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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 94 NOVEMBRE 2020 CITTÀ DEL VATICANO DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 94 NOVEMBRE 2020 CITTÀ DEL VATICANO LE AFRICANE cosa chiedono alla Chiesa Una storia da riscrivere di Elisa Kidanè e M. Teresa Ratti Solange Sia Justine M. Bihamba Elena Balatti Julieta Araùjo Bakani Tshidzu Alessandra Bonfanti Rosália Nawakemba Hauwa Ibrahim Foto © Vatican Media

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 94 NOVEMBRE 2020 CITTÀ DEL VAT I C A N O

D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 94 NOVEMBRE 2020 CITTÀ DEL VAT I C A N O

LE AFRICANEcosa chiedono alla Chiesa

Una storiada riscriveredi Elisa Kidanèe M. Teresa Ratti

Solange Sia Justine M. Bihamba Elena Balatti Julieta Araùjo Bakani

Tshidzu Alessandra Bonfanti Rosália Nawakemba Hauwa Ibrahim

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numero 94novembre 2020

LE IDEE

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romano

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Africa: femminile singolare plurale

Comunemente il mondo dei non africani si divide in due:quelli che non sono mai stati in Africa e quelli che cihanno vissuto almeno per un po’. I primi non possonoche avere pregiudizi, e in linea di principio è inevitabile:di ciò di cui non abbiamo esperienza diretta non possia-

mo che costruirci rappresentazioni parziali. Non c’è nulla di male, pur-ché siano provvisorie e non facciano da filtro, o peggio da muro,all’esperienza dell’altro. Sull’Africa gli stereotipi abbondano e oscillanotra fascinazione del corpo e dei luoghi e repulsione di un altro la cuialterità, vissuta come minacciosa, si impone già al primo sguardo. L’al -tro ci rende evidente che spesso la nostra “universalità” non è che unetnocentrismo mascherato.

Chi in Africa ha vissuto almeno un po’, e io ho avuto questo privi-legio, sa che gli stereotipi fanno velo a una realtà più ricca e comples-sa. Intanto, l’Africa è plurale. Per il grande reporter Ryszard Ka-puściński «a parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africanon esiste». Su un territorio smisurato convivono etnie, culture, in-fluenze legate alla colonizzazione e ai processi di decolonizzazionemolto diversificate. Bisogna dunque cercare di capire cosa l’Africa, nelsuo essere plurale, ci trasmette di singolare, di imperdibile: nella miaesperienza, il senso del legame di tutto con tutto (persone, natura, spi-rito che anima ogni cosa, Dio). In un mondo iperframmentato, che stapagando i costi di una impostazione scriteriata, questa lezione vaascoltata perché ci fa bene. In territori di contrasti, contraddizioni, vio-lenze, accelerazioni che lasciano indietro troppi, sono le donne, sfrutta-te da un lato, che tengono in piedi la vita quotidiana. Africa è femmi-nile, e se può affrontare le sfide enormi di un presente difficile è so-prattutto grazie alle donne. Vale anche per la Chiesa.

Due Sinodi per l’Africa, 1992 e 2009, ma molte aspettative delledonne sono tuttora deluse. Già Daniele Comboni, primo vescovo cat-tolico dell'Africa Centrale, sosteneva che molti dei fallimenti all’iniziodell’opera missionaria del XIX secolo erano da attribuirsi alla mancataconsiderazione del ruolo femminile. Ma cosa chiedono le donne africa-ne alla Chiesa, come la interpellano? Analisi e storie di questo numerotestimoniano di un cammino in atto. Passi concreti per guardare l’Afri -ca con gli occhi dell’Africa, e perché questo sguardo ci aiuti a com-prendere meglio questo tempo e quello che verrà.

CHIARA GIACCARDI

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SOMMARIO

LE IDEE

Africa:femminile singolare plurale

CHIARA GIACCARDI A PA G . 1

QUESTO MESE MARTI- PRIMO PIANO

«Vittime di tratta,vittime del mercato»

FEDERICA RE DAV I D A PA G . 4

7 D OMANDE

Elisa Fuksas: il battesimo,la mia prima rivendicazionedi autonomia

GLORIA SAT TA A PA G . 8

COPERTINA

Una storia da riscrivere(e da parte delle vinte)

ELISA KIDANÈ E MARIA TERESA RAT T I A PA G . 9

MARTIROLO GIO

A proposito di santie sante africane…

PA G . 17

OS S E R VAT O R I O

Donne e teologia:la spintadi mons. Phalana

ROMILDA FE R R AU T O A PA G . 39

TRIBUNA

Quello che una giovanedonna africanasi aspetta dalla Chiesa

BO KA N I TSHIDZU A PA G . 40

PR O TA G O N I S T E

Sostiene Solange Sia,prima teologa ivoriana

MARIE CI O N Z Y N S KA A PA G . 18

PR O TA G O N I S T E

La rete contro lo stuprodi Justine Masika Bihamba

DO N AT E L L A RO S TA G N O A PA G . 22

PERCORSI

Le artigianedella riconciliazione

ANNA POZZI A PA G . 25

PERCORSI

Angola, 30 anni di Promaica

MARIA DULCE ARAÚJO ÉVORA A PA G . 28

TESTIMONI

Marco Trovatodirettore di «Africa»

ELISA CALESSI A PA G . 30

LIBRI

La discepola Martae la predicatrice Domenica

SI LV I A GUIDI A PA G . 35

3022D ONNECHIESAMOND O

CO M I TAT O DI DIREZIONE

Ritanna ArmeniFrancesca Bugliani Knox

Elena Buia RuttYvonne Dohna Schlobitten

Chiara GiaccardiShahrzad Houshmand Zadeh

Amy-Jill LevineMarta Rodríguez Díaz

Giorgia SalatielloCarola Susani

Rita Pinci (co ordinatrice)

IN REDAZIONE

Giulia GaleottiSilvia Guidi

Valeria Pendenza

RE A L I Z Z AT O INSIEME AElisa Calessi, Lucia Capuzzi,

Laura Eduati, Romilda Ferrauto,Federica Re David

PRO GETTO GRAFICOPiero Di Domenicantonio

COPERTINAAnna Milano

A CURA DIMarco De Angelis

REDAZIONEredazione.donnechiesamondo.or@sp c.va

ABBONAMENTIosservatoreromano.va/it/pages/abb onamenti.html

abb onamenti.donnechiesamondo.or@sp c.va

LA F O R E S TA SILENZIOSA

Hauwa Ibrahim, la giuristanigeriana che salvale donne dalla lapidazione

LAU R A ED UAT I A PA G . 32

Le Piccole Sorelledelle Case Bianchedi Milano

LILLI MANDARA A PA G . 36

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QUESTO MESE PRIMO PIANO

«Vittime di tratta,vittime del mercato»Gabriella Bottani: «Sono le diseguaglianze a dare fragilità»

di FEDERICA RE DAV I D

Suor Gabriella Bottani ci riflette datempo: «La tratta di persone la pos-siamo comprendere nel contesto piùampio dell’economia di mercato, ca-ratterizzata dal modello neo-liberista

che privilegia il profitto rispetto ai diritti umani,creando una cultura di violenza, mercificazionee disuguaglianze. Tutto questo è all’origine deltraffico di esseri umani». Perciò, sostiene, biso-gna cambiare approccio nell’affrontare la gran-de, globale, questione della tratta.

«Essere donne, ci permette di capire nellanostra vita cosa significhi subire una disegua-glianza —spiega — ed è già un elemento di vul-nerabilità; ma ci sono altre dinamiche che si in-nestano su questo. La discriminazione razziale,ad esempio; come nelle comunità indigenedell’Amazzonia, che è il punto da cui sono par-tita nel 2007, dove essere afrodiscendenti o indi-gene aumenta le probabilità di essere vittime ditratta.

Così come in Nord America, nelle comunitàdei nativi americani di Canada e Stati Uniti. Oin Thailandia, dove ad essere particolarmente a

rischio sono le ragazze di quelli che chiamano igruppi tribali. Tutto ciò che porta diseguaglian-ze, aumenta automaticamente la vulnerabilitàall’essere trafficati. Nei flussi migratori, adesempio, una ragazza che si mette in movimen-to da sola rischia abusi e violenze sessuali, trattae sfruttamento. Ma sono tanti anche i ragazziche vengono abusati, sfruttati, reclutati».

Le persone vulnerabili «sono prede per latratta di esseri umani, ma guardare il problemasolo da questo lato, rischia di stigmatizzarle co-me povere donne. Invece non è così, noi abbia-mo una forza incredibile», rivendica la suorache, un anno fa il presidente Mattarella ha no-minato Ufficiale dell’Ordine al Merito della Re-pubblica italiana per il suo impegno contro latratta come coordinatrice internazionale dellaRete mondiale Talitha Kum. «Se da un lato esi-ste la vulnerabilità, dall’altro esistono delle ri-sorse importanti che possono promuovere unprocesso di trasformazione reale, di resistenza,di innovazione. La nostra rete è un po’ questo.Ci dicono “poverine, siete vulnerabili”, e noi ri-spondiamo che no, noi non siamo vulnerabili,siamo rese vulnerabili, che è una cosa diversa».

La questione è anche culturale. «Avremmobisogno di riflessioni profonde da un punto di

vista filosofico, antropologico, sociopolitico, checi aiutino a comprendere quali siano le ragioniche portano a questo tipo di azione disumaniz-zante, al ritorno della schiavitù. A me una cosaè chiara già da diversi anni: la tratta di personeè un po’ come la punta di un iceberg, è il risul-tato delle dinamiche complesse del nostro tem-po. C’è un aspetto ontologico, uno sociale, unoeconomico... è una delle espressioni della partemalata della nostra società. Mi rifiuto di credereche sia normale, perché non lo è: ecco, una del-le cose che rifiuto e che faccio fatica a digerire èproprio questa normalizzazione dello sfrutta-mento. Anche se si esprimono con modalità di-verse, la tratta di migranti e la tratta di personesi intersecano nel punto in cui la persona uma-na non esiste più; viene annientata nella sua di-gnità e tutto il resto diventa possibile perchéporta guadagno. Le sorelle in Nigeria mi dico-no che non è normale, non fa parte della lorocultura, che delle famiglie mettano in queste si-tuazioni le loro figlie per un benessere sociale.Cosa è successo nelle relazioni umane per arri-vare a questo?».

Ed è proprio così che è cominciata la storiadi Joy, 27 anni. «La prima a vendermi, è statala mia famiglia. Io stavo bene nel mio Paese,

ho due sorelle, due fratelli, i nipoti. Ma quan-do è morto mio padre, per mamma è tutto fini-to, perché in Nigeria le donne dipendono sem-pre dagli uomini. Poco dopo, una ragazza ami-ca della nostra famiglia che ci aiutava con soldie vestiti, una pastora, ha chiamato mia sorellaper proporle di mandarmi in Italia da sua ma-dre. A farle da badante, ha detto; avrei potutostudiare. Ma io avevo letto libri, visto film, sa-pevo cosa succede in Italia e in Europa e nonvolevo. Mamma e mia sorella mi hanno spinta,mi hanno portata in un posto che non cono-scevo; non so se abbiano preso dei soldi, masono andate via. Da lì è iniziato il viaggio perla Libia, dove ho passato quattro mesi che nonriesco a raccontare; nel 2016 sono arrivata inItalia, al Cara di Bari, e ho pensato “grazie aDio, la mia terra promessa”. Invece era una se-conda Libia. Sono venuti a prendermi e mihanno portata a Castel Volturno, dove la mam-ma della nostra amica mi ha detto: “Devi paga-re 35 mila euro per il viaggio, domani vai a la-vorare per strada con altre ragazze”. Un annoall’inferno, schiava della madame. Ma sono ri-nata a Caserta, nel 2017, quando ho conosciutole suore Orsoline di Casa Rut».

@Lisa Kristine – Uisg

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accaparramento delle terre hanno espulso popo-lazioni».

Secondo Marcella Corsi e Giulio Guarini,docenti di Economia Politica rispettivamenteall’università La Sapienza di Roma e all’univer-sità della Tuscia di Viterbo, «mobilitare le don-ne a difesa dell’ambiente implica combattere ledisuguaglianze di genere». Bina Agarwal, eco-nomista indiana «sottolinea come queste, so-prattutto nei Paesi del Sud del mondo, abbianoil proprio nucleo nel controllo e nel possessodelle risorse naturali», scrivono sul bollettinodell’Uisg dedicato ai dieci anni di Talitha Kum.«Ad esempio, da uno studio svolto in India,emerge che la percentuale di mogli vittime diviolenza domestica è pari a 49 per cento tra ledonne nullatenenti, mentre crolla al 7 per centotra le donne con un titolo di proprietà».

I due economisti definiscono l’affermazionedi Papa Francesco, «Questa economia uccide»provocatoria e profetica riguardo al sistema eco-nomico attuale, di cui «le donne e la natura sipossono considerare vittime». E chiudono condelle domande. Gli oggetti che possono essereposseduti e liberamente scambiati sul mercatosono merci, ma cosa succede quando la merceche si scambia è il corpo di esseri umani?Quando vengono distrutti patrimoni dell’uma-nità come le foreste? E se gli aspetti fondamen-tali della natura umana, che sono rappresentati-vi della nostra essenza profonda, vengono mo-netizzati, cosa resta della nostra umanità?

«Stiamo ragionando, come Unione interna-zionale Superiore generali, sull’idea di coordi-narci di più con chi lavora sulla cura dell’am-biente a partire dalla Laudato si’ e con chi si oc-cupa di migrazioni. Perché alla fine, se analiz-ziamo le cause, i problemi vengono provocatida modelli ricorrenti ingiusti», conclude suorGabriella.

migranti sono diventate tra i business più reddi-tizi a livello internazionale, dopo il traffico diarmi. E continuano ad essere dei crimini a bassocosto: di recente all’Osce è stato confermato chesolo uno ogni 25 mila casi di persone identifica-te come vittime di tratta riesce ad avere un pro-cesso, che oltretutto non necessariamente si con-clude con una condanna. L’impunità è vera-mente alta». Geograficamente, «le statistichecontinuano ad indicare il Sud Est e il Suddell’Asia come i luoghi con il maggior numerodi persone trafficate. Il continente africano, in-vece, è il primo nel rapporto tra popolazione epersone trafficate. Segue l’Est europeo. Sono lezone dove si trovano le maggiori vulnerabilità,

Manifestazione contro il traffico di persone( Facebook Talitha Kum)

Gli economisti Corsi e Guarini:«Donne e natura, un unico

dramma», Storia di Joy “venduta”in Nigeria dalla sua stessa famiglia

Ora Joy ha un lavoro da commessa, sempre aCaserta, e una casa con una suora laica. Nel suopercorso di riscatto ha ascoltato parole impor-tanti direttamente da Papa Francesco, che ha in-contrato due volte: «La prima volta mi ha det-to: “Non avere paura, coraggio, vai a scuola”.La seconda, sono stata io a parlargli: “Lo sto fa-cendo”. E lui: “Brava, sei grande’. Ora vogliomettere la mia storia e la mia forza al servizio dichi ha vissuto la stessa esperienza».

Ed è proprio questo che intende suor Ga-briella Bottani quando parla di empowerment:«Rafforzare, sostenersi, non cedere a dinamicheche possano portare ancora dentro la vulnerabi-lizzazione, ad avere sempre bisogno di aiuto.Qualsiasi gruppo, qualsiasi persona, ha dellepotenzialità, delle forze, delle caratteristiche chedevono essere valorizzate; è il concetto della re-silienza, ma è qualcosa di più, qualcosa che, ol-tre a resistere, ti permette di cambiare. Bisognaoffrire degli spazi di cura e di protezione, chealla fine siano degli spazi di libertà, dove lapersona possa veramente evolvere e ricostruirela propria vita. Come rete, lo dico a me stessa,dobbiamo crescere in questa dinamica di valo-rizzazione delle risorse che abbiamo, metterci inrete, non contrastarci».

Perché il nemico comune guadagna terreno.«L’impressione è che il fenomeno della tratta sistia diffondendo ancora. Non abbiamo dati pre-cisi, ma ascoltiamo diverse testimonianze dallereti nel mondo. La tratta di persone e quella di

Talitha Kum nel mondoTalitha Kum è presente in 92 Paesi, nei 5 Continenti: 14 in Africa, 18 in Asia,17 in America, 41 in Europa, 2 in Oceania. Le reti nazionali sono 44: 9 in Africa,11 in Asia, 15 in America, 7 in Europa e 2 in Oceania.I coordinamenti regionali sono 7: 2 in America Latina, 3 in Asia, 1 in Europa e 1 in Africa

le grandi instabilità sociali, politiche, ambienta-li. Penso alla questione della minerazione nelNord del Mozambico, nella zona di Cabo Del-gado, o alla regione del Kivu nella RepubblicaDemocratica del Congo, con la guerra per losfruttamento delle risorse del territorio; all’in-quinamento devastante provocato dall’estrazionedel petrolio nella regione del Delta del Niger,causa del sovraffollamento e del degrado di Be-nin City, la città da cui proviene la maggioranzadelle ragazze trafficate. Lo sfruttamento delle ri-sorse ha portato diseguaglianza, perché questeregioni si sono arricchite teoricamente, ma difatto si sono arricchiti in pochi: inquinamento e

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A 39 anni, la regista Elisa Fuksas hatrovato la fede. Si è battezzata sfi-dando la propria educazione laica,le sue certezze, il suo ambiente disinistra. E ha raccontato questo

inaspettato percorso spirituale nel romanzo au-tobiografico «Ama e fai quello che vuoi» (Mar-silio), profondo ma al tempo stesso disincanta-to, scandito come l’anno liturgico. E sempres i n c e ro .

È esagerato parlare di conversione?

È più esatto dire che il battesimo è statol’evento epocale della mia vita. La prima, verarivendicazione di autonomia, la fondazione del-la mia identità e la scoperta della dimensionespirituale. Prima, per me, le chiese erano solodei luoghi d’arte.

È cresciuta agnostica?

Più che agnostica, sono stata una personamoralista, fortemente ideologizzata. In linea conil mio ambiente: malgrado le continue rivendi-cazioni di libertà, la sinistra esprime un decisodogmatismo.

Ed è stato difficile far capire la sua scelta a parenti e

amici?

Sì. Nel mio mondo chi crede è consideratostrano, qualcuno che si è perso o si è aggrappa-to alla fede in seguito a un dramma personale.Niente di più lontano dal mio caso: mi sono av-vicinata a Dio gradualmente, grazie all’i n c o n t rocon alcune persone che mi hanno aperto gli oc-chi.

Quali?

Un prete che vedendomi terrorizzata dallamorte mi ha suggerito di battezzarmi, monsi-gnor Giuseppe Betori (cardinale, arcivescovometropolita di Firenze, ndr) che a 45 anni dalmatrimonio civile ha sposato in chiesa i miei ge-nitori, un collega di lavoro che mi ha parlatodella fede. E oggi credo in maniera razionale,senza fanatismi.

Pensa di essere molto cambiata?

Sì, mi sento finalmente libera. Ma sono rima-sta la stessa di ieri con le mie virtù, i dubbi e idifetti. Non rinnego il passato.

È casuale il fatto che l’incontro con la fede si sia interse-

cato con la sua scoperta di avere un tumore alla tiroide,

circostanza da lei raccontata nel film «iSola»?

Nello stesso periodo ho saputo che anche lamia migliore amica aveva un brutto male… So-no convinta che Dio non ci metta alla prova oci punisca, eppure ho vissuto la scoperta dellamalattia durante il lockdown e l’operazione af-frontata a un anno esatto di distanza dal batte-simo come circostanze non casuali che mi spin-gevano a confrontarmi sempre più con il nuovopercorso di vita. In poche parole, come dei se-gni di Dio.

La nuova condizione di credente influirà sul suo lavoro?

Senza alcun dubbio. Sto pensando a un nuo-vo film e faccio fatica a trovare una storia chenon aggiunga rumore al rumore in cui siamoimmersi, confusione alla confusione. Una storiache sia davvero necessaria. La troverò.

Elisa Fuksas: il battesimo,la mia prima rivendicazione di autonomia

COPERTINA

Una storia da riscrivere(e da parte delle vinte)

«Due Sinodi ma le donne d’Africa non sono ancora interpellate e incluse»

L’analisi di due religiose, giornaliste, che conoscono bene il Continente

di ELISA KIDANÈ e MARIA TERESA RAT T I *

di GLORIA SAT TA

Elisa Fuksas(foto Marco Cella)

7 D OMANDE

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a scriverla dovrebbero essere coloro che sono stati considerati i vinti,o le vinte, in questo caso.

Per troppo tempo l’Africa è stata presente nella compagine socialecome uditrice senza diritti di parola né di replica.

Anche nella Chiesa. Il cammino dell’evangelizzazione in Africanon sempre ha tenuto conto della vita dei suoi popoli come del luo-go sacro da sempre inabitato da Dio. Troppo spesso si è omesso diconsiderare le culture, le credenze, la spiritualità dei popoli d’Africacome il terreno buono sul quale far crescere la pianta rigogliosa delVangelo. Nel peggiore dei casi, si è fatta tabula rasa, altrimenti si èstratificato il terreno, cospargendolo di semi venuti da terreni altri,favorendo, molte volte inconsapevolmente, una profonda dicotomiatra la vita vissuta, da sempre, nel solco domestico della ReligioneTradizionale Africana, e la Buona Notizia di Gesù, molte volte pre-sentata da una moltitudine di Chiese tra loro divise e persino con-trapp oste.

Nonostante venga considerato un “polmone di spiritualità” — cosìPapa Benedetto XVI aveva definito l’Africa nell’apertura della secon-da Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, il 4 otto-bre 2009 — oggi ci troviamo con un Continente dove la percentualedi cristiani è sì alta, ma il messaggio di liberazione che è la BuonaNotizia fatica a trovare piena cittadinanza nelle pieghe della quoti-dianità di milioni di donne e di uomini.

L’esperienza della trasformazione insita nel messaggio cristiano èstata recepita in maniera straordinariamente vivace nelle liturgie, do-ve non si contano le ore per celebrare la bellezza del credere, ma so-no ancora troppi i popoli che usciti da celebrazioni calorose e colori-te, si ritrovano a vivere dentro situazioni di marginalità, di impoveri-mento, e di ingiustizia indicibili che profondamente offendono lastessa dignità umana e la verità del Vangelo.

Inoltre, ci sembra che alla Chiesa che è in Africa, e quindi allaChiesa universale, manchino ancora pagine fondative di narrazione,storie inedite di uomini e donne che hanno saputo trasformare ilmessaggio di Cristo in vita vissuta, pagando a caro prezzo la loroesistenza a favore di una testimonianza cristallina ai valori del Van-gelo. Lo sappiamo bene, ci sono uomini e donne che ci hanno rega-lato pagine di riflessioni coraggiose, una teologia africana capace ditoccare le corde dell’anima dei suoi popoli, una singolare letteraturache, con una molteplicità di stili, celebra il significato e lo scorreredelle molte stagioni della vita e degli eventi che l’accompagnano

Da qualsiasi punto ci si collochi, voler argomentare dell’Africa, delleAfriche, delle sue donne, dei suoi popoli, e via dicendo, rischia diessere ripetitivo: sembra sia stato già detto tutto. Il cliché è più omeno sempre lo stesso, e anche facendo salti mortali, l’immagina-rio è immobile e non assorbe più nulla che non rispecchi, a priori,le millenarie preclusioni di una qualsivoglia novità. Eppur,dell’Africa era stato detto: Ex Africa semper aliquid novi!

Alcuni anni fa un giornalista, che di Africa aveva fatto la passionedella sua vita, giunse a dire che il tema “Africa” non vendeva più,non tirava sul mercato. Che miopia! Soprattutto, che vuoto di me-moria: numeri alla mano, possiamo ricordare che l’80 per cento delbenessere del (cosiddetto) nord del mondo proviene dall’Africa.

Dinanzi alla richiesta di «Donne, Chiesa, Mondo» di dire la no-stra, due erano le alternative: declinare l’invito, oppure provare a nar-rare il divenire di questa parte del mondo, focalizzando il raccontosu Chiesa, Afriche e Donne. Un bell’azzardo, ma da anni, nel nostropiccolo, cerchiamo di scardinare stereotipi, per decolonizzare losguardo e la mente, e così accompagnare una narrazione altra di que-sto immenso Continente a forma di cuore. Abbiamo perciò scelto laseconda alternativa, con una dovuta premessa: cantata o meno, la li-turgia ecclesiale africana non potrà mai essere senza di loro, le suedonne, colonna vertebrale che sostiene e cura il divenire di ogniaspetto della vita.

Africa: parte del mondo

Che si parli dell’Africa, o più elegantemente delle Afriche, perl’immaginario collettivo questo Continente è un mondo a parte. Noncosì si percepiscono le donne e gli uomini che in questa terra sononati.

L’Africa non è un mondo a parte, ma parte del mondo. E quelloche succede in ogni parte del mondo, nel bene e nel male, succedeanche in Africa. Punto. Vale anche per il problema del rapporto don-na-Chiesa. Ne vogliamo parlare.

Africa-donna-Chiesa: storia da riscrivere

Una grande figlia d’Africa, la maliana Aminata Traoré, ha scritto:«Se ci si sente mendicanti, ci si comporta da mendicanti. Per recupe-rare il nostro futuro, la prima cosa da fare è decolonizzare i nostrispiriti». Per far questo, dobbiamo riscrivere la storia, ma questa volta

Per troppotempol’Africaè statap re s e n t enella compaginesocialecome uditricesenza dirittidi parolané di replicaÈ avvenutoanchenella Chiesa

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Un Sinodo ascoltando le donne

Papa Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 14 febbraio 2007,disse: «La storia del cristianesimo avrebbe avuto uno sviluppo bendiverso se non ci fosse stato il generoso apporto di molte donne. Perquesto, come ebbe a scrivere il mio venerato e caro Predecessore Gio-vanni Paolo II nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, la Chiesarende grazie per tutte le donne e per ciascuna... La Chiesa ringraziaper tutte le manifestazioni del “genio” femminile apparse nel corsodella storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti icarismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Po-polo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speran-za e carità: ringrazia per tutti i frutti della santità femminile».

Noi osiamo suggerire che non solo la storia del Cristianesimo, matutta la storia della salvezza, dalla prima Eva alla Donna dell’Ap o ca-lisse, sarebbe stata tutta un’altra storia senza la presenza e il contri-buto femminile.

Nelle due Assemblee Speciali del Sinodo dei vescovi per l’Africa(1994 e 2009) si è parlato del ruolo della donna nella Chiesa. Sonoemerse proposte, promesse, e tanti infiniti piccoli passi, ma nulla inconfronto alle aspettative serbate in cuore dalle comunità cristiane edalle loro donne.

Certo, i Sinodi sono piattaforme e areopaghi privilegiati che il Pa-pa convoca per ascoltare, conoscere, condividere e per illuminare ipassi della Chiesa nel segno della sinodalità. Ma se nella Chiesa ègenuina la domanda su come avviare un dialogo aperto alla questio-ne femminile (sicuramente non ci identifichiamo come “una questio-ne”), ci viene da dire: perché in un futuro Sinodo non lasciare chesiano le donne a parlare al Papa, a raccontare, spiegare, e collegial-mente indicare le strade da seguire per un loro coinvolgimento mag-giore dentro e a favore di tutta quanta la Chiesa? Sarebbe straordina-rio poterlo fare magari parlando della Chiesa d’Africa!

Il viaggio di Papa Francesco in Centrafrica, per aprire la Portasanta in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, èstato un esempio lampante di vicinanza alla sofferenza e alla speran-za di un popolo che da troppo tempo soffre le conseguenze di mol-teplici tensioni e di interminabili incertezze.

Non temere di nominare la donna

Per parlare adeguatamente dell’Africa, della Chiesa e delle donneche sostengono questo continente sulle loro spalle (Chiesa compresa)

con una chiarezza esemplare. Eppure ancora troppo poco si sa… Cipiacerebbe conoscere, per esempio, il genere di bibliografia usatanei seminari o nelle case di formazione religiose africane. Qualenuova generazione può sorgere da questi luoghi che marcano il per-corso della fede in una comunità cristiana, se non si ha il coraggiodi avvicinarli alla fonte viva delle proprie radici e delle proprie cul-ture? Continuare a dare in prestito, anche con le migliori intenzio-ni, sapere, opere, idee, concetti, teologie, santità… altro non fa cherafforzare lo stereotipo che rappresenta l’Africa come un contenito-re che solo riceve. Quindi, bisogna riscrivere la storia. Ci sono già,grazie a Dio, volumi importanti, ma bisogna avere il coraggio dileggerli, di condividerli, di appropriarsene, di divulgarli. Pochi annifa, quando già il vento delle intolleranze era forte e diversi confiniincominciavano a trincerarsi, Lilian Thuram, calciatore francese na-to a Guadalupa, scrisse il libro Le mie stelle nere, da Lucy a Barack

Obama. Nella prefazione scrive: «Durante l’infanzia mi hanno indi-cato molte stelle. Le ho ammirate, sognate: Socrate, Baudelaire,Einstein, il generale De Gaulle… Ma nessuno mi ha mai parlatodelle stelle nere… Non sapevo nulla dei miei antenati». E cosìprende il coraggio a due mani, e va a scovare quasi cinquanta uo-mini e donne, nell’immenso firmamento di quelle stelle nere a luisconosciute.

Ripensando quindi alla storia del Continente, e in particolare allastoria della Chiesa in Africa, siamo già in ritardo nel narrare il dive-nire dell’esperienza cristiana e della sua incidenza sulla società a par-tire da uomini e donne, giovani e anziani, che nei secoli hanno trac-ciato la via africana alla santità. Sfogliando calendari liturgici o mar-tirologi universali sembrerebbe che per le sante e i santi africani ilreato di clandestinità vige anche in Paradiso! Senza dimenticare cheè ormai inderogabile una narrazione della fede che racconti in modoolistico la discepolanza sulle orme del Nazareno.

Non è questione di permalosità se diciamo che per troppi secolil’Africa è stata guardata dall’alto in basso, ma un dovere di giustiziae di verità. Coraggio, dunque, donne d’Africa che leggete queste pa-gine. Insieme dobbiamo avere il coraggio di indicare le stelle nereche illuminano il firmamento della Chiesa universale, perché pren-dendo in prestito ancora Thuran «ogni persona ha bisogno di stelleper potersi orientare, ha bisogno di modelli per costruire l’autostima,per cambiare il suo immaginario, infrangere i pregiudizi che proiettasu di sé e sugli altri».

P e rc h éin un futuroSinodonon lasciareche siano le donnea parlare al Papasul loro maggiorecoinvolgimentodentro la Chiesa?S t ra o rd i n a r i opoterlo faremagari parlandodella Chiesad’Africa!

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dobbiamo cambiare lo sguardo, il timbro di voce, e soprattutto il lin-guaggio. Che sempre denota una mentalità.

Che triste sentire certi ministri ordinati rivolgersi a donne consa-crate come se stessero parlando a bambine da educare e accompagna-re. Così parlando di Africa, dei suoi popoli, delle sue donne, delleconsacrate, sentire frasi come «queste Chiese sono (sempre) troppogiovani»; «hanno ancora tanto bisogno là»; «non sono ancora pron-te/pronti»; «non faranno mai quello che abbiamo fatto noi!». Deno-ta la mentalità di chi osserva questo Continente con un malcelatosenso di superiorità, e considera questi popoli più vittime che interlo-cutori.

Eppure le donne in Africa non sono lì ad attendere che qualcunovada a salvarle. Le donne in Africa, da tempi immemorabili, cammi-nano a piedi nudi e portano il Continente sulle loro spalle (Chiesacompresa). Sono loro che si prendono cura dell’umanità, sempre, eche pagano con la propria vita la vita degli altri. Sono loro che con-servano e trasmettono la fede. Guardandole con occhi trasparenti,sembra di vederle avvolte da un filo invisibile che le tiene unite, tut-te. Sembra di sentire ogni mattina, l’abbraccio caldo di queste milio-ni di mani femminili che sorreggono, accarezzano, cullano l’umanitàferita dei popoli d’Africa.

La questione del linguaggio, poco considerata, e sottovalutata, hainvece, a nostro giudizio, una importanza rilevante. La Chiesa, e inparticolare gli uomini nella Chiesa, devono imparare a nominarci enon sottintenderci. Non è mero esercizio di sintassi quando cerchia-mo di usare, e di pretendere, un linguaggio inclusivo. Il problema èche a furia di non includerci nei suoi discorsi la Chiesa ci rende invi-sibili pure a noi stesse.

Durante la seconda Assemblea Speciale del Sinodo dei vescovi perl’Africa, al quale una di noi ha partecipato come uditrice (suor Elisa,ndr) avevamo auspicato che i vescovi si rivolgessero alle donne inmaniera inedita chiamandole “Amatissime sorelle e madri dell’Afri-

ca”. E avevamo suggerito pure cosa dirci… «ci rivolgiamo a voi comefigli innanzitutto: perché siete voi le educatrici della pace, della con-cordia, della riconciliazione. A voi oggi chiediamo di camminare in-sieme a noi lungo il processo di rinascita, di guarigione, di giustiziaper la nostra Africa. Voi, che da sempre, percorrete ogni mattina lenostre strade e ne conoscete millimetro per millimetro, ci farete daguida e ci indicherete quali percorsi scegliere, per non perderci neimeandri di discorsi senza fine… A voi affidiamo il presente e il futu-ro delle nazioni».

Sono passati undici anni da quel Sinodo, e le donne d’Africa at-tendono ancora di essere interpellate e incluse. Nel frattempo, una si-lenziosa schiera di comunità cristiane continua a dare testimonianzaal Vangelo, la “Buona Notizia” intessuta nella carne e nella quotidia-nità del Continente che ha accolto Gesù, profugo in Egitto, e lo haaiutato a portare la Croce, in quel Simone, originario di Cirene, «in-contrato sulla via» (cfr. Ma t t e o 27, 32).

Ma non perdiamo la speranza. Del resto, è a noi donne che perprimo è stato consegnato l’annuncio della Risurrezione!

Vo cazioni

Mentre nel resto del mondo la penuria di vocazioni sta già cau-sando gli effetti collaterali (invecchiamento, immobili immensi e vuo-ti, gap generazionale ultra large), in Africa da anni la vita consacratafemminile, e non solo, trova un terreno fertile sul quale crescere edespandersi. Eppure tra i corridoi degli Istituti di antica fondazionequesta vivacità non viene vista sempre con grande simpatia.

Anche qui le usuali retoriche: «ma sono vocazioni vere? Vengonoda noi per stare meglio, di sicuro per studiare». Luoghi comuni, cer-to, ma che fanno male. Le vocazioni ministeriali e religiose che sor-gono in Africa sono un dono che Dio fa alla Chiesa, per il bene ditutta la Chiesa e dell’umanità. Certo, il discernimento è sempre d’ob-bligo, in Africa come ovunque.

La vita religiosa africana sta incidendo profondamente nella vitadella Chiesa e della società. Significative le parole di suor GiuseppinaTresoldi, missionaria comboniana che per anni ha seguito, a nome del-la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di VitaApostolica, il cammino delle religiose in Africa: «Entrano nel tessutosociale e della Chiesa e vi portano una trasformazione operando neisettori vitali della educazione, sanità e formazione cristiana della gente.La potenzialità della vita religiosa in Africa è fuori discussione. Come

Me n t renel restodel mondole vocazionisono in caloin Africala vita consacratafemminilesi espandeEppure non semprequesta vivacitàviene vistacon grandesimpatia

Religiose durante il viaggiodi Papa Francesco

in Uganda,27-29 novembre 2015

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incanalare la ricchezza dei diversi carismi e ministeri all’interno dellaChiesa per la sua crescita e santificazione facendone risaltare il voltoafricano, resta una grande sfida per ogni Congregazione e vescovodiocesano». Da qui, l’appello ai vescovi, di guardare alla vita consacra-ta femminile con più equità e rispetto, e a non pensare solo ai semina-ri e alla formazione dei presbiteri, ma dare pari opportunità di forma-zione professionale anche alle religiose e alle laiche. Per qualificare laloro ministerialità e beneficiare della loro esperienza.

Appello alle donne

Le religiose e le donne che vivono in ogni angolo d’Africa (comedel resto in altri Paesi del mondo) debbono avere il coraggio di chie-dere che la Chiesa ci guardi con gli occhi di Gesù, che seppe ricono-scere nella donna una leale co-protagonista del suo Mistero Pasqualeed esigere lo spazio che è nostro all’interno dei luoghi in cui si vota-no le decisioni che riguardano la nostra stessa vita e la vita delle no-stre comunità: umane, di fede, di appartenenza culturale. Debbonoessere presenti nei percorsi che prevedono la formazione olistica dellapersona, non solo dentro progetti per lo sviluppo umano, ma ancheall’interno dei seminari, perché si ampli la visione della donna nonsolo compresa come madre, sorella, cuoca… ma come studente, do-cente, teologa, professionista. E reclamare di più l’urgenza della no-stra corresponsabilità ecclesiale, non come eccezione bensì come con-suetudine.

Non è un percorso semplice, lo sappiamo. Ma sulle orme delle in-numerevoli Madri d’Africa, le giovani generazioni sono invitate al co-raggio della resilienza. O, meglio, della resistenza. Perché meglio espri-me la fatica, la fierezza, e la caparbietà che accomuna le donne africa-ne. Che resistono perché i loro popoli possano esistere. Anche perriappropriarsi di quelle radici antiche della storia, che onora l’Africanon solo come culla dell’umanità, ma anche come custode della Terradove tutte e tutti abbiamo imparato a guardare verso il Cielo.

* Elisa Kidanè è missionaria comboniana. Nata in Eritrea, ha svolto lasua missione in Ecuador, Perú e Costa Rica, poi in Italia come giornalistanelle riviste comboniane. Nel 2009 ha partecipato al secondo Sinodo perl'Africa.

* Maria Teresa Ratti è missionaria comboniana e ha vissuto 17 anni inKenya. Giornalista, ha scritto per la rivista «New People» di Nairobi ed èstata direttrice di «Raggio-Combonifem» — rivista della sua congregazione– dal 2006 al 2011.

Paolo VI

«Nel rivolgere il Nostro saluto all’Africa, nonpossiamo fare a meno di richiamare alla mentele sue antiche glorie cristiane. Pensiamo alleChiese cristiane d’Africa, l’origine delle qualirisale ai tempi apostolici ed è legata, secondo latradizione, al nome e all’insegnamentodell’Evangelista Marco. Pensiamo alla schierainnumerevole di santi, martiri, confessori,vergini, che ad esse appartengono. In realtà, dalsecondo al quarto secolo la vita cristiana nelleregioni settentrionali dell’Africa fu intensissimae all’avanguardia tanto nello studio teologicoquanto nella espressione letteraria.Balzano alla memoria i nomi dei grandidottori e scrittori, come Origene, Atanasio,Cirillo, luminari della Scuola Alessandrina,…Tertulliano, Cipriano, e soprattuttoAgostino, una delle luci più fulgenti dellacristianità. … i grandi santi del deserto,Paolo, Antonio, Pacomio, primi fondatori delmonachesimo, diffusosi poi, sul loro esempio,in Oriente e Occidente. … Questi luminosiesempi, come pure le figure dei Santi PapiAfricani Vittore, Melchiade e Gelasio,appartengono al patrimonio comune dellaChiesa, e gli scritti degli autori cristianid’Africa ancor oggi sono fondamentali perapprofondire, alla luce della Parola di Dio, lastoria della salvezza.Africæ terrarum, n. 3 (1967)

Giovanni Paolo II

«La Chiesa in Africa deve provvedere a redigereil suo proprio Martirologio, aggiungendo alle

magnifiche figure dei primi secoli [...] i martirie i santi degli ultimi tempi».Sinodo dei Vescovi per l’Africa, (1994)«Durante questi primi secoli della Chiesa inAfrica, anche alcune donne hanno reso la lorotestimonianza a Cristo. Tra esse è doverosa unamenzione particolare delle sante Felicita ePerpetua, di santa Monica e di santa Tecla».Ecclesia in Africa, n. 31 (1995)«La lista dei santi che l’Africa dona alla Chiesa,lista che è il suo più grande titolo di onore,continua ad allungarsi. Come potremmo nonmenzionare, tra i più recenti, ClementinaAnwarite, vergine e martire dello Zaire,beatificata nel 1985, Vittoria Rasoamanarivo, delMadagascar e Giuseppina Bakhita (nella foto, ildrappo a San Pietro il giorno dellabeatificazione), del Sudan. E come nonricordare il beato Isidoro Bakanja, martire delloZaire» (Ibidem, n. 34)

Benedetto XVI

«Incoraggio i Pastori delle Chiese particolari ariconoscere fra i servitori africani del Vangelo

A proposito di santie sante africane…

MARTIROLO GIO

coloro che potrebberoessere canonizzati,non solo peraumentare il numerodei Santi africani, maanche per ottenerenuovi intercessori incielo affinchéaccompagnino laChiesa nel suopellegrinaggio terrenoed intercedano pressoDio per il Continenteafricano».Africæ Munus, n. 114(2011)

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E poi se sono donne laiche, quale autorità può garantire loro di met-tere in pratica le conoscenze acquisite? ».

Il ruolo delle donne nella Chiesa in Africa

«Parlare dei problemi delle donne nella Chiesa africana è a voltecomplesso perché non è facile delineare un contorno di volti femmi-nili, che sono sfaccettati. Di quali categorie di donnesi tratta? Di donne sposate, celibi, religiose, donneprovenienti da aree urbane o rurali, donne d’affari,analfabete, e altro ancora. Senza dedicarmi a questotedioso esercizio, direi, in base alle mie esperienzepastorali, che le donne cristiane africane del mioambito hanno assimilato a fondo un’ecclesiologiapiramidale e fortemente maschile, se non addirittu-ra patriarcale. Sebbene la presenza femminile siadiventata indispensabile alla Chiesa, e questo atutti i livelli della vita ecclesiale, molte donne siconsiderano “assistenti”, e difficilmente prendonoiniziative, cosa che invece fanno volentieri nelleassociazioni civili. A un certo livello si osservauna corresponsabilità tacita e sottile, ma nellamaggior parte dei casi le donne non hanno an-cora preso pienamente coscienza della qualitàdell’apporto femminile nella costruzione dellaChiesa-famiglia.

«Segnate da un profondo complesso d’in-feriorità, tante si ritengono incompetenti inuna Chiesa molto organizzata, con le sueleggi. Non hanno la libertà di esprimersi estanno quindi attente a non essere penaliz-zate o biasimate dai dirigenti della Chiesa.Non hanno dunque preso ancora piena-mente coscienza di essere parti motricinell’annuncio della Buona Novella di Cri-sto in Africa. Tra l’altro, se in Europa lequestioni riguardanti la responsabilitàdelle donne o il potere decisionale susci-tano importanti dibattiti nella Chiesa enella società civile, questa non sembraessere per il momento la preoccupazio-ne delle donne nella Chiesa in Africa».

Religiose africaneabbiate fede in voi

Solange Sia, la prima teologa ivoriana, solleva alcuni problemi

di MARIE CI O N Z Y N S KA

A43 anni, suor Solange Sia, religiosa della congregazione di Nostra

Signora del Calvario, è la prima donna dottore in teologia dell’Uni-versità cattolica dell’Africa occidentale ad Abidjan, in Costa d’Avo-rio. Con lei parliamo di questioni e problemi che riguardano le don-ne e la Chiesa, dallo studio della teologia agli abusi.

Donne e teologia

«In una Chiesa africana dove tre quarti dei laici impegnati sono don-ne, la loro presenza in teologia è quasi insignificante nell’area geogra-fica dell’Africa subsahariana e in particolare in Costa d’Avorio. Soloalcune donne laiche e consacrate cercano di acquisire rudimenti diteologia in brevi corsi di formazione teologica per laici. Parallelamen-te, qualche congregazione religiosa comincia, ma timidamente, aiscrivere le sue suore alla facoltà di teologia. Ė vero che da parte dialcuni uomini si può sospettare l’intenzione di confiscare il poterenon facilitando l’emulazione e la promozione dello studio di teologiada parte delle donne.

Ma è anche importante ricordare le difficoltà inerenti alle donnestesse. Alla base c’è il fatto che molte donne ritengono che lo studiodella teologia abbia come fine il sacerdozio. Non distinguono trapercorso formativo in seminario e studi teologici. Non provano alcuninteresse fino a quando non incontrano qualche donna teologa. Soloallora cominciano a porsi interrogativi! L’altra difficoltà è economica.Anche se fossero interessate, come potrebbero pagarsi la formazione?

PR O TA G O N I S T E

Solange Sia,il giorno della discussionedella tesi di dottorato(foto da lei fornita)

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Le donne nella Chiesa e per la Chiesa

«Vorrei fare alcune proposte. Nelle strutture e negli istituti di forma-zione, università, seminari, noviziati, bisogna pensare a mettere in at-to strategie dinamiche di trasformazione mentale e culturale. Occorreinoltre promuovere nelle nostre facoltà in Africa corsi d’intro duzioneagli studi femminili. Va anche dato maggior spazio alle donne neicentri di formazione, nel presbiterato. Che siano presenti come inse-gnanti o come consigliere piscologiche.

«Occorre ideare pure programmi di formazione ai quali possanopartecipare insieme uomini e donne e che riguardino la psicologiafemminile e maschile, l’immagine della donna nelle arti e nei media,la famiglia e il matrimonio, i problemi attuali delle donne nella storiaafricana, le donne e la religione, il patriarcato e altro ancora, e con-durre riflessioni più integrate. Vanno promosse letture e interpreta-zioni della Bibbia per le donne come si fa altrove. Il modo di viverecome Chiesa in maniera più evangelica dovrebbe consistere in undialogo tra il femminile e il maschile. Una complementarità evangeli-ca in cui il femminile nobile interrompa i meccanismi del potere e di-venga lo strumento di azioni creatrici. Se la Chiesa in Africa giunge-rà a questa organizzazione sfaccettata, intellettuale, umana, spirituale,allora il Vangelo si radicherà veramente nei cuori».

Abusi commessi nei confronti delle religiose

«Non sono certa di conoscere l’entità della questione degli abusinell’ambito della vita religiosa in Africa. Contrariamente a quanto ac-caduto in America, dove la Chiesa ha reso accessibili le statistiche, epiù tardivamente in Europa, con la testimonianza di ex religiose vitti-me di abusi, la vita religiosa in Africa (e non delle religiose africaneche vivono in Occidente) è ancora molto riservata sulla questione de-gli abusi sessuali. È necessario un lungo processo per far sì che le re-ligiose parlino tra loro o con una psicologa su casi di abuso non ne-cessariamente vissuti all’interno della vita religiosa, ma anche mentreerano in famiglia. D’altronde, l’abuso più evidente nella vita religiosaè l’abuso di potere e di fiducia. I fattori sono molteplici.

«Sul piano culturale e teologico, l’errata comprensione del sacro edell’uomo consacrato favorisce una certa idealizzazione degli uominidi Dio e una sacralizzazione dei responsabili religiosi. Sul piano so-ciale, si può ricordare l’insicurezza, la povertà materiale e finanziariadelle famiglie delle religiose e degli istituti religiosi che le accolgono.A volte ci possono essere forti ineguaglianze, se non addirittura di-scriminazioni tra le religiose. In effetti, non è raro costatare cheall’interno di una stessa congregazione i membri originari che vivonoin Europa possono permettersi vacanze, cure adeguate, un’alimenta-zione sana, grandi case talvolta vuote, mentre le loro consorelle delleprovincie africane, che si trovano in realtà d’ingiustizia politica e so-ciale, non hanno neppure di che vivere.

«A livello d’istituzione ecclesiale si può inoltre segnalare un’ingiu-stizia che si è sottilmente insinuata nel corso dei secoli. La Chiesanella sua organizzazione si è impegnata a offrire ai giovani che s’inte-

ressano alla vita sacerdotale una formazione molto completa. Mentrela Chiesa si preoccupa di formare i sacerdoti, gli istituti religiosi, so-prattutto femminili, a volte si accontentano di dare solo quei pochirudimenti necessari alla vita religiosa. Sebbene la Congregazione pergli istituti di vita consacrata e le società di vita apostoliche raccoman-di la formazione negli istituti religiosi, si constata che, per quanto ri-guarda le donne, la decisione è lasciata spesso alla buona volontàdelle superiore. Così donne con doti intellettuali e spirituali che po-trebbero dedicarsi agli studi teologici non hanno l’opportunità di far-lo. Un piccolo sondaggio svolto in alcune congregazioni religiosefemminili in Costa d’Avorio, sia locali sia internazionali, ci ha per-messo di constatare che delle circa cinquanta congregazioni presentipochissime iscrivono i propri membri in un istituto di formazione su-p eriore».

Segnateda un complesso

d’inferiorità,tante si

ritengonoincompetenti.Senza libertàdi esprimersi

stanno attentea non essere

penalizzateo biasimate

dai dirigentidella Chiesa

La cattedrale di San Paoloè la chiesa cattedraledell'arcidiocesi di Abidjan,capitale economicadella Costa d'Avorio.È stata inauguratanel 1985 da GiovanniPaolo II

Progettista è l'ingegnereitaliano Aldo Spirito(foto Wikipedia)

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PR O TA G O N I S T E

di DO N AT E L L A RO S TA G N O

La città di Goma, capoluogo dellaregione del Nord-Kivu, all’est dellaRepubblica Democratica del Con-go, è conosciuta ancora oggi, triste-mente, per i numerosi atti di vio-

lenza di cui la popolazione è vittima. I conflittitra gruppi ribelli e tra gruppi armati e esercitocongolese, l’instabilità permanente caratterizzataanche da corruzione e ingiustizie, rendono la vi-ta in questa zona dell’Africa centrale molto durain particolar modo per la società civile, gli atti-visti e le donne, soprattutto quando sono impe-gnate nella lotta per i loro diritti. Goma è anchela città che ha dato i natali e dove risiede a la-vora Justine Masika Bihamba.

In diverse occasioni Justine è stata minacciatadi arresto o di morte a causa del suo impegno.La sera del 18 settembre 2007 sei soldati armatifecero irruzione nella sua casa dove c’erano isuoi sei figli, di età compresa tra i 5 e i 24 anni.Aggredirono la figlia più grande e tentarono distuprare quella più giovane. Justine rientrò incasa proprio mentre stava avendo luogo l’ag-gressione. I militari, uno dei quali da lei identi-ficato, fuggirono tutti. Nove giorni dopo Justinepresentò denuncia, ma gli aggressori non sonomai stati arrestati o portati in giudizio. Le figliein seguito sono fuggite all’estero per la loro si-c u re z z a .

Justine è stata insignita nel 2008 dal governodei Paesi Bassi del premio Tulipe per i dirittiumani e nel 2009 del Premio per la Pace PaxChristi International. In seguito ha ricevutomolti altri riconoscimenti.

Ho conosciuto Justine proprio nel 2008 aBruxelles dove era venuta per una serie di in-contri con autorità politiche internazionali. Ri-sponde al telefono da Goma.

Sei una delle attiviste per i diritti delle donne più corag-

giose che io conosca, puoi spiegare di cosa ti occupi?

Sono un’attivista per i diritti umani e lavoroin favore della promozione dei diritti delle don-ne dal 1990 quando ho contribuito a fondare laSynergie des femmes pour les victimes de vio-lence sexuelle, che oggi è in una rete di 35 asso-ciazioni impegnate nella tutela dei diritti delledonne. In particolare mi occupo dei casi didonne che sono vittime di violenze sessuali.

Qual è il contesto nel quale vivi e operi?

Nel contesto di guerra e di impunità inNord-Kivu, dove i diritti delle donne sono co-stantemente violati. In periodo di pace, le don-ne sono vittime dei costumi e delle tradizioniche le considerano come inferiori all’uomo. Inperiodo di guerra e conflitto, il corpo delledonne diventa un “campo di battaglia”, dato

Nel 2007 soldati armati feceroirruzione nella sua casa, c’erano i suoi

sei figli. Aggredirono la più grandee tentarono di stuprare la più giovane

che quando ci sono scontri tra gruppi ribelli otra gruppi ribelli e l’esercito congolese, sono ledonne ad essere le prime ad essere attaccate e asubire violenze e stupri. Con il nostro lavorovogliamo raggiungere l’obiettivo innanzituttodi sensibilizzare le donne in modo che possanosapere che hanno dei diritti che sono ricono-sciuti leggi e trattati a livello nazionale, regio-nale e internazionale. Ci preme che le donneprendano consapevolezza del ruolo che posso-no e devono svolgere nella società e che siano

Justine Masika Bihamba in conferenza e sotto, a sinistra,durante un corso di formazione in un villaggio.A destra, una attivista di Synergie des Femmes pour lesVictimes des Violences Sexuelles in un mercato spiegamisure di protezione anti-covid.(foto dal profilo Facebook di SFVS)

La rete di Justine Masika Bihamba, attivista congolese perseguitata

Contro lo stuprosinergia donne-Chiese

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Le artigianedella riconciliazione

Le protagoniste dei processi di guarigione dagli orrori del passato

di ANNA POZZI

Maureen è stata imprigionataper quattro anni. Perché nera.È stata picchiata e torturata,mentre al marito hanno spa-rato due volte. Lo racconta e

intanto mostra i segni che porterà per sempresul suo corpo. Lo racconta anche se questo la fasoffrire. Per non dimenticare e perché altri nonlo facciano.

Maureen, suo marito, la sua famiglia sono trai milioni di vittime del regime sudafricanodell’apartheid che a venticinque anni dalle pri-me elezioni libere del 1994 continuano a portareavanti un faticoso cammino di guarigione dellamemoria e di riconciliazione, in cui spesso ledonne sono in prima linea. Lo sono soprattuttonelle comunità, dove svolgono un’opera fonda-mentale di “i n t e rc e s s i o n e ”, favorendo processi digiustizia redentiva, sulla scia del lavoro fattodalla Commissione verità e riconciliazione. Pro-cessi che richiedono molto tempo, fatica e dolo-re, ma che sono indispensabili per trasformareuna società profondamente ferita dall’o p p re s s i o -ne e dalla repressione in una società fondatasulla democrazia, la giustizia, il rispetto dei di-

PERCORSI

a conoscenza e sappiano utilizzare gli strumen-ti per rivendicare i loro diritti.

In concreto che tipo di attività svolgete?

Organizziamo molte attività. Per le donneanalfabete, che purtroppo nella nostra regionesono numerose, la sensibilizzazione si effettua at-traverso immagini invece che testi. Ci rechiamonelle case, svolgiamo un lavoro porta a porta, cirechiamo nelle chiese, cerchiamo di allearci aileader dei villaggi perché le comunità religiose ei leader tradizionali hanno un potere enorme esvolgono un ruolo molto importante nelle comu-nità. Sono molto rispettati e quindi ascoltati.Quando riusciamo a sensibilizzarli, nei loro vil-laggi si registra un cambiamento e le donne nonsolo sono più ascoltate ma riescono a trovare lospazio per essere attrici del cambiamento.

Tu sei credente? Fai parte di una comunità?

Si, io sono credente. Sono cresciuta comemembro della Chiesa battista di cui facevanoparte i miei nonni e bisnonni. Oggi, però, permia crescita spirituale personale, appartengo auna Chiesa pentecostale. Non sono solo creden-te, sono una fedele praticante. Ogni mattina ini-zio la mia giornata pregando. Prima a casa epoi in chiesa, dove mi reco a piedi per le pre-ghiere comunitarie. Considero questa passeggia-ta mattutina una benedizione per lo spirito maanche per la mia salute, lo faccio quindi congioia e senso di responsabilità. A Goma ci sonoenormi problemi di sicurezza per la popolazio-ne in generale e soprattutto per le persone comeme, attiviste di diritti umani, perché siamo ber-saglio degli attacchi di persone malintenzionate,di rappresentanti dei gruppi ribelli e, purtrop-po, anche di rappresentanti del governo e deipoteri forti. Io però sento di essere stata chia-mata da Dio che mi ha voluta per questa mis-sione. La mia fede mi rende più forte perché soche Dio mi protegge. Sono stata minacciata

molte volte e senza la mia fede non credo chene sarei uscita sempre sana e salva.

Come pensi che si possa interpellare la Chiesa a favore

della promozione dei diritti delle donne?

Io sono fortunata perché i due pastori dellamia comunità non solo sono favorevoli alla pro-mozione dei diritti delle donne, ma, visto cheuno dei due è giurista di formazione, mi aiuta-no moltissimo. Quando per esempio organizzia-mo sessioni di formazione sulla leadership fem-minile, sulla participazione delle donne nella vi-ta politica del Paese, i due pastori ci sostengono

«Appartengo a una Chiesapentecostale, sono credente e praticante.Sono stata minacciata e senza la miafede non ne sarei uscita sana e salva»

e ci aiutano. Sono uomini impegnati e convintidella necessità di svolgere un ruolo attivo nellasensibilizzazione e informazione delle donne suiloro diritti.

Avete contatti o collaborazioni con la Chiesa cattolica?

La Synergie lavora in collaborazione con tuttele confessioni religiose e quindi anche con lachiesa cattolica. Collaboriamo con la Commis-sione giustizia e pace sulle tematiche dei dirittiumani. A Goma esiste anche un gruppo moltodinamico di donne cattoliche con cui collaboria-mo costantemente. Insomma, promuoviamo unmessaggio che va al di là delle singole confes-sioni religiose perché i diritti delle donne sonouniversali e nel nostro caso, come non mai,l’unione fa la forza.

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ritti umani e il riconoscimento della dignità diogni persona. Una società in cui le vittime pos-sano trovare la forza di perdonare — come ripe-teva continuamente Nelson Mandela — ma an-che di non dimenticare.

«Oh, il perdono, come è difficile il perdo-no!», rifletteva Annalena Tonelli che nella So-malia devastata dalla guerra e dalla carestia, dalfondamentalismo e dall’ignoranza, non si è maiarresa, finché non è stata uccisa da alcuni giova-ni estremisti nell’ottobre del 2003. «Ogni giornonel nostro Centro anti tubercolosi di Borama,non curiamo solo le malattie del corpo, ma ciadoperiamo per la pace, per la comprensione re-ciproca, per imparare insieme a perdonare». La-vorava molto con le donne, Annalena, e con es-

se conduceva «la battaglia di ogni giorno primadi tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro, checi tiene nel buio». Profonda conoscitrice dellasocietà somala, sapeva benissimo che quella lot-ta contro l’oppressione del più forte e l’a r ro g a n -za delle armi, ma anche contro il fatalismo e lastrumentalizzazione della religione poteva farlasolo con le donne. Per rendere liberi tutti gliuomini.

Sono moltissime le situazioni, in ogni partedell’Africa, in cui le donne sono le protagoniste— spesso anonime e poco riconosciute — deiprocessi di resistenza e resilienza, di guarigionee rigenerazione: contesti di conflitto o di crisi,di campi profughi o di migrazioni forzate, dicatastrofi climatiche o di ingiustizie sociali. Al-cune sono riuscite a infrangere il muro dell’invi-sibilità, diventando esempi, anche a livello mon-diale, di un impegno — che chiede di esseresempre rinnovato — per la pace, la giustizia, lariconciliazione e la guarigione delle feritedell’anima.

E forse non è un caso che — dopo i sudafri-cani Tutu, Mandela e De Klerk — i successiviPremi Nobel per la pace in Africa siano stati as-segnati ad alcune donne. La prima è stata la ke-niana Wangari Maahtai, nel 2004, impegnatanella causa ambientalista e di genere. Mentre,nel 2011, è stata la volta di Ellen Johnson Sir-l e a f, ex presidente della Liberia, e della suaconcittadina, l’avvocato Leymah Gbowee (insie-me a una terza donna tenace e coraggiosa, layemenita Tawakkul Karman, leader della prote-sta femminile contro il regime di Sana’a). Maanche il Nobel a Denis Mukwege del 2018 parlasostanzialmente al femminile. È per il suo impe-gno a favore delle donne brutalmente violentatee abusate nelle regioni orientali della Repubbli-

Da sinistra:Tawakkul Karman (Ansa)

Alessandra Bonfanti(da «Mondo e missione»)

E l l e n _ J o h n s o n - S i rl e a f(Wikipedia)

Elena Balatti(da «Combonifem»)

Leymah Gbowee(dal suo profilo Facebook)

Nella pagina precedenteWangari Maathi

con il Nobel (Ansa)

ca Democratica del Congo — per distruggerenell’intimo il tessuto sociale e comunitario —che il medico di Bukavu ha ricevuto il prestigio-so riconoscimento.

Pace, speranza e riconciliazione sono state ilfilo conduttore anche del viaggio di Papa Fran-cesco lo scorso anno in Kenya, Mozambico eMauritius. Il Pontefice ha riconosciuto in piùoccasioni l’importante ruolo svolto dalle donnenei processi di guarigione dagli orrori del passa-to. Non è sempre così tuttavia. Anche all’inter-no della Chiesa, infatti, quest’opera crucialesvolta silenziosamente dalle donne continua aessere poco valorizzata. Questo, nonostante di-versi documenti ufficiali sottolineano ripetuta-mente la centralità e l’ineludibilità dell’imp egnodelle donne in questi ambiti. Si legge, ad esem-pio, in Africae Munus, l’Esortazione pubblicatadopo il Secondo Sinodo speciale per l’Africadel 2009: «Quando la pace è minacciata e lagiustizia schernita, quando la povertà è crescen-te […] siete sempre pronte a difendere la digni-tà umana, la famiglia e i valori della religione».

È quanto sperimenta da molti anni sulla suapelle — e su quella delle persone con cui condi-vide la sua missione — suor Elena Balatti, mis-sionaria comboniana in Sud Sudan. Ha vissutoin questo Paese i momenti più terribili dellaguerra civile, rimanendo a Malakal, una dellecittà più devastate dagli scontri anche perché sitrova in una delle regioni più ricche di petrolio.Accanto a questa esperienza drammatica e di re-sistenza, specialmente al fianco delle donne,suor Elena insegna Guarigione della memoriaall’università cattolica del Sud Sudan e fa partedella Commissione giustizia e pace delle com-boniane. «Non basta mettere fine alle ostilità,anche se questa è una priorità assoluta e urgen-

tissima — dice la missionaria — dopo tutti questianni di scontri e violenze, che spesso riguarda-no anche le comunità, messe le une contro le al-tre, occorre accompagnare la popolazione a fareun vero percorso di riconciliazione, valorizzan-do in particolare il ruolo delle donne che sonole autentiche artigiane della pace».

All’altro capo dell’Africa, in Guinea Bissau,suor Alessandra Bonfanti, delle Missionariedell’Immacolata, ricorda di come, allo scoppiodella guerra civile nel 1998, sia nata un’o rg a n i z -zazione femminile che si è chiamata Esercito dipace: un’organizzazione formata da donne cheavevano deciso di lottare per mettere fine alconflitto. Si sono proposte come mediatrici ehanno contrapposto la forza delle loro idee allaviolenza delle armi. Dicevano: «La pace è unanimale strano: a volte si nasconde sotto lebombe, ma siamo disposte ad andare a prender-la anche lì».

Nel 2013, dopo l’ultimo colpo di Stato, ungruppo di donne di diversa estrazione sociale,economica, intellettuale e culturale si è riunitoper realizzare uno studio approfondito della si-tuazione del Paese e per elaborare «una visionefemminile circa il processo di consolidamentodella pace. La Guinea Bissau che noi desideria-mo è un Paese di giustizia e stabilità», hannodichiarato. «Questi esempi — testimonia suorAlessandra — fanno capire quale impatto ledonne possano avere nel processo di pace. Ma èessenziale che possano partecipare attivamentealla vita sociale e politica dei loro Paesi. Ladonna è strumento di riconciliazione a comin-ciare dalla sua famiglia: come mamma, sposa esorella esercita una forte influenza sull’educazio-ne. In Africa, grazie a Dio, c’è ancora un cuoreche pulsa per la pace. Un cuore di donna».

Accadde in Sud AfricaLa Commissione per la verità e lariconciliazione fu istituita nel 1995 inSud Africa dopo la finedell’apartheid e presiedutadall’arcivescovo anglicano DesmondTutu. Il nome del tribunale (con laparola "riconciliazione") era in lineacon la posizione non-violenta diNelson Mandela che scelse di sanarele ferite del Sud Africa attraverso lacostruzione di un dialogo tra vittimee carnefici, in antitesi al paradigmadella “giustizia dei vincitori” o dellacorte penale internazionale, spessoorientata alla sola punizione deicolp evoli.

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risvolti. La stregoneria fu una delle questionisollevate da Benedetto XVI quando visitò l’An-gola nel 2009. In quell’occasione il Papa ebbeun incontro con i movimenti femminili cattolici.Celebre nel suo discorso l’espressione “eroine si-lenziose” con cui fu definita la donna che, spe-cie negli anni di guerra, seppe difendere con di-gnità, quale santuario della vita, la famiglia.Spesso la storia considera solo le conquiste de-gli uomini, disse il Papa che invitò a esaminarefino a che punto certe misure e attitudini ma-schili possono offuscare l’uguaglianza tra uomoe donna, chiamati a vivere in comunione e com-plementarità. Rosalia in quell’incontro ricordò ilduro lavoro che Promaica porta avanti. Alla do-manda se sono oggi soddisfate del loro ruolonella Chiesa, Rosalia e Julieta rispondono posi-tivamente: si sono fatti progressi — spiegano —oggi alcune donne studiano teologia, fanno par-te di commissioni parrocchiali, preparano l’alta-re per la messa, ci sono chierichette. InoltrePromaica ha la Conferenza episcopale dalla suaparte. Con il vescovo e il sacerdote direttorespirituale c’è dialogo e collaborazione. Le don-ne fanno ciò che viene loro chiesto perché vo-gliono, mai per imposizione, e sanno anche diredi no, afferma Rosália. La fonte di finanziamen-to di Promaica sono le quote delle associate enel tempo il movimento è diventato indipen-dente anche dalla Caritas. Confortate dal fattoche Papa Francesco ripete che le donne devonoessere al servizio e mai serve e che devono poteroccupare cariche di rilievo nella Chiesa, Julietae Rosália sostengono che, al di là della questio-ne sacerdozio, le donne possono svolgere qual-siasi compito nella Chiesa in Angola. Comun-que, la principale preoccupazione della Promai-ca — lasciano intendere — è intanto il migliora-mento delle condizioni di vita della donna, per-ché «a nulla serve volere occupare cariche piùalte se non si ha la preparazione adeguata perfarlo» dice Rosália.

PERCORSI

di MARIA DULCE ARAÚJO ÉVORA

Un congresso nazionale era inagenda in agosto per ricordare it re n t ’anni di fondazione di Pro-maica, l’associazione per la pro-mozione delle donne nella

Chiesa cattolica angolana. Ma il covid-19 ha ob-bligato a rimandare tutto sine die — riferisce conamarezza Julieta Araújo, la coordinatrice nazio-nale. Promaica è stata fondata nel 1990 da mon-signor Óscar Braga, il visionario vescovo diBenguela, scomparso il 26 maggio 2020 a 89anni. Ma se lui ne è il padre, la madre è RosáliaNawakemba.

Siamo negli anni Ottanta: la Caritas è nellafase cruciale del passaggio da una filosofia assi-stenzialista a una che punta allo sviluppo. Nondare il pesce, ma insegnare a pescare. Monsi-gnor Braga, il presidente della Caritas angolana,entra in questa logica. Con un fondo Cafod,l’agenzia cattolica dello sviluppo d’o l t re m a re ,nel 1990 manda in Kenya, a fare esperienza delnuovo approccio, due donne. Una è Rosália,volontaria nella Caritas di Benguela e insegnan-te.

Rosália incontra donne libere, capaci di tra-smettere con competenza il loro sapere. Ne ri-mane entusiasta. Sa che il suo vescovo ha sem-pre sognato donne così in Angola. Pensa: e secreassimo un gruppetto? Al suo ritorno ne parlacon Braga che rimane «meravigliato, rosso dallagioia». Le chiede: «che cosa vuoi che faccia?».«Far venire Teresinha per aiutarci». Portoghese,Teresinha Tavares, del movimento internaziona-le di donne Graal, era già stata nella Caritas an-golana e Nawakemba l’aveva incontrata di nuo-vo in Kenya, dove accompagnava un gruppo dimozambicane. In Angola condusse un corso cheterminò il 23 agosto del 1990. Questa sarà la da-

ta di nascita della Promaica, che prima si chia-mò Sviluppo Sociale Femminile, poi Promozio-ne Donna ed infine Promaica: Promoção dasmulheres angolanas na Igreja Católica. «NellaChiesa cattolica» per distinguersi da altri movi-menti femminili nascenti nel Paese. Funzioneràsenza una vera struttura gerarchica fino al 2003,quando Nawakemba diventa coordinatrice na-zionale. Oggi, in pensione, ne è la consigliera.E si sente felice perché quello che ha desideratoper le donne angolane si sta verificando, c’è unanuova leadership, sa che “ci sarà continuità”.Quello che Rosália e monsignor Braga hannovoluto era uno spazio dove le donne potesseroprendere coscienza del loro valore nella Chiesae nella società, dove “promuoversi per promuo-v e re ” altre persone, spiega Julieta Araújo, infer-miera specializzata in analisi cliniche. Come lei,la maggioranza delle 95 mila socie della Promai-ca è attiva in diversi settori della Chiesa e dellasocietà. E c’è già Promaica-Giovani con circa 9mila membri. Il movimento è presente nelle 18diocesi angolane e ora anche a São Tomé e

Principe e in Mozambico. Le sue attività fannoperno sulla formazione umana, cristiana, profes-sionale. E si concretizzano nella lotta all’analfa-betismo e alla povertà: problemi che quasi qua-rant’anni di guerra hanno reso più gravi, specieper le donne.

Oggi la donna è più istruita, più attiva, piùunita, ha «un maggior senso di partecipazionereligiosa e civile», riassume la fondatrice. Mac’è qualcosa che la fa ancora piangere: l’e s t re m apovertà delle donne nelle zone remote, malgra-do il loro duro lavoro. Rosália chiede che laChiesa le aiuti ad organizzare l’agricoltura so-stenibile. Non è compito dello Stato? «Sì, maquando tarda, la Chiesa deve dare una mano» elo si può fare senza aspettare nulla da fuori, maa partire dalle risorse e dalla realtà locale, ren-dendo queste donne protagoniste del loro svi-luppo come è nella filosofia della Promaica, so-stiene. Sul piano spirituale, Rosália vede la ne-cessità di un’intensificazione della lotta alla stre-goneria, ancora molto presente con tutti i suoi

Donne della Promaica (da diocesedohuambo.org)

Angola, 30 anni di PromaicaPrima associazione africana per promuovere la donna “nella Chiesa”

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TESTIMONI

Dagli abusiall’i m p re s a

«Intanto — comincia — l’ignoranza in cuivengono tenute le donne, che molto presto ab-bandonano la scuola per aiutare in casa. Nontutta l’Africa, certo, è così. Ci sono Paesi chegarantiscono a tutti il diritto all’educazione. Manella realtà più sottosviluppate prevale la cultu-ra tradizionale che relega spesso il ruolo delbambino o delle donne ad aiutanti, dalla raccol-ta dell'acqua nei pozzi a quella del legname».

Poi il dramma degli abusi, fisici e psicologici.Le vittime sono in gran parte donne. «Quelli inambito familiare sono un fenomeno molto diffu-so, e non solo nell’Africa rurale. In Sud Africasi consuma uno stupro ogni 36 secondi, cento-mila violenze domestiche in un anno. Otto uo-mini su dieci trovano normale picchiare unadonna».

A volte i fenomeni di violenza riguardano in-tere regioni, come il caso della Repubblica De-mocratica del Congo: «Si parla di 15 mila stupridi gruppo in un anno. Le vittime, spesso, sonobambine, dai due ai dodici anni. Rapite nellanotte e violentate».

Una piaga che riguarda le donne — o meglio,le bambine — è lo sfruttamento nelle miniere.Molti gruppi armati ribelli controllano l’estra-zione di oro, di diamanti nelle regioni ricche dim i n i e re .

E si servono dei bambini, femmine o maschi,perché la loro piccola corporatura permette diintrodursi più facilmente nei cunicoli. «Li co-stringono a scendere all’alba in queste cave. Ilcompito delle donne, in genere, è il trasporto, illavaggio, la frantumazione manuale delle pie-tre». Inferni di pietre preziose.

Le donne subiscono, non è facile liberarsidal giogo. Ma fortunatamente cominciano areagire, prendendo consapevolezza dei loro di-ritti e della forza che può dare l’essere unite.«Sono nate cooperative, gruppi di donne che

si mettono assieme per aiutarsi reciprocamente.Per esempio un’associazione nata a Kamituga,nel Sud-Kivu, proprio per combattere lo sfrut-tamento di donne e bambini. A fondarla è sta-ta Emilienne Intongwa Comifene, la primadonna a capo di una miniera. Anche nella suacava lavorano donne, ma con diritti riconosciu-ti». La violenza usa anche armi diverse. Comein Mauritania, dove le donne vengono fatte in-grassare come condizione per le nozze. «Ven-gono nutrite a forza per gonfiarsi e potersisposare; è una pratica che chiama gavage, in-gozzamento. Nasce dal fatto che le donne so-vrappeso sono considerate, in questa cultura,simbolo di benessere.

Appena una bambina compie 5 anni, si co-mincia a ingozzarla. In dieci anni pesa 90, 100chili. Secondo l’Oms «un quarto delle donnemauritane sono obese». Anche qui, negli ultimianni, sono nate associazioni che lottano controquesta usanza.

La Mauritania riconosce alle donne una pre-senza pubblica. Hanno diritto al 20 per centodei seggi in Parlamento, sono nell’esercito. «Eanche se molte delle donne che in gioventùhanno subito queste violenze oggi la ritengononormale pratica, altre chiedono che venga vie-tata per legge».

Usciamo da questi squarci di inferno, chie-dendo a Marco Trovato quali sono le donne in-contrate in Africa che lo hanno più colpito.«Tante. Se ne devo dire alcune penso a ZanyMoreno, una stilista di Capo Verde che creaabiti raffinati. Oppure Ntsiki Biyela, la primadonna nera a produrre vino in Sud Africa: unadonna zulù che ha vinto premi prestigiosi e og-gi ha lanciato una impresa che sfida l’élite ma-schile».

Dice Marco Trovato che la vera miniera pre-ziosa dell’Africa sono le sue donne.

Marco Trovato, direttore di «Africa»”Sono le donne la vera miniera”

di ELISA CALESSI

Marco Trovato gira da 30 anniper l’intero continente africa-no. Reporter indipendente,realizza inchieste e organizzamostre e convegni e da 15 an-

ni è direttore editoriale di «Africa Rivista», bi-mestrale che prova a raccontare la complessitàdi questa immensa terra. Di donne nei suoi lun-ghi viaggi ne ha incontrate a centinaia.

Ha visto le bambine costrette a lavorare nelleminiere e quelle sottoposte a infibulazione. Leragazzine date in sposa a dodici anni, magariprima ingozzate fino a diventare obese perchéarrivare al matrimonio floride è segno di benes-sere, e le donne maritate picchiate in casa.Quelle rapite e stuprate. Ma ha conosciuto e in-tervistato anche imprenditrici di successo, arti-ste, professioniste, attiviste che lottano per i lorodiritti. L’Africa delle donne è come il loro conti-nente. Fatto di inferno e speranza.

Marco Trovato evita l’elenco dei mali, i pro-blemi sono conosciuti, molti discussi e studiati,anche se non risolti. Parla di quelli che lo colpi-scono particolarmente.

Una bambina che lavora nella produzionedi carbone da legna (©Unicef)Sotto, Marco Trovato (foto da lui fornita)

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Al centro della ri-cerca di HauwaIbrahim, una

delle più celebri giuri-ste per i diritti umanidel pianeta, c’è il pote-re delle madri di modi-ficare nel profondo lastruttura delle ingiusti-zie, riparandole.

La sua aveva messo al mondo nove figli aHinnah, villaggio senza elettricità né strade nel-la parte settentrionale della Nigeria, e obbedivacome tutti alle regole culturali secondo le qualile figlie femmine non dovevano andare scuola esoprattutto dovevano sposarsi presto per smette-re di pesare sul magro bilancio famigliare. Ilrapporto di Ibrahim con la madre era inusuale:«Da bambina ero il contrario di quanto ci sidovesse aspettare da una figlia femmina neicontesti tradizionali come il mio: ero ribelle, vi-vace, divertente. Mia madre rideva grazie a me,alla mia allegria. Eppure a undici anni midisse che dovevo dimenticare i libri eprepararmi alle nozze con un uomopiù grande di me. Sono scappata dicasa».

Il carattere ostinato di HauwaIbrahim è la sua fortuna: viene ac-colta ad Azare, nello Stato nigeria-no del Bauchi, presso il convittoWomen Teachers College, dove

LA F O R E S TA SILENZIOSA NIGERIA

«Proviamo a fermare il fondamentalismoattraverso il Soft Power delle madri»

Hauwa Ibrahim, la giurista che salva le donne dalla lapidazione utilizzando la logica della Sharia

di LAU R A ED UAT I

studia e si laurea in legge grazie anche al soste-gno di uno zio materno. Diventa la prima avvo-cata di religione musulmana della Nigeria, e co-mincia la sua carriera. Ma non dimentica la fa-miglia rimasta al villaggio, e le bambine suecoetanee che sono dovute diventare mogli. Perquesto Hauwa Ibrahim si specializza in dirittodella Sharia, il codice legislativo ispirato

all’islam. Viene citata con ammirazione dal«New York Times» quando nel 2002 decide didifendere gratuitamente una condannata alla la-pidazione, la prima di tante altre, Amina LawalKurami, colpevole di avere concepito una bam-bina fuori del matrimonio: «Era così evidente ladifferenza di peso tra la colpa di Amina e lacolpa dell’uomo con cui aveva commesso il fat-to, immediatamente ritenuto innocente dai giu-dici solo per aver giurato sul Corano» commen-ta. Così, insieme al collegio di avvocati dellaBaobab for Women’s Human Rights, elaborauna strategia difensiva che non si ispira ai prin-cipi della parità di genere, bensì a quelli internialla logica della Sharia: in tribunale HauwaIbrahim, poco più che trentenne, convince igiurati che il figlio di Amina non è il frutto diquella relazione extramatrimoniale ma, secondoi precetti della stessa legge religiosa che vorreb-be condannarla a morte, potrebbe essere un dor-

mant foetus, un bambino concepito con il maritoe poi nato due anni più tardi. Sempre in Nige-ria, difenderà e salverà dalla morte altre 47 don-ne accusate di adulterio e bambini colpevoli direati e per questo riceverà nel 2005 il PremioSacharov del Parlamento europeo.

«Non è possibile colmare il gender gap ocombattere l’analfabetismo senza davvero cono-scere la cultura di un luogo» mi spiega al tele-fono dalla sua casa romana. Da otto anni, infat-ti, dopo essere stata visiting professor in ateneicome Harvard e Yale, Hauwa Ibrahim è titolare

del corso Human rights and Social Justiceall’università di Tor Vergata a Roma, all’internodel corso di laurea in Global Governance dedi-cato al delicato ruolo dei leader del futuro. «Lospiego anche ai miei studenti quando cerchiamodi trovare gli strumenti giusti per stimolare ilcambiamento positivo — continua — Quandotorno nel mio villaggio in Nigeria mi spogliodei panni della docente universitaria e diventouna di loro. Divento cioè povera e analfabeta,poiché in passato lo sono stata. Ho compresoche non potevo arrivare in abiti occidentali ecominciare a discutere con le donne per spiega-re dall’alto della mia cattedra che tenere le figlielontane dalla scuola era sbagliato. Per cambiarela mentalità, occorre mostrare nei fatti che esisteuna alternativa concreta preferibile alla tradizio-ne. Occorre dimostrare alle famiglie che semandano le figlie a scuola e non organizzanoper loro matrimoni precoci, la famiglia non mo-rirà di fame, anzi trarrà un beneficio». HauwaIbrahim ha perdonato sua madre: «Lei pensavache quello fosse il mio bene. Ora comprendeche il bene della famiglia è più grande grazieallo studio e a quello che sono riuscita a fare».

Le mamme. Dopo aver salvato dalla carcera-zione o dalla condanna capitale molte vittime,spesso donne, Hauwa Ibrahim ha fondato Mo-thers without borders, progetto per tenere lonta-ni i ragazzi dall’estremismo e dal fondamentali-smo. E anche in questo campo sperimenta concoraggio e trova percorsi inediti, come quando

HauwaI b ra h i m

(Wikipedia)

Ma n i f e s t a z i o n iin Nigeriaper la liberazionedelle licealirapite (Ansa)

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viene chiamata dal presidente della Nigeria nel2012 a cercare le 276 studentesse rapite a Chi-box dal gruppo terroristico Boko Haram. Chi-box è una cittadina a pochi chilometri dal vil-laggio natale dell’avvocata, e la sua conoscenzadell’humus culturale è cruciale: «Ero seduta altavolo con militari ed esperti che parlavano dimettere in campo aerei, droni, servizi di intelli-gence, insomma la forza dura e pura. Allora hopensato che accanto a questo hard power p oteva-mo utilizzare il soft power delle mamme dei fon-damentalisti già catturati, ma che non collabora-vano. Sono andata nei villaggi a parlare con lo-ro, pensavano che i loro figli fossero morti. Hochiesto di venire in città. Ricordo di aver fattoentrare una di queste donne in un carcere.Quando il figlio l’ha vista si è messo a piangeree l’ha abbracciata, nonostante fosse adulto: perla nostra cultura, è riprovevole per un figlio ma-schio chiedere l’abbraccio della madre dopo lapubertà, devono comportarsi da uomini. E inve-ce questo ragazzo ha capito l’imp ortanzadell’amore materno e grazie all’intervento dellamadre ha cominciato a fornire dettagli utilissimiper la ricerca delle rapite». Nel 2015 applica lamedesima teoria del soft power delle madri inGiordania, contro l’Isis che reclutava guerriglieritra i ragazzi disperati dei campi profughi.

Hauwa Ibrahim ora è focalizzata anchesull’istruzione delle nuove generazioni: «Dob-biamo abolire la differenza tra chi insegna e chiimpara. Io imparo tantissimo dai miei studenti,anche se riconosco che devono combattere con

un calo generalizzato dell’attenzione e la cresci-ta esponenziale delle fake news. I nuovi leaderdevono trovare soluzioni inedite ai problemi delmondo, ma l’approccio deve variare in base allalatitudine e al retroterra culturale delle persone.Ora siamo alle prese con il coronavirus, e sba-glieremmo a pensare che si tratti di una questio-ne prettamente sanitaria: sempre nelle aree po-verissime dell’Africa, il virus colpisce poco gliabitanti ma sta determinando una penuria di ci-bo per via della chiusura delle frontiere. Ancorauna volta sono le donne a patire le conseguenzepeggiori, costrette ora a camminare molti piùchilometri di prima per trovare un mercato dovetrovare gli alimenti necessari» dice. HauwaIbrahim coltiva un pensiero flessibile per arriva-re al cuore del cambiamento positivo, comequando coinvolge gli abitanti dei villaggi nige-riani non tramite la tv o la radio, mezzi quasiinesistenti in molte aree, bensì tramite gli alto-parlanti che vengono utilizzati per diffondere lepreghiere. Le sue parole sono ribaltamenti logiciche però risultano diretti, efficaci. È il poteredella persuasione e del convincimento che il ca-pitale umano è «tutto ciò su cui dobbiamo la-v o r a re » .

La sera chiude i libri di diritto e apre testi sa-cri, anche la Bibbia o il Talmud, o recita le pre-ghiere imparate da bambina in Africa. «Trovomolti insegnamenti comuni, e poche differenze»ammette. Poi la giornata finisce con un ringra-ziamento per essere ancora viva, per avere rice-vuto il privilegio di una missione così enormecome quella dell’educazione dei giovani: «Biso-gna sempre cominciare da sé, nel concreto. Hodue figli maschi e ricordo loro continuamenteche devono portare rispetto alla loro madre, allefidanzate, alle colleghe di lavoro. Questo è ilmio soft power come madre. Abbiamo portato ingrembo i nostri figli e abbiamo il potere dicambiare le loro azioni».

LIBRI

Hauwa Ibrahim con Amina(da Senato.it)

di SI LV I A GUIDI

«Benvenuti a Tarascona, antica cittadina dellaFrancia (...) Vi starete chiedendo chi io sia eperché vi parli da questa piccola localitàfrancese. Vi do qualche indizio: sono unadonna israelita, sono stata discepola di Gesù eun’antica leggenda lega il mio nome a quellodi Tarascona — si legge nel primo capitolo dellibro Marta di Betania. «Io credo,

S i g n o re » (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2020,pagine 140, euro 14) di Marinella Perroni,fondatrice del Coordinamento teologheitaliane. Enigma svelato dal titolo; si trattadella donna che una lunga tradizione hatrasformato nella patrona delle casalinghe,

La discepola Martae la predicatrice Domenica

degli osti e degli albergatori.«Molti secoli orsono —dicono nel 48 dopo Cristo —da terre lontane, per mareapprodai a Marsiglia e qui,nelle paludi della Camargue,mi distinsi per gesta eroiche:predicai a lungo, compiimiracoli e domai un mostro,affrancando gli abitanti diquesti luoghi da un terribileflagello». Nella Scrittura lasorella di Maria si presentain modo enigmatico. I dueracconti che ce netrasmettono la memoria, unodi Luca e uno di Giovanni,la connotano in modo traloro non solo diverso, ma

discordante. Per Luca è una donna distrattadalle tante incombenze del lavoro domestico;per Giovanni è una discepola in grado diesprimere la più alta confessione di fede ditutto il quarto vangelo. «Il successo che nellatradizione successiva ha avuto la Martasempre con il paiolo in mano, forse nonstupisce — si legge in quarta di copertina nelvolume di Perrone — Ma dovrebbe interrogarciil fatto che non abbia avuto altrettantosuccesso la Marta che riveste nel quartovangelo un ruolo del tutto analogo a quello diPietro nel vangelo di Matteo». Il libro faparte della serie «Madri della fede», come

Domenica da Paradiso

(Cinisello Balsamo, SanPaolo, 2020, pagine 144,euro 14) il volume diAdriana Valerio dedicatoalla mistica discepola diSavonarola DomenicaNarducci da Paradiso (1473-1553), che difese con forza,anche davanti alle autoritàecclesiastiche che lacontestavano, la sua attivitàdi carismatica predicatrice.Una donna semplice, cheparlava con immagini presedalla vita quotidiana di unDio venuto «per nostroamore a fare il bucato nellacaldaia di questo mondo».

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LA F O R E S TA SILENZIOSA ITA L I A

«Viviamo da operaie tra gli operaiper portare conforto nelle Case Bianche»

Quattro Piccole Sorelle di Gesù nella periferia di Milano dove Papa Francesco incontrò i più fragili

di LILLI MANDARA

Le Piccole Sorelledi Gesù vivonoin un caseggiato

di edilizia popolare allaperiferia di Milano, lachiamano la zona delleCase Bianche. Ora so-no in quattro, da fineagosto Giuliana, Rita eValeria sono state rag-

giunte da Florence, di origine nigeriana. Vitededicate alla preghiera nella piccola cappellaall’interno del loro appartamento, e al lavoroduro fuori e dentro il quartiere.

Attualmente si sostengono con lavori di puli-zia degli uffici e in una casa di accoglienza permalati e famiglie che vengono da fuori città.«Qualche anno fa eravamo anche in un’i m p re s adi pulizia dell’istituto dei tumori, nella mensa diun asilo e come collaboratrice domestica in caseprivate» dice piccola sorella Giuliana.

Operaie tra gli operai, così vogliono sentirsi.Vivono in questo quartiere di periferia dove gliimmigrati — oggi per lo più del Nord Africa,America del Centro-sud, Sri Lanka, Filippine —rappresentano da sempre il 20 per cento dellapopolazione; era così sin da quando invece del-le Case Bianche c’erano le case minime, vecchiecase di ringhiera costruite nel dopoguerra peraccogliere famiglie milanesi in difficoltà e immi-grati del sud Italia. Un quartiere antichissimo,che fino al quindicesimo secolo ospitò il mona-

stero dei frati Umiliati, una cascina a corte chiu-sa con rustici agricoli ed edifici monastici a for-mare una grangia, la grangia di Monluè, finoallo scioglimento dell’Ordine da parte di sanCarlo Borromeo. Ancora oggi questo quartiere èvalorizzato dalla presenza di due case di acco-glienza per immigrati e richiedenti asilo politi-co.

Le Piccole Sorelle, istituto religioso femmini-le di diritto pontificio, arrivarono qui nel 1954;poi nel 1977, quando le case minime furono de-molite, si trasferirono nelle Case Bianche. La lo-ro presenza, assidua e silenziosa, ha rappresen-tato un punto fermo di accoglienza e solidarietàper gli abitanti di questo territorio di confine.

Nel caseggiato di 477 appartamenti di variedimensioni, vivono circa 2.000 persone, tra cuitanti anziani soli. Miseria e disoccupazione sisommano ad anni di incuria e abbandono e cosìviene spesso dipinto come un luogo trascurato edi delinquenza, il fortino della malavita. «Macosì non è, non c’è solo sofferenza», spiega lapiccola sorella Giuliana. Papa Francesco il 25marzo del 2017, in visita a Milano, scelse di ve-nire qui per incontrare le famiglie più fragili ebisognose. Le Case Bianche finirono sotto i ri-flettori e da qualche mese sono iniziati i primilavori di ristrutturazione.

Nell’appartamento delle Piccole Sorelle c’èsempre traffico di gente che cerca conforto, pre-ghiera, consigli, ascolto. «E di bambini — ag-

giunge Giuliana — A volte arrivano con la scusadi avere sete, poi si fermano a giocare, a dise-gnare. Anche loro hanno bisogno di essereascoltati. Altre volte sono gli stessi genitori checi chiedono di tenerli, come si fa tra buoni vici-ni, mentre loro sono fuori».

Esce al mattino presto, suor Giuliana, comele consorelle, ad eccezione di suor Rita che daqualche mese ha lasciato il suo lavoro all’Istitu-to tumori per occuparsi della casa e per starepiù vicina alla gente del quartiere. Il lavoro,umile, di fatica, è importante per sentirsi vicineagli altri. «Lavori che ci aiutano a condividere ildisagio e la quotidianità di tanta gente e ci ren-dono solidali anche senza tante parole. La no-stra routine ci mette sullo stesso piano dei no-stri vicini di casa, ci aiuta a sviluppare quelle re-

lazioni di uguaglianza e di sostegno reciprocoche sono fondamentali per la nostra missione. Ilfatto di essere in mezzo a loro ci rende uguali eavvicinabili. Un piccolo segno del Regno diDio, che anche noi scopriamo dentro la nostrarealtà, fatta di incontri, di sguardi, di gesti con-creti». La Fraternità delle Piccole Sorelle nascenel 1939 da piccola sorella Magdeleine di Gesùattratta dalla testimonianza di Charles de Fou-cauld, il rampollo di una nobile famiglia milita-re francese che rinunciò a tutto, divenne fratellouniversale, prete, eremita e missionario e nel1916 morì assassinato nel Sahara. Presto saràproclamato santo. Il suo carisma ha contribuitoa smantellare quel pregiudizio che considera lereligiose persone che si ritirano dalla vita di tut-ti i giorni. «Vivrai mischiata alla massa umana

Papa Francesco alle Case Biancheil 25 marzo 2017(foto «L’Osservatore Romano»).Sotto, a sinistra le Piccole sorelleGiuliana, Florence, Rita, Valeria.A destra, il Pontefice nella casadi una famiglia delle Case Bianche

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come il lievito nella pasta» diceva la fondatricedella congregazione suor Magdeleine nel suo te-stamento spirituale, rivolgendosi alle PiccoleSorelle. «Questo non è il quartiere più difficiledi Milano, ma come in ogni periferia c’è unconcentrato di disagi sia economici che persona-li, in parte dovuti alla mancanza di lavoro»spiega suor Giuliana. Si fa rete.

Con gli stranieri — molti sono arabi e di reli-gione musulmana — da nove anni si organizza-no incontri settimanali per favorire la conoscen-za reciproca; recentemente una coppia musul-mana ha iniziato a insegnare la lingua arabacon lezioni settimanali aperte a tutti che servo-no a sviluppare il dialogo. D’altronde le PiccoleSorelle nascono in terra islamica, fra i nomadidel Sahara algerino; è «un percorso delicato,nonostante le buone relazioni — aggiunge picco-la sorella Giuliana — In occasione di un attenta-to una signora italiana, che fino a quel momen-to aveva intessuto con la vicina musulmana unrapporto fatto di visite, di scambio di piatti tipi-ci, di partecipazione alle rispettive festività, ciha raccontato della sua paura; e la donna mu-sulmana del suo sentirsi insicura. Le abbiamoaiutate a risvegliare il rapporto di fiducia, senzalasciarle in balia dei pregiudizi».

Giuliana aveva 21 anni quando incontrò lePiccole Sorelle di Gesù durante un pellegrinag-gio in Palestina. «A Betlemme rimasi molto col-pita dalla loro presenza in un quartiere arabo,da quella vita molto semplice, e dalla fatica delquotidiano a cui faceva da contrappeso la gioiadi condividerla con gli abitanti del posto. Lìsentii l’invito a conoscere e seguire Gesù in quelmodo. Qualche anno dopo chiesi di entrare afar parte della Fraternità». Le Piccole Sorelle sispogliano dell’abito e anche del cognome. Peressere uguali agli altri si vestono come le donnedei posti in cui vivono, i più poveri del mondo,e adottano la lingua e le abitudini dei luoghi in

cui vivono. «E affinché non ci siano distinzionitra noi in tutti i cinque continenti le sorelleprendono il cognome di Gesù» spiega suorGiuliana. Lo diceva piccola sorella Magdeleineche «può esistere un’amicizia vera, un affettoprofondo tra persone che non hanno la stessareligione, la stessa razza e non sono dello stessoambiente». Alle Case Bianche ci provano.

OS S E R VAT O R I O

Donne e teologia:la spinta

di mons. Phalana

Dedicate a Charlesde Foucauldle ultime paroledell’enciclica «Fratelli tutti»«…voglio concludere ricordandoun’altra persona di profonda fede,la quale, a partire dalla sua intensaesperienza di Dio, ha compiuto uncammino di trasformazione fino asentirsi fratello di tutti. Miriferisco al Beato Charles deFoucauld. Egli andò orientando ilsuo ideale di una dedizione totalea Dio verso un’identificazione congli ultimi, abbandonati nelprofondo del deserto africano. Inquel contesto esprimeva la suaaspirazione a sentire qualunqueessere umano come un fratello, echiedeva a un amico: “P re g a t eIddio affinché io sia davvero ilfratello di tutte le anime di questopaese”. Voleva essere, in definitiva,«il fratello universale». Ma soloidentificandosi con gli ultimiarrivò ad essere fratello di tutti.Che Dio ispiri questo ideale inognuno di noi. Amen».

PA PA FRANCESCO

di ROMILDA FE R R AU T O

Quando un prelato africano si pronunciaapertamente in favore di una maggioreopportunità di accesso per le donne agli studiteologici, la notizia non passa inosservata. E cosìè stato il 15 agosto scorso. Monsignor VictorHlolo Phalana si è espresso in occasione delmese dedicato all’uguaglianza di genere in Africadel Sud. In un video clip condiviso con l’agenziaACI, il vescovo ha lodato le donne che assumonoruoli ministeriali in assenza del clero e haesortato la Chiesa a trovare il modo per associarepiù donne alle decisioni. Terzo vescovo dellagiovane diocesi di Klerksdorp, a 200 chilometrida Pretoria, monsignor Phalana non è un prelatoqualsiasi. Si era già fattonotare, qualche tempo prima,per avere condannato con rarafermezza la violenza contro ledonne molto diffusa nelPaese. Il vescovo aveva anchepuntato il dito contro laChiesa che, secondo lui, hacontribuito a questo flagello, acausa dei suoi silenzi e dallasua impreparazione. Masoprattutto aveva spronatoproprio le donne ad alzare latesta e a lottare per difenderei propri diritti, augurandosiche il suo “grido” fosse lettonelle parrocchie, nellefamiglie, a catechismo: «Non

Monsignor Victor Phalana(da suo profilo Facebook)

lasciatevi minacciare o intimidire… E che Dio ciliberi, noi uomini, dallo spirito di controllo».E, di fatto, il dominio degli uomini sulle donneè presente anche nella Chiesa. Allorchésvolgono un ruolo essenziale nelle comunità,parrocchie e istituzioni ecclesiali, le donne sonoquasi sempre relegate nei ruoli subalterni:disporre i fiori, pulire la chiesa…… «Ma questanon è la volontà di Dio», insorge monsignorPhalana sottolineando con orgoglio che nellasua diocesi le donne sono la maggioranza nelconsiglio pastorale (la cui presidenza è stataattribuita a una donna, appunto). Il vescovo diKlerksdorp non si stanca di ribadire che lapresenza delle donne nei ruoli apicali nonindebolisce il consiglio presbiterale. Alcontrario! E che bisogna rallegrarsi delladecisione di Papa Francesco di istituire unaCommissione di studio sul diaconato femminile.Monsignor Phalana osserva d’altra parte che icanti, i testi liturgici, le preghiere sono a voltesessisti e si chiede «come possiamo parlare digiustizia quando la nostra liturgia haun’impronta prettamente maschile?». Per il

prelato sudafricano èessenziale che laiche ereligiose ricevano unaformazione nelle diversediscipline della Chiesa: dirittocanonico, studi biblici,teologia... Sarebbe unarisorsa preziosa. E alloraperché non creare borse distudio speciali per le donneche vorrebbero dedicarsi aqueste materie? Una propostada non sottovalutare tenendoconto anche del fatto che conuna crescita significativa deifedeli, l’Africa potrebbediventare perno del mondocattolico.

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Q uando ho iniziato a scrivere questipensieri mi è sovvenuta la fede del-la donna cananea (Matteo 15, 21-28), che non accetta un no comerisposta nemmeno da Gesù. Mi so-

no figurata la determinazione, la tenacia di quelladonna a favore della sua amata figlia. L’amore laspinge a perorare la causa della sua bambina vul-nerabile. Mi sembrava quasi di conoscerla, perchéassomiglia a tutte le donne di fede che ho avutola benedizione di incontrare. La sua fede e la suasupplica portano a un miracolo.

Da donna africana capisco bene come quelladonna cananea dovesse essere abituata a venirerespinta, sminuita, insultata e ignorata. Altronon chiedeva che briciole, pietà e misericordia.E mi rattrista rendermi conto del perché quelsuo atteggiamento mi tocca nel profondo. Sentocioè che quella donna avrebbe dovuto avvicinar-si a Cristo con la certezza di essere amata, pro-prio come fanno Maria e Marta, così da poteressere confortata da Gesù, che piange con lei,pieno di compassione. Amore. In una parola, èl’amore che questa giovane donna africana siaspetta. Che la Chiesa sia mossa dall’amore e,sì, compia miracoli, accogliendo la legittima ri-chiesta di participare tutti alla mensa di Dio.Questo amore plaude alla ricchezza delle doti,delle capacità e dei talenti di ognuno, creandoopportunità perché anche tutte le ragazze e ledonne africane possano metterle a frutto. Que-sto amore si rallegra dei diversi modi in cui sia-mo chiamati a costruire la comunità e nutrire lafamiglia umana. Non elogia lo stato matrimo-

niale in sé, ignorando la sofferenza delle donneche subiscono violenze domestiche e chiudendoun occhio sul femminicidio. Questo amore so-stiene le madri di modo che possano partorirein sicurezza e le famiglie possano prendersi curadei figli. Questo amore onora il corpo in quan-to creato da Dio con la sua inerente dignità ebellezza. Questo amore rispetta il creato ed èsolidale con quanti lo proteggono. Questo amo-re è molto più di quanto io possa pensare, im-maginare, o il mio cuore possa desiderare, ovve-ro la grandezza di Dio.

Sono state le donne i pilastri che hanno sorret-to la mia fede di donna africana. Attraverso le lo-ro azioni ho sentito l’amore di Dio e sono stataispirata dal loro impegno a cercare di costruirequi il regno di Dio. Queste donne hanno pulitochiese con orgoglio, organizzato celebrazionigioiose, recitato preghiere prima dei pasti e almomento di andare a letto, confortato e lavatomalati, hanno cresciuto me, bambina orfana, han-no sostenuto vittime della tratta di esseri umani,accompagnato gruppi di preghiera, guidato ani-me erranti, dato da mangiare a senzatetto e raf-forzato la fede, non con dogmi, ma attraverso attid’amore. Chiedere le briciole vorrebbe dire atten-dersi che vengano riconosciuti la dignità e il valo-re di queste donne. La mia esperienza dell’a m o redi Dio mi induce ad aspettarmi molto di più dal-la Chiesa. Questa donna africana si aspetta unamore che sostenga e promuova la vita.

*Artista e attivista per il cambiamento climatico.Nata e cresciuta in Zimbabwe, vive a Londra

di BO KA N I TSHIDZU*

Quello che una giovane donna africanasi aspetta dalla Chiesa

TRIBUNA

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