua, dall’altra parte della strada. A modo mio, lo adoravo. con l’adorazione servile di un bambino, avevo cerca-to in sostanza di essere come lui. sebbene fossimo due ragazzini della stessa età, ci prendessimo in giro e ci punzecchiassimo continuamente, al di là di tutto que-sto ero consapevole che in lui c’era sempre una vitalità, una musicalità e un qualcosa di ben definito che lo di-stingueva dal resto di noi.

si chiamava Rob castor. Molto probabilmente avete sentito parlare di lui. È diventato una piccola celebri-tà verso i venticinque anni per aver scritto un libro di

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racconti in un perfetto stile macabro, ambientati in una stupida e sonnolenta cittadina dello stato di New York. diversi anni dopo, ha ucciso Kate Pierce, la sua com-pagna scrittrice, poi si è suicidato, facendo spostare i riflettori dei media con un forte sibilo e bloccandoli lì, puntati sulla sua vita, sulla sua città natale e di conse-guenza su di noi, i suoi amici e concittadini. È stato affascinante osservare, con una certa repulsione, come una banale vicenda di cronaca nera sia tracimata dai consueti argini, i settimanali l’abbiano raccolta e poi, quando è arrivata in televisione, tutto sia esploso in una nube di luminosa e scintillante copertura mediati-ca. Nelle stanze dei bottoni d’America, a quanto pare, è stata presa una decisione unanime: è la storia giusta. così, a distanza di sei giorni dal fatto, quelli della tele-visione sono arrivati da Manhattan e hanno bivaccato al dorset hotel, con i loro grossi camion dalle anten-ne lucenti e le parabole, le conduttrici e i conduttori supertruccati davanti alle telecamere, che sembravano tutti fatti con lo stampo dell’anchorman di successo e trasudavano una specie di falsità a buon mercato.

Per quelli di noi che sono stati suoi amici, anche se non siamo rimasti molto in contatto con lui negli ultimi anni, lo shock è stato inevitabile, seguito dall’inevitabi-le (nel mio caso) afflizione. Per tutti gli altri in città, si è trattato più di un’ondata di trasformazione che ci ha travolto sulla scia dell’attenzione dei media: un cambia-mento elettrizzante che ci ha lasciato profondamente consapevoli di come possono apparire le nostre facce e i nostri corpi nell’atmosfera rarefatta della televisione. di riflesso, sembravamo tutti diventati attori di un rea-lity show destinato a mostrare il corrotto ventre molle

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della semplice vita di provincia americana. se non fosse per il fatto che non esisteva un corrotto ventre molle. Quella non era la columbine high school. Non era il triste posto sabbioso dove predicò e morì il povero da-vid Koresh, messia della setta dei davidiani. Quella era Monarch, New York, una piccola cittadina ordinata e fiera, su una collina abbastanza lontana dai maggiori centri urbani perché la gente si fermi ancora un attimo a riflettere prima di parlare.

Ma non importa. l’aria stava diventando frizzante, le mele erano già rosse e mature e cadevano dagli albe-ri, quando improvvisamente troppi di noi se ne stava-no fuori a sfidare il freddo, a girovagare per le strade della città e fingere di bighellonare, con la speranza di finire nel notiziario della sera. era indecoroso vedere il maggiore Wilkinson, il nostro veterano della seconda guerra mondiale, un uomo che si diceva avesse mes-so da parte milioni in monete d’argento, comprarsi un guardaroba completamente nuovo (a ottantacinque anni d’età!) e posare ogni mattina nell’inquadratu-ra dei fotografi all’entrata del Krispy Kreme come un commesso impazzito dei grandi magazzini Walmart. la gente ha rovistato nei vecchi diari e nelle scatole pol-verose di ricordi alla ricerca di cimeli da vendere e c’è stata una specie di tacita gara, vinta da hilary Margold, che ha scovato un pezzo di carta sgualcito e ingiallito con le parole “contestare l’autorità”, scritte con l’incon-fondibile calligrafia da scuola superiore di Rob. È sta-to autenticato, pubblicato sulla stampa locale e, come tributo all’insaziabile fame degli americani per i cimeli morbosi, è finito su ebay, dove è stato messo in ven-dita per una cifra sostanziosa. tutti noi, che avessimo

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conosciuto Rob personalmente o meno, andavamo in giro stranamente eccitati, come se soffiasse una brezza rinfrescante che forse avrebbe portato qualcosa di vivo e nuovo nelle nostre vite.

Per quanto mi riguarda, non ho partecipato a quasi niente di tutto questo. sono rimasto sbalordito dalla sua morte e doppiamente scioccato dalla sofferenza che mi ha causato, un dolore acuto e pungente in un recesso nel profondo dell’animo, che non era stato più toccato da anni.

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Capitolo 2

com’era prevedibile, suppongo, mia moglie lucy non si è dimostrata affatto interessata a partecipare al mio lutto. in realtà non si è mai troppo fidata della sregola-tezza del mio vecchio amico, né le è mai piaciuto ascol-tare le assurde storie che, specialmente dopo uno o due bicchieri di vino, amo raccontarle riguardo all’infanzia passata insieme: io e Rob che a dieci anni scriviamo e distribuiamo un giornale fatto interamente di parolacce, Rob che mi mostra un nuovo modo di masturbarsi, “come lo fanno in Cina”. i perbenisti forse non capiranno, ma io confesso di essere ancora un po’ sconcertato dalla veemenza del disgusto di mia moglie. le ho detto che era un vero amico, che faceva parte di un panorama di vecchi ricordi e lo amavo come si ama l’antico elemento di un paesaggio, come un molo o un pontile dal qua-le rammenti di esserti tuffato tante volte nella fresca e invitante acqua azzurra. «È talmente semplice, tesoro» ho detto, guardando la donna con la quale il matrimo-nio è stato il costante decadimento di un sogno meravi-glioso. «da bambino, mi sentivo veramente arricchito dalla nostra amicizia, perché non dovrei onorare questi sentimenti anche da adulto?»

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ho raccontato a dwight e Will, i nostri figli di otto e dieci anni, delle storie su Rob, descrivendolo come uno costantemente impegnato a dirci con affetto come eravamo incapaci, come eravamo stupidi, ottusi, così umanamente superflui da passare i nostri giorni avvol-ti da una nebbia di superficiale compiacimento, senza scavare neppure un millimetro al di sotto della patina splendente della vita. loro però, essendo bambini, sono più interessati agli spettacolari casini che abbia-mo combinato in tanti anni. e, in tanti anni, di casini ne abbiamo combinati davvero parecchi.

Quando mi chiedo perché la vita e la morte del mio vecchio amico e delle sua compagna abbiano provo-cato una tumultuosa tempesta mediatica nazionale che tuttora, a distanza di settimane dal fatto, ci sommerge con incalzanti titoli di testa e sferzanti venti editoriali, l’unica conclusione che mi viene in mente è che deve essere stato il valore universale di tutta la vicenda a dare alla testa alla gente. c’erano la bellezza e il talento, lo scenario di New York e la fine tragica. c’erano i sen-timenti fra uomo e donna e anche, secondo i punti di vista, l’infame testa di cazzo, rappresentata da un uomo di nome david Framkin. Alcuni di noi hanno avanza-to l’idea che dipendesse dalla sua ragazza Kate, per il suo misterioso distacco e la sua intoccabile compostez-za, che sembravano affascinare i molti uomini che la corteggiavano, e che dalla sconfinata distanza della sua stessa morte sia stata capace – per così dire – di in-cantare un’intera nazione. Ma, in fondo, penso che la verità sia più banale e possa essere ridotta a una sola parola: video.

Proprio al culmine della prima ondata di interesse

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nazionale, è stato scoperto un archivio di video di Rob e Kate, parte di un documentario incompiuto sul fa-scino della vita dello scrittore, girato nella colonia di artisti nella quale si erano conosciuti.

Quasi istantaneamente sono entrati nello speciale e triste pantheon nel quale vive la povera giovane stel-lina Jonbenét Ramsey, insieme a dylan Klebold e an-che Patty hearst, che posa con il suo mitra come una pornostar di delitto e mistero. il video conteneva molte scene struggenti in cui ciascuno parlava alla telecamera di ciò che voleva fare come scrittore e nella vita. Ma credo che la scena che ha catturato il cuore dell’Ame-rica sia stata quella romantica in cui loro due, seduti su una spiaggia che si chiama Race Point beach, a cape cod, cantavano insieme delle canzoni e Rob strimpella-va degli accordi con la chitarra. erano vecchi pezzi dei beatles, qualcosa di hendrix e brevi accenni dei Nir-vana; il grande braciere fiammeggiante del tramonto si immergeva nell’acqua, da una parte si infrangevano le onde e mentre le loro vocine stridule si levavano unen-dosi in coro, ignorando totalmente ciò che li attendeva, era impossibile, guardandoli e sapendo già tutto in an-ticipo, non essere un po’ dispiaciuti e riconoscere che forse l’amore più grande e appassionato genera sempre la sua stessa estinzione.

Per quasi due settimane di fila, gli spettacoli scan-dalistici sono stati congestionati da questi brani di vi-deo amatoriali. si vedeva di continuo quella ragazza fatalmente pudica con il volto leggermente inclinato di lato, come se contemplasse costantemente un mondo migliore, e quel ragazzo, di una bellezza singolare, alla Kurt cobain, ma meno esile, che cantava e si fermava

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ogni secondo per declamare i suoi pensieri sulla vita con la spavalda sicurezza di un bifolco nato.

Nel frattempo, la comunità letteraria, intorbidita dall’omicidio, si mobilitava per commemorare Rob, mentre alcuni dei suoi cosiddetti amici facevano del loro meglio per prendere le distanze dall’accaduto. si faceva della beneficenza in nome della sua ragazza mor-ta per devolvere fondi alle vittime della violenza do-mestica. Altri, com’era prevedibile, cavalcavano l’onda della tragedia per deplorare le oscene pressioni eser-citate oggi dal mercato sui giovani artisti. Personaggi quasi famosi scrivevano intere colonne a favore e con-tro Rob sul «New York times» e alcuni dei suoi mento-ri vivevano un breve momento di celebrità nelle molte notizie che si succedevano a ciclo continuo. Per tutto il tempo, guardando e ascoltando, ho provato un’amara soddisfazione al pensiero che, almeno per alcune setti-mane, l’intero paese sembrava essere d’accordo con me che il mio caro vecchio amico era indimenticabile.

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Capitolo 3

Non molto tempo dopo il periodo della tempesta me-diatica, è squillato il telefono di casa nostra. All’altro capo c’era shirley castor, la madre vedova di Rob. Non parlavo con lei da anni e sentendo la sua voce ho prova-to una fitta penetrante, non del tutto piacevole. ha det-to che mi voleva vedere, con un tono imperativo che mi ha ricordato l’arrogante signora melodrammatica che mi aveva intimidito da ragazzo. shirley era una madre oppressiva, presente in maniera innaturale, che si era “fusa” con Rob in un modo che da bambino invidiavo vagamente. era chiaramente il favorito dei suoi tre fi-gli. Per molti anni shirley si era crogiolata felicemente nella luce riflessa del suo successo. Ma dal momento dell’omicidio-suicidio, un’altra donna era legata a lui in modo molto più memorabile di sua madre. Nella morte, Kate Pierce aveva eclissato shirley per sempre e sapevo che la cosa non le piaceva per niente.

dovrei spiegare che, dopo il successo provocato da un libro che, per almeno un’intera stagione, era stato l’irrinunciabile accessorio all’ultima moda sui treni e sugli aerei «per la sua lirica che anatomizza il cuore umano», Rob aveva iniziato una nuova vita che sem-

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brava consistere quasi interamente in lunghi e continui spostamenti fra i campus delle università e le colonie di artisti, e nelle rimpatriate due volte l’anno con al segui-to una nuova donna esotica. tornava a casa a trovare sua madre e anche per vedere noi, i suoi vecchi amici, alle cene mensili a base di pizza e birra che continuava-mo a organizzare al solito posto, il New Russian hall. la maggior parte di noi trovava fantastico che, posto di fronte all’ardua sfida di guadagnarsi da vivere, il no-stro compagno delle elementari non solo fosse diven-tato famoso, ma soprattutto fosse riuscito a ottenere la precaria qualifica di scrittore di professione. Peraltro tutti noi invidiavamo spasmodicamente le conseguenze indirette di quella qualifica: le sue conquiste femmini-li. eravamo atterriti dalla bella e giovane pittrice turca che si muoveva come se stesse facendo la danza dei set-te veli con i capelli. eravamo affascinati dalla scrittrice di romanzi in carriera con unghie perfette e sguardo inespressivo. eravamo colpiti dalla poetessa frustra-ta e anoressica. e, mio dio, eravamo letteralmente tramortiti di fronte alla sensibile indiana Winnebago con gli occhi tristi e una scintillante cascata di capelli neri. ognuna di queste donne, che apparivano intense, splendide e drammatiche in modo completamente di-verso fra loro, arrivavano in città sotto braccio a Rob, davano un’occhiata in giro e facevano del loro meglio per mascherare il loro disappunto.

Kate era stata diversa da tutte fin dall’inizio. tanto per cominciare, non era evidente che fosse un’artista. Non scuoteva i capelli, non parlava con una finta voce da bambina e non si comportava come una nobildon-na europea inspiegabilmente caduta sulla terra fra i

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bifolchi americani. era una donna equilibrata di circa trent’anni, abbastanza carina, di una bellezza comune, affabile ma leggermente fredda, con capelli biondi e li-sci, pettinati in modo da ricadere perfettamente divisi come due tende, indossava abiti poco appariscenti e aveva il naso piacevolmente all’insù. ti stava davanti, discreta come un vaso da fiori, e mentre ti sorrideva sembrava leggerti dentro. in quel sorriso c’era una con-sapevolezza, altrimenti tenuta accuratamente celata. e nonostante sapessimo che anche lei era una scrittrice, ci stupiva che Rob l’avesse scelta. Rob era sempre sta-to un tipo talmente sopra le righe che eravamo sicuri sarebbe finito con una donna esageratamente bella o con un’aggressiva arrampicatrice sociale. invece quella ragazza, almeno a prima vista, era perfettamente nor-male, il tipo di donna media insignificante che potresti trovare con un camice dietro il banco dei cosmetici dei grandi magazzini, a offrire spruzzi del profumo specia-le del giorno.

Rimanemmo sbalorditi quando si giurarono amore eterno, si trasferirono a Manhattan e iniziarono una vita insieme. da quel momento in poi, la maggior parte del-le notizie su di loro ci arrivarono da un tipo che si chia-ma Mac sterling. conosco Mac – quell’avido ipocrita – dalle elementari, quando ci spartivamo la reputazione di “migliori amici di Rob”. un ragazzone chiassoso e intelligente, che in seguito sarebbe diventato un famo-so giornalista scrivendo brevi biografie delle celebrità sulle riviste nazionali. Mi ero sempre sentito un po’ impotente di fronte alla sua evidente affinità con Rob – affinità nella sregolatezza, da bambini, e come scrit-tori, da adulti – e dopo le superiori Mac era rimasto in

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contatto con Rob più di chiunque altro. Quando Rob e Kate lasciarono la colonia di artisti dove si erano co-nosciuti e decisero di andare a vivere insieme, fu Mac, che stava già a New York, a far loro visita regolarmente e a riportarci fedelmente le notizie, quando tornava a Monarch a trovare la madre malata.

trasportata dalla corrente ascensionale dell’amore, la coppia felice discese sulla terra alla periferia del centro di Manhattan, in un quartiere animato invaso dall’odo-re di grasso fritto, urina e povertà; le strade di New York (qui è Mac che parla) in estate trasudano odori dal profondo delle loro viscere, il caldo risveglia tutti i loro miasmi. Rob aveva iniziato a lavorare a un roman-zo per il quale, spiegò Mac, aveva già un contratto. Nel frattempo Kate aveva lasciato il suo vecchio lavoro da segretaria a cincinnati ed era riuscita a impiegare la sua esperienza presso una ricca signora sulla upper east side che adorava la sua affidabilità, la sua calma e la sua velocità nel battere a macchina.

Almeno in apparenza, le cose filarono lisce per un po’. lei fece del suo meglio per integrarsi nella cerchia di artisti scalcagnati di Rob. secondo Mac, aumentò la quantità di nero nel guardaroba e, su insistenza di Rob, si tagliò i capelli con una di quelle drammatiche pettinature di città che, come un balconcino, sporgo-no in modo bizzarro sulla faccia. il suo accento rima-se lo stesso, così come l’abitudine che aveva di parlare poco e rimanere immobile nella cornice della sua com-postezza. Ma, in modo impercettibile, aveva iniziato a sembrare più una di Manhattan che una ragazza del Midwest, dove era nata.

Passarono le stagioni, le foglie caddero e poi appar-

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vero di nuovo, verdi e miracolose ogni volta, mentre tutti i giorni Rob si arrampicava sulla scrivania come un nuotatore esausto che annaspa controcorrente verso la spiaggia e cercava di concentrarsi. Qualcosa, aveva riferito a Mac, si era spento. il lavoro non andava, le frasi venivano fuori senza una ragione apparente. Per la prima volta nella vita, la sua vena artistica si stava indebolendo, ci spiegò Mac, si indeboliva come accade a una persona sana che si ammala, portandosi via la luce e il sorriso, e la situazione era peggiorata dal fatto che le aspettative nei suoi confronti stavano crescendo molto. A Rob la laboriosità non era mai mancata, così raddoppiò il tempo passato alla scrivania, sfornando una bozza del libro dopo l’altra e vedendo soltanto cre-scere l’insoddisfazione per il sempre più voluminoso prodotto finale. Forse si stava confrontando con i limiti del suo talento. o forse la fama, con la sua repentinità, aveva mandato in pezzi la sua, un tempo incrollabile, fiducia in se stesso. in ogni caso, le bozze andavano e tornavano, ricoperte ovunque dalle annotazioni a mati-ta, prova del calmo, sobrio e solidale no dell’editore. e con questa forte ventata di rifiuto, disse Mac, Rob sta-va iniziando ad andare nel panico. Perché lui non era preparato a un rifiuto. Non c’era nell’Antologia di Rob. Non rientrava nella teoria dell’io di Rob. incompreso, sì; importante, in ogni caso. Ma rifiutato, no.

l’unica grazia concessa in tutto questo, ammesso che ce ne fosse una, era che quasi nessuno nel resto del mondo sapeva ancora del suo blocco creativo. la città di New York solleva tanto rumore e tanta luce che è fa-cile fingere di essere indaffarati e convincerne anche gli altri, pur restando tutto il giorno chiusi in una scatola

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di evidente fallimento, guardando fuori dalla finestra nell’attesa che squilli il telefono.

Kate, nel frattempo, aveva lavorato sodo e ed era riuscita a trovare rapidamente il suo posto. Amava la veloce ed efficiente organizzazione di Manhattan. Nell’incessante e nervosa vitalità della città, trovava un’eco della sua stessa ambizione. ogni mattina si alzava presto e andava nel castello della sua signora milionaria a sutton square, dove si sedeva con una perfetta postura, batteva a macchina centoventicinque parole al minuto, gestiva gli appuntamenti sociali della signora e rispondeva alle sue chiamate. un giorno la padrona di casa, Annabel Radek, chiese a Kate se le avrebbe fatto piacere rimanere dopo il lavoro, perché avrebbe tenuto un piccolo ricevimento e c’era qualcu-no che voleva farle incontrare. dopo averci riflettuto, disse di sì, ringraziò e telefonò a Rob per spiegargli che quella sera avrebbe fatto tardi. e fu così che incontrò david Framkin.

l’evento si teneva nella “biblioteca” a due piani nell’attico, con la vista, così ha detto in seguito la stam-pa, su entrambi i fiumi. c’era un tipo che suonava il pianoforte e camerieri in livrea bianca giravano per il salone con piccoli vassoi d’argento. la stanza era piena di gente che dava l’impressione di essere famosa, insie-me a gente che era famosa davvero; tutti erano molto brillanti, sfoggiavano i loro abiti migliori e le battute più spiritose. Kate si era lavata il viso e si era truccata un po’ gli occhi, i suoi preparativi erano finiti lì. Pro-babilmente aveva capito che il suo ruolo era fare da tappabuchi e fece del suo meglio, girando per la stanza con un sorrisetto e intrattenendo una garbata conver-

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sazione; di tanto in tanto versava da bere agli ospiti quando i camerieri erano occupati. All’incirca un’ora dopo l’inizio del ricevimento, apparve david Framkin. era il famoso predatore finanziario che aveva recen-temente acquistato e portato al fallimento una grossa azienda che produceva articoli in pelle ed era una delle più antiche della città. il suo modus operandi preferito, infatti, era acquistare società di famiglia, spremere il capitale di prestito, licenziare i dipendenti e dichiarare con la faccia da funerale che l’attività in questione non era più “redditizia”. Amava la parola “redditizio”. era un uomo sui cinquant’anni, con un inizio di calvizie, una grossa pancia da pinguino, i capelli grigi pettina-ti all’insù e sul viso un’espressione critica e rabbiosa. Attraversò a grandi passi l’attico, si guardò intorno an-nusando, come se il locale avesse passato da un giorno la data di scadenza, poi puntò dritto al bar. lungo la strada, passò accanto a Kate, si fermò, si avvicinò e la salutò. Più tardi lei avrebbe confessato a un amico che era «un uomo freddo e stranamente formale», che l’aveva squadrata, le era parso, con la sua aria da per-sona importante intenta a valutare il danno potenziale che lei avrebbe potuto causargli. Kate sorrise sempli-cemente, gli disse di essere l’assistente personale della signora Radek e gli chiese se avesse assaggiato i gambi di porcini marinati. dopo circa mezz’ora, le loro stra-de si incrociarono di nuovo. david Framkin nel frat-tempo si era fatto due bicchieri di vino. Questa volta fu un po’ più caloroso, le disse con una certa aria di autocompiacimento che era chiaro che lei non era di New York, ci avrebbe scommesso fino all’ultimo cen-tesimo. con queste parole, si era spinto nella sua sfera

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personale. lei gli disse che era una buckeye, una ragaz-za dell’ohio. Guardandola negli occhi seriamente, lui aprì le braccia in estatica conferma.

due giorni dopo, Kate era seduta al computer per rispondere alle sue e-mail. erano le dieci di sera. lei e Rob litigavano molto negli ultimi tempi, perché lui la trovava “inaccessibile” e sempre più fredda e lei si rifiutava di “accudirlo” durante i suoi prolungati periodi di malumore. Quella sera in particolare, uno sguardo tramite internet al suo conto corrente sempre più esiguo aveva scatenato un attacco di nervi, durante il quale aveva scagliato un piatto sul muro e se n’era andato a letto presto, lasciando Kate a pulire la cucina sottosopra e a cenare da sola alla luce della lampada al neon. stava scrivendo a sua madre ad Akron, quando un messaggio con il mittente di una società lampeggiò nella cartella della posta in arrivo. Rob dormiva nella stanza accanto sul divano letto e mi piace immaginare che si sia girata e abbia guardato verso di lui, illuminata dal fievole bagliore lunare del monitor del computer, quando cliccò e l’icona si aprì sullo schermo. Mi piace pensare che abbia fatto qualche cenno o abbia dato una qualche conferma al suo inconscio che stava per fare qualcosa che avrebbe avuto gravi conseguenze. Ma forse semplicemente cliccò e poi lesse il messaggio di david Framkin, il quale le scriveva, in modo forma-le per l’imbarazzo, dicendole che era stato un piacere conoscerla e che – sperava lo perdonasse – aveva fatto fare alcune ricerche su di lei da un assistente, il qua-le aveva scoperto uno dei suoi racconti brevi pubbli-cati. lui l’aveva letto e gli era piaciuto. Aggiungeva, col suo modo di fare rigido, che se era interessata a

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parlarne bevendo qualcosa, si sarebbe volentieri reso disponibile.

dopo l’omicidio-suicidio, c’è stata una causa per danno da morte, intentata dai genitori di Kate contro gli eredi di Rob e, siccome le copie delle e-mail sono state classificate come prova e lette durante il processo, sappiamo cosa successe esattamente dopo. All’incirca all’una di notte, in un evasivo tono amichevole, Kate rispose a david Framkin ringraziandolo per l’interes-samento e meravigliandosi che avesse trovato uno dei suoi racconti pubblicati. dopo qualche altra frase di circostanza, gli disse di sì: se gli faceva piacere, sarebbe stata ben lieta di vederlo per discuterne ulteriormente.

si incontrarono, ci disse Mac, due giorni dopo in un bar del centro, un posto sontuoso rivestito con pan-nelli in legno scuro e specchi nello stile dei veri pub irlandesi, nonostante la maggioranza della clientela di quei giorni, spiegò Mac, fosse composta da giovani agenti di fondi speculativi ansiosi di bere vodka costosa e commentare gli omicidi del giorno. da quanto sap-piamo, all’inizio david Framkin era nervoso. era fuori dall’ambiente scrupolosamente controllato nel quale di solito si muoveva e soprattutto si trovava a fronteggia-re la sfida di corteggiare una persona calma e riservata come Kate Pierce. in un modo o nell’altro, ci riuscì, perché si dettero un appuntamento per incontrarsi di nuovo due giorni dopo.

Naturalmente, nella sonnolenta Monarch all’epoca non sapevamo niente di tutto ciò. da quel momento in poi, ci siamo sempre chiesti fino a che punto Rob fosse consapevole di cosa stava combinando la sua ragazza.

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come ho detto, lui e Mac si frequentavano da sempre e parlavano di tutto con la massima sincerità. Ma Rob era orgoglioso e cocciuto e credo che per lui sarebbe stato duro ammettere, anche se lo sapeva, che la donna che l’aveva convinto ad abbandonare un celibato di lunga data potesse essere sedotta e conquistata da un uomo grasso con in faccia l’espressione truce e vagamente incazzata di chi ha appena messo in bocca del pesce pieno di spine.

Ma questo successe molto tempo dopo. Per il mo-mento, Framkin era ancora nella fase in cui la incontra-va nei bar e nei ristoranti intorno a Manhattan e si dava da fare, in modo sempre più insistente, per sedurla. ci sono abbondanti testimonianze di camerieri e baristi riguardo a questo particolare: descrivono un uomo attempato sempre proteso in avanti verso la faccia di una ragazza inevitabilmente inclinata indietro, con un leggero sorriso. Nel frattempo, com’era prevedibile, la situazione a casa fra Rob e Kate, già pesante, diventava insopportabile. il blocco creativo di Rob ormai era to-tale e passava le ore semplicemente camminando per le strade o stonandosi e ubriacandosi così tanto alle feste che di giorno non faceva altro che andare alla deriva fra le lunghe e lente curve dei postumi della sbornia. una sera, Mac si presentò a una delle nostre cene men-sili a base di pizza e, scuotendo la testa, ci disse che, dopo più di due anni insieme, alla fine quei due non ce l’avrebbero fatta. Alla cena successiva, citò le parole di Rob che descriveva se stesso e Kate come due per-sone che con il tempo si erano ritirate verso il centro della loro solitudine, girando cautamente in cerchio fino al momento in cui si erano ritrovati schiena contro

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schiena, rivolti verso l’esterno mentre ogni luogo sulla terra era estraneo, eccetto quel piccolo spazio caldo in cui i loro fondoschiena si toccavano. dopo che Mac ebbe finito di parlare, ci fu un silenzio in cui tutti im-provvisamente ci rendemmo conto del suono chiassoso del jukebox e del rumore sommesso delle chiacchiere nel bar. cercammo di scherzarci su, ma probabilmente quella era – in seguito concordammo tutti – la cosa più triste che avessimo mai sentito.

Poi, come un’esplosione nel profondo del mare, l’ul-timo racconto di Kate, Eliotropio, riaffiorò in un’impor-tante rivista che era pubblicata – indovinate un po’ – da una consociata della Framkin, e da quel momento in poi tutto sembrò muoversi alla velocità della luce. Nell’arco di poche settimane dalla pubblicazione, lei ottenne un contratto per la sua prima raccolta di rac-conti e per un romanzo. Quasi alla stessa velocità, Rob se ne andò di casa: considerava la sua pubblicazione un “tradimento”, disse Mac, del tacito accordo di non lasciare che fra loro il divario della realizzazione perso-nale diventasse così ampio da impedire di comunicare. dopo essersi arrangiato alla meglio sui divani degli ami-ci per qualche settimana, Rob prese un appartamentino vicino alla sede dell’onu. Poco tempo dopo, si trasferì di nuovo, in un posto ai margini di chinatown, proprio sotto il ponte di Manhattan, dove i treni della metro-politana diretti a brooklyn facevano tremare l’edificio e la luce infernale delle auto che passavano illuminava le finestre imbrattate.

Potrei scommettere che fu in quel periodo che vide la (in seguito) famosa foto che apparve su un giornale di New York con il titolo «ditemi che non è vero!».

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sgranata ma perfettamente leggibile, l’immagine mo-strava Framkin e Kate che uscivano da un ristorante. lei guardava fisso davanti a sé, affrettando il passo; anche Framkin si affrettava, ma con un’evidente sod-disfazione sotto il suo solito cipiglio. indifferente alle accuse di adulterio che presto avrebbero iniziato a fioc-care, la sua faccia – i segnali erano inequivocabili – era quella di un uomo che, dopo aver attraversato gli aridi e interminabili deserti del matrimonio, si è imbattuto in un’oasi di sesso.

Forse fu la foto a chiarire finalmente le idee a Rob. in ogni caso, sappiamo che in quel periodo era stato visto al Max bar con un aspetto stanco e stressato e che era apparso una volta al Pin club con la barba lunga e, stando a qualcuno che lo conosceva bene, «con una fac-cia da funerale». Poi, per alcune settimane, scomparve completamente dalla circolazione, anche con Mac, che tentò più volte di parlargli per telefono e alla fine fece lo sforzo di andarlo a trovare nel suo quartiere puzzo-lente e bussare alla porta, col solo risultato di essere ignorato. Nessuno tuttora sa con certezza cosa egli fece in quel periodo, in realtà, ma possiamo immaginarlo seduto per giorni nel suo miserabile e rumoroso appar-tamento, mentre il tempo rallenta fino a trasformarsi in una serie di lunghi e lenti colpi sordi, come un battito del cuore che si affievolisce, mentre fissa fuori della fi-nestra l’incessante turbinio della vita cittadina. Possia-mo immaginare che, col passare dei giorni, il divario fra il mondo interiore ed esteriore abbia continuato a crescere. il cibo iniziò a marcire nel lavello e a fare la muffa; le bollette venivano fatte scivolare con un fru-scio sotto la porta e Rob, l’artista una volta importante

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ma ora definitivamente in stallo, stava semplicemente a guardare immobile. Forse come scrittore era abituato a osservarsi dall’esterno e provava una strana familiarità nel rimanere seduto in silenzio in un punto fermo del tempo in espansione. Forse, per questa ragione, non era neppure consapevole di aver raggiunto la vetta del-la sua montagna di dolore, dalla quale, in quell’insta-bile momento cruciale, con velocità crescente, iniziò a precipitare lungo l’altro versante.

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