Due o tre cose che so di lui - Altan

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Catalog concerning an exhibition of Altan taking place at Bilbolbul 2009

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diStefano Benni Marcello Jori

Oreste del BuonoMarco BelpolitiEmilio Varrà Luca RaffaelliMarcelo Ravoni

Georges WolinskyEddy Devolder

a cura diDaniele Brolli

SCRITTI SU

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Altan ha la barba e non parla quasi maiAltan può pedalare con la bicicletta fino a tredici giorni di fila.Altan sembra un simpatico orsettoAltan sembra un feroce grizzly.Altan disegna intingendo la punta di un ombrello nel sangueAltan disegna sotto l’effetto del laudano.Altan si ispira allo pseudologeion all’Icaromenippo e agli studi sull’ironia di JankélévitchAltan si ispira ai fratelli de RegePer cui, come capirete, non è facile capire che cos’è un Altan

Altan ha inventato un cane a pallini che fa impazzire i bambiniAltan riempie le vignette di scarafaggi che poi escono dal foglio e ti girano per casaAltan è un fumettista castoAltan ogni tanto disegna delle gran gnoccheAltan è buonissimoAltan è cattivissimoAltan sbaglia una vignetta su cento, come quelli che sparano alle OlimpiadiAltan disegna i nasi fallici e le nuvolette della Pimpa Per cui come capirete non è facile capire come disegna un Altan

Altan vive in un castello da cui esce solo con la luna pienaAltan è un vampiro.Altan è comunista o forse anarchico o forse altaniano di centroAltan è conosciutissimo all’estero ma neanche lì riescono a capire bene cos’è un AltanAltan scrive i dialoghi in due battute come Campanile ma non è CampanileAltan conosce i tempi comici come nessuno ma non disegna con il cronometroAltan è figlio di un antropologo ed è spietato come un entomologoAltan ha inventato Trino, uno dei pochi tipi di Dio simpatici Altan è molto riservato Altan è molto socievolePer cui come capirete non si può chiedere a Altan cos’è un Altan

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© per la presente edizione Comma 22 Srl

per le immagini© 2009 Francesco Tullio-Altan /QUIPOS s.r.l.© tutti i diritti riservati

Per gli scritti di Oreste del Buono copyright © Eredi di Oreste del Buono. Tutti i diritti riservati, trattati da Agenzia Letteraria Internazionale, Milano

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L’editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri nei riguardi degli aventi diritto che nonostante le ricerche condotte non è stato possibile rintracciare.

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direzione editoriale Daniele Brolliredazione Irene Bozzeda, Alberto Frigo, Francesca Guerraprogetto grafico Alessandro Micheli

ufficio stampa Cinzia Negherbon [email protected]

stampa a cura di La Pieve Poligrafica Editore Villa Verucchio srlfinito di stampare nel mese di febbraio 2009

isbn 978-88-88960-63-0

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CHE COS’È UN ALTANStefano Benni

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«Vorresti scrivere di Altan?» mi è stato chiesto.«Non ci si può tirare indietro davanti a un genio» avevo

risposto.Mi ero tuffato senza pensare che poi avrei dovuto spiega-

re perché Altan è un genio. Un vero guaio perché i geni sonouna fusione benedetta di segreti inspiegabili. Quando lismonti per guardarci dentro quasi sempre li rovini.

Meglio fare un piccolo elenco di prodigi che lo riguardanocosì poi, ciascuno a modo suo, potrà fare due più due, ugua-le Altan!

Primo prodigio: Francesco Tullio Altan appartiene a unarazza di artisti quasi estinti sulla terra. Quelli stimati datutti. Non ho mai incontrato qualcuno che dicesse: «No,Altan no»! Che dicesse disegna male, è volgare, mi ha stan-cato. Nessuno mai! Nessun autore, artista, uomo di partitodi destra o sinistra. Solo sorrisi di apprezzamento, inchini dirispetto. Reinhold Messner direbbe: «Un ottomila dell’intel-ligenza a fumetti»! Perché? Perché la sua purezza di pensie-ro è quasi irraggiungibile. L’artista che riesce a dire di più suqualsiasi argomento usando il minor numero di parole.Anche con i segni, stessa avarizia: il meno possibile per farvedere tutto, anche i moscerini, anche gli atomi dell’alito deisuoi loschi ciccioni!

Prodigio numero due: è un uomo bello. Un ragazzo chesembrava un personaggio di Altan vedendolo a Lucca per laprima volta ci era rimasto malissimo. Ma come? Con i dise-gni che fa è così bello? Quasi fosse un tradimento. E per for-tuna non si è accorto di quanto assomigliava a GiuseppeGaribaldi, la faccia d’uomo più lontana dal senso dell’umo-rismo mai esistita su questa terra. Se poi sapesse quanto ègentile nella vita tridimensionale e quanto è esente da ego,quasi imbarazzato di essere Altan... Lui che occupa la cartain modo tanto strafottente con contorni grossi e colori dasegnaletica stradale, lui che disegna personaggi che si allar-gano nelle vignette come rotoli di grasso, obesi di cinismo.

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Altan non va in televisioneAltan non appare quasi mai. Questo ha creato intorno a Altan un alone di leggenda.Altan detesta gli aloni.Altan ha la ferocia di Beckett, la grazia di Keaton, l’imprevedibilità di Totò Altan è unico non sta in nessuna scatola,

prendete una scatola di ottanta pastelli e il colore Altan non c’è. Altan ha vinto molti premi ma vorrebbe vincere la Liegi-Bastogne-LiegiAltan regala grappe che voi umani neppure immaginateAltan ha studiato disegno guardando i graffiti di AltamuraAltan si ispira a Grosz, a Daumier e a BarksAltan si ispira a Krazy Kat. Altan non si ispira al Bagaglino a Forattini e a BenigniAltan non si ispiraAltan ispiraChe Manitù, Trino e Presbitero, protettori dei disegnatori e dei poeti, ci conservino AltanAnche se come capirete, è difficile spiegare anche a loro che cos’è un Altan.

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IL PRODIGIOMarcello Jori

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Prodigio numero tre: lo spirito comico di Altan è immuneda decadenza temporale. Si sa, nessun umorista può farridere per tutta la vita senza cedimenti!! La vena secca pertutti prima o poi. Lui invece non conosce siccità. AnniSettanta Ottanta Novanta Duemila... la stessa altitudinesempre. Ma possibile? Sono trent’anni che aspetto la gag chemi lascerà indifferente, che mi farà stupire di meno, e inve-ce reagisco con la solita sequenza di smorfie tra riso e ammi-razione. L’altro giorno mi imbatto in un miracolo di suavignetta che faceva così: un vecchio paralizzato su una sediaa rotelle superaccessoriata che brontolava: «Per colpa diquesta nuova tecnologia adesso mi tocca di andare da qual-che parte!» Ma ci rendiamo conto di cosa ci sta svettandodavanti? Un trattato di filosofia in quattro parole, l’istanta-nea di una civiltà allo sbando, lo sberleffo degli sfigati allaprepotenza della salute, il coraggio di sganciare la zavorra diqualsiasi speranza per guardare l’umanità nel muso. Unmuso di maiale!

Nei suoi disperati romanzi, o nell’arena crudele delle suevignette, non si salva niente e nessuno! Né mitici condottie-ri, né santi, né eroi dell’amore. Solo un disegno si salva daldegrado del disincanto: la Pimpa. Lei con tutto quello che lacirconda. Perché Altan almeno in una cosa la pensa comeGesù: crede che i bambini, per qualche anno, qualche ora oqualche minuto, siano puri e innocenti. È in quel mondo cheAltan nasconde il Santo Graal. Chi si immerge lì dentrotorna alla realtà pulito per un po’ e può fare come Altan:guardarsi intorno onestamente e dire: «Però... che schifo»!

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ZAGO OLIVA

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Altan, alla sua prima apparizione nella redazione di «Linus»,lo considerammo subito con sagacia appartenente a un altromondo. Con sagacia, d’accordo, però sbagliammo a crederlobrasiliano. Certo, lui facilitò l’errore perché non spiccicòparola durante la sua prima permanenza in quelle stanzettedi signorinelle e sciurette pallide, garrule e intransigenti,soprattutto con me, uno dei due smorti uomini superstitiall’irresistibile ascesa del sesso debole, in quanto, il direttore,conviene sempre contestarlo almeno un poco, altrimenti stalì a non far nulla. L’altro superstite del sesso cosiddetto forte,il ragioniere, se la cavava relativamente meglio, perché lui sioccupava del fatto economico, non di quello artistico né diquello politico. È vero che anche in seguito Altan non ha maiparlato troppo e, quindi, il suo silenzio di quel giorno non fuun deliberato inganno, anche se contribuì a confonderci leidee. E fu un bene perché, se avesse detto di essere italiano,lo avremmo congedato frettolosamente. Era un momentac-cio, in questo senso: i dilettanti in disegno di tutt’Italia sierano evidentemente passati la voce che la satira politica ita-liana andava forte e che a «Linus» c’era da rimediar qualco-sa. Ed eran sempre lì a sciorinar la mercanzia. Il guaio erache non solo ci mostravano disegni inaccettabili, ma preten-devano di spiegarceli, non aspettandosi troppo, era chiaro,dalla nostra capacità di comprensione.

Nicoletta Pardi, che faceva da receptionist per le genialitàoscure in arrivo, era sempre come ebbra per le chiacchierevorticose di tutti quei capelluti pustolosi. Fulvia Serra, artdirector e qualcosa di più, respingendo e stroncando tenta-tivi su tentativi di conquista dello spazio linusiano, comin-ciava a farsi quella nomea di donna cattiva, senza cuore esenza rispetti umani che l’avrebbe fatalmente portata alladirezione del periodico. Altan, non metteva bocca, era belloe silenzioso, se ne stava in un angolo, lasciando parlareMarcelo Ravoni, piemontese d’origine, ma argentino di pro-venienza, piuttosto veneto di ciacola, agente dei disegnatori

I BUONIOreste del Buono

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latinoamericani, Altan era un sogno d’autore di fumetti, unamore che non ci si aspettava.

Alcuni dei suoi fumetti erano scritti in portoghese e figu-ravano già pubblicati in Brasile, lui veniva dal Brasile, comediceva Ravoni. Un tratto forte, nessuna ricerca di bellurianelle sue tavole. Mosche molto puntinate, merde sparse eolezzanti maschi nasoni e deformi e donne bellissime ediscinte, l’irresistibile decomposizione della materia, ladisumanità come spettacolo. Dal febbraio 1974 «Linus»cominciò a pubblicare con regolarità Trino, e da allora«Linus» e Altan non si sono più lasciati, anche se nel frat-tempo c’è stata la scoperta che non solo Altan era italiano,ma non era neppure al suo esordio italiano. Nato a Trevisonel 1942, aveva studiato architettura a Venezia e avevacominciato a illustrar libri per Sugar e Canesi. Poi se ne eraandato in Brasile a lavorare come scenografo e a sposarsi egli era capitato di disegnare vignette e fumetti per i giornalibrasiliani. Andava e veniva attraverso l’Atlantico. Dalle nostreparti aveva fatto qualcosa sia per «Playmen» sia per«L’espresso». Se gli altri non si erano accorti della grandezzapotenziale di Altan, non era demerito di «Linus». Ma neppu-re suo merito. Al massimo, il merito che poteva vantare«Linus» era quello di avergli dato lo spazio per crescere attra-verso l’untuoso e arrembante romanzo a fumetti Sandokan epiù ancora lo squassante e morboso Colombo, la messe sem-pre più ricca di vignette politiche, la creazione del metalmec-canico Cipputi, grumo di saggezza negli anni di piombo, e laprima affermazione del disegno satirico come editoriale.

Rileggendo i detti di Italo, il pupazzo apparso nella primapagina di «Linus» a partire dal gennaio 1977, troviamo indodici battute da gennaio a dicembre gran parte della storiadi quel tempo così lontano: «Mi sorprende questo riflussomoderato, mi devo essere perso il flusso progressista.» «Quila metà sono convinti che basta partecipare. E l’altra metàche basta vincere». «Comunque per coerenza io sono otti-mista, è questo che importa.» «Facciamo un bel governo ditecnici e andiamo tutti ai mondiali in Argentina.» «Adessoche abbiamo la credibilità internazionale, vedrai che quan-do vado in Belgio mi dice: Oh, Italo, adesso sì che ti presto ilpiccone!» «Tra un po’ è l’anniversario del 20 giugno.Sembra ieri.» «Sono otto mesi che fa: la crisi è gravissima enon c’è più tempo. Come quello che diceva che beveva l’ulti-mo e poi a casa.» «La situazione è seria. Per fortuna quandofinisce l’ora legale si recupera un’ora.» «Ho passato levacanze intelligenti a leggere i nouveaux philosophes. Quellisì che parlano come mangiano, mi son detto.» «Quest’annome ne vado in prima tutto pimpante. In seguito farò l’uni-

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Ormai sono anni (troppi) che Francesco Tullio Altan non dise-gna più storie a fumetti. È un gran peccato perché con lui laletteratura illustrata aveva imboccato una vita ardua e straor-dinaria. Era diventata un nucleo rivoluzionario d’arti diversee pungenti. Aboliva la possibilità di considerare i fumetti coseda poco, offendeva il comune senso della banalità.

Altan era nato in Italia nel 1942, in Italia aveva già lavoratoe tra l’altro aveva pubblicato varie vignette su «L’espresso»,ma se n’era andato in Brasile a fare lo scenografo e si diverti-va a presentarsi come appena arrivato dal Brasile: magari nonera la prima volta che faceva il viaggio tra Brasile e Italia, masi mostrava fieramente taciturno come se fosse in difficoltàcon la nostra lingua. I disegni che portava in visione nonerano ritagli de «L’espresso» ma di vari giornali brasiliani. […]

Erano infatti anni in cui dall’America latina affluivanograndi disegnatori. Alcuni avevano noie politiche, perché ifumetti funzionavano come conduttori di verità scomode,altri volevano allargare la loro fama e i loro guadagni inSpagna, Francia e Italia. Era un periodo fortunato per«Linus» ed era incredibilmente facile riempirlo con buonifumetti. Il primo che vidi di Altan era, però, straordinario. Sichiamava Trino e proponeva un aggiornamento cosmogoni-co. C’erano, tracciati con un segno grosso, due vecchi incamicione, uno senza barba ma con atteggiamento padrona-le che stava seduto e diceva all’altro in piedi, con barbafluente, un triangolino sospeso sul cranio ma un atteggia-mento un poco dimesso: «Faccia la creazione del mondo».«Oggi?» diceva l’altro. «Le dò sei giorni» diceva il padrone.«Sarà un lavoraccio», obiettava il dipendente. E il seduto,facendo scattare l’accendino per un’ennesima sigaretta,tagliava corto: «Il settimo giorno si riposerà».

Il barbuto non pareva troppo convinto, comunque si mette-va diligentemente a lavorare. Non abbastanza, però, peraccontentare un pachiderma impiccione che si trovava neiparaggi e lo rimproverava: «Lei produce lentezza». Il barbu-

IL DIO ALTANTrino, la prima storia per «Linus»:

una insuperata e inquietante cosmogonia

Oreste del Buono

versità e la tesi di laurea poi si vedrà.» «Mi sono messo lacravatta. Chissà che a qualche tedesco non venga voglia dicomprarmi.» «Facciamo ancora uno sforzo. Mi sono detto:avanti tutta, Italo, che tanto ce n’è poca.»

Italo era sempre in piedi con la scoppoletta ben calcata intesta, la barba, lunghetta, la sigaretta in bocca, le mani intasca. Due volte sole abbandonava la posizione di pramma-tica. Per dir la sua a proposito dei nouveaux philosophes,pur tenendo sempre sigaretta e scoppoletta al posto giusto,si metteva a sedere con l’involto del pranzo sulle ginocchia,e per dir la sua a proposito di riapertura delle scuole conscoppoletta e sigaretta idem si era caricato la cartella comeuno zainetto e aveva indossato il grembiule con il fiocco.

La più atroce era la battuta relativa al 20 giugno. Si tratta-va infatti del 20 giugno 1976, il giorno in cui pareva essersiconclusa positivamente la rincorsa delle sinistre al potere, eda cui, invece, aveva avuto inizio un altro ciclo di sventureitaliane. Presso a poco nello stesso periodo in cui Altan affi-dava la commemorazione del disastro al suo Italo, perso-naggio ancor più in media res del mitico Cipputi, il politolo-go Giorgio Galli scriveva, nel volume dal titolo L’anno del 20giugno che: “La constatazione più importante da fare erache la sinistra non riusciva a togliere alla Dc la direzione delsostanziale monopolio del governo, quale che fosse il suopeso elettorale. Trent’anni prima, non ci era riuscita lasocialdemocrazia di Saragat col sette per cento dei voti.Vent’anni prima, dopo l’Ungheria, non ci era riuscito ilsocialismo di Nenni col 14 per cento, che non ci era riuscitonemmeno dieci anni prima con l’unificazione socialista (16per cento). Non ci riusciva allora il Pci di Berlinguer conoltre il 34 per cento dei suffragi”. Si confermava così lamodalità di funzionamento del nostro sistema politico chenon aveva mai consentito sino ad allora a un partito diorientamento socialista di assumere la direzione del gover-no. “È un caso unico nella storia dell’Europa occidentale,nella quale tutti i paesi, dal Portogallo alla Finlandia, hannoavuto per qualche periodo nel corso di questo secolo un pre-sidente del consiglio proveniente dal movimento operaio”,scriveva Galli. “Ciò si è verificato nell’Inghilterra dagli anniVenti a oggi; nella Germania prima e dopo Hitler; in Francianegli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta; in Scandinaviadagli anni Trenta in poi; in Austria nel secondo dopoguerra;persino la Spagna prima della dittatura di Franco e ilPortogallo dopo quella di Salazar hanno conosciuto governia direzione socialista. In Italia mai…”

Ebbene, dopo questa riflessione di Giorgio Galli, lo abbia-mo avuto il governo a direzione socialista! E con ciò?

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inesausta rivisitazione del romanzo popolare fatta da un arti-sta geniale, coraggioso e morale che non si faceva illusioni sulgenere umano né cercava di suggerirne. Ma non si scoraggia-va minimamente, trasformando quello che disprezzava in unmotivo di divertimento. Una risata magari amara, ma che cipermetteva di andare avanti nella nostra conoscenza.

Avremmo potuto intuire nel lavoro di Altan un’anticipa-zione della modernità del trash, della visione e dell’accetta-zione del mondo come spazzatura, rifiuto, immondizia. Civedemmo, invece, il trionfale ritorno del feuilleton ottocen-tesco più catastrofico ed esagerato, accumulo di sciagure esgradevolezze. Feuilleton è un termine che dalla specie dicollocazione tipografica indica tematica, contenuto e tecnicadi un dato prodotto giornalistico. “Eugène Sue inizia la pub-blicazione a puntate de I misteri di Parigi il 19 giugno del1842. È passato appena un anno da quando è uscito dallacasa di un operaio, conosciuto per la prima volta quella sera,gridando ‘Je suis socialiste!’. Sa di scrivere un granderomanzo popolare, ma la sua tesi è ancora generica.Probabilmente è affascinato dall’esplorazione che va com-piendo sulle pagine e nella vita (per documentarsi a fondo)dei bassifondi della capitale. Ma non ha ancora una ideaprecisa di cosa stia scatenando”, scrive Umberto Eco nellaprefazione a una traduzione italiana del capolavoro di Sue.“Parla del ‘popolo’, ma il popolo è ancora una realtà estraneaper lo scrittore affermato, per il dandy professionista che hadivorato il patrimonio paterno sperperandolo in equipaggifastosi e gesti regali da esteta maledetto. E quando il roman-ziere descrive la soffitta dei Morel, la famiglia del tagliatoredi pietre preziose, onesto e sfortunato, con la figlia insidiataresa madre e presunta infanticida dal perfido notaioJacques Ferrand, la figlioletta quattrenne morta di stentisulla paglia, e altri bambini rosi dal freddo e dalla fame, lamoglie morente, la suocera pazza e bavosa che gli perde idiamanti affidatigli, gli uscieri alle porte per trascinarlo inprigione — è a questo punto che Sue misura la forza dellasua penna…”

Un accumulo di dati talmente esagerati che avrebberopotuto provocare il riso più incredulo, e che invece fecerofuroreggiare il «Journal des Débates» che quotidianamentepubblicava il feuilleton, spinsero sulla scrivania dell’autoreun’infinità di lettere di nobildonne smaniose di aprirgli leporte dell’alcova o di proletari ansiosi di tributargli il ricono-scimento di apostolo dei poveri o di poeti laureati orgoglio-si della colleganza o di editori bramosi a colpi di contratti inbianco della sua opera e di malati non disposti ad accettarela morte prima dell’ultima puntata. Follie di una volta, che

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to sviava l’attenzione del curioso con un «Lassù qualcuno ciosserva.» «Dove?» chiedeva l’altro alzando il testone. «Lassù,lassù», incitava il barbuto accelerando la manipolazione dellamateria a sua disposizione. E così quando il pachiderma riab-bassava il testone lamentandosi: «Non ho visto niente. Cos’hacreato?» aveva pronta la sua dichiarazione: «Lo scemo delvillaggio».

Una dichiarazione che non poteva restare senza conseguen-ze. Infatti il barbuto, probabilmente su delazione del pachi-derma, veniva chiamato a rapporto dal padrone che, semprecon l’ennesima sigaretta tra le dita, lo interpellava: «Mi dico-no che ha creato lo scemo del villaggio». Il barbuto cercava dibuttarla sul ridere: «Così, per scherzo». Ma il padrone losconvolgeva intimandogli: «Ne faccia tre milioni di copie».«E a chi li vendiamo?» s’informava il barbuto, che si rasse-renava alla risposta del padrone: «Si vendono tra loro…».Rapidamente, il barbuto afferrava l’idea, e si stropicciava lemani gongolando: «E noi ci si prende la commissione…».

Una nuova cosmogonia inquietante. Chi era il tizio checomandava al creatore? Cosa ci faceva il pachiderma impic-cione da quelle parti, se il mondo non era ancora stato crea-to? Quale era stata la sorte degli scemi del villaggio? Gliinterrogativi erano tanti e avevano la tendenza ad aumenta-re. Il padrone, invece, pareva soddisfatto, faceva i conti alpallottoliere: «Uno + due uguale tre» e s’interrompeva soloper chiedere notizie al barbuto che si avvicinava: «Cosa c’è?».

«Gli scemi del villaggio si sono tutti venduti», annunciavail barbuto. La domanda del padrone era pro forma: «Chi li hacomprati?». «Si sono comprati tra loro», rispondeva il bar-buto, confermando la profezia del suo superiore che, tuttavia,non perdeva tempo a congratularsi con se stesso, e passava adar ordini: «Ne crei altri tre milioni di copie con una piccolamodifica». «Gli occhi a mandorla? I baffi?» proponeva entu-siasticamente il barbuto che poteva sfoggiare il suo estro.

Però, le cose non andavano sempre lisce e a un certo puntoil barbuto era costretto a ripresentarsi al padrone in unostato deplorevole, tutto inzaccherato di escrementi, lamen-tandosi: «Mi scusi, ma ci risiamo». Per far tornare irriden-temente la rima, il padrone sbagliava il conto sul pallottolie-re: «Tre per tre = dieci, il problema delle feci». «Gli scemidel villaggio non fanno altro», insisteva il barbuto, cercandodi scrollarsi di dosso almeno qualche porcheria in più. Ma ilpadrone aveva già ripreso ad armeggiare con il pallottoliere:«Due per due venti, così mostrano che son contenti…».

Tanti dotti o ingenui discorsi sul trash che si fanno oggiavrebbero potuto cominciare a far proseliti dagli anni Settantae dalla cosmogonia escrementizia di Altan. Una aggressiva e

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non si pensava certo di ripetere pari pari. Cos’era cambiatonel romanzo popolare? Tutto, mezzo? O nulla?

Nel numero di marzo del 1978 di «Linus» Altan andò allaverifica con Ada nella giungla, romanzo a fumetti definitodall’autore “classico e moralistico”. La prima didascalia sichiedeva: “1939. Chi troviamo in un’aula del sozzo e selettivoconvitto di Sbeef?”. «Miss Ada Fronz», diceva la prof. Maria,«lei non sa la lezione, come al solito. Cosa ci ha in testa, lasenape?» «Il mio destino m’appartiene, s’immagini, quindi,cosa me ne faccio dei suoi rimproveri», ribatteva Ada, bru-naccia arrogante e, come vedremo, eroina dell’impossibile.

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Nella prefazione di Ranieri Carano alla raccolta in volumedei fumetti di Altan della serie Trino, edita dalla Milano eLibri nel 1977, si può leggere un succoso ritratto dell’artista:“Se il lettore dovesse un giorno notare in una affollata halld’albergo o in un gran caffè di tipo viennese o anche nel belmezzo di una festa turbinosa un giovane massiccio ancorchénon grasso dall’aspetto marcatamente risorgimentale – pelobiondo-fulvo diffuso, sguardo chiaro e pensoso – e questogiovane cospicuo dovesse rimanere seduto per ore e ore,incurante dell’affannarsi circostante eppure non sdegnosodi esso, intento a sorseggiare con lentezza orientale un suowhisky molto molto lungo… be’, ci sarebbero moltissimeprobabilità per il lettore di trovarsi al cospetto di FrancescoTullio Altan, l’Uomo Nuovo della satira italiana a fumetti eno. Già, perché questo tranquillo e moderato bevitore chericorderebbe il signore del Cynar se non bevesse scotch, mache assomiglia piuttosto a un Garibaldi giovane o a un fra-tello Cairoli, a scelta, ha bruciato le tappe, come si solevadire prima del ‘cioè’ onnicomprensivo, molto operando esbagliando pochissimo…”

La citazione di Calindri, invulnerabile al logorio della vitamoderna, grazie a un estratto di carciofi, è suggestiva anchese non esatta. Quella dell’impeccabile Calindri è una resi-stenza passiva che si limita a conservar le cose come stanno,mandando giù qualche sorso di quel liquido di cui non homai capito il colore, verde blu o marrone; Altan, al contra-rio, nonostante l’apparente indifferenza, quel tanto di sta-tuario che è proprio della sua muscolatura e consistenza,giudica e manda.

“È possibile che egli” insiste Ranieri Carano “immoto alcentro del turbinio di gente che va e gente che viene, pensi etracci mentalmente profili nasuti dei metalmeccaniciCipponi e Cipputi, nuvolette sulla triste testa a volte conicadel grande Capitalista, insaccati di un Andreotti farnetican-te. È possibile. Com’è possibile che qualche mese prima,

LE COLONIE DI ALTANCon Ada in un’Africa

divorata dai luoghi comuni.Con Colombo,

bighellone illuminato, in AmericaOreste del Buono

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pensasse, davanti a un lungo whisky imbottigliato in stagio-ni più remote, al suo lardoso Sandokan o al suo Colombo dicorta vita. È possibile. Com’è possibile che prima ancoradavanti a un beveraggio di cui non è rimasto neppure ilricordo della bottiglia, andasse creando le vaghe irriverenzeteologiche di Trino. È possibile. Ma potrebbe benissimodarsi il caso che Altan crei solo a tavolino, sotto la spinta diun raptus inarrestabile, ispirato dalla forza micidiale dellecose e degli avvenimenti, e che le pause vaghissimamentealcoliche servano a meditazioni di tutt’altro genere: zen,Repubblica di Platone, Dei delitti e delle pene, Condizioneumana, il fanciullino…”.

Anche per Ranieri Carano, critico severissimo della satirapolitica italiana, da lui dichiarata morta prima ancora cheeruttasse il vagito inaugurale, Altan resta un mistero, anzi unMistero da rispettare per tutti. E soprattutto per se stesso,che presto scomparve anche dalle hall d’albergo o dai grancaffè di tipo viennese per ritirarsi ad Aquileia, regno lontano.

Riconsultare i suoi romanzi costituisce una letturaimpressionante per vari motivi. La trama di Ada, per esem-pio, è feroce con le convenzioni delle storie africane, ma nonperché ponga dubbi sulla loro attendibilità, bensì perché leesaspera. Valga qualche citazione tolta dai riassunti dellepuntate precedenti, vergati dallo stesso autore: “1939. Ada,giovane impertinente riceve da un nobile zio una eredità e ilcompito di ritrovare il cugino Percy gettato via in Africa.L’altro cugino, Nancy, diseredato, non accetta il fatto. MaAda ha una morale e insiste…”. “1939. Mentre in Europainfuriano le polemiche e la Wehrmacht fa il bello e il cattivotempo, la giovane Ada, pepata e introversa, va verso l’Africaa cercare il cugino Percy in nave…” “1939. Ada, spinta davarie cose, è in Africa a cercare il cugino Percy, ivi sperso.L’altro cugino, Nancy, lurida figura senza ideali, la seguenascostamente col servo Pilic. Essi incontrano il maggioreCollins ex compagno di Eton, da ciò tutto può…”

A questo punto i riassunti cominciano a zoppicare e a con-fondersi. Ma le avventure incalzano e sono di tutti i tipi. C’èpoi una novità per così dire d’impaginazione. Negli spazi cherestano liberi tra vignetta e vignetta, Altan interviene concommenti pertinenti o impertinenti, rivolgendosi ai perso-naggi o ai lettori: “Bella roba!”, “Igiene borghese d’altritempi”, “L’autoironia maschera il dolore”, “È un cuginomica uno qualsiasi!”, “Chi fallisce merita due, tre chances”,“Aristocrazia corporativa”, “Tutto il mondo è paese?”, “Ledonne meno ne sanno meglio è”…

La stessa tecnica applicata al romanzo popolare avventu-roso è applicata al romanzo popolare storico che voluttuosa-

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ADA NELLA JUNGLA

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mente Altan rivisita. Grandi e piccini sono trattati con sar-casmo, come può dimostrare il semplice indice dei capitolidi Colombo: 1) La tragedia di un bighellone, 2) Bruttimomenti per un bighellone illuminato, 3) Bonaccia per unbighellone, 4) Stolto è il bighellone che si prefigge una meta,5) Il senso di colpa aumenta la velocità di un bighellone, 6)Ad ogni bivio il bighellone spasima…

Inesorabilmente, Altan non rispetta i personaggi storici opresunti storici come Colombo e Franz (ovvero sanFrancesco) allo stesso modo che non rispetta i personaggiinventati: dalla testarda Ada allo schifoso Friz Melone. Perle donne, almeno per quelle di malaffare, il tratto vigorosoha qualche indulgenza, le disegna dotandole di qualchelasciva curva di attrazione, ma per gli uomini non c’è scam-po. Le facce sono mascheroni difficili da sopportare e i corpinon dispongono di forme o di lineamenti umani. Non c’ètregua, insomma, per gli eroi o gli antieroi avvinghiati in unalotta mortale, affoganti in un’invincibile immondizia, con-dannati a distruggersi definitivamente. In confronto, la irri-verente cosmogonia di Trino con quei due buffi vecchioni incamicia da notte appare tollerabile e candida nella sua irre-sponsabilità.

Il ricordo di un periodo in cui era concesso scherzare. Ogginon più, ogni spiraglio di luce si è chiuso, nel brulicare didisumanità dei romanzi come Macao o Cuori Pazzi. Ma ilparticolare più singolare è che Altan non si sporca con la suaturpe materia. Contemporaneamente a questi orrori si occu-pa di tante altre cose.

Ad esempio, al ciclo di vignette politiche dedicato alledisavventure del metalmeccanico Cipputi e dei suoi colleghinel disfacimento odierno del concetto del lavoro speranza.Un personaggio consapevole che diventa una specie dipunto di riferimento nei dibattiti sindacali, negli ultimi sus-sulti della lotta di classe Cipputi è saggio e amaro, ma posi-tivo, perché non rinuncia a dire la sua con franchezza e argu-zia. Ma Altan non si limita ai grandi romanzi a fumetti dinequizie senza fine e alla serie di urticanti vignette politiche,ha un’altra grande passione, la Pimpa, una deliziosa cagno-lina nata quando nella sua dimora lontana di Aquileia hacominciato a far disegni per divertire la sua bambina eapprodata irresistibilmente al «Corriere dei Piccoli», pur-troppo già in agonia, con il suo manto a pallini rossi e la sualingua perennemente penzoloni. Una cagnolina che ha lafortuna di avere un padrone-papà nel mite signor Armandoche le permette di fare tutto quello che vuole, ovvero di sfo-gare la sua vena generosa che a volte le fa combinare pastic-ci su pasticci. Ma il signor Armando, quando torna a casa eCOLOMBO

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ascolta i racconti della Pimpa, che non solo parla con lui maanche con gli oggetti, è sempre dalla parte della sua diletta,anche se non crede a neppure una parola dei parti della suasfrenata fantasia.

Altan ha rinunciato a essere il Dostoevskij dei fumetti persolidarietà con un metalmeccanico dalla battuta pronta el’amore per una cagnolina capace di parlar con le teiere e diinventarsi continuamente una vita diversa.

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La parola tinello, stando al Vocabolario Zingarelli, non indicasolo un piccolo tino, ma anche la stanza ove mangiano incomune i servitori delle case signorili, la saletta da pranzo adia-cente alla cucina e il salottino di soggiorno e di ricevimento.

Tinello italiano è anche il titolo della più bella e mordaceraccolta di vignette di Altan, uscita nel 1980.

Qui sono raccolti alcuni fulminanti disegni dedicati allaclasse media del nostro paese, che ha, in obbedienza ai pro-cessi sociali e alle traslazioni semantiche, trasformato lastanza da pranzo dei servitori in salottino di soggiorno.

Il tinello, forse chi ne ha abitato uno se lo ricorderà, è arre-dato con un tavolo, preferibilmente di teak, ed è fornito diuna poltrona su cui, nelle classi medio-alte, si legge il gior-nale, o si schiaccia un pisolino, subito dopo mangiato.

Su una di queste poltrone sono seduti i personaggi diAltan, adulti cinici e sconsolati, dallo sguardo rivolto verso ilvuoto, che rispondono alle domande formulate da giovanis-simi figli che non assomigliano per nulla a loro nei tratti fisi-ci, ma non è forse vero che solo invecchiando si tende adassomigliare ai propri padri?

Nella galleria dei personaggi di Altan essi rappresentanoemblematicamente il “buon senso” e insieme l’inalienabilepessimismo italico.

L’umorismo suscitato dallo scambio di battute tra padri efigli scatta nello spazio tra la domanda, o affermazione, deifigli, pronunciata tutta d’un fiato e con giovanile inquietudi-ne, e la risposta realistica dei padri, che si abbatte come unamannaia sui sentimenti dei figli: «Papà ho dei dubbi».«Beato te. Io non ho più neanche quelli», oppure «Babbo,bisogna amarsi l’un l’altro.» «Così poi chissà cosa dice lagente.»

Si ride di entrambi, dell’ingenuità e del sentimentalismodell’uno, ma anche del cinismo dell’altro. Del resto, i duepersonaggi in scena sono speculari. Il cinismo non è che l’al-tra faccia del sentimentalismo.

GENTE IN TINELLOMarco Belpoliti

MACAO

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opposte tra loro: “il popolo italiano… non sussiste”(Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italia-ni, 1843), oppure: “gli italiani esistono” (Greppi, Cattaneo,Manzoni, per quest’ultimo, poi, molto cristianamente “ita-liani” e “uomini” sono termini intercambiabili).

È, in definitiva, l’eterno ondeggiare degli italiani, e deiloro critici, tra condanna ed esaltazione.

Gli italiani sono egoisti, cinici, menefreghisti, pigri, volta-gabbana, conformisti oppure, all’opposto, sono pieni dirisorse, inventivi, creativi, geniali.

Nel 1965, ci informa Bollati, gli studenti di Princeton,interrogati in merito al carattere dell’italiano, hanno rispo-sto prontamente: “Artistic, Impulsive, Passionate”.

Difficile scrollarsi di dosso questo stereotipo, anche acausa del nostro atavico masochismo… lo dice anche unafulminea battuta di Altan messa in bocca a due personaggimeridionali: «Dovemo sdrammatizza’ Maria». «Ma sì!Basta con sto masochismo italiano» D’altro lato, quando“risorgiamo”, come nazione, ci sentiamo alle stelle…

Ma questo non è che un trucco per non fare mai a fondo iconti con noi stessi, come popolo e come nazione.

Bollati ha ben individuato il nodo irrisolto dello sviluppoitaliano; è quello del rapporto fra tradizione e modernizza-zione… chi si ricorda delle commoventi lucciole di Pasolini,dei suoi Scritti corsari e delle Lettere luterane? Ed è solo uncaso che Leonardo Sciascia, nel narrare il caso Moro, ripar-ta proprio dalla scomparsa delle lucciole? Altan pare, inve-ce, essere oltre questi problemi.

L’operaio Cipputi, personaggio che ha reso celebre il suoautore, figura del continuum storico italiano, fondato sullacontrapposizione umili-potenti (le “due classi” del populi-smo, di Gramsci, di Omodeo, ma anche e soprattutto diManzoni), sembra, negli ultimi tempi, lasciare il posto auomini seduti dietro a scrivanie più o meno ministeriali, acasalinghe e, soprattutto, a giovani donne nude.

Con questo non scompaiono del tutto la figura dell’“umile”e quella dello “spirito sociale”. È l’operaio ad appannarsi.Compare invece con insistenza il disoccupato meridionale conmoglie e bambino in fasce, figure lacere e scalze, sempre piùsgomente e rassegnate. Oppure si chiama emblematicamenteItalo ed è intento a solitarie considerazioni, in cui riferisce leaffermazioni dei potenti e le proprie risposte a mezzavoce.

A Cipputi e colleghi resta il compito di commentare levicende politiche nazionali, ma con meno mordente, e, comein Tinello italiano, ora anche l’operaio risponde alle doman-de di un giovane, la nipotina, seduto domesticamente incasa propria, lontano dalle macchine e dalla fabbrica.

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I figli sono sentimentali perché anticipano la disillusionedei padri, di cui prenderanno il posto in poltrona, e non soloper un destino biologico.

Figli e padri sono due imago di uno stesso personaggio,l’italiano, che ha eretto il tinello a sua dimora abituale.

Il disprezzo dei genitori verso i figli non è che la proiezio-ne del disprezzo verso se stessi, i figli non sono né meglio népeggio e: «Babbo perché leggi la vita di Mozart?» «Perchéalla tua età era un enfant prodige, mica un coglione comete». E, in uno dei rari momenti di rovesciamento, l’accusa dicoglioneria funziona in senso inverso: «Sempre lì a rinco-glionirti con la tv, vero?» «Ci hai l’invidia perché te ti seidovuto rincoglionire con la radio» risponde il figlio, cheanche nella sua cattiveria conserva tutto lo sguardo smarri-to di coloro che, invece, fanno solo domande.

Tinello italiano vuol dire il trionfo della classe media(siamo tutti classe media!), di quell’indistinta poltigliasociale cresciuta tra la seconda metà degli anni Sessanta e laprima metà degli anni Settanta.

Dieci lunghi anni, in cui la stanza da pranzo dei servitori siè trasformata in un tinello senza che nessuno dei commen-sali cambiasse di posto.

Chi è l’italiano?La difficile domanda che Giulio Bollati si pone nel suo bellibro (L’italiano, Einaudi, Torino 1983), dedicato alla cacciaal fantasma dell’“italianità”, è proprio questa: “Chi, cos’è ita-liano?”. La sua dotta indagine mette al centro l’immagineche il nostro paese ha cercato di dare di sé negli ultimi cen-tocinquant’anni.

L’autore, che è uno storico della cultura, dedica lo spaziomaggiore all’Ottocento, al periodo a cavallo dei moti risorgi-mentali.

La domanda sull’italiano diviene così una domanda sullanatura del processo d’unificazione nazionale, il cavouriano emoderato motto: “Fatta l’Italia, facciamo gli italiani”.

Altan, seppur da un versante opposto e con metodi diver-si (inseguendo cioè le fenomenologie quotidiane, cosa cheovviamente lo porta a non avere un unico e coerente puntodi vista), cerca di rispondere alla medesima impossibiledomanda. Così fa dire a una delle sue donne nude:“L’italiano è un popolo straordinario. Mi piacerebbe chefosse un popolo normale”.

Le risposte possibili, stando alla ricerca di Bollati, che peraltro si propone di non avallarne nessuna, sono solo due,

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l’età media della popolazione invecchia di anno in anno,oppure se Altan stia solo anticipando i tempi a venire.

Le vociHo letto, da qualche parte, che Altan lavora ascoltando laradio. Penso che sia vero. Dove potrebbe, infatti, ascoltare levoci che egli puntualmente fissa nelle sue vignette?

A questo proposito, racconta Elias Canetti che per KarlKraus, il grande scrittore e moralista austriaco, l’inizio dellaPrima guerra mondiale fu un intreccio allucinato di voci, dalquotidiano, ineludibile, orrendo grido: “Edizione straordi-naria!” alle chiacchiere dei capannelli, dalle dichiarazionitronfie e ignare dei potenti ai “pezzi di colore” della stampa,sino all’inarticolato lamento delle vittime. “Non c’era” pro-segue Canetti, “una sola voce che Kraus abbia lasciato per-dere, era invasato da ogni specifico accento della guerra e loriproduceva con forza stridente.”

Certamente, se vi è qualcosa di comune tra Kraus e Altannon è sicuramente l’ossessione invasata delle voci. Altan èuno spirito diverso, ma le voci che ascolta e riproduce sucarta non sono voci interiori, bensì esteriori, rispetto allequali egli conserva una certa distanza.

Le sue battute, che hanno un andamento aforistico, sonoriflessive, non posseggono, infatti, l’ossessione krausiana e ilsuo tormento linguistico. Altan ascolta le voci (dalla radio,dal televisore, dai giornali), Kraus, invece, le “sentiva”.

Altan non fa, come si è soliti credere, del commento politico.L’efficacia della sua scrittura non è affidata all’avvenimen-

to, all’istante, ma possiede la durata delle voci, del loro quo-tidiano ripetersi attraverso i mass media e i discorsi di stra-da. Le vignette di Altan non riproducono avvenimenti, anzi,quando si avvicinano troppo a un avvenimento, quandoalludono direttamente a un personaggio politico, riprodu-cendone le fattezze, perdono di mordente.

La loro forza risiede nel ridarci il quotidiano, nell’attraver-sare la sua opacità mediante la citazione dei discorsi,mediante le voci.

Scrive Blanchot che il quotidiano è la cosa più difficile dascoprire.

“L’uomo è al tempo stesso sommerso dal quotidiano eprivo del quotidiano.”

Quando i personaggi di Altan parlano la lingua quotidia-na, quella della chiacchiera (lingua che risulta essere la stor-piatura di quella insegnata dalle grammatiche), non lofanno soltanto perché così le ha “ascoltate” il loro autore, ma

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L’appellativo nonno, con cui la nipotina chiama l’operaioin tuta, lascia intendere che egli sia già in pensione.

Del resto oggi andiamo tutti in pensione (Chi sono gli ita-liani? Dei pensionati, si dovrebbe rispondere), chi dopo annie anni di lavoro, chi ancor prima di iniziare a lavorare, comeci avvisano le ultime inchieste degli ebdomadari nazionali. Eil Censis conferma.

Una delle donne nude di Altan, in una battuta a metà stra-da tra la considerazione esistenziale e l’analisi sociologica,paragona la vita a un film e afferma di essere entrata a metàdel secondo tempo.

Dunque, se all’inizio Cipputi cercava di rispondere alladomanda posta da Bollati al centro del suo libro, e nel suoumorismo la critica politica era prevalente, col passare deltempo Altan ha lasciato emergere un’altra vena, certamentemeno politica di quella precedente. Probabilmente più pro-fonda.

Altan possiede un forte senso della fine, di una-fine-che-non-cessa-di-finire, che si ripete sempre uguale a se stessa,che si replica ogni giorno sui nostri teleschermi: «Quello chemi tiene in vita» fa dire a uno dei suoi personaggi «è il desi-derio di non perdermi la fine del mondo».

In tutto questo non vi è nulla di apocalittico, la fine non èmai minacciata, ma attesa, con rassegnazione e stanchezza.

La donne nude di Altan sono perplesse, sentimentali,disilluse, insicure, incerte, per questo sono nude. Nonhanno nulla da mettersi, e non ridono mai.

Le loro braccia sono rilassate e lo sguardo è stanco. Nonhanno neppure più la statuaria posa della donna di Tinelloitaliano, che giace sdraiata su di un divano, e a cui la figliachiede ragione della sua nudità: «Hai caldo mamma?» «Èquello che mi chiede il tuo babbo quando mi vede così».

Ora, queste donne, la cui chioma lievita col tempo, nonsostengono più alcun dialogo, parlano solo per monologhi.

Pier Giorgio Paterlini, intervistando Altan per«Ottantagiorni», inserto di «Linus», circa il sudore di Cipputi,faceva notare il senso di spossatezza che distingue i personag-gi di Altan, una spossatezza che si è fatta sempre più evidentenelle ultime vignette, sino a diventarne la cifra unificatrice.

Resta da stabilire se la spossatezza rispecchi esattamentequanto sta accadendo nella società italiana, dove la classedirigente è sempre la stessa da quarant’anni, dove i partitisomigliano progressivamente gli uni agli altri, dove la man-canza di soluzioni è divenuta condizione abituale – «Lasituazione degrada ma non si precipita», dice a Cipputi uncollega, ed egli risponde: «Agli italiani gli piacciono le cosecroniche: non si muore, ma ci si può lamentare» – e dove

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L’ateismo di Marx è una leggenda da seminari o da circolianticlericali, una leggenda che semplifica brutalmente lecose.

Ma noi viviamo, oltre che in un’epoca postcrstiana, anchein un’epoca postmarxista, immersi come siamo in un “natu-rale” ateismo di massa, frutto non della critica rivoluziona-ria, ma dello sviluppo delle forze produttive capitaliste, eviviamo anche la crisi delle utopie rivoluzionarie. Senza Dio,senza Classe Operaia.

Forse per questo alcune frange minoritarie guardano coninteresse alla teologia postcristiana e alla fede come a unaalternativa alla “religione del solido Nulla”, al nichilismo dimassa.

Ma questi recentissimi dati Altan non li ha ancora regi-strati nelle sue vignette.

Egli è, invece, un fedele cronista dell’età postcristiana epostmarxista, evocata con tanta chiarezza nel dialogo tra ilpadre e il figlio.

Forse per questo i suoi preti vestono la vecchia talare […]e hanno gli sguardi tristi.

Vivono ai margini e il nuovo li sorprende: «Il papa diceche la sessualità è un dono di Dio, don Pino». «Non mi guar-di in quel modo, don Gino.»

Altan non è un anticlericale, in un paese che ha una solidatradizione di satira e di disegni anticlericali; la sua ironiaapplicata agli ecclesiastici è certamente meno “forte” e menospietata di quella che applica alle grassottelle casalingheimpegnate ai fornelli.

I preti sono davvero figure di contorno in un paese in cui icattolici restano anagraficamente la maggioranza, ma in cuila Chiesa è divenuta una istituzione tra le altre, nonl’Istituzione per eccellenza, come nel passato.

La cifra dell’umorismo delle vignette dedicate al clero stanella incomprensione al nuovo che esso dimostra.

In genere si tratta di preti anzianotti e i loro commentisono analoghi a quelli dei pensionati, altri personaggi diAltan. La differenza sta invece nel fatto che i primi sonoseduti su di un divano e i secondi su una nuda panchina dagiardini pubblici. Entrambi commentano i fatti di rimessa,al secondo rimbalzo.

Non fanno il mondo, ma neppure lo addormentano piùcon generose dosi di oppio religioso.

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perché Altan cerca in questo modo di avvicinarsi al quoti-diano, di restituircelo, impresa difficilissima.

Altan prende spunto dalle voci, non le fa parlare in presadiretta, ci riflette sopra, compie un’operazione intellettuale,una mediazione.

In questo atto di riflessione, egli sembra inconsapevol-mente fedele al detto di Blanchot che il carattere essenzialedel quotidiano è di non lasciarsi cogliere.

Il nostro autore si colloca a metà strada tra i due lati delquotidiano: quello fastidioso, penoso e sordido e quello ine-sauribile, irrecuperabile, sempre incompiuto e che sempresfugge alle forme e alle strutture (Blanchot). Il primo lato hail carattere della ripetizione, il secondo della imprevedibili-tà. E questi due sono anche i toni dell’umorismo di Altan.

Potrebbe sembrare un paradosso ed è, invece, una grandequalità artistica.

L’epoca della secolarizzazioneLa celebre frase di Marx sulla religione come oppio deipopoli, che ha fatto la fortuna di quasi un secolo di polemi-che anticlericali, quando giunge nel Tinello italiano ha affie-volito la sua forza.

«La religione è l’oppio dei popoli, babbo?» chiede il solitoragazzino. «Magari», risponde il padre.

Viviamo in un’epoca postcristiana. Ben altre droghe,anche mortali, hanno preso il posto della religione nel con-sumo di massa.

Del resto, a ben leggerlo, Marx aveva indicato non tanto lareligione dei preti come soporifero stupefacente, ma la benpiù solida “religione del Capitale”.

Quando, all’inizio di Per la critica della filosofia del dirit-to di Hegel, scriveva che “la critica della religione è il pre-supposto di ogni critica”, non indicava tanto nell’istituzioneecclesiastica luterana o cattolica l’oggetto di una dura pole-mica, o nella teologia l’avversario da abbattere con l’affer-mazione dell’ateismo.

Marx, intellettuale tedesco ed ebreo, aveva compreso chela civiltà moderna è figlia della tradizione ebraico-cristiana,e che la religione si è inverata nelle strutture economiche,sociali e politiche del “Moderno”.

Lo spirito del capitalismo è religioso, sia nei paesi prote-stanti che in quelli cattolici, e dunque la critica della religio-ne è la critica per eccellenza (il denaro, in altre pagine, èparagonato a Cristo nella sua funzione di mediatore tra lemerci).

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