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ARCIDIOCESI DI TRENTO SCUOLA DIOCESANA DI FORMAZIONE TEOLOGICA – UFFICIO CATECHISTICO DIOCESANO LABORATORIO BIBLICO SULLA MISERICORDIA APPUNTI DI DON LORENZO ZANI Trento 5- 12- 19- 26 settembre 2015

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ARCIDIOCESI DI TRENTO

SCUOLA DIOCESANA DI FORMAZIONE TEOLOGICA – UFFICIO CATECHISTICO DIOCESANO

LABORATORIO BIBLICO SULLA MISERICORDIA

APPUNTI DI

DON LORENZO ZANI

Trento 5- 12- 19- 26 settembre 2015

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IL PADRE MISERICORDIOSO E I SUOI DUE FIGLI (Lc 15,1-3.11-32) Il contesto della parabola In questa parabola il discorso su Dio sta decisamente in primo piano: è l’unica parabola del vangelo di Luca, in cui si parla di Dio sotto l’immagine del Padre e in cui si parla dell’uomo che non può vi-vere senza Dio, suo Padre. Gesù narra la parabola per rispondere ai farisei, scandalizzati per l’accoglienza che egli offre ai peccatori: egli va dai peccatori, li riceve e mangia con loro; anche i peccatori hanno simpatia per lui e accorrono a lui (Lc 15,1-3). Sedere alla stessa mensa era ritenuto il segno forse più grande di comunione: la legge ebraica vietava la comunanza di mensa coi pagani e coi peccatori, perché si riteneva che quella commensalità rendesse impuri. Si pensava di onorare Dio e di manifestargli la propria fedeltà separandosi dai peccatori. Solo dopo che avevano manife-stato a lungo il loro pentimento si poteva dare ad essi accoglienza. Gesù invece non solo accoglie i peccatori, ma li cerca, li perdona, li chiama, li invita a condividere la sua responsabilità nell’annuncio del regno di Dio. Per spiegare questo atteggiamento, che corrisponde a una sua preci-sa concezione di Dio, Gesù narra la parabola del pastore e della sua pecora smarrita e ritrovata, la parabola della donna e della sua moneta smarrita e ritrovata, e infine la parabola del padre coi suoi due figli.

Quest’ultima parabola è la più importante delle tre. L’azione si svolge in due momenti: nel primo momento il padre perde e poi riabbraccia il figlio minore (Lc 15,11,24), nel secondo momento il padre invita il figlio maggiore a partecipare alla sua gioia per il ritorno del fratello minore (Lc 15,25-32); a sua volta il primo momento narra due movimenti: l’allontanamento del figlio minore dal padre (Lc 15,11-20a); l’incontro commovente del padre col figlio ritornato (Lc 15,20b-24). Da qualunque angolatura la si guardi, ci si accorge che al centro della parabola c’è la figura del padre: lui sta davanti ai suoi due figli e i due figli stanno davanti a lui. Il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione. Anche quando il figlio lontano da casa parla tra sé, la parabola per quattro vol-te gli mette in bocca la parola «padre», anzi, due volte usa le parole «mio padre» (vv. 17.18). La pa-rabola insiste sul modo con cui il padre si pone di fronte ai due figli e sul modo con cui i due figli si pongono di fronte a lui. Questa pagina ci aiuta a capire che «la conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua misericordia, cioè quell’amore che è paziente e benigno a misura del Creatore e Padre» (Dives in misericordia, 13). Dio è non come noi lo immaginiamo, ma come Gesù ce lo manifesta anche attraverso questa parabola: «Nessuno è tanto Padre come lui, nessuno è tanto pieto-so» (Tertulliano). Cerchiamo di vedere i principali lineamenti del volto di Dio, come emergono dal-la parabola del padre misericordioso.

Alcune caratteristiche del volto di Dio rivelate dalla parabola Dio è Padre

Gesù ci ha detto anzitutto che Padre è il nome più appropriato per indicare Dio. La tensione di tutta la vita di Gesù è stata verso il regno di Dio, ma rivolgendosi a Dio lo ha sempre chiamato Padre e non re. Gli attributi di Dio sono tanti. Il titolo che sorregge tutti gli altri e che li rischiara è Padre. Dio è giudice, è onnipotente, è re e Signore del mondo, ma tutti questi titoli perderebbero la loro ve-rità, se non venissero letti a partire dalla paternità. Per capire Dio occorre partire dalla paternità. Il titolo Padre tocca in profondità la nostra concezione di Dio, il nostro rapporto con lui e, di conse-guenza, il modo di pensare tutti rapporti tra noi. Il titolo Padre ci dice che la signoria di Dio non è per dominare, ma sempre per donare; la sua onnipotenza è quella dell’amore, la sua giustizia consi-ste nell’offrire all’uomo il perdono e la comunione o alleanza. Padre è il nome di Dio, sempre; di conseguenza, figlio è il nome dell’uomo, sempre.

Il tema della paternità di Dio è comune a molte religioni conosciute. L’islam lo ignora, anzi lo e-sclude: secondo il Corano, Allah non ha mai generato nessuno (Sura 4,171; 6,100-101; 112,3; il ti-

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tolo Padre è assente anche nei novantanove nomi di Allah). Maometto voleva combattere sia il pa-ganesimo arabico preislamico, che conosceva anche la figura della dea femminile Allat, sia il giuda-ismo che faceva di Israele un popolo privilegiato in quanto figlio unico, o almeno prediletto, di Dio, sia il cristianesimo che invece vedeva solo nella persona di Gesù l’unigenito di Dio; in tutti questi casi Maometto riteneva che venisse intaccata la purezza del monoteismo e quindi la purezza della fede musulmana. I popoli dell’antichità ignoravano la figura paterna connotata esclusivamente dalla bontà, perché alla figura paterna congiungevano sempre l’autorità, il potere, il dominio incontrasta-to. Questo valeva anche per la loro concezione della paternità di Dio, che era ritenuto Padre onnipo-tente, ma con l’accentuazione sulla onnipotenza più che sulla paternità. Quindi i popoli dell’antichità temevano i loro dei, tremavano davanti a loro, rimanevano sbigottiti di fronte alla loro inesorabilità e al loro strapotere, erano disorientati di fronte alle loro invidie e ai loro capricci.

Nel Nuovo Testamento il nome Padre indica tre modalità della paternità di Dio. La prima è nota an-che ai pagani e riguarda la sua paternità universale: «Di lui infatti stirpe noi siamo» (At 17,28). Ciò che qui emerge non è la bontà di Dio, ma la sua provvidenza che pianifica l’universo secondo un ordine razionale. La seconda modalità è di origine ebraica: Dio è Padre in quanto ha un rapporto particolare con un gruppo specifico di persone: col suo popolo eletto. Il concetto di provvidenza qui è sostituito da quello più caldo e personale di amore, perdono, misericordia. La terza modalità di pa-ternità riguarda il rapporto specialissimo, esclusivo, di Dio con Gesù, col suo Figlio. Questo terzo è il senso più ampio e più originale del titolo Padre che viene attribuito a Dio. Dio è Padre da sempre, perché da sempre ha un Figlio unico, che egli genera eternamente. Gesù ha trovato l’uomo nemico di Dio, col cuore di schiavo o per lo meno con un certo rancore e sospetto nei confronti di Dio, in-timorito davanti a lui. Gesù è venuto a rendere anche noi figli di Dio: ci prende con sé e ci dà il suo Spirito perché anche noi possiamo condividere la sua condizione di Figlio di Dio (Gal 4,4-7; Rm 8,14-16).

Come sia difficile scoprire o accettare che Dio è Padre lo rivela anzitutto il figlio minore della para-bola. Il giovane si allontana da casa e quando è nella miseria ritorna piuttosto al «padrone»; infatti gli dice: «Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,29). Dunque al suo ritorno non ha la vera concezione della paternità di Dio. Allora il Padre che gli si rivela come tale, al di là di ogni sua atte-sa. Anche il figlio maggiore, pur restando a casa, non riconosce il padre: infatti sta tanti anni a casa come un servo (Lc 15,29). Anche oggi conoscere Dio come Padre è difficile e lo rivela il rifiuto del-la fede di tanti uomini. Le ragioni del rifiuto di Dio come Padre sono molteplici. Alcune vengono dalla teologia e dalla predicazione: esse hanno usato spesso un linguaggio tale da far apparire il Pa-dre come un Dio giustiziere. Poi c’è stata la psicologia e la psicanalisi che hanno riscoperto il com-plesso di Edipo, esistente in ogni figlio: ogni figlio ha il desiderio inconscio di uccidere il proprio padre. Infine ci sono state le sfasature con cui la figura paterna è stata esercitata dall’uomo, con la caduta o nell’autoritarismo, nel mascolinismo e nella violenza, o nel paternalismo. Però è soprattut-to la sofferenza che oscura il volto di Dio Padre: come può essere Padre un Dio che permette il do-lore, specialmente degli innocenti, un Dio che ha permesso la morte di Gesù?

Dio Padre ha una storia, vissuta insieme agli uomini La prima caratteristica di Dio Padre è avere una storia. La storia di Dio consiste nell’avere due fi-gli: tutti gli uomini, non solo quelli appartenenti al popolo ebraico, non solo quelli che restano con lui, sono figli di Dio e lo sono sempre. Il Padre della parabola ha una storia: prima ha due figli in casa, poi uno si allontana, finalmente ritorna ed è accolto, ma al suo ritorno il padre ha problemi col figlio maggiore che non vuole più entrare in casa. Dio ha una storia, è compromesso con la nostra storia: la costruisce non da solo, ma insieme con noi e noi la costruiamo insieme con lui. La storia che Dio costruisce con noi si chiama storia della salvezza.

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Dio è umiltà Un’altra caratteristica di questo Padre è l’umiltà. Dio Padre è umiltà. Di fronte alla scelta del figlio minore di gestire la propria vita, di possedere quei beni che ritiene a lui dovuti, di disporne in forma autonoma, il Padre non oppone resistenza, ma lo lascia partire, si adegua alla sua decisione e sa a-spettarlo con un desiderio carico di infinita umiltà. Questo Padre è innamorato del suo figlio anche se si è allontanato da casa e innamorarsi di un altro è sempre un atto di umiltà: è domandare amore, ma è soprattutto offrire amore. L’umiltà è fare spazio all’altro, perché esista. Allora l’unico che può veramente essere umile è Dio. Lui soltanto può fare spazio all’esistenza dell’altro in quanto egli so-lo occupa ogni luogo, ogni essere. L’umiltà di Dio è il suo ritirarsi affinché noi esistiamo, dotati di libertà. Dio è umile perché fa posto alla libertà e alla dignità delle sue creature. Vi è come una auto-limitazione di Dio. Dio può fare tutto, ma non vuole salvarci contro la nostra volontà. Questa è l’umiltà di Dio: si fa debole, vulnerabile, si autolimita, non schiaccia l’uomo, sua creatura, ma ri-spetta la sua debolezza, non si vendica, ma perdona. Dio si toglie i sandali davanti al mistero dell’uomo: esce incontro a tutti e due i figli e addirittura prega con insistenza il figlio maggiore per-ché entri a partecipare alla festa. «Tu sei umiltà!» ha esclamato per una notte intera s. Francesco d’Assisi, rivolgendosi a Dio.

Dio è speranza

Dio è anche speranza. Quando il figlio minore era ancora lontano il padre lo vide. Il Padre lo atten-deva ansiosamente e il suo cuore era rivolto a lui, perciò scrutava da lungo tempo l’orizzonte per vedere spuntare la persona amata; il Padre era per così dire in attesa del desiderato ritorno. Dio spe-ra di essere accolto dall’uomo, e quando l’uomo si allontana, Dio spera e attende la sua conversio-ne. Dio ci dona il Figlio, sperando soltanto che noi lo accogliamo con rispetto (cfr. Mc 12,6). La speranza di Dio è l’altro nome dell’umiltà, è proiettarsi verso l’altro nel desiderio che egli sia pie-namente se stesso, è desiderare che l’uomo maturi in una risposta di amore libera e gratuita. Dio è il Dio della speranza non solo nel senso che è il Dio della promessa e quindi il fondamento della no-stra speranza, ma anche nel senso che lui stesso spera, attende il nostro ritorno a lui per fare festa.

Dio conosce e accetta il fallimento temporaneo

Questo Padre conosce il fallimento momentaneo e lo accetta. Dio non investe sui figli in maniera soffocante, non pretende di avere il diploma di buon genitore, che ha sempre risultati positivi. Prima si allontana da casa, cioè da lui, il figlio minore e il padre lo sa attendere a lungo; il figlio maggiore resta in casa, ma non sa diventare figlio adulto, non si comporta come un figlio, cresce vivendo nell’atteggiamento del servo; poi, quando finalmente il figlio perduto ritorna, il figlio maggiore non vuole entrare e il padre deve uscire a pregarlo con insistenza di entrare. Il padre si trova in una si-tuazione dolorosa sia quando il figlio minore si allontana, sia quando si trova di fronte alla collera del figlio maggiore rimasto in casa. Gesù stesso, immagine di questo Dio Padre, conosce il falli-mento, ma sa che dal fallimento nasce la possibilità di testimoniare tutto il suo amore, nasce quindi la pienezza della vita. La croce non è un momento opzionale o casuale del messaggio di Gesù, ma è la vita stessa di lui e del Padre, il suo modo di proporsi persuasivo, attraverso la debolezza della predicazione e dei risultati. Noi pensiamo di non essere riusciti per negligenza, per avere usato me-todi non appropriati, però non avremo mai la chiave del successo; se Gesù l’avesse avuta, l’avrebbe prima usata lui e poi ce l’avrebbe consegnata. Sarebbe certamente sbagliato fare solo una teologia del fallimento o della croce, ma è altrettanto sbagliato fare solo una teologia del successo e della ri-surrezione. Gesù ci insegna a fare una teologia della gratitudine, dell’eucaristia, della fiducia, per-ché Dio si manifesta sia nel fallimento sia nel successo, come a lui piace, perché egli stesso ha ac-cettato e accetta il fallimento momentaneo.

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Dio è compassione materna

Dio è compassione materna. Il padre corre commosso incontro al figlio che torna. Esplanchnisthe dice il testo greco e questo verbo evoca le viscere materne. In netta contrapposizione, si dirà che il figlio maggiore al ritorno del fratello «fu preso dalla collera». Al ritorno del figlio, il padre non gli rivolge neppure una parola di rimprovero non gli manifesta il minimo sentimento di disappunto per il suo comportamento sbagliato, perché ha infangato il buon nome e l’onore dell’intera famiglia, perché ha dilapidato i beni. La parabola ci fa sentire i palpiti del cuore di questo padre, ci fa gustare la sua infinità bontà, ci rivela la sua tenerezza materna. Prima che il figlio minore apra bocca o dica le sue parole di pentimento, il padre gli si getta al collo e lo copre di baci ripetuti (il verbo kataphi-leo non significa soltanto «baciare», ma «baciare intensamente», «coprire di baci»). Gettandosi al collo del figlio, il padre gli impedisce di mettersi in ginocchio ai suoi piedi. Il bacio ripetuto è segno di perdono e di comunione totale; il padre non tiene conto dello stato di impurità del figlio, dovuto al suo essere stato coi pagani e coi porci. La protesta del figlio maggiore, invece, sarà guidata dal raziocinio, non sarà animata dall’amore: la sua argomentazione appare anche logica, ma appunto per questo fa risaltare il comportamento del padre, guidato unicamente dalla tenerezza del cuore. Anche verso il figlio maggiore, il padre rivela un atteggiamento particolarmente affettuoso e gli di-ce: «Figlio mio (teknon è un termine più affettuoso di yios), tu sei sempre con me». Dio ama l’uomo con l’amore viscerale di una madre, non per i meriti della sua creatura, non perché ha espresso il suo pentimento, o per le opere che compie, ma semplicemente perché esiste.

Dio è fedeltà paterna

Dio è anche amore fedele, cioè amore paterno. Dio ama perché è fedele alla sua paternità. Nella fe-deltà del suo amore non lascia completare al figlio il discorsetto che si era preparato: tronca le paro-le «trattami come uno dei tuoi garzoni». «Il padre del figlio prodigo è fedele alla sua paternità, fe-dele a quell’amore, che da sempre elargiva al proprio figlio. Tale fedeltà si esprime nella parabola non soltanto con la prontezza immediata nell’accoglierlo in casa, quando ritorna dopo aver sperpe-rato il patrimonio: essa si esprime ancor più pienamente con quella gioia, con quella festosità così generosa nei confronti del dissipatore dopo il ritorno, che è tale da suscitare l’opposizione e l’invidia del fratello maggiore... La fedeltà a se stesso da parte del padre è un tratto già noto dal termine veterotestamentario “hesed”... La fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull’umanità del figlio perduto, sulla sua dignità... L’amore verso il figlio, l’amore che scaturisce dall’essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad avere sollecitudine della di-gnità del figlio... Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato... Un figlio, anche se prodigo, non cessa di essere figlio reale di suo padre» (Dives in misericordia, 6).

Dio è amore concreto Dio è amore concreto: il padre della parabola non dice nessuna parola al figlio ritornato, ma fa ver-so di lui gesti di amore. Anzitutto gli corre incontro per raggiungerlo in fretta. Questa corsa verso il figlio per abbracciarlo teneramente e senza indugio è molto più efficace di qualsiasi altra espressio-ne nel mostrare l’amore forte e concreto del padre verso il figlio peccatore. È da notare che, secon-do la mentalità semitica, questo gesto era piuttosto scandaloso, perché il padre doveva avere sempre un portamento solenne, ieratico. Era il figlio che doveva venire di corsa incontro a lui e prostrarsi. Non sarebbe stato concepibile il contrario: che il padre si muovesse verso il figlio, anzi, che gli cor-resse incontro e gli gettasse le braccia al collo. Questo padre non si comporta da anziano saggio e moderato, ma si abbandona totalmente ai sentimenti. La sua autorità non consiste nelle distanze che vanno mantenute, ma nell’amore che egli esprime. Poi fa portare la veste migliore, l’anello al dito, i calzari ai piedi: con questi tre segni reintegra il figlio nella dignità regale che aveva perduto, innalza l’uomo, come dice una bella preghiera del giovedì della quarta settimana dopo pasqua, «oltre

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l’antico splendore». Questo padre esce anche verso il figlio maggiore e lo supplica insistentemente di entrare a far festa.

Dio gioisce con l’uomo e per l’uomo

Dio è gioia, è capace di far festa con l’uomo e per l’uomo quando questi ritorna a lui. La gioia del padre costituisce lo scopo e l’idea dominante di tutta la parabola. Quando il figlio arriva, il padre è felice come un bambino, fa festa, lo bacia, lo abbraccia, lo fa rivestire, ordina di uccidere il vitello ingrassato per le grandi circostanze. La gioia è ribadita: «Facciamo festa»; «E cominciarono a far festa»; «Bisognava far festa». La festa di Dio con l’uomo è la logica dei tempi nuovi, messianici. L’accoglienza festosa e le delicatezze riservate al figlio minore rivelano con chiarezza ed eloquenza che il padre non lo aveva affatto dimenticato durante la sua lontananza. Si noti, inoltre, che il padre non pensa neppure lontanamente a rimproverare il figlio; non un’espressione di dolore, non un ge-sto o una parola di biasimo per la sofferenza che questi aveva arrecato al suo cuore di padre con il suo allontanamento volontario e con la sua condotta scandalosa. Questo padre manifesta solo deli-catezza, tenerezza e una gioia grandissima. La gioia era il tema anche delle due parabole precedenti della pecora e della moneta ritrovate. Dio trova gioia quando un solo peccatore si pente; trova la sua gioia nello stare con l’uomo, perché è il suo figlio, fatto a sua immagine, fatto per abitare con lui; trova la sua gioia nell’essere conosciuto e chiamato Padre dall’uomo. Dio trova gioia quando l’uomo fa «ritorno alla verità su se stesso» (Dives in misericordia, 6). Va notato che nella parabola la gioia riguarda esplicitamente il Padre e non il figlio, del quale a questo riguardo, stranamente, non è detto proprio nulla.

L’insistenza sulla festa tocca una delle difficoltà dell’uomo in occidente: la fatica a rallegrarsi di cuore, il ritegno a godere per qualche evento positivo, come quello di una riconciliazione raggiunta, del ritorno di un fratello che era andato lontano. È molto difficile oggi fare festa. Sembra che le oc-casioni di festa servano a nascondere un’interiore malinconia, a esorcizzare la paura di restare soli, a soffocare una qualche sottile angoscia che c’è dentro. Oltre che dalle tragedie immani dell’umanità, oltre che dalla paura delle malattie, della morte, la festa è impedita dalla sensazione di non essere capiti, di non essere trattati giustamente. È difficile far festa con gioia sincera, senza sot-tintesi, senza riserve e rimpianti. Proprio per questo la parabola insiste sulla festa che nasce dalla ri-velazione dell’amore senza limiti di Dio Padre. Solo l’amore che il Padre ha per noi, amore che tut-to copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, amore che perdona e riabbraccia, riabilita e salva, supera morte e odio, vendetta e rivalsa, è in grado di coinvolgerci in una gioia senza sottintesi. Solo il saperci fino in fondo, ciascuno di noi, capiti, guariti dentro, stimati, ritenuti importanti da colui che ci conosce davvero, ci permette di scioglierci in un canto di festa che nasce dal cuore.

La sofferenza di Dio Dio sa far festa con l’uomo, perché prima ha sofferto per lui, per la sua lontananza. Se in Dio c’è un mistero di gioia per il ritorno del figlio minore, c’è anche un mistero di sofferenza per il suo allon-tanamento, qui appena accennato dalla discrezione del racconto. Questa parabola ci parla del miste-ro della sofferenza di Dio. Noi crediamo in un Dio che soffre, perché crediamo in un Dio che ama. «Che passione è quella che egli ha sopportato per noi? L’amore è patire» (Origene). Tutta la bibbia ci dice che Dio soffre perché il popolo lo ha abbandonato, ha spezzato il rapporto che li lega (Gen 6,6; Sal 78,40; Is 1,2; Mi 6,3; Os 11,8-9): nella bibbia la sofferenza di Dio è un tema altrettanto ri-corrente che il peccato dell’uomo. Dio non è impassibile, indifferente alla vicenda umana, insensibi-le al rigetto del suo popolo; Dio soffre, perché ama, perché è coinvolto nella storia dell’uomo, per-ché l’uomo si perde.

C’è in questa parabola un’affermazione importantissima ripetuta due volte: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24.31). Ci sono due motivazioni del dolore del padre sulle quali vale la pena riflettere. Il primo motivo del dolore del padre è che il

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figlio «era morto», ha distrutto se stesso: Dio soffre perché il figlio ha annientato se stesso, ha alie-nato se stesso. Il secondo motivo è «era perduto» e si ricollega al fatto che il figlio si era allontanato da lui. Ancora una volta siamo guidati a vedere prima di tutto la ricerca dell’uomo da parte di Dio. Per due volte viene ripetuto il verbo «è stato ritrovato» (Lc 15,24.32): questo verbo, al passivo, sup-pone una misteriosa «ricerca» divina. Vi è qui una sfumatura di straordinaria bellezza: Dio soffre prima di tutto perché la sua creatura soffre e soltanto in secondo luogo perché la sofferenza è causa-ta dall’allontanamento da lui. Come avviene per ogni vero amore, al primo posto non c’è il dolore del nostro cuore, ma il dolore per la rovina dell’altro. Così è l’amore di Dio. Soffre per la situazione sbagliata della sua creatura, Dio soffre con un indicibile dolore di padre quando l’uomo, suo figlio, annienta se stesso. Il mistero della sofferenza in Dio è il mistero della sua infinita capacità di amare. Naturalmente questa sofferenza non porta Dio a vacillare nella sua volontà di salvarci: il suo amore resta incrollabile.

La passione e morte di Gesù è la manifestazione e la conseguenza di una passione anteriore che lo stesso Padre ha sofferto per noi. Dio ama gli uomini, entra nella loro storia e così non è più «impas-sibile», ma ha per loro una passione di amore. Dio non è in primo luogo potenza assoluta, ma amore assoluto. Se il Figlio sulla croce ha patito, il Padre ha compatito. Il Dio cristiano soffre perché ama, perché si coinvolge con le vicende dell’uomo, perché sa partecipare alla storia dell’uomo. Dio non è fuori della sofferenza del mondo; egli la assume e la redime. La storia delle sofferenze umane è an-che storia del Dio con noi; egli entra nell’esilio del nostro dolore, del nostro peccato, della nostra morte: «Presso di lui sarò nella sventura» (Sal 91,5). Nessuno di noi sa il perché del dolore; è un mistero che ci supera. Però se anche Dio soffre siamo certi di una cosa: possiamo essere sicuri di essere capiti e accompagnati da lui nelle nostre sofferenze.

Dio è vita

Dio è vita. Quando ordina di fare festa e quando spiega il motivo della festa, il Padre esclama: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita» (Lc 15,24.32). Tornare al padre significa tornare alla vita. La formula «Dio vivente» è tipica di tutta la tradizione biblica: sottolinea che la vita appar-tiene totalmente a Dio e soprattutto che solo lui può donarla agli altri: tutti vivono grazie a lui. Dio Padre è il vivente non solo perché esiste, ma soprattutto perché comunica la vita, perché è in grado di vincere la morte. La capacità di dare una vita che vince la morte Dio Padre l’ha manifestata con la risurrezione di Gesù. Egli dona la vita in modo speciale agli uomini. Dal Padre scaturisce la loro vita e questa è autenticamente difesa finché si rimane con lui. Allontanarsi dal Padre è separarsi dal-la vita, è perdersi nella morte, ritornare al Padre è ritrovare la vita. Il peccato è allontanamento dal Padre, è interruzione della vita che viene da lui, è un tentativo folle di impedire al Padre di amare la sua creatura, cioè di comunicarle la vita e l’amore. Allontanandosi da lui, l’uomo non fa che sperpe-rare i doni ricevuti, quali l’esistenza, l’intelligenza, la sua filiazione; si riduce alla miseria, si lascia morire in compagnia dei porci, che per un ebreo sono gli animali più immondi. Solo la sfera del Pa-dre è la sfera della vita: egli è la fonte della vita e non permette che il nostro corpo sia preda defini-tiva della morte. I figli prendono la vita non da se stessi, ma da questo Padre. Chi si allontana da questo Padre non diventa libero, ma entra nella morte; chi rimane con lui vince la potenza della morte.

Dio è comunione

Infine, Dio è comunione. Il Padre fa festa perché ha potuto riprendere col figlio minore la relazione che era stata interrotta e la cui assenza gli aveva procurato una pena così grande, come se il figlio fosse morto. Il Padre mostra poi al figlio maggiore quanto ha ricevuto da lui e soprattutto che quello che appartiene loro è in comune: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto quello che è mio è tuo». In queste parole del Padre la parabola raggiunge il suo vertice. Il grande dono non è il capretto messo a disposizione dal Padre, ma è la condizione stessa di figlio, la costante comunione con lui. Bisogna

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riconoscerla e apprezzarla nel suo valore incomparabile. Questa comunione del Padre coi suoi figli non ha limiti, pertanto tutto appartiene in comune tanto al Padre quanto ai figli. Questo, nel suo si-gnificato più completo, vale solo per la comunione tra Gesù e il Padre: unicamente la loro comu-nione è davvero totale e divina. Per quanto è possibile nel rapporto tra Creatore e creatura, questo vale anche per la comunione tra Dio e tutti gli altri suoi figli. Vivere in comunione con questo Padre significa ricevere il suo Figlio e il suo Spirito e venire divinizzati. I due figli della parabola si sono contrapposti al Padre. Hanno visto in lui uno che limita la loro libertà e impone la sua volontà. Il Padre insegna loro un altro punto di vista. Il Padre non ruba niente ai figli, non costituisce una mi-naccia alla loro vita, anzi egli continua a dare tutto se stesso a loro. Solo in comunione con lui sa-ranno sicuri dai pericoli, avranno la dignità di figli e di fratelli, non dovranno pascolare i porci o ab-bassarsi al ruolo di servi, avranno accesso alla pienezza della vita, che sarà raggiunta quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28).

Dio è Padre «prodigo»

Alla fine di questa parabola si può dire che Dio è Padre prodigo. Normalmente prodigo è chiamato il figlio minore, a causa della sua vita dissipata, ma in realtà è il Padre che si rivela prodigo coi gesti di accoglienza descritti nella scena centrale della parabola (Lc 15,20b-24) e nella festa che organiz-za e a causa della quale il maggiore si arrabbia. Il padre non aspetta le parole di pentimento del fi-glio; prima di sapere l’autenticità delle motivazioni del ritorno, moltiplica i gesti della sua premura, rivela il carattere smisurato del suo amore: manifesta una generosità che sembra esagerata. Egli è prodigo non nel senso peggiorativo che di solito questo temine ha (colui che fa spese folli, disordi-nate), ma nel senso che usa una liberalità estrema, una generosità che dà senza calcoli. «Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio», aveva detto il figlio minore. Ma come se non avesse capi-to, il padre non gli risponde direttamente e invece si rivolge ai servi, ordinando loro di compiere una serie di azioni. Sette verbi esprimono la prodigalità del Padre: «Presto, portate qui il vestito più bel-lo», «e fateglielo indossare», «mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi», «prendete il vitello grasso», «ammazzatelo», «mangiamo», «e facciamo festa». Con questi sette verbi la parabola dice che il padre fa tutto quello che può e lo fa in pienezza: non basta un vestito, ma occorre il vestito più bello; non basta dare al figlio ritornato qualche ruolo nella casa, ma gli dà l’anello al dito che indica il conferimento di autorità e di potere; i sandali sono calzature di lusso, indossate da persone in vista e solo nelle solennità; il pasto non è costituito da un capretto, ma dal vitello ingrassato in vista di una particolare circostanza. Infine non basta un bel pranzo, ma ci vuole un festino, come solo i ric-chi possono fare. Dal figlio maggiore sappiamo infatti che il padre ha voluto anche le prestazioni di una orchestra ed è proprio questa festa eccessiva che suscita in lui la collera. Quasi per giustificare il suo amore prodigo, il padre dice: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Ha ritrovato e ha riavuto vivo nientemeno che un figlio.

Dio è mistero Abbiamo visto diverse caratteristiche del volto Dio, ma va ricordato che Dio è soprattutto mistero che va riconosciuto e accolto. Dio è mistero perché trascende ogni nostra capacità di dire: tutte le nostre formulazioni su di lui sono relative e provvisorie. L’impronunciabilità del nome di Dio ricor-da ad ogni ebreo il rispetto con cui deve essere circondato colui che è Signore della storia e dell’uomo. Allo stesso modo la proibizione di fare delle immagini di Dio evidenzia all’ebreo che l’uomo non può mai impossessarsi di Dio. Anche i cristiani sono invitati a una grande discrezione nel modo di parlare di Dio e di rivolgersi a lui. La fede cristiana annuncia che Dio è il Padre del Si-gnore nostro Gesù Cristo, confessa il mistero della comunione trinitaria e così è invitata a riscoprire continuamente che Dio è diverso da tutto ciò che possiamo immaginare noi. Dio è mistero perché può essere conosciuto e accettato solo per mezzo di lui stesso. Dio si rivela a noi con accondiscen-denza come volontà di salvezza, come grazia, come amore. Proprio perché Dio è mistero, noi ab-biamo bisogno di una continua autocomunicazione sua che ci consente di diventare suoi figli e sue

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figlie, secondo l’immagine dell’unico Figlio Gesù. Proprio perché Dio è mistero, vengono condan-nati tutti i nostri tentativi di impadronirci di lui, di fabbricarci idoli alternativi, e ci viene rivelato che tutti siamo accolti dalla sua grazia, salvati dal suo amore. Di fronte al mistero indicibile di Dio siamo invitati a stare in silenzio adorante, in modo particolare nella liturgia. Il mistero, cioè il pro-getto salvifico di Dio, trascende sempre le parole umane in cui lo si può esprimere.

Il cammino del figlio minore: dall’allontanamento dal Padre alla sua riscoperta Protagonista principale di tutta la parabola è il padre: egli dà unità all’intera narrazione. Però fanno parte integrante della parabola anche le vicende del figlio minore (Lc 15,12-24) e di quello maggio-re (Lc 15,25-32), al punto che la parabola da molti è chiamata anche «parabola dei due fratelli». Con la figura dei due fratelli questa parabola sta in una lunga storia biblica, che inizia con la storia di Caino e Abele, viene ripresa nella storia di Ismaele e Isacco, di Esaù e Giacobbe e ritorna in altre parabole di Gesù. Nessuno dei due fratelli è stato capace di vivere il suo rapporto con il padre; tutti e due lo hanno in qualche modo rifiutato. C’è voluto un lungo cammino da parte del più giovane per incontrare veramente il padre e poi non sappiamo se, finita la festa e la musica, è rimasto sempre a casa; del figlio maggiore non sappiamo se sia stato capace di percorrere questo cammino di ritorno al padre. Ci soffermiamo ora sulla storia del figlio minore, che occupa la prima parte della parabola (Lc 15,12-24), la quale si suddivide a sua volta in due momenti: l’allontanamento da casa e dal pa-dre (Lc 15,12-16) e il rientro a casa accanto al padre (Lc 15,17-24).

«Gli ascoltatori di Gesù sapevano che un figlio poteva chiedere, anche prima della morte del padre, la sua parte di eredità: al figlio minore spettava un terzo dei beni, al maggiore il doppio. Molti gio-vani lasciavano la Palestina ed emigravano nella diaspora. Molti ascoltatori sicuramente avevano sperimentato il dramma di quel padre che vedeva il figlio partire. Ma nella parabola si racconta qualcosa di ancora più doloroso: il figlio giovane parte non perché ha bisogno di lavoro (il padre è ricco, ha campi e braccianti), ma perché desidera una vita indipendente: stare a casa gli pesa come una schiavitù» (B. Maggioni). Il figlio minore emigra non solo con il corpo: anche la sua anima va in un paese lontano. Nella sua arroganza, nella perdita della verità del suo essere si è estraniato, è andato fuori dalla casa paterna.

Il suo viaggio è un errare, è senza meta, convinto di non dover rendere conto a nessuno di ciò che fa e che diventa. Fugge in una terra lontana per vivere in modo dissoluto. Per sé il termine asòtos indi-ca senza salvezza, senza vie di salvezza. Il suo esodo da casa non è un viaggio di conoscenza, di maturazione, di incontri, di relazioni; il suo viaggio non è originato dalla ricerca di sapienza, ma so-lo da una serie di rifiuti, perciò questo viaggio si rivela non un acquisire, ma un perdere. Quel gio-vane ha vissuto l’ebbrezza della festa e del piacere, facendo finta che non ci sono limiti, che si può dar subito soddisfazione a ogni desiderio, a ogni pulsione, dimenticando la disciplina della dilazio-ne, dell’attesa, dell’impegno, del rispetto dei doni ricevuti, della dignità e dell’alterità dell’altro, di-menticando il tempo e anche la fatica che ogni relazione buona comporta. In fretta a casa aveva domandato e preso tutto; in fretta sperpera tutto il patrimonio, in feste egoistiche, non condivise con il cuore, dimenticando che la vita di un uomo non dipende dai suoi beni (Lc 12,15).

Poche pagine bibliche ci dicono con la chiarezza di questa parabola in che cosa consiste il peccato e di conseguenza in che cosa consiste la conversione. Sappiamo tutti che il peccato è uno degli «oscu-ri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo» (Nostra Aetate, 1). Spesso il peccato viene visto come una violazione della legge di Dio, ma questa concezione si presta ad una interpretazione legalistica, come se il peccato consistesse semplicemen-te nella trasgressione esterna, materiale di una norma impersonale. Non sempre, infatti, la semplice trasgressione esterna di una norma costituisce realmente peccato. La trasgressione della norma in-fatti può venir compiuta inavvertitamente oppure per impossibilità di adempierla e in nessuno dei due casi si commette peccato. Altre volte si può non trasgredire nessuna legge, come fa il figlio prodigo che non chiede niente di più di quello che gli spetta, ed essere in realtà come lui peccatori.

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Se il peccato viene inteso come violazione della legge occorre intendere bene il significato dell’espressione. È celebre la formula di s. Agostino: «Il peccato è un’espressione o un fatto o un qualsiasi desiderio contrario con la legge eterna». Questa definizione non va intesa in senso legali-stico, ma nella prospettiva di una interpretazione personale della legge. Il peccato non è anzitutto l’infrazione di una norma, ma un atteggiamento di opposizione a Dio, autore della norma, anche quando essa è mediata da coloro che nella comunità partecipano al potere di orientare il cammino degli uomini. La legge non è una norma esterna, imposta dall’esterno, che frena o limita la libertà umana, ma è più radicalmente una dimensione che struttura l’essere umano in se stesso e ne orienta o stimola lo sviluppo. Il peccato non va inteso in un’ottica legalistica come pura disobbedienza a una legge: la disobbedienza è soprattutto in rapporto alla persona che è autore della legge e al valore che la legge esprime. La legge va vista nella sua giusta prospettiva: non è un fine, ma un mezzo e per questo non è assoluta, ma relativa ai valori assoluti che essa esprime, traducendoli e interpretan-doli nelle concrete situazioni storiche e umane. Più che la fedeltà quasi idolatrica alla legge, viene chiesta la fedeltà al suo spirito, alla sua vera finalità che è quella di condurre l’uomo a una più piena comunione con Dio. Questo ci porta a una concezione più serena, anche se più responsabilizzante del nostro rapporto con Dio. Peccatore è chi rifiuta lui e la sua volontà di amore che la norma ci fa conoscere.

Altre volte il peccato viene presentato come una offesa a Dio, ma anche questo antropomorfismo va compreso bene, altrimenti rischia di farci pensare che Dio sia permaloso, sia uno che se la lega al dito, e di farci dimenticare che il peccato è offesa a Dio in quanto con esso l’uomo agisce contro il proprio bene, offende se stesso, fatto ad immagine di Dio, chiamato al dialogo con lui, e fa del male ai fratelli, dei quali Dio è il difensore: «Ma forse costoro offendono me - oracolo del Signore - o non piuttosto se stessi a loro vergogna?» (Ger 7,19); «Se pecchi, che gli fai? Se moltiplichi i tuoi delitti, che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano? Su un uomo come te ricade la tua malizia, su un figlio d’uomo la tua giustizia» (Gb 35,5-8). Il peccato è offesa a Dio in quanto annulla il suo tentativo di amarci e di renderci beati. Scrive a questo propo-sito il Catechismo degli adulti, 928: «Devastando l’uomo, il peccato ferisce anche Dio: “Dio viene offeso da noi in quanto operiamo contro il nostro proprio bene” (s. Tommaso). Intangibile nella sua infinita perfezione, Dio si è reso vulnerabile legandosi a noi con l’alleanza, con amore appassionato. Il peccato è contro di lui perché è contro l’uomo».

Questa prima parte della parabola ci fa capire che il peccato è piuttosto l’allontanamento dell’uomo da Dio. Il peccato consiste nel non voler riconoscere che dobbiamo ricevere tutto dal Padre, nel considerarsi indipendenti da lui, nel sottrarci a lui, nell’impedirgli di volerci bene, di amarci effica-cemente, nel privarlo della gioia di averci come suoi figli, nel partire da lui, pensando di raggiunge-re una condizione migliore di quella vissuta con lui. Il peccato resta principalmente un atto con il quale l’uomo vuole negare la sua condizione di creatura, di figlio di Dio, asserisce di non avere bi-sogno di lui, anzi vede in lui quasi un rivale, dedito a difendere i suoi interessi e dal quale quindi è bene sottrarsi per godere la propria libertà. Il peccato del figlio minore consistette nell’abbandonare il padre, nel volersi ritenere completamente autonomo da lui; i vizi e la miseria nei quali poi grada-tamente è sceso non sono principalmente il suo peccato, ma sono piuttosto la conseguenza dell’iniziale abbandono del padre.

Anche nel Sal 51,6 c’è un’espressione simile a quella detta dal figlio prodigo: «Contro di te, contro te solo ho peccato». Con queste parole il salmista, istruito da Dio, entra nel fondo della propria veri-tà, riconosce che il suo sbaglio in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l’immagine di Dio, il rapporto con Dio. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro ad ogni uomo e ogni donna che noi trattiamo male, disprezziamo, inganniamo. Ci mettiamo contro Dio ogni volta che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e attendono da noi un gesto di carità e di giustizia. Tutti i problemi della storia (la giustizia, la pace, i rapporti familiari e sociali) sono il problema dell’uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce, lo aiuta a conoscersi nella verità. Il salmista ag-giunge poi: «Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto» (Sal 51,6): sa di aver fatto ciò che è male non davanti alla legge, ma davanti agli occhi di Dio, cioè al suo amore dal quale è stato progettato e

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creato. Nel Sal 51 e nella parabola del figlio prodigo il peccato è analizzato e vissuto in dialogo con Dio, davanti a Colui che può cambiare il cuore dell’uomo. Così il riconoscimento del peccato non ha nulla a che fare con il senso avvilente di colpa che deprime lo spirito e lo rende ancora più stanco e incapace di lottare.

Non sono poche le pagine bibliche - a partire da Gen 3 - da cui traspare che l’uomo si sottrae a Dio perché è convinto o per lo meno sospetta che egli sia un padrone interessato soltanto a se stesso, o-stile all’uomo e alla sua libertà: dunque una presenza ingombrante. Adamo ed Eva diffidano di Dio, considerato ormai come un rivale, interessato a proteggersi contro le sue creature. L’inizio della pa-rabola del figlio prodigo richiama il capitolo iniziale del profeta Isaia, che in gran parte è un acca-vallarsi di lamentele e di accuse da parte di Dio. Il rimprovero che apre il libro di questo profeta non lascia trasparire il furore di Dio, ma piuttosto il suo dispiacere perché è stato piantato in asso dai suoi figli: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non compren-de» (Is 1,2-3); «Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro» (Is 1,4; cfr. 1,21-23). Il discorso non fa perno sulla disobbedienza di Israele a un codice legalistico esterno, ma sulla rottura dei rapporti tra i figli e il loro Padre. La ribellione avviene no-nostante Dio sia stato largo di affetto e di premure: il suo popolo non è stato abbandonato né mal-trattato. A dispetto di questa paternità esercitata nel migliore dei modi, essi se ne sono andati, senza rendersi conto che Dio, loro Padre, si era sempre occupato del loro bene. In maniera simile si e-sprimono molte pagine del profeta Geremia: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri, per allontanarsi da me?» (Ger 2,5); «Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono l’acqua. Israe-le è forse uno schiavo o un servo nato in casa?» (Ger 2,13-14); «Tutto questo non ti accade forse perché hai abbandonato il Signore?» (Ger 2,17; cfr. 2,29-32; 3,1-2.19-21); «I tuoi figli mi hanno abbandonato, hanno giurato per chi non è Dio» (Ger 5,7; cfr. 8,4-7; 13,25); «O speranza d’Israele, Signore, quanti ti hanno abbandonato resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il Signore» (Ger 17,13; cfr. 18,13-15; 19,4). La memoria di quanto Dio ha fatto e la risposta negativa del popolo trovano la loro e-spressione più sconvolgente in Mi 6,3 («Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi!») e soprattutto in Os 11,1-11: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho tratto mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me... Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare... Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo alla mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira».

Il peccato del figlio minore consiste anche nella fretta: come Adamo ed Eva avevano avuto fretta di diventare subito eguali a Dio, rifiutando l’attesa, la durata, la fatica, analogamente il figlio minore reclama subito la parte di beni che gli spetta (Lc 15,12): è vero che non chiede più di quanto gli spetta, ma è altrettanto vero che rifiuta di attendere, di avere pazienza per imparare a gestire il pa-trimonio e soprattutto per imparare a gioire nella casa del padre. Vuole conquistare da sé il proprio piacere; «tutto e subito» sembra che sia il suo motto; volendo affermare troppo in fretta la sua liber-tà, cade sotto la schiavitù degli altri, perché diventare liberi, partecipi della natura divina, eredi del padre è anche questione di pazienza, di fedeltà, di vigilanza, di perseveranza.

Nel paese straniero il figlio sperimenta invece una vita catastrofica: dopo le relazioni affrettate, le esperienze deludenti, i divertimenti, dopo aver dilapidato i beni, è abbandonato da tutti e va incontro alla fame. Si aggrappa (si incolla dice il testo greco) a uno degli abitanti della regione pagana, deve istaurare con lui un rapporto di dipendenza, di schiavitù; si adatta alla possibilità di lavoro fornitagli da un pagano che lo fa il guardiano dei porci, gli animali impuri per eccellenza (Lv 11,7).

L’abietta condizione professionale e la drammatica situazione alimentare non sono il peccato ma le conseguenze del peccato e queste aiutano l’autocoscientizzazione del figlio minore; comprende che

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ha fallito non solo nel desiderio di avere una vita migliore di quella in casa del padre, ma anche nel-la necessità della mera sopravvivenza: si autoconvince della sua condizione miserevole, della situa-zione migliore dei salariati in casa del padre unicamente perché stanno con il padre, e decide di ab-bandonare lo stato in cui si trova e di far ritorno all’ambiente di vita precedente, adattandosi però al livello che gli compete nella contingenza attuale, dopo lo sbaglio fatto, dopo lo sperpero: quello di servo.

Quando ha toccato il fondo, il figlio minore rilegge la sua situazione il suo disagio, il cammino fat-to. Non si chiude nel suo inferno, nella sua disperazione, ma rientra in se stesso. Il suo rientro non è una conversione al padre, alla propria condizione di figlio, ma è una lettura utilitaristica: i salariati in casa del padre hanno pane abbondante e lui muore di fame. Decide di ritornare a casa solo per poter mangiare e vivere. Fa un monologo dal quale appare che ha già deciso tutto: confessarsi da-vanti al padre, che finora aveva offeso e considerato come morto, e dargli un ordine preciso: «trat-tami come un servo». Non si immagina nessuna parola del padre e nessun ascolto da parte propria, ma ha parole già pronte da dire per obbligare il padre alla logica dello scambio: chiede perdono, ma per avere un posto in casa; offre il proprio servizio, ma per avere il pane. Da figlio si considera ser-vo: ha già pensato e deciso tutto; basta solo che il padre accetti, obbedisca. In fondo questo figlio non è veramente pentito, non ha desiderio del padre, del suo vero volto; pensa di essere stato can-cellato dal libro di famiglia, perché ha dilapidato il patrimonio; resta sempre nella logica della giu-stizia retributiva.

Egli compie così il primo passo verso la conversione, ma questa non è ancora realizzata pienamen-te, perché è persuaso di dover convincere il padre a riaccoglierlo, di dover restituire quanto ha sper-perato, e perciò si dichiara disposto a lavorare come un servo. Egli cerca parole vere e profonde per farsi accettare non come figlio, ma come servo: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,19). Que-ste ultime parole tradiscono ancora la logica dell’uomo chiuso all’amore ineffabile di Dio: incapace di capire la bontà del Padre, pensa di doverlo intenerire e si rassegna alla sorte di operaio, ad essere trattato come un «servo», a pagare per lo sbaglio fatto. La soluzione di accogliere colui che aveva sbagliato, non più però come figlio, bensì come operaio, sarebbe stata approvata dagli uditori di Ge-sù: chi ha sbagliato deve pagare.

È proprio contro questa soluzione che Gesù vuole portare gli uditori. Il padre non lascerà pronuncia-re al figlio queste ultime parole, ma lo interromperà: egli non ha mai cessato di considerare il suo figlio come tale; il figlio invece ha rinchiuso il padre nelle proprie categorie anguste, riducendolo a uno che esige riparazione stretta e che degrada l’uomo finché egli non ha eseguito la completa ripa-razione del male compiuto. Il padre cancella questa falsa immagine che l’uomo ha di lui e che si ri-percuote anche sulla falsa immagine che l’uomo ha della propria dignità. Dio non vuole l’uomo «servo», ma «figlio», perciò il padre spezza le parole che il figlio si era preparato, perché egli non aveva mai cessato di considerarlo figlio. Perdonare non è far finta che il male non sia stato fatto, non è mettere un sasso sul passato, ma è molto di più. Il perdono di Dio è una riabilitazione comple-ta, perché perdonando Dio crea un cuore puro, dà uno Spirito saldo, uno Spirito santo, uno Spirito generoso, dà la gioia di essere salvati (Sal 51,12-14).

Di fronte all’accoglienza del padre, il figlio minore capisce che convertirsi significa prendere co-scienza del proprio allontanamento dal padre e ritornare a lui, significa scoprire la sua misericordia, sicuri di trovare soltanto l’amore e l’accoglienza. L’«offesa» che il figlio minore ha recato al padre non può essere riparata con un rito esterno e formale o con un risarcimento materiale, ma accettan-do di essere nuovamente trattato come figlio. Convertirsi ed espiare non significa calmare o mutare o ripagare Dio, ma cambiare se stessi, mutare il nostro modo di concepire il padre, disporsi ad acco-gliere il dono della sua paternità, rendersi graditi a lui permettendogli di amarci, di trattarci come figli e non come servi. Il Padre non ha bisogno di mutare le sue disposizioni: egli non ha mai di-menticato il figlio in tutto il periodo della sua lontananza, lo ha amato di amore eterno (cfr. Ger 31,3), lo vede quando giunge da lontano, fa subito scomparire i segni del peccato e dà spazio alla gioia del ritrovamento. È un Padre che non ha bisogno di essere ricompensato per perdonare; aspet-

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ta solo che, tornando a lui, ogni figlio gli dia la possibilità e la gioia di accoglierlo. «Veniamo ri-conciliati con uno che già ci vuol bene» (s. Agostino). Dio non deve essere mutato, ma il suo per-dono raggiunge efficacemente il figlio soltanto quando questi ritorna a cercare il suo volto di Padre.

Per questo la Bibbia ci ricorda che la conversione può avvenire solo con la grazia di Dio: «Fammi ritornare a te e io ritornerò» (Ger 31,18); «Facci ritornare, Signore, e noi ritorneremo» (Lam 5,21). Solo quando vede che il padre corre verso di lui, che gli si getta al collo e lo copre di baci, che non gli rivolge nessun rimprovero, che non si accerta se la sua conversione è vera, il figlio capisce che in quel padre c’è un amore incondizionato che egli non si sarebbe aspettato; perciò balbetta solo la prima parte delle parole che aveva preparate. Scopre un amore che non esige reciprocità, che non si nutre della legge del contraccambio, della simmetria. Di fronte a quell’eccesso di amore avviene la conversione del figlio: non ha nulla da chiedere al padre, soprattutto non ha più nulla da comandar-gli: dimentica gli scambi, le condizioni che si era prefissate; ha fiducia in lui, si abbandona a lui, qualunque cosa decida, perché ha capito che Dio è più grande del nostro cuore (1Gv 3,20). A questo punto il figlio perduto e morto è veramente rigenerato a vita nuova, alla relazione nuova con il pa-dre.

Il cammino del figlio minore ci ricorda che dal punto di vista cristiano ha senso parlare del peccato quando questo porta sempre a scoprire il perdono e la misericordia di Dio. È sempre la presa di co-scienza dell’amore di Dio, come misericordia e perdono in atto, che deve accompagnare la coscien-za del peccato. «La conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua misericordia, cioè quell’amore che è paziente e benigno, a misura del Creatore e Padre» (Dives in misericordia, 13). Ogni sentimento di paura, di vergogna, di scrupolo, di disperazione dopo il peccato non è dettato dalla fede in Dio, ma dal senso di colpa. La percezione teologica del peccato non è schiacciante, av-vilente, ma è sorgente di gioia, di libertà, di cammino verso l’accoglienza dell’amore di Dio. Così il senso del peccato appare in tutta la sua originalità: è impegno alla conversione, cioè all’apertura alla misericordia di Dio.

Se il peccato non è semplicemente una violazione della legge o una offesa a Dio, ma un allontana-mento da lui, il rifiuto di considerarlo Padre, va da sé che la conversione non può avvenire che ri-tornando a lui, riunendosi a lui, lasciandosi amare da lui. Per questo motivo la vicenda del figlio minore è raccontata secondo lo schema di un cammino prima di allontanamento e poi di ritorno dal padre. Con la partenza da casa era iniziata la degradazione, dal peccato iniziale sono nati tutti i di-sordini: la vita sregolata, la fame, il servizio presso un padrone pagano, l’umiliazione di pascolare i porci. Il cammino di ritorno ha inizio con un mutamento interiore: il figlio rientra in se stesso, fa un confronto tra la sua situazione di indigenza e di guardiano dei porci e quella di quanti vivono nella sua casa paterna e comprende che la casa del padre non è una prigione, ma un luogo di dignità e di libertà, comprende che la vera causa della sua miseria è stata la rottura dei rapporti con il padre. Se egli muore di fame è perché è lì dove è, lontano dal padre, mentre a casa sua perfino i servi, proprio perché sono presso il padre, vivono nell’abbondanza. Rinuncia quindi alla sua volontà di indipen-denza, a ciò che costituisce in fondo il suo peccato. Qui c’è un forte richiamo a quanti sono in casa: con la loro serenità e fiducia devono suscitare nostalgia in quanti si sono allontanati.

Assieme alla riscoperta del volto paterno di Dio, la conversione diventa per il figlio prodigo risco-perta della propria dignità: la aveva perduta allontanandosi dal padre, la riacquista ritornando da lui. «Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali, ma più im-portante di questi beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna. La situazione, in cui si venne a trovare al momento della perdita dei beni materiali, doveva renderlo cosciente della perdita di que-sta dignità... “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui muoio di fame!”... Sotto la superficie di queste parole si cela il dramma della dignità perduta, la coscienza della figliolanza sciupata... Attraverso la complessa situazione materiale, in cui il figliol prodigo era venuto a trovarsi a causa della sua leggerezza, a causa del peccato, era maturato il senso della digni-tà perduta... Quando egli decide di ritornare alla casa paterna, di chiedere al padre di essere accol-to... in condizione di mercenario... questa decisione è presa in piena coscienza di ciò che ha merita-to... e proprio questo ragionamento dimostra che, al centro della coscienza del figliol prodigo emer-

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ge il senso della dignità perduta, di quella dignità che scaturisce dal rapporto del figlio con il pa-dre... La sua condotta, infatti, che a suo giudizio l’aveva privato della dignità filiale, non doveva es-sere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire. Doveva anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Ep-pure si trattava, in fin dei conti, del proprio figlio, e tale rapporto non poteva essere né alienato, né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è consapevole, ed è appunto tale consape-volezza a mostrargli chiaramente la dignità perduta ed a fargli valutare rettamente il posto, che an-cora poteva spettargli nella casa del padre» (Dives in misericordia, 5).

Il figlio minore raffigura quella parte del nostro io che non si è lasciata amare. Il peccato del figlio prodigo è quello di essere andato via da casa e di aver impedito che il padre lo amasse. Questo pec-cato lo commettiamo più di quanto pensiamo. Non è scontata la disponibilità a lasciarsi amare; ab-biamo ricordato sopra che lasciarsi amare è divino, ma non è detto che lasciarsi amare sia sempre facile. Spesso molte difficoltà interiori nascono dalla mancanza della disponibilità a lasciarsi benvo-lere. Il figlio prodigo rappresenta quella parte del nostro io che, come Pietro, non vuole lasciarsi la-vare i piedi da Gesù Cristo, rappresenta quella parte del nostro io che ha preferito, lungo la nostra storia, l’impassibilità del cuore alla vulnerabilità della tenerezza, che ha preferito l’assenza di vinco-li e di legami al rischio di dover ricambiare l’amore ricevuto; rappresenta quella parte del nostro io che si è separata, allontanata, che si è isolata con una vita orientata alla ricerca di soddisfazioni im-mediate e disordinate, o quella parte che non è maturata sufficientemente, che è rimasta un po’ in-fantile o adolescenziale; oppure rappresenta quella parte della nostra storia non ancora integrata, quella porzione del passato non ancora riconosciuta come luogo di una particolare rivelazione e pre-senza di Dio. Ci sono dei pezzi della nostra storia che non sono stati ancora evangelizzati, nei quali non abbiamo ancora imparato a riconoscere la presenza misteriosa e nello stesso tempo amante di Dio. Il figlio prodigo in noi può essere costituito da quelle debolezze o da quei peccati non ancora visti e vissuti nella luce della misericordia di Dio, percepiti come una realtà che si vorrebbe solo dimenticare. Spesso pensiamo che l’oblio sia la terapia migliore e invece non è vero: il cristiano in-fatti è uno che ricorda, perché l’unico modo di credere è ricordare la presenza paterna di Dio in tutta la nostra storia.

Come è stato accennato, anche nel Sal 51 abbiamo un grande itinerario penitenziale. La prima parte del salmo esprime il riconoscimento di una situazione, i verbi sono all’indicativo ed espongono, sot-tolineano dei fatti: «riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi in-segni la sapienza». La seconda parte del salmo cambia tono, contiene una supplica e i verbi sono all’imperativo: «purificami, lavami, fammi sentire gioia e letizia, distogli lo sguardo dai miei pecca-ti, cancella le mie colpe, crea in me un cuore puro, non respingermi, non privarmi del tuo santo spi-rito, rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso». La terza parte manifesta il proposito, il progetto per l’avvenire e i verbi sono al futuro: «insegnerò agli erranti le tue vie, la mia lingua esalterà la tua giustizia». Esempio di questi due progetti possono essere rispettivamente Zaccheo, che dà la metà dei suoi beni ai poveri, e la Samaritana, che diventa missionaria presso i suoi concittadini.

Il cammino del figlio maggiore: dalla vita di servo a quella di fratello e di figlio La parabola potrebbe terminare con il ritorno del figlio perduto e la conseguente festa organizzata per lui dal padre. Invece il racconto continua e raggiunge un secondo punto culminante, dove prota-gonisti sono il padre e il figlio maggiore (Lc 15,25-32). Abbiamo una parabola con due finali, «a coda di rondine», come Mt 22,1-14; Lc 16,19-31, e in queste narrazioni il peso cade sempre sulla seconda parte. In questa seconda parte il figlio maggiore viene introdotto mentre rincasa dal lavoro giornaliero e così questo figlio, che è rimasto sempre ossequiente e servizievole attira forse su di sé la nostra simpatia; rispetto al minore egli è onesto, equilibrato, esecutore scrupoloso della volontà del padre. Ma la parabola dice che anche lui ha bisogno di conversione per entrare a far festa con il padre e con il fratello che è ritornato. Questo figlio, infatti, si stizzisce per tutto: per la festa di cui non capisce il motivo, per il padre, che ritiene troppo generoso verso il figlio minore così odioso,

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per la severità con cui si ritiene trattato finora dal padre. Questo figlio, esternamente obbediente e giusto, è scontento di tutto e per questo non si confessa di niente, ma accusa soltanto.

Per capire l’identità di questo figlio maggiore è opportuno ricordare le caratteristiche, spesso antite-tiche a quelle del figlio minore, con le quali viene presentato. Il minore va lontano da casa, dove sperpera tutto; lontano da casa la sua situazione non fa che peggiorare; il maggiore si trova lontano da casa nei campi a lavorare e avvicinandosi a casa sente una musica di festa. Ciò che ha fatto con-vertire il minore è stata la situazione di privazione; ciò che irrita il maggiore e gli fa prendere la de-cisione di non partecipare alla festa è il vitello grasso imbandito. La privazione fa preparare al mi-nore il discorso di ravvedimento da dire al padre («ho peccato contro di te»); il vitello grasso fa pre-parare al maggiore il discorso duro di rimprovero da dire al padre («non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici»). Del minore, che si è allontanato da casa, si dice: «Partì e si incamminò verso suo padre» (Lc 15,20); del maggiore, che è fuori casa a lavorare, si dice: «Si arrabbiò e non voleva entrare» (Lc 15,28). Il padre esce incontro al figlio minore per accoglierlo, ed esce anche incontro al figlio maggiore per supplicarlo ripetutamen-te (parekalei, «lo supplicava», è un imperfetto, che indica continuità: Lc 15,28). Il discorso del fi-glio minore viene troncato dal padre; al contrario, il discorso del figlio maggiore amplifica le infor-mazioni, ricevute dal servo, circa il comportamento del figlio minore, e il padre si guarda bene dall’interromperlo. Il padre si rivolge al figlio minore per mezzo dei servi, ordinando di portare il vestito, l’anello, i calzari; interpella invece direttamente il maggiore, chiamandolo affettuosamente «figlio mio» (teknon: Lc 15,31).

Per identificare ulteriormente il figlio maggiore è utile anche tener presenti i nomi che vengono dati ai protagonisti della parabola e il linguaggio che essi usano. Il primo protagonista è chiamato «pa-dre» sei volte dal narratore e cinque volte dal figlio minore. Il termine «figlio» è usato dal narratore per indicare il primogenito e il secondogenito; però quando il padre designa il secondogenito usa il termine yios (Lc 15,14), mentre rivolgendosi al primogenito usa il termine più affettuoso teknon, che equivale a «figlio mio», e aggiunge il pronome «tu» (Lc 15,31). Il minore è chiamato «tuo fra-tello» dal servo (Lc 15,27) e dal padre (Lc 15,32), quando ne parlano con il figlio maggiore. Questi invece non adopera mai né la parola «fratello» (qualifica il fratello con l’espressione piuttosto di-staccata se non addirittura dispregiativa: «questo tuo figlio»: Lc 15,30), né la parola «padre», e par-lando di se stesso nei confronti del padre usa il verbo «io ti servo» (Lc 15,29). Fino al ritorno del fi-glio minore il suo contegno sembra esternamente irreprensibile, ma non era per nulla mosso da un affetto filiale: si reputa giusto perché non ha trasgredito alcun precetto, ma in realtà non ha adem-piuto il dovere principale: quello di essere «figlio», accontentandosi invece di tenere il comporta-mento del servo, e quello di essere fratello, erigendosi invece a giudice implacabile.

Sta in casa, ma si considera come un servo che non ha per nulla percepito la tenerezza del padre. Sta in casa, ma non ha scoperto nemmeno lui il volto del padre: la sua comprensione del padre non è stata migliore di quella del fratello minore. Solo che il minore ha manifestato esternamente in ma-niera chiara la sua incomprensione del padre e se ne è allontanato; lui, invece, è rimasto a casa, ap-parentemente obbediente, ma in realtà con il cuore di servo («io ti servo da tanti anni »: Lc 15,29), prigioniero della sua solitudine e schiavo dei suoi interessi («non mi hai dato mai un capretto»: Lc 15,29). Il figlio maggiore non è meno lontano dal padre del figlio andato via da casa: la vicinanza fisica, infatti, non è stata vicinanza del cuore. Non avendo scoperto il padre come proprio padre, non scopre se stesso come figlio e non riconosce il secondogenito come suo fratello. Infatti lo de-scrive con tre caratteristiche che denotano disprezzo e gelosia: «questo tuo figlio», «quello che ha divorato le tue sostanze», «quello che è andato con le prostitute» (Lc 15,30). La prima definizione è fatta solo rispetto al padre e in termini di distacco dispregiativo; la seconda lo caratterizza unica-mente come distruttore dei beni del padre; la terza stigmatizza moralmente lo sperpero del denaro con donne di malaffare, senza che si capisca da dove il figlio maggiore abbia attinto questa infor-mazione. È palese che il figlio maggiore non vuole essere generoso verso il fratello che è tornato e perciò non capisce che la «consacrazione» festiva del vitello ritenuto migliore sia fatta proprio per lui. Le parole con le quali il padre lo invita a entrare e a fare festa lasciano capire chiaramente che

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egli vuole la vita di tutti e due i figli e che l’amore con cui egli circonda il primogenito può essere da questi scoperto solo con la pratica dell’amore fraterno: quando sarà capace di accogliere come fratello colui che si era allontanato ed è ritornato, quando sarà capace di perdonarlo, di usare la pa-rola «fratello», allora sarà capace di usare anche la parola «padre» e di capirne e gustarne il signifi-cato: «Chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20); «Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1Gv 4,11). Alla luce di questa seconda parte della parabola, la vita è una conversione anche all’amore che perdona e sana le ferite e le lacerazio-ni della storia; l’uomo deve superare la sua orgogliosa virtù di essere giusto e in tal modo la sua esi-stenza diventa vita fraterna e filiale.

Nella predicazione di Gesù le figure dei due fratelli riflettono innanzitutto il problema dei rapporti tra Israele e i pagani. Non è difficile scoprire nella figura del figlio minore il mondo pagano, che spende la vita lontano da Dio. Essi sono lontani da Dio (Ef 2,17) e la descrizione dei peccati del mondo pagano, fatta in Rm 1,18-32, è come una esemplificazione dei vizi del figlio prodigo. D’altra parte non è difficile vedere nel figlio maggiore il popolo eletto, Israele, rimasto sempre fedele nella casa del Padre: questo figlio rappresenta l’amarezza di Israele al momento della vocazione dei pa-gani, è l’Israele che si indigna perché ha servito Dio per tanti anni e non ha mai trasgredito un suo comando (Lc 15,29) e non vuole partecipare alle nozze del figlio nella Chiesa. Con le parole «Fi-glio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31) la misericordia di Dio invita Israe-le, chiede a Israele di entrare.

Ma il significato di questo fratello maggiore è ancora più vasto. Egli rappresenta in un certo senso l’uomo «devoto», rappresenta, cioè, quelli che sono rimasti con il Padre e non trasgrediscono i suoi comandi. Nel momento del ritorno del peccatore si fa viva l’invidia, il veleno nascosto nelle pro-fondità della loro anima. L’invidia mostra che molti «devoti» nel loro cuore nascondono anch’essi il desiderio per il paese lontano e per le sue promesse. L’invidia mostra che simili persone non hanno realmente capito la bellezza della patria, la felicità del «tutto ciò che è mio è tuo», la libertà di chi è figlio e proprietario; appare così che pure essi desiderano segretamente la felicità del paese lontano, che nei loro desideri sono partiti per questo paese, e non lo sanno, non lo vogliono riconoscere. Conseguentemente per queste persone la perdita della verità è ancora più pericolosa: non sentono che la necessità della conversione si impone anche a loro. E alla fine non entrano alla festa, alla fine rimangono fuori. Così sentiamo risuonare le parole tremende: «E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata!» (Lc 10,15). La figura del fratello maggiore ci costringe all’esame di coscienza; questa figura ci fa comprendere in che cosa consiste quella «giustizia» supe-riore della quale parla Gesù nel discorso della montagna (Mt 5,20; 6,33). Non solo l’adulterio ester-no, ma anche quello interno ci allontana da Dio; si può rimanere a casa e nello stesso tempo partire.

Possiamo quindi dire che il fratello maggiore raffigura i farisei contemporanei di Gesù, ma raffigura anche il fariseo, il censore severo e moralista di ogni tempo, che impedisce il processo di integra-zione; raffigura quel censore che abita in ciascuno di noi e che si oppone al ritorno, al ricupero di quella parte smarrita che vive dentro di noi e fuori di noi. Il fratello maggiore rappresenta colui che pensa che il vangelo è anzitutto impegno personale, sforzo, fatica per conquistare il premio, e che scambia il peccato con «la bella vita» o «la dolce vita». Il figlio maggiore non ha capito che vivere il vangelo è soprattutto «pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), è realizzare le nostre aspira-zioni più profonde, mentre il peccato è fallimento, distrugge, fa soffrire, rende vittime, porta già con sé la pena. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore suscita in lui l’amara sensazione che la sua fatica di stare nella casa del padre sia del tutto sprecata: se il peccatore è trattato in quel mo-do, a che serve essere giusti? Nella paura di perdere i suoi meriti o forse di venir meno al suo impe-gno faticoso, vorrebbe che il peccatore venisse trattato duramente, dimenticando che il castigo del peccato è il peccato stesso. Il figlio maggiore è sì credente, ma in un Dio severo e intransigente che si è costruito lui e che non corrisponde al Dio rivelato da Gesù.

Il figlio maggiore ci ricorda che dentro di noi c’è un nemico che ci impedisce di guarire la nostra memoria, il nostro passato, di vivere con riconoscenza il vangelo e di guardare con occhio benevolo quanti sbagliano. Il fratello maggiore è quella parte dell’io che ancora confonde la santità con la

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perfezione delle proprie prestazioni, con l’esibizione delle proprie osservanze, con la presunzione mal celata di essere artefice delle proprie virtù, con la pretesa di presentarsi davanti a Dio con le carte in regola e migliore degli altri. Il fratello maggiore è quella parte dell’io che si risolve rego-larmente in condanna senza pietà nei confronti degli altri; è quella parte dell’io ingrato e incapace di riconoscenza per il dono della fede, è quella parte del nostro io che non ha ancora imparato la pre-ghiera di lode e di ringraziamento, che non ha ancora capito che tutto quello che noi abbiamo, che noi siamo, è dono ricevuto e che, per quanto facciamo, non pareggeremo mai il conto con tutto quello che abbiamo ricevuto e avremo sempre bisogno di celebrare la misericordia del Padre. Il fra-tello maggiore è l’io triste e depresso, incapace di far festa o di partecipare alla festa degli altri, è l’io rigido e perciò indignato per la prodigalità della misericordia che egli ritiene «ingiustizia», è l’io rigido che non comprende il dramma del fratello minore, non soffre e non gioisce con lui.

Il figlio maggiore ci ricorda che in genere due sono gli atteggiamenti umani davanti al peccato: sono uno opposto all’altro e nessuno dei due è secondo lo Spirito di Cristo. Il primo è la condanna dura, severa, il secondo invece è una facile indulgenza. Condanniamo con severità, pensando che almeno noi non siamo come questi peccatori e facendo questa separazione ci costruiamo dentro una certa sicurezza. È un atteggiamento falso, perché orgoglioso: il Signore non ci ha insegnato a separarci dai peccatori, ma a metterci con loro, a portare il peso del peccato del mondo. Quando poi non con-danniamo, siamo portati a prendere un atteggiamento opposto conciliante e diciamo: «Sì, quella persona non è a posto, ma non ha colpa, non capisce, è vittima delle circostanze, della società». In tal modo ci liberiamo dal peso della lotta contro il peccato, quasi giustificandolo con le parole, con i nostri giudizi indulgenti. Gesù non diminuisce la gravità del peccato, sa che il male inquina l’uomo, che è una perdita grave. Per questo la sua indulgenza non è una indulgenza facile. Essendosi messo dalla parte dei peccatori, egli prende su di sé la pena, la sofferenza del peccato e solo in questa ma-niera può essere indulgente e donare il perdono di Dio.

Possiamo quindi riassumere così la situazione dei due figli: nessuno dei due ha capito il cuore del Padre. Entrambi pensano di sapere che cosa vogliono e di essere capaci di autogestirsi. Il figlio mi-nore pone la propria sicurezza e la propria felicità nelle ricchezze e nel divertimento lontano dal pa-dre; il figlio maggiore pone le proprie certezze nell’osservanza della legge e nell’adempimento del dovere. Si comportano entrambi da servi che reclamano per sé il dovuto e non sanno riconoscere che tutto è dono gratuito del Padre: non sono entrati nella logica dell’amore. Comprendiamo anche in che cosa consiste la giustizia cristiana: essa consiste nel «no» all’invidia e nel «sì» alla miseri-cordia divina, consiste nel partecipare alla misericordia divina mediante la nostra misericordia fra-terna. La conversione è la scoperta del primato di Dio: operi Dei nihil praeponatur dice s. Benedet-to e questo assioma non vale solo per i monaci, ma deve essere la regola di vita per ogni uomo. Do-ve Dio è riconosciuto con tutto il cuore, dove Dio sta in onore, anche l’uomo sta bene. Dio è e ri-mane il primo bisogno dell’uomo e dove si mette tra parentesi la presenza di Dio si esclude l’umanità dell’uomo, si segue la tentazione del diavolo nel deserto, e alla fine l’uomo non viene sal-vato, ma distrutto. Questo vuol dire Gesù con l’invito: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giu-stizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).

Conclusione «Mi alzerò e andrò da mio padre», dice il figlio minore. «Egli si indignò e non voleva entrare», si dice del maggiore. Sembra proprio che questi due figli ci rappresentino, che in essi ci sia qualcosa che caratterizza tutti noi. Ognuno di noi è un credente che contemporaneamente ha dentro di sé il non credente; questo non credente che è in noi ci rivolge le sue domande inquietanti e a lui noi pos-siamo rivolgere la risposta di luce che ci viene dall’amore del Padre. La parabola non rivela solo il volto del Padre, ma obbliga anche i figli a riscoprire il Padre, a prendere maggiore coscienza della loro identità di figli e di conseguenza a riconoscersi fratelli. Certo, l’essere figli è un’esperienza an-tropologica primaria, comprensibile a qualsiasi uomo, credente o no. Ed è l’esperienza più universa-le: non tutti possono essere padri, ma certamente tutti sono figli. Si è figli in senso autentico e non

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solo fisiologico quando si avverte che all’origine della propria esistenza non c’è stato il caso o la necessità, ma una decisione libera, un atto di amore. Essere amato è, o dovrebbe essere, la prima percezione di un bambino che viene al mondo: gratuitamente amato, liberamente accolto, proprio lui, nella sua singolarità, comunque sia. Sta qui la radice della libertà, della serenità e della sicurez-za che lo accompagneranno per tutta la vita. Tutto questo fa parte della nostra esperienza e diventa per il credente una parabola del suo rapporto con Dio.

Dio è il Padre che ama tutti, che non esclude nessuno dalla sua salvezza. Ai peccatori egli accorda una priorità e li riempie della sua misericordia. Ma questa immagine troppo paterna di Dio, questa immagine che dà o ridona fiducia a quanti rischiano di scoraggiarsi per le loro miserie, ha la sua contropartita: il trattamento di favore riservato ai peccatori urta contro una certa concezione della giustizia di Dio, tipica di chi ritiene che egli sia intento a premiare il bene e soprattutto a punire il male o a esigerne una puntigliosa riparazione. Si preferisce un Dio che lascia agli uomini scegliere e sbrogliarsela come possono, pronto poi a pesare le opere di ciascuno alla fine del percorso? Si vuole concepire Dio come una bilancia che si limita a registrare scrupolosamente i pesi e i valori? Ebbene, il Dio del vangelo, rivelatoci da Gesù, non è così, non è neutrale o peggio ancora rigido calcolatore dei nostri peccati, ma vuole appassionatamente la vita di tutti e in particolare quella dei peccatori, dei poveri. Tutti, del resto, siamo peccatori e poveri e allora Dio è pronto ad affrontare una condotta che sembra irrazionale, perché è ispirata dalla logica della bontà preveniente e del perdono, perché vuole venire incontro alla tensione verso l’infinito che è presente in ogni uomo: «Si cerca Dio per trovarlo con maggiore dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore» (s. Agostino).

La parabola del Padre misericordioso ci ricorda che il figlio minore arriva a scoprire e ad accettare il Padre attraverso l’esperienza del peccato e del perdono. Noi però non siamo in grado di compiere da soli il ritorno verso il Padre; per questo già l’Antico Testamento pregava: «Fammi ritornare e io ritornerò» (Ger 31,18); «Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo» (Lam 5,21). Poiché non siamo in grado di ritornare da soli al Padre, Gesù è venuto e si è fatto buon Pastore, anzi ha assunto la nostra condizione di pecora smarrita, di figlio prodigo, si è fatto pienamente solidale con noi, di-ventando per noi addirittura peccato e maledizione (2Cor 5,21; Gal 3,13), sottomettendosi cioè agli effetti negativi di quella potenza di morte che è il peccato. Gesù, per primo, con la sua fiducia e la sua obbedienza incondizionate al Padre fino alla morte, è ritornato a lui e non solo a titolo persona-le, ma a nome di tutta l’umanità peccatrice. È ritornato per noi e al nostro posto, perché noi non ne eravamo capaci, ma non è ritornato senza di noi, senza la nostra adesione alla sua fiducia e alla sua obbedienza al Padre. Se ci uniamo a Gesù, all’amore verso il Padre testimoniato nella sua morte e risurrezione, se siamo capaci di comprendere e di accogliere l’amore del Padre, possiamo diventare suoi veri figli, che ritornano a vivere con serenità nella compagnia paterna.

Il figlio maggiore vive con il padre in casa, ma con il cuore di servo, e per questo non ha nessuna comprensione per il fratello che ha sbagliato e che è ritornato, non sa perciò apprezzare l’amore perdonante del padre e non capisce che la sua grazia amorosa ha avvolto anche tutta la propria vita. Questo figlio maggiore ci ricorda che alla conoscenza del Padre si arriva riconoscendo che egli condivide tutto con noi, fino a donarci il suo unico Figlio, e ci ricorda pure che alla conoscenza del Padre si arriva percorrendo la via dell’accoglienza del fratello, accettando cioè che tutti siano figli del medesimo Padre, da lui amati e perdonati, e perciò preziosi. La paternità di Dio può essere sco-perta o con il lasciarsi amare, riempire dei suoi doni e perdonare da lui, o con la pratica dell’amore fraterno, concretizzata nella disponibilità ad accogliere gli altri, a perdonarli e soprattutto a gioire per la loro presenza. Alla paternità di Dio non può rispondere altro che un mondo filiale e quindi fraterno.

La figura del figlio maggiore ci fa fare un’ultima riflessione: contrariamente al suo modo di ragio-nare, il padre ha condonato tutto al figlio minore, non gli ha permesso di farsi servo per restituire i beni. La Chiesa sa che è chiamata a essere Chiesa dei poveri, cioè con i poveri, per i poveri, ma an-che Chiesa di poveri, cioè fatta di poveri. La Chiesa sa che il termine «povero» ha non solo un si-gnificato economico, ma anche un significato sociologico, politico, religioso, morale: povero è so-prattutto colui che non conta, che non viene interpellato quando si prendono decisioni che lo riguar-

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dano, povero è colui che teme gli altri, il futuro, la morte, teme perfino di amare Dio e di affidarsi a lui, povero è chi diffida e dispera. Siccome la parola povero non comprende l’ampiezza di significa-to che esso ha nella Bibbia e nella società, i documenti pastorali più recenti della Chiesa italiana af-fermano che per i cristiani è necessaria e prioritaria la scelta degli «ultimi».

Dio è Padre, è storia, è umiltà, è speranza, accetta il fallimento temporaneo, è compassione materna, è fedeltà paterna, è amore concreto; Dio prova gioia per l’uomo, soffre con l’uomo e per l’uomo, è vita per l’uomo, è comunione totale con l’uomo. Dio è un Padre, prodigo nell’amarci; Dio Padre è e rimane mistero. Forse questi titoli fanno perdere al parlare cristiano su Dio in universalità e raziona-lità, ma fanno certamente guadagnare ad esso in singolarità e sapienza evangelica e perciò in pro-fondità di conoscenza. Abbiamo visto che la cultura moderna, nel solco dell’Illuminismo, ha inau-gurato il distacco dell’uomo da Dio Padre nel segno del riscatto della dignità dell’uomo, della sua capacità di autodeterminazione, del rifiuto di una tutela soffocante. D’altra parte il «pensiero debo-le» che accompagna il nostro tempo rivendica la singolarità di ogni ricerca, l’orizzonte intimistico, particolare e, contemporaneamente, gratuito e spontaneo di ogni cammino spirituale. Possiamo dire che da un lato Dio non vuole essere capito come il Padre-padrone che finalmente è ritornato in pos-sesso del suo ruolo, ma vuole essere capito come il Padre che permette all’uomo il necessario e pe-ricoloso esperimento della libertà, come colui che lo incoraggia nel suo cammino di libertà; dall’altro lato possiamo dire che Dio Padre vuole essere capito non secondo una immagine metafisi-ca, ma come colui che asseconda il nostro bisogno di tenerezza, di interiorità, di intimità, di comu-nione, di spontaneità tanto sottolineato dalla cultura contemporanea, come colui che ci chiama a su-perare ogni violenza, che ci apre alla vera fratellanza, rispettosa dei diritti dell’altro e attenta alle sue attese. Soprattutto siamo chiamati a capire che Dio rimane il mistero insondabile e indicibile, che può essere parzialmente intuito e gustato nel silenzio, nella preghiera, nell’adorazione.

Per tutti è difficile scoprire Dio come Padre, ma nessuno scopre e vive la propria identità umana senza scoprire e celebrare la paternità di Dio. Tertulliano amava dire: «Beati coloro che conoscono il Padre», che sentono Dio come Padre. Veramente possiamo ripetere l’invocazione: «Signore, a-scolta, Padre perdona, fa’ che vediamo il tuo amore!»; possiamo rivolgerci allo Spirito Santo con l’invocazione dell’inno Veni Creator e dirgli: «Per te sciamus da Patrem», «Svelaci il grande mi-stero di Dio Padre e del Figlio, uniti in un solo amore». Gesù ha trovato l’uomo nemico di Dio, con il cuore di schiavo, con un certo rancore o per lo meno con un certo sospetto verso Dio. Per farci di-ventare figli di Dio ci ha donato il suo Spirito che lo ha portato ad agire, a parlare, a vivere e a mori-re nell’amore del Padre, perché l’identità di Dio può essere scoperta solo con il dono dello Spirito Santo; solo lo Spirito ci fa rinascere, ci apre gli occhi, ci fa vedere che Dio ci ama e soffre con noi fino al punto da dare il suo Figlio per noi e da vincere la nostra morte.

«Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio» (Ger 3,19): questo eterno e struggente progetto che Dio ha di essere conosciuto e invocato da ogni uomo e da ogni donna con il tenero nome di Padre final-mente incomincia ad essere portato a compimento in noi dallo Spirito Santo. Egli ci dà un cuore nuovo, attesta dentro di noi che non siamo schiavi, ma figli, ci aiuta a fare quanto il Padre ci co-manda, convinti che lì è il nostro bene; solo lo Spirito ci fa sentire figli di Dio capaci di rivolgerci a lui, in ogni situazione, dicendogli con un rapporto di semplicità e di immediatezza: «Abbà, Padre!» (cfr. Gal 4,4-7; Rm 8,14-17).

Nella nostra vita ci emancipiamo progressivamente, man mano che cresciamo: ci emancipiamo dal ventre materno e dalle braccia materna, dalla mano paterna, dai maestri di scuola, dalla potestà dei genitori. Si può immaginare anche la pensione una emancipazione, ma per cadere nelle mani dei medici, delle infermiere e delle badanti. Dalla relazione filiale con Dio Padre non ci emancipiamo mai, anzi cresciamo e ci irrobustiamo in essa. Il Padre vuole esercitare sempre più su di noi la sua amorosa patria potestà. Sentirla e viverla è un atto di maturità spirituale: noi possiamo sentirci nuo-vamente fanciulli, fanciulli adulti, fanciulli carichi di esperienza, fanciulli sapienti. Molti ricordi grati della nostra fanciullezza e adolescenza si raccolgono nella nostra mente una volta trasfigurati alla luce della paternità di Dio.

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SALMO 51 (50) 1Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.

2 Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con

Betsabea. Prima parte: sotto il segno del peccato Invocazione iniziale

3 Pietà di me, o Dio

nella tua grande misericordia , nel tuo amore;

cancella la mia iniquità. 4 Lavami tutto dalla mia colpa,

dal mio peccato rendimi puro. Confessione del peccato

5 Sì, le mie iniquità io le riconosco,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi. 6 Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto: così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio. 7 Ecco, nella colpa io sono nato,

nel peccato mi ha concepito mia madre. 8 Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo,

nel segreto del cuore mi insegni la sapienza. Nuova invocazione per ottenere il perdono dei peccati

9 Aspergimi (rendimi puro dal peccato) con rami d’issòpo e sarò puro;

lavami e sarò più bianco della neve. 10

Fammi sentire gioia e letizia: esulteranno le ossa che hai spezzato. 11

Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.

Seconda parte: nel regno della grazia Epiclesi

12 Crea in me, o Dio

rinnova in me uno spirito saldo. , un cuore puro,

13 Non scacciarmi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito. 14

Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso.

Voto o promessa: il sacrificio gradito a Dio 15

Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. 16

Liberami dal sangue, o Dio, Dio la mia lingua esalterà la tua giustizia.

mia salvezza:

17 Signore

e la mia bocca proclami la tua lode. , apri le mie labbra

18 Tu non gradisci il sacrificio;

se offro olocausti, tu non li accetti. 19

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio un cuore contrito e affranto tu, o

; Dio, non disprezzi.

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La ricostruzione di Gerusalemme 20

Nella tua bontà fa’ grazia a Sion, ricostruisci le mura di Gerusalemme. 21

Allora gradirai i sacrifici legittimi, l’olocausto e l’intera oblazione; allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

Premessa Israele ha raccontato e cantato entusiasta il mondo buono, opera del Dio buono (Gen 1). Ha definito ogni uomo immagine di Dio, si è ritenuto la pupilla del suo Dio (Dt 32,10). Nessuno ha mai parlato di sé, del suo paese, della sua terra e soprattutto del suo Dio con tanto entusiasmo. Contemporane-amente, però, e in forte contrasto con tutto questo, si deve ribadire che nessuno ha parlato delle col-pe di Israele e degli individui più realisticamente e apertamente del popolo biblico. Mai Israele si è abbandonato all’illusione dell’innocenza, rimuovendo o addirittura abbellendo la colpa. Narratori e profeti, maestri di sapienza e poeti dei salmi sapevano dell’enigma del male e della tendenza degli uomini al male. Hanno sottolineato la responsabilità degli uomini, chiamando concretamente con il loro nome i peccati. Non ne hanno escluso nessuno: non hanno risparmiato né i santi patriarchi, né i tre fratelli Aronne, Miriam e Mosè, né i re. Israele non mistifica la sua storia: conosce quello che noi oggi chiamiamo la colpa sociale e strutturale. Continuamente e ripetutamente ha messo gli uo-mini di fronte alla potenza distruttiva del peccato e ha invitato i peccatori ad abbandonare le vie del peccato, ad imboccare la via della conversione. Soprattutto Israele ha inculcato l’idea che il peccato è negazione di Dio, tradimento di se stessi, distruzione dell’ordine della vita dato da Dio. Il Dio bi-blico pronuncia il giudizio sui peccati e sui peccatori, come emerge dal Sal 50, tuttavia non vuole condannare i peccatori, ma rimettere i peccati, come emerge dal Sal 51, perché Dio ama e vuole la vita dei peccatori, vuole che i peccatori sperimentino la sua sollecitudine e rende loro possibile un nuovo inizio.

Genere letterario, posizione nel Salterio e struttura «Pietà di me, o Dio!» (Miserere mei, Deus): è il grido di tanti credenti che in questo salmo hanno trovato forza e luce per comprendere non solo il proprio peccato, ma per comprendere soprattutto la grandezza dell’amore di Dio. Il Sal 51 è uno dei più conosciuti; non è solo l’espressione poetica di una grande esperienza religiosa, profondamente umana, ma è anche la rivelazione di quell’aspetto del volto di Dio che forse è il più bello: quello della sua misericordia. Questo salmo è una confes-sione individuale di peccato e insieme una richiesta di perdono: può essere descritto come un vero e proprio cammino pasquale di riconciliazione con Dio. La ricchezza di questo salmo è stupenda, ci incanta per l’ampiezza dei sentimenti che evoca e la tenerezza, la sagacità, la psicologia, la finezza delle parole. In esso si riflettono i movimenti cattivi e tutti i movimenti di bene presenti nel cuore umano.

Tutti noi conosciamo bene che cosa può avvenire nell’uomo dopo un peccato grave e sentito come tale: uno scoraggiamento, una depressione, una grande rabbia contro se stessi, una specie di rivolta contro di sé, perché la propria immagine è stata svilita, perché il peccato ha messo a nudo la propria naturale fragilità. Allora si fugge dal riconoscimento del peccato, si tenta di minimizzarlo, si ricorre a una certa autogiustificazione, come se non fosse niente di importante. Di tutte queste cose forse è stato tentato anche l’autore del Sal 51, eppure questo peccatore sente che non è lasciato solo in balìa dei suoi rimorsi, ma che si trova davanti a qualcuno che lo ama, perciò la sua preghiera è ricca di confidenza, è sostenuta dalla certezza della fedeltà dell’amore di Dio, è tutta una celebrazione della gratuità divina della salvezza dal peccato. Il Sal 51 ha la capacità straordinaria di penetrare nel cuo-re umano e proprio per questo non è facile commentarlo. Il salmo, infatti, è composto come una sin-fonia del cuore e perciò riprende temi già espressi.

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Il Sal 51 appartiene al genere letterario delle suppliche individuali ed è il più noto dei sette salmi penitenziali (Sal 6.32.38.51.102.130.143). L’orante, però, non è un malato, come molte volte avvie-ne in questo genere di salmi; il riferimento alle ossa spezzate non allude a una malattia fisica. Nel salmo mancano anche i nemici e le relative invettive contro di essi e non troviamo nemmeno pro-fessioni di innocenza da parte dell’orante. Egli non espone il caso, la sua situazione penosa per in-durre Dio a intervenire in proprio favore; questa esposizione è sostituita dalla confessione del pec-cato (v. 6), fatta in maniera talmente radicale da non trovare parallelo in nessun altro salmo. Due termini ricorrono sette volte: la radice «peccato» (chatta’) ricorre sei volte in bocca all’orante che si confessa peccatore (vv. 4.5.6.7.9.11) e una settima volta è usata a indicare i peccatori che l’orante, dopo essere stati purificato, intende condurre sulla retta via (v. 15). Anche il nome divino ricorre sette volte: una con il termine Signore, jhwh (v. 17) e sei volte con il termine Dio, ’elohim (vv. 3.12.16[bis].19[bis]). L’orante si trova stretto tra l’esperienza della soverchiante potenza del pecca-to e l’apertura alla forza liberante della grazia di Dio. L’elemento determinante del salmo non è il peccato, ma l’amore fedele di Dio.

Il salmo inizia con la soprascritta o titolo (vv. 1-2), che non fa parte del testo originario, e che ri-conduce questa composizione al momento del peccato di Davide e alla successiva confessione della propria colpa (2Sam 11-12). Davide non può essere l’autore, perché questo salmo risente chiara-mente dell’influsso dei profeti Geremia ed Ezechiele. Tuttavia, anche se è stata aggiunta posterior-mente, la soprascritta è interessante: veicola una tradizione che vede in Davide l’orante del salmo, dopo aver commesso il peccato e però anche dopo aver ascoltato la denuncia del profeta Natan. Questa soprascritta è una delle tredici contenenti notizie storiche sulla vita di Davide (Sal 3; 7; 18; 34; 51; 52; 54; 56; 57; 59; 60; 67; 142). Tutte queste tredici occasioni ricordate ci rinviano a situa-zioni di debolezza di Davide, a momenti difficili della sua vita, non alla grandezza della sua regali-tà. Queste soprascritte tendono a fare di Davide il modello degli oranti: il re diventa un modello da imitare da parte dei credenti, quando si trovano in situazioni analoghe a quelle in cui si trovò Davi-de. Essi possono trovare nella sua preghiera le parole adatte alla loro preghiera: «con la stessa since-rità e lo stesso ardore con cui era andato da Betsabea, Davide si rivolse a Dio e gli disse il suo can-to» (Rabbi Shalom); «Davide ha reso sublime il giogo del pentimento» (Talmud).

Il peccato di Davide, che fece uccidere Uria per nascondere il suo adulterio, e il suo pentimento so-no rimasti come simbolo del «male» e del «perdono». Perciò sullo sfondo attuale del Sal 51 c’è an-che la tragica distruzione di Gerusalemme che diede inizio alla deportazione in Babilonia: così la risonanza del peccato diventa collettiva, come collettiva è anche la ripercussione della conversione che porta alla riedificazione delle mura di Gerusalemme (Sal 51,20-21). Nel Sal 51 abbiamo l’applicazione all’individuo e all’intera comunità delle promesse di stipulazione della nuova allean-za che Geremia ed Ezechiele avevano rivolto all’intero popolo.

Attualmente il Sal 51 va letto in coppia con il precedente, il Sal 50, al quale è strettamente congiun-to: i due salmi costituiscono un dittico, suggeriscono i due momenti di una liturgia penitenziale. Nel Sal 50 Dio chiama in causa il popolo di Israele, denunciandone i peccati e ponendolo di fronte alle sue responsabilità. Nella parte finale il Sal 50 ci dice che di fronte alla requisitoria di Dio, di fronte alla sua invettiva ci sono due uscite: l’indurimento o il pentimento. La parola di Dio interpella l’uomo, ha una capacità requisitoria, ma nello stesso tempo in cui accusa offre anche il perdono e la forza di convertirsi. La lode totale che sale dal cuore, o meglio, la confessione totale che sale dalla coscienza è la prima risposta attesa da Dio. La salvezza non sta nei sacrifici, anche se sono istitu-zionali, ma viene attraverso la confessione della propria situazione e il proposito di emendarsi. È ponendosi in questo itinerario che l’uomo offre a Dio l’atto religioso che dà valore a tutti gli altri.

La risposta più profonda alla requisitoria (rîb) di Dio, fatta nel Sal 50, è costituita da tutto il Sal 51. Di fronte alla requisitoria di Dio l’uomo riconosce le proprie colpe, l’uomo esprime la confessione del suo peccato. Negli errori di Davide la comunità riconosce le proprie colpe, chiede perdono al Dio di Sion, salvatore e creatore, certa che Dio non disprezza i cuori contriti e che si compiace di chi lo onora con sacrifici di rendimento di grazie. Al riconoscimento delle colpe da parte del colpe-vole, infatti, non segue la condanna, come ci aspetteremmo in un regolare processo. Segue invece la

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domanda di perdono gratuito e di rinnovamento. Il salmista è certo di questo dono, al punto che pregusta la gioia di essere salvato, di tornare a vivere rapporti filiali con Dio e fraterni con gli uo-mini, di poter riprendere nel tempio ricostruito i sacrifici cruenti, animati da un cuore rinnovato.

Il Sal 51 è strutturato in due parti, entrambe delimitate da una inclusione: «cancella» (vv. 3.11) e «cuore, spirito» (vv. 12-19). Nella prima parte l’orante eleva a Dio la sua richiesta di perdono e vol-ge quindi lo sguardo al proprio passato, con il suo carico di miseria. La parte si apre con una invo-cazione fiduciosa di grazia, rivolta a Dio misericordioso e pietoso (vv. 3-4); sviluppa poi la confes-sione del peccato, ricorrendo a un’ampia terminologia (peccato, colpa, delitto, iniquità, male, san-gue), così da evocare la gravità e la varietà delle trasgressioni (vv. 3-8); segue la richiesta del per-dono (vv. 9-11). Il tono prevalente della prima parte è l’angoscia per il peccato e l’insistente richie-sta di purificazione: il peccato è nominato con quattro parole diverse che ricorrono nell’insieme per dodici volte: sei volte ricorre il termine chatta’, altre sei volte complessivamente ricorrono i tre ter-mini pesha‘, ra’, ‘awon, per un totale di dodici volte: il numero sei indica imperfezione e la ripeti-zione del numero sei lascia intendere che si tratta di una imperfezione totale che travolge l’uomo nel profondo del suo essere. A questi termini fanno da riscontro i verbi che designano le azioni che Dio è richiesto di compiere: aver pietà, cancellare, lavare, purificare, far sentire, distogliere lo sguardo. Al centro di questa prima parte però non sta il peccato, ma la confessione del peccato che diventa proclamazione della giustizia di Dio (v. 6). Riconoscere il peccato è sempre iniziare un cammino con il quale si trova che al centro della propria esistenza c’è un Dio fedele e misericordioso. Questa prima parte incomincia con una triplice descrizione di chi è Dio, di che cosa è il peccato e di che cosa è il perdono.

Nella seconda parte l’orante approfondisce la sua supplica ed esprime la richiesta di essere trasfor-mato in una nuova creatura. All’inizio di questa parte abbiamo il verbo «creare» (bara’) e al centro sta la giustizia di Dio (v. 16), intesa come forza di ri-creazione e di rinnovamento radicale del cuore dell’uomo. In questa seconda parte un ruolo chiave è costituito dai vv. 12-14 che la aprono e che sono chiamati «epiclesi», perché sono una triplice invocazione del dono dello Spirito. Poi si sottoli-nea che il cuore contrito è il vero sacrificio gradito a Dio.

Il v. 19 costituisce una conclusione, una sintesi finale: cinque delle parole di cui è composto sono una ripetizione di termini già menzionati nel resto del salmo (sacrifico, Dio, spirito, cuore, essere spezzato) e sembra quindi una ricapitolazione. Secondo molti perciò i successivi vv. 20-21 sono un’aggiunta posteriore che rispecchia la situazione del postesilio. Il tema che essi introducono, in-fatti, non è una chiara conseguenza di quanto il salmo mette in evidenza fino al v. 19; inoltre il vo-cabolario usato nel v. 20 non ha corrispondenza con quanto precede. D’altra parte, però, i due ver-setti finali approfondiscono il tema del sacrificio e allargano lo sguardo dell’orante alla dimensione comunitaria del peccato e della conversione.

Sotto il segno del peccato (vv. 3-11) Invocazione fiduciosa iniziale Dopo la sovrascritta, il salmo si apre con una solenne invocazione rivolta a Dio con quattro impera-tivi (vv. 3-4). Di solito nei salmi il peccatore incomincia con la confessione dei peccati; qui, invece, inizia con l’invocazione e così viene sottolineata l’iniziativa di Dio, la sua superiorità e l’urgente bi-sogno del suo aiuto. Il salmista nel v. 3 manifesta la sua fiducia in Dio e gli riconosce tre attributi: Dio è colui che fa grazia («Pietà di me, o Dio», alla lettera è: «Fammi grazia, o Dio», dal verbo chanan che indica l’atteggiamento con il quale il superiore si china, si abbassa sull’inferiore e ha pietà di lui; questo verbo ricorre trenta volte nel Salterio); poi Dio è amore, misericordia, fedeltà (chesed) che non viene mai meno, neanche di fronte alle trasgressioni umane: è uno dei vocaboli ti-pici dell’alleanza; infine Dio è tenerezza materna, capacità di immedesimarsi nella nostra situazione (rachamim). Il salmista si appella a Dio, ricorrendo alle tre parole con le quali egli si è rivelato a

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Mosè sul Sinai (Es 34,6): si è presentato come il Dio misericordioso (rachum), pietoso (channun) e fedele (chesed).

Il peccatore confida nel cuore di Dio, non avendo in se stesso nulla da far valere. «È detto bene che le nostre miserie sono il trono della divina misericordia. È detto meglio ancora, che il nome e l’appellativo più bello di Dio sia questo: misericordia» (Giovanni XXIII, Il giornale dell’anima, E-sercizi spirituali 25 novembre – 1 dicembre 1940).

Il secondo aspetto della preghiera penitente è quello più ampiamente sviluppato e consiste nella confessione del peccato. Anche la situazione di peccato dell’uomo è presentata con tre termini, che poi verranno ampliati: iniquità (pesha‘), che significa ribellione dell’inferiore verso il suo sovrano, trasgressione; colpa (‘awon), che deriva dall’idea di torcere qualcosa e significa distorsione di ciò che è retto, quindi disarmonia; peccato (chatta’), che significa mancare il bersaglio e quindi anche smarrimento.

Segue la richiesta di perdono che è pure descritta con tre verbi che hanno un profondo simbolismo catartico: «cancellare» (il verbo machah appartiene al mondo economico e giuridico e significa cancellare una scrittura giudiziaria o commerciale); «lavare» (il verbo kabas viene dal mondo dei lavandai e dei tintori, professioni note in tutto il mondo antico e spesso connesse con simboli spiri-tuali: gli oggetti sono liberati dalle scorie e resi capaci di essere introdotti nell’area sacra); «rendere puro» o «mondare» o «tirare fuori» (tahar significa portare allo splendore, come avviene per i me-talli che si purificano nel fuoco). Il cardinale C.M. Martini traduce: «cancella la mia ribellione, la-vami da ogni mia disarmonia, mondami, cioè tirami fuori da ogni mio smarrimento».

Occuparsi della propria colpa non significa prima di tutto proporsi di estirpare le radici dell’egoismo, ma far crescere quei pensieri e affetti che si erano congelati o trascurati, far crescere l’immagine autentica di un Dio ricco nell’amore. È possibile riconoscere in senso positivo le pro-prie trasgressioni se si confronta la disposizione egoistica del proprio cuore con quella rivoltaci da Dio mediante il suo amore. Allora la colpa non porta alla disperazione, poiché lo sguardo che la ri-vela è uno sguardo di amore. Se invece dentro di noi agisce solo uno sguardo crudele, allora siamo invasi dal terrore e quando si è attanagliati dalla paura non si può intraprendere un’indagine leale su se stessi, ma si può solo fuggire. Il peccato dell’orante non viene specificato, perché il tema sottoli-neato è un altro che può essere espresso con le parole del Sal 25,11: «Per il tuo nome, Signore, per-dona la mia colpa, anche se grande». Non potendo innalzarsi a Dio, l’orante chiede a Dio che di-scenda, che si faccia prossimo che gli faccia il dono della sua presenza. Il primato dell’iniziativa è accordato a Dio, alla sua misericordia. Il perdono precede e fonda il pentimento: il perdono offerto fa nascere le disposizioni necessarie alla confessione.

Da questa triplice serie di termini, presenti nei vv. 3-4, emerge quindi che il salmo non è un’avvilente meditazione sul peccato dell’uomo, ma è piuttosto un canto della misericordia e dell’amore di Dio. Fin dall’inizio il peccato, chiaramente riconosciuto, è messo in rapporto fiducio-so con l’abisso del cuore misericordioso di Dio, perché questa è la sola risorsa dell’uomo. Questa fiducia nella misericordia di Dio è la sola via della giustificazione e della salvezza. Solo di fronte a questo amore è possibile davvero parlare del nostro peccato e comprenderlo, senza più disperare, come ci ricorda anche Paolo: «Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (Ef 2,4-5). Tenendo presente questa triplice serie di termini possiamo accostarci al sacramento della riconciliazione, senza cadere nell’abitudinarietà.

Confessione del peccato Dopo i vv. 3-4 che costituiscono il grido iniziale, segue la prima strofa vera e propria che può essere intitolata: «Nel regno del peccato» (vv. 5-11).

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L’orante dapprima fa emergere con forza ancora maggiore il tema del peccato (vv. 5-8): in questi versetti domina la confessione del peccato.

Nel v. 5 il salmista dice che riconosce la sua ribellione: questa confessione non è un atto meramente intellettuale, ma coinvolge tutta la persona e implica l’assunzione di responsabilità. La prima tappa della conversione sta nel prendere atto della propria situazione di miseria, nell’avere il coraggio di dire la verità sul proprio io, di riconoscere ciò che veramente sono: il peccato è una forza sempre presente che continua a influenzare la vita; il peccato è personificato ed è come il vero nemico del salmista. Confessare il peccato non è solo questione di pacificazione della coscienza, ma un vero e proprio ristabilimento della giustizia. Il riconoscimento sincero dei propri peccati è il primo passo, è la condizione previa per ottenere il perdono. «Per il cristiano, per l’ecclesiastico, il pensiero di esse-re peccatore non è affatto depressione di spirito, ma abbandono confidente ed abituale nel Signore Gesù che ci ha redenti e perdonati; è senso vivo di rispetto per il prossimo e per le anime, è salva-guardia contro il pericolo dell’invaghimento dei nostri successi» (Giovanni XXIII).

Il salmista non specifica i peccati di cui sta parlando; dice solo che ogni peccato per lui è andare contro Dio stesso (v. 6). Il salmista riprende qui ciò che Davide aveva detto al profeta Natan, dopo che questi aveva smascherato il suo peccato: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13). Anche il figlio minore, ridotto in miseria, dice le stesse parole (Lc 15,18.19). Questo riconoscimento signi-fica già inserire il peccato commesso all’interno di una relazione. Nei vv. 3-5 compare per nove vol-te il suffisso nominale di prima persona («pietà di me, mia iniquità, mia colpa, mio peccato, rendi-mi, le mie iniquità, io, mio peccato, dinanzi a me»); nel solo v. 6 compaiono per cinque volte i suf-fissi di seconda persona («contro di te, contro te solo, tuoi occhi, tua sentenza, tuo giudizio»). L’orante non parla più come a se stesso, ma confessa la propria colpa direttamente a Dio. I peccati contro le persone sono diretti anche contro Dio, perché sconvolgono il suo ordine. Vista nella dina-mica procedurale del rîb, ogni colpa è sempre una rottura del rapporto di alleanza con il Signore, per cui solo la parte lesa può ripristinare ciò che è stato infranto. Colui che si confessa di aver offeso solamente Dio non intende dire che non ha offeso il prossimo, ma ribadisce che la gravità del pecca-to consiste essenzialmente nel disprezzare la natura di Dio, non tenendo conto né dei suoi benefici, né dei suoi comandamenti mediante i quali egli manifesta la sua volontà di bene per i singoli e per il popolo. Ogni peccato è contro Dio, perché il peccato è venir meno alla bontà. «Quanto è differente lo spirito del mondo! Ci si duole, non per il Signore offeso, ma per lo smacco capitato, per qualche discapito o disavventura» (Giovanni XXIII).

La confessione del peccato è anche attestazione della giustizia di Dio. Nel precedente Sal 50,6 si di-ceva che i cieli annunciano la giustizia di Dio e a lui era attribuito il titolo di giudice. Con quelle pa-role non si esprimevano delle istanze giuridiche repressive, ma si voleva esplicitare la sollecitudine divina per bene delle persone, per la loro vita autentica, per portarle alla libera decisione di fare ciò che è giusto, santo, degno di essere vissuto. Dio è giusto perché suscita la giustizia, perché mediante la sua parola vuole che il suo popolo realizzi in pieno la relazione con lui. Nel Sal 51,6 l’orante di-chiara che Dio appare giusto nella sua sentenza e irreprensibile nel suo giudicare.

Naturalmente non si tratta della giustizia retributiva o vendicativa che interviene a punire il peccato con un castigo adeguato. Nelle parole del v. 6b («così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio») l’orante rinuncia a ogni autogiustificazione, a ogni autodifesa; queste parole vanno com-prese alla luce della stretta unione con il salmo precedente e ci ricordano che siamo nel contesto di un giudizio tra le due parti: Dio, più che giudice, è la parte lesa. Riconoscendo la propria colpa, l’uomo dà ragione a Dio, alla sua fedeltà. Dio è giusto non semplicemente perché si è attenuto a principi di equità e non ha commesso nessun torto nei confronti del suo partner dell’alleanza, ma soprattutto perché ha agito come promotore di giustizia di modo che con parole e gesti opportuni ha reso l’uomo capace di una corretta relazione con lui. L’uomo si è posto contro Dio, ma Dio nella sua fedeltà vuole salvare l’uomo. Perciò l’orante sa di andare incontro non alla condanna, ma al perdono. Anche nelle grandi preghiere pubbliche dell’epoca postesilica la confessione del peccato implica il riconoscimento dell’agire perfetto di Dio (Dn 9,7).

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Nei vv. 7-8 il salmista contrappone la situazione dell’uomo peccatore all’azione che Dio compie in lui. Il v. 7 probabilmente non allude all’idea del peccato originale, così come è inteso dalla teologia cattolica; il riferimento alla nascita non è un incolpare il padre o la madre di qualche peccato, ma è un modo per sottolineare come il peccato sia quasi connaturale all’uomo, come l’inclinazione al male è radicale, è tipica della condizione umana e come egli non sia in grado di sottrarsi da solo ad esso. Il peccato è come una realtà sovrapersonale che precede il salmista e lo avvolge fin dai pri-mordi della sua esistenza e lo accompagna fino all’ultimo respiro. L’orante non accampa in questo modo delle scuse, quasi dicesse che la sua storia di peccato è dovuta a un evento ancestrale di cui non ha responsabilità, oppure che la sua condizione di peccaminosità è stata ereditata dai genitori come una sorta di tara naturale; egli confessa piuttosto che tutta la sua esistenza, a partire dal con-cepimento, è marcata dal peccato e dal bisogno di perdono. Dal principio della vita (e questo con-cetto è frequentemente espresso in ebraico con la formula «dalla giovinezza») fino al momento in cui apre la bocca per riconoscere davanti a Dio la sua colpevolezza, l’esistenza è segnata dalla mise-ria del tradimento. L’orante ammette che la colpa copre l’insieme della sua vicenda personale. Lo ammette anche Is 48,8: «ti si chiama traditore fin dal seno materno». Questa piena confessione è un atto di grande sapienza, di verità (1Gv 1,8): invece di nascondere il peccato, come fa l’adultera di Pr 30,20, il peccatore se lo pone davanti, non per abbandonarsi alla depressione, ma per riconoscere in profondità la sua condizione bisognosa di salvezza e per far crescere la fiducia nel perdono.

Perciò subito dopo il v. 8 l’orante ammette che è Dio stesso l’artefice di questa intima conoscenza e ricorda come Dio è in grado di cambiare tale situazione: la seconda parte di questo versetto dice che Dio mi fa conoscere nell’intimo la sapienza. La vera sapienza consiste nella conoscenza realistica di se stessi, nel riconoscere il proprio peccato e parallelamente nel riconoscere anche la giustizia, la misericordia di Dio. L’uomo può riconoscere il proprio peccato (v. 5) solo perché in lui opera la sa-pienza divina: è Dio che opera con la sua sapienza (v. 8), perché la conoscenza del peccato è una ri-velazione divina, un dono divino. Se io riconosco il mio peccato, alla fine è Dio stesso che mi inse-gna a conoscere la sapienza, cioè mi indica la strada per uscire dalla mia situazione negativa.

Nuova supplica per ottenere il perdono dei peccati I vv. 9-11 fanno una inclusione con i vv. 3-4, ripetono cioè diverse parole (tahar, habash, machah) indicando la fine di questa sezione. L’orante formula una nuova invocazione per ottenere il perdono dei peccati, fatta con la ripetizione di ben sei verbi e ricorrendo al simbolismo dell’issopo e della neve. L’issopo è una pianta ancora non ben identificata, i cui rami erano usati come aspersorio nel rito del sangue, come ad esempio nei sacrifici espiatori (Nm 19,6.18) o nel rito pasquale (Es 12,22); l’issopo compare anche nella passione di Gesù (Gv 19,29). È un segno di purificazione, che viene completato con quello della neve. Questa richiama il bel testo di Is 1,18: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve». Non dimentichiamo che la neve è rara in Palestina e così il paragone diventa ancora più suggestivo. Il peccato è visto come una macchia o come una generale contaminazione che richiede un’abluzione di natura sacrale, non un semplice ge-sti rituale, una semplice aspersione con acqua. Il peccato rende impossibile il contatto con Dio e per ricuperare la possibilità di una relazione con lui occorre una purificazione radicale, come ricorda anche Ez 36,25-27. Allora l’uomo è reso più bianco della neve, realtà che nessun lavaggio umano potrebbe realizzare (Is 1,18; Ger 2,22). Nel v. 11 il peccato è paragonato a un debito e si chiede al Signore di distogliere da questo peccato il suo sguardo severo e penetrante e di cancellarlo. Questa metafora è ripresa nel Nuovo Testamento (Mt 6,12; 18,23.35) e illustra bene il carattere relazionale del peccato, fa comprendere come sia solo il creditore ad essere in grado di rimetterlo per la sua magnanimità. L’atto della remissione o cancellazione del debito esprime bene la conclusione della controversia, il ripristino della relazione, conferendo a chi era vincolato dal passato di essere libera-to dagli obblighi pregressi, di essere abilitato a una nuova relazione: non più quella fondata sul do-vere di pagare qualcosa, ma su un sentimento di riconoscente gratitudine.

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Se Dio perdona, se distoglie il suo sguardo dai miei peccati, se nasconde il suo volto severo, nell’uomo nasce una gioia profonda che coinvolgerà la persona nel suo intimo, fin nelle ossa, sim-bolo dell’interiorità umana, in questo caso precedentemente spezzata, frantumata dal peccato e ora pervasa dalla gioia, dall’esultanza (v. 10). La gioia. «Il mistero della letizia spirituale, che è una ca-ratteristica delle anime sante, si pone in tutta la sua bellezza e nel suo fascino» (Giovanni XXIII). L’accenno alla gioia per la vita ritrovata costituisce il preludio alla seconda parte del salmo: dal perdono alla grazia. La gioia di essere perdonati riappare, infatti, nel v. 14 e sarà il motivo di fondo dei vv. 15-19.

Nel regno della grazia (vv. 12-19) Epiclesi Nella prima parte del Sal 51 l’autore aveva messo in risalto il quadro oscuro dell’uomo: in lui il ma-le è qualcosa di costituzionale. Però in Dio c’è «amore e misericordia» (v. 3), egli può mettere nel cuore dell’uomo «sincerità e sapienza» (v. 8), può dare «gioia e letizia» (v. 10). L’orante ha ammes-so le sue colpe, ma ora fa memoria delle promesse profetiche che annunciano la consolazione di Gerusalemme (Is 48,7; 65,17; Ger 31,32; Ez 36,25-27), cioè ricordando il modo con cui Dio si è manifestato, il penitente domanda a Dio di essere trasformato in una nuova creatura.

Nei tre versetti 12-14 l’orante non chiede beni come la salute, la forza, non chiede nemmeno soltan-to la purificazione dal peccato, ma chiede il dono spirituale del rinnovamento radicale del cuore, promesso in Ger 31,33-34; Ez 36,26-27 e Gl 3,1-2. Il regno della grazia è descritto con tre coppie di verbi e in queste coppie un verbo è sempre collegato con la parola «spirito»: «crea in me, o Dio, in cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo; non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito; rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso»

Qui l’oggetto del verbo creare è prima di tutto il cuore dell’uomo, che per l’israelita indica la co-scienza, il luogo più intimo dove l’uomo prende le sue decisioni, la sede della ragione e della volon-tà, ma anche dell’incontro personale con la parola di Dio. Ogni volta che chiediamo a Dio un cuore nuovo noi invochiamo di poter avere, oggi inizialmente e un giorno in pienezza, il cuore di Dio, di essere conformati agli stessi sentimenti del cuore di Dio. È straordinario, ma verrà il giorno in cui il nostro cuore, che ha fatto tanta fatica a imparare l’amore, sarà il cuore di Dio e allora saremo capaci di un amore che rimane in eterno, saremo capaci di un amore pieno, che costituirà la nostra identità per sempre.

. Il verbo che apre questi tre versetti è particolarmente significativo: «Crea in me». Il perdono assume i con-notati di una nuova creazione. Il verbo «creare», infatti, nella Bibbia ebraica ha sempre come sog-getto Dio; il verbo non indica solo l’opera creatrice di Dio, ma ogni tipo di azione divina, vista co-me portatrice di novità per l’uomo. Il peccatore invoca una parola divina che dia principio al suo e-sistere spirituale: chiede che Dio rinnovi il prodigio delle origini, non però negli aspetti cosmici, ma nell’intima profondità della sua persona, nel suo cuore. Il perdono è visto come un atto tipicamente divino.

Accanto al verbo creare appare per tre volte la parola «spirito». L’orante prega con una triplice epi-clesi: domanda a Dio uno spirito saldo, uno spirito santo, uno spirito generoso, domanda un triplice spirito che conserverà il dono del cuore nuovo. Lo spirito è qualcosa che appartiene a Dio, è il se-gno della sua forza, della sua attività. Il termine ebraico ruach per sé indica il vento. Lo spirito è qualcosa che Dio comunica all’uomo così da farlo vivere e da renderlo capace di osservare la sua legge. Il salmista chiede anzitutto uno spirito «saldo», cioè l’atteggiamento fermo, costante, capace di vivere fedele a Dio secondo le esigenze dell’alleanza. Attraverso lo Spirito saldo l’uomo non romperà più la sua risposta nel dialogo con Dio. Poi l’orante chiede lo spirito «santo», che proviene da Dio stesso e che fa vivere nella sfera divina o santa, fa diventare popolo santo di Dio, fa apparte-nere alla condizione del popolo eletto, separa da tutto ciò profano. In terzo luogo domanda uno spi-rito «generoso (nedibah», cioè capace di iniziativa spontanea, di obbedienza senza esitazione nelle

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difficoltà, la nobiltà interiore. Il salmista riprende qui una spiritualità vicina a quella di Geremia e di Ezechiele (Ger 24,7; Ez 26,26).

L’uomo è incapace di vivere secondo la volontà di Dio; non è neppure capace di convertirsi; è ne-cessario che Dio stesso crei in lui qualcosa di nuovo, lo rinnovi nell’interno. Questo spirito saldo, santo, generoso produrrà realmente una creatura nuova. Il perdono viene dapprima equiparato a una nuova creazione e qui viene equiparato a un cambiamento interiore mediante una forza che viene da Dio stesso, dal suo spirito. Il rinnovamento operato dallo Spirito di Dio entra profondamente nell’uomo fino a toccarlo nell’intimo e rende possibile la risposta responsabile a Dio, l’obbedienza libera. Dio, con la forza del suo Spirito, rende il cuore dell’uomo fedele, capace di amare con amore divino. Dio non soltanto perdona, ma è in grado di donare all’uomo la capacità di essergli gradito. Lo Spirito di Dio è in totale alternativa rispetto al peccato. L’incompatibilità dello Spirito di Dio col peccato ci indica sia l’origine che la natura dello Spirito, cioè la sua divinità. Allora l’uomo speri-menta davvero «la gioia della salvezza» (v. 14). Il salmista non promette che gli errori non saranno ripetuti, ma assicura invece che è possibile uscire dalla deriva persecutoria, dalla palude della rumi-nazione intimistica e tornare a sperimentare gioia e letizia (v. 10): la gioia di sperare nella propria trasformazione e la letizia di farsi a propria volta attori pubblici della giustizia di Dio. La nuova cre-azione che si realizza mediante l’effusione dello Spirito consiste nel dinamismo di una vita nuova ed ha come primo effetto dare testimonianza di se stesso nella gioia. La nuova creazione tocca l’inizio e ne costituisce una sorta di duplicato arricchito, a testimonianza della fedeltà di Dio alle sue promesse.

Chiedendo nel v. 14 di non essere respinto dalla presenza del Signore l’orante non si contraddice con quanto aveva chiesto nel v. 11. Lì ha supplicato il Signore di non guardare i suoi peccati, qui lo implora di non allontanarlo da lui. Dio è supplicato di stare lontano col suo sguardo dal peccato, ma di stare vicino al peccatore. Lì il peccatore teme la punizione divina, qui desidera la sua misericor-dia.

In questa preghiera dell’orante c’è una grande umiltà e un grande desiderio. Una grande umiltà, perché egli dichiara che solo Dio può dargli un cuore puro, trasformare il suo animo incostante e meschino in uno spirito risoluto a fare il bene, solo Dio può rendere santa e generosa la volontà di un uomo prigioniero di pulsioni degradanti. Un intenso desiderio, perché sentendo il suo cuore spezzato, schiacciato dall’amarezza del peccato, triturato dalla sofferenza umiliante, sentendo l’abisso del male, il peccatore credente si apre alla speranza e chiede a Dio arditamente il frutto più alto della vita dello spirito, cioè l’esperienza della gioia.

Voto o promessa: il sacrificio gradito a Dio Nei vv. 15-19 il salmista introduce un tema nuovo, che è tipico nei salmi di supplica: il voto, la promessa. La gioia si esprime in una offerta sacrificale. Lodare Dio è un dono suo. Il Sal 50 aveva criticato la liturgia sacrificale incoerente e proponeva il sacrificio della lode (Sal 50,14.23). Nel Sal 51 il tema viene ripreso. Il culto non può essere semplicemente abolito e il ristabilimento dell’alleanza va celebrato con un sacrificio adeguato.

Finora il penitente aveva parlato quasi con un gemito sordo, percepito solo dagli orecchi di Dio. Ora la sua voce diventa canto celebrativo, diventa testimonianza, fatta udire ai peccatori i quali, più che ammoniti dai rimproveri, saranno aiutati a tornare a Dio dalla letizia dell’uomo redento. Trasforma-to dal perdono, l’uomo può impegnarsi come predicatore di conversione: vuole comunicare a quanti ne hanno bisogno quella sapienza che gli è stata comunicata interiormente. All’uomo che ha speri-mentato il perdono e il dono dello Spirito di Dio è possibile diventare testimone ardente della mise-ricordia del Signore, esaltare la sua giustizia, ossia la sua fedeltà, la sua salvezza, e proclamare la sua lode (Sal 51,15-17).

Nei versetti precedenti il perdono ricevuto è visto non principalmente come purificazione, ma come nuova creazione. Questa prospettiva richiama l’iniziativa di Dio, il suo farsi incontro all’uomo.

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Quindi il perdono permette al salmista di entrare in una relazione nuova, in comunione con gli uo-mini peccatori. I peccatori sono chiamati ribelli, coloro che hanno agito in modo idolatra; dal salmi-sta non sono più considerati nemici da cui difendersi, ma persone a cui rivolgersi. Non invoca la lo-ro distruzione o il castigo, ma desidera annunciare loro la conversione e più precisamente insegnare loro le vie di Dio. Le vie di Dio non sono soltanto le sue richieste all’uomo, le sue esigenze, la con-dotta che egli propone all’uomo, ma indicano piuttosto la sua iniziativa, il modo con cui viene in-contro all’uomo per ristabilire con lui una nuova relazione, per salvarlo, per rendergli possibile una vita nuova. Se comprendono i modi con i quali Dio viene loro incontro, i peccatori ritorneranno a lui. Quindi nel v. 15 l’esperienza personale di gioia per il perdono diventa desiderio di rendere an-che gli altri partecipi di un dono così grande. Il perdono dona responsabilità verso gli altri, cono-scenza della debolezza umana e della misericordia di Dio: il perdono trasforma il malato in medico, il riconciliato si impegna a portare un messaggio di riconciliazione. Chi ha percorso un cammino penitenziale può aiutare altri a capire che c’è una via di uscita: non una via generica, stoica, ma una via in cui Dio stesso viene incontro. La misericordia che è stata sperimentata da parte di Colui che ha avuto la forza di continuare ad amarci, nonostante le nostre infedeltà, va di pari passo con quella che si deve usare verso l’altro. I vangeli ci ricordano che Maria Maddalena, dopo essere stata per-donata, è stata costituita apostola degli apostoli, prima testimone della risurrezione di Gesù. Con il dono dello Spirito Santo anche gli apostoli sciolgono la loro lingua e proclamano le grandi opere di Dio (At 2,11). «“Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà” (Sal 25,10). Qui io mi debbo di-stinguere. Non debbo essere maestro di politica, di strategia, di scienza umana: ce n’è d’avanzo di maestri, in queste cose. Sono maestro di misericordia e di verità. E riuscirò per tal modo anche be-nemerito dell’ordine sociale» (Giovanni XXIII).

Il v. 16 inizia con la richiesta di essere liberato, tirato fuori, salvato dal sangue. Il verbo liberare ri-corda le grandi opere di liberazione sperimentate da Israele. L’orante chiede di essere liberato dal debito del sangue. L’espressione allude alla prassi giuridica che condannava il delitto grave con la pena di morte. Inoltre c’era l’opinione che il sangue versato con un atto di violenza grida vendetta (Gen 4,10 e cf. anche l’espressione che il sangue ricada sul suo o sul nostro capo: Gs 2,19; 2Sam 1,16; 1Re 2,37; Mt 27,25). La salvezza dal sangue indica non solo la salvezza da un verdetto di san-gue, ma la salvezza da ogni azione che possa condurre a tale verdetto di sangue, cioè la salvezza dai peccati più gravi, oppure, secondo la liberazione dal castigo meritato per i peccati commessi, la li-berazione dalle conseguenze del male fatto. In definitiva questa richiesta mira alla salvezza dalla mortale schiavitù del peccato e alla redenzione dal male.

A questo punto il salmista si dichiara disposto a usare in modo nuovo la lingua, le labbra e la bocca (vv. 16-17). Queste tre parole indicano poeticamente l’esteriorità dell’uomo che cerca di esprimere ciò che porta dentro di sé, nel suo cuore e nel suo spirito. Queste tre realtà che segnano la parola umana vengono coinvolte nell’impegno missionario. Lingua, labbra, bocca si aprono non per un’imposizione, per un dovere che pesa, ma per un’effusione che nasce dalla pienezza che si ha dentro di sé. Una testimonianza a mezza bocca è poco efficace; quella invece che viene dall’esultanza della lingua, dal bisogno della bocca che si apre, dalle labbra che si muovono con gioia è veramente ascoltata ed è efficace. L’orante perciò domanda che la sua lingua esulti nel cele-brare l’agire salvifico di Dio, la sua salvezza, la sua misericordia. In fondo è stata questa la via che il Signore ha percorso. Per fare questo adeguatamente il salmista domanda che il Signore stesso o-peri in lui, gli apra le labbra e la bocca perché possa cantare le lodi Dio con amore, perché possa in-segnare che il Signore offre una strada a coloro che ritengono che non ci sia più niente da fare, per-ché possa aprire la bocca nelle situazioni difficili in cui gli accade di restare muto e addirittura che non ci sia davvero una speranza. Parlare di Dio significa proclamare la straordinaria trasformazione che lui è capace di operare mediante il perdono: la riconciliazione con Dio non rimane solamente un’esperienza di cui fare memoria e da custodire nel cuore, ma comporta l’esigenza di uscire dal si-lenzio per annunciare ciò che è avvenuto. Il perdono trasforma il peccatore in evangelizzatore dei peccatori. Vale la pena notare che mentre nei salmi di lamentazione i soggetti sono tre, cioè

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l’orante, Dio e i nemici, in questo salmo i soggetti sono ancora tre, cioè l’orante, i suoi peccati e Di-o, mentre i peccatori sono considerati destinatari dell’iniziativa di salvezza di Dio.

Di fronte al perdono ottenuto i modi rituali del culto ebraico passano in secondo piano (v. 18-19). L’orante usa qui la figura retorica della negatio paradoxa con la quale si nega una cosa per farne ri-saltare un’altra. Il salmista non intende rifiutare il culto sacrificale in quanto tale, ma indicare quale è il senso e quindi il valore di ogni sacrificio. Egli offre come sacrificio se stesso, la conversione del cuore, senza la quale anche i sacrifici esterni non avrebbero alcun senso, come ricordano Is 1,11-14; 57,1; Os 6,6; Am 5,21-27; Mi 6,6-8; Gl 2,13. Il vero sacrificio non consiste in vittime prelevate fra gli animali, ma nel dono a Dio di uno spirito contrito, di un cuore affranto. Il paradosso è che l’orante offre ciò che in lui è bisognoso di essere vivificato, offre la sua stessa misera condizione. Il Signore gradisce questa umile donazione, perché egli così può manifestarsi come il Dio misericor-dioso e salvatore. Per Dio è importante non la moltiplicazione dei gesti rituali, ma la conversione autentica. Se lo spirito opera nell’uomo, egli riceve uno spirito contrito, mediante il quale può offri-re a Dio il vero sacrificio (v. 19). «L’umile contrizione dei peccati è per te il sacrificio gradito, un profumo molto più soave del fumo dell’incenso… Là si purifica e si lava ogni iniquità» (Imitazione di Cristo, III,52,4).

Dalla rigenerazione dell’orante alla ricostruzione di Gerusalemme (vv. 20-21) Forse i vv. 20-21 sono un’aggiunta posteriore: dopo il ritorno dall’esilio si desidera la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, cosa che avverrà solo con Neemia (445 a.C.). Stupisce, infatti, che do-po le affermazioni del v. 18 («Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti») il v. 21 ritorni sulla città di Gerusalemme come sede dei sacrifici legittimi, ossia celebrati secondo la normativa delle rubriche. Per alcuni commentatori questa aggiunta ha lo scopo di attenuare le di-chiarazioni troppo anticultuali del v. 18. Con questa aggiunta il salmo è adattato a un nuovo conte-sto e riceve un’interpretazione comunitaria. Questi versetti, secondo altri, possono far parte del sal-mo originario, perché il motivo sacrificale c’era anche nel v. 19. Dal punto di vista della dinamica spirituale i due versetti si integrano bene con il resto del salmo. Possiamo dire che esso si conclude allargando allo spazio comunitario l’orizzonte della preghiera individuale. La gioia ritrovata non può essere contenuta, ma convoca amici e compagni a condividere il dono.

L’orante ha colto una dimensione importante: la creazione del cuore puro permette di offrire sacrifi-ci legittimi. Il rituale levitico è perfettamente rispettato, a differenza di quanto avveniva riservando attenzione solo all’integrità della vittima, senza coinvolgimento dell’offerente. Lo stesso Dio che solo può creare il cuore puro e rinnovare uno spirito saldo è colui che solo può rialzare le mura di Gerusalemme. Ma l’autentico desiderio dell’orante non è certo una città fatta di pietre o un santua-rio fatto da mani di uomo. Ciò a cui aspira è una città santa, fatta di peccatori perdonati. Solo il rin-novamento del singolo, solo la novità permessa dal perdono e dal pentimento consente un culto ret-to, senza che questo escluda anche la ripresa degli antichi sacrifici. La rinascita di Sion inizia con la nuova creazione dei suoi abitanti.

Benché di solito sia un atto soprattutto personale, il peccato del singolo è percepito anche nella sua solidarietà collettiva, nelle ripercussioni che vanno al di là di chi lo commette; il peccato è percepito come non estraneo alla rovina della comunità e, a sua volta, il perdono chiesto e ricevuto è una be-nedizione che si riverbera su tutta la comunità. Il dono dello spirito nuovo che ha rinnovato il cuore dell’orante non riguarda solo lui, ma diventa una speranza per tutta la nazione. Ciò che accade al singolo si riflette positivamente su tutto il popolo. La dimensione personale e quella comunitaria della salvezza sono profondamente intrecciate. La rigenerazione del singolo contribuisce alla riedi-ficazione della città, finita in rovina a causa dei molti peccati. Il rialzamento del singolo, la ripresa della relazione di Dio con lui presiede anche alla risurrezione della città. La città può offrire sacrifi-ci legittimi (v. 21), come quelli di cui si parla al v. 19. Non c’è una contraddizione con il v. 18, per-ché i sacrifici che può offrire la comunità rinata sono un culto esterno che nasce però dalla conver-sione; la lode espressa nel sacrificio rituale si intreccia con il cuore e lo spirito contriti e umiliati.

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Offrire vittime al Signore, cioè celebrare un culto esteriore, può avere così un senso. Si chiede quindi più che la ricostruzione delle mura di Gerusalemme dopo l’esilio, come struttura militare di-fensiva: si chiede la ricostruzione escatologica della città di Dio, come città della giustizia e della pace (Is 1,26-27; 2,1-5; 61,4). In una città così rinnovata, i cui abitanti si sentono salvati dall’irretimento nella colpa e ricreati, Dio si compiacerà dei sacrifici. Essi saranno il riconoscimento e il ringraziamento per la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, realizzeranno il perdono e la co-munione sociale tra chi li offre. Gerusalemme diventerà così la città ideale.

Dio che nel salmo precedente aveva iniziato a parlare in Sion per accusare il suo popolo (Sal 50,1-2) ora tace nella sovrana benevolenza del suo perdono e così può alzarsi gioioso il coro dei redenti, così Dio può venire ad abitare le lodi di Israele (Sal 22,4), in questo tempio fatto di uomini pieni di Spirito Santo, in questi figli amati e perdonati. Il Sal 51 vive della promessa fatta da Dio: «Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: In un luogo eccelso e san-to io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e ria-nimare il cuore degli oppressi» (Is 57,15).

Tutto alla fine del Sal 51 resta sotto l’ottica della misericordia divina che perdona e rinnova l’uomo con il suo Spirito; possiamo qui ricordare le parole dell’apostolo Paolo: «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1Cor 6,11).

Coscienza del peccato e dimensioni del tempo Il Sal 51 può essere letto anche scoprendo in esso quattro movimenti: il passato, il presente, l’appello, il futuro.

Il passato è sottolineato al v. 6: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto». Questo passato è evocato molto brevemente.

Poi il salmo si diffonde di più sul presente. Basta ricordare le parole del v. 5: «Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi». Il peccato è descritto con varie parole che e-sprimono la coscienza dell’autore: il peccato è come un andare a zig zag, un procedere fuori dalla strada diritta, una specie di smarrimento; è presentato come un cuore cattivo, ribelle, maligno; è presentato come disarmonia della vita, mancanza di scioltezza e di equilibrio; è presentato come al-lontanamento dal bene, il contrario di ciò che è buono. L’uomo sa di non essere in armonia con se stesso, con Dio, con gli altri, con la natura.

In terzo luogo, l’appello è il tema continuamente ripreso. I verbi all’imperativo indicano l’insistenza della supplica, della invocazione alla purificazione. Questo appello è pieno di fede e diventa confi-denza in Dio, nella sua misericordia, espressa con molte metafore. In tal modo l’uomo viene miste-riosamente ricostruito. Il tema dominante di questo appello fatto con profonda fiducia è il desiderio di purificazione: questo desiderio non nasce dalla forza dell’uomo, ma è suscitato da Dio stesso. Lui ci rinnova non per la potenza del nostro pentimento, ma per la potenza del suo amore. L’orante, in-fatti, non dice che vuole essere buono, attento, ma chiede di essere lavato, purificato, liberato. L’altro tema di questo appello riguarda il senso della novità. È importantissima la fiducia della no-vità di vita nello Spirito. Esiste per tutti la possibilità di cambiamento di vita, occorre credere all’azione dello Spirito che può trasformare i cuori e le situazioni.

In quarto luogo, c’è il tema del futuro, aperto in primo luogo alla missione e poi al culto gradito a Dio. Il peccatore può non solo rialzarsi, ma annunciare agli uomini la possibilità del cambiamento del cuore a opera della misericordia di Dio. Poi può offrire a Dio l’autentico sacrificio di ringrazia-mento: il proprio cuore contrito, umiliato.

In questo salmo possiamo distinguere anche una confessio vitae, una confessio fidei e una confessio laudis. Di solito l’ordine, proposto molte volte dal cardinale C.M. Martini per la revisione di vita o per la celebrazione del sacramento della riconciliazione, è diverso: all’inizio c’è la confessio laudis,

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la lode a Dio, l’affermazione della sua bontà, il riconoscimento delle meraviglie che lui compie nel-la nostra vita; poi c’è confessio vitae, la confessione di quello che siamo, dicendo a Dio i sentimenti di fondo che pesano sulla nostra vita e che sono la radice di tante mancanze, come ad esempio i nervosismi, le inquietudini, le amarezze, le inimicizie; in terzo luogo c’è la confessio fidei, la fidu-cia di essere liberati, purificati da ciò che non vogliamo essere, di venire cambiati.

Dopo la premessa, costituita dai vv. 3-4, c’è la confessio vitae (vv. 5-8). L’uomo, per così dire, si appropria del suo peccato, lo riconosce come parte di sé, della propria storia, della propria povertà. Invece di scusarlo, lo accetta francamente: riconosce la propria fragilità, la propria incapacità a por-tare a termine i suoi programmi operativo nell’ordine morale. L’uomo si riconosce ontologicamente fatto così e accetta di essere fatto così. Assume la propria fragilità con animo umile, con una verità che insieme è pacatezza. La confessio vitae produce una certa pace con noi stessi, anche come difet-tosi, imperfetti, capaci di ricadere: è la pace dell’uomo che davanti a Dio riconosce la propria pover-tà.

Segue la confessio fidei (vv. 9-14) che consiste nella certezza, ripetuta molte volte, che Dio è capace di fare qualcosa di nuovo. È un inno alla iniziativa creativa, salvifica di Dio che salva l’uomo con la potenza dello Spirito. Facciamo fatica ad ammettere che l’uomo cambi, sia cambiato, proprio per-ché ci è lontana la confessio fidei. Eppure l’uomo che ha sperimentato la sua insufficienza morale può dire anche che può diventare più bianco della neve, parla di gioia, di letizia, chiede che le sue ossa esultino, di essere un uomo con lo spirito saldo, che vive sempre alla presenza di Dio. Colui che si è appropriato umilmente della propria debolezza riceve qui il dono di appropriarsi della po-tenza di Dio e di sentirsene rivestito.

Infine c’è la confessio laudis che in questo caso non è per il passato, come di solito avviene, ma è per il futuro: esso non sarà più sotto il peso del peccato, del disordine, dell’ambizione, della vanità della vita, ma sarà piuttosto nel segno della missione, dell’apostolato, del culto autentico. Non solo io mi rialzerò, ma aiuterò anche gli altri. Il futuro consiste nell’impegno a insegnare agli erranti le vie del Signore. L’uomo peccatore è reso capace di guardare al futuro in maniera creativa, attiva e si impegna ad aiutare gli altri, a essere predicatore della salvezza e si impegna a offrirsi a Dio.

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IL DEBITORE INCOERENTE (Mt 18,21-35)

Premessa Per non incorrere in facili fraintendimenti, va subito precisato ciò che il perdono non è. Il perdono non è scusare. La scusa è una cosa razionale, è guardare una persona che ci ha offesi, cercando delle ragioni che in certo modo illuminano e diminuiscono il suo atto di offesa. Il perdono non è dimenti-care, anche perché esistono offese che lasciano segni indelebili, che non riusciamo a dimenticare, anche se lo volessimo. Il perdono non è nemmeno farsi giustizia con una condanna magari mitigata. Il perdono non è un’affermazione di superiorità morale che ci fa apparire magnanimi, generosi e mette l’altro in stato di inferiorità: in tal modo il perdono è trasformato in atto di potere. Il perdono non pone l’accento né sull’offeso, né sull’offensore, ma introduce una terza persona: Dio. Perdonare significa riconoscere che l’offesa c’è stata, che non si riesce a scusarla completamente, che proba-bilmente non sarà del tutto dimenticata, ma riconoscere nello stesso tempo che non si vuole rinun-ciare ad amare e che ci si vuole allontanare dalla logica di reagire con la violenza. Il perdono non è una cosa che creo in me stesso, ma è una cosa che lascio fare a Dio in me stesso: è lasciare che Dio entri nella mia storia. Solo ricordando ciò che Dio è nella mia vita posso lasciarlo entrare più pie-namente nella mia vita, posso diventare un po’ quello che lui è, quello che lui pensa e quello che lui fa. Di solito accentuiamo molto il peso del peccato e intendiamo la conversione come un abbandono del peccato, ma la conversione che ci viene richiesta è anzitutto quella di valorizzare la luce del perdono di Dio, del suo amore nella nostra vita.

L’ambientazione e la struttura della parabola Nel c. 18 l’evangelista Matteo ci presenta il quarto discorso di Gesù, quello comunitario. La comu-nità, segno del regno di Dio, è composta dai piccoli, in senso biblico. La presenza del regno non viene totalmente abolita dalla presenza del male, ma coesiste con esso, in continuo conflitto con es-so. La presenza del regno non avviene nell’assenza del peccato e dell’errore, ma nella loro gestione. C’è un modo di vincere il male che consiste nell’accoglienza e nella difesa dei piccoli (Mt 18,1-14); poi c’è un altro modo di vincere il male: la situazione di colpa di un fratello va affrontata con la cor-rezione fraterna (Mt 18,15-20). C’è infine un terzo modo di vincere il male ed è la prassi del perdo-no (Mt 18,21-35).

La prassi del perdono è il modo messianico di individuare, aggredire e vincere la realtà del male. La comunità cristiana si caratterizza per la relazione vincente con il male, così come Cristo si caratte-rizza per la relazione vincente con la realtà della morte. La prassi del perdono corrisponde alla pras-si della risurrezione di Cristo. Il perdono consente l’ingresso della potenza di Dio nella storia. Il perdono dei peccati e la cacciata dei demoni sono il segno che è arrivato a noi il regno. Il segnale del regno non è l’impeccabilità, ma la vittoria sul male e sul peccato, attraverso la misericordia e l’amore. Dove c’è perdono, c’è il regno, come alternativa alla condanna del peccatore, alla sua di-struzione ed eliminazione. Non c’è comunità messianica senza la prassi passiva e attiva del perdo-no, cioè senza il perdono ricevuto e il perdono dato: la comunità nasce dal perdono gratuito di Dio e vive, è plasmata grazie all’atto gratuito del perdono tra i fratelli. Il perdono è lo statuto della comu-nità e ne accompagna tutto il cammino.

Per descrivere la realtà del perdono Gesù narra una parabola che potremmo intitolare «Il padrone misericordioso e il servitore incoerente o spietato». Potremmo anche chiamarla «Storia di un falli-mento». La parabola è propria di Matteo ed è ben strutturata. È inquadrata, all’inizio e alla fine, da due detti di Gesù sul perdono.

Il primo detto di Gesù sul perdono è nei vv. 21-22: Pietro domanda se basta perdonare fino a sette volte il fratello che pecca contro di lui e Gesù gli risponde che deve perdonare fino a settanta volte sette; la domanda di Pietro contiene le due parole fratello e perdonare.

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Segue il racconto parabolico, a sua volta composto di tre momenti: il primo mettono in scena il pa-drone e il debitore (Mt 18,23-27), il secondo mette in scena il debitore e il suo compagno (Mt 18,28-30), il terzo torna a mettere in scena il padrone e il debitore perdonato (Mt 18,31-34).

Il secondo detto di Gesù sul perdono sta nella conclusione (Mt 18,35) e insiste sulla necessità di perdonare di cuore: «Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al vostro fratello». Il testo greco è più pregnante: apò kardiòn hymòn indica dal pro-fondo del vostro cuore, cioè del tutto. Questa seconda parola di Gesù sul perdono costituisce l’applicazione della parabola e in essa ritornano i termini perdonare e fratello, presenti nella do-manda fatta da Pietro a Gesù.

L’introduzione della parabola (Mt 18,21-22) La prima parte del discorso comunitario parte da una domanda dei discepoli: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?» (Mt 18,1). Anche l’introduzione alla parabola è costituita dalla doman-da di Pietro; si rivolge a Gesù, chiamandolo «Signore», e lo interroga sulla frequenza o meglio sulla estensione quantitativa del perdono: «Quante volte devo perdonare al mio fratello per una colpa del-la quale io sono vittima? Fino a sette volte?». Il perdono è un ganglio vitale nei rapporti tra gli uo-mini. Con la sua domanda Pietro esprime la consapevolezza che non è facile vivere da fratelli, che non sempre la correzione fraterna è efficace e che perdonarsi non è semplice nemmeno per i disce-poli di Gesù.

Il caso che Pietro presenta è indeterminato nel contenuto, ma preciso nell’indicare gli attori. Chi pecca è un fratello, o meglio «il fratello», un membro della comunità, non un estraneo, un nemico. Dal fratello ci si aspetta intesa, comprensione che purtroppo talvolta vengono a mancare e così il rapporto viene rotto. La prospettiva non è dalla parte del peccatore, ma di Pietro, che si considera l’ipotetico danneggiato dal comportamento del fratello: il discorso parte dall’offeso, dalla vittima e non dal peccatore. Pietro non chiede come deve comportarsi, se può vendicarsi, in che modo deve applicare la legge del taglione (Es 21,24). Egli parte dal presupposto che l’unica reazione deve esse-re il perdono, come ha insegnato Gesù (Mt 6,14-15). Il problema di Pietro verte sul numero delle volte nelle quali il perdono va accordato al fratello. Anche se in famiglia ci si vuole bene, non siamo mai perfetti, ci sono sbagli e quindi nervosismi che rischiano di inquinare la Chiesa domestica. Il perdono è fondamentale, è necessario non solo nella famiglia, ma anche nella Chiesa, nella società, però non è mai facile: la Bibbia lo ricorda, descrivendoci le relazioni difficili tra Caino e Abele, tra Esaù e Giacobbe, tra Giuseppe e i suoi fratelli. Pietro, che ha ricevuto il potere di legare e di scio-gliere, si rende conto che è necessario perdonare chi ha peccato contro di lui, ma pensa che il per-dono deve avere un limite, perché l’altro non ne approfitti.

Educato da Gesù, Pietro prospetta un atteggiamento generoso: perdonare fino a sette volte dovrebbe essere sufficiente, perché il numero sette indica un impegno totale. Pietro è sicuro che rispetto alla rappresaglia praticata e decantata da Lamech (Gen 4,23-24), rispetto alla legge del taglione e anche rispetto alla consuetudine rabbinica del suo tempo che diceva di perdonare al massimo fino a tre volte, ha compiuto un notevole cammino e forse si aspetta da Gesù un elogio. Pietro abbonda e pas-sa da tre a sette volte, rivelando uno slancio di generosità. Il numero sette, infatti, è simbolo di pie-nezza, di totalità, non indica una quantità esatta, ma punta a una sfumatura generale. Questo numero viene impiegato in modo enfatico per parlare della vendetta di Dio nei confronti di chi farà il male a Caino (Gen 4,15). Pietro si rifà all’enfasi divina che pone l’accento sulla vendetta che sarà fatta set-te volte per esprimere in realtà il perdono che Dio concesso a Caino. Gesù però spiazza Pietro e gli risponde che deve perdonare non solo sette volte, ma settanta volte sette, proclamando così la legge del perdono illimitato. Se applichiamo letteralmente questo numero a una giornata, si tratta di per-donare ogni tre minuti.

L’espressione iperbolica settanta volte sette richiama le parole di Lamec, discendente di Caino e primo bigamo della storia biblica che, parlando alle sue mogli, riferisce la qualità della sua vendetta

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rispetto a chi gli fa un torto: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette» (Gen 4,24). In Genesi l’espressione settantasette volte è usata per indicare lo straripamento di una violenza con-tro il fratello e questa violenza allontana sempre più l’uomo da Dio; sulle labbra di Gesù l’espressione settanta volte sette è indice della misericordia e del perdono che manifestano la pre-senza di Dio all’interno della comunità ecclesiale. Come la vendetta aveva immesso nella storia una serie ininterrotta di fratricidi, così con l’avvento di Gesù e il costituirsi della sua Chiesa il perdono immette nel mondo la fraternità, correggendo la legge del taglione ed estirpando ogni forma di riva-lità e spirito di vendetta. Gesù ripudia la prassi della vendetta incontrollata e proclama un capovol-gimento dei criteri umani di convivenza, stabilendo la norma della misericordia divina. Settanta vol-te sette è un numero simbolico che indica innumerevoli volte, sempre, perché la misura del perdono non è mai colma: occorre ragionare secondo il cuore di Dio che è Padre. Gesù, quindi, insegna a praticare un perdono senza limiti. Questa proposta è esigente, sembra perfino innaturale. Gesù bloc-ca il tentativo di Pietro di fissare un limite, sebbene generoso. Gesù si rifiuta di dare un limite al perdono.

La prima parte della parabola (Mt 18,23-27) Ci si attenderebbe, dopo il dialogo che l’ha preceduta, una parabola che parli della frequenza del perdono. La parabola, invece, pur continuando a parlare del perdono, attesta uno spostamento di prospettiva rispetto al dialogo precedente tra Pietro e Gesù. Nella parabola sono ravvisabili tre sce-ne: il signore e il suo servo, liberato dal debito (vv. 23-27); questo servo condonato alle prese con un suo collega che gli deve una somma contenuta (vv. 28-30); nuovamente il signore con il suo ser-vo (vv. 31-34). Alla fine c’è il detto conclusivo di Gesù (v. 35). La parabola abbonda di termini pre-si dall’ambito economico (essere debitore, debito, restituire) che servono però a mostrare il contra-sto tra l’idea del possedere, propria del primo servo, e quella del donare gratuitamente, propria del padrone. La prima scena della parabola sembra inverosimile ed è animata da due personaggi: il primo, il cre-ditore, è certamente un re; l’altro è un suo servo, che gli è debitore di diecimila talenti. Precisando che si tratta di un re, l’autore rende un po’ più credibile il suo credito gigantesco e la sua possibilità di infliggere una punizione, senza dover ricorrere a un processo. Il debitore è un servo, ma la som-ma enorme del suo debito fa pensare che si tratta di un funzionario, al quale il re ha affidato somme di denaro molto elevate, addirittura astronomiche, favolose: con tutta probabilità si tratta di uno schiavo molto abile che è stato incaricato della riscossione delle tasse. Per capire l’enormità del de-bito, basta ricordare che nella parabola dei talenti il padrone affida ai suoi tre servi un totale di otto talenti che sembrano costituire tutta la sua ricchezza. In questa parabola si parla di migliaia di talen-ti (un talento corrisponde a 36 chilogrammi di argento corrispettivi circa a 100 milioni di giornate lavorative). Sappiamo che l’esagerazione costituisce un ingrediente delle parabole, un modo usato da Gesù per parlare del regno di Dio che per noi rimane sempre una realtà inconcepibile.

Il re si trova davanti a un servo che ha un debito immenso, faraonico, assolutamente insolvibile e praticamente inesigibile (viene da pensare al debito estero dei paesi poveri). Tuttavia il re, che dopo l’inizio nel corso della parabola è sempre chiamato padrone, è molto rigido e ordina che il servo sia venduto, insieme alla moglie, ai figli e a quanto possiede, per saldare il debito. L’ipotesi che quel servo riesca a saldare il debito però è del tutto improbabile, ma il creditore si attiene al diritto dell’epoca che prevedeva con tale vendita almeno un parziale risarcimento dei danni subiti; quella vendita era soprattutto un deterrente contro eventuali futuri indebitamenti da parte di altri servi. La scena continua con la supplica rivolta ad oltranza rivolta dal servo al suo padrone (al v. 26 il verbo «prostrato» in greco è all’imperfetto: prosekýnei, «si prostrava»): davanti alla catastrofe imminente quel servo si getta a terra, esprimendo la sua sottomissione e la superiorità del suo padrone, si ap-pella alla sua misericordia, chiede un rinvio; anche se sa che non riuscirà mai a estinguere quel de-bito, chiede pazienza e promette di saldare ogni cosa. La parole del servo contengono una supplica e un impegno: chiede al padrone di mostrarsi magnanimo nell’attendere e poi promette di restituire

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tutto. È chiaro che la promessa è retorica, è assurda, perché non potrà restituire nulla, tuttavia ha il potere di toccare il cuore del padrone.

L’atteggiamento del padrone è subito precisato con il verbo «ebbe compassione». Questo verbo in-dica un sentimento che è tenerezza, anche materna, partecipazione a una situazione, commozione che tocca le profondità dell’essere. Con questo verbo il primo vangelo indica la reazione di Gesù nei confronti delle folle (Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34). Il padrone, impietositosi, va oltre la doman-da del servo, oltre le aspettative, oltre ciò che è giusto; compie due azioni: prima rimette in libertà il servo e poi non concede solo un rinvio, ma condona tutto e subito, senza pretendere dal servo un segno concreto della sua buona volontà. Ciò che spinge il padrone a perdonare non sono le promes-se del servo, forse neanche del tutto sincere, ma è la sua magnanimità, la sua compassione, il sentire come sua l’angoscia del servo, senza pensare alle promesse che egli fa. Il condono, così sorprenden-te e incondizionato, richiama la generosità smisurata del padre verso il figlio prodigo, ritornato a ca-sa; del resto in entrambi i casi viene usato il verbo «avere compassione» (Mt 18,27; Lc 15,20). Il comportamento di Dio è sempre esagerato, oltre la nostra immaginazione. Termina così la prima parte della parabola. Ma come spesso succede nelle parabole, la prima parte è propedeutica alla se-conda o alle seguenti, su cui converge il peso del messaggio.

La seconda parte della parabola (vv. 28-30) Anche la seconda scena è animata da due personaggi: veniamo riportati nel mondo degli uomini, nelle relazioni tra uomo e uomo. Il servo, debitore di una somma immensa e appena condonato, viene a confronto con un altro servo che gli deve cento denari, corrispondenti a cento giornate lavo-rative di un bracciante agricolo, quindi una somma di un certo valore, ma irrisoria rispetto ai dieci-mila talenti. Probabilmente il servo condonato è un grande esattore di tasse a servizio del padrone e l’altro servo è un suo subalterno. Il servo condonato si trova nell’occasione di rivivere, questa volta non nella posizione di servo, ma nella posizione opposta, cioè di padrone, la stessa esperienza fatta dal re, cioè quella della pazienza o addirittura del condono.

In questa scena vi sono quattro movimenti precisi. Anzitutto il servo che ha ricevuto il condono in-contra il compagno che gli è debitore; poi lo aggredisce per obbligarlo a saldare il debito; in terzo luogo, il secondo servo gli chiede di pazientare, usando la stessa espressione del primo nei confronti del padrone (vv. 26 e 29); anzi, il servo che aveva un debito insanabile promette al padrone di resti-tuire addirittura «tutto» (pànta), mentre il suo collega, più realista, si impegna a restituire e basta; in quarto luogo, la richiesta di benevolenza questa volta non va a buon fine: la scena, infatti, termina con la crudeltà di colui che, pur essendo stato graziato, non condona il debito al compagno, non gli concede una dilazione, ma lo fa arrestare e gettare in carcere.

Noi ci aspetteremmo che questo servo, che ha ottenuto un condono così grande, fosse generoso, e invece si comporta in modo spietato, compiendo due gesti negativi: aggredisce il collega debitore e poi lo prende per il collo, appunto come fanno gli strozzini. Inoltre accompagna questi gesti di so-praffazione con un minaccioso imperativo: «Restituisci quello che devi». Quando viene supplicato dal suo collega di avere pazienza, egli, subito dopo essere stato perdonato di tutto il suo debito co-lossale, dopo essere stato restituito al suo futuro e alla sua famiglia, non vuole sentire la preghiera, eguale a quella che anche lui ha fatto poco prima, non si commuove per nulla, anzi si mostra infles-sibile. Non crede al servo che promette, e la promessa questa volta è ragionevole, di arrivare a sal-dare tutto il debito; la richiesta del collega non va a buon fine, perché il creditore al quale era stato condonato totalmente il debito, fino alla estinzione del debito fa mettere il servo in quel carcere che a lui è stato gratuitamente risparmiato. Il servo che ha ricevuto misericordia non è stato in grado di fare altrettanto; la scena termina con la crudeltà di colui che, pur essendo stato graziato, ma fa il compagno gettare in quel carcere dal quale era stato graziato.

Dopo la presentazione in positivo del carattere illimitato del perdono, esercitato dal padrone, questa seconda scena presenta una illustrazione a rovescio, presenta l’atteggiamento anti-modello di un

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uomo, incapace di condonare un debito che è abbastanza ordinario. Il quadro è peggiorato dal fatto che l’intollerante è il medesimo che un momento prima ha goduto del più generoso condono del proprio debito e poi dalla differenza abissale dei due debiti.

Quello del servo condonato è un comportamento che contrasta in maniera scandalosa con quanto ha ricevuto, al punto che perfino gli altri servi sono stupefatti, molto dispiaciuti per la durezza del loro collega che è stato appena graziato. Se in certo senso era giusto per lui chiedere che gli fosse dato il denaro dovutogli, certamente è stato spietato il modo di esigerlo e di non ascoltare la supplica. Il lettore percepisce subito l’assurdo contrasto tra la magnanimità del re, che ha condonato una somma ingente al servo, e il comportamento gretto di costui, che non sa fare altrettanto con un collega o su-balterno che gli doveva una somma limitata. Se confrontiamo alla luce del debito enorme che gli è stato appena cancellato il comportamento che questo servo ha verso chi gli era debitore di cento de-nari, ci chiediamo come è possibile che, dopo un tale condono, non sia capace a propria volta di una remissione così piccola.

In questa seconda scena la parabola incomincia a staccarsi dalla problematica iniziale, posta da Pie-tro, su quante volte bisogna perdonare, e introduce una nuova dimensione: bisogna perdonare come e perché si è stati perdonati. Dal carattere generoso, illimitato del perdono, si va verso la presenta-zione del perdono come frutto e imitazione del perdono ricevuto. La parabola mira esplicitamente a porre in risalto un antefatto che dovrebbe cambiare tutto il nostro modo di ragionare e di comportar-ci: il grande perdono ricevuto. Il vangelo domanda questa conversione: vedere le cose, le relazioni con le persone a partire da un antefatto, dal perdono immenso di Dio. Se dimentichiamo l’antefatto, che cioè siamo prima amati e perdonati gratuitamente, diventiamo inevitabilmente difensori della rigida giustizia, al punto da volerla imporre anche a Dio.

La terza parte della parabola (vv. 31-34) Nella terza scena ritornano in campo il padrone e il primo servo, ma intervengono anche altri servi che hanno scoperto la sproporzione tra il perdono ricevuto dal re e la punizione data al collega. Questi vanno a riferire l’accaduto al padrone; hanno la funzione di fare da cassa di risonanza, ren-dendo pubblica e facendo conoscere al loro signore l’azione indegna di un loro collega. Sono più che semplici trasmettitori di un fatto, perché vi partecipano con un sentimento che il testo registra con queste parole: «furono molto dispiaciuti». Questa annotazione indica che il comportamento del servo è abnorme, inaccettabile, contro le regole della convivenza sociale. Eppure è tragicamente ve-ro.

Anche qui osserviamo quattro movimenti. Anzitutto i servi addolorati riferiscono al padrone quanto è accaduto; poi questi manda a chiamare il servo a cui ha condonato il debito; in terzo luogo, gli rin-faccia la sua condotta crudele, malvagia, la sua mancanza di pietà; infine lo dà in mano agli aguzzi-ni, fino a quando non restituirà il denaro. In questa terza parte il padrone che prima si era intenerito ora si adira e fa vedere al servo malvagio (poneròs, cattivo perché senza misericordia) quanto sia stato incoerente il suo modo di agire e che comportamento avrebbe dovuto tenere: doveva condona-re il debito, perché anche a lui era stato condonato. Il v. 33 contiene una domanda retorica che non attende risposta, perché è già chiara: «Non dovevi forse anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». In questo versetto il verbo «avere pietà» (eleèin) risuona due volte: una volta è applicato al signore e una volta al servo. Da parte del signore non c’è stata una semplice abrogazione, una cancellazione di ufficio, ma c’è stato un moto di amore, di intima compartecipa-zione. Il flusso di misericordia, avviato dal padrone, doveva scorrere anche nelle vene del servo e, invece, la generosità del padrone non ha introdotto nessuna novità nel comportamento del servo. Si direbbe che quella del padrone è stata una generosità sprecata.

Quindi il padrone, sdegnato, annulla la disposizione di condono ed emette il suo giudizio severo: quel servo cattivo è destinato alla tortura; questo giudizio è espresso non in base a categorie giuridi-che, ma sulla base della misericordia avuta e non condivisa dal servo. Al condono munifico si sosti-

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tuisce ora una condanna durissima; come prima si era dimostrato compassionevole e generoso, ora il padrone si dimostra altrettanto duro, sdegnato e severo: il debito rimesso viene riconfermato e il servo è messo in mano agli aguzzini, finché non riesce a restituire tutto il dovuto. Quest’ultima frase suona come condanna a una pena eterna, perché nessuno riuscirà a rimborsare diecimila talenti. Può sembrare troppo severa questa carcerazione, ma d’altra parte sarebbe difficile accettare che il com-portamento così scorretto di questo servo non abbia nessun effetto negativo.

Approfondimenti La parabola nella prima parte parla dell’esperienza del perdono totale e gratuito ricevuto dal servo. Nella seconda parte parla del perdono che dovrebbe essere esteso al proprio fratello e che invece viene negato. Nella terza parte parla dello sdegno del padrone con chi è stato perdonato e non è ca-pace, a sua volta, di perdonare: quel servo è condannato perché tiene solo per sé il perdono ricevuto, come se fosse stato un atto dovuto, e non lo estende al fratello. Ma questo comportamento del pa-drone non contraddice forse l’esortazione introduttiva di Gesù, che invitava a perdonare settanta volte sette, cioè all’infinito (Mt 18,22)? Perché, dopo aver concesso il perdono una volta, ora il pa-drone rifiuta di ripeterlo? Perché sottopone il servo a un supplizio che sarà eterno, in quanto il servo non riuscirà mai a pagare quel debito?

Per la comprensione della parabola veniamo aiutati anche dalla presenza di parole che indicano sen-timenti, emozioni forti e questo è piuttosto raro nei vangeli, dove di solito le descrizioni sono al-quanto oggettive, non indulgono a descrivere i sentimenti dei protagonisti. Il primo servo si getta a terra, con un gesto di intensa supplica. Il padrone ha compassione e poi perdona. Abbiamo visto che il verbo «aver compassione» richiama la misericordia di Dio e ritorna nella parabola del buon samaritano (Lc 10,33) e del padre misericordioso (Lc 15,20). Anche il verbo condonare evoca la parabola dei due debitori che non potevano restituire (Lc 7,42-43, dove, però, Simone, il fariseo, ri-conosce subito che colui a cui è stato condonato di più ama di più). Poi la parabola dice che il servo che ha ricevuto il condono enorme aggredisce con violenza il suo debitore: lo prese per il collo, lo soffocava; si comporta quindi come uno strozzino che presta ad alti interessi e che esige violente-mente la restituzione. Gli altri servi sono molto dispiaciuti (lypèo), cioè sono presi da emozione per la durezza di cuore del loro collega. Parole forti descrivono il comportamento e i sentimenti finali del padrone: rimprovera al servo la mancanza di pietà; avrebbe dovuto aver pietà, misericordia, come dicono le beatitudini; poi il padrone, sdegnato, mette questo servo in mano agli aguzzini.

La conclusione o l’applicazione della parabola (v. 35) Segue, a modo di conclusione, l’applicazione: nelle parole di commento alla parabola Gesù precisa che non si può contare sul continuo perdono di Dio, se non perdoniamo «di cuore», cioè con tutto il nostro io, senza rancore, al nostro fratello. Gesù chiede non solo di perdonare, ma di perdonare di cuore, cioè a partire dall’interno del cuore. Pietro aveva domandato quante volte doveva perdonare al fratello che lo aveva offeso. Gesù gli aveva risposto che bisogna perdonare sempre. A conclusio-ne della parabola dice che bisogna perdonare di cuore. Tuttavia nella parte iniziale della parabola il perdono del padrone era gratuito, incondizionato e precedeva il rifiuto del perdono fatto dal servo; nell’applicazione il perdono nostro sembra essere la condizione per ricevere il perdono di Dio. Nell’applicazione sono tenute presenti la seconda e la terza scena della parabola, ma non la prima che presenta il condono incondizionato di Dio. La parabola dice di perdonare come Dio ha perdona-to a noi, mentre l’applicazione sembra dire: niente perdono di Dio per chi prima non perdona; non si può contare sul perdono di Dio, se non si perdona. Questa riflessione conclusiva non rispecchia completamente l’insegnamento della parabola, ma rispecchia piuttosto una teologia presente altre volte nel vangelo secondo Matteo (Mt 6,12.14-15; 5,7).

L’applicazione, quindi, va oltre la parabola e introduce l’idea che il perdono tra fratelli è condizione del perdono di Dio. La parabola fa capire che la sorgente dalla quale scaturisce per noi la forza di

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perdonare sta nel perdono illimitato che abbiamo ricevuto e che continuamente riceviamo da Dio. La conclusione della parabola sottolinea un altro pensiero: non concorda né con il dialogo iniziale sul perdono illimitato che precede la parabola (Mt 18,21-22), né con la parabola vera e propria, ma sottolinea l’importanza che ha il perdono tra gli uomini per poter ricevere il perdono di Dio. Tutto ciò lascia intuire che Matteo con questa parabola, con la sua introduzione e con la sua conclusione ha voluto presentare una catechesi sul perdono, riunendo insieme elementi che prima erano separati tra loro: quello del perdono ricevuto da Dio e quello che siamo chiamati a darci reciprocamente sempre.

La parabola e il suo contesto La parabola rivela anzitutto come Dio si pone davanti all’uomo e poi dice come a propria volta l’uomo deve porsi non davanti a Dio, ma davanti al fratello. L’amore di Dio non è circolare, ma e-spansivo, è nella linea della gratuità, non della reciprocità. La parabola quindi, dopo aver proclama-to il perdono di Dio, proclama in secondo luogo in maniera chiarissima ed esigente che perdonare agli altri è un dovere evangelico assoluto, fa parte della radicalità del vangelo, non ammette scuse, scappatoie, remore. Il vangelo insiste sul perdono e il perdono è un punto nodale che rappresenta un culmine nella tradizione cristiana. Tante volte siamo ciechi e usiamo due pesi e due misure. Quando si tratta di noi stessi, pensiamo che in fondo l’indulgenza ci è dovuta; quando si tratta degli altri che ci hanno offeso, diventiamo duri, esigenti, non vogliamo perdonare. Chi crede in Dio e sa che da lui è perdonato, è chiamato ad allargare lo spazio del perdono verso i fratelli, sapendo che le loro offese sono poca cosa, se paragonate al nostro debito con Dio.

La parabola ci dice che Dio si comporta secondo l’affermazione del salmista: «Egli perdona tutte le tue colpe... ti circonda di bontà e di misericordia... Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono» (Sal 103,3.4.11). Dio non è insensibile alla no-stra necessità di essere riconciliati con lui: è un Padre che ci dà sempre la gioia del suo perdono. Il perdono immenso ricevuto è un fatto che deve cambiare il nostro modo di pensare e di rapportarci agli altri, nella Chiesa e nel mondo. Il perdono di Dio è il motivo e la misura del perdono fraterno; il perdono fraterno è la conseguenza del perdono di Dio, ne è la risposta. Siamo chiamati a perdonare senza misura, perché Dio ci ha già fatti oggetto del suo perdono senza misura. Se c’è l’esperienza, il ricordo del perdono continuo ricevuto da Dio, anche le nostre relazioni con gli altri cambiano. Dio perdona non come colui che dimentica il mio passato, ma come colui che mi spinge, mi dà la forza di andare oltre, come colui che mi rigenera, che allarga il mio cuore e mi rende capace di pormi in modo nuovo non solo davanti a lui, ma anche davanti agli uomini. Sei stato perdonato da Dio: egli aspetta che tu abbia pietà, come lui ha continuamente pietà di te, aspetta da te un atto di fede e di speranza negli uomini, la capacità di guardare non al loro passato, ma al loro futuro. L’esigenza del perdono al prossimo nasce dal fatto che Dio per primo ci ha offerto gratuitamente il suo perdono. Siamo sotto il segno del perdono e la sua prova più tangibile è il Crocifisso.

Quando hai scoperto di essere nelle braccia della misericordia di Dio Padre, non domanderai più quante volte devi perdonare, ma domanderai come puoi attestare la generosità che lui usa verso di te, sapendo che i nostri gesti sono sempre lenti, maldestri, insufficienti, ti renderai conto che, perdo-nando a tua volta, puoi sperimentare la gioia che Dio ha, quando perdona, quando ristabilisce la sua relazione paterna. Dopo che hai sperimentato il perdono, è comprensibile che Dio chieda di non chiudere il tuo cuore a coloro che ti hanno offeso.

Nell’introduzione alla parabola, Pietro è stato invitato da Gesù a rientrare in se stesso, nel profondo del proprio spirito, a rinunciare ai falsi meccanismi di difesa, che lo inducono a fissare dei limiti al perdono, è invitato ad andare al cuore del vangelo: niente vale quanto una vita e per questo Dio ci perdona tutti, ripetutamente e abbondantemente. L’introduzione alla parabola sottolinea che noi dobbiamo perdonare sempre e che la misura del perdono non è mai colma. Il perdono non viene da-to una volta per sempre, ma va continuamente rinnovato. Perdonare non è facile, perché il perdono non è una formula verbale, ma è rinnovare la relazione che è stata ferita dalla colpa. Perdonare è un

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cammino faticoso, lungo, che sgorga dal ricordo dell’amore di Dio verso di noi. Pietro ha capito che la radice del perdono è il ricordo. L’uomo deve ricordare, in primo luogo, di essere incamminato verso la morte e che, di conseguenza, non si può dare troppa importanza a piccole cose della vita. L’uomo è poi invitato a ricordare la legge di Dio che sottolinea ripetutamente la necessità della tol-leranza e del perdono. Soprattutto l’uomo deve ricordare l’alleanza di Dio, la sua solidarietà ostina-ta, fedele verso l’uomo, portata a compimento da Gesù Cristo: deve ricordare che Dio è amore sen-za pentimento, capace di accogliere sempre e di perdonare. Da questo triplice ricordo l’uomo impa-ra a vedere con uno sguardo nuovo se stesso e il fratello che lo ha offeso.

Per vedere il fratello e accoglierlo come persona che ha anche i suoi limiti occorre prima scoprire il Padre che ci perdona. Se hai gustato di essere sostenuto dalla misericordia di Dio, non domanderai più: «Quante volte devo perdonare?», ma: «Come posso attestare la generosità, la misericordia con la quale egli mi perdona, perdonando a mia volta, pur sapendo che i miei gesti di perdono sono sempre lenti, maldestri, insufficienti?». Perdonare non è facile, perché perdonare è sciogliere i le-gami che ci annodano in una reciprocità di debiti e rinnovare la relazione ferita dalla colpa. Perdo-nare è un cammino faticoso che sgorga dal non dimenticare, dal ricordare l’amore di Dio per noi, della sua alleanza con noi. Da questo ricordo si impara a vedere con uno sguardo nuovo se stessi e chi ci ha offeso.

La conclusione della parabola evidenzia che il tuo perdono dato agli altri diventa non misura, ma diventa certamente segno del tuo perdono ricevuto. La conclusione della parabola va capita bene: intende smuovere una certa inerzia e porre subito in luce un aspetto che, leggendo solo la parabola, rischia di non essere tenuto sufficientemente presente. La conclusione non vuole dire che il nostro perdono serve da modello per il perdono divino, ma vuole sottolineare che i discepoli devono ripro-durre tra di loro quello che è stato l’atteggiamento di Dio nei loro confronti. I discepoli possono fare appello al perdono di Dio e lo possono fare in maniera sincera, quando la loro vita dimostra che ci credono: il loro perdono, anche se lento e maldestro, attesta che credono nella verità del perdono di Dio e attesta la loro disponibilità a riceverlo. Che l’uomo estenda il perdono ricevuto o lo tenga solo per sé, agli occhi di Dio non può essere la stessa cosa. Il perdono al fratello non è la ragione del perdono di Dio, però è il luogo della sua verità. Se non perdoni, significa che tu non hai accettato, non hai apprezzato veramente il perdono di Dio, significa che non te ne rendi conto, che ti ritieni non salvato, non bisognoso della sua misericordia.

All’inizio della nostra vita cristiana sta il perdono gratuito di Dio, ma dopo Dio domanda anche il nostro perdono reciproco, domanda che il nostro perdono non rimanga chiuso, inattivo, domanda che si prolunghi nella nostra vita. Vuole che al ricevere corrisponda anche il dare. Se manca l’impegno di perdonare gli altri, la nostra accoglienza del perdono e la nostra preghiera sono false. Affiora qui il legame inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo. Chi sperimenta l’amore perdonante di Dio, ha la forza di perdonare a sua volta il prossimo. Perdonandoci, Dio non ci dà so-lo un esempio, ma pone in noi la capacità della misericordia. Questa conclusione non vuole affer-mare una perfetta corrispondenza tra il perdono divino e quello umano, né vuol dire che il perdono divino è condizionato da quello umano o commisurato ad esso, ma proclama che chi è stato perdo-nato ha ricevuto un amore creativo, ha ricevuto la forza di perdonare.

L’amore suggerisce un altro percorso: quello del perdono. Perdonare non significa dimenticare il passato, mettere una pietra su ciò che è avvenuto. Chi perdona non si propone di dimenticare il male ricevuto, ma di togliere il male che è avvenuto. Chi offende produce tre mali: contro la persona of-fesa, contro se stesso, contro la società o le relazioni tra le persone. Chi perdona non si ferma alla sofferenza prodotta nella sua vita, ma estende il suo interesse al male che è stato introdotto nella convivenza umana e si propone di toglierlo. Per far questo compie un primo lavoro su di sé: toglie l’odio. Poi compie un lavoro su chi ha sbagliato per togliere dalla sua vita le cause che l’hanno por-tato a sbagliare. Non è detto che questo risultato venga ottenuto, però perdonando si riversa sul mondo una forza di amore. Il perdono serve a mettere le basi per un mondo nuovo, migliore.

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Come nelle antitesi del discorso della montagna, anche in questa parabola Gesù mostra che non ci si può basare solo sulla legge. Il servo condonato nel suo rapporto con il collega si fonda unicamente sulla legge: vuole che paghi quello che gli deve. Così dimentica il precetto della misericordia, di a-ver pietà come Dio l’ha avuta con lui. Prima di vantare dei diritti verso gli altri, dobbiamo ricordare che siamo figli perdonati dal Padre. Questo ricordo ci aiuta a superare la stretta legalità.

Alcune domande 1. Anzitutto possiamo chiederci a chi dobbiamo perdonare?

Dobbiamo perdonare al mondo moderno che, almeno nel nostro contesto occidentale, sembra disin-teressarsi della Chiesa, della fede, dei preti, ritiene la religione un fenomeno marginale, la deride. Quando si interessa della Chiesa, la interpreta in maniera riduttiva, secondo categorie mondane, so-ciopolitiche, conflittuali. Naturalmente non approviamo il modo con cui il mondo moderno tratta la fede, però vogliamo guardarlo con occhio misericordioso, senza astio, senza rancore, un po’ come una madre guarda agli errori e ai peccati dei suoi figli, come il padre del figlio prodigo continua a sperare nel suo ritorno. Spesso, invece, noi abbiamo un rancore non ben digerito nei confronti del mondo contemporaneo che magari ci sfrutta, ci utilizza (utilizza la Caritas, le varie forme di volon-tariato ecclesiali), ma non prende la fede sul serio. Abbiamo molto da perdonare al mondo ed è bel-lo farlo, guardando a questo mondo con cuore largo, superando ogni risentimento e amarezza: vo-gliamo che questo nostro mondo si senta da noi amato.

Dobbiamo perdonare all’opinione pubblica e ai suoi strumenti che per lo più ignorano i cristiani, non di rado li fraintendono o mettono volentieri in rilievo i loro aspetti negativi, trascurando le e-normi energie di bene che sprigionano dal servizio quotidiano nascosto e fedele dei credenti, com-piuto con sacrificio, con gratuità. Dovrebbe essere un fenomeno che impressiona, perché è contro-corrente, invece l’opinione pubblica sembra ignorarlo. Dobbiamo perdonare nel senso che accettia-mo senza stizza, senza gusto di rivalsa il modo di trattarci dell’opinione pubblica, e cerchiamo di imitare Gesù, mite e umile di cuore. Spesso dentro di noi albergano, invece, sentimenti di continua polemica verso i media, verso l’opinione pubblica. È giusto correggere i loro errori, richiedere maggiore obiettività, una maggiore verità, ma senza polemizzare, usando pazienza e rispetto.

Dobbiamo perdonare alla Chiesa. È arduo questo perdono, perché spesso siamo di fronte a solitudi-ni che feriscono, a giudizi, a trattamenti che ci paiono ingiusti o parziali; siamo di fronte a freddezze che ci rattristano, di fronte a mancanze di idealità che ci disorientano. Qui davvero vale la parola di Gesù a Pietro: perdona settanta volte sette, anche perché è l’unica via della pace. Se coltiviamo ri-sentimenti a motivo di alcuni modi ingiusti con i quali siamo stati trattati, la vita si appesantisce fino a diventare un veleno, si diventa amareggiati, un po’ pungenti, si perde la pace e la gioia interiore, si interpretano con sospetto tutte le azioni della Chiesa, perché si ha la paura di essere giocati. Il per-dono ci dà la pace interiore. Dobbiamo perdonare molto alla comunità, quando non ci segue nelle nostre proposte e iniziative, quando ci delude.

2. È necessario anche domandarci a chi dobbiamo chiedere perdono, sapendo che farlo pubblica-mente è difficile e si rischia sempre di cadere nella retorica, ma soprattutto sapendo che non c’è vita cristiana, non c’è esercizio del ministero, se non dentro la trama del ravvedimento. Ciascuno di noi è chiamato a fare i conti con la propria debolezza, senza autoflagellazioni pubbliche, ma nel silenzio del cuore, nell’umiltà di chi sa di portare un tesoro in vasi di creta.

Anzitutto dobbiamo chiedere perdono alla nostra famiglia, alla comunità. Confessiamo la nostra inadeguatezza nei rapporti di comunione in famiglia e nella Chiesa: non abbiamo saputo creare o intrattenere con molti quei rapporti di vicinanza, di affetto semplice e cordiale e pur tanto desiderati. Chiediamo perdono per una relazionalità povera, perché spesso siamo stati giocati dalla fretta, dalla stanchezza, dalle urgenze che premevano, dai nostri limiti personali. Chiediamo perdono per i tanti peccati di omissione, per la timidezza o la superficialità che ci ha impedito una lettura messianica della nostra epoca, per le nostre impazienze, per aver trattato male qualcuno, per i nostri nervosismi,

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per essere stati di intralcio nel cammino di fede, in casa o fuori, per aver forse contribuito ad allon-tanare qualcuno dalla Chiesa o addirittura dalla fede. Soprattutto chiediamo perdono per i peccati di omissione che hanno contribuito a causare l’allontanamento di qualche fedele dalla Chiesa o addi-rittura dalla fede. Ci sono persone che si ritengono offese da noi e non sappiamo il perché: noi do-mandiamo ugualmente perdono.

Chiediamo perdono soprattutto a Gesù per non averlo accolto, amato e adorato. Chiedendo perdono a lui, chiediamo perdono anche al Padre per quando abbiamo resistito al suo disegno di amore. For-se non abbiamo saputo discernere la volontà di Dio nella quotidianità, nei nostri impegni, nelle pro-ve e nelle solitudini.

3. Chiediamoci infine se ci sentiamo perdonati da Dio. L’invocazione «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» ci dà la certezza fisica che, quando perdoniamo gli altri, lo possiamo fare perché siamo stati perdonati da Dio. Non siamo noi a precedere Dio nel perdono, ma è lui che ci ha già perdonato molte volte. Nel momento in cui perdoniamo, acquistiamo e testimo-niamo la certezza del suo perdono. L’esperienza del suo perdono è l’unica che ci colma di pace e ci consente di affrontare il mondo moderno, gli altri, tutte le resistenze intorno a noi con animo so-stanzialmente sereno, senza paura e senza quelle inutili polemiche che servono solo a esasperare.