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SO CHE CI SEI

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so che ci sei

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eLisA GioiA

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analo-gia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

isBN 978-88-566-4445-6

i edizione 2015

© 2015 elisa GioiaLicense agreement made through: Laura ceccacci Agency

© 2015 - eDiZioNi PieMMe spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2015-2016-2017 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

stampato presso eLcoGRAF s.p.A. - stabilimento di cles (TN)

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A chi ci crede.Sempre e comunque.

Non so esattamente cosa spinga due persone a legarsi. Forse la sintonia, forse le risate, forse le parole. Probabilmente l’incomin-ciare a condividere qualcosa in più, a par-lare un po’ di sé, a scoprire pian piano quel che il cuore cela. Imparare a volersi bene, ad accettarsi per i difetti, i pregi, per le arrab-biature e le battute. O forse accade perché doveva accadere. Perché le anime son desti-nate a trovarsi, prima o poi.

Paulo Coelho

Forse serve un po’ di tempo Credo, spero, penso, sento Voglio essere importante per te e non per la gente.

MarCo Mengoni

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Prologo

La situazione mi era sfuggita di mano.L’ammasso inerme che vedete disteso sul letto, con il

volto spalmato contro il cuscino, le gambe avvolte nel piumone come il tacchino del Ringraziamento nel tetra-pak, be’, sono io.

ero sempre stata un bradipo. Niente sport, primatista di salto in lungo sul divano, tessera della palestra in bella mostra nel portafoglio. insomma, campionessa mondiale dell’ozio.

Ma da ben due settimane, non che tenessi il conto, da bradipo ero diventata una larva.

Una larva che strisciava per amore.sì, la situazione mi era notevolmente sfuggita di mano.All’inizio pensavo che i colpi che sentivo martellare

nella mia testa fossero le proteste del mio cervello. si av-vicinavano molto a un concerto hard rock degli Ac/Dc. Appena cercai di aprire gli occhi, una fitta allucinante mi obbligò a chiuderli di nuovo. Ricordavo ben poco della sera prima, solo un karaoke, io che cantavo a squarciagola una canzone di Vasco Rossi e un biondino, neanche tanto carino, che mi alitava sul viso.

Poi il nulla. Non ricordavo più niente.Molto bene, Caputi!schiacciai di nuovo la testa sotto il cuscino, con un ge-

mito.

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Questa non ero io. ero precisa, la regina dell’ordine e della ragione, ma-

niacale come un consumato serial killer.La mia vita era apparentemente perfetta. sveglia pun-

tata alle sette, rassegna stampa dei miei social network, ispezione di Whatsapp e del suo profilo, pronta a leggere la sentenza di quattro parole: ultiMo aCCesso alle ore. Mi sarei alzata e, dal bagno fino alla fermata della me-tro sotto casa, mi sarei chiesta con chi fosse stato online dopo avermi dato la buonanotte. Mi sarei presentata al la-voro pimpante e innamorata, mentre dentro mi rodevo dai dubbi e dalla gelosia.

Ma da fidanzata in quel di Londra, mi ero ritrovata tra-dita, single e in italia.

Da qualche parte della casa mi arrivò lo squillo del cel-lulare.

spinsi via le lenzuola con un lamento e molto lenta-mente mi alzai. Avevo la gola riarsa come il deserto e il bisogno impellente di andare in bagno. Almeno gli shot della sera prima mi avevano stordito ed ero crollata a letto senza avere il tempo e la lucidità di rivivere in slow mo-tion le ultime settimane, evitando di addormentarmi in posizione fetale e annientata dal dolore.

sì, le cose mi erano sfuggite di mano da quel 23 di-cembre, l’antivigilia di Natale agli arrivi del Marco Polo di Venezia. ero riuscita a far stare sei mesi di vita in due valigie e una borsa, e avevo attraversato i controlli doga-nali di corsa, aspettando di trovarmi lui agli arrivi a brac-cia aperte.

Non chiedevo una dichiarazione d’amore su uno stri-scione, un sit-in di benvenuto con tanto di palloncino a forma di cuore.

Mi sarebbe bastato lui. come era sempre stato.invece l’innominabile barra stronzo non si era presen-

tato col viso travolto dalla felicità. Mi trovai davanti mio

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padre, con la faccia mortificata che si fissava le punte lu-cide delle sue clarks e la sua Panda 4x4 parcheggiata in zona carico/scarico.

il cellullare trillò ancora, insistentemente, strappan-domi da quei ricordi dolorosi e vivi.

«ho capito!» bofonchiai. Avevo la bocca impastata e l’alito così pesante da poter stendere qualcuno. Mi passai le mani tra i capelli ma si bloccarono nel groviglio di nodi che erano. Potevo vedere il mascara colato sotto gli occhi e la matita nera sbavata.

Già sentivo mia madre: «Mai andare a letto truccate!».Aveva ragione, purtroppo. Alcol e trucco erano un bi-

nomio micidiale, e aggiungendo poi le scarse ore di sonno avevo mandato a farsi benedire Il Manuale per avere pelli da copertina fino a cinquant’anni.

scoordinata e barcollante, cercai l’interruttore della luce e andai a sbattere con il mignolo contro lo spigolo del letto.

Merda! Mi mancò il respiro. Dolorante e senza fiato per l’impatto, accesi la luce e

chiusi gli occhi. Ancora. Mi portai le mani alle tempie e le strizzai. il concerto nel mio cervello era nel clou della se-rata.

Datemi una pistola! Subito!La mia stanza non era in condizioni migliori. sembrava

un campo profughi.il vestito della sera prima era arrotolato per terra vi-

cino ai piedi del letto e intravedevo una décolleté... sopra la scrivania? cosa ci faceva lì?

La borsa era completamente rovesciata sul pavimento. Trucchi, assorbenti, caramelle erano sparsi ovunque e le calze aggrovigliate in fondo al letto.

Aggrottai la fronte. cosa avevo combinato ieri sera?Zoppicando, presi gli Ugg vicino all’armadio e me li in-

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filai. ignorai le temperature gelide dell’appartamento e, in reggiseno, mutande e stivali col pelo, seguii il trillo del te-lefonino.

Mi sentivo molto una bagnina di Baywatch, solo che sulle mie cosce avevo tanta di quella cellulite depositata che solo sparandomi Photoshop sulle chiappe poteva spa-rire. Per non parlare della cartina geografica, meglio co-nosciuta dal pianeta femminile come smagliature, che avevo stampato sull’interno coscia e sui fianchi. e non avevo figli.

Almeno la biancheria intima era coordinata, mi con-solai.

Quando entrai in cucina, sfregandomi le mani sulle braccia, ebbi un secondo shock.

Già troppi in una mattinata.il mio telefonino era sul banco della cucina ma non

squillava, eppure io il trillo lo sentivo ancora.oh. Mio. Dio.chi c’era in casa con me?Non ricordavo nulla della sera prima. Niente, nada.e se mi ero portata a casa quel biondino? Mi sarei presa

a calci nel sedere da sola.Un altro squillo mi fece sussultare.Dio! ero in cucina, mezza nuda, con il mio telefonino

in mano e un altro che squillava in un’altra stanza. e forse, dico forse, un ragazzo non identificato da qualche parte della mia casa.

con il cellulare acceso in modalità emergenza, aprii il cassetto sotto il forno, impugnai il mattarello e con passo felino avanzai guardinga verso il corridoio.

Accesi la luce e non trovai nessuno, solo l’altra décol-leté di vernice.

Mi diedi una sberla sulla fronte. Doveva essere stata una nottata da fuochi d’artificio se non mi ricordavo asso-lutamente nulla.

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scossi la testa senza speranza e in punta di piedi mi di-ressi verso l’ultima stanza. il bagno.

O la va o la spacca, Gioia! Mi appiattii lungo il muro e trattenni il respiro, la mano

già sulla maniglia, quando il martellare insistente e im-provviso sulla porta d’entrata mi fece sussultare.

Stupida, stupida, stupida!Non era lo squillo del telefono, ma il campanello di casa.«Gioia!» urlò una voce femminile al di là del muro.

Aggrottai la fronte. Non ero in vena di sentire il suo tono autoritario. «Gioia, apri questa cazzo di porta!»

imitai un saluto militare e, incurante di essere coperta solo da qualche centimetro di stoffa, il mattarello in una mano e il mignolo dolorante, aprii alla mia migliore amica con un sorriso da instagram.

«Bea.»«Gioia!» sulla soglia di casa, con il piumino rosso ab-

binato alle scarpe tacco dodici, i ricci biondi indomabili e gli occhi color del mare che brillavano di rabbia, c’era la mia migliore amica in tutta la sua incazzatura. Beatrice Turani.

«Bea, buongiorno anche a te» dissi con spavalderia.«Perché cazzo non rispondi al cellulare? sai quella

cosa che si usa per rimanere in contatto con gli amici? stavo per chiamare una squadra di swat per riuscire a en-trare nel tuo bunker.» Mi squadrò da cima a fondo, dalle doppie punte dei miei capelli fino agli stivali col pelo, pas-sando per il completino intimo.

storse il naso. io di rimando incrociai le braccia al petto, pronta per la sua ramanzina. A quanto pareva quella giornata era iniziata col piede sbagliato. infatti non feci in tempo a varcare la soglia della cucina che disse: «cristo. santo».

No, neanche cristo e tutti i santi del calendario avreb-bero potuto aiutarmi.

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era sbigottita. «Gioia!»«Bea.»«smettila di farmi il verso! sei mezza nuda e... od-

dio! ho interrotto qualcosa?» ecco, questa era Bea, la dea della caccia. in confronto Diana era una zitella sfigata.

La stagione della caccia per lei non chiudeva mai, aperta trecentosessantacinque giorni all’anno. colle-zionava uomini come io collezionavo sfere con la neve, era una femminista convinta e sostenitrice accanita della scritta libera sulla carta d’identità.

«Non c’è nessuno.» Tirai un sospiro di sollievo per non essere andata a letto con quel cesso a due gambe. Mi sarei marchiata la s di sfigata in fronte da sola.

Aprii le ante, seguita da lei che camminava in punta di piedi per la cucina come se avesse paura di contrarre l’ebola. in effetti la cucina era messa peggio della mia ca-mera.

Pile di piatti da lavare accatastati sul lavello, scatole di cereali e biscotti aperte sull’isola che divideva la cucina dal piccolo salotto, post-it su post-it sparsi ovunque e un odore di rancido che aleggiava nell’aria.

Bea prese un cartoccio di latte aperto e lo lanciò nel la-vandino, sfiorandolo con le dita come se fosse una prova da consegnare ai ris. «santo Dio, Gioia! i profughi stanno meglio di te.»

L’ignorai e mi lasciai cadere sul divano, un cerchio alla testa oltre alle corna che il mio ex fidanzato mi aveva rega-lato gentilmente come accessorio primavera estate. La sen-tii aggirarsi per la casa e con tono d’accusa mi disse: «Non puoi continuare così. Posso capire che ti senti uno schifo, basta vederti, ma ti stai scavando la fossa da sola. Gioia, ti voglio bene e sono tua amica, ma voglio proprio vedere come farai a riemergere dal mare di merda in cui ti trovi».

Andava dritta al sodo, per questo era la mia migliore amica insieme alle altre due Grazie.

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Non potevo trovare scusanti a cui appellarmi.sollevai a fatica un pollice. Avevo bisogno di un caffè, subito!Mi alzai e riuscii a trovare una moka e del caffè ancora

bevibile, afferrai l’ultima tazza pulita rimasta e la posai sul bancone, mentre Beatrice perlustrava ancora la casa.

Ritornai sul divano e chiusi di nuovo gli occhi, spe-rando che il martellare si affievolisse. Avevo bisogno di si-lenzio, di un analgesico e di una pistola in caso di riserva, ma Bea non era dello stesso avviso. Apriva e chiudeva il cesto dei rifiuti con dei tonfi, smuoveva la pila di piatti nel lavandino e sbuffava ogni tre per due. si era trasformata in cenerentola, lei che non sapeva neanche leggere la data di scadenza sulle confezioni.

«Gioia...»«che c’è?» sbuffai.«sono giorni che non rispondi al telefono. immagino

che tu non abbia risposto nemmeno alle telefonate di tua madre.» in effetti in queste ultime settimane il mio livello di sopportazione rasentava lo zero, figuriamoci se volevo sentire mia madre che mi sparava i suoi soliti te lo avevo detto, quindi avevo ignorato le sue telefonate minatorie.

«Non ho avuto tempo.»«stavi accumulando merda in cui sprofondare?»«sei venuta a sparare giudizi?»Beatrice sospirò e spense il caffè sul gas. «siamo tutte

preoccupate per te.» “siamo” erano la suddetta Beatrice, mia sorella Melissa e Ludovica Valenti.

Le tre Grazie.«sono contagiosa» borbottai sotto il cuscino. Pur-

troppo non esisteva sul mercato un cerotto da mettere sul cuore per farlo smettere di sanguinare. immaginai che Bea mi stesse lanciando una delle sue occhiate da chi-vuoi-prendere-per-il-culo, così la rassicurai. «sto bene.»

Forse dirlo a voce alta avrebbe convinto anche me.

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«Prenderò una pastiglia e tornerò come nuova.»c’erano pastiglie per tutto: mal d’auto, mal d’aereo,

mal di stomaco, mal di testa. Ma per il mal d’amore nes-suno aveva ancora trovato la cura perfetta.

«Vestiti o ti beccherai un malanno.» Allungai la mano con gli occhi sempre chiusi e mi infi-

lai una vecchia felpa oversize, che fortunatamente avevo dimenticato sul divano.

«Grazie.»«stai uno schifo!»«Non credo che ti dirò grazie per questo.»«È la verità e il più delle volte fa male. Fai schifo, puzzi

e i capelli sembrano un nido di gazze. casa tua sembra fi-nita sotto un raid aereo e stai trascurando noi che siamo la tua famiglia. Tutto per cosa? Per colpa di quel cazzone di rockettaro.»

il rockettaro era il mio ex, l’innominabile, lo stronzo. Un metro e settantacinque per settanta chili, un fisico né troppo magro né troppo palestrato. era un bel tipo, af-fascinante in jeans e maglietta, da strappamutande sul palco. Lui era la causa del dolore che si era insinuato sotto la pelle fino alle ossa, sempre presente come i chili di troppo sul girovita o come la cellulite sulle chiappe. e la cellulite è una malattia dalla quale non si può guarire.

Non riuscivo a scrollarmelo di dosso, il che lo rendeva anche fastidioso.

Mi tirai su a sedere e presi la tazza che mi porgeva. «Passerà» mormorai nascondendo la mia espressione dietro la tazza.

«Ti ha più chiamato?»«Dopo la prima settimana? No, silenzio radio. su

Whatsapp è sempre online, ma non intendo essere io a cercarlo. Anzi, passami il telefono così cancello il nu-mero.» e non sarei caduta in tentazione come con Face-book. Avevo trascorso un intero sabato sera in pigiama, io

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e il mio barattolo di gelato al doppio cioccolato, a guar-dare tutte le sue foto. Mi ero ripromessa di dare un’oc-chiata veloce ai suoi album ma tre ore dopo ero passata dall’anno 2007 al 2014.

Grazie, Mark Zuckerberg! Grazie tante per aver scate-nato il panico e aver mandato milioni di italiani dall’anali-sta con Facebook e la tua doppia spunta blu di Whatsapp!

Avevo scoperto che l’innominabile aveva cancellato tutte le nostre foto, scomparse nel cestino del computer. Aveva cancellato Gioia caputi con un click e svuotato il cestino.

Stronzo!Lui aveva intaccato come un virus il mio database. La

pragmatica, felice e con la piega quasi sempre perfetta Gioia non esisteva più, sostituita dal fantasma di se stessa. Mi facevo alitare sul collo dal primo biondino rimorchiato in un locale pieno di feromoni maschili, per Dio! Mi sen-tivo come Miley cyrus o Britney spears dopo aver detto addio alla ragazza acqua e sapone della Disney.

e il nocciolo della questione stava proprio lì: la Disney. ci soggioga fin da quando siamo in fasce con la storia

del principe azzurro in sella al suo cavallo bianco, dei ro-spi che diventano principi, delle bestie e dei mostri che nascondono un cuore d’oro.

io avevo smesso di credere nel mio Mister Right. sa-rei stata come Jennifer Aniston senza Brad Pitt, Brenda senza Dylan. Avete visto com’è finita tra Tom cruise e Ka-tie holmes? A forza di saltare sul divano di oprah erano saltati in tribunale.

«Non voglio nessun uomo. Mai. Più.»Bea scoppiò a ridere, divertita. «hai solo venticinque

anni, sai con quanti coglioni avrai a che fare? Uomini senza palle, traditori seriali, mammoni. e poi lo sappiamo da generazioni con cosa ragionano gli uomini. Non vorrai mica diventare una suora?»

Mi infilai un biscotto in bocca. Dovevo asciugare l’al-

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col che danzava nel mio stomaco. «Ultimamente hanno più vita sociale della mia.»

Annuì, riflettendoci su. «effettivamente...»«Poi non ho bisogno di un uomo.»Avrei ritrovato il controllo.Lo avrei dimenticato.sarei rinata dalle mie stesse ceneri.Perché allora volevo prendere tutte le sue foto e accen-

dere un falò giù in giardino?«sai cosa devi fare? Vendicarti!»«occhio per occhio? Matura come idea.»Mi liquidò con un gesto della mano. «stammi a sen-

tire. Gli uomini il più delle volte non capiscono cos’hanno perso fino a quando non vedono quella cosa in mano ad altri, tipo un calciatore conteso al Fantacalcio. Mi segui?» Annuii, preoccupata per le sue macchinazioni. Quando Bea aveva un piano, era meglio non farne parte. «Devi far capire a quell’ammasso di cacca vagante cosa si sta perdendo avendoti lasciato. Devi alzare le tue quotazioni sul mercato, ma come farlo se tu te ne stai rinchiusa in questa casa? Quindi oggi goditi l’ultimo giorno di libertà, lascia la forma del tuo sedere su questo divano, distrug-giti di cibo spazzatura e fatti una maratona di Sex and the City. Ma domani» disse puntandomi l’indice contro con un tono che non ammetteva repliche «sarai in libertà vi-gilata sotto la mia autorità. Tirerai il culo fuori da questa casa, avrai l’obbligo minimo di cinque ore d’aria e ci fa-remo belle. Poi gliela sbatterai sotto il naso.»

il piano non suonava male.Non era infallibile, soprattutto avrei dovuto modificare

l’ultima parte che prevedeva sbattergliela sotto il naso, ma era pur sempre un piano.

Fino a due minuti fa ero in coma etilico a letto.Mi aveva tradito, dovevo farmene una ragione.Non potevo certo starmene chiusa in casa a vita, agli

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arresti domiciliari (a parte la parentesi col biondino) per-ché uno stronzo non era stato capace di rimanermi fedele per sei mesi e tenerselo nelle mutande.

«Va bene» sospirai. Beatrice alzò il pugno vittoriosa, con aria trionfante. si

chinò in avanti e mi appoggiò le mani sulle spalle, sorri-dendomi dolcemente. «e per la cronaca,» sussurrò sotto voce «non pensare che ti aiuti a mettere a posto tutto questo casino, la tua casa è portatrice sana di malattie. sono la tua amica del cuore, ma il culo te-lo-pulisci-da-sola.» Rimarcò la parte finale lentamente, in modo che re-cepissi il messaggio.

Roteai gli occhi, esasperata. Troppo stanca per rispon-dere alzai il pollice in segno di okay e mi tuffai di nuovo sul divano, la tv accesa su un film con Robert Downey Jr. Ma i suoi bicipiti scolpiti non mi rubarono neanche un oh di apprezzamento. Nessun ormone impazzito.

ero grave.Riposa in pace, Gioia Caputi, 1989-2014.com’ero riuscita a ridurmi così? No, non intendevo

con i postumi di una sbronza colossale. Ma a ridurmi così per un uomo, a non vedere uno shampoo per più di due giorni.

La mia vita apparentemente perfetta era cambiata in un batter di ciglia.

Mi sentivo una perdente.Una disillusa.Ma proprio quando smetti di credere nell’amore,

quando smetti di cercarlo, sarà lui a trovare te.

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Quattro mesi dopo

ero in ritardo. Benissimo.era solo lunedì mattina e già avrei cominciato la gior-

nata con un richiamo. Mi inginocchiai ai piedi del letto e guardai sotto. Niente, non era nemmeno lì.

«Bea!» gridai con i nervi a fior di pelle. «hai visto la mia cartellina da lavoro?» Dove diavolo era finita? spostai la pila di vestiti ammucchiati sulla sedia. Nemmeno lì. «Bea?»

entrai in cucina trafelata, le chiavi della macchina in mano, la camicia ancora da abbottonare e i capelli rac-colti in quello che doveva avere le parvenze di uno chi-gnon. Beatrice era comodamente seduta sull’isola, intenta a smanettare con il cellulare e la radio a tutto volume sull’oroscopo di Paolo Fox.

«hai per caso visto la mia cartellina da lavoro?» ripe-tei boccheggiante.

Nessuna risposta. Probabilmente il ragazzo con cui stava chattando era più interessante. Alzai gli occhi al cielo e spensi la radio, ottenendo finalmente la sua atten-zione.

Mi guardò con un’espressione interrogativa. «La cartellina» dissi per l’ennesima volta. «hai visto la

mia cartellina?»«Potrebbe essere vicino alla televisione.»

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«Potrebbe?»«senti, sei tu che sei una disordinata cronica. Non

guardare me!»«sono solo fantasiosa, è quello che mi dà da vivere.»

infatti da due mesi lavoravo in un’agenzia pubblicitaria come copywriter e riempire la testa degli italiani con spot ingannevoli era il mio pane quotidiano. Rovistai tra gli scatoloni che non avevo ancora aperto e, finalmente, sotto un mucchio di carte trovai la mia cartellina. «Ti aspetto o vado? sono già in ritardo...» Acciuffai un cornetto al volo e me lo infilai in bocca.

«Non sono neanche le otto» sbuffò.«Lo sai che quando tu attacchi in agenzia alle nove, io

sono già da mezz’ora in ufficio?»«Ti stimo.»«Allora vado.» Presi la borsa e ci infilai dentro i truc-

chi. Mi sarebbero serviti dopo le ore piccole che avevo fatto con Bea in un locale in centro. Lei era già in forma smagliante, la pelle luminosa senza trucco. io necessitavo di un miracolo per nascondere le occhiaie e di un tra-pianto di fegato. era un’ingiustizia.

«Aspetta.» Appoggiò i gomiti sul banco e mi puntò il cellulare. «ho prenotato per Barcellona.»

«Davvero? Quando?»«La prossima settimana.»«che invidia. Te ne vai al caldo, beata te.» Addentai la

brioche e infilai le ballerine. Avrei dato qualsiasi cosa per andarmene da qui per qualche giorno. ero riuscita a evi-tare l’innominabile da quando mi aveva lasciato. Tra diciot-tomila abitanti ero riuscita a non beccarlo, seguendo atten-tamente le regole per non incrociare l’ex, che prevedevano:

– non frequentare i suoi stessi posti;– passare il sabato sera a casa con una vaschetta di ge-

lato e un film strappalacrime;– pregare il karma di non fare lo stronzo.

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«Andiamo.»«Mmm?» mugugnai con la bocca piena.«Andiamo a Barcellona. Noi. io, te, Melly e Ludo.»scoppiai a ridere. «Per un attimo ti avevo creduto. Dio,

quando hai imparato a mentire così bene? io ho sempre fatto schifo.» Ma notando la sua espressione seria, il sor-riso mi si smorzò. «Non dirai sul serio?»

«ci divertiremo un sacco, berremo tanta sangria e co-nosceremo un sacco di bei fusti spagnoli. calienti, ab-bronzati e fisicati e, perché no, anche dotati. Devi uscire da questo santuario di clausura.»

«e devo andare fino a Barcellona? Poi non posso chiedere ferie, lavoro alla Dreamsart solo da qualche mese» protestai.

«La prossima settimana c’è il ponte per il patrono, ave-vamo calcolato anche questo. Non puoi tirarti indietro, hai finito le munizioni.»

Ripensai agli ultimi quattro mesi. Non avevo fatto altro che lavorare, lavorare ed evitare i

sermoni di mia madre. Avevo trascorso quasi tutti i sabati sera a impietosirmi sul divano davanti a una commedia romantica e i loro stupidi finali scontati – qualcuno po-teva avvisarli che la vita vera non era così? – e il massimo dei miei incontri era stato ritrovarmi faccia a faccia col biondino del karaoke che mi aveva tampinato per tutta una sera, chiedendomi perché non l’avevo richiamato.

Forse qualche giorno al caldo e lontano da tutti avrebbe affievolito i miei istinti omicidi verso la popolazione ma-schile.

«Barcellona?» chiesi.«Barcellona.»«Allora...» Bea tratteneva il respiro. «Direi che devo

iniziare a capire come far stare il mio armadio in un baga-glio a mano.» Le schioccai un bacio sulla guancia e uscii accompagnata dalla sua risata argentina.

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Mezz’ora dopo infilai la Mini nell’unico parcheggio li-bero non a pagamento e in volata mi fiondai in ufficio, cercando di non inciampare sul ciottolato che ogni mat-tina tentava di mettermi fuori gioco una caviglia. Guardai l’orologio trafelata. erano le otto e trenta.

Potevo farcela. Dovevo solo fare quattro rampe di scale, sgattaiolare in ufficio e con nonchalance sedermi alla mia scrivania. La Dreamsart si trovava nel quartiere storico, all’ultimo piano di un edificio ottocentesco dalle pareti scrostate e sul punto di crollare alla minima folata di vento.

in realtà l’agenzia era la mecca del moderno, del design e della tecnologia. Un intreccio di bianco, nero e rosso ti accoglieva appena varcavi la porta del quarto piano, am-mobiliato con pezzi d’arredamento avveniristici. ogni im-piegato disponeva non solo di un computer ultramoderno ma anche di un tablet per lavorare ai progetti pure da casa. sabrina era esigente e c’era una regola sulla quale non transigeva: ogni venerdì allo scoccare delle cinque voleva un’e-mail con il progetto finito e consegnato. Altri-menti, diceva sempre, quella era la porta, c’era un sacco di gente che faceva la fila per lavorare qui.

esausta passai davanti alla reception e a s.d.M. stronza di Margherita. La segretaria. Lei era un chiaro esempio che la complicità femminile

non esiste. Non mi degnava di uno sguardo, se non di commisera-

zione, e non perdeva occasione di lanciarmi qualche frec-ciatina.

superai gli altri uffici e presi posto alla mia scrivania, accesi il computer e guardai fuori dalla finestra mentre il programma si caricava.

Vedevo solo un muro di mattoni rossi.Quello che avevo innalzato anch’io da quando ero stata

mollata. Una muraglia alta e invalicabile, difficile da in-

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taccare. oltre a essere il prezzo da pagare per la gavetta. ero l’ultima arrivata ma un giorno avrei avuto un ufficio nell’altra ala con una vista mozzafiato.

«Gioia, tesoro.» La scrivania scricchiolò sotto il peso del sedere di Marco, mio collega e art director dell’agen-zia.

sì, era un bel ragazzo. No, non era disponibile. era fe-licemente gay e fidanzato, quindi depennate dalla lista la storia d’amore con il collega.

«ciao, Marco. È già arrivata sabrina?»«Non si è ancora vista. Avresti già sentito l’aria impre-

gnata del suo costosissimo profumo francese.»Tutti i giorni, infatti, prima di vederla fare capolino

dalla porta, annunciavano il suo temuto arrivo il ticchet-tio dei tacchi sul parquet di legno e la scia del suo cha-nel.

«su cosa stai lavorando?» gli chiesi, trafficando col mouse e aprendo la mia casella di posta.

«Non lo sai? oggi siamo stati convocati da sua Maestà la Regina dei Ghiacci.»

«Noi?» impallidii. Da quando ero arrivata mi erano stati assegnati gli scarti, le campagne pubblicitarie più ostiche. Non avevo mai lavorato a un lancio pubblicitario con Marco, mi chiedevo come mai proprio ora. Forse sa-brina aveva finalmente notato le mie doti?

«Da quanto mi ha spifferato Margherita,» sussurrò per non farsi sentire «ci verrà assegnata una campagna pubblicitaria di livello internazionale e sabrina vuole che siamo tutti a disposizione. ha annullato tutti gli impe-gni della settimana per stare qui in ufficio e seguire i pro-gressi. Quindi preparati a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro col fiato sul collo.»

Mi agitai all’istante. sabrina Kent somministrata a tutte le ore del giorno era quello che definivo un incubo.

«Per forza non ne sapevo niente, mi odia» brontolai.

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«chi?»«Margherita» risposi indicandogli con un cenno della

testa la segretaria.Un rumore di passi, anzi di tacchi, ci fece sussultare. stava arrivando.Marco si alzò facendo scricchiolare ancora la mia scri-

vania, io mi raddrizzai sulla sedia e aprii la schermata del computer sul programma di grafica.

ci spostammo entrambi di lato con la testa per ammi-rare la sua entrata trionfale.

sembrava sfilasse su un red carpet. il metro e cin-quanta era camuffato da un paio di décolleté nere dal tacco vertiginoso, trucco impeccabile e l’abito, a occhio e croce, di Armani era cucito addosso al suo corpo. Nono-stante avesse superato i cinquanta sembrava avesse fatto un patto col diavolo o scoperto l’elisir della giovinezza. Niente ritenzione idrica, gambe affusolate, vitino da ve-spa e pelle rosea.

Lo chignon era talmente tirato che i lineamenti del viso erano tutti all’insù. Non avrebbe dovuto ricorrere al bo-tox! si sistemò gli occhiali sulla punta del naso e non de-gnò di uno sguardo Margherita, che le stava già correndo dietro con una tazza di caffè nero senza zucchero.

A forza di sentirglielo urlare lo avevo imparato anch’io.Prese la tazza fumante e chiuse con un tonfo la porta

dietro di sé, facendo vibrare i divisori di vetro di tutti gli uffici.

sua Maestà non desiderava essere disturbata.Deglutii pesantemente. «hai detto che è oggi la

riunione? Perché mi sono ricordata di una visita medica e...»

Non riuscii a finire la frase che la sua porta si spalancò di nuovo e tuonò il mio nome. «caputi!»

Cristo santo!Mollai uno sguardo d’aiuto a Marco che mi alzò i pollici

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come supporto morale. Tremante e con i palmi delle mani sudati, mi spostai un ciuffo di capelli dal viso e quasi cor-rendo mi diressi nel quartier generale. ero ferma davanti alla porta chiusa, quando sabrina urlò: «caputi, entri!».

Girai la maniglia ed entrai. L’aria condizionata mi colpì in pieno viso.

era veramente la Regina dei Ghiacci.«caputi, si sieda, non stia lì a cincischiare sulla porta,

non ho tutta la mattina per lei.»«sabrina.» con passo malfermo mi avvicinai al centro

della stanza. Meno male che avevo messo le ballerine.«Allora per la prossima settimana» iniziò senza de-

gnarmi di uno sguardo, con gli occhi fissi sul computer «voglio che mi presenti delle proposte per la sound&K. È una casa discografica di livello mondiale, sarà affiancata da Marco e da tutto il reparto creativo. Margherita le farà avere il fascicolo con tutti i dettagli.»

Per una frazione di secondo mi sembrò che avesse smesso di guardare il monitor per fissarmi, ma fu solo un millesimo di secondo. Magari me l’ero solo immaginato.

«È un progetto a cui tengo moltissimo» sibilò con un tono che non ammetteva repliche. io ero immobile sulla poltrona, e l’idea di fiatare non mi passava nemmeno nell’anticamera del cervello. «Voglio idee originali, uni-che e soprattutto vincenti. i clienti si presenteranno qui fra due settimane, per questo voglio il progetto finito e consegnato al più presto. Venerdì prossimo voglio tutto sulla mia e-mail, poi organizzerò dei briefing con il re-parto media e produzione. Questa campagna pubblicita-ria sarà un ottimo biglietto da visita per la nostra agenzia. Non. Voglio. intoppi. intesi?»

Non avevo sentito più niente. il mio cervello aveva re-gistrato solo venerdì, poi più nulla.

Merda!Venerdì!

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Barcellona, ragazze, Rottweiler!Da una parte il mio diavoletto mi mostrava immagini

di locali lungo le Ramblas, bicchieri di sangria e piatti di paella. sull’altra spalla il mio angioletto, la voce della co-scienza, mi faceva segno di no con la testa.

Assolutamente no! Assolutamente non avrei rinunciato a un weekend con

le ragazze, ma non potevo nemmeno farmi licenziare.«Qualcosa non va, caputi?»Probabilmente ero sbiancata o aveva notato una goccia

di sudore che mi colava sulla fronte.«Assolutamente no» negai. Negare sempre. «Mi metto

subito al lavoro, sabrina. Grazie per questa grande op-portunità...»

«Lo faccio per l’agenzia, non per lei, caputi!»«Ma certo... ehm...»«Bene, può andarsene. Non perda tempo.» Tornò a di-

gitare sulla tastiera con le sue dita piene di anelli.«scusi, sabrina.» Ti prego, fa’ che non si incazzi.Alzò un sopracciglio, segno che potevo continuare. Ve-

locemente.Arrossii, le guance in fiamme e le mani sudate. «Mi è

venuto in mente che venerdì l’ufficio sarà chiuso, quindi le farò avere il progetto finito prima.»

Avrebbe apprezzato il gesto e l’impegno.sicuramente.Mi fulminò attraverso gli occhiali tartarugati, prese il

calendario da tavolo e me lo sbatté sotto gli occhi. «Vede un numero scritto in rosso, caputi?»

Feci segno di no con la testa, troppo impaurita per aprire bocca. Non aveva apprezzato.

«Per me esistono solo le feste raccomandate da Dio, quelle scritte in rosso. Natale, primo dell’anno e Pasqua. Le altre festività non esistono. Avete un tablet per lavorare anche da casa e vi pago profumatamente per farlo. L’uffi-

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cio sarà chiuso, ma voglio tutto entro venerdì. Né prima né, soprattutto, dopo. sono stata abbastanza chiara?»

Pensai di alzarmi e fare il saluto militare alla hitler in gonnella seduto di fronte a me. invece balbettai un sì fiacco e uscii dall’ufficio. Quando mi chiusi la porta alle spalle mi resi conto di aver trattenuto il fiato.

Cazzo!Mi sentivo sui carboni ardenti. Dalla mia gola non

usciva nessun suono, ancora impallata dal suo tono da terrorista.

Almeno il viaggio non era saltato. Dovevo solo trovare un punto Wi-Fi da cui collegarmi per spedire l’e-mail. eravamo nell’era 2.0, trovare un punto con connessione internet era una passeggiata. corsi alla scrivania e mi misi subito al lavoro.

Non avevo tempo da perdere, ma avevo un armadio da ficcare dentro un trolley 56x45x25 centimetri.

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