LAVORO Tribunale di Milano n. 650 del 03-12-2010 · lavoro, ma anche i soggetti e le relazioni, la...

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progetto LAVORO per una sinistra del XXI secolo 20 giugno luglio 2013 Registrazione Tribunale di Milano n. 650 del 03-12-2010 Mario Agostinelli Samir Amin Michael Ash Bruno Casati Leo Ceglia Jose’ Luiz Del Roio Guglielmo Forges Davanzati Thomas Hernden Giorgio Lunghini Maria Grazia Meriggi Gabriele Pastrello Gian Paolo Patta Robert Pollin Roberto Romano Dilma Rousseff Riccardo Terzi Carmen Vita COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ... È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipa- zione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.(Art. 3)

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LAVOROper una sinistra del XXI secolo

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Jose’ Luiz Del RoioGuglielmo Forges Davanzati

Thomas HerndenGiorgio Lunghini

Maria Grazia MeriggiGabriele PastrelloGian Paolo Patta

Robert PollinRoberto RomanoDilma RousseffRiccardo TerziCarmen Vita

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto lalibertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipa-zione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.(Art. 3)

RIVISTA MENSILE PROMOSSA

DALL’ASSOCIAZIONE PUNTO ROSSO E DAL

MOVIMENTO PER IL PARTITO DEL LAVORO

ESSA RITIENE CENTRALE NELLA CRISI

SISTEMICA IN CORSO LA RICOSTITUZIONE

DEL VERSANTE POLITICO DI MASSA DEL MOVIMENTO

OPERAIO

Registrazione presso il Tribunale di Milano n.650 del 03/12/2010

Edizioni Punto Rosso

DIRETTORE RESPONSABILEGiancarlo Saccoman

CONDIRETTORELuigi Vinci

DIREZIONE EDITORIALESilvana Cappuccio, Anna Cotone, MatteoGaddi, Silvia Garambois, Roberto Mapelli,Maria Rosaria Marella, Giorgio Mele, AndreaMontagni, Antonio Morandi, Corrado Morgia,Luca Nivarra, Roberto Passini, Gian PaoloPatta, Paolo Repetto, Giorgio Riolo, VittorioRieser, Giancarlo Saccoman, Alberto Scanzi,Luigi Vinci.

COLLABORATORIMario Agostinelli, Anna Belligero, Paola Bentivegna, Elio Bonfanti, Giacinto Botti,Franco Calamida, Antonio Califano, GiovannaCapelli, Tatiana Cazzaniga, Bruno Ceccarelli,Leo Ceglia, Luca Ciabatti, Paolo Ciofi, SaverioFerrari, Erminia Emprin Gilardini, MarcelloGraziosi, Paolo Hlacia, Igor Kocijancic, GianLuca Lombardi, Emilio Molinari, Raul Mordenti,Gianni Naggi, Nicola Nicolosi, GiulianoPennacchio, Roberto Polillo, Mimmo Porcaro,Roberto Romano, Stefano Squarcina, GianniTamino, Leopoldo Tartaglia, Mauro Tosi.

SEGRETERIA DI REDAZIONE PRODUZIONE EDITORIALE E AMMINISTRAZIONE c/o Associazione Culturale Punto Rosso Via G. Pepe 14, 20159 Milano Tel. 02/874324 [email protected]

PREZZO e ABBONAMENTIPrezzo a numero 9 euro, abbonamento annuoordinario 50 euro, abbonamento sostenitore 100euro, da versare sul conto corrente postale numero 7328171intestato a Ass. Cult. Punto Rosso -RivistaProgetto LavoroPer bonifico bancario IBAN IT78J0760101600000007328171

TIPOGRAFIA: Digitalandcopy, Milano

INTERNETwww.rivistaprogettolavoro.com

Questo numero della rivista è stato chiuso il 2 luglio 2013

Giancarlo SaccomanIl Congresso Cgil che auspichiamo

Decisamente, un governo non nostro

Luigi VinciNon è vero che non ci sono i soldi

Spionaggio Usa in Europa

La Francia sta difendendo la cultura

Roberto MapelliM5S e il fascismo inconsapevole

Il fascismo liberista delle grandi banche

José Luiz Del RoioQuale crisi in Brasile

Dilma RousseffDichiarazione

Gabriele PastrelloCome è stata massacrata la Grecia

Leo CegliaAccordo 31 maggio: un fatto storico

Bruno CasatiPerché l’esigenza di un partito del lavoro

Riccardo TerziPer ricostruire la sinistra politica

Maria Grazia MeriggiPartito del lavoro e dei lavoratori

Gian Paolo PattaUn partito concreto del lavoro

T. Hernden, M. Ash, R. PollinLa bassa crescita fa aumentare il debito

Guglielmo Forges Davanzati La recessione è trainata dalla dinamicadel credito

Giorgio LunghiniReddito sì, ma da lavoro

Carmen VitaIl dualismo dell’economia italiana

Mario Agostinelli, Roberto RomanoIl PRS della Lombardia

Matteo GaddiIl caso Alessandria

Samir AminCina 2013

NOTE

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ESTERI

LAVORO

SEMINARIO

PER IL

PARTITO DEL

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sommario

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NOTE DI POLITICA

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Il congresso Cgilche auspichiamo

Giancarlo Saccoman

La Cgil sta avviando, nei tempi statutaria-mente previsti, il percorso verso il nuovocongresso, nel pieno di una crisi strutturaledrammatica, peggiore di quella del 1929,che si sta ulteriormente approfondendo e dicui non si intravvede la fine.

Ed è proprio da una corretta analisi dellanatura della crisi che occorre partire perindividuare una strategia sindacale di resi-stenza e per prospettare un sentiero d’usci-ta dalla crisi stessa. La crescente iniquitàdistributiva non ne è la causa, ma soloun’importante conseguenza, che ne haamplificato gli effetti, e dunque non è suffi-ciente una pur indispensabile strategia redi-stributiva ma occorre ripensare lo stessomodello di sviluppo, da riavviare, attraversoun percorso di cooperazione internazionale,su un nuovo sentiero di lungo periodo,ambientalmente e socialmente compatibile.Ciò ovviamente non toglie che nel frattem-po occorra tamponare le conseguenze piùdrammatiche della crisi, combattendo l’au-sterità neoliberista, per evitare un devastan-te crollo, non solo economico ma anchepolitico e sociale.

Si tratta infatti d’una crisi sistemica cheinveste non solo l’economia, la finanza, illavoro, ma anche i soggetti e le relazioni, larappresentanza politica e sociale e le istitu-zioni, la cultura, l’ideologia e la moralitàpubblica, e mette in pericolo la stessa tenu-ta della democrazia, favorendo la crescita dimovimenti populisti e xenofobi e il discredi-to della politica. Comporta un cambiamen-to degli equilibri globali, con il declino deivecchi paesi industriali, ormai scesi sotto lametà del Pil mondiale, e l’ascesa dei nuovipaesi industrializzati, che però risentono

anch’essi della crisi, con una riduzione dellacrescita e l’accentuazione degli squilibri, cheportano alle rivolte in Brasile e Turchia e aun aumento dei conflitti sociali in Cina,India, Sudafrica. L’epicentro della crisi s’èoggi trasferito in un’Europa ancora domi-nata dal dogma, chiaramente fallimentare eormai screditato, dell’austerità neoliberista edel consolidamento dei conti pubblici che,come ha spiegato anche la Corte dei Contiitaliana, anziché produrre risanamento,accentuano la recessione, ampliando le dise-guaglianze, portando alla recessione anchequei pochi paesi europei che sembravano alsicuro, rallentando persino l’economia tede-sca, rischiando così di far morirel’Eurozona.

L’Unione Europea insiste sul rilanciodelle esportazioni attraverso la riduzionecompetitiva della domanda interna; ma,dato che la sua politica finanziaria restrittivamantiene elevato il cambio dell’euro (men-tre gli altri paesi, dal Giappone agli StatiUniti, accentuano la svalutazione competiti-va delle loro monete), essa punta tutto sullacosiddetta “svalutazione interna”, ovverosul taglio dei salari, dello stato sociale (pen-sioni, sanità, ecc.), dell’occupazione pubbli-ca e delle tutele del lavoro. Si tratta d’unascelta illusoria, che non risolve i problemistrutturali, dato che gli scambi prevalenti deivari paesi europei avvengono all’interno delcontinente europeo e in esso la domanda èovunque in caduta. Parimenti il trasferimen-to delle decisioni in istanze europee (in par-ticolare nella Commissione) non sottopostead alcuna verifica elettiva ha determinato un“vincolo esterno” nei confronti dei governinazionali, che ha creato un vuoto di poterereale nei vari paesi, soprattutto in quelli piùdeboli o più colpiti dalla crisi.

Tutto questo dunque ha comportato inItalia più che nel grosso degli altri paesi unacrisi di fiducia e di rappresentanza che hainvestito tutti i soggetti pubblici, non solo ilgoverno e il parlamento ma anche i partiti,gli enti locali, le organizzazioni sociali, quin-

di i sindacati e la stessa Confindustria, lace-rata da interessi contraddittori. E ha ulte-riormente aggravato una crisi politica inol-trata risalente a tempi precedenti, facendo sìche i partiti siano sempre più consorterieelettorali di leader e fazioni che se ne inte-stano la proprietà personale.

Risulta molto difficile, com’è chiaro, indi-viduare una strategia d’uscita. A grandi trat-ti, essa deve implicare un abbandono del-l’austerità neoliberista europea e porsi afavore d’un rilancio strategico di lungoperiodo di investimenti che guardino a unnuovo modello, sostenibile, di sviluppo, maanche, nell’immediato, un rilancio dell’occu-pazione attraverso un “piano del lavoro”che contempli anche la creazione di occupa-zione pubblica. Anche gli interventi a soste-gno del reddito debbono essere finalizzati alrilancio dell’occupazione. Nulla dunque ache vedere, con la cancellazione dell’Imu,che favorisce i più abbienti, magari effettua-ta tagliando ulteriormente servizi. E tuttoquesto riguarda direttamente e profonda-mente anche il sindacato, ultima grandeorganizzazione di massa, uscita indennedalla bufera politica di questi decenni. A dif-ferenza della maggior parte dei paesi euro-pei, l’Italia ha visto una sostanziale tenutadel tasso di sindacalizzazione (anche se gliiscritti risultano in costante discesa daglianni 80): ma il sindacato, al tempo stesso,appare sempre più incapace di incidere sullarealtà, anche a causa della recessione, delladecrescita e della precarizzazione del lavoro,ma soprattutto perché il “vincolo europeo”e la perdita di interlocuzione politica conse-guente alla crisi dei partiti e delle istituzionihanno tolto ogni spazio e credibilità allaconcertazione e ai grandi patti neocorpora-tivi triangolari. Tuttavia, positivamente, pro-prio questa crisi di rappresentanza ed effica-cia ha portato ad un recupero del dialogofra le confederazioni che ha investito il ter-reno delle regole della rappresentanza e sista estendendo al fisco e al mercato dellavoro. E’ quindi del tutto chiaro che in que-sta situazione non è sufficiente un’ordinaria

manutenzione. È indispensabile invece unarivisitazione complessiva delle ragioni fon-damentali che debbono guidare il sindacatoe, di conseguenza, della sua strumentazioneorganizzativa. Nonostante le grandi diffi-coltà della situazione occorre evitare qual-siasi concessione a sindromi da sconfitta,solo capaci di portare all’arretramento delprofilo dell’iniziativa politica e sociale.

Appare decisivo estendere l’area dellarappresentanza confederale verso quellearee del lavoro “atipico” (precario, falsa-mente autonomo, ecc.) che costituisconouna quota ormai maggioritaria della nuovaoccupazione, e che sono oggi sostanzial-mente esterne o marginali sul totale degliiscritti (sono sotto il 10%). Risolvere il pro-blema comporterebbe la capacità di definireobiettivi condivisi e unificanti sul pianodelle rivendicazioni economiche, dello statosociale (previdenza, sanità, ecc.), dei diritti edelle tutele del lavoro, della contrattazione.Questa capacità, data l’attuale frammenta-zione e dispersione del lavoro, può essereraggiunta solo attraverso un reinsediamentoterritoriale, recuperando le esperienze delleprime Camere del lavoro e dei Consigli dizona sindacali, realizzando una presenzacapillare della confederazione nelle legheterritoriali e diffondendole capillarmentesul territorio, in analogia a ciò che è l’attua-le Spi e affiancandolo: costituendo quindisia un “sindacato di strada” che una “con-trattazione d’impianto” atta a superare leattuali frammentazioni categoriali.

Ma la riunificazione deve avvenire anchesul terreno della lotta per il cambiamentodel modello di sviluppo, posta sulla basedelle proposte del Piano del lavoro dellaCgil; esso, cioè, per non restare una meraaffermazione di principio deve tradursi inuna politica delle “cento vertenze”, ovveronella definizione di piattaforme territoriali ecategoriali che ne concretizzino gli obiettiviimmediati e strategici, trasformandole cosìin mobilitazione oltre che in sindacalizza-zione di massa. Infine occorre invertire il

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processo di demolizione dello stato sociale,rilanciando un progetto solidale di “politicadei redditi” (di tutti i redditi e non, comecontinua ad avvenire, trasferendo redditodal basso verso l’alto della società), inoltredi sostegno ai redditi più bassi e precari,ricavando le risorse fiscali necessarie dallerendite finanziarie, enormemente cresciute,grazie al favore fiscale, proprio nel corsodella crisi. Non è perciò accettabile unnuovo “patto fra produttori” teso a ricerca-re introiti da ulteriori riduzioni delle pensio-ni, che già sono in Italia fra le più bassed’Europa, falcidiate com’è stato dal bloccodella rivalutazione e dallo stillicidio degliinterventi di riduzione automatica legati allasperanza di vita. Tra l’altro oltre a esserestato questo un progetto, esplicitamenteaffermato dalla Fornero, di miseria dimassa, in quanto tale socialmente inaccetta-bile, è anche un furto, poiché si approprianon di risorse pubbliche ma di contributiversati dai lavoratori, quindi di loro proprie-tà. Ancora, è a tale fine indispensabile l’ac-centuazione della confederalità della Cgil,ovvero della politicità del sindacato, chedeve certo ulteriormente accrescere la suaautonomia dalla rappresentanze partitiche,ma anche rivendicare la fondamentale poli-ticità del proprio progetto di società, e conciò rivendicare dalla politica la rifondazionedella rappresentanza politica del lavoro, inaltre parole l’unificazione della sinistra sullabase di un grande progetto di massa per latrasformazione sociale. Diventa parimentisempre più importante lanciare un progettodi unità sindacale europea, ben al di là del-l’attuale dimensione della Ces, orientato aconfrontarsi e ad opporsi agli attuali deva-stanti progetti neoliberisti di distruzionedello stato sociale della CommissioneEuropea e a realizzare la democratizzazionedell’Unione Europea.

Al complesso di questi obiettivi serve,infine, una riforma organizzativa, quella delresto già delineata nella recente Conferenzad’organizzazione della Cgil, che ne sposti lerisorse verso il basso, verso il radicamento

sociale confederale. Ciò al tempo stesso,lungi dall’essere il frutto eventuale di unasorta di espropriazione delle strutturedemocratiche della rappresentanza, deveessere basato su una riforma democraticadegli assetti organizzativi, tale da assicurarela più ampia rappresentanza, partecipazionee condivisione dei vari obiettivi.

Non sarebbe invece positivo ripetere nelprossimo congresso l’esperienza negativa diquello precedente, che ha visto una guerradi successione dei gruppi dirigenti per di piùnon adeguatamente qualificata da divergen-ze di politica sindacale (esse, pur esistendo,non apparivano chiaramente nella discus-sione fra gli iscritti). Il prossimo congressonon dovrà essere “minimalista”, una sortadi cerimonia in tono minore, semiclandesti-na, ma diventare una grande campagna dimassa, l’occasione per aprire un grandedibattito, chiaro ed aperto, su come riavvia-re lo sviluppo dell’economia, dello statosociale, della riunificazione delle classipopolari, del rilancio della democrazia, dellapartecipazione sociale e politica.

Divisioni settarie e aprioristiche nonsarebbero oggi comprese, date le grandi dif-ficoltà della situazione, dai lavoratori, idisoccupati e i pensionati che intendiamorappresentare. Ma neanche questo puòdiventare il pretesto per una sommaria sem-plificazione del dibattito interno, comequella prospettata in una riforma organizza-tiva, respinta ma ancora in campo, cheintende relegare il pluralismo nei soli diret-tivi, escludendolo quindi dagli esecutivi, conuna vera e propria amputazione di risorsevitali di cui la Cgil ha enorme bisogno, per-ciò che potrebbe risultare esiziale per la suademocrazia e per la sua stessa sopravviven-za. C’è un grande bisogno di unità ma nonaprioristica e burocratica, bensì a partiredalla libera espressione delle idee e delleproposte.

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Decisamente,un governo non nostro

Anzi avversario, subalterno al liberismoeuropeo, orientato dalla “Agenda Monti”.

Subiamo un impressionante bombarda-mento propagandistico a favore del gover-no Letta, da quasi tutto l’universo politico egiornalistico. Riunioni internazionali nellequali si decide poco o nulla diventano i luo-ghi nei quali si decidono ripresa economica,ripresa occupazionale, diminuzione delletasse. E’ il caso anche della riunione di giu-gno del Consiglio Europeo, dal quale il capodel governo Letta è rientrato “trionfante”.

Per esempio è stato annullato o ridotto,qualche settimana fa, il prelievo fiscale sulle“barche” di piccola o media stazza: cosicchédisoccupati, precari, operai, pensionati,casalinghe finalmente quest’estate potrannonavigare verso la Corsica o Malta e colàbagnarsi assieme all’Aga Khan e aMarchionne. In effetti, non siamo tutti, civiene detto di continuo, sulla stessa barca?

Ma vediamo le cose grosse: occupazione,tasse ripresa produttiva. Intanto si parlasolo di occupazione “giovanile”. Certo è unproblema grave. Ma ancora più grave è chesi parli solo di questo versante dell’occupa-zione. Non è un disastro che rovina la vitadi una persona anche la perdita del lavoro aquaranta o cinquant’anni, con la prospettivadella pensione, per di più, a settant’anni? Ilavoratori che mantengono una famiglia,che hanno i figli a scuola o precari o disoc-cupati, oppure che fanno sacrifici per man-darli all’università, che debbono finire dipagare il mutuo, se perdono il lavoro è unfatto insignificante? Le donne buttate fuoridal lavoro e obbligate a tornare a occuparsidel solo lavoro domestico, private così della

possibilità materiale di essere autonomerispetto al partner maschile e, se del caso,della possibilità di farsi indipendenti, noncostituiscono un problema grave anche diciviltà? Ciò che fa la differenza tra undiscorso sull’occupazione giovanile serio euna campagna pubblicitaria che la prende apretesto è proprio questo: che la campagnapubblicitaria serve a celare il disastro com-plessivo dell’occupazione in Italia, sia dalpunto di vista della quantità che dei dirittinon solo sul lavoro ma di vita.Poi c’è che ilpiano di governo che ieri prometteva 100mila posti di lavoro per i giovani, e oggi,avendo raccattato dall’Unione Europea unmiliardo di euro in più rispetto a impegniprecedenti (di 500 milioni), sono diventati200 mila.

Intanto queste cifre sono nulla rispettoall’enormità del problema. Inoltre si trattadi una promessa che parte dall’illusione(liberista) che l’occupazione possa aumenta-re migliorando (dal punto di vista imprendi-toriale) le caratteristiche dell’offerta di lavo-ro (concretamente, abbattendone il costo):ma se la produzione continua a regredirel’occupazione non può che regredire essapure, quale che ne sia il costo. Conclusione:l’offerta di 200 mila giovani lavoratori abasso costo alle imprese significherà chequesti 200 mila giovani andranno a sostitui-re un numero simile se non superiore dilavoratori i cui costi siano superiori. Benpochi saranno i posti di lavoro effettiva-mente aggiunti.

Le “riforme” Fornero-Monti hanno spia-nato la strada a questa possibilità anche sulpiano giuridico: oggi qualsiasi lavoratore atempo indeterminato può essere licenziatocon il pretesto che ne sia venuta meno lanecessità aziendale: e se va in causa e vince,viene semplicemente indennizzato conquattro soldi. Ma poi: saranno davvero 200mila, o giù di lì? Non va dimenticato che delmiliardo e mezzo che verrà dall’UnioneEuropea, solo 500 milioni saranno usabilientro quest’anno, mentre l’altro miliardo

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per metà arriverà entro il 2014 e per l’altrametà entro il 2015. Insomma il contrario delvecchio detto, che afferma che il cancro nonsi può curare con aspirina e contagocce.

Ancora: il Governo intende privilegiaregiovani a basso livello di istruzione o di for-mazione professionale. Anche questi giova-ni, ovviamente, hanno diritto di lavorare:ma il loro “privilegio” significa semplice-mente che il Governo sta portando a rinun-ciare, sulla scia dei governi che l’hanno pre-ceduto in questi vent’anni, a una matriceproduttiva italiana di alta qualità, trainata dasettori di punta sotto il profilo della tecno-logia, quindi richiedenti più di altri lavoroaltamente qualificato. Il Governo prendeatto del decadimento del modello italiano,anzi vi si adagia, lo generalizza. Questo nonsolo significa rinuncia a politiche industrialiin grado di produrre ripresa dell’economia:significa anche rinunciare a un’effettivaripresa su vasta scala dell’occupazione, aun’occupazione buona, di qualità, ben paga-ta; significa condannare l’Italia, già grandepotenza industriale, a una regressione eco-nomica globale, e non solo economica, macivile, politica, ecc.

Passiamo al fisco. Le voci fondamentaliappaiono due: IMU e IVA. Intanto il gover-no per ora sta operando l’abbattimentodell’IMU, mentre non è chiaro che cosa riu-scirà a fare con l’IVA. Ma l’annullamentodell’IMU sulla prima casa, anche se nonvarrà per “ville e castelli” è un regalo a clas-si medie e soprattutto ai ricchi: le case inproprietà delle classi popolari sono in gene-re escluse dal pagamento dell’IMU, o nepagano uno molto basso. Cosa ancora piùgrave, le risorse in meno nelle casse dellostato derivanti dall’abbattimento dell’IMUportano a far sì che l’aumento dell’IVAvenga semplicemente rinviato, inoltre chel’anticipo IRPEF venga aumentato. Tuttoquesto danneggerà la parte più povera dellanostra popolazione: quest’autunno essasubirà un irreggibile bombardamento a tap-peto fiscale. Mentre per redditi medi o alti

decisioni come l’aumento dei prezzi conse-guente all’aumento dell’IVA o all’aumentodell’anticipo IRPEF costituiscono un fattoinsignificante, non è così per un pensionato,un precario, un disoccupato, ma anche peruna famiglia operaia o per una famiglia diimpiegati pubblici. “Non ci sono i soldi”, èla litania. Ma, guarda caso, per evitareaumento dell’IVA e dell’anticipo IRPEFsarebbe bastata la prima tranche del paga-mento dei cacciabombardieri F35: a propo-sito della cui rinuncia il Governo non havoluto decidere.

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PER "MADIBA" NELSON MANDELA

“Sono pronto a pagare la pena anche se soquanto triste e disperata sia la situazione per unafricano in un carcere di questo paese. Sonostato in queste prigioni e so quanto forte sia ladiscriminazione, anche dietro le mura di una pri-gione, contro gli africani... In ogni caso questeconsiderazioni non distoglieranno me né altricome me dal sentiero che ho intrapreso. Per gliuomini, la libertà nella propria terra è l'apicedelle proprie aspirazioni. Niente può distogliereloro da questa meta. Più potente della paura perl'inumana vita della prigione è la rabbia per leterribili condizioni nelle quali il mio popolo è sog-getto fuori dalle prigioni, in questo paese... nonho dubbi che i posteri si pronunceranno per lamia innocenza e che i criminali che dovrebberoessere portati di fronte a questa corte sono imembri del governo". (autodifesa pronunciata alprocesso dove fu condannato all'ergastolo,1963)

INVICTUS (INVINCIBILE) di William Ernest Henley, 1875

Dal profondo della notte che mi avvolge, Buia come un pozzo che va da un polo all'altro, Ringrazio qualunque dio esista Per l'indomabile anima mia.

Nella feroce stretta delle circostanze Non mi sono tirato indietro né ho gridato. Sotto i colpi d’ascia della sorte Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo d'ira e di lacrime Si profila il solo Orrore delle ombre, E ancora la minaccia degli anni Mi trova e mi troverà senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.

Non è vero che inItalia non ci sono isoldi necessari

Luigi Vinci

Non è vero che in Italia non ci sono i soldinecessari per politiche industriali e dell’oc-cupazione e per il finanziamento, nazionalee locale, dei servizi sociali e di quelli pubbli-ci, così come, direttamente o indirettamen-te, per la riduzione del debito pubblico. Lodimostra uno studio di un anno fa diMediobanca, commissionato dal GovernoMonti all’inizio del suo mandato, poi ridot-to in clandestinità dal Governo Montimedesimo: e da quello successivo attuale.

Un anno e mezzo fa Mediobanca conse-gnava al Governo Monti uno studio sull’im-mensità dei giacimenti di ricchezza pubblicaesistenti in Italia. Questo governo volevaavere in mano qualcosa da spendere, se ilpopolo italiano e i lavoratori avessero reagi-to alle sue politiche di “rigore” a sensounico, contro lavoratori, pensionati, giovani,donne, piccolo lavoro autonomo, microim-prese, classi popolari in generale. Purtroppociò non accadde, per responsabilità sia poli-tiche che sindacali.

Vediamo il rendiconto di queste ricchez-ze, stando ai calcoli di Mediobanca. Lo statoitaliano disponeva nel complesso della suaconfigurazione di un patrimonio immobilia-re il cui valore di mercato era di 425 miliar-di di euro: più del 22% del debito pubblicodi allora (gli asset immediatamente vendibi-li valevano 42 miliardi: più del 2% di questodebito). Le riserve in oro della Bancad’Italia superavano i 130 miliardi: quasi il7% del debito pubblico. L’Italia infatti è laquarta istituzione mondiale quanto a entitàdi queste riserve, venendo dietro solo a StatiUniti, Germania e Fondo Monetario

Internazionale. Ancora, le partecipazionidello stato in imprese pubbliche o semipub-bliche assommavano a 132 miliardi: quasi il7% di quel debito.

Ovviamente solo pochi giornalisti ebbe-ro il fegato di scriverne. Ovviamente, nessu-no dei partiti che appoggiavano il governoMonti disse una parola. L’unico ad averel’arroganza di accennarvi fu l’allora sottose-gretario alla Presidenza del ConsiglioCatricalà. In un’intervista televisiva eglidichiarò che non era esatto che il governoMonti fosse intervenuto contro lavoratori,pensionati, stato sociale con tagli e misuredi una ferocia inaudita perché non era pos-sibile fare immediatamente altro contro lacrisi: in realtà, disse Catricalà, il governo haproceduto “secondo una sua linea politica”.

Non solo: come è ben noto il risparmioprivato italiano è in Europa il secondo dopoquello tedesco: ci sono tutte le condizioniper una tassa patrimoniale stabile a caricodei ricchi che dia un sacco di soldi allo stato.

Non solo: Mediobanca suggerì al gover-no Monti come gestire la trasformazione inentrate pubbliche dei “giacimenti” in que-stione. Essendo i prezzi del mercato immo-biliare depressi, né essendo possibile aliena-re se non in qualche anno e in quote nonalte gli immobili pubblici alienabili,Mediobanca suggerì di attivare CassaDepositi e Prestiti, nelle cui disponibilitàpatrimoniali complessive sono oltre 450miliardi. Essa è un’istituzione in mano per il70% al Tesoro, cioè allo stato, e per la quotarimanente a 65 fondazioni bancarie, quindia banche a maggioranza pubblica, operantisul terreno del finanziamento a imprendito-ria industriale, artigianato, agricoltura localipiù a comuni e province; ed è un’istituzione,inoltre, che si finanzia anche attraverso ilrisparmio postale (quest’ultimo da solo eraun anno fa sui 200 miliardi e rotti). Il sugge-rimento di Mediobanca dunque fu cheCassa Depositi e Prestiti acquistasse con-grua parte di partecipazioni e immobili

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pubblici e dello stesso oro della Bancad’Italia ed emettesse al tempo stesso obbli-gazioni, che avrebbero potuto arrivare tran-quillamente nel loro complesso a 200miliardi, garantite da queste acquisizioni. Lostato avrebbe incassato una barcata di soldi,così molti enti locali, al tempo stesso il ren-dimento di queste obbligazioni sarebbestato assai basso, per la forza delle garanzie.

Come si vede, l’Italia non è la Grecia8con tutto rispetto per questo paese, inde-gnamente massacrato), e neppure è laSpagna. Mentre alcune misure, quali lapatrimoniale o l’alienazione di patrimoniopubblico, sono di esclusiva e immediatacompetenza di Governo e Parlamento, l’in-tervento su Cassa Depositi e Prestiti, priva-tizzata di fatto da tempo, ne richiederebbepreliminarmente modificazioni statutarie,alle quali potrebbe reagire la CommissioneEuropea. A sua volta la Banca CentraleEuropea e la stessa Commissione potrebbe-ro opporsi all’alienazione di una parte delleriserve in oro.

Tuttavia, intanto, non a tutto esse potreb-bero opporsi; in secondo luogo, non si capi-sce perché la Germania possa operare, sudisposizione della propria CorteCostituzionale, a tutela dei principi dellaCostituzione tedesca, e questo non possaessere fatto in Italia, anche da Parlamento oda Governo, a tutela di nostri principi costi-tuzionali come il diritto al lavoro, la dignitàdel lavoro, i diritti di eguaglianza, compresiquelli in forma di servizi sociali, dei cittadi-ni.

Il Governo Letta tiene nel cassetto essopure il rapporto Mediobanca. Il significatodi ciò è uno solo: la continuazione, dietro alvelo delle chiacchiere sull’occupazione gio-vanile, dell’“agenda Monti”.

***

Lo spionaggio Usain Europa

Media, governi europei e loro parti politichestanno trattando da diversi giorni il fatto deicontrolli a cui sono sottoposti i governieuropei, le istituzioni dell’Unione Europea,la Banca Centrale Europea, le banche cen-trali dei paesi membri, verosimilmente ogniluogo significativo di potere, da parte USA,più precisamente da parte della NationalSecurity Agency (NSA), la principale agen-zia di intelligence statunitense.

Ma, come narrerò, è una vecchia storia,tutt’altro che una novità. Come tale, unavecchia storia densa di complicità europeedi varia natura. A fine giugno però soloPanorama, in Italia, risulta narrarla tutta.

In Europa, dunque, non è la prima voltache la questione esplode ma la seconda (laprima data il 1997); e, allora come oggi,esplode non perché in avvio c’è la reazionedi poteri europei, bensì perché figure di gio-vani pacifisti che si sono trovati a gestiretecnicamente operazioni di raccolta egestione di informazioni derivanti da attivi-tà di intelligence hanno denunciato la cosa.Nel 1997 si trattò di due ragazze britanni-che, che resero pubblico il fatto che in moltipaesi europei (tra i quali l’Italia: come appa-rirà anche da successivi fatti) non è possibi-le gestire una società di telecomunicazionisenza che essa sia tenuta a passare informa-zioni al sistema tecnico gestito dalla NSAstatunitense e senza che a capo del serviziotecnico sia posta una figura concordata conla NSA (nel quadro, verosimilmente, diaccordi riservati nel quadro della NATO).Questo ci chiarisce, intanto, un primo ele-mento di complicità europeo, ovvero diimbarazzo dei governi e delle loro partipolitiche quando la questione è esplosa. Mac’è di più. Il sistema tecnico che opera leintercettazioni non è semplicemente USA:gli USA (la NSA) è certo la tolda di coman-do (il controllo esecutivo cioè delle infor-mazioni raccolte è tutto e solo USA), ma ne

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sono parte anche altri quattro paesi, tutti dilingua inglese (nel quadro di un precisoaccordo interstatale, UKUSA, cioè propo-sto da USA e Gran Bretagna, detto dagliaddetti anche “cinque occhi”): accanto aUSA e Gran Bretagna, quindi, Canada,Australia e Nuova Zelanda. Donde unsecondo elemento di imbarazzo: un paesedell’UE è impegnato nello spionaggio adanno degli altri paesi UE e delle istituzioniUE.

Se è vero, poi, come sembra emergere daifatti attuali, che sono sottoposti a controlloUSA anche governo, partiti, banca centrale,ecc. britannici ci sarebbe pure da chiedersise, come altrove nel mondo, i servizi britan-nici, o loro segmenti particolari, rispondanoal governo e al parlamento britannici o agliUSA. I casi “deviati (?)” Gladio, Ergenekon,ecc. riguardano davvero solo Italia eTurchia, nella NATO?

Vediamo però meglio con che cosa si haa che fare, come è sorta, ecc., la strutturatecnica di spionaggio in questione, purentro i limiti posti dall’impossibilità diaccesso a buona parte delle informazionifondamentali.

Questa struttura tecnica (il suo sistemasoftware), dunque, ha da sempre un nome:Echelon (scalone). La sua nascita risale aglianni novanta. Il nome allude alla tecnologia:Echelon raccoglie con propri (ergo USA)satelliti-spia, attraverso proprie connessioniai cavi sottomarini o a proprie basi d’ascol-to, dentro in genere a basi militari USA (tracui con ogni probabilità quelle italiane), ilgran numero di miliardi di messaggi cheviaggiano quotidianamente via satellite suInternet, con particolare attenzione ai mes-saggi e-mail, e li seleziona sulla base di uno“scalone”, appunto, di parole chiave, inoltreattraverso il controllo delle impronte vocali.I centri di selezione e di successiva elabora-zione di questi dati sono in USA, Australia,Giappone (in una base USA), più (mapotrebbe non essere più così) l’isola diAscensione nell’Oceano Atlantico, che èsotto sovranità britannica.

E’ interessante, ancora, il fatto che attual-mente la prima istituzione europea a muo-versi sia stato il Parlamento Europeo. E’

quanto avvenne, intanto, già dopo la primaesplosione della questione: il PE se ne occu-pò a partire dal 2001, con una propria com-missione speciale. Ma ci torniamo tra poco.In secondo luogo è interessante che a occu-parsene in PE per primi siano stati due par-lamentari tedeschi. In terzo luogo ciò è inte-ressante perché non si tratta di due parla-mentari tedeschi qualsiasi: sono MartinSchulz, attualmente presidente del PE, edElmar Brok, presidente della suaCommissione esteri; il primo socialista, ilsecondo democristiano. Tutto questo conogni probabilità denota l’intenzione sostan-ziale della politica tedesca di non subire piùun’operazione USA che costituisce per laGermania solo un immenso danno politico,economico, geostrategico e di immagine,tanto più se si guarda al fatto che dellaGermania agli USA essenzialmente interes-sa l’elevata tecnologia industriale (non è uncaso dunque che sia la Germania il paesepiù spiato dagli USA in Europa, ancor piùprobabilmente della Russia). Cioè tutto que-sto denota la determinazione con la qualel’establishment tedesco intende portare laGermania al rango di grande potenza mon-diale, padrona dell’Europa, ecc. (se si pre-scinde da un tale obiettivo diventa difficilecapire la politica attuale della Germania inEuropa sul versante della crisi). Non solo:può anche essere che l’indignazione tedescasia il prodotto di una forte pressione opera-ta dalla parte più qualificata del suo establi-shment politico e mediatico, di cui Schulz eBrok potrebbero essere i capifila concreti: sitratta infatti di due figure oltre che grintoseindubbiamente qualificate e molto benintrodotte. Ancora, può essere che l’indi-gnazione tedesca, ma anche di una partealmeno degli altri paesi europei, sia dovutaal fatto di riscoprire lo spionaggio USA aloro danno: con ogni probabilità dopo il2001 essi avevano chiesto agli USA (e allaGran Bretagna) di piantarla, e avevano rice-vuto una risposta positiva.

Il PE europeo si occupò nel 2001 diEchelon anche perché oggetto diretto delleintercettazioni (parimenti fu oggetto diintercettazioni la Commissione Europea). Ilperché di quest’interessamento aiuta esso

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pure a capire come mai l’establishmenttedesco appaia oggi molto più reattivo diallora. PE e CE erano intercettati perchéagli USA (e alla Gran Bretagna?) interessavaseguire tutta la parte tecnica delle direttivein via di elaborazione sul mercato unico.Allora si era molto dentro alla produzionedi queste direttive, migliaia e migliaia: orien-tate all’omogeneazione tecnica di un’infinitàdi produzioni europee, affinché effettiva-mente il mercato unico funzionasse.Facciamo un esempio (semplificandolo) dicosa ciò fosse, e del perché fosse così inte-ressante seguire le cosa da parte USA (e bri-tannica?): una discussione (secretata) inCommissione economica e finanziaria (eraessa soprattutto ad affrontare i dossier tec-nologici) sullo spessore delle lamiere degliautoveicoli, finalizzata all’abbattimentodegli incidenti con effetti mortali: la decisio-ne (su proposta della CE) fu di obbligare iproduttori europei a lamiere di almeno totmillimetri a seconda delle tipologie di auto-mobili ecc. Normalmente il processo elabo-rativo di una direttiva europea richiede tre-quattro anni, anche perché in genere lamateria tecnica e quella giuridica è estrema-mente complicata dal fatto che l’UE è com-posta da un certo numero di stati indipen-denti e tutto quello che dovrebbe unitaria-mente riguardarli è accanitamente negozia-to. Conclusione: se le imprese automobili-stiche USA avessero avuto cognizione di ciòche sarebbe stata una direttiva europea sullospessore delle lamiere degli autoveicoli condue-tre anni di anticipo rispetto al suo varo,quindi con congruo anticipo rispetto allacognizione da parte dell’industria europeastessa, avrebbero avuto la possibilità diaggiornare la propria produzione primadelle imprese europee, disponendo così diun enorme vantaggio competitivo sui mer-cati europei, e non solo europei.

La conclusione della vicenda di allora tut-tavia consistette solo in una documentazio-ne, in rapporti, infine nella schermatura diparte degli uffici di PE e CE. I governieuropei non fecero nulla (né fece nulla illoro collegio, il Consiglio Europeo, la toldaufficiale di comando dell’UE).

La Francia stadifendendo nonsolo la sua cultura,ma le culture dell’intera Europa

Si è appreso a giugno dai media di un’intesadi massima tra Stati Uniti e UnioneEuropea, nel quadro delle discussioni delG8 in Irlanda del Nord, orientata alla costi-tuzione di una zona di libero scambio traquelle che sono le due maggiori aree econo-miche del pianeta. Si è appreso inoltre diuna polemica aperta dal presidente dellaCommissione Europea Barroso contro ilgoverno francese, a seguito del fatto chequesto governo ha posto il veto a che laproduzione culturale sia inserita tra quantoandrebbe liberamente scambiato, in modoche essa possa continuare a essere oggettodi tutele finanziarie o fiscali o doganali (daparte europea).

Sembra una questione minore. E’ inveceuna grande questione, per molte ragioni.

Intanto non si tratta di novità. Da ven-t’anni, nel contesto delle infinite trattativeorientate alla liberalizzazione degli “scambi”(e di tutto il resto dell’economia) nelmondo, tramite l’Organizzazione Mondialedel Commercio, il G20, ecc., è in balloanche la questione degli scambi della produ-zione culturale. Da anni, quindi, è meritodella Francia (e solo, purtroppo, dellaFrancia, e di tutti i suoi governi, quali che nefossero i colori) la difesa della produzioneculturale francese e, a rimorchio, delle altreeuropee (quindi di quella italiana: della cuidifesa i governi italiani, quale che ne fosse ilcolore, si sono sempre stropicciati). Perchési trattò e si è recentemente trattato da partefrancese di una battaglia sacrosanta. Se è

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vero che il mercato dei prodotti culturali(cinema, audiovisivo, musica, ecc., più inuovi prodotti ad alta tecnologia informati-ca e via web che via via vengono aggiungen-dosi) è diventato un mercato gigantesco, seè vero, inoltre, che esso impiega milioni dilavoratori e di altre figure di operatori, se èvero, infine, che il “libero scambio” cultura-le sarebbe suscettibile di incrementi occupa-zionali, è anche vero che si tratta di un mer-cato nel quale Hollywood la fa da padrone,con circa il 60 per cento della produzionedel pianeta, è anche vero che ciò metteHollywood in una posizione di vantaggioinsuperabile, quindi in grado di far fuoriogni altra grande entità produttiva, infine èvero che un dato di questa supremazia com-petitiva statunitense è, dal lato europeo, ine-liminabile: quella determinata dal fatto chegli Stati Uniti producono tutto in linguainglese mentre l’Europa è fatta di paesi cheproducono in una miriade di lingue. Ciòabbatte i costi di produzione statunitensi ealza quelli europei. Ciò che già oggi accadein Europa a danno enorme della nostra pro-duzione culturale (e del cervello delle nostrepopolazioni) andrebbe con il “libero scam-bio” culturale a mille: alludo alla montagnadi film spazzatura a base di killer seriali o dipoliziotti che sparano in mezzo alla folla odi extraterrestri cattivissimi o di altre stron-zate di cui sono pieni i canali televisivi nellafascia d’ascolto di prima serata (e si potreb-bero fare molti altri esempi, in specie sulpiano musicale). La ragione di questo fattoè molto semplice: le stronzate statunitensicostano alle nostre televisioni molto menodegli stessi più risparmiosi film europei.

Il “libero scambio” produce occupazio-ne, ha detto Barroso, la Francia è reaziona-ria. Non è mica così vero, o meglio, la que-stione è un po’ più complicata. Al netto èvero che il “libero scambio” può produrrepiù occupazione (si noti: può farlo: infattinon sempre accade): ma è anche vero checiò di norma avviene attraverso la penaliz-zazione di alcune realtà a vantaggio di altre.E’ facile un grande esempio: è vero che il

“libero scambio” di merci e di mezzi finan-ziari di questo trentennio liberista ha pro-dotto al netto una grande espansione del-l’occupazione mondiale, ma l’Europa ne èstata danneggiata e l’Italia più di tutti inEuropa. Come vada dipende dalle caratteri-stiche dei vari paesi e delle varie aree delmondo.

La questione, poi, non è soltanto com-merciale od occupazionale. Ammesso, masolo per un attimo, che valga la pena, si faper dire, di rovinare la produzione di patatedella Scandinavia liberalizzando il mercatomondiale delle patate più di quanto già nonsia, i prodotti culturali non sono patate. Gliesseri umani si distinguono dagli altri ani-mali per essere animali culturali. Il progres-so culturale e la sua espansione sono fattoripositivi di civiltà su tutti i terreni. Il nostrobenessere si compone anche di benessereculturale. La regressione civile è sempreanche regressione culturale; e, viceversa,ogni regressione culturale facilita incremen-ti di regressione civile. Tutto questo oggi inOccidente si vede bene, e in Italia in modoparticolare. In breve, milioni di esseri umanida culturali, ergo dotati di intelligenza e diragione si formano in tali contesti regressivicome imbecilli o si riducono a imbecilli.

Infine la questione è anche questa: se laliberalizzazione degli scambi vada effettiva-mente a vantaggio del pianeta e delle popo-lazioni in generale, salvo qualche danno diqui o di là, che poi però sarà recuperato, orimborsato da vantaggi d’altro tipo, o seessa sia un danno in radice per il pianeta e lesue popolazioni. Il fatto è che questa libera-lizzazione è avvenuta su richiesta dei grandipotentati capitalistici, finanziari o industrialimultinazionali, è da loro gestita, in vista deigiganteschi guadagni che avrebbe loro arre-cato, e il resto non gli interessa. Le condi-zioni dell’ambiente, del clima, delle risorse“limitate”, delle acque, dei mari, ecc. sono lìa spiegarci cosa significhi dare via libera aquesti colossi. Lo stesso vale guardando allecondizioni di lavoro delle classi operaie, dei

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contadini, nelle popolazioni native dei paesiemergenti, delle donne e dei bambini delleloro classi popolari, ecc. Lo stesso vale perle condizioni di vita dei lavoratori e delledonne, degli anziani, dei bambini delle clas-si popolari dello stesso ex centro capitalisti-co. Non stiamo facendo l’apologia, indiret-tamente, del protezionismo: ma la regolache dovrebbe valere è invece quella delloscambio tra paesi o tra grandi aree planeta-rie basato sulla “reciproca convenienza”, esulla determinazione per via democratica diciò che sarebbe questa “reciproca conve-nienza”. Ciò implica che ci sono cose che siscambiano ma anche cose che non si scam-biano, perché a una delle parti contraenti loscambio non conviene. Ciò implica apertu-re commerciali, ma anche i loro dosaggi, iloro ritmi, le loro regole particolari alla lucedelle convenienze delle società interessate,non della finanza o delle multinazionali,così come articolate barriere in entrata, ditipo commerciale o doganale.

Non è un’astratta velleità: quasi tuttal’America latina sta costruendo i suoi scam-bi interni e quelli con il resto del mondo suqueste premesse. L’Europa no. E fin quan-do al timone ci saranno i liberisti non aspet-tatevelo.

M5S e il fascismoinconsapevole travestito da democrazia diretta

Roberto Mapelli

Dopo il risultato negativo del M5S alle ele-zioni amministrative (soprattutto a Roma),la senatrice stellata Adele Gambaro com-mentava a Sky Tg24: “Stiamo pagando itoni e la comunicazione di Beppe Grillo, isuoi post minacciosi soprattutto quelli con-tro le istituzioni. Ora rifletta”.

Grillo ha denunciato questa frase comelesiva dell’immagine del Movimento, esecondo il regolamento dei gruppi parla-mentari, ha “chiesto” l’espulsione dellasenatrice Gambaro: la votazione è stataposta in rete (dalle 11 alle 17 di qualchegiorno dopo) sul blog di Grillo: su 48.292aventi diritto, hanno votato meno dellametà: il 65,8% (13.029) per l’espulsionedella senatrice, il 34,2% (6.761) contro:Gambaro espulsa (con relativa richiestaperentoria di dimissioni dal Parlamento). Iltutto è avvenuto in meno di una settimana.

Ora, non voglio discutere la congruità trala sanzione di espulsione e il contenuto delleaffermazioni che ne sono la causa, anche secredo che nemmeno nel Pcus di Stalinbastasse così poco per essere cacciati. Ed èevidente a chiunque abbia un poco di espe-rienza che Grillo abbia voluto colpire duro,nonostante la pochezza del “reato”, per lan-ciare un preciso avvertimento ai cosiddetti“dissidenti” del Movimento.

Mi interessa invece porre l’attenzione,per così dire, sulla procedura. Nella suaautorappresentazione, siccome il M5S èappunto un movimento e non un partito,

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Tutti i numeri della rivista in pdf, i dossier tematici (Cina, Gramsci,

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rifugge da tutte le strutture di organizzazio-ne tipiche di un partito, comprese tutte leistanze di garanzia dei suoi membri. Tuttequeste istanze sono considerate dal M5Sdelle istituzioni di potere dei gruppi dirigen-ti, quindi fortemente negative, lesive dellademocrazia diretta, che sarebbe garantitainvece dal rapporto diretto tra base e rap-presentanti, attraverso l’uso (autorizzato)del blog come “piazza virtuale” di decisio-ne, come luogo effettivo di espressione diuna sorta di “volontà generale” del movi-mento. Il metodo è proprio diretto: adesempio, annuncia su Fb il deputato IvanDella Valle in relazione alla questione anno-sa delle retribuzioni e alle resistenze dellacollega Pinna a conformarsi alle regole:“Proporrò all’assemblea (dei parlamentari)di richiedere la completa rendicontazionedelle spese all’onorevole Paola Pinna primadi procedere con la richiesta alla rete diespulsione”.

Quindi si fa così: se io ho delle accuse darivolgere ad un altro membro del movimen-to e posso suffragare queste accuse riferen-domi a qualche tipo di regolamento sotto-scritto, posso rivolgermi alle rete e chiederele sanzioni, fino alla massima, cioè l’espul-sione.

E’ dato per scontato che la rete (certoregistrata e regolata) sia in grado di istruirela questione nel migliore dei modi, cioèprendendo tutte le informazioni del caso,confrontando le posizioni, permettendoadeguato confronto e controllo, ed infinedecidere a maggioranza semplice di chiabbia voglia di esprimersi tra gli aventi dirit-to. E' cioè dato per scontato che i “control-lori” tecnici della rete (cioè i gestori delblog) siano assolutamente imparziali, avalu-tativi e assolutamente corretti. E non c’èpossibilità di ricorso del condannato, perchénon c’è istanza a cui proporlo: una volta chela rete ha votato, la decisione è presa.

Questa è la democrazia diretta, secondoil M5S, ed è il contrario, e per loro, meglio,

di ciò che avviene in un partito, dove leeventuali accuse sono portate in un collegiodi garanzia, eletto dal congresso dei delega-ti, che istituisce una procedura di verifica,sente le parti, esprime un parere (che puòessere generalmente posto sotto contesta-zione), infine assume la decisione finale(comunque impugnabile di fronte ad istan-ze altre come la magistratura, avendo i par-titi uno statuto depositato). Per Grillo, nelprimo caso c’è democrazia diretta e ci simette infatti una settimana ad espellere lasenatrice Gambaro; nel secondo caso, c’èburocrazia e lotta di potere tra fazioni, ed èper questo che le espulsioni sono più diffi-cili, ci vuole molto più tempo e l’accusatoha molti modi di contestare e bloccare ladecisione a lui negativa.

La domanda viene spontanea: qualemetodo preferireste se foste voi il processa-to e ancor più se fossero tali metodi allarga-ti, per così dire, a tutte le questioni di giusti-zia, dove magari la sanzione non è l’espul-sione, ma la reclusione? Non ho dubbi sullarisposta. Ma tant’è... Ecco cosa dice sul blogdi Grillo la “votante a democrazia diretta”(per l’espulsione della Gambaro) MarcellaCigarini: “la situazione del Movimento oggiè particolarmente delicata e, vista la sedutadella Camera di ieri (grandi!!!) temo lo saràancora per molto tempo. E’ indispensabileche i parlamentari del Movimento manten-gano un comportamento senza sbavature(che comunque ci saranno) e che la rete fac-cia altrettanto. Costanza e coerenza devonoessere per noi imprescindibili, vietato com-mettere errori tanto più se ingenui. Io tendoa credere nella buona fede di AdeleGambaro e spero che possa addiritturaessere reintegrata nel gruppo un domani.Questo sarebbe veramente un bel segno daparte del Movimento, ma in questo momen-to la coerenza è l’obiettivo. Per questo moti-vo ieri, votando, ho appoggiato la sceltafatta dall’assemblea dei parlamentari. Miauguro, però, che la prossima volta che sare-mo chiamati ad esprimere la nostra opinio-ne sia su temi diversi”.

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Ecco, siamo una grande famiglia (comu-nità), per definizione ci amiamo e ci fidiamodi tutti noi, vorremmo sempre perdonare erecuperare, ma intanto per coerenza (concosa?) ci atteniamo alle decisioni prese e almetodo sopra descritto: ovviamente non cisi pone nemmeno la domanda “politica” sulperché si procede così, sul segnale che silancia (soprattutto all’interno) e via dicendo:sarebbero domande allusive tipiche da cor-rente di partito e tipiche da lotte interne,che ovviamente nel M5S non ci sono ed ovecomparissero hanno appunto un caratteredi buona o cattiva fede e non di posiziona-mento politico...

Ma così si confonde la democrazia diret-ta con una possibilità astratta di accesso illi-mitato alle informazioni e la partecipazionecon la possibilità astratta di esprimere pare-ri legittimati appunto dal fatto che non esi-ste ostacolo formale alla accessibilità infor-mativa. Ma da che mondo è mondo la diffe-renza tra accessibilità alle informazioni ereale possibilità del loro uso per comporrepareri ponderati e decisioni efficaci e poten-zialmente giuste è da sempre segnata dallanecessità di una mediazione culturale (ditraduzione, semplificazione, razionalizza-zione, formalizzazione, interpretazione,ecc.) e dalle relative strutture che la organiz-zano e permettono. Un'ulteriore questione(vitale) è se queste strutture sono o nonsono fondate sulla democrazia e sullapotenziale partecipazione di tutti e verifica-te di continuo nei loro poteri, piuttosto chesulle caste sacerdotali o avanguardistiche e iloro saperi elitari per definizione inoppu-gnabili. Il fatto che sia possibile un accessopotenzialmente universale a tutti non assi-cura affatto che questo sia possibile per dav-vero nel senso del suo effettivo utilizzo percapire la realtà e trasformarla. Ancor piùnella nostra epoca complessa, dove alla uni-versalizzazione astratta delle informazionicorrisponde la loro più grande differenzia-zione specialistica, come ci ricordava giusta-mente Niklas Luhman poco dopo la metàdel secolo scorso (non ieri...).Rifuggendo

dal partito politico come modello di orga-nizzazione democratica, il M5S riporta inauge un modello precedente, quello dellacomunità religiosa (non importa se con Dioo senza), pensando che è finalmente giuntoil tempo in cui è possibile, attraverso la rete,scongiurarne la trasformazione in chiesa,con tutti i gradi e gli apparati (confliggenti)del caso. Ma è solo una illusione: se si rinun-cia alla fatica di democratizzare la nostravita organizzandola in strumenti di parteci-pazione efficace (diretti, mediati, delegati,ma sempre verificati da istanze elette), sitorna sempre necessariamente ad un model-lo assolutamente verticale, in genere con uncapo mitico e una massa eguale, ma infor-me, dove “a fondamento della legge, cheper sua natura è imperio, sta una decisionesull’interesse, ma tale interesse esiste solo inquanto viene impartito l’imperio. La deci-sione che è implicita nella legge, considera-ta sotto l’aspetto della norma, è nata dalnulla. Essa è dettata per definizione”. (C.Schmitt, “Die Diktatur”). Appunto si fa unariduzione della politica a teologia, comevorrebbe non a caso il grande politologofascista tedesco, tanto amato oggi (e non acaso).

La politica è una cosa seria. Lo è perchégeneralmente dalle sue decisioni dipende lasorte di milioni di persone. Tutti lo sanno,anche gli sfegatati dell’anti-politica: infatti,proprio perché lo sanno, pensano (anchemolto a ragione) che partiti usurpatori neabbiamo diffamato la serietà. La politica èuna cosa seria, perché la democrazia è unacosa seria; e delicata. Questo è meno noto,ma appena viene a mancare o si incrina nelladiretta esperienza delle persone, allora ci siaccorge di colpo sia della serietà dellademocrazia, che della sua delicatezza. Equindi si fa ricorso, in varie forme, a tuttequelle procedure di garanzia che appuntoassicurano la democrazia dalla sua fragilità,e richiamano il cosiddetto “rispetto delleregole comuni”. Nel nostro Paese, e inEuropa, questa condizione è un risultato dioltre 50anni di storia postfascista. La nostra

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Costituzione è continuamente preoccupatadella difesa della democrazia attraverso lapossibilità reale della sua attuazione. Già,perché si difende la democrazia e la si raf-forza, solo praticandola, non semplicemen-te richiamandola come possibilità di parteci-pazione ed espressione. Per questo laCostituzione non è presidenzialista e perquesto è fortemente attenta a controbilan-ciare abbondantemente il potere del gover-no.

In questo senso le procedure e le struttu-re della democrazia non sono un aspettotecnico del suo carattere formale, ma sonola sostanza della suo potere di affermarsi:senza strutture e procedure democratiche,la decisione, anche se partecipata (ad esem-pio in un plebiscito o anche in un voto amaggioranza), può essere arbitraria e quindicontraria alla democrazia e minarne le basi.

La rete è piena di queste informazioni, eduno dei principali dispensatori di tali veritàsacrosante è il prof. Rodotà, candidato delM5S alla Presidenza della Repubblica. Che ilblog di Grillo ci dia una occhiata e cheriporti: forse aiuterà gli attivisti e i simpatiz-zanti ad imparare a far politica... e ad evita-re il “fascismo inconsapevole” travestito dademocrazia direttissima.

Il fascismo liberistadelle grandi banched’affari

Il 18 giugno scorso è apparso sul sito web diWall Street Institute un interessante “consi-glio”, dettagliato in ben 16 pagine, da partedel team degli analisti della grande bancad’affari statunitense JP Morgan.

Dice ai governi europei: “Dovete liberar-vi delle vostre costituzioni sinistroidi e anti-fasciste”, se volete reagire alla crisi che vitravaglia, ovviamente praticandoquell’“austerità” che farà parte del panora-ma europeo “per un periodo molto prolun-gato” (e che, aggiungiamo noi, grazie alla“liberazione” da queste costituzioni e graziealle banche d’affari continuerà ad arricchirechi è già ricco). “Casualmente” è stata con-temporaneamente rilanciata la “discussio-ne” sulla “necessità” di una “riforma istitu-zionale” che trasformi l’Italia in una repub-blica semipresidenziale. Quella parlamenta-re attuale è in effetti troppo “sinistroide eantifascista”. Questa la “discussione” è statarilanciata in Italia dalla destra berlusconiana,coerentemente con la sua natura eversiva esemifascista, e, secondo abitudine, altrettan-to “coerentemente” il PD si è diviso sullarisposta da dare.

Le “riforme strutturali” più urgenti, inol-tre, accanto a quelle politiche sono secondoJP Morgan la riduzione dei costi del lavoroe l’aumento della flessibilità e della libertà dilicenziare, di privatizzazione, di deregola-mentare, di liberalizzare i settori industriali"protetti" dallo stato. Per la verità, come sivede, JP Morgan arriva con un certo ritardo:in Italia sono vent’anni che tutti i governifanno queste cose. Tuttavia a JP Morgan il“già fatto” in Italia, e in Europa, non basta:nel cammino che porta al completamentodegli accorgimenti da apportare alla propria

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struttura politico-economica l’area euro sitroverebbe a metà strada.

L’analisi di JP Morgan risale a metà giu-gno. L’attenzione che le è stata prestata inEuropa non è stata elevata. La cosa si spie-ga facilmente: la crisi sociale vi ha raggiun-to livelli tali, soprattutto nella parte meridio-nale, che per portare avanti l’“austerità” èbene non parlarne più: è meglio, invece, fra-cassare le orecchie popolari 24 ore su 24con la pseudo-lotta dei governi alla “disoc-cupazione giovanile”. Oltre al FinancialTimes, portavoce britannico degli interessi edei “suggerimenti” della grande finanzamondiale, se ne è occupata la Repubblica.Se l’intenzione, come appare più che verosi-mile, era di venire a soccorso del governoLetta, rafforzandone l’argomento secondocui si lotta disperatamente, certo, contro la“disoccupazione giovanile”, però bisognatenere conto delle difficoltà a reperire i soldinecessari, ecc., quella di Repubblica è statadavvero una notevole gaffe, della storia,d’altra parte, di quelle frequenti dei camerie-ri politici lib-lab. Al tempo stesso c’era damascherare, da parte sia della politica prosi-stemica che dei suoi camerieri (salvo gaffes),il fatto che siano proprie le grandi banched’affari, colpevoli del crack finanziario cheha aperto sei anni fa la strada alla crisi incorso, ad anticipare (in realtà, ad auspicare)altri anni di “austerità”.

Ed ecco il passo forse più significativodel documento di JP Morgan.

“Quando la crisi è iniziata era diffusal’idea che questi limiti intrinseci (alla reazio-ne europea alla crisi stessa) avessero naturaprettamente economica: debito pubblicotroppo alto, problemi legati ai mutui e allebanche, tassi di cambio reali non conver-genti, e varie rigidità strutturali. Ma coltempo è divenuto chiaro che esistono anchelimiti di natura politica. I sistemi politici deipaesi del sud, e in particolare le loroCostituzioni, adottate in seguito alla cadutadel fascismo, presentano una serie di carat-

teristiche che appaiono inadatte a favorire lamaggiore integrazione dell’area europea.Quando i politici tedeschi parlano di pro-cessi di riforma decennali, probabilmentehanno in mente sia riforme di tipo econo-mico sia di tipo politico.

I sistemi politici della periferia meridio-nale sono stati instaurati in seguito allacaduta di dittature, e sono rimasti segnati daquell’esperienza. Le costituzioni mostranouna forte influenza delle idee socialiste, e inciò riflettono la grande forza forza politicaraggiunta dai partiti di sinistra dopo la scon-fitta del fascismo.

I sistemi politici e costituzionali del sudpresentano tipicamente le seguenti caratteri-stiche: esecutivi deboli nei confronti deiparlamenti; governi centrali deboli nei con-fronti delle regioni; tutele costituzionali deidiritti dei lavoratori; tecniche di costruzionedel consenso fondate sul clientelismo; e lalicenza di protestare se vengono propostesgradite modifiche dello status quo. La crisiha illustrato a quali conseguenze portinoqueste caratteristiche. I paesi della periferiahanno ottenuto successi solo parziali nelseguire percorsi di riforme economiche efiscali, e abbiamo visto esecutivi limitatinella loro azione dalle Costituzioni(Portogallo), dalle autorità locali (Spagna) edalla crescita di partiti populisti (Italia eGrecia)”.

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Chi dorme da pipistrello si svegliaa testa in giù.Quale crisi inBrasile.

José Luiz Del Roio

Mi sembra che regni una grande confusionesui notiziari italiani riguardo alle manifesta-zioni che si svolgono in questi giorni inBrasile. Senza volere fare complesse analisisociologiche, fisso alcuni riferimenti cheforse possono essere di aiuto per una anali-si politica. Procedo per punti e in ordinecronologico.

1. Il Brasile è un paese con enormi zonemetropolitane, frutto, qui come altrove, diun capitalismo sfrenato e predatorio. Adesempio la metropoli della Grande SanPaolo ospita 20 milioni di abitanti e quella diRio de Janeiro 11. In esse convivono ric-chezze e tecnologie avanzate con povertà eabbandono. La vita può esservi difficile, concarenza di scuole, abitazioni, ospedali e cat-tiva mobilità. Sono molto frequenti, direiaddiritura settimanali, le manifestazioniorganizzate di lotta per salari, contro la spe-culazione immobiliare, per la difesa dellesorgenti, per una educazione di qualità, con-tro l’omofobia ecc.

2. All’inizio di giugno è stato dato l’an-nuncio di un aumento dei prezzi dei mezzipubblici di trasporto in varie capitali.Subito il Movimento pelo Passe Livre-MPL(Movimento per il libero biglietto) si èmobilitato. MPL è un’organizzione nata nel2005 che ha come punto di riferimento laCarta di Principi del Forum SocialeMondiale. Il suo obiettivo è che lavoratori estudenti non paghino per l’uso del traspor-

to pubblico. Anch’io ho preso parte alleproteste nel 2010 a San Paolo, quando vi ful’ultimo aumento delle tariffe. Allora domi-nava l’amministrazione comunale la destra.Il movimento venne represso con il plausodella grande stampa, tutta in mano all ’oli-garchia e alla destra.

3. MPL diede inizio alle sua manifesta-zioni nella città di San Paolo, manifestazionimolto decisamente represse dalla polizia delgovernatore dello Stato di San Paolo, legatoall’Opus Dei. Sempre con il plauso dellagrande stampa. Il 13 giugno la manifestazio-ne di circa 5.000 persone (io ero presente)fu massacrata con bombe lacrimogene eproiettili di gomma. Si alzò un clamorenazionale contro questa barbarie. Si forma-rono cortei contro la repressione poliziescae si rafforzò l’opposizione contro l’aumen-to dei biglietti. Altri gruppi si saldarono alleiniziative, come i Giovani contro le speseper la Coppa della confederazioni di calcio,Per il 100% delle royalties del petrolioall’educazione e altre. Allo stesso tempo iltessuto democratico del paese riusciva alimitare l’abuso poliziesco.

4. A questo punto si verificava un feno-meno interessante, e preoccupante. I grandimezzi di comunicazione cominciarono adappoggiare le proteste e a fare metodiciappelli perché tutti prendessero parte adesse. La stessa potente rete televisiva Globosospese le sue famose telenovele per impe-gnare l’intera programmazione nell ’invito apartecipare alle manifestazioni. Le sue ripre-se erano inoltre sempre dall’alto, tese amostrare una massa amorfa, senza obiettiviprecisi, semplicemente ostile a qualcosa,concretamente al potere centrale. L’appelloera solo di mobilitarsi “per il Brasile”, puntoe basta.

5. In Brasile è molto sviluppato l’utilizzodi internet e delle reti sociali. Da quando nel2010 sono state create centrali su questi ter-reni, legate a iniziative degli USA e orienta-te a destabilizzare il governo, questa è

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diventata una zona di guerra a parte. Sonocentrali abili e ben mascherate. In questaoccasione sono state loro a iniziare la con-vocazione continuativa e massiccia di mani-festazioni su tutti i possibili temi, anche ipiù pretestuosi. In questo modo hannoinfluenzato una parte dei giovani della clas-se media.

6. Solo dopo si mise in moto la grandestampa. E qui è bene dire qualcosa anchesull’opposizione politica condotta dai parti-ti di destra. Essi sono a pezzi e non in con-dizioni di incidere direttamente. Di conse-guenza l’opposizione è stata gestita semprepiù dal capitale legato alla rendita e allafinanza, dai grandi proprietari terrieri, daaree religiose integraliste ecc., ed è giunta aesprimersi con competenza e incisività mag-giori da parte della grande stampa, dellaquale questa parte del capitale è padrone.Non a caso lo slogan è che “le manifestazio-ni sono del Brasile”, cioè di “tutti i brasilia-ni”, e che dunque... non devono partecipar-vi i sindacati, i partiti e le organizzazionisociali.

7. Viva la festa, perciò. Ma la lotta di clas-se esiste e il fascismo pure. Gruppi fascistiparamilitarizzati molto ben organizzati sisono infiltrati e hanno cominciato ad attac-care ogni manifesto o bandiera di sinistra egli edifici dei municipi di amministrazioniprogressiste. Allo stesso tempo questi grup-pi hanno stretto alleanze con il crimineorganizzato e con il narcotraffico, e a paga-re gruppi di bande giovanili perché realiz-zassero una depredazione generalizzata. Èrisultata abbastanza chiara la responsabilitàdell’attacco con bombe al palazzodell’Itamaraty, il Ministero degli AffariEsteri. Gli arresti recenti dei suoi autorimostrano biografie di criminali comuni dialta pericolosità.

8. Le sigle che avevano convocato lemanifestazioni come il Movimento doPasse Livre ne hanno chiesto la sospensio-ne, denunciando il carattere reazionario e

golpista degli infiltrati. E allo stesso tempohanno ottenuto una grande vittoria: gliaumenti delle tariffe di trasporto pubblicosono state revocate nella maggior partedelle città.

9. Nelle organizzazioni di sinistra in que-sto momento è in corso un dibattito sul chefare: partecipare alle manifestazioni con ser-vizi d’ordine per esplellerne i fascisti e por-tando piattaforme realmente centrati sullenecessità popolari o al contrario abbando-nare i cortei perché così inevitabilmente essisi indeboliranno, come anzi già accade; e inseguito organizzare le proprie manifestazio-ni. D ’altra parte la destra ha ritenuto giun-to il momento di mostrare il proprio volto:per il 10 luglio a San Paolo è stata convoca-ta una manifestazione con il titolo “ConDio, per la famiglia, contro il il comuni-smo”.

10. D ’altra parte un problema bem mag-giore esiste. E in questi giorni è risultatovisibile. La società brasiliana si sta trasfor-mando ed esige di più. Vuole che i progres-si raggiunti diventino più rapidi, che la spe-culazione immibiliare venga domata, chel’accesso universale alla salute migliori,come pure quello all’educazione. Che ci siapiù tempo da vivere al di fuori del lavoro edei trasporti, che il verde e la cultura venga-no conservati. E molte altre cose.

11. Per questo sono necessarie risorseumane e finanziarie. Che vanno cercatesoprattutto presso coloro che le detengono.Quelli di sempre: redditieri, capitalisti finan-ziari, speculatori, grandi proprietari. Eanche i signori della borghesia produttivadebbono essere messi sotto pressione,obbligati a non pensare solo a sfruttare illavoro. Come settore di classe essi hannoforza a partecipano a governi di sinistra. Main quelle sedi fanno di tutto per mettere sab-bia negli ingranaggi, per rallentare, ritardare,se possibile fermare.

12. Quando la sinistra giunge al governo

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nasce in molti il curioso atteggiamento didormire con i pipistrelli. I radicali di ieri sitrasformano nei super-realisti di oggi e,forse senza rendersene conto, già stannodall’altra parte. Non è un fenomeno solobrasiliano, ma è arrivato il momento dimandarli a casa a scrivere le loro memorie.Forse in un altro articolo darò nome adessi.

13. Queste due settimane non sono pas-sate invano. Hanno aiutato migliaia di giova-ni a capire qualche cosa di politica; a ricor-dare alla sinistra che il nemico è sempre lì; ainostri governi di sinistra che essi possonoreggersi solo se possono contare sull’ap-poggio di masse organizzate. E a quelli chesi sono rallegrati, credendo di stare perabbattere questi governi dico: vi state sba-gliando. A breve verrà la risposta.

San Paolo, 23 giugno 2013.

Dichiarazione allacatena nazionale diradio e TV, 21luglio 2013

Dilma RousseffPresidente della Repubblica del Brasile

Mie amiche e miei amici, tutti noi, brasilianee brasiliani, accompagniamo con moltaattenzione le manifestazioni che avvengononel paese. Esse mostrano la forza dellanostra democrazia e il desiderio della gio-ventù di fare avanzare il Brasile.

Se faremo buon uso di questa nuovaenergia politica, potremo compiere, meglioe più rapidamente, molte cose che il Brasilenon è ancora riuscito a realizzare a causa dilimitazioni politiche ed economiche. Ma selasceremo che la violenza ci faccia perderela direzione, non solo dissiperemo unagrande opportunità storica, ma correremoanche il rischio di perdere molto.

Come presidente, ho l’obbligo sia diascoltare la voce delle strade, sia di dialoga-re con tutti i segmenti sociali, ma tuttoall’interno del primato della legge e dell’or-dine, indispensabili per la democrazia.

Il Brasile ha molto lottato per diventareun paese democratico. E sta ancora lottan-do molto per diventare un paese più giusto.Non è stato facile arrivare dove siamo arri-vati, come anche non è facile arrivare dovedesiderano molti di coloro che sono andatiin piazza. Renderemo questa realtà solo serafforzeremo la democrazia – il potere citta-dino e i poteri della Repubblica.

I manifestanti hanno il diritto e la libertàdi mettere in discussione e di criticare tutto,di proporre ed esigere cambiamenti, di lot-tare per una migliore qualità di vita, didifendere con passione le proprie idee eproposte, ma è necessario che facciano ciò

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in forma pacifica e ordinata. Il governo e lasocietà non possono accettare che unaminoranza violenta e autoritaria distrugga ilpatrimonio pubblico e privato, attacchi tem-pli, incendi automobili, prenda a pietrate ibus e tenti di portare il caos nei principalicentri urbani. Questa violenza, promossa dauna piccola minoranza, non può macchiareun movimento pacifico e democratico. Nonpossiamo convivere con questa violenza cheumilia il Brasile. Tutte le istituzioni e gliorganismi della Sicurezza Pubblica hanno ildovere di reprimere, entro i limiti dellalegge, ogni forma di violenza e vandalismo.

Con equilibrio e serenità, ma con fer-mezza, continueremo a garantire il diritto ela libertà di tutti. Vi assicuro: manterremol’ordine.

Brasiliane e brasiliani, le manifestazionidi questa settimana hanno portato impor-tanti lezioni: le tariffe sono state abbassate ele richieste dei manifestanti sono diventatepriorità nazionale. Dobbiamo trarre giova-mento dal vigore di queste manifestazioniper realizzare maggiori cambiamenti, cam-biamenti che portino benefici all’insiemedella popolazione brasiliana.

La mia generazione ha lottato molto per-ché la voce delle piazze venisse ascoltata.Molti sono stati perseguitati, torturati esono morti per questo. La voce delle piazzedeve essere ascoltata e rispettata, ed essanon può essere confusa con il rumore e laturbolenza di alcuni guastatori.

Sono la presidente di tutti i brasiliani, diquelli che manifestano e di quelli che nonmanifestano. Il messaggio diretto delle stra-de è pacifico e democratico. Esso rivendicaun contrasto sistematico alla corruzione e aldisvio di risorse pubbliche. Tutti mi cono-scono. A questo io non rinuncio. Questomessaggio esige servizi pubblici di migliorequalità. Vuole scuole di qualità; vuole assi-stenza sanitaria di qualità; vuole un traspor-to pubblico migliore e a giusto prezzo;

vuole maggior sicurezza. Vuole di più. Eper dare di più, le istituzioni ’e i governidevono cambiare.

Nei prossimi giorni converserò con i capidegli altri poteri per unire gli sforzi. Inviteròi governatori (degli stati federati) e i sindacidelle principali città del paese per un grandepatto volto al miglioramento dei servizipubblici.

Il perno sarà: 1) l’elaborazione di unPiano Nazionale di Mobilità Urbana, cheprivilegi il trasporto collettivo; 2) la destina-zione del cento per cento dei ricavati delpetrolio per l’educazione; 3) la contrattazio-ne immediata all’estero di migliaia di mediciper ampliare l’assistenza del Sistema Unicodi Salute, il SUS.

Annuncio che riceverò i laeders dellemanifestazioni pacifiche, i rappresentantidelle organizzazioni di giovani, delle entitàsindacali, dei movimenti dei lavoratori, delleassociazioni popolari.

Abbiamo bisogno dei loro contributi,delle loro riflessioni ed esperienze, dellaloro energia e creatività, della loro scom-messa sul futuro e della loro capacità dimettere in discussione errori del passato edel presente.

Brasiliane e brasiliani, abbiamo necessitàdi ossigenare il nostro sistema politico.Trovare meccanismi che rendano le nostreistituzioni più trasparenti, più resistenti allemalefatte e, soprattutto, più permeabiliall’influenza della società. È il diritto di cit-tadinanza, e non il potere economico, chedeve essere ascoltato in primo luogo.

Intendo contribuire alla costruzione diuna ampia e profonda riforma politica, cheallarghi la partecipazione popolare. È unerrore pensare che un qualsiasi paese possaprescindere da partiti e, soprattutto, dalvoto popolare, base di ogni processo demo-cratico. Dobbiamo fare uno sforzo perché ilcittadino disponga di meccanismi di con-

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trollo più efficaci sui propri rappresentanti.Abbiamo molto ma proprio molto bisognodi forme più efficaci di contrasto alla corru-zione.

La Legge di Accesso all’Informazione,promulgata dal mio governo, deve essereampliata a tutti i poteri della Repubblica edelle istanze federative. Essa è un potentestrumento del cittadino per controllare l’usocorretto del denaro pubblico. Anzi, la formamigliore di combattere la corruzione è latrasparenza e il rigore.

Per quanto riguarda la Coppa, vogliochiarire che il denaro del governo federalespeso per gli stadi deriva dal finanziamentoche sarà debitamente pagato dalle imprese edai governi che stanno utilizzando gli stadistessi. Mai permetterei che tali risorse uscis-sero dal bilancio pubblico federale, pregiu-dicando settori prioritari come la salute el’educazione.

Non posso trascurare un tema moltoimportante, che ha a che vedere con ilnostro spirito e il nostro modo di essere. IlBrasile, unico paese che ha partecipato atutte le Coppe, cinque volte campione delmondo, sempre è stato molto ben ricevutodovunque. Rispetto, gentilezza ed allegria, ècosì che dobbiamo trattare i nostri ospiti. Ilcalcio e lo sport sono simboli di pace e con-vivenza pacifica fra i popoli. Il Brasile meri-ta, e farà, una grande Coppa.

Mie amiche e miei amici, voglio ripetereche il mio governo sta ascoltando le vocidemocratiche che chiedono cambiamenti.Voglio dire alle voci che sono andate pacifi-camente in piazza: vi sto ascoltando! E nontransigerò con la violenza e la sovversione.

Sarà sempre in pace, con libertà e demo-crazia che continueremo a costruire insiemequesto nostro grande paese.

***

Come è stata insensatamentemassacrata laGrecia

Gabriele Pastrello

Una premessa in quattro punti: l’esplosionedella crisi del debito sovrano greco non èattribuibile all’indisciplina fiscale dellaGrecia, che pure c’era, a differenza, adesempio, di Spagna e Irlanda, paesi additati,prima della crisi, come fiscalmente virtuosi;secondo, la crisi della Grecia poteva essereaffrontata diversamente, tra il 2009 e il2010, in modo meno penalizzante per igreci; terzo, tra il 2011 e il 2012 l’euro harischiato di crollare a causa dell’ostinazionetedesca sull’austerità fiscale; quarto, dopoche le basi teoriche delle politiche dell’auste-rità sono state demolite, autorità europee eambienti tedeschi sembrano ostinatamentenon volerne prendere atto.

La crisi e le regole dell’euro

Il racconto ufficiale ripete ancora oggiche l’esplosione della differenza tra i rendi-menti dei titoli greci, italiani, spagnoli etc. equelli tedeschi – lo spread – fu dovuta allaperdita di fiducia dei mercati in quei paesiper via della loro indisciplina fiscale. Questapremessa è sbagliata perfino per la Grecia, ilpaese che nel 2009, secondo le dichiarazio-ni di Papandreou, aveva un deficit del 14%,contro il 3% ammesso dalla Ue, e addirittu-ra aveva nascosto la situazione del suo defi-cit all’atto dell’entrata nell’euro.

E siccome sono gli assetti dell’euro aessere all’origine dei problemi della Greciauserò un’immagine: i politici che disegnaro-no le regole dell’euro l’hanno fatto come seavessero costruito una casa in una zonasismica senza prendere nessuna precauzio-

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ne antisismica; ovviamente, finché non cisono stati terremoti le cose hanno funzio-nato. Ma poi, nonostante le prime scosse,hanno continuato a rifiutarsi ostinatamentedi prendere qualsiasi misura antisismica.

Così è stato con l’euro. Dal 1994 al 2007le cose hanno funzionato: spread elevati sisono ridotti a dimensioni quasi irrilevanti e,dal 2000 al 2007, sono rimasti tali, nono-stante che le politiche fiscali non fosseroarmonizzate, nonostante che Germania,Francia, Italia e Spagna avessero sforato perpiù anni il limite del 3% del deficit di bilan-cio, nonostante che le importazioni di diver-si paesi, tra cui Spagna e Grecia, superasse-ro le loro esportazioni. Cioè, i mercati ave-vano creduto nella scommessa dell’euro,credevano che l’euro fosse una vera monetaunica, erano convinti che, in caso di biso-gno, la Bce si sarebbe comportata come laFed o la Banca d’Inghilterra, intervenendocome prestatore di ultima istanza. Di conse-guenza avevano trattato i debiti sovrani didiversi paesi allo stesso modo, fatte salvepiccole differenze dovute alla diversa forzaeconomica tra la Germania e gli altri.

Banche ed enti finanziari europei aveva-no finanziato sia il debito pubblico chequello privato greco mantenendo in equili-brio il circuito monetario – entrate e uscitedi capitali – della Grecia con l’estero, nono-stante che le malefatte del governo grecorispetto all’osservanza dei parametri diMaastricht fossero ben note sia a Bruxellesche ai mercati. Ovviamente, con il crollo deisub-prime nell’agosto 2007 ma, soprattuttodella Lehman Brothers nell’autunno del2008, il panico eruppe sui mercati finanzia-ri mondiali. Il credito interbancario si con-gelò, il tasso interbancario, il Libor, siimpennò, e anche gli spread di vari paesi, tracui la Grecia, crebbero impetuosamente,restando però intorno ai 300 punti. Nel2009 calarono quasi tutti restando peròintorno a 150 punti. Cioè: i mercati si face-vano pagar cara la loro preoccupazione sullasolvibilità di Grecia, Spagna, Italia etc., manon credevano davvero né nel default, néche la Bce non sarebbe alla fine intervenuta.

Ovviamente la situazione peggiorò dopoche Papandreou, nell’ottobre 2009, fecel’annuncio-shock che il deficit era circaquattro volte superiore a quello ammesso.Contestualmente filtrò la notizia che laGrecia non sarebbe stata in grado di onora-re gli 8 mld di euro della tranche del debitoin scadenza a maggio 2010. Lo spread salì a400, il che significava che i mercati, purmolto preoccupati (ma anche ingolositidagli alti tassi sul debito greco), non aveva-no ancora perso la fiducia in un interventoin extremis della Bce, e si preparavano adattendere gli eventi. Eventi che, purtroppo,si trascinarono fino ad aprile. Ai primi diaprile si cominciò a parlare di un interventocongiunto Commissione e Fmi per 45 mlddi euro, che avrebbero dovuto garantire lasolvibilità esterna della Grecia, nonché l’ef-fettuazione delle spese di bilancio previste,quantomeno per il 2010.

In Germania, l’economista Issing, unodei padri dell’euro, sostenne nel febbraio2010 che un salvataggio della Grecia erainaccettabile perché avrebbe innescato ladissoluzione dell’euro. Ai primi di aprile,Angela Merkel aprì la campagna elettoraleper le elezioni politiche del 2012, dichiaran-do che non era disposta a transigere sullaclausola di “non-salvataggio”, cioè quell’art.125 dei Trattati interpretato nel senso che èescluso che si possa chiedere all’Unione, o aun singolo paese, di accollarsi gli impegni diun altro paese.

Il 29 aprile l’Economist scrisse che “l’op-posizione in Germania al salvataggio hafatto sì che il 27 aprile la fiducia dei mercatifosse svanita del tutto”. Ed infatti i mercatisi convinsero finalmente che non ci si pote-va aspettare un intervento della Bce, e chemagari si poteva rischiare un default conperdita del valore dei titoli fino al 70%. Lospread salì a circa 1000 punti ai primi dimaggio (in un momento del 28 aprile rag-giunse i 1.600 punti circa). Da quel momen-to il governo greco non poté più finanziarsisul mercato, e la Troika – Commissioneeuropea, Bce e Fmi – entrò in campo conun pacchetto di intervento di oltre 100 mld

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di euro, e con l'imposizione di misure diausterità durissime, peraltro aggravate ulte-riormente in seguito, che ha portato laGrecia nelle condizioni che sappiamo: 60%di disoccupazione giovanile, 30% di disoc-cupazione in generale, meno 30% di Pil dal2010 a oggi.

Un’alternativa ignorata

Si poteva fare diversamente? Certamente.Sarebbe bastato che non appena fu resonoto che la Grecia non avrebbe potuto farfronte alla tranche di 8 mld, la Bce fosseintervenuta dichiarandosi disposta, per l’oc-casione ma anche in futuro, a coprire l’even-tuale inadempienza greca (si trattava di 8mld di euro, o forse meno). Sarebbe cioèbastato che la Bce avesse fatto a cavallo tra2009 e 2010 quello che Draghi ha dovutoquasi imporre, con successo, nel settembre2012. Bisogna peraltro ricordare checomunque la Bce stava già intervenendo inquel periodo, con strumenti straordinari,per mantenere le banche greche liquide,compensando la gigantesca fuga di capitalidei primi mesi del 2010. Quella dichiarazio-ne avrebbe fermato la speculazione, cheaffossava il valore dei titoli e faceva esplode-re lo spread, in condizioni molto migliori diquelle che Draghi dovette affrontare quan-do, nel settembre del 2012, riuscì a fermarela speculazione dichiarando l’euro “irrever-sibile”.

Ovviamente contestualmente si sarebbedovuto chiedere alla Grecia un pacchetto –governato dalla Troika, se necessario – dimisure di rientro dal deficit eccessivo, comesempre si fa in questi casi, ma spalmandolosu un tempo più lungo, tenendo cioè contodelle condizioni di dubbia ripresa economi-ca dopo la caduta del 2009; magari ancheminacciando misure ancora più drastiche incaso di inadempienza. La speculazione sisarebbe fermata, la Grecia non sarebbeuscita dal mercato e gli interessi sarebberostati molto più bassi. Ci sarebbe stato unrisanamento economico con conseguenzeeconomiche molto meno disastrose di quel-

le sofferte dalla popolazione greca. Ma allo-ra ci si può chiedere perché non è statofatto. La risposta è che i gruppi dirigentimondiali, europei inclusi, erano in preda diun delirio di onnipotenza. Avevano evitatoil collasso delle istituzioni finanziarie mon-diali tra il 2007 e il 2008, avevano frenatonel 2009 una caduta della produzione indu-striale e del Pil che, nei primi mesi, parevapeggiore di quella post-1929. Dalla secondametà del 2009 era in atto una ripresa che,per quanto non esaltante (con l’eccezione diquella tedesca, più robusta), tutti gli istitutidi previsione economica ritenevano sarebbedurata; come invece non fu. Nel febbraio2010, a Iqaluit, in Canada, i Ministri delleFinanze del G7 concordarono che ormai lasfida della recessione era dietro le spalle, equindi non era più tempo di preoccuparsiper la crescita: niente più stimoli all’econo-mia, fu la conclusione. Posizione che fu suc-cessivamente confermata dal G20, tenuto aToronto nel giugno 2010.

Contemporaneamente era cominciatal’agitazione per mettere un freno ai deficit,esplosi in conseguenza della crisi del 2008-09, che trovò in quel periodo due formida-bili armi intellettuali. Nel gennaio 2010,Rogoff e Rheinart pubblicarono il loro stu-dio, recentemente demolito, in cui sostene-vano che premessa necessaria per la cresci-ta era la massiccia riduzione del debito pub-blico, di cui si diceva che se raggiungeva il90% del Pil ciò avrebbe avuto effetti deva-stanti sulla crescita. Nell’aprile 2010,Alesina e Ardagna, di Harvard, fecero unapresentazione speciale, davanti al Consiglioper gli Affari Finanziari e del ConsiglioEuropeo dei Ministri, della loro ricerca, incui si sosteneva che, contrariamente a quan-to comunemente si riteneva, una politicafiscale di tagli di spesa avrebbe prodotto,grazie alla recuperata fiducia dei mercati,espansione e non recessione; la tesidell’«austerità espansiva», per l’appunto.Furono questi i due pilastri della linea dellaCommissione Europea rispetto ai paesi indifficoltà per le crisi dei debiti sovrani; pila-stri continuamente citati, ad esempio, dal

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Commissario all’Economia Olli Rehn. Sicreò così una formidabile convergenza. Ipolitici, cresciuti nell’epoca del liberismosfrenato, erano irrequieti per gli interventidegli stati, resisi necessari, ma che riteneva-no eccessivi. Mai più interventi keynesiani,era il loro motto dal 1980. Inoltre, la signo-ra Merkel aveva deciso di recuperare le per-dite di consenso mobilitando l’opinionepubblica contro il sostegno ai paesi in diffi-coltà, agitando lo spettro di un eventualemaggior carico fiscale sui tedeschi per farfronte a presunte inadempienze degli statispendaccioni del Sud-Europa.

Inoltre, altri pezzi di dirigenza tedescavedevano in queste misure l’occasione peraffermare in Europa un’egemonia tedesca,che facesse definitivamente uscire laGermania dalla minorità nei confronti dellaFrancia. Gli economisti li rassicuravano chenon c’era ragione di temere conseguenzedepressive, e che anzi la riduzione del reddi-to di ampi strati di popolazione avrebbeavuto conseguenze espansive. Era quelloche desideravano fare, e faceva pure bene.Inoltre molti politici del Nord-Europa,

come ad esempio il liberale tedesco Rössler,pensavano che solo la minaccia del defaultavrebbe costretto i paesi fiscalmente “indi-sciplinati” ad attuare le ‘riforme’ richieste.Fu così che la Grecia divenne la cavia diquesta convergenza di idee e interessi.

2011 e 2012: fiscal compact e attaccoall’euro. Entra Draghi

Seguiranno nel 2010 misure di austeritàper Irlanda, Spagna e Portogallo. Il 2011,poi, fu un anno contraddittorio. Da un latola linea tedesca, accettata senza riserve dallaCommissione Europea, conosceva il suotrionfo con il fiscal compact e con gli accor-di attuativi che seguirono, il two pack e ilsix-pack. Molti paesi europei furono indot-ti, volenti o nolenti, a seguire il “virtuoso”esempio tedesco, addirittura inserendo l’ob-biettivo del pareggio di bilancio nela suaCostituzioni, come fece l’Italia nei primimesi del 2012, nonostante che, dal punto divista del governo dell’economia, sia unamisura assurda.Ma, dall’altro, i mercatifinanziari si convinsero invece che, a causa

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dell’ostilità tedesca a interventi della Bcecome prestatore di ultima istanza, l’europotesse essere attaccato provocandone ilcrollo. Importanti attori sui mercati finan-ziari mondiali, come Nomura e MerrillLinch, ne esaminarono le conseguenzedichiarando che si poteva fare senza gravidanni. A queste analisi dei mercati facevariscontro un dibattito interno allaGermania.

Nella primavera del 2011, l’economistaSinn, presidente di un centro di ricerca,l’Ifo, vicino alle posizioni governative,sostenne che l’uscita della Grecia dall’euronon avrebbe avuto gravi conseguenze perl’eurozona. Sinn ripeté questa tesi anche unanno dopo sul Financial Times, presentan-dola in modo più generale; il che facevacapire che anche l’uscita dell’Italia era statapresa in considerazione, per quanto implici-tamente. Gli spread ricominciarono aimpennarsi nella primavera-estate del 2011.Nel luglio, la Bce comprò riservatamentetitoli spagnoli e italiani, calmierando glispread, ma in misura ridotta.

Tra la primavera e l’estate la linea dell’au-sterità raggiunse il suo massimo di pressio-ne politica. Nel luglio la Bce scrisse una let-tera al governo italiano (i maligni sostengo-no che fu scritta a Roma), chiedendo inmodo ultimativo misure di austerità energi-che: tagli di spesa pubblica, delle pensioni,interventi sul mercato del lavoro; le cosid-dette “riforme”. Sempre nel luglio cominciòuna enorme fuga di capitali dalle banche ita-liane e spagnole verso la Germania. La fugadi capitali fu una specie di voto di sfiduciadel sistema bancario italiano verso il gover-no Berlusconi, indebolito da due anni discandali continui e dal ritiro dell’appoggiosenza riserve che il Vaticano, fino al settem-bre 2011, gli aveva dato. Venne inoltrerichiesto un inasprimento delle misure diausterità per la Grecia, nonostante gli effet-ti fortemente depressivi di quelle già intra-prese. Il primo ministro Papandreou annun-ciò un referendum sulle ulteriori misure diausterità richieste, probabilmente cercandodi precostituirsi una piattaforma contrattua-

le più forte verso la Commissione Europea.La reazioni della Commissione e dei paesidel Nord-Europa fu violenta, trovandoorecchie ricettive in Grecia e dentro alPasok, il partito di Papandreou, che fucostretto a dimettersi il 10 novembre 2011;solo pochi giorni prima delle dimissioni diBerlusconi, il 16. Una coincidenza tempora-le impressionante.

Ma a quel punto emerse una novità inat-tesa. Il 1° novembre 2011 Mario Draghiassunse la carica di presidente del Boarddella Bce. L’editorialista del FinancialTimes, Martin Wolf, lo salutò invitandolo aosare. Poco dopo Tim Geithner, Ministrodel Tesoro dell’amministrazione Obama,venne in Europa per far presente allaMerkel tutta la preoccupazione americanasulla gestione della crisi imposta dallaGermania, che escludeva rigidamente qual-siasi intervento della Bce; la crisi era fiscale,secondo la Germania, e doveva essereaffrontata solo con mezzi fiscali: l’austerità.Solo così, sostenevano i tedeschi, si sarebbericonquistata la fiducia dei mercati. Mal’esperienza americana diceva il contrario.Diceva che con un deficit più alto e con undebito pubblico a livello più elevato di quel-li dei paesi europei, i titoli di Stato america-ni erano piazzati normalmente, e non c’eranessun attacco al dollaro, grazie alla politicamonetaria della Fed, sotto la guida diBernanke; grazie cioè alla “sovranità mone-taria” goduta dagli Usa, a differenza deipaesi dell’euro, che ne erano privi.

E lo stesso accadeva per la GranBretagna, nonostante i parametri fiscali benpoco virtuosi. Fu così che, pur malvolentie-ri, la Germania accettò la prima misura“eterodossa” di Draghi: il finanziamentotriennale “illimitato” – l’aggettivo era cru-ciale – al sistema bancario europeo dietropresentazione di un titolo a garanzia pur-chessia. Ovviamente le banche ci fecero deirilevanti e immeritati guadagni. Ma, in que-sto modo, vennero convinte a cooperare alsalvataggio dell’euro, utilizzando i finanzia-menti così ottenuti per riacquistare titoli diStato dei paesi in difficoltà. Gli spread cala-

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rono, e i governi italiano e spagnolo respira-rono.

Ma questo non aiutò la Grecia. La cadu-ta del reddito era stata molto superiore allaprevisioni del Fmi, e il rientro dal deficit piùdifficoltoso. Per continuare a poter funzio-nare lo Stato greco aveva bisogno di conti-nuare a indebitarsi, presso la Bce. Ma som-mandosi al debito pregresso, la sommacomplessiva del debito si rivelava semprepiù insopportabile. La decisione, presa giàdal 2010, di non ristrutturare il debito grecosi rivelava sempre più insostenibile. Fu cosìche verso la fine di febbraio del 2012 venneattuato un secondo bail-out, di importo dicirca 200 mld di euro, accompagnato dacosiddetto haircut, cioè la cancellazione diuna certa percentuale del debito in mano acreditori privati. Misura che era stata esclu-sa, contro il parere del Fmi, dallaCommissione Europea nel 2010, e cheaveva permesso alle banche private francesie tedesche, che possedevano circa il 50%del debito greco, di liberarsi di gran parte diquei titoli, accollandoli a istituzioni pubbli-che.

Febbraio e marzo 2012 furono mesi tur-bolenti: l’enorme bail-out greco, la discus-sione sul referendum in Irlanda sull’austeri-tà, le voci che Draghi avrebbe messo in attouna terza tornata del “finanziamento trien-nale”, dopo le tranche da 500 mld deldicembre 2011 e del febbraio 2012, allarma-rono. La Bundesbank tornò all’attacco, cri-ticando aspramente le misure Draghi. Glispread ricominciarono a risalire. Nel frat-tempo, si accese la discussione sull’Esm, unfondo europeo che avrebbe dovuto servireal salvataggio delle banche, in particolare diquelle spagnole. Ma la Germania nicchiava.

Fino al momento in cui, all’inizio diluglio, la Corte Costituzionale tedesca, solle-citata da un deputato della destra e da unodella sinistra a pronunciarsi sull’ammissibili-tà costituzionale di quel fondo (sostanzial-mente se il contri¬buente tedesco rischias-se di pagare per eventuali insolvenze), rinviòall’autunno la data della discussione. Ciòminacciava di precipitare una crisi dell’euro:

le banche spagnole erano in difficoltà, glispread salivano, e la Corte rinviava. L’estatepoteva essere molto calda. Di nuovoGeithner tornò in Europa (le elezioni ame-ricane erano in novembre e Obama nondesiderava crolli finanziari), e stavolta MarioDraghi fece una dichiarazione shock: l’euroè irreversibile – disse –, nessun paese dovràuscire (mettendo a tacere le voci tedescheche sostenevano la possibilità di esito dellaGrecia) e, ancora più importante, disse cheavrebbe fatto tutto il necessario per impedi-re la dissoluzione dell’euro.

Detto da un banchiere centrale, era unaminaccia convincente per coloro che specu-lavano sulla caduta dell’euro. Ed infatti,dopo che in settembre Draghi ribadì il pro-posito ottenendo un voto favorevole delBoard delle Bce, nonostante il voto contra-rio del presidente della BundesbankWeidmann, gli spread hanno cominciato ascendere. Certo, gli spread non sono torna-ti ai livelli pre-2010, ma sono rientraticomunque in zona molto meno pericolosa eonerosa per gli stati interessati. Ma questonon aiutò la Grecia: durante tutto questoperiodo, le spinte recessive, conseguenzedell’austerità imposta dall’Ue, continuavanoa affondare l’economia e le condizioni divita della popolazione greca.

L’attacco all’austerità e l’ostinazioneeuropea

Il 2012 è stato un anno di svolta per lastrategia dell’austerità. Nel settembre MarioDraghi ha affermato una politica che erastata duramente esorcizzata dalle autoritàeuropee, e tedesche. La tesi, che ancora oggiil governatore della Bundesbank,Weidmann, sta difendendo davanti allaCorte Costituzionale tedesca, è che la causadella crisi dei debiti sovrani è l’indisciplinafiscale; non solo, ma che l’unico strumentodev’essere fiscale – austerità e ancora auste-rità – mentre la politica monetaria non deveessere usata per contrastare questa crisi deldebito, ma si deve occupare solo dell’infla-zione. Draghi, invece, ha sostenuto che il

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livello degli spread dei titoli italiani, spagno-li, greci etc., rispetto ai titoli tedeschi è soloin parte il frutto della preoccupazione deimercati per i comportamenti di quei gover-ni circa i loro deficit di bilancio; come sivede infatti dalla storia degli spread cheabbiamo visto sopra. Una parte, consisten-te, invece, è dovuta all’aspettativa che l’areaeuro si rompa e quindi, sostenne Draghi, laBce ha diritto a intervenire per scongiurarequesta eventualità. Ed infatti, che avesseragione si è visto proprio nell’andamentodegli spread dopo i suoi interventi. Primacrescevano, poi sono calati.

Ovviamente Draghi si è limitato a difen-dere la sua politica, allineandosi con la lineaeuropea dell’austerità. In realtà, limitandosia sostenere la giustezza della sua politicamonetaria, ha implicitamente smentito latesi di partenza sulla natura esclusivamentefiscale della crisi. Ma dopo la smentita pra-tica di Draghi sono arrivati altri assalti teori-ci alla linea dell’austerità. Nell’autunno 2012il Fmi ha pubblicato un rapporto in cuidemoliva i due capisaldi “empirici” della tesidell’«austerità espansiva» di Alesina.Sosteneva infatti il Fondo che tutte le valu-tazioni da lui fatte, seguendo quell’approc-cio, avevano sottovalutato gli effetti negati-vi di quelle misure, e sopravvalutato quellipositivi; cioè l’ipotesi di Alesina non tenevaalla prova pratica. Non solo ma, aggiungen-do un’ampia ricerca storica, mostrava che lariduzione del rapporto debito-Pil è quasisempre avvenuta nella storia con un po’ diinflazione e molta crescita; come mostrava-no i due casi emblematici dell’Inghilterra edegli Usa che in trent’anni dopo la fine dellaseconda guerra mondiale, grazie a quei duefattori, avevano ridotto di tre quarti quellapercentuale, senza bisogno di abbassare illivello del debito.

Ma se il Fmi aveva mostrato empirica-mente la fallacia della tesi di Rogoff chel’aumento della crescita esige preliminar-mente la riduzione sostanziosa del debitopubblico, la mazzata finale l’ha data unostudio di un giovane studioso di Harvard. Inquesto lavoro si mostra che la tesi di Rogoff

è frutto quantomeno di errori, se non addi-rittura di manipolazioni (involontarie?).Quello che resta è che è invece possibile chesia una crescita bassa a far crescere il debito,per via di tasse più basse e spese sociali piùalte; l’inverso della tesi di Rogoff. PaulKrugman ha commentato la demolizionedelle tesi di Alesina e Rogoff il 6 giugno sulNew York Times, presentando tre libri cheraccontano in dettaglio l’ascesa e la cadutadi quei due cavalli di battaglia della destramondiale.

L’ultimo colpo l’ha dato il recente rap-porto del Fmi che presenta una valutazionedel comportamento, proprio e delle altreautorità, tenuto nella crisi greca. Il Fmi riba-disce che, in accordo con le tesi già sostenu-to nell’autunno, i tempi del rientro del defi-cit del bilancio dello Stato imposti al gover-no greco sono stati troppo rapidi, e quindihanno danneggiato gli stessi obbiettivi delrientro che, siccome non veniva mai rag-giunto nei tempi e nei livelli previsti,costringeva a ulteriori aggravi delle misuredi austerità. Ma il giudizio che più ha fattoinfuriare la Commissione Europea è quellosui tempi dell’intervento circa la ristruttura-zione del debito greco. Dice il Fmi che siperse troppo tempo, come infatti si è vistoanche prima del primo salvataggio del 2010,perché i governi europei hanno resistitofino all’ultimo, cioè fino al 2012, alla neces-sità che il peso della ristrutturazione pesas-se sui creditori privati, tra cui quelle banchefrancesi e tedesche che, come detto sopra,possedevano gran parte del debito greco.Questa resistenza ha allungato, secondo ilFmi, i tempi dell’aggiustamento, e ha fattopesare per troppo tempo un eccessivo cari-co di interessi sul bilancio greco, per via deldebito eccessivo che non veniva ridotto;interessi eccessivi che, anzi, dovevano esse-re rifinanziati con nuovo debito, innescandouna spirale viziosa.

A questo punto, dopo il rapporto del Fmidell’autunno scorso, dopo il lavoro dellostudioso di Harvard, dopo i tre libri recen-siti da Krugman e dopo l’ultimo rapportodel Fmi, di tutto l’armamentario teorico che

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servì per giustificare le severe misure diausterità imposte alla Grecia, i cui effettisono stati più gravi, nonché nell’ordine aIrlanda, Spagna, Portogallo e Italia, nonrestano che macerie. Come si potrà ancoragiustificare la spaventosa recessione e ladisoccupazione greca, che hanno raggiuntocifre peggiori di quella della GrandeDepressione post-1929? Per non parlaredelle recessioni, per quanto più lievi, cheperò rischiano di innescare per gli altri paesimenzionati una trappola di mancata cresci-ta anche nel lungo periodo con la distruzio-ne di capacità produttiva che ne segue.

Ma di tutto questo non pare esservi alcu-na consapevolezza a livello dei governinazionali o europeo. Il Commissario OlliRehn non ha saputo far altro che lagnarsidel fatto che la signora Lagarde, comeMinistro delle Finanze di Sarkozy, avesseapprovato tutti i pacchetti di austerità.Dimenticando che in quegli anni, il governofrancese era senza riserve allineato sullalinea tedesca, e che quindi un suo ministronon poteva che essere d’accordo. Non solo,il ricorso contro l’Esm, il fondo di salvatag-gio dei sistemi bancari in difficoltà, è arriva-to finalmente davanti alla CorteCostituzionale tedesca, che ne ha approfit-tato per ergersi giudice della politica dellaBce. Giudizio che anche se non potrà avereeffetti immediati, vuole mettere sotto accu-sa proprio quella politica che ha salvato l’eu-ro, contro le posizioni della Bundesbank.

Tutto questo non fa sperare molto incambiamenti che possano seguire alle ele-zioni tedesche dell’autunno prossimo. Al dilà delle formule, se la Merkel potrà governa-re con la stessa coalizione insieme ai libera-li, o se invece sarà costretta a fare unaGrosse Koalition con i socialdemocratici,resta il problema dell’opinione pubblicatedesca, di cui si può dire che ormai reagiscaistericamente a qualsiasi minaccia, vera opresunta, al contribuente tedesco che,secondo la propaganda, dovrebbe esserechiamato a sanare le insolvenze di paesi“indisciplinati”. Anche se la Merkel e isocialdemocratici volessero attenuare in

modo sostanziale la linea dell’austerità, pernon dire invertirla, si troveranno sempreesposti ad attacchi che li portino davanti allaCorte Costituzionale. In queste condizioni èben difficile che possano rovesciarla, comesarebbe necessario, anche se lo volessero; ilche è dubbio.

E’ indubbio, infatti, che una ripresa dellacrescita per l’Europa nel suo insieme possapartire solo con misure europee generaliche riguardino tutti. In primo luogo, l’esclu-sione dal vincolo di bilancio degli investi-menti pubblici per lo sviluppo, misura anco-ra recentemente esclusa con ostinazione dalMinistro delle Finanze tedesco, Schäuble. Insecondo luogo, il finanziamento di pianigenerali di ripresa attraverso l’emissione diEurobond, bestia nera non solo dellaMerkel, ma di tutta l’opinione pubblicatedesca. In mancanza di queste due misure,citate solo come esempio, non resta altroche l’ulteriore compressione salariale perottenere, secondo le tesi europee e tedesche,un aumento di competitività sui mercatimondiali rispetto ai paesi emergenti. Maquesta “svalutazione interna”, come pudica-mente viene chiamata, non può che aggra-vare la situazione, già compromessa, delladomanda interna europea.

C’è una sola premessa a una possibileripresa dell’economia europea, e a un rove-sciamento dell’austerità distruttiva prima ditutto per la Grecia, ma anche per altri paesi,ed è la rimozione della destra europea dalgoverno delle istituzioni europee.

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Rappresentanza erappresentatività:un fatto storico

Leo Ceglia

Il commento più diffuso al Protocollo d’in-tesa sottoscritto il 31 maggio 2013 daCGIL-CISL-UIL e Confindustria è che sitratti di un’intesa storica.

E’ davvero così? Sì. Almeno per tre ragioni.1. Perché d’ora in poi anche nel privato

come nel pubblico “chi rappresenta chi?”dovrà avere un “peso” indicato da numeroaccertato e incontestabile (il mix tra datoassociativo – le deleghe all’INPS – e datoelettorale nelle elezioni RSU) e quindi nonsarà più il frutto, come è stato fino ad oggi,di un’autocertificazione non verificabile diquesta o quell’organizzazione sindacale.

2. Perché d’ora in poi anche nel privatocome nel pubblico “chi firma che cosa?”sarà frutto di una regola uguale per tutti(soglia del 5%) e non arbitrio e/o sceltadelle parti, come spesso si è verificato inquesti ultimi anni.

3. Perché d’ora in poi, a differenza chenel pubblico, l’“ultima parola” sul loro con-tratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL)spetta ai lavoratori e alle lavoratrici. UnCCNL è valido per tutti (è erga omnes) ed èesigibile se si verificano simultaneamentedue condizioni, una sorta di “doppia mag-gioranza”, quella definita con le regole dellademocrazia delegata e rappresentativa (cioèla maggioranza delle sigle selezionate, com-plessivamente il 50%+1) e quella dellademocrazia diretta (cioè la maggioranzasemplice delle lavoratrici e dei lavoratoriinteressati (50%+1) che diranno la loro con“consultazione certificata”. Questa regolanel pubblico non c’è. E, in un certo senso,come vedremo, ora il privato ha “sorpassa-

to” il pubblico quanto a “tasso di democra-zia sindacale” nei principi contenuti in que-sta intesa. Il carattere storico dell’intesa èsottolineato, riguardo ai primi due puntisopra indicati, dalla novità. E’ la prima voltache ciò accade nel privato. Riguardo al terzopunto invece si tratta simultaneamente diuna novità temporale e di una novità con-cettuale: ovvero che la validità e la esigibili-tà del CCNL è stabilita per la prima volta daun mix tra democrazia delegata e democra-zia diretta (torneremo ampiamente e benesu questo punto). Ora veniamo al meritodell’intesa.

L’intesa nei dettagli

L’intesa si compone di due parti: la primaha per titolo Misurazione della rappresenta-tività, la seconda Titolarità ed efficacia dellacontrattazione. La prima parte si articola in7 punti il sesto dei quali si divide in 6 “sub-punti”. La seconda parte si articola anch’es-sa in 7 punti. Dopo la presentazione e icommenti necessari alle due parti trarremodelle brevi osservazioni conclusive.

Prima delle due parti però, una sorta di“premessa” ci avvisa che “con la presenteintesa le parti intendono dare applicazioneall’accordo del 28 Giugno 2011 in materiadi rappresentanza e rappresentatività per lastipula dei Contratti Collettivi Nazionali diLavoro, fissando i principi ai quali ispirare laregolamentazione attuativa e le necessarieconvenzioni con gli enti interessati. Ledisposizioni della presente intesa si applica-no alle Organizzazioni firmatarie e sonoinscindibili in ogni parte”. (1)

Prima parte (Misurazione della rappresentatività)

Punto 1. Questo punto dice che a certifi-care la rappresentatività delle organizzazio-ni sindacali (OOSS) ai fini della contratta-zione collettiva (nazionale, ndr. ) di catego-ria (2) è il mix tra il dato associativo e quel-lo elettivo di tutti i lavoratori e le lavoratricialle elezioni RSU.

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Punto 2. Questo punto dice che l’INPSacquisirà e certificherà tramite le dichiara-zioni aziendali (Uniemens) le deleghe relati-ve ai contributi sindacali e li trasmetterà alCNEL (che è l’ente terzo che fornirà i datisulla rappresentatività delle OOSS per cia-scun contratto di tutte le categorie).

Punto 3. Questo punto è importanteperché “prende atto della coesistenza” diRSU e RSA. Esso dice che “Ai fini dellamisurazione del voto espresso da lavoratricie lavoratori nella elezione della RSU varran-no esclusivamente i voti assoluti espressiper ogni Organizzazione Sindacale... Lostesso criterio si applicherà alle RSU in cari-ca, elette cioè nei 36 mesi precedenti la datain cui verrà effettuata la misurazione.Laddove siano presenti RSA, ovvero non visia alcuna forma di rappresentanza, saràrilevato il solo dato degli iscritti (deleghecertificate) per ogni singola organizzazionesindacale.”(3)

Punto 4. Questo punto assegna aiComitati Provinciali dei Garanti (4), di cuiall’accordo interconfederale del 20 dicem-bre 1993, la raccolta e la trasmissione alCNEL dei verbali delle elezioni.

Punto 5. Si tratta del punto che fissa lasoglia del 5% per essere ammessi al tavolonazionale: “(la soglia del 5%) sarà determi-nata come media semplice fra la percentua-le degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e lapercentuale dei voti ottenuti nelle elezionidelle RSU (sul totale dei votanti), quindi,con un peso pari al 50% per ognuno dei duedati”.

Qui occorre segnalare una importantedifferenza con le regole vigenti nel pubbli-co. Nel pubblico le elezioni RSU sono vali-de solo se i votanti superano il 50% +1 degliaventi diritto. Le sigle così selezionate sonoperciò rappresentative con delega del votodella maggioranza dei lavoratori: una rap-presentatività rispettosa pienamente delprincipio di maggioranza che ad esempionelle elezioni amministrative e politiche nonc’è. Ora anche per le elezioni RSU nel pri-vato sembra tornare questa regola, salvo,come vedremo al punto 7, una possibilità di

rimediare nella regolamentazione delle ele-zioni RSU.

Punto 6. Questo punto è particolar-mente importante e si articola in 6 sub-punti che indicheremo con le lettere da a) adf). Lo riportiamo integralmente e poi locommentiamo.

“Fermo restando quanto già sopra defi-nito in materia di RSU, nonché quanto pre-visto dall’accordo del 28/6/2011, le particonvengono che:

1. Viene confermato il principio stabilitonell’Accordo Interconfederale del 20dicembre 1993, ossia che le organizzazionisindacali aderenti alle Confederazioni fir-matarie della presente intesa, o che comun-que ad essa aderiscano (sott. mia), parteci-pando alla procedura di elezione delle RSU,rinunciano formalmente ed espressamentea costituire RSA ai sensi della legge n.300/70;

2. Le organizzazioni sindacali aderentialle Confederazioni firmatarie della presen-te intesa, o che comunque ad essa aderisca-no, nelle realtà in cui siano state o venganocostituite le RSU, si impegnano a non costi-tuire RSA;

3. In ragione della struttura attuale dellarappresentanza, che vede la presenza diRSU o RSA, il passaggio alle elezioni delleRSU potrà avvenire solo se definito unita-riamente dalle Federazioni aderenti alleConfederazioni firmatarie il presente accor-do.

4. Le RSU scadute alla data di sottoscri-zione dell’intesa saranno rinnovate nei suc-cessivi sei mesi;

5. Le RSU saranno elette con voto pro-porzionale;

6. Il cambiamento di appartenenza sinda-cale da parte di un componente la RSU nedetermina la decadenza dalla carica e lasostituzione con il primo dei non eletti dellalista di originaria appartenenza del sostitu-to”.

Commento al Punto 6.I punti di cui alle lettere a) e b) ci dicono

due cose importanti. La prima è che si sta-bilisce nuovamente il principio che la parte-

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cipazione di una sigla sindacale alle elezioniRSU esclude che esse possano costituireRSA nel caso le elezioni per loro vadanomale, ricorrendo a quanto disposto dall’art.19 dello Statuto (5). Lo stesso dicasi per lasemplice adesione alla presente intesa. Lalettera b) in particolare fa cenno anche allerealtà ove le RSU “siano state costituite”.Questo potrebbe significare che nelle realtàcome la FIAT dove le RSU c’erano e oranon ci sono più si tornerà in futuro alleRSU e tutti potranno parteciparvi con leregole qui pattuite.

La lettera c) introduce una regola impor-tante per il passaggio dalle RSA alle RSU(6), quella che tale passaggio potrà avveniresolo unitariamente.

La lettera d) è chiara e non ha bisogno dicommenti.

La lettera e) è un vero e proprio rimedioad una ingiustizia profonda e ingiustificatache ci trascinavamo dietro da 20 anni: lacosiddetta “quota regia”, cioè l’1/3 delleRSU attribuite, come premio aggiuntivo e aprescindere, alle sigle sindacali firmatariedel CCNL applicato in azienda (un terzodelle RSU che poteva persino essere desi-gnato senza il voto dei lavoratori, un verosfregio ad un organismo elettivo).

La lettera f) stabilisce una regola che sol-leva qualche dubbio. Essa dice che se il sog-getto RSU eletto in una lista cambia casaccasindacale, tra una elezione e l’altra, alloradecade dalla carica di RSU e viene sostitui-to dal primo dei non eletti della sua lista ori-ginaria. Come è noto questa regola nonopera nelle istituzioni elettive della societàcivile. Così si spiegano i “gruppi misti” inParlamento ad esempio. La regola del nondecadimento è sacrosanta laddove l’elettorisponda ai cittadini tutti e tutti li rappresen-ti e non risponda perciò al partito nelle cuiliste è stato eletto. Analogamente l’elettoRSU è eletto da tutti i lavoratori e le lavora-trici, iscritti e non iscritti ai sindacati, e allelavoratrici e ai lavoratori dovrebbe rispon-dere. A mio parere con questa regola siviola l’autonomia delle RSU che sono rap-presentanze sindacali elettive e non associa-

tive. Fino ad oggi la sostituzione dell’elettoRSU avveniva in caso di dimissioni.

Punto 7. Anche questo è un puntoimportante. Lo riportiamo integralmente epoi lo commentiamo: “Confindustria, Cgil,Cisl, Uil si impegnano a rendere coerenti leregole dell’accordo interconfederale deldicembre 1993, con i suddetti principi,anche con riferimento all’esercizio dei dirit-ti sindacali e, segnatamente, con quelli intema di diritto di assemblea in capo alleorganizzazioni sindacali firmatarie dellapresente intesa, titolarità della contrattazio-ne di secondo livello e diritto di voto perl’insieme dei lavoratori dipendenti”.

Commento al punto 7.Questo punto lo si può considerare fatto

di due parti principali. La prima riguarda lacoerenza da stabilire tra i principi di questaintesa e le regole dell’accordo del dicembre1993, la seconda riguarda un insieme dimaterie che rimandano ai diritti sindacalidello Statuto e ad altro ancora.

Quanto alla prima parte si tratta di uncompito assai gravoso e urgente. Per dareun’idea riportiamo alcuni dei titoletti del-l’accordo del dicembre 1993 dal titoloAccordo interconfederale per la costituzio-ne delle RSU; Ambito e iniziativa per lacostituzione; Composizione; Numero deicomponenti; Compiti e funzioni; Durata esostituzione dell’incarico; Decisioni;Modalità per indire le elezioni; Quorum perla validità delle elezioni (7); Elettorato attivoe passivo; Presentazione liste; Commissioneelettorale; Schede elettorali; Preferenze, ecc.ecc. Come si vede oltre a quanto segnalatoin nota 7 occorrerà rendere coerente con iprincipi dell’intesa anche altri punti impor-tanti quali gli aventi diritto al voto ecc.

La seconda parte di questo punto 7 èimportantissimo e di attualità, per le notevicende FIAT-FIOM, perché rimanda aidiritti sindacali (le immagini dello sfrattodella FIOM dalla saletta sindacale aMirafiori rimangono una delle pagine piùdolorose della recente storia sindacale). Iltesto specifica su tre questioni, nel rimanda-

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re ai diritti sindacali (quindi al Titolo IIIdello Statuto) e, “segnatamente”, a “quelli intema di diritto di assemblea in capo alleorganizzazioni sindacali firmatarie dellapresente intesa, titolarità della contrattazio-ne di secondo livello e diritto di voto perl’insieme dei lavoratori dipendenti”. Questaformulazione, relativamente ai diritti sinda-cali, per ora non risolve niente nelle relazio-ni FIOM-FIAT. La FIAT infatti è fuori daConfindustria e, a meno che ci ripensi e virientri, potrà bellamente ignorare questaintesa. Quando le RSA tra un anno saran-no invece scadute (anche le RSA scadonodopo tre anni, punto 5 accordo del 28Giugno 2011), allora FIM e UIL nonpotranno più ricorrervi e (forse) si riapriràla partita.

Titolarità della contrattazione di secondolivello: occorre domandarsi che significatopossa avere questo richiamo. Ad oggi latitolarità sulla contrattazione di secondolivello è stata ribadita e regolamentata siadall’accordo del 28 Giugno 2011 (i punti da3 a 8 ) (8), sia, sul cosiddetto salario di pro-duttività in sede aziendale o territoriale, dalrecentissimo accordo unitario conConfindustria del 24 aprile 2013. Che signi-fica allora il richiamo alla titolarità della con-trattazione di secondo livello in questa inte-sa? Potrebbe da un lato significare che ad es.le RSU non potranno più sottoscrivereaccordi senza i territoriali, oppure, azzardoun’ipotesi ottimistica, che anche per gliaccordi delle RSU possa valere la regoladella “doppia maggioranza” prevista in que-sta intesa. Vale a dire che un accordo azien-dale sottoscritto dalla maggioranza dellaRSU debba prevedere simultaneamente lamaggioranza dei dipendenti che l’approva-no con consultazione certificata per esserevalido. Per gli accordi siglati invece dalleRSA vale quanto previsto dal punto 5 del-l’accordo del 28 giugno.

Sul Diritto di voto per l’insieme dei lavo-ratori dipendenti due considerazioni. Laprima è che i lavoratori “non dipendenti”sembrano essere esclusi dal diritto di voto.La seconda è che “l’insieme dei lavoratori

dipendenti” non è equivalente a “tutti idipendenti”, almeno fino a che resterannole RSA (cfr. punto 3).

Seconda parte. (Titolarità ed efficaciadella contrattazione)

Punto 1. Esso ribadisce che sono titolarie ammesse al tavolo della contrattazionenazionale le OOSS che hanno un raggiuntouna soglia di rappresentatività “non inferio-re al 5%”, soglia misurata nel modo chesappiamo.

Commento: qualcuno obietterà che lasoglia è alta. La risposta è che è uguale aquella che vige nel pubblico e che… chi hafilo da tessere tessa.

Punto 2. Questo punto afferma tre coseimportanti riguardo alle piattaforme eall’avvio del negoziato:

a) Ogni categoria, autonomamente, potràproporre su ogni singolo CCNL la propriapiattaforma e la propria delegazione trattan-te con un suo proprio regolamento;

b) Le OOSS “favoriranno, in ogni cate-goria, la presentazione di piattaforme unita-rie”;

c) “In assenza di piattaforme unitarie laparte datoriale favorirà, in ogni categoria,che la negoziazione si avvii sulla base dellapiattaforma presentata da OOSS che abbia-no complessivamente un livello di rappre-sentatività nel settore pari almeno al50%+1”.

Commento: E’ tutto oltremodo ragione-vole. A chi dovesse obiettare che anche lepiattaforme vanno approvate dalle lavoratri-ci e dai lavoratori si ricorda che questo nonè vietato ma certo non interessa un ficosecco alle parti datoriali. Dunque le OOSS,insieme o separatamente, verso i propriiscritti (certamente per quel che riguarda laCGIL) potranno decidere e/o concordaremomenti democratici di partecipazione allastesura e/o alla approvazione delle piatta-forme. Quando esse saranno state propostee approvate, unitariamente o con il 50%+1delle sigle, il negoziato potrà finalmente ini-ziare.

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Punto 3. Questo punto è importantissi-mo, è la vera novità storico-concettuale (la“doppia maggioranza”), a giudizio di chiscrive, di cui si diceva all’inizio. Lo riportia-mo integralmente e lo commentiamo: “icontratti collettivi nazionali di lavoro sotto-scritti formalmente dalle organizzazioni sin-dacali che rappresentino almeno il 50%+1della rappresentanza, come sopra determi-nata, previa consultazione certificata dellelavoratrici e dei lavoratori, a maggioranzasemplice – le cui modalità saranno stabilitedalle categorie per ogni singolo contratto –,saranno efficaci ed esigibili. La sottoscrizio-ne formale dell’accordo, come sopradescritta, costituirà l’atto vincolante perentrambe le Parti”.

Commento: è la prima volta nella storiadei CCNL che si introduce un “doppio vin-colo” per la loro validità erga omnes e per laloro efficacia ed esigibilità. I suddetti CCNLinfatti dovranno essere approvati dal50%+1 delle sigle sindacali ammesse altavolo e simultaneamente dalla maggioranzasemplice, sempre 50%+1, delle lavoratrici edei lavoratori interessati. Ora, se si pensaalla differente natura istituzionale di questedue distinte maggioranze, si capisce che si èdi fronte ad un mix originale. Esso fa il paiocon quello che misura la rappresentativitàcon il dato associativo e quello elettivo.Come il lavoratore iscritto al sindacatoviene ad avere peso uguale rispetto a quellonon iscritto relativamente alla delega cherilascia alle liste sindacali per le quali havotato, allo stesso modo il peso delle siglesindacali selezionate con le regole dellademocrazia delegata e rappresentativa (lestesse che valgono nel loro principio per leelezioni politiche e amministrative) vieneparificato a quello delle lavoratrici e deilavoratori che, con le regole della democra-zia diretta (consultazione certificata=refe-rendum), possono validare (o non validare)il loro CCNL.

Si diceva che siamo di fronte ad unanovità concettuale. E’ esattamente così per-ché fino ad ora la democrazia diretta incro-ciava la democrazia delegata e rappresenta-

tiva in modo differente. Per capire bisognafare mente locale alla Costituzione.Chiediamoci: come si incrocia la democra-zia diretta con quella delegata e rappresen-tativa nella Costituzione? In due modi,come è noto: con i referendum abrogativi ele proposte di legge di iniziativa popolare.Con i primi si consente ai cittadini di abro-gare leggi approvate dal Parlamento, con leseconde si può proporre al Parlamento leggicui il Parlamento non ha pensato.Concentriamo ora la nostra attenzione sulreferendum. Qual è la sua “ratio” nell’archi-tettura democratico-istituzionale? E’ quelladi poter dare prova ai cittadini, tra una ele-zione e l’altra, della permanenza nel tempodella rappresentatività delle maggioranzeche legiferano in Parlamento.

Le maggioranze in Parlamento sonosempre formalmente legittimate a legiferare,ma non si è affatto certi che su questo oquel tema esse rispecchino ancora la mag-gioranza dei cittadini. Il referendum per-mette di accertarlo e più volte si è visto chela maggioranza in Parlamento non riflettevapiù la maggioranza degli elettori cittadini.Torniamo alla democrazia sindacale. Lamancanza del referendum nella legge sulleRSU nel pubblico è stata definita più voltecome un “vulnus” della pur ottima legge.Gli accordi nel pubblico valgono, senza se esenza ma, solo se sono sottoscritti dal50%+1 delle sigle selezionate.

Le regole della democrazia delegata erappresentativa in questo caso non ammet-tono verifiche alle possibili forti contesta-zioni dei lavoratori interessati o di alcunesigle sindacali oppure di molte RSU.L’ultima e sola parola sui contratti nel pub-blico ce l’hanno le OOSS democraticamen-te selezionate per decidere.

In questa intesa si compie un salto note-vole e si rimedia brillantemente al vulnuspresente nel pubblico. Non si è risolto ilproblema della verifica della rappresentati-vità tra una elezione e l’altra con il referen-dum, a garanzia del diritto al dissenso. Si èoptato per una soluzione più radicale, quel-la di consegnare ai lavoratori l’ultima parola.

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Vediamo perché. Si rifletta sull’espressione“previa consultazione certificata”.Concretamente significherà che le partiavranno raggiunto una ipotesi di accordo (lacondizione presupposta è quella che al tavo-lo le OOSS insieme rappresentino almeno il50%+1 del totale), si va allora dalle lavora-trici e dai lavoratori (“previa consultazionecertificata”) e si chiede loro di pronunciarsi.Vi sarà verosimilmente una vera e propriacampagna elettorale nelle forme e modi dastabilire e infine i lavoratori e le lavoratricidiranno la loro (avremo un referendum, inaltre parole). Se vincono i sì all’ipotesi diaccordo allora si firma. Se vincono i no sidovrà per forza tornare a trattare. Questa èla regola. Essa dice in sostanza che l’ultimaparola sui CCNL spetta ai lavoratori e allelavoratrici. Il tutto senza squalificare la rap-presentatività dei sindacati. Davvero un belsalto nella democrazia sindacale del nostroPaese.

Qualcuno obietterà che se a decidere leforme e i modi della consultazione certifica-ta saranno le i sindacati di categoria si potràverificare che la consultazione certificatapossa esaurirsi in assemblee “pilotate”. Siobietti pure. Tutto è possibile. Anche l’op-posto. E cioè che si stabiliscano regole seve-re e democratiche rispettose dei diritti deilavoratori e delle lavoratrici.

Per finire su questo punto ancora dueconsiderazioni. A mio parere qui siamo“oltre” il 4° comma dell’art. 39 dellaCostituzione che dice che “i sindacati…possono, rappresentati unitariamente inproporzione dei loro iscritti, stipulare con-tratti collettivi di lavoro con efficacia obbli-gatoria per tutti gli appartenenti alle catego-rie alle quali il contratto si riferisce”. Siamo“oltre” perché con questa intesa è come sifosse scritto che i sindacati possono stipula-re CCNL con validità erga omnes perchésono rappresentativi unitariamente (almenoper il 50%+1) non solo in proporzione deiloro iscritti ma anche della maggioranzasemplice (50%+1) delle lavoratrici e deilavoratori interessati. La seconda ed ultimaconsiderazione sul punto è quella che que-

sta intesa “estingue” i cosiddetti accordiseparati. Con queste regole è l’idea stessa diaccordo separato che non ha più senso. Suogni contratto si formeranno maggioranzedi volta in volta differenti. Chi è in minoran-za non è più “separato” dalle altre sigle.Semplicemente è in minoranza. La voltasuccessiva potrà essere in maggioranza seavrà avuto consenso. Tutto qui. Questa con-siderazione valeva e vale pari pari anche nelpubblico.

Punto 4. Questo punto dice che ilCCNL così approvato “comporta… l’appli-cazione degli accordi all’insieme dei lavora-tori e delle lavoratrici” e la piena esigibilitàper tutte le OOSS aderenti alle parti firma-tarie della presente intesa. Ovvio. Aggiungeche “le parti firmatarie e le rispettiveFederazioni si impegnano a darne pienaapplicazione e a non promuovere iniziativedi contrasto agli accordi così definiti”. Se siaccetta di partecipare alle trattative e alle sueconclusioni con queste regole le minoranzedi tale tornata contrattuale si devono ade-guare a quanto democraticamente deciso.

Commento: qualcuno ha gridato (soste-nuto con una interpretazione arbitraria dauna giornalista del Sole 24 ore) che questo èun attacco al diritto di sciopero. Mah!Qualunque sindacato serio capisce che se ilsuo disaccordo all’accordo è stato respintodalla maggioranza semplice dei lavoratori edelle lavoratrici, nonché dalla maggioranzadelle sigle sindacali accreditate perché rap-presentative ciascuna almeno del 5%, nonpuò sognarsi neppure di “promuovere ini-ziative di contrasto agli accordi così defini-ti”. In ogni caso, il diritto di sciopero è undiritto individuale e questa intesa a esso nonfa mai cenno quindi non lo intacca in alcunmodo.

Punto 5. Esso dice che “i contratti col-lettivi nazionali di categoria, approvati allecondizioni di cui sopra, dovranno definireclausole e/o procedure di raffreddamentofinalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esi-gibilità degli impegni assunti”. Valgono leosservazioni di cui al punto precedente.

Punto 6. Il testo dice che “le parti firma-

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tarie della presente intesa si impegnano a farrispettare i principi qui concordati e si impe-gnano, altresì, affinché le rispettive strutturead esse aderenti e le rispettive articolazioni alivello territoriale e aziendale si attengano aquanto concordato nel presente accordo”.

Commento: il riferimento alle articola-zioni territoriali e aziendali potrebbe signifi-care quanto già detto sulla possibilità cheanche gli accordi RSU in azienda possanoadottare il principio della “doppia maggio-ranza” e/o quello che le RSU non decidanoda sole senza i territoriali.

Punto 7. Questo punto impegna le partial monitoraggio degli accordi fatti secondoquesta intesa e a risolvere eventuali contro-versie interpretative.

Osservazioni conclusive

A quanto detto all’inizio si possonoaggiungere tre cose. La prima è che si trattadi un accordo, come tale importante maaffidato alle parti. Resta perciò un ultimopasso: una legge che unifichi pubblico e pri-vato e che risolva l’annosa questione del-l’art. 19 dello Statuto come modificato dalreferendum del 1995. La seconda cosa è chesi è aperta una stagione unitaria in presenza(e forse a causa) di una crisi tremenda. Sitratta di una buona notizia perché il mondodel lavoro ha ottenuto qualcosa solo quan-do ha trovato l’unità. Infine si vuole segna-lare che con questo accordo la CISL, cioè il“sindacato degli iscritti”, fa i conti con unaparte importante della sua cultura (il prima-to degli iscritti), e anche questo va registra-to come un portato positivo di questa inte-sa.

Note

1. Di questa sorta di “premessa” va evidenziato: 1.L’importanza del richiamo all’accordo del 28Giugno 2011 limitatamente alla “stipula deiCCNL”. Questo significa che i “principi” richiama-ti nell’intesa potrebbero non valere, riguardo allamateria “rappresentanza e rappresentatività”, per lacontrattazione di secondo livello (la materia è deli-cata e ci torneremo); 2. I principi dell’intesadovranno ispirare la “regolamentazione attuativa…

e le convenzioni con gli Enti…”. Anche questa èuna materia delicata e ci torneremo. 3. “Le disposi-zioni dell’intesa si applicano alle Organizzazioni fir-matarie”. Questo non significa che c’è un recinto,significa che tutte le organizzazioni sindacali epadronali che volessero aggiungersi e firmareanch’esse l’intesa sono… le benvenute (cfr. Punto6).2. Si tratta certamente della contrattazione “nazio-nale” perché vi è il riferimento al punto 1 dell’ac-cordo del 28 Giugno 2011 che lo specifica espres-samente.3. Come è noto nel pubblico le RSU hanno sosti-tuito le RSA e sono state generalizzate a tutte lepubbliche amministrazioni. Ciò significa che tuttele lavoratrici e i lavoratori pubblici hanno diritto divoto per eleggere le loro RSU e scegliere le siglesindacali cui delegare la loro rappresentanza. Nelprivato non sarà così. Dove ci sono e ci saranno leRSA lavoratrici e lavoratori non potranno votare.Tuttavia in proposito si può fare la seguente osser-vazione. Questa intesa “spinge” alla sostituzionedelle RSA con le RSU (lo vedremo in seguito alpunto 6.) e questo lascia ben sperare affinchè gliaventi diritto al voto siano tutti i lavoratori e lelavoratrici interessati.4. Il punto 20 dell’accordo del dicembre 1993 defi-nisce, tra l’altro, la composizione del comitato:“Tale Comitato è composto a livello provinciale, daun membro designato da ciascuna delle organizza-zioni sindacali presentatrice di liste, ...da un rappre-sentante dell’associazione locale di appartenenza,ed è presieduto dal Direttore dell’Uplmo”.5. L’articolo 19 dello Statuto permette la costituzio-ne di RSA ai sindacati firmatari di un contratto inazienda. Sfruttando tale articolo Marchionne allaFIAT ha tenuto fuori dai cancelli la FIOM che nonha sottoscritto l’unico e solo accordo vigente nellenewco inventate ad hoc da Marchionne.6. Qui deve esserci un refuso nel testo laddove diceche “la struttura attuale della rappresentanza, chevede la presenza di RSU o RSA”. Probabilmente siintendeva dire “RSU e/o RSA”. Il resto del testoinfatti ha senso solo se vi è la RSA oppure la copre-senza di RSA e RSU.7. Come si diceva nel punto 5 forse qui si può ripe-scare la regola che dava per valide le elezioni delleRSU in presenza della partecipazione al voto del50%+1 degli aventi diritto.8. Nell’accordo di giugno 2011 le RSU sono titola-ri della contrattazione e possono sottoscrivereaccordi aziendali a maggioranza anche senza i sin-dacati territoriali (punto 4). Anche le RSA sonotitolari della contrattazione aziendale ma i loroaccordi possono essere sottoposti a referendum dal30% dei lavoratori e da almeno una organizzazionesindacale firmataria dell’accordo del 28 Giugno(punto 5).

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Perché l’esigenza diun partito del lavoro.Introduzione

Bruno Casati

Come promotori di questo incontro abbia-mo colto una esigenza e la sottoponiamo averifica. L’esigenza è quella almeno di avvia-re un ragionamento sulle condizioni dellaricostruzione di una sinistra politica e popo-lare di massa e di un conflitto condottodentro le diseguaglianze di reddito e dipotere, una sinistra che tenda a rappresenta-re il lavoro e il punto di vista dei lavoratori.Questa sinistra in Italia non c’è più. Questasinistra in Italia è venuta a mancare, mentrela si è ricostruita in Francia, Germania,Grecia, Spagna e altrove, in ogni realtà conle proprie caratteristiche. Diamoci unamossa!

L’esigenza della ricostruzione è “gridata”anche dall’esito drammatico del voto politi-co del febbraio scorso. Rammentiamo solocome in quel voto il centro-sinistra (Pd eSel) abbia si prevalso, ma solo perché haperso meno elettori delle destre: tre milionie mezzo contro sei milioni e mezzo. E’stata, la loro, una corsa tra gamberi dovevince chi arretra di meno.

Chi è invece avanzato impetuosamente,nello spazio politico abbandonato, è stato ilM5S, schizzato dal nulla a prima forza poli-tica italiana. A quel punto di fronte al dilem-ma “governo o ritorno al voto” il centro-sinistra si è lacerato, il Pd ha liquidato il suosegretario, e così il numero due di quel par-tito si è andato ad associare col numero duedel Pdl, per formare insieme un governo dicosiddette “larghe intese”, di cui però,l’inossidabile numero uno del pdl, che soloi tribunali potranno abbattere, impugna sal-damente la “golden share”. Un capolavorodi cinico ipertatticismo, che rovescia le posi-zioni sostenute da entrambi gli schieramen-

ti in campagna elettorale. E’ l’alleanza deigamberi, che, con linguaggio meno metafo-rico, potrebbe rappresentare l’anticipo di unpartito unico del grande capitale, predispo-sto, ovviamente, per la sola manutenzioneordinaria dello stesso.

Il passaggio successivo, non solo annun-ciato ma praticato, sarà la repubblica presi-denziale, il cui architetto-ingegnere è lo stes-so Presidente della Repubblica, l’ultimo deigrandi dirigenti di un Pci, di cui peròGiorgio Napolitano smantella la storia glo-riosa, che va da Togliatti a Berlinguer.

Ora taluni attuali dirigenti di questo Pdtremebondo appaiono compiaciuti, addirit-tura gongolanti, per il risultato del piùrecente voto amministrativo, che essi leggo-no come conferma e validazione del gover-no delle larghe intese, anche se poi il piùimportante risultato di codesto voto – l’ele-zione di Ignazio Marino a sindaco di Roma– premia un uomo che ha votato contro ilgoverno Letta-Alfano.

Questo atteggiamento dovrebbe portarealmeno a riflettere su quello stato di confu-sione che ha condotto alla deriva il centro-sinistra, impensabile, non dico anni fa, manemmeno all’inizio di febbraio di quest’an-no. Perché oggi si arriva addirittura a soste-nere che andare a braccetto con Berlusconipaga elettoralmente. Imbarazzante. E laconfusione porta al distacco ulteriore delcittadino dalla politica: oggi vota il 50%degli aventi diritto e ci sono sindaci che rac-colgono il consenso solo del 25-30% deglielettori. C’è poco da gongolare. Eppurebasterebbe qualche atto semplice per rista-bilire un clima minimo di decenza democra-tica. Oltretutto potrebbe essere questo unmomento favorevole per il centro-sinistra,visto che Lega e Pdl arretrano ancora, suBerlusconi oltretutto pende la spada diDamocle delle sentenze giudiziarie, ed ilM5S deve fare i conti con una realtà chenon sempre è quella virtuale del social-net-work (anche se ci si deve interrogare su quel40% del voto operaio che comunque èandato a Grillo e non a sinistra e men chemeno alla sinistra radicale).

Basterebbe, come primo atto semplice edovuto, votare l’ineleggibilità di Berlusconie cambierebbe lo scenario. Se non si va in

SEMINARIO PER IL PARTITO DEL LAVORO

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questa direzione (e pare proprio cheNapolitano, assurto a CommissarioStraordinario di Governo, non ci vogliaandare) le larghe intese si consolidano,l’economia tracolla, gli italiani non andran-no più a votare: a che serve votare? A cheserve il Parlamento? A che serve questaCostituzione? Siamo all’allarme rosso per lademocrazia italiana.

Come porvi rimedio? Chi oggi avrebbe laforza dei numeri per farlo, come visto, nonne avrebbe la volontà, chi ha la volontà, lasinistra radicale, per quel che resta, non hala forza dei numeri. Ognuno di quanti vor-rebbero ancora cambiare si indigna, ma trale quattro mura del suo “partitino”, dellasua associazione, della sua casa o semplice-mente ha smesso di indignarsi passando alprimo partito politico italiano: quello delnon voto.

Un tempo, sarà amaro ricordarlo ma ègiusto non dimenticarlo, l’Italia faceva ecce-zione nel mondo occidentale perché ungrande partito comunista in questo Paeseera egemonico, anche se era escluso dalgoverno. Oggi scomparsa la sinistra, ancheper gravissime responsabilità proprie delPd, che nell’immaginario di molti suoi elet-tori sarebbe la continuità di quel Pci, accedesì al governo del Paese, ma l’egemonia èpassata saldamente nelle mani delle destre;sono loro che dettano l’agenda delle cose dafare nel campo, ovviamente, della manuten-zione del sistema.

Come si è potuti arrivare a questo punto?Ci si è arrivati perché ha prevalso il pragma-tismo governista che ha soppiantato la bat-taglia delle idee. Il risultato è che la sinistraè fuoriuscita da sé stessa abbandonando leproprie ideologie, nel qual mentre le destremantenevano ben strette le loro, che via viasono state assunte dalla ex sinistra, e siamoai nostri giorni in cui, sino al febbraio, exsinistra e destre più o meno competevano,in regime di alternanza (in concreto cinqueanni a me e poi cinque anni a te), per la“governance” del sistema. Da allora noncompetono nemmeno più: si sono alleati.Dinnanzi a noi è così plasticamente venutoa rappresentarsi l’esito di un processodecollato ben 30 anni fa quando il Pci ha

cominciato ad abbandonare il lavoratore edil conflitto capitale-lavoro, ed è diventatonel tempo quel partito interclassista cheoggi si è declinato nel Pd. E un partitointerclassista non fa, non può fare, lotta diclasse. E’ scomparsa perciò la lotta di classedallo scenario italiano? Nemmeno persogno, perché negli stessi ultimi trent’anni, enon per caso, l’Italia ha misurato la più spet-tacolare redistribuzione di ricchezza dalbasso verso l’alto, da salari e pensioni a ren-dite e profitti, che si sia mai vista in questopaese.

Non è scomparsa quindi la lotta di classe:solo che l’hanno condotta esclusivamente ipadroni in un ciclo lungo di “lotta di classedall’alto” (Luciano Gallino). In questi tren-t’anni i lavoratori si sono sentiti soli eabbandonati, e la crisi economica li ha resifragili e ricattabili.

Ora le donne e gli uomini che oggi hannoun’età che va dai 50 anni in su sanno, perchéne sono stati protagonisti, che ci sono statimomenti diversi in cui, con la lotta, si èstrappato salario e potere, spostandoli dalcapitale verso il lavoro. Ma cosa possonomai pensare i ventenni o i trentenni di oggi,cresciuti nell’epoca di Berlusconi e dellasubalternità al capitale? Eppure il futuro ènelle loro mani: non consegniamo questegenerazioni, oggi a Grillo, domani a qualcunaltro spericolato pifferaio. Appaia qualcunoche spieghi loro come tuttora si possa fare,si debba fare, la lotta di classe; come sipossa non subire. Se invece si ascoltanoquanti ci raccontano che la lotta di classenon può esistere, perché oltretutto sonoscomparse le classi insieme alle ideologie, difatto si dà ragione alle larghe intese inter-classiste e quindi al protrarsi di quel trenten-nio di sofferenza per i lavoratori, i pensio-nati, i precari, i disoccupati. Si sappia, i gio-vani sappiano, che ci sono almeno due modiper provare a cambiare lo stato delle cose,se non ci si rassegna. C’è un primo modo:quello di ritenere che la sconfitta andrà aprotrarsi per un lungo periodo, decenni edecenni, e quindi non è possibile fare altroche proporsi di far “sgocciolare” il profittosu salari e pensioni. Ma ci sarebbe un secon-do modo: quello di dare invece per sconta-

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to il protrarsi nel lungo periodo della scon-fitta collegata alla crisi di sistema e quindi diriorganizzarci, ricomporci, e ridurre ladistanza, che si è fatta grande tra diritti epersone. I due modi in tempi diversi, siriconducono però ad un solo punto: quelloche i lavoratori, che sono la maggioranzasociale, tornino ad essere la maggioranzapolitica, costruendo una forza, non un’élitearistocratica, ma una grande forza che lirappresenti.

Da tempo settori avanzati del sindacali-smo italiano pongono questa questionedella rappresentanza politica del lavoro e,inascoltati purtroppo, rivolgono la doman-da alle forze politiche, alle associazioni, allasocietà. Questi settori rivolgendosi a social-democratici, socialisti, comunisti, ambienta-listi, ritengono sia giusto porre mano, neitempi politici necessari, ma da subito, allacostruzione di una formazione laburista dimassa, non testimoniale, ma che si propon-ga di sostenere le istanze del mondo dellavoro, sino al governo del Paese. I settoriavanzati del sindacalismo italiano non pos-sono però andare oltre questa dichiarazionedi esigenza. Ci fosse ora questa forza laprima cosa che farebbe sarebbe quella ditradurre in legge l’accordo interconfederalesulle rappresentanze che oggi non va alleCamere solo perché una legge imporrebbe aMarchionne (e a quanti ltri non aderisconoa Confindustria) un comportamento oppo-sto a quello, discriminatorio, praticato aPomigliano e negli stabilimenti Fiat, e que-sto il Governo delle larghe intese non se lopuò permettere: il capitale non va disturba-to.

Ma il sindacato, dal canto suo, può pro-muovere atti che, proponendosi di ricom-porre il lavoro scomposto, potrebbe agevo-lare il cammino della costruzione di questafutura formazione laburista di classe e dimassa. Il sindacato può proporsi di accor-pare in quattro o cinque grandi comparti itroppi contratti collettivi nazionali; puòimporre un unico contratto nello stesso sitoproduttivo; può attivare progetti di contrat-tazione territoriale che siano altra cosarispetto alla riproposizione delle “gabbie”; il

congresso della Cgil può assumere questiobiettivi, ma sarebbe un gran danno se già ipartiti politici, i cui congressi sono calenda-rizzati (Pdci, Idv) o annunciati (Prc, Pd) nonrisponderanno alla domanda sindacale che liinterroga, così come interroga Sel, Verdi,M5S. In ogni forza, e ci permettiamo dirivolgere questo appello a quanti sono tut-tora iscritti a queste formazioni, vada fattacrescere l’idea che il punto di vista del lavo-ro diventi la loro linea di condotta e insiemeche lo sbocco in una ricomposizione politi-ca di chi sostiene questa idea sia il grandeprogetto al quale si tende. Senza forzatureorganizzativistiche, senza chiusure settarie.Sinistra è solo se è popolare, di massa, dipartecipazione.

Altri Paesi, lo ricordiamo, lo hanno fatto:dalla Grecia alla Spagna, dal Brasile allaFrancia, alla Germania (molto interessanti icontenuti del prossimo congresso dellaLinke). Ognuno a suo modo torna a ragio-nare della propria, torniamo a dirlo, vianazionale al socialismo. Proviamoci anchenoi: è solo con grandi progetti che rigeneripassione, trasmetti valori sopiti; non certorincorrendo scampoli minuscoli e spessovelleitari di società civile.

Il Centro Culturale Concetto Marchesi el’Associazione Culturale Punto Rosso con ilsenso del limite proprio si mettono a dispo-sizione del progetto. Possono essere tre gliimpegni che assumiamo: 1) un ulterioreincontro di approfondimento dei temi eco-nomici che oggi abbiamo lasciato sullosfondo; 2) l'avvio dello studio per costruireoggi un’associazione nazionale che valuti lecondizioni per affrontare le prossime ele-zioni europee inserendo il punto di vista dellavoro; 3) l'allargamento del campo delnostro agire per la difesa e l’applicazionedella Costituzione Repubblicana. Si ripartadalla Costituzione e dalla dimenticataRepubblica fondata sul lavoro.

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Centralità del lavoro e democratizzazione,per ricostruire lasinistra politica

Riccardo Terzi

In questi ultimi tre mesi vi sono stati trepassaggi politici di straordinario rilievo: leelezioni di febbraio, la riconferma diNapolitano alla Presidenza dellaRepubblica, la formazione del nuovo gover-no.

Quale che sia il giudizio sui comporta-menti e sulle scelte compiute dai diversisoggetti politici, occorre valutare in tutta lasua eccezionale portata il fatto che l’interoquadro politico-istituzionale ne esce sovver-tito e sconvolto, aperto ai più diversi sboc-chi. Ed è in particolare la sinistra l’epicentrodi questa violenta ondata sismica, per ilrisultato elettorale deludente, per lo sfonda-mento operato dal Movimento 5 Stelle, peri susseguenti contorcimenti tattici, e per losbocco finale di un accordo di governo conil centro-destra che sembrava essere, fino aieri, del tutto al di fuori di ogni possibileprevisione, e che ha prodotto la rottura del-l’alleanza elettorale tra il Pd e Sel. Se ilcampo della sinistra è diviso, frammentato,se sul Pd in particolare si scaricano tutte letensioni dell’attuale momento politico, tuttociò offre alla destra un grande vantaggiostrategico. La prima regola dell’arte politica,come dell’arte militare, è tenere unito il pro-prio campo e dividere il campo avverso, edè sorprendente, sotto questo profilo, l’av-ventatezza tattica dello stato maggiore dellasinistra. La conclusione più elementare chepossiamo trarre da questa vicenda è che lacrisi del sistema politico, già da tempo in via

di maturazione, è ora esplosa, mandando inpezzi tutti gli equilibri precedenti e tutto ilcastello di carta delle previsioni e delle tatti-che politiche, pensate in astratto, senza capi-re ciò che stava maturando nel sottosuolodella nostra coscienza collettiva, senza inter-cettare i sentimenti di rabbia, di rifiuto, dirancore che sono il prodotto disperato diuna “crisi di sistema”, la quale investe nellostesso tempo la sfera dell’economia e quelladell’etica pubblica.

In questo stato di cose, esposto pericolo-samente a possibili esiti distruttivi ed eversi-vi, su ciascuno di noi, individualmente e col-lettivamente, incombe la responsabilità diricercare e di costruire delle possibili vie diuscita. È chiaro che anche il sindacato èchiamato in causa, perché organizza eorienta milioni di persone, perché è unagrande organizzazione di massa che devefar sentire con forza la sua voce. Avremopresto il congresso della Cgil per discuteredi questo, per decidere quale ruolo intendia-mo svolgere nel mezzo di questa crisi siste-mica. Nelle situazioni di crisi ciò che occor-re è la lucidità dell’analisi e il coraggio del-l’innovazione, vedendo non solo le insidie,ma anche le nuove potenzialità che dallastessa crisi possono essere suscitate.

Ciò che dobbiamo maggiormente temereè quella sorta di micidiale buon senso, per ilquale tutto alla fine si aggiusta, e si trattasolo di continuare il cammino già sperimen-tato, aspettando, rinviando, senza mai corre-re il rischio di una qualche sterzata. Se ci siaffida al buon senso, alla prudenza, ai picco-li passi, al realismo del giorno per giorno, inattesa di una schiarita che non si capisce dadove possa venire, ciò vuol dire semplice-mente non aver capito nulla della profondi-tà della crisi in cui siamo precipitati.

È tutto il rapporto tra istituzioni politi-che e società civile che si è spezzato, è ilsistema dei partiti che non riesce più a rap-presentare la complessità delle domandesociali, è quindi la democrazia stessa, nellasua sostanza, che entra in sofferenza e cheha bisogno, a questo punto, di essere riorga-nizzata su nuove basi. Occorre un progetto

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complessivo di democratizzazione del siste-ma, sperimentando nuovi strumenti parteci-pativi e ripensando alla radice la stessa fun-zione del partito politico.

Non si tratta affatto, come da varie partisi sostiene, di riscrivere l’architettura costi-tuzionale, ma piuttosto di darle compimen-to. Non servono quindi soluzioni presiden-zialiste, decisioniste, di ulteriore accentra-mento del potere, ma serve una democraziaorganizzata, allargata, partecipata, capace diricomporre un rapporto di fiducia tra istitu-zioni e cittadini.

Occorre inoltre che il tema della demo-cratizzazione venga posto con forza a livel-lo europeo, per realizzare quel passaggiomai finora compiuto dalla diplomazia degliStati nazionali alla costruzione di una verasovranità sovranazionale, legittimata demo-craticamente. Qui davvero servirebbe unprocesso costituente, per dare vita ad unaeffettiva cittadinanza politica europea. Equesto medesimo salto di qualità deve esse-re compiuto dalle organizzazioni sindacali,che fin qui hanno costruito solo un debolestrumento di coordinamento, senza veripoteri di iniziativa e di contrattazione.

Ma ora il vero problema politico cheabbiamo di fronte è la costituzione delgoverno Letta, sostenuto da Pd, Pdl e SceltaCivica. Possiamo tutti convenire, ovviamen-te, che non è il governo del cambiamento danoi auspicato, e credo sia comune a tuttinoi, pur con accenti diversi, una forte pre-occupazione per l’esito politico che alla finesi è prodotto. Non è una soluzione di neces-sità, per il semplice fatto che la necessitànon è una categoria della politica, e in ognimomento si tratta di valutare tutte le diver-se opzioni possibili. Parlare di necessità vuoldire abdicare alla libertà di scelta, e farci tra-scinare passivamente dalla forza d’inerzia. Ilgoverno è il risultato di una scelta a cuihanno concorso diversi fattori, a partiredalla tenace determinazione del Presidentedella Repubblica, e dalla concorde sottomis-sione incondizionata delle forze politiche alsuo ruolo non di garante, ma di decisore,con una evidente forzatura dei limiti costi-

tuzionali. E non è, se non in superficie, ilritorno della politica dopo la parentesi dei“tecnici”, perché la base parlamentare su cuisi regge l’attuale governo è esattamente lamedesima del governo Monti: cambiano iprotagonisti, ma non cambia affatto lamotivazione di fondo su cui si regge tuttaquesta operazione, nel nome di un superio-re “interesse nazionale”, a cui devono esse-re sacrificate le parzialità, le diversità, leragioni plurali della rappresentanza politica.Il governo non è tecnico nella sua composi-zione, ma lo è nelle sue premesse fondative,perché è l’espressione di una emergenza, laquale richiede che la dialettica democraticavenga sospesa. Che si tratti solo di una tre-gua, o di un progetto più audace di “pacifi-cazione nazionale”, resta il fatto che vengo-no rimossi e oscurati tutti i conflitti politici,etici e valoriali che hanno segnato il nostrorecente passato. Siamo dunque ancora sottoil dominio di una superiore oggettività tec-nica a cui è inevitabile sottomettersi.

A questo punto, ciascuno può fare libera-mente le sue scelte politiche e tattiche, enon è mio compito entrare in questo tipo didiscussione. Ma si eviti, per favore, di direche “dobbiamo metterci la faccia”, perché,in una situazione di estrema complessità,non serve la teatralità un po’ arrogante delgesto decisionista, ma serve solo mettercitutta l’intelligenza possibile. In ogni caso,tutto il vasto campo della sinistra, a cuianche noi apparteniamo, è messo in tensio-ne, in movimento, e deve interrogarsi sulsuo futuro, e in questo lavoro tutte le iden-tità del passato devono essere ripensate etrasformate.

Trovo che sia del tutto privo di senso giu-dicare l’attuale situazione in base alle passa-te provenienze politiche, come se ancora sitrattasse di comunisti, o socialisti, o demo-cristiani. Non c’è nessun ritorno al passato,ma c’è un nuovo contesto politico e cultura-le, e ciò che conta, in questa situazione deltutto inedita, non è da dove si viene, masolo dove si vuole andare. Le antiche appar-tenenze si sono ormai dissolte, e credo cheil tratto nuovo della nostra epoca sia la fine

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delle logiche di appartenenza, e l’emergeredi una posizione di maggiore criticità, fon-data sull’autonomia e non sulla fedeltà, sul-l’irrequietezza e non sulla stabilità. In que-sto senso, le vecchie logiche identitarie fini-scono per essere solo una gabbia, che ciimpedisce di pensare in modo più aperto edi lavorare sulle contraddizioni e sulle tra-sformazioni del nostro tempo attuale.

La sinistra, in fondo, ha il suo fondamen-to nella forza delle contraddizioni socialiche agiscono nella società, e che attendonodi essere rappresentate e organizzate. Non èil residuo di una storia tramontata, ma puòessere l’intelligenza critica messa al serviziodi un progetto attuale. C’è un dato moltoimportante nelle ultime vicende politiche: ladefinitiva messa fuori gioco di quello sche-ma politologico che ci è stato testardamen-te propinato in questi anni, per cui tutta lapartita politica si decide al centro, e vincechi è in grado di rappresentare il votomoderato. Secondo questo schema, la sini-stra può vincere solo se occupa il centrodello schieramento e si libera di tutte leposizioni più radicali. Ora, ciò che è emersocon le elezioni politiche è all’opposto unprocesso di radicalizzazione, e appare evi-dente l’inconsistenza strategica di tutte leipotesi centriste. Se la sinistra è in affanno, èperché ha offuscato le sue ragioni e si èstrappata dalle sue radici, sociali e culturali.

C’è dunque un lungo lavoro di ricostru-zione, ed è questo l’elemento decisivo, al dilà delle contingenze e delle miserie dellavicenda politica.

Fabrizio Barca parla, nel suo documento,del partito-palestra: palestra delle idee edella partecipazione democratica. Si puòconvenire, naturalmente. Ma la palestra, seessa sta a significare la vitalità democratica,non si lascia rinchiudere nei confini di unpartito, quale che esso sia, ma deve allargar-si a tutti i soggetti sociali organizzati, sinda-cato compreso. E in questa sfida per un piùavanzato livello di democrazia dobbiamosaperci confrontare con le diverse esperien-ze di movimento che si sono costruite suun’idea di democrazia diretta, e con la

nuova realtà politica del Movimento 5Stelle, che ha dimostrato una straordinariacapacità di mobilitazione. Serve una linea didialogo e di inclusione, per impedire chequeste energie finiscano nel vicolo cieco diuna posizione solo distruttiva.

Veniamo da una storia segnata dall’ideadel “primato della politica”, e in questoorizzonte il sindacato è solo un momentoparziale, tendenzialmente corporativo. Maora i termini del problema sono completa-mente mutati, e non è più possibile pensarela dimensione sociale e quella politica comei due lati di uno stesso processo, all’internodi un comune fondamento ideologico. Daquesto punto di vista, occorre forse riflette-re sulla troppo frequente e disinvolta prassidel passaggio dall’uno all’altro campo, comese si trattasse solo di una diversa collocazio-ne funzionale, di una continuazione in altreforme dello stesso impegno militante.L’involucro teorico unitario che tenevainsieme partito politico e sindacato si è dis-solto, e questi due momenti ora camminanosu diversi binari, e di volta in volta possonoincrociarsi o scontrarsi.

Ed oggi è proprio il sociale che esplode,nell’indifferenza e nella sordità della politi-ca. C’è un intero territorio sociale, di lavorooperaio, di lavoro precario, di piccola impre-sa, che non ha rappresentanza politica, eche per questo può divenire la massa dimanovra per le più svariate operazionidemagogiche: ieri la Lega, oggi Grillo, edomani qualche altro avventuriero di suc-cesso. Non ce la caviamo con la predicamoralistica contro il populismo, che spessoserve solo a stigmatizzare tutto ciò che nonriusciamo a capire. Non è solo un problemadella politica, ma è anche un segno dram-matico della nostra debolezza, della nostraincapacità di costruire una coscienza unita-ria del mondo del lavoro, una identità, unaprospettiva in cui ciascuno si possa ricono-scere. Ogni volta che si dice populismo,anti-politica, dobbiamo interrogarci su noistessi, perché vuol dire che non abbiamosaputo presidiare e organizzare il nostrocampo, che ci siamo lasciati rinchiudere in

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una posizione solo difensiva. Il sindacato, losappiamo, è sotto attacco. C’è una concen-trica campagna di delegittimazione, con laquale si tende a relegarci nell’angolo, pre-sentandoci come una delle tante corpora-zioni che sono di ostacolo allo sviluppo e alrinnovamento del paese. E si è montata adarte la contrapposizione tra giovani e anzia-ni, tra precari e garantiti, con l’obiettivo dispezzare l’unità del mondo del lavoro. Aquesta strategia dobbiamo saper risponderecon un progetto politico che sia capace diparlare al paese, e in questa chiave dobbia-mo far vivere l’iniziativa del “piano del lavo-ro”, facendone il centro della nostra mobili-tazione.

È necessaria, in primo luogo, una batta-glia culturale per affermare il principio della“centralità del lavoro”. Ma non in modoretorico: per definizione il centro è uno(non molti), però occorre definirlo con pre-cisione e in modo concreto. Oggi siamo difronte al paradosso per cui i due nodi chedanno identità alla sinistra – quello di esse-re in grado di produrre una politica di massae quello, nel contempo, di praticare il con-flitto sociale – sono separati: c'è ancoraeffettivamente un partito di massa – il Pd –che però non pratica più il conflitto, ma loannega in un generico interclassismo (e perquesto è spesso bloccato da divisioni inter-ne), e c'è una frammentazioni di gruppi,nella sinistra cosiddetta radicale, con al cen-tro la pratica del conflitto, ma ridotti ad unminoritarismo tale da rendere inefficaceogni azione. La centralità del lavoro, inprimo luogo, deve richiamare al superamen-to di questo paradosso, dentro un ipotesi diunità politica che colleghi la dimensione dimassa alla pratica del conflitto sociale. Sipuò cominciare qui ed ora cercando di uniretutta la sinistra che c'è in un fronte politicocomune, ma il processo innovativo deveessere più strategico e quindi più profon-do.E allora, centralità del lavoro vuol direche tutte le politiche economiche devonoessere orientate prioritariamente all’obietti-vo della massima occupazione, utilizzandotutti gli strumenti, e con una fortissima fun-

zione di coordinamento e di regia del pote-re pubblico, ai diversi livelli. È un rovescia-mento rispetto a tutte le pratiche dominan-ti, orientate solo all’equilibrio di bilancio ealla minimizzazione del perimetro pubblico,in nome della libertà di mercato. Il risultatoè l’attuale tragedia sociale di una disoccupa-zione di massa in tutto il nostro continente.Dobbiamo, in proposito, riallacciarci a tuttauna tradizione di pensiero, socialista e rifor-mista, che ha considerato le politiche dellavoro non come un capitolo di dettaglio,ma come il centro propulsore di una politi-ca di sviluppo. Penso, ad esempio, aRiccardo Lombardi, che propone l’occupa-zione come la “variabile indipendente”,intorno alla quale far ruotare tutte le sceltedi politica economica. Il piano del lavoro haquindi questo significato di sfida e di alter-nativa rispetto alle politiche liberiste domi-nanti. Ma si tratta – ed è questa la sfida piùimpegnativa – di costruire una reale mobili-tazione di massa, che sia capace di strappa-re alcuni risultati concreti.Il problema dellavoro si pone su diversi livelli. C’è, anzitut-to, il livello delle politiche europee, dove ènecessaria una decisa sterzata, dato il falli-mento della linea di austerità e dati gli altis-simi costi sociali che essa ha provocato. Daun patto per la stabilità occorre passare adun patto per lo sviluppo, ed in questa dire-zione vanno ricercate tutte le alleanze possi-bili. È chiaro che il quadro europeo ci con-diziona pesantemente, ma c’è comunqueuno spazio di iniziativa nazionale che deveessere esplorato. È possibile un piano stra-ordinario per l’occupazione, concentrato inparticolare su alcune emergenze troppo alungo trascurate: la messa in sicurezza delterritorio, l’edilizia scolastica, l’uso di ener-gie alternative, il ciclo dei rifiuti, le politichedi welfare di fronte alle nuove sfide dell’in-vecchiamento, della povertà e dell’immigra-zione. Giovani e Mezzogiorno sono le prio-rità su cui lavorare.

Quindi la centralità del lavoro declinatasul principio fondamentale che ci deve gui-dare: il principio di eguaglianza; che è il car-dine della nostra Costituzione, e su cui si

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concentrano tutti i tentavi di scardinamen-to, in forma palese o sotterranea, perimporre un diverso modello, nel qualeall’universalismo dei diritti si sostituisce lasregolatezza di una competizione in cui cia-scuno si afferma a scapito dell’altro. E untale scardinamento è già da tempo in corso,mettendo in crisi la coesione sociale delpaese. È sul terreno dell’eguaglianza che simisura il confine tra destra e sinistra, ed èquesto il metro con cui dobbiamo giudicaredi tutti i problemi aperti, con una linea dicoerenza e di radicalità.

Eguaglianza dei diritti, tra Nord e Sud,tra cittadini e immigrati, tra uomini e donne,tra lavoratori stabili e precari: eguaglianza enon assistenza, intervento non solo suglieffetti, ma sulle cause delle disuguaglianzesociali. Questa è l’identità del sindacato, lasua ragion d’essere. E dobbiamo, in questonostro lavoro, aprirci ad un rapporto di col-laborazione con i diversi movimenti chepongono al centro il tema dei diritti e dellaqualità della vita, e per questo dobbiamorendere trasparenti tutti i nostri processidecisionali e negoziali, con il massimo coin-volgimento democratico di tutte le personeinteressate. Anche per noi c’è un problemadi democrazia, che non sempre siamo riu-sciti a risolvere in modo soddisfacente.Anche al nostro interno ci sono varie stroz-zature burocratiche che devono essererimosse, e c’è la necessità di un rinnovamen-to dei gruppi dirigenti. La spinta al cambia-mento che c’è nel paese riguarda anche noi,il nostro modo di lavorare, la nostra capaci-tà di relazione con la vita reale delle perso-ne. Siamo una grande forza organizzata, mac’è uno scarto tra questa forza e i suoi risul-tati, c’è un problema di efficacia, di concre-tezza, che dobbiamo saper risolvere.

Alla luce di questa esigenza, lo stessoprincipio della confederalità deve esseremeglio interpretato e declinato, intendendo-lo come la più larga e aperta sperimentazio-ne orizzontale, in cui ciascuna struttura, ter-ritoriale o di categoria, cerca di dare unsenso e un contenuto generale, non corpo-

rativo, al proprio lavoro. E lo si può vederecome un principio guida alla necessariariforma anche della forma partito tradizio-nale, centralizzata, ma anche anchilosata,nella sua pretesa funzione sintetica di tuttele questioni. La confederalità non è l’accen-tramento burocratico, ma è lo sguardo checiascuno, nel suo ambito, tiene aperto sul-l’intera condizione sociale: uno sguardo sulmondo, e insieme una capacità di agire nelconcreto, di presidiare in modo creativo ilproprio specifico campo di intervento. Se lasocietà, come ci dicono tutte le analisi socia-li, è sempre più frammentata e differenziata,la confederalità non può che essere il liberoconcorso di diverse esperienze. Così messa,può valere anche per noi l’immagine dellapalestra, in cui ciascuno si addestra a vince-re gli ostacoli, in un lavoro collettivo e inuna costante e aperta tensione democratica.

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NOVITÀ EDIZIONI PUNTO ROSSOBeppe Bivanti, Gianni Marchetto

DUE STORIE OPERAIENota introduttiva di Vittorio Rieser

”Tempo fa, Gianni Marchetto mi disse che il suopercorso era l’opposto del percorso che ToniNegri attribuiva alla classe operaia. Lui, infatti,aveva cominciato come operaio sociale, pas-sando tra vari lavori di cui non glie ne fregavaniente (gli interessava di più tirare i sassi nellemanifestazioni di lotta), poi era diventato opera-io massa, entrando nella grande fabbrica, e infi-ne operaio di mestiere, alle officine ausiliariedelle fonderie Fiat. Di questo percorso, e dellasua progressiva politicizzazione e sindacalizza-zione, che l’ha portato ad essere prima delega-to e poi - a metà degli anni ’70 - funzionario edirigente sindacale, parla anche nel saggio quipubblicato. Non ne costituisce il tema principa-le, ma è anche grazie a questo percorso e alleesperienze ad esso collegate che Marchetto saleggere “dall’interno” la classe operaia.Il percorso di Beppe Bivanti è invece quello“classico” dell’operaio di mestiere: scuola pro-fessionale, lavori e apprendistato in piccole“boite”, per approdare nel 1973 allaMicrotecnica di Torino, dove ha svolto via vialavori più qualificati, fino a quei lavori classificaticome “operai” ma sono lavori tecnici di altolivello. Parallelo al percorso di crescita profes-sionale è stato quello di crescita politico-sinda-cale, che l’ha portato ad essere il leader ricono-sciuto del sindacato alla Microtecnica...i”.(Dalla Nota introduttiva di Vittorio Rieser)

Collana varia, pagg. 180, 12 euro.

Partito del lavoro e dei lavoratori

Maria Grazia Meriggi

Innanzitutto è importante sottolineare cheun progetto di organizzazione politica chefaccia perno intorno al lavoro e ai lavorato-ri non è un fatto scontato e ha un significa-to importante anche sul piano culturale. Gliultimi due decenni sono stati occupati, asinistra, da culture politiche che non asse-gnavano al lavoro, alle sue relazioni, conflit-ti e rapporti di forza la centralità che piùgenerazioni di organizzatori riteneva indi-scutibile ed evidente.

Questo è naturalmente vero per la sini-stra social-liberale (il PD nato con Veltronie con la candidatura Calearo non concepi-sce più nemmeno una politica delle allean-ze, che si fanno fra classi, ambienti e inte-ressi comunque diversi). Ma anche le cultu-re cosiddette radicali hanno valorizzato imovimenti sociali, il protagonismo civile, ibeni comuni, le reti. Non certo privi diimportanza ma che spesso hanno significa-to la negazione di una gerarchia degli inte-ressi e dei conflitti per cui l’analisi dellacomposizione tecnica e politica di classe èdiventata solo uno dei problemi della sini-stra, non sempre il principale, nonostante larivendicazione di un punto di vista classista.Che cos’è il lavoro, si chiedono tanti compa-gni, intendendo che le delocalizzazioni, lecessioni di rami d’impresa hanno disgregatola grande fabbrica dove, nella nostra espe-rienza degli anni ’60 e ’70, sono cresciuti lasolidarietà, il conflitto, le conquiste salarialie normative; che la crescita di lavoro preca-rio, di lavoro intellettuale comandato e pro-letarizzato in decine di rapporti contrattualio autonomi ha creato un nuovo settore diclasse che di volta in volta è stato vistocome il nuovo proletariato cognitivo o un

settore di ceto medio sensibile alla mobilita-zione civile ma renitente alla tradizionaleorganizzazione sindacale.

In realtà ormai – grazie al lavoro d’in-chiesta tenace di lungo periodo di alcunicompagni, e qui cito Vittorio Rieser eMatteo Gaddi – sappiamo molto di quelloche accade ai lavoratori nella crisi: non lacrisi in generale ma nei singoli territori e neisingoli settori industriali e in luoghi di lavo-ro precisi. Sappiamo di quello che succedenelle piccole fabbriche che in generale nonsono imprese artigianali autonome madipendenti dalla grande fabbrica di cui sonosatelliti o segmenti di un distretto o fabbri-che mantenute “nane” per sottrarsi a quan-to resta dell’art. 18. E sappiamo anche cheal di là delle letture ideologiche, settori dilavoro autonomo e precario potrebberorispondere positivamente a proposte orga-nizzative concrete da parte del sindacatoconfederale. Posso qui solo citare “per tito-li” proposte ormai da tempo circolanti: uncontratto inclusivo per ogni impresa, lasemplificazione delle tipologie di contrattoindustriale, l’abolizione del mostro giuridicodell’art. 8 e quindi la riaffermazione delpotere normativo del contratto nazionale edella legislazione del lavoro. Un ruolo attivodelle Camere del Lavoro come luogo fisicodi incontro fra lavoratori dispersi e isolati:che è stata, del resto, una delle funzionidelle Camere del Lavoro delle origini,nell’Italia liberale. Non dimenticando che ilprecariato non riguarda solo il lavoro“cognitivo” ma le più diverse tipologie dilavoro operaio. Le novità dell’organizzazio-ne del lavoro degli ultimi anni sono grandi:in particolare la convivenza, in luoghi dilavoro diversi, di taylorismo e di toyotismocon la sua imposizione di una cooperazionesubalterna che la Fiat di Marchionne hacostretto noi tutti a guardare da vicino.

Ma ciò non ci deve far dimenticare chel’assunzione soggettiva di un punto di vistasolidale fra compagni e conflittuale conl’impresa è sempre stato – ieri come oggi –un processo di costruzione, interpretazionedi bisogni, selezione di obiettivi. Nella lunga

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storia del mondo del lavoro capitalisticohanno lottato lavoratori a domicilio, conto-terzisti, piccole imprese, braccianti, minato-ri appena arrivati dal mondo rurale…D’altra parte – sono storica dei mondi dellavoro soprattutto del lungo Ottocento – glianni che ci stanno alle spalle non sono iprimi nei quali la rappresentazione del sog-getto operaio è stata scompaginata e resaincomprensibile. Chi si occupa soprattuttodella classe operaia nel suo farsi nel corsodel XIX secolo si è reso conto facilmenteche gli estensori di ricerche demografiche,morali e sanitarie e i romanzieri – soprattut-to i romanzieri realisti che necessariamenteincontravano il proletariato nella loro narra-zione – offrono negli stessi anni e descrivo-no gli stessi ambienti delle immagini piega-te di volta in volta a diversi interessi spessoideologici. Sono gli stessi ambienti cheEngels, nella sua opera giovanile, La condi-zione della classe operaia in Inghilterra, constraordinaria, simpatetica veridicità, coglienella loro complessità e stratificazione, nellaloro possibile solidarietà. E del resto la svol-ta fra il XIX e il XX secolo si apre con laproclamazione della fine della lotta di clas-se, con Marx mandato “in soffitta”, primadella smentita più clamorosa di queste pro-fezie nella crisi e trasformazione dellaGrande Guerra.

Dunque: centralità dei lavoratori e deiloro bisogni, valorizzazione della democra-zia in fabbrica dove questo è possibile, dovecioè il sindacato non è tenuto fuori dalluogo di lavoro (1). Ma anche promozionedei lavoratori in carne ed ossa dentro ai par-titi e alle istituzioni. Le modificazioni bennote dei partiti e delle istituzioni nella cosid-detta II Repubblica hanno fatto sparire isalariati da ogni percorso di rappresentanzae visibilità. Il vecchio Pci non era comel’Old Labour o l’Spd della II Internazionalediretti da bottai e operai delle fabbriche dibirra, con ministri che avevano alle spalleanni di miniera, ma comunque valorizzava efaceva crescere gli operai, i salariati sia nelladirezione politica sia nelle istituzioni. I lavo-ratori devono tornare a dirigersi e rappre-

sentarsi e dunque organizzarsi nei luoghi dilavoro: il rinnovamento indispensabile deigruppi dirigenti della sinistra diventerebbealtrimenti socialmente non significativo.

Ma se il voto operaio si rifugia nell’ade-sione al populismo e nell’astensionismo èanche perché la fiducia riposta in altre occa-sioni nel voto a sinistra non riesce a rispon-dere a bisogni popolari per le caratteristicheormai consolidate di classi dirigenti deditesoltanto – come ha detto lucidamenteRiccardo Terzi in un amaro bilancio di que-sti anni – nella manutenzione di un sistemadistruttivo di lavoro e di diritti.

La paralisi perdurante dei governi nazio-nali e ancor di più delle istituzioni europeerispetto alla crisi, le loro politiche che l’ag-gravano, spiegano la sensazione dei lavora-tori di essere abbandonati e “traditi”. Purevitando questa accusa come categoria ana-litica, dobbiamo interpretare tale sentimen-to che può emergere più facilmente quandoi lavoratori perdono il controllo sulle lorocondizioni di lavoro. Eppure questa impo-tenza attuale della politica ripropone comecentrale il problema del governo, di unintervento al tempo stesso dall’alto e dalbasso. Impossibile “governare dall’opposi-zione” in mancanza delle circostanze che loavevano permesso al “vecchio Pci”: la suadimensione di massa, un sistema elettoraleche conferisce centralità al parlamento, edevidentemente lo sviluppo economico diquegli anni che consentiva lotte almeno peruna distribuzione più accettabile della ric-chezza.

Da questo punto di vista se consideriamoi precedenti storici di questi problemi, siimpongono alcune osservazioni. La crisiattuale viene inevitabilmente associata allacrisi del ’29 e possiamo certamente dire cheper anni i soggetti interessati tardano adaccettare che si trattava di una crisi diversadalle crisi cicliche abituali nel capitalismodegli anni precedenti la Grande Guerra (2).Sindacati operai e padronali, partiti operai egoverni di vario orientamento, e le istituzio-ni internazionali continuano negli anni suc-cessivi alla crisi del ’29 a riproporre risposte

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tradizionali (dal finanziamento della resi-stenza per i sindacati alle politiche deflazio-nistiche di difesa della moneta e dell’equili-brio di bilancio). Nel corso del 1930 arriva-vano al Bureau International di Travail lerisposte alle inchieste sugli effetti delle 8ore, della razionalizzazione e degli “alti sala-ri” negli Usa quando già la disoccupazionedi massa investiva anche l’Europa e coinvol-geva lavoratori di tutte le qualifiche e di ogniformazione. Tuttavia dal 2007 a oggi è statosuperato ogni accettabile “tempo massimo”di assunzione di consapevolezza, da partedelle classi dirigenti europee, della necessitàdi uscire da una ortodossia neoliberistaormai criticata dagli economisti più autore-voli. Un problema, a questo punto, ampia-mente europeo e che ci mostra costanti edolorosi paradossi. L’elezione del presiden-te socialista Hollande solo un anno fa nonsolo non ha cambiato la politica finanziariadel governo socialista, né una politica dicontrasto alle delocalizzazioni e ai licenzia-menti, ma in gennaio il governo ha promos-so un accordo nettamente peggiorativo inmateria di licenziamenti collettivi economi-ci, mobilità interna, possibilità, per i lavora-tori, di ricorrere ai tribunali e persino ai pru-d’hommes. In cambio: l’aumento dei versa-menti padronali per i contratti di meno di 3mesi, la creazione di un “conto personale”di formazione permanente e di un dirittopiù esteso al sussidio di disoccupazione, chenon è stato firmato né dalla Cgt, il sindaca-to più rappresentativo, né da Force ouvrière(grosso modo, la nostra Uil).

A questa paralizzante fedeltà a una orto-dossia liberale corrispondono le ben notedifficoltà frapposte dalle istituzioni e dagliaccordi europei a una politica economicanazionale. E la creazione di occasioni dilavoro e di reddito imporrebbe invece unaserie di idee forza di una politica finanziariainnovativa che nella ormai lunga storia dellasinistra è stato un momento di debolezza euna causa di divisioni e di sconfitte: l’esem-pio del Front populaire 1936-’38 costituisceun precedente sempre utile da ripercorrere.

Una sinistra del lavoro in costruzionedovrebbe aprire un cantiere per definirequeste idee e farle diventare idee forza chepossano essere discusse pubblicamente eimpegnarsi per la trasformazione democra-tica delle istituzioni europee. Insomma: unasinistra utile per un futuro fuori dalla decre-scita infelice.

Note

1. Credo che l’analisi fornita da GiovanniAlleva sia molto equilibrata rispetto al recenteaccordo sulla rappresentanza che è certamenteuna conquista positiva dopo anni isolamentodella Cgil ma che dobbiamo vedere come unatappa da perfezionare sul piano contrattuale elegislativo in una lunga storia pressoché venten-nale (ricordiamo i complicati referendum del1995) della Cgil e soprattutto di alcune sue areeper la consegna ai lavoratori di un potere deci-sionale in ultima istanza sulle loro condizioni dilavoro e quindi di vita.

2. Si può vedere in proposito il volume cheraccoglie i testi presentati a una serie di semina-ri svolti nel corso del 2010 presso la FondationJaurès, AA.VV., “Le socialisme à l'épreuve ducapitalisme”, Fayard, Paris 2012 e in particolareMaria Grazia Meriggi, “Les syndicats et leursalliés des années 1910 à la crise de 1929”.

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Un partito concretodel lavoro.Conclusioni

Gian Paolo Patta

Solo alcuni punti. Questa crisi è la più lungadel secolo. La Confcommercio ha diffusoun dato allarmante: se anche tornassimo, traqualche anno, ai tassi di crescita precedentiil 2007, per giungere ai livelli di reddito diquell’anno occorrerà aspettare il 2036.

Considerando quindi questa data, nelnostro capitalismo, che è nato effettivamen-te, con una sua egemonia sufficiente, agliinizi del Novecento, su 140 anni di storia neavremmo avuti 44 di stagnazione, dal 1992al 2036: il bilancio tragico di un sistema chenon funziona. E queste tragedie avvengonosempre quando prevale il liberismo, perchéil liberismo scatena necessariamente il mec-canismo della concorrenza al massimoribasso. La concorrenza senza limiti inbasso produce crisi perché causa l'impossi-bilità di collocare le merci che invece unaforza produttiva sempre più potente produ-ce in misura sempre maggiore. Come dice-va il vecchio Marx, il capitalismo a fronte diuna capacità produttiva in crescita compri-me il reddito dei lavoratori per recuperaresu un saggio di profitto minore, generando,inevitabilmente le cause di una crisi.

Ora, cosa significa per noi dire che dal'92 al 2036 ci potranno essere 44 anni di sta-gnazione? Significa che siamo entrati in unafase in cui non c'è da distribuire niente dipiù dell’esistente, e questo necessariamentescatena un conflitto di classe acerrimoorientato all'accaparramento di ciò che c'è.Come per gli animali: se li rinchiudete e pro-gressivamente diminuite il cibo, è facileimmaginare quello che succederà; per l'uo-mo non è molto diverso. Prevalgono i piùforti, e per di più ad aggravare la situazione

ci pensano i capitalisti, perché o si aspetta-no di guadagnare di più dell'anno preceden-te o fanno lo sciopero degli investimenti.Ancor più, questa corsa al ribasso sui costiavviene in un contesto internazionale nelquale esistono sistemi tra loro molto diver-si, senza forme di protezione. Questo èmicidiale, e necessariamente mette in fortetensione, in primis, i sistemi costituzionalidemocratici occidentali, rispetto a chi questi“limiti” non li ha.

Quindi non stupiamoci se a fronte di unacrisi della partecipazione democratica, testi-moniata anche dalle ultime elezioni, la clas-si dominanti non cercano strumenti perallargare la partecipazione e la democrazia,ma al contrario si occupano di consolidare illoro potere, dando per scontata l'emargina-zione di una fetta sempre più larga dellapopolazione. Da qui derivano la prioritàdella governabilità e non della partecipazio-ne come unico centro del ragionamentopolitico e i diversi tentativi di modificare laCostituzione.

Se questo processo dovesse durare dav-vero fino al 2036 saremmo dentro ad unbaratro, ma già ora le cose sono gravissime.Si sta già componendo un ampio frontefavorevole a modificare la Costituzione insenso presidenzialista, ed io sono d'accordocoi compagni che dicono che questa nonsarebbe una modifica, ma un'altraCostituzione. Cambierebbe l'impiantosostanziale e formale della Costituzione equindi il modo fondamentale di regolare irapporti sociali e politici. Aggiungete a ciò iltentativo di privatizzazione della Tv pubbli-ca (già avviato in Grecia), cioè la fine di ogniminima garanzia di pluralismo effettivo,nella già stucchevole propaganda quotidianache ci dobbiamo sorbire dagli schermi. Eavete il quadro fosco che ci incombe soprala testa.

Si sta procedendo addirittura alla priva-tizzazione dei partiti politici: si è aperta unadiscussione sul finanziamento ai partiti cheprevede l'abolizione del finanziamento pub-blico, sulla scorta delle sollecitazioni populi-ste, ma non per riconsegnare ai militanti e ai

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cittadini la politica, ma per aumentare ilpeso di chi la può condizionare con le pro-prie “donazioni”, per di più a sgravio fisca-le.

E’ partito quindi un processo di adatta-mento alla stagnazione: la restrizione conti-nua della democrazia, in nome della gover-nabilità dell'emergenza, fino ad arrivare auna rappresentanza politica fondata su basiminoritarie. Ormai molti sindaci di gradicittà o presidenti di regione si appoggianosul consenso di meno del 40% della popo-lazione.

Ora, per combattere questo scenario distagnazione e questa una sorta di “democra-zia autoritaria” conseguente, occorre inter-venire a tutti i livelli, a partire da quellointernazionale. E qui faccio solo un esem-pio: perché la sinistra è così reticente adiscutere di come si protegge una economianazionale? Di come si fa una politica deidazi commerciali adatta alla situazione pre-sente e in favore dei lavoratori? I dazi con-tinuano a esistere e vengono contrattaticontinuamente dai vari settori del capitali-smo mondiale, noi però continuiamo aragionare come se non esistesse il proble-ma: se non si comincia a porre al centro irapporti internazionali, è difficile poi occu-parsi di crisi industriali,impoverimento, ecc.Perché non apriamo questa discussione asinistra?

Altro esempio cruciale: come affrontia-mo davvero il tema delle delocalizzazioni?L'altro giorno Confindustria ha dato inumeri sulla caduta dell’occupazione nelmanifatturiero, ma si è dimenticata i datidell'Istat secondo cui dal 1999 al 2008 leaziende italiane che lavorano all'esterohanno aumentato nelle filiali estere l'occu-pazione di quasi il 70%, a fronte di una ridu-zione in Italia del 20%. Altro che problemadi burocrazia ecc. come sostiene una vulga-ta: un quarto della manifattura italiana nonè scomparsa, è emigrata all'estero, dove pro-duce e aumenta l'occupazione.

Le imprese italiane hanno quasi un milio-ne e mezzo di dipendenti all'estero, preva-lentemente occupati in attività manifatturie-

re. Semplicemente i conti del Paese noncorrispondono più ai conti delle imprese,l’Italia declina mentre le sue imprese cresco-no all’estero.

Faccio questi esempi per dire, inoltre, chechi pensa e dice che è tutta la colpa dellaMerkel e della Germania e che tutto loscontro si concentrerà nelle prossime ele-zioni tedesche si sbaglia e propone stradeillusorie. La Germania ha avuto solo dueanni di crescita e ora sta entrando appienonella stagnazione, e poco si risolve, al con-trario di quello che pensano alcuni compa-gni “keynesiani”, con la trasformazionedella Bce e un po’ di politica pubblicaespansiva (che pure ci vorrebbe e darebbeun po’ di respiro). Il Giappone stampamoneta e pratica questa politica espansivarichiesta in Europa, ma nonostante questo èin una profonda crisi strutturale.

Non siamo di fronte ad una crisi conse-guenza di politiche economiche sbagliate(certo hanno contribuito ad aggravarla), masiamo di fronte a una crisi di sistema. Laspiegazione più profonda della crisi va ricer-cata nella particolare combinazione dei fat-tori produttivi del capitalismo. Questi fatto-ri andrebbero analizzati a fondo e andrebbemeglio compresa la finanziarizzazione. Eper inciso andrebbe capito anche come ècambiata la classe borghese. Consiglio la let-tura dell'ultimo libro di Gallino, nel qualespiega che metà delle principali aziendequotate nelle borse mondiali sono in manoa fondi di investimento, fondi sovrani, fondipensione, ecc. Non credo che vi abbia com-preso quelle che sono in mano alle banche,ma credo siano una buona parte dell'altrametà. Guardate che quando stiamo parlan-do di fondi e di banche, parliamo dei nostrisoldi. Oggi a capo delle maggiori imprese,non c'è il capitalista che mette i propri soldi,ci sono degli impiegati, dei dipendenti, cheutilizzano i fondi di altri per riprodurre unsistema, e sono spesso totalmente irrespon-sabili, anche rispetto all'esito dell'investi-mento. E infatti abbiamo visto bonus eliquidazioni milionarie a fronte di veri e pro-pri fallimenti. I nostri avversari principali

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non sono più gli stessi di una volta: i vecchipadroni. Il lavoro è socializzato, il capitale èsocializzato, mentre il potere e il profittosono privati: è questo il problema.

Detto questo, ed essendo consapevoliche la crisi è gravissima, e nel nostro Paesepiù che in altri, dobbiamo mettere in contoche ci potrà essere un collasso della demo-crazia. Le ultime elezioni politiche ce lapaventano. Solo una piccola parte di italianiha votato per il centro-sinistra: la maggiorparte ha votato per Grillo e per Berlusconi.Questo è un grande problema. La massadelusa da quel mattoide di Grillo la prossi-ma volta sarà ancora lì o come si comporte-rà? Se anche domani sparisse dalla scenapolitica Berlusconi, la massa dei berlusco-niani non scomparirà. Il problema di questamassa di elettori senza riferimenti è il pro-blema primario del nostro paese, perchépuò avere un impatto sulla tenuta sostanzia-le della democrazia.

Se non si apre una discussione seria asinistra di come si ridà rappresentanza eorganizzazione ad una buona parte dellapopolazione italiana, a cominciare da chilavora, non si esce democraticamente dallacrisi. E la Costituzione va praticata in primisda chi la sostiene: non conosco nessun par-tito di sinistra che abbia nell’articolo 1 delproprio statuto quanto scritto nell'articolo 1della Carta, cioè di essere fondato sul lavo-ro. Oppure sia coerente con l’articolo 3, percui bisogna operare per rimuovere tutti gliostacoli, politici e sociali, che impedisconola partecipazione dei lavoratori alla vita poli-tica del Paese. Abbiamo il paradosso di unaCostituzione centrata sul compromessosociale antifascista, che assegna un ruolofondamentale al lavoro e ai lavoratori perrealizzare una democrazia piena, e nessunpartito della sinistra che pratichi questi fon-damentali orientamenti costituzionali.

Partiamo almeno da qui: impegniamoci acostituire un forza che per fare argine allacrisi e per difendere la democrazia si fondisu un programma minimo ispirato alla rea-lizzazione della Costituzione. Siamo arrivatia discutere di questo, badate: chi me lo aves-

se detto 40 anni fa lo avrei preso per matto.Vuol dire che siamo proprio sul baratro diuna crisi democratica di questo paese.Purtroppo però non vedo questa consape-volezza minima: i partiti politici della sini-stra stanno discutendo come prima delleelezioni, negli stessi identici termini, sia chesiano radicali piuttosto che riformisti omoderati, riproponendo le linee politicheche hanno portato a questa crisi di rappre-sentanza. La sinistra è nata per rappresenta-re il lavoro: è nata proprio per quello nonper altro: tutto il resto viene dopo. Se nelpieno di una crisi di rappresentanza cosìgrave non si parte proprio da qui, difficil-mente si riuscirà a risalire la china. Non pro-poniamo quindi di aggiungere l'ennesimopartitino a quelli già esistenti, il livello è unaltro, così come la posta in gioco.

Riccardo Terzi ci esorta a trovare formenuove, perché la disaffezione delle personeai partiti è tale che la stessa parola ha assun-to per le persone un significato negativo.Ma se così stanno le cose chi c'è in Italia quied ora che possa riconnettere il sociale conla politica, se non le organizzazioni sociali,in primis il sindacato? Perfino la Cisl si stainterrogando sul suo rapporto con la politi-ca (e ho detto tutto). Le organizzazionesociali, in primo luogo ovviamente pensoalla Cgil, sono in grado di aprire una discus-sione vera su questo punto? Oppure pensa-no che potrà esserci una crisi verticale dellademocrazia senza che la loro rappresentan-za sociale possa esserne pregiudicata? C'èuna caduta del rapporto democratico con lasocietà, ed io continuo come se nientefosse, a fare accordi sindacali, a difendere ipiù deboli, a difendere le donne, ecc., comese la politica fosse affare di altri e per più,alla fin fine, ininfluente? Non credo sipossa più ragionare così, e limitarsi a giudi-care la politica fatta (o non fatta) da altri.

Come sapete la Cgil è una confederazio-ne. Confederazione non è un termine tecni-co che sta ad indicare una composizionearticolata di categorie, camere del lavoro,ecc., ma indica una soggettività politica.All'articolo 2 dello statuto della Cgil si dice

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infatti che vogliamo attuare la Costituzione(non difenderla, si badi), e per questo siamouna confederazione. E quindi un sindacatofondato su tale proposito, può sostenere, inquesta crisi radicale, che la politica faccia lapolitica mentre in quanto sindacato mioccupo del sociale, e avere al tempo stessoin quanto confederazione generale la prete-sa di discutere di tutti gli aspetti fondamen-tali della società? Non credo proprio, sen-z'altro oggi è un lusso che nessuno può per-mettersi. Se nel vuoto di rappresentanzaodierno non contribuisci a dare ai lavorato-ri uno strumento politico con cui pesarepoliticamente, non puoi continuare alamentarti della difficoltà estrema di ottene-re risultati anche sul terreno sindacale. Noi,con anche il mio voto – e qui faccio autocri-tica – nel redigere i nostri regolamentiabbiamo reso incompatibili con la politica150-200 mila lavoratori impegnati nel sinda-cato. Addirittura nel pubblico impiego sonoincompatibili con cariche politiche i membridelle Rsu: non possono fare nemmeno ilsegretario di circolo di partito nel paese piùsperduto. Questa è una tragedia. Inoltre sequalcuno pensa che la politica continuerà adandare verso populismo e partiti personalisenza che ci siano conseguenze serie sullacapacità di mobilitazione della stessa Cgil esulla sua efficacia non capisce la direzionepresa dalle dinamiche sociali e politiche.

Ho però una speranza, perché so che intutti i frangenti storici critici per la democra-zia le organizzazioni sociali di massa sonostate capaci di aprire un confronto, non solotra i gruppi dirigenti, con la massa dei lavo-ratori. Ed oggi siamo in questa condizione.Addirittura siamo in una fase che ricorda gliinizi dell'organizzazione del movimentooperaio, dove le più diverse associazioni(sindacati di categoria, società di mutuo soc-corso, camere del lavoro, associazioni socia-li, ecc.) si unirono per dar vita ad un movi-mento politico unitario in grado di rappre-sentare i lavoratori. Siamo in un frangentesimile: dove non non si tratta di discutere seavesse ragioni Kautsky o Lenin in meritoalle strategie politiche della socialdemocra-

zia di inizio Novecento (discussione chepure mi appassiona) ma delle questioni diuna fase molto precedente. Se la casa bruciabisogna innanzitutto organizzarsi tutti insie-me per spegnere l'incendio.

Quando c'è l'incendio bisogna agire; lodice anche il Vangelo: se l'asino cade nelpozzo di sabato qualcuno lo deve andare aprendere, anche se lavorare il sabato è pec-cato.

Non è accettabile che di fronte alledimensioni della crisi che abbiamo di frontenon ci sia lo spirito primario che ci ricorda-va Gaddi nel suo intervento: cosa facciamo?Non è dato, cioè, che una organizzazione di5 milioni e più di iscritti come la Cgil conti-nui a lamentarsi che non sia rappresentatapoliticamente: ti puoi lamentare per due otre anni, ma quando sono venti anni che lofai, vuol dire che o affronti il problema odimostri solo impotenza. Dovresti averechiaro che gli altri non lo vogliono fare: è unproblema tuo. Dovresti quindi muovertiperché i lavoratori che rappresenti possanoavere finalmente anche una rappresentanzapolitica degna di questo nome: pur restandoun sindacato, contribuendo a che finalmen-te nasca una organizzazione politica finaliz-zata a rappresentare i lavoratori e con loscopo di attuare la Costituzione, affinché ilavoratori possano almeno avere un ruolo,se non di direzione di mediazione con altreclassi, di governo della società, per portarlaoltre le secche della crisi, e ben prima del2036.

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La bassa crescita faaumentare il debitopubblico

T. Hernden, M. Ash, R. Pollin

Un recente lavoro di Thomas Hernden,Michael Ash e Robert Pollin (2013)dell’Università del Massachusetts – d’ora inpoi HAP – ha dimostrato che, in contrastocon i risultati apparenti in Reinhart e Rogoff(2010), non esiste una vera discontinuità o“punto di non ritorno” attorno al 90% dirapporto debito pubblico/PIL oltre il qualela crescita del PIL si arresta.

Nella loro risposta, Reinhart e Rogoff –di seguito RR – ammettono gli errori arit-metici, ma sostengono che la correlazionenegativa tra il rapporto debitopubblico/PIL e la crescita del PIL nei daticorretti supporta ancora la loro tesi origina-le. Prendendo il set di dati che HAP hannogenerosamente reso disponibile come partedel loro esercizio di replica del lavoro di RR,ho riprodotto il grafico in HAP (2013).

Il grafico mostra che esi-ste una visibile relazionenegativa tra crescita e rap-porto debitopubblico/PIL, ma comehanno evidenziato HAP, laforza della relazione è inrealtà molto più forte abassi rapporti di debitopubblico/PIL (difatti lalinea è molto più inclinata).

Nella loro risposta, RRaffermano che sono statiattenti a distinguere tracorrelazione e causalitànella loro ricerca originale.Questo è ovvio, perché se

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Il cosiddetto excelgate, la scoperta di significa-tivi errori nel famoso paper di Reinhart eRogoff sulla correlazione tra debito pubblico ecrescita, continua ad alimentare il dibattito tragli economisti. Gli autori si sono difesi soste-nendo che, anche se non è facile individuareuna “soglia” oltre la quale il debito pubblicoporta ad una crescita negativa, è pur semprevero che ad alti debiti pubblici corrisponde unacrescita più lenta.

Ma una correlazione non dice nulla circa lacausalità. In questo articolo tratto dal blog TheNext New Deal della Roosevelt Foundation simette in evidenza come, dato un certo rappor-to debito/PIL, i dati mostrano che è molto piùprobabile che la bassa crescita sia precedentetale rapporto e non successiva, come ci siaspetterebbe se fosse il debito a causare il ral-lentamento della crescita. Ciò è un indizio con-sistente per affermare che è la bassa crescitaa causare debiti pubblici elevati e non il contra-rio, come politici e istituzioni internazionalihanno sinora ritenuto. Coerentemente con ciò,l’aumento del debito pubblico porta, negli annisuccessivi al “picco”, tassi di crescita legger-mente maggiori che nel periodo precedente.La fragilità delle ipotesi teoriche alla base dellepolitiche di austerità è sempre più evidente.

la correlazione implicasse la causalità sipotrebbe affermare che è un più alto debitoche porta a una minore crescita, ossia pro-prio la lezione che molti deducono dal lavo-ro di RR!

Anche se è difficile accertare la causalitàda grafici come questo, possiamo sfruttareun modello che tiene conto delle variazioninel tempo per cercare di capire dove sta lacausalità. Ecco una semplice domanda: unalto rapporto debito pubblico/PIL “preve-de” meglio i tassi di crescita futuri, o quellipassati? Se vale la prima ipotesi, essa sareb-be coerente con l’argomento che i livelli didebito elevati causano tassi di crescita nega-tivi. Viceversa, se il più alto debito “predi-ce” i tassi di crescita passati, quella è un’in-dicazione di causalità inversa, ovvero sono itassi di crescita bassi negli anni precedentiche “causano” l’alto debito.

Qui di seguito ho creato dei grafici sti-mando come varia il rapporto debito pub-blico/PIL di ogni anno (grafico a sinistra)in base alla crescita media del PIL nei 3 annisuccessivi, e (grafico a destra) in base allacrescita media del PIL nei tre anni prece-denti.

GRAFICO 2: Tassi di Crescita Futuri e Passati eAttuale Rapporto Debito Pubblico/PIL

Come è evidente nel grafico a sinistra, ilvalore del rapporto debito pubblico/PIL è

uno scarso predittore della futura crescitadel PIL a rapporti debito pubblico/PIL del30% o superiore (la linea oltre quella sogliaè quasi orizzontale, la relazione è quasinulla), l’intervallo in cui ci si potrebbe aspet-tare di trovare un punto di svolta dinamico.Ma, nel grafico a destra, il valore del rappor-to debito pubblico/PIL fa un ottimo lavoronel “predire” la crescita passata (la lineacontinua a essere inclinata negativamente, larelazione persiste).

Questo modello è un’indicazione rivela-trice di causalità inversa, dalla crescita alrapporto debito pubblico/PIL.

Ma perché succederebbe questo? Perchéun calo della crescita dovrebbe aumentare ilrapporto debito pubblico/PIL?

Uno dei motivi è proprio algebrico. Ilrapporto ha un numeratore (il debito) e undenominatore (il PIL): un calo del PILaumenterà meccanicamente il rapporto.Anche se la crescita del PIL non diventanegativa, una continua crescita del debitounita ad un rallentamento della crescita delPIL porterà allo stesso modo ad un aumen-to del rapporto debito pubblico/PIL.

Inoltre vi è anche una storia meno mec-canica. Una recessione portaad un aumento della spesaattraverso gli stabilizzatoriautomatici, come ad esem-pio l’assicurazione contro ladisoccupazione. E i governidi solito finanziano questemisure con maggiore indebi-tamento, come i testi univer-sitari di macroeconomia cidicono che i governi dovreb-bero fare. Questo è ciò che èsuccesso negli Stati Unitidurante la passata recessio-ne. Questi grafici sono coe-renti con una storia del gene-re. Quindi per fare un calco-

lo econometrico corretto, quando si guarda-no le correlazioni tra l’attuale rapportodebito pubblico/PIL e la crescita del PILpassato o futuro, si dovrebbe anche tenereconto del rapporto debito pubblico/PIL

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passato o futuro. Un modo standard di farequesto è di utilizzare un modello “a ritardidistribuiti” – che significa semplicementeregredire la crescita del PIL su una serie ditermini in avanti e in ritardo nel debito inrapporto al PIL, e quindi formare una“risposta all’impulso” da, diciamo, un ipote-tico aumento di 10 punti del rapporto debi-to pubblico/PIL.

La figura 3 riporta queste risposte all’im-pulso. Quello che troviamo è esattamente ilmodello coerente con la causalità inversa.

Il modo di leggere questo grafico è quel-lo di andare da sinistra a destra.

Qui “-3? rappresenta 3 anni prima del-l’aumento di 10 punti del rapporto debitopubblico/PIL, “-2? rappresenta 2 anniprima dell’aumento, ecc. Il grafico mostrache i tassi di crescita del PIL erano insolita-mente bassi e discendenti prima dell’au-mento di 10 punti del rapporto debito pub-blico/PIL. Se si calcola la media dei diffe-renziali di crescita dei 3 anni precedenti l’au-mento del debito (vale a dire, i valori asso-ciati a -3, -2, -1 sull’asse X), essa è dello -0.6% di crescita inferiore rispetto al solito. Alcontrario, il tasso medio di crescita nei 3anni successivi all’aumento di 10 punti delrapporto debito pubblico/PIL è 0.2 % piùalto del solito.

GRAFICO 3: Risposta all’Impulso del Tasso diCrescita del PIL da un aumento di 10 punti nel rap-porto Debito Pubblico/PIL

Che cosa significa tutto questo? Essodimostra che, semplicemente in termini dicorrelazioni, un aumento di 10 punti delrapporto debito pubblico/PIL nei dati RR èassociata con uno 0.6 % di crescita piùbassa nei 3 anni precedenti l’aumento, men-tre si verifica una crescita leggermente mag-giore del solito negli anni successivi all’au-mento del rapporto debito/PIL. Durantel’anno dell’aumento del rapporto debitopubblico/PIL la crescita del PIL è veramen-te bassa, coerente con l’effetto algebrico diuna più bassa crescita che porta a un rap-porto tra debito pubblico e PIL superiore.

Dunque, questi semplici esercizi suggeri-scono che la grezza correlazione tra il rap-porto debito pubblico/PIL e la crescita delPIL riflette probabilmente una discreta cau-salità inversa. Utilizzare le correlazioni inmodo semplicistico come fatto da RR nonbasta per identificare dei nessi di causalità.

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NOVITÀ EDIZIONI PUNTO ROSSOGian Paolo Patta

PLUSVALORE D’ITALIAIl buon uso di Marx per capire la crisi

mondiale e del nostro PaesePrefazione di Nicola NicolosiIntroduzione di Sergio Ferrari

Come siamo giunti alla crisi più grave deldopoguerra? Davvero la causa è l’insolvenzadi quei cittadini americani che non sono riu-sciti a ripagare i mutui contratti per l’acquistodell’abitazione, concessi da banche che nonsi sono preoccupate di verificare preventiva-mente la loro solvibilità? Davvero un Paesecome gli Usa che ha vissuto per anni suldebito pubblico e privato, dei cittadini comedelle imprese, oltre a quello della bilanciacommerciale, è scivolato su un complesso didebiti non tutti inesigibili e almeno in partecoperti dal valore degli immobili, che ammon-tava intorno al 10% del Pil di un anno? Poco, rispetto al complesso di debiti correntie accumulati nel tempo da quella economia.Poco, rispetto ai circa 4000 Miliardi di dollarispesi dagli Usa nelle operazioni di guerrapost 11 settembre. Davvero sono fallite grandi banche e impresenegli Usa come in Europa per questa ragio-ne?..

Collana Il presente come storiapagg. 236, 15 euro.

La recessione ètrainata dalla dinamica del credito.Per combatterlaoccorre l’interventodel pubblico

Guglielmo Forges Davanzati

A partire dallo scoppio della crisi è in attouna consistente riduzione dell’offerta di cre-dito su scala globale. Tuttavia il comporta-mento delle banche risponde a criteri piena-mente razionali in una logica di massimizza-zione dei profitti. Ecco perché, se davverosi vuole uscire dalla spirale perversa che stastrangolando la nostra economia, deveintervenire l’operatore pubblico.

L’allarme lanciato da Confindustria – edal Governatore Draghi – sui rischi chel’economia italiana corre a seguito dell’in-tensificarsi della restrizione del credito ban-cario non può essere lasciato cadere nelvuoto. Nelle condizioni date, infatti, dallestrategie perseguite dalle nostre banche nonci si può che aspettare un ulteriore aumentodel numero di fallimenti di imprese e ulte-riori significative riduzioni degli investimen-ti, con effetti negativi su occupazione, salarie tasso di crescita. Non vi è dubbio che, apartire dallo scoppio della crisi, sia in attouna consistente riduzione dell’offerta di cre-dito su scala globale, con effetti di compres-sione degli investimenti e dell’occupazione,così come non dovrebbero esserci dubbi sulfatto che le politiche di austerità messe inatto negli ultimi anni hanno amplificato ilproblema, in particolare in Italia. La condi-zione nella quale oggi ci troviamo richiama,mutatis mutandis, il keynesiano paradosso

della “scarsità nell’abbondanza”: a fronte dirilevanti iniezioni di liquidità nel sistema,con un tasso di interesse BCE collocato alminimo storico dello 0.75%,, la liquiditàpotenzialmente disponibile per le imprese èdi entità estremamente modesta ed è incostante riduzione.

Va rilevato, tuttavia, che il comportamen-to delle banche risponde a criteri pienamen-te razionali in una logica di massimizzazio-ne dei profitti, e che esso è reso possibile econveniente dal combinato delle politiche diausterità e della deregolamentazione deimercati finanziari.

Il fondamento di razionalità che è allabase della riduzione dell’offerta di creditorisiede in questo meccanismo. La cadutadella domanda aggregata – derivante dallariduzione della spesa pubblica e soprattuttodall’aumento della pressione fiscale – rendepiù rischiosi i finanziamenti, dal momentoche riducendo i profitti, riduce conseguen-temente il valore delle garanzie che leimprese possono offrire.

A seguire, le banche concedono menoprestiti e tendono a concederli prevalente-mente, se non esclusivamente, a imprese digrandi dimensioni, la cui probabilità di falli-mento viene stimata, di norma, inferiore aquella delle piccole e medie imprese (che,incidentalmente, costituiscono la grandemaggioranza delle imprese italiane). In più,potendo le banche ottenere profitti median-te attività speculative, diventa per loro pococonveniente assumere il rischio del finanzia-mento di progetti di investimento. Si consi-deri, a riguardo, che – su fonte Bancad’Italia – la gran parte delle risorse ricevutedalle banche commerciali attraverso la rac-colta di depositi e soprattutto dalla BCE èdestinata, ad oggi, prevalentemente all’ac-quisto di titoli di stato UE.

A questo si aggiunge un problema ulte-riore. Come documentato, fin dal 2010,dalla Banca d’Italia, la riduzione del creditoattiene anche al lato della domanda, ovverodipende anche dalla riduzione della doman-da di finanziamenti espressa dalle imprese.Il fenomeno può essere spiegato alla luce

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delle seguenti ragioni: 1) La riduzione delladomanda di finanziamenti bancari dipendecertamente dal peggioramento delle aspet-tative imprenditoriali, e, dunque, dallavolontà da parte delle imprese di non accre-scere i loro investimenti, o di posticiparli.

2) Vi sono poi fattori che incidono sullanecessità di indebitarsi. In particolare, ladecisione di domandare credito da partedelle imprese può essere messa in relazioneall’andamento dei salari e dell’occupazione.Si consideri innanzitutto che l’indebitamen-to delle imprese nei confronti del sistemabancario serve, alle imprese stesse, princi-palmente per la retribuzione dei fattori pro-duttivi (e, dunque, anche dei salari). In unacondizione, come quella attuale, nella qualei salari (monetari e reali) sono in costanteriduzione, ed è in costante riduzione il tassodi occupazione, non c’è da stupirsi se leimprese ricorrano sempre meno al creditobancario e sempre più all’autofinanziamen-to. Su queste dinamiche, l’evidenza empiricaè inoppugnabile. Come documentato dallaBanca d’Italia, a partire dal 2009 si è assisti-to a una continua e significativa riduzionedella domanda di finanziamenti per capitalecircolante, oltre a un declino, ancora piùmarcato, della domanda di finanziamentiper investimenti. Al tempo stesso, comeevidenziato, fra gli altri, dall’IRES, i salarimonetari e reali hanno subìto una massicciacontrazione nel corso degli ultimi anni, conparticolare riferimento al triennio 2009-2012.

Il circolo vizioso che ne deriva è cosìschematizzabile. A fronte della riduzionedei salari, si riduce la necessità per le impre-se di accrescere la loro domanda di credito,a condizione che esse abbiano fondi internidi entità tale da poter consentire loro dipagare i propri dipendenti al salario corren-te. In una prospettiva di medio-lungo termi-ne, questo implica una continua erosionedei profitti, con conseguente caduta degliinvestimenti, dell’occupazione e dei salari. Ilmeccanismo si autoalimenta da momentoche la compressione dei salari, riducendo iconsumi, ha un effetto negativo sui profitti,

sul piano macroeconomico, spingendo leimprese a praticare ulteriori politiche dicompressione dei salari e/o a ridurre l’occu-pazione. In tal senso, vi sono effetti diretroazione fra dinamiche del mercato dellavoro e dinamiche del mercato del credito,nel senso che variazioni di occupazione esalari agiscono sulla domanda e l’offerta dicredito, così come variazioni della domandae dell’offerta di credito hanno effetti su sala-ri e occupazione. In più, al ridursi dell’offer-ta di credito tende a ridursi anche la doman-da di credito: con elevata probabilità di nonricevere quanto richiesto, può diventarerazionale, per le imprese, smettere di cerca-re finanziatori . In più, in condizioni di forterestrizione del credito, l’aumento dellanumerosità di fallimenti di impresa compor-ta una contrazione della domanda comples-siva di finanziamenti.

3) E’ anche da considerare il fatto che lariduzione dell’indebitamento può essereconveniente per le imprese, dal momentoche ne riduce le passività finanziarie, con-sentendo loro di ridurre i costi di produzio-ne e di recuperare, per questa via, margini dicompetitività. E’ evidente che la singolaimpresa può trovare conveniente ridurre lasua esposizione debitoria, se è in condizio-ne di pagare meno i propri dipendenti (e/olicenziare o non assumere) e investire meno.Ma l’effetto macroeconomico di una ridu-zione generalizzata della domanda di credi-to non può che manifestarsi sotto forma diminori consumi e minori investimenti,generando, di conseguenza, incrementi didisoccupazione e riduzione dei salari.

In un’economia di mercato, è impossibi-le obbligare le banche a finanziare le impre-se e a non utilizzare le risorse a loro destina-te dalla Banca Centrale per fare denaro amezzo di denaro. In un’economia di merca-to, per l’esperienza fatta in questi ultimianni, sono anche inefficaci interventi diregolamentazione del settore. Ed è, delresto, opinabile la tesi, sostenuta in ambitoconfindustriale, secondo la quale il proble-ma potrebbe essere in parte risolto bloccan-do la delocalizzazione delle attività finanzia-

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rie. E’ vero che (su fonte ANIA) solo il2.5% del patrimonio delle assicurazioni ita-liane è investito in obbligazioni di impreseitaliane, a fronte del 14.5% impegnatoall’estero su titoli analoghi. Ma non si capi-sce per quale ragione, dal punto di vistaconfindustriale, occorrerebbe interferirenelle libere scelte degli operatori finanziari,preludendo la possibilità di agire sulle analo-ghe scelte di delocalizzazione delle impreseprivate.

Sembra, dunque, ragionevole che sia solol’operatore pubblico a potersi far carico delproblema, inibendo la spirale perversa deglieffetti recessivi prodotti dall’operare delsistema bancario. Lo può fare in due modi:nazionalizzando gli istituti di credito eaccrescendo i mercati di sbocco attraversopolitiche fiscali espansive. Lo può fare, ameno di non incorrere in veti di naturapuramente ideologica: dopo tutto, in questogioco a perderci è soprattutto il capitale (eovviamente il lavoro), a guadagnarci èessenzialmente la rendita finanziaria.

da Micromega online

Reddito sì,ma da lavoro

Giorgio Lunghini

L’autonomia economica e politica delle per-sone presuppone un reddito da lavoro. Ilreddito di cittadinanza corre il rischio di faraumentare il numero dei non occupati e laloro l'emarginazione, lasciando irrisolta laquestione dei bisogni sociali insoddisfatti

Forse per ragioni di età, sono ancoraaffezionato alla idea di Adam Smith e allaCostituzione. Secondo Smith, “Il lavorosvolto in un anno è il fondo da cui ogninazione trae in ultima analisi tutte le cosenecessarie e comode della vita che in unanno consuma”. Più breve e efficace,l’Articolo 1 della Costituzione recita:“L’Italia è una Repubblica democratica,fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul red-dito. Circa il reddito di cittadinanza o altreforme di reddito garantito, d’altra parte,non ho cambiato l’idea che coltivavo qual-che anno fa, e qui la riprendo.

Quando una improbabile crescita del-l’economia è sì condizione necessaria perrealizzare la piena occupazione, ma nonanche sufficiente, il problema di fondo diuna società capitalista si aggrava. Problemadi fondo che si può evocare con questodisegnino.

Se si è d’accordo su ciò, e se si convieneche presupposto della democrazia è lademocrazia economica; e che a sua volta lademocrazia economica presuppone la mas-sima occupazione possibile e una distribu-

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zione della ricchezza e del reddito né arbi-traria né iniqua, allora si deve anche conve-nire che nessuna forma di reddito garantitocostituisce una soluzione del problema. Ilreddito di cui dispongono i lavoratori nonoccupati è il risultato di un trasferimento daparte dei lavoratori occupati, attraverso loStato o direttamente all’interno della fami-glia. Quel reddito è semplicemente l’eccessodel salario percepito dai lavoratori occupatirispetto al costo di riproduzione di questi. Ilpalliativo rappresentato da un reddito di cit-tadinanza o di esistenza non risolverebbe laquestione dell’autonomia economica e poli-tica dei non occupati, probabilmente neaumenterebbe il numero, ne certificherebbel’emarginazione, favorirebbe il voto discambio e lascerebbe irrisolta la questionedei bisogni sociali insoddisfatti.L’autonomia economica e politica presup-pone un reddito da lavoro.

Diverse e positive sarebbero le conse-guenze dell’altra soluzione cui si può pensa-re: una riduzione generalizzata dell’orario dilavoro; tuttavia una politica di riduzione del-l’orario di lavoro (a parità di salario) suscitaoggi ovvie e probabilmente insuperabiliresistenze da parte dei capitalisti, e implici-tamente assume che le merci possano sod-disfare tutti i bisogni. Nello stato attuale delmondo, la redistribuzione del lavoro comeforma di trascendimento è una prospettivada perseguire con determinazione ma diffi-cilissimamente praticabile in un paese solo,se non altro per i vincoli di competitività nelsettore che produce sovrappiù. Per tutta lalunga durata della depressione che si annun-cia, la riduzione dell’orario di lavoro rischiadi essere una forma di rispettabile compro-messo aziendale tra capitale e lavoratorioccupati, che però non fa diminuire ladisoccupazione e rimane confinato alla logi-ca della produzione di merci. L’idea che giu-stifica le politiche di riduzione dell’orario dilavoro è quella di una ripartizione dei gua-dagni di produttività tra imprese e lavorato-ri, in termini, per questi ultimi, di minoritempi di lavoro anziché di maggior salario.Dunque presuppone salari di partenza rela-tivamente elevati e una situazione economi-ca e sociale florida, tendenzialmente di

piena occupazione. L’esatto contrario dellasituazione attuale. Altrimenti si tratta dilicenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio diaspettative di stabilità del posto di lavoro,ma con una ulteriore divisione tra occupatie non occupati e con una maggiore ‘flessibi-lità’ all’interno della fabbrica e sul mercatodel lavoro.

Il livello della produzione capitalisticanon viene deciso in base al rapporto tra laproduzione e i bisogni sociali, i bisogni diuna umanità socialmente sviluppata, bensìin base al saggio dei profitti. La produzionedi merci si arresta non quando i bisognisono soddisfatti, ma quando la realizzazionedel profitto impone questo arresto. Anchese la produzione di merci riprendesse a cre-scere, non si avranno variazioni significativenell’occupazione se non in lavori servili,precari e a basso reddito. Si avrà dunqueuna crescita sia dei bisogni sociali insoddi-sfatti sia della disoccupazione. La soluzionedi questo problema – troppe merci, pocolavoro – va cercata altrove, al di fuori delladimensione capitalistica e mercantile dellasocietà. C’è oggi coincidenza tra una situa-zione di crisi gravissima e prospettive dinuovi spazî politici. Non si tratta di usciredal capitalismo, ma di occupare quella terradi nessuno dell’economia e della societànella quale le merci non pagano. Questaterra esiste, lo dimostrano da un lato i tantibisogni sociali insoddisfatti, dall’altro letante attività che non sono mosse dall’obiet-tivo del profitto. Volontariato, associazioni-smo, movimenti ambientalisti, cooperative,centri sociali, attività tutte sospette in quan-to non si piegano al criterio del calcolo e dellucro, sono tutti segni non sospetti di questarealtà (al punto che a queste attività si asse-gna una funzione surrogatoria).

Nella produzione di merci “col caratteredi utilità dei prodotti del lavoro scompare ilcarattere di utilità dei lavori rappresentati inessi, scompaiono dunque anche le diverseforme concrete di questi lavori, le quali nonsi distinguono più, ma sono ridotte tutteinsieme a lavoro umano eguale, lavoroumano in astratto”. Si tratta proprio di ciò,di promuovere e organizzare lavori concreti(in contrapposizione al lavoro astratto

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impiegato nella produzione di merci), lavoridestinati immediatamente alla produzionedi valori d’uso, lavori che non siano meriammortizzatori sociali, ma lavori capaci disoddisfare i bisogni sociali che la produzio-ne di merci non soddisfa. Così come ci sonobisogni assoluti e bisogni relativi, ci sonoservizi tecnicamente individuali e servizitecnicamente sociali. L’azione più impor-tante dello Stato, attraverso istituzioniappropriate e tutte da inventare, si riferiscenon a quelle attività che gli individui privatiesplicano già, ma a quelle funzioni checadono al di fuori del raggio d’azione degliindividui, a quelle decisioni che altrimentinessuno prende, a quanto altrimenti non sifa del tutto.

Si tratterebbe dunque di destinare partedel sovrappiù realizzato nella produzione dimerci, alla messa in moto non di lavoroimproduttivo (nel senso smithiano-marxia-no del termine) destinato al soddisfacimen-to di bisogni relativi, ma alla promozione dilavori immediatamente destinati alla soddi-sfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavoriprestati non nella sfera della produzione dimerci ma nella sfera della riproduzionesociale e della manutenzione almeno del-l’ambiente. Principalmente lavori di cura, insenso lato, delle persone e della natura.Lavori di cui vi è una domanda che i merca-ti del lavoro e delle merci non registrano,perché corrispondono a bisogni privi dipotere d’acquisto individuale.

Mentre il lavoro astratto socialmentenecessario dipende dalle tecniche di produ-zione adottate nella produzione di merci e siscambia sul mercato del lavoro, i lavori con-creti dipendono dai bisogni sociali, questi sìinesauribili, e si scambiano non su un mer-cato ma nella società. In quanto intesi alsoddisfacimento di bisogni sociali, i lavoriconcreti hanno di necessità una dimensioneterritoriale ben precisa e richiedono eimpongono forme democratiche di rileva-zione e controllo locale della domanda e diorganizzazione decentrata dell’offerta. Ilavori concreti non sono esposti alla con-correnza internazionale e devono risponde-re a criteri di efficacia piuttosto che di effi-cienza competitiva. A parità dei salari

monetari consentiti dalla congiuntura capi-talistica e dai rapporti tra capitale e lavorosalariato, i valori d’uso prodotti dai lavoriconcreti comporterebbero un aumento deisalari reali e non avrebbero effetti inflazio-nistici. Per il lavoro astratto i lavori concretinon sarebbero un onere ma un arricchimen-to, poiché producendo valori d’uso servonodirettamente a soddisfare i bisogni sociali,ma indirettamente servono anche a miglio-rare le condizioni e la stessa produttività deivalori di scambio prodotti dal lavoro astrat-to.

Le risorse si potrebbero trovare facil-mente: se mai si volesse provvedere all’euta-nasia del rentier, e alla costituzionale pro-gressività delle imposte sui redditi e sullericchezze. Tuttavia di questo disegno occor-re considerare gli aspetti politici, poiché sitratterebbe di governare una transizione dalparadosso della povertà nell’abbondanza aquello stato dell’economia e della societàprefigurato da Lafargue e da Keynes. Ancheper le sue implicazioni tecniche e organizza-tive, questa è una prospettiva di benesserenell’austerità, ma meglio sarebbe dire dibenessere nella sobrietà. Un discorso sul-l’austerità che si limiti a una critica del con-sumismo e all’esortazione moralistica è undiscorso politicamente sterile. L’alternativanon è tra benessere e austerità, è tra le pos-sibili forme di austerità: la miseria che ciaspetta se si lascia fare, rivestita di formenuove di fascismo, oppure una vitale sobrie-tà. L’apologia del mercato nasconde il dise-gno di cancellare la politica, riducendola aamministrazione dell’esistente. Questaopera di disvelamento e di persuasione ècompito della politica, della politica inquanto critica, indirizzo e governo del pro-cesso economico-sociale di produzione eriproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammo-nisce un grande intellettuale, che non tantol’intellettuale quanto l’uomo in generale sisenta responsabile di qualche cosa d’altroche di procacciare cibo ai suoi piccoli, fin-ché non gli sarà segato l’albero su cui si ècostruito il nido.

da sbilanciamoci.info

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Il dualismo insuperato dell’economia italiana

Carmen Vita

Tra il 2007 e il 2012 il Prodotto internolordo italiano ha subito una flessione dioltre il 7%, così imputabile alle due macroa-ree del Paese: circa il 6% al Nord, quasi il10% al Sud . Un risultato che ha fatto com-piere al Mezzogiorno ha un salto indietronel tempo, sino ai valori registrati nel lonta-no 1997, con effetti drammatici sui livellioccupazionali[2]. Ciò rende sinteticamenteevidente che, sebbene la crisi economicainternazionale interessi tutta l’economia ita-liana, il Mezzogiorno ne conosca le le con-seguenze più gravi.

D’altronde i nodi da sciogliere delMezzogiorno sono sostanzialmente i mede-simi degli anni del secondo dopoguerra:grande peso delle attività primarie, arretra-tezza tecnologica, inadeguatezza delle infra-strutture materiali e immateriali, ridotto spi-rito imprenditoriale, bassa produttività,bassi salari, forte spinta all’emigrazione[3].Il risultato di tutto questo è che se il Centro-Nord tende a perdere contatto con i ritmi dicrescita delle aree centrali d’Europa, nel Sudla “desertificazione industriale” procede apassi da gigante[4].

Insomma, il dualismo continua a caratte-rizzare l’economia italiana. L’unico verotentativo di mettere in moto un processo diconvergenza tra le due partizioni del Paeserisale all’intervento straordinario[5] operatocon la Cassa per il Mezzogiorno[6] tra il1950 e il 1975[7]. Successivamente, il divariotra le due macro aree del Paese è tornato acrescere o, nella migliore delle ipotesi, a sta-bilizzarsi. Eppure, dopo l’intenso dibattito

degli anni cinquanta, sessanta e settantal’analisi delle vicende economiche italianeha generalmente cessato di essere condottain chiave dualistica[8], in particolar modo apartire dagli anni ottanta. A ciò hanno con-tribuito alcuni fattori. Da un lato, se inizial-mente l’intervento straordinario aveva pun-tato sugli investimenti produttivi, successi-vamente, dopo la metà degli anni settanta,proprio quando maggiore era la necessità diuna azione pubblica efficiente in grado diadattarsi ai mutamenti nelle convenienzelocalizzative e nell’adeguamento della pro-duzione alle nuove condizioni di mercato,hanno prevalso interventi a sostegno deiredditi, spesso con caratteri assistenziali eclientelari. Dall’altro lato, al declino delmodello di sviluppo industriale basato sul-l’intervento pubblico in comparti industria-li a elevata intensità di capitale, venne con-trapponendosi l’affermazione di un model-lo basato sullo sviluppo dell’imprenditorialocale, improntato a criteri di spiccata spe-cializzazione, in una logica di forte integra-zione europea e internazionale[9].

L’esaurimento dell’intervento straordina-rio[10] - concretizzatosi tra la fine degli anniottanta e i primissimi anni novanta - havisto anche un calo degli investimenti pub-blici nel Mezzogiorno, anche per i vincoliimposti dal processo di integrazione euro-pea. E da allora si registra una progressivaulteriore apertura della forbice tra Nord eSud. Il problema del Mezzogiorno vienespesso, tuttavia, ricondotto ai vincoli e allerigidità del mercato del lavoro[11] e dellaformazione del capitale sociale, vincoli erigidità che impediscono il pieno funziona-mento dei mercati dei fattori produttivi e laloro allocazione efficiente tra le varie areedel paese. Tutto ciò si colloca sullo sfondodelle vicende europee: l’unificazione mone-taria europea e la sua tendenza a spostare ilbaricentro economico-finanziario verso ilNord-Europa.

Ma la storia recente ci racconta che inEuropa, così come in Italia, i divari tra leregioni sembrano destinati a perdurare e, inalcuni casi, persino a rafforzarsi[12].

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L’ottimismo dei modelli che poggiano sullafiducia che le aree arretrate possano trarrevantaggio nell’integrazione con aree svilup-pate è stato vistosamente smentito. Il liberoagire del meccanismo di mercato, sia sulfronte del lavoro, sia su quello della capaci-tà produttiva legata alla tipologia delle tecni-che produttive adottate, non ha permessoche le regioni meno sviluppate agganciasse-

ro lo sviluppo delle regioni più avanzate. Ilvantaggio comparato rappresentato dalminor costo del lavoro nel Mezzogiornonon ha generato l’atteso riequilibrio territo-riale. L’esperienza storica mostra quindiche, se lasciate all’azione spontanea deimeccanismi di mercato, le posizioni relative,di vantaggio o di svantaggio, possono persi-stere nel tempo per effetto dei meccanismidi “causazione circolare e cumulativa” chepotenzialmente si muovono in una direzio-ne contraria rispetto allo “sviluppo armo-nioso” di una area integrata[13]. Una voltache la produzione si è polarizzata in areespecifiche e in determinati settori, non cipuò poi attendere uno spontaneo processodi diffusione di iniziative imprenditoriali inaltre aree. Si innesca, invece, un processocumulativo di divergenza per cui: nelleregioni in cui si concentra una struttura pro-duttiva più efficiente e prevale la cosiddettadomanda ricca è favorito il processo di inve-stimento e quindi di espansione; mentre leregioni la cui attività produttiva è legata alladomanda povera subiscono un rallentamen-to negli investimenti e nel processo espansi-vo. A ciò si aggiunga che le specializzazioniproduttive tendono a riprodursi nel tempo ea strutturarsi, manifestando un legame dicausalità con le strutture economiche, socia-li e istituzionali, tendenza che le forze dimercato non riescono a correggere.

Applicata ad un sistema dualistico, talecircostanza tende ad accentuare progressi-vamente il divario. In più, privilegiare più omeno esplicitamente una competitività daprezzi, significa impedire la trasformazionedella specializzazione produttiva e conse-gnare alla flessibilizzazione del mercato dellavoro il peso della competitività internazio-nale. Evidentemente, questa prospettiva hafinito per aggravare ulteriormente lo svan-taggio delle aree meno sviluppate: anche learee forti hanno premuto per una sempremaggiore flessibilizzazione del mercato dellavoro e un sempre minore intervento delloStato nell’economia[14] col risultato chementre nelle aree forti la crescita del reddi-to è affidata a economie esterne, rendimen-

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ti crescenti e fattori agglomerativi nelle aree“deboli” la deregolamentazione del mercatodel lavoro e il venir meno del sostegno dellostato sociale, in aggiunta al già più bassolivello di occupazione e di partecipazione,producono una riduzione del Pil pro capite.Il divario si acuisce.

Queste dinamiche riportano l’attenzionesulla caratteristica cumulativa del processodi divergenza e sui modelli di sviluppo dua-listico. Riconsiderare il sistema economicoitaliano in chiave dualistica – con le dovuteimplicazioni in termini di politica economi-ca – e reimpostare conseguentemente lepolitiche di sviluppo sembra quanto maiopportuno.

da economiaepolitica.it

Note

[1] Svimez (2013), Una politica di sviluppo del Sudper riprendere a crescere, 6 febbraio 2013, Roma.Seppure il riaprirsi della forbice tra Nord e Sud risal-ga agli anni settanta – eccenzion fatta per brevi paren-tesi di stasi o timida riduzione – sembra che l’entitàdel divario sia notevolmente cresciuta proprio negliultimi anni in concomitanza con l’attuazione di piùstringenti politiche di austerità.

[2] Dati 24° Report Sud di Diste Consulting-Fondazione Curella sul II semestre del 2012.

[3] Sulla circolarità della relazione “impoverimen-to-emigrazione-impoverimento” si rimanda, in questarivista, all’articolo di G. Forges Davanzati, Le emigra-zioni e la crisi del Mezzogiorno.

[4] Svimez, Rapporto sull’economia delMezzogiorno nel 2012, il Mulino, Bologna.

[5] Per una ricostruzione dell’intervento straordi-nario e della attività della Cassa per il Mezzogiornocfr. S. Cafiero (2000), Storia dell’intervento straordi-nario nel Mezzogiorno (1950-2003), Lacaita Editore,Manduria-Bari-Roma.

[6] La Cassa per il Mezzogiorno fu fortementevoluta da Pasquale Saraceno che, col supporto teori-co del “nuovo meridionalismo”, sottolineava la rile-vanza strategica dell’industrializzazione per la soluzio-ne della questione meridionale ma anche, più in gene-rale, per la crescita dell’economia nazionale.

[7] Sulla “convergenza” del Mezzogiorno verso ilresto del paese nel periodo citato, l’opinione riscon-trabile in letteratura è sostanzialmente unanime.

[8] Per una rassegna sui modelli dualistici elabora-ti tra gli anni cinquanta-settanta del Novecento e ildibattito tra gli economisti che ne conseguì sia con-sentito rinviare a C. Vita, Il dualismo economico in

Italia. La teoria e il dibattito (1950-1970),FrancoAngeli, Milano, 2012.

[9] Si veda a riguardo in questa rivista U. Marani, Iluoghi comuni del “Piano per il Sud”.

[10] Secondo alcuni studiosi, il modello di svilup-po dall’alto sotteso all’intervento straordinariorispondeva solo ad una logica dirigistica e finiva con ilprivilegiare progetti particolari piuttosto che progettidi interesse generale. Tra gli altri, C. Trigilia (1996),“Una nuova occasione per il Mezzogiorno”, inEconomia Italiana, n.2, e G. Viesti (2004), Abolire ilMezzogiorno, Laterza. Bari.

[11] Una riproposizione delle le disparità salarialie, eventualmente, dell’emigrazione come soluzionealla “questione meridionale” porta, sul piano teorico,ad una retrodatazione del dibattito ai tempi dell’anali-si di Vera Lutz, secondo la quale le imperfezioni delmercato del lavoro rappresentavano la causa principa-le del dualismo Nord-Sud. Con specifico riferimentoalle questioni salariali cfr., in questa rivista, gli articolidi R. Patalano e R. Realfonzo, Salari meridionali ingabbia, e di G. Colacchio, Mezzogiorno in gabbia.

[12] Cfr., tra gli altri, R. Realfonzo e C. Vita (a curadi ) (2006), Sviluppo dualistico e Mezzogiornid’Europa. Verso nuove interpretazioni dei divariregionali in Europa e in Italia, FrancoAngeli, Milano.

[13] L’impatto dell’apertura internazionale ed inparticolare il ruolo svolto dalla domanda estera neldeterminare una configurazione di sviluppo di tipodualistico è stato analizzato da Graziani in Lo svilup-po di una economia aperta, ESI, Napoli del 1969. Ilmodello proposto da Graziani descriveva in manieraesaustiva i tratti del processo di sviluppo italiano deglianni cinquanta-sessanta ma potrebbe essere valida-mente ripreso per rappresentare l’attuale situazioneeconomica nazionale.

[14] La necessità di rafforzare il ruolo dello Statonell’economia attraverso una politica industrialenazionale con funzione trainante che parta propriodalle regioni meridionali è, invece, ribadita, tra gli altri,da F. Pirro, La grande industria abita ancora ilMezzogiorno e Il Mezzogiorno riparte dalle impresepubbliche, in questa rivista.

esteri

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Il programma disviluppo regionaledella Lombardia,ovvero il silenziocomplice degliinnocenti

M. Agostinelli, R. Romano

Il quadro culturale di riferimento

La Regione Lombardia si appresta a ini-ziare la sua X legislatura, con a capo dellagiunta regionale Roberto Maroni. I tre lustridi sovranità formigoniana, anche culturale,avevano reso la Lega sostanzialmente suc-cube di un modello che, per patto tacito,lottizzava financo gli illeciti di cui oggi tuttisono a conoscenza, ma che si fondava suuna razionalità organica elaborata in pro-prio da Comunione e Liberazione, a cui ileghisti fornivano solo la copertura diun’identità locale antistato corroborata dauna solidarietà limitata ai residenti. Secondola Lega i frutti avvelenati che piovono fatal-mente sui dannati del Nord sono il “carovi-ta per la povera gente, mutui bancari chestrangolano le famiglie, inquinamento chemina la salute e guerre diffuse”. Per guada-gnar tempo venivano proposti dazi e prote-zionismo locale, insieme ad un allentamen-to dei vincoli europei per le imprese.

Niente di preciso, ma una leggenda chespalancherebbe i cancelli di un purgatorioche si conosce bene e da cui, prima o poi, siaccede al paradiso dei ricchi. Una policy chenon lascia isolati i cittadini lombardi, inter-cetta la solitudine degli operai lombardi e,mentre descrive la materialità della regionepedemontana, pulsante di fatica e trasudan-te timore per una ricchezza a perdere, pre-scrive un comunitarismo in cui immedesi-

marsi: “rilancio dei valori: identità, tradizio-ni, ordine, responsabilità, famiglia, federali-smo”. Tutti argomenti che fanno da titoli aicapitoli del Piano Regionale di Sviluppo(PRS) presentato da Maroni e che hannoavuto ancora il loro peso nella campagnaelettorale da lui vinta. Liberismo, comunita-rismo e leghismo risultano quindi natural-mente alleati e descrivono compiutamenteuna società ricca che affronta la globalizza-zione difendendo, finché possibile, i suoiprivilegi. Da questi assunti l’attuale PRS nonsi schioda, fino a ritenere che, se le questio-ni sociali sono questioni di povertà e caritàvolontaria e non più di giustizia sociale, se èl’impresa locale che deve sopravvivere adogni costo nella globalizzazione, la classeoperaia organizzata e il conflitto non hannopiù senso di esistere e la centralità dell’im-presa e il superamento dell’articolo 41 dellaCostituzione sono dati per scontati (tra ipassaggi più irritanti del Piano va citata lacostituzione dello “Statuto delle imprese, alfine di costruire un ambiente amico delleimprese”).

Il quadro della crisi economica dellaLombardia

Il quadro macroeconomico dellaLombardia, soprattutto se comparato aquello europeo, è sufficientemente esplicati-vo dei vincoli di struttura che la Regionedovrebbe affrontare. Il PRS 2013-18 (mag-gio 2013) delinea le policy per aggredire lacrisi che costringe ai margini dell’Europal’economia lombarda. In particolare voglia-mo sottolineare la caduta verticale degliinvestimenti, ovvero la caduta verticale delreddito futuro. Ma la caduta degli investi-menti è particolarmente grave in ragionedella nuova divisione internazionale dellavoro. Sono due i vincoli più stringenti: ilprimo è legato all’eccesso di capitalizzazio-ne realizzato nella fase pre-crisi; il secondoalla “distruzione” di valore dei beni capitaliin ragione di una destinazione di produzio-ne incoerente con la domanda emergente alivello internazionale.

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Diversamente non sarebbe inspiegabile ilmeno 25% di investimenti della Lombardiatra il 2008 e il 2012, contro il meno 13%della media europea. Un esito legato allatendenza (spontanea) del sistema produtti-vo regionale di incorporare beni strumenta-li e l’innovazione proveniente dall’estero; inqualche misura le imprese della Lombardiasono sganciate dalla filiera produttiva euro-pea, se non per la parte che è diventata sub-fornitura di un sistema manifatturiero supe-riore (Germania).

La stessa contrazione del 25% della baseproduttiva giustifica la caduta degli investi-menti, come la caduta del reddito da lavorodipendente in rapporto al PIL, che era giàpiù bassa della media europea e di quellanazionale. In altre parole, la Lombardiadiventerà, nei migliori dei casi, subforniturae consumatrice di beni e servizi realizzati inaltri paesi.

Gli assi della politica di Maroni

Sono tre gli orizzonti della politica eco-nomica delineati da Maroni nel PRS. Piùprecisamente Maroni si propone di rimuo-vere i vincoli del sistema economico lom-bardo mediante:

• La riduzione della pressione fiscale conil fine di sostenere l’economia e l’occupazio-ne locale; il mantenimento del 75% del get-tito tributario sul territorio lombardo; l'in-troduzione delle agevolazioni/esenzionidall’IRAP, meglio ancora azzerandola o pre-disponendo una sua moratoria per un perio-do di 3 anni, nell’idea di costituire una notax area regionale;

• Lo sviluppo del capitale umano e del-l’inclusione sociale con il fine di favorirel’innovazione tecnologica e la competitivitàdelle imprese, la qualità ambientale e la valo-rizzazione del territorio; il rafforzamentodel ruolo delle autonomie locali e della pub-blica amministrazione modificando (non c’èscritto riformando) le forme e i modi del-l’erogazione dei servizi pubblici;

• La creazione di una macroregione delNord dotata di un’ampia autonomia e mag-

giori competenze, alla quale dovrà corri-spondere una adeguata dotazione finanzia-ria proveniente da tributi ed entrate regiona-li e dalla partecipazione diretta dellaRegione al gettito di tributi erariali riferibilial proprio territorio (Il passaggio sul “fede-ralismo fiscale” erariale è di una gravitàsenza precedenti, perché muta la ragionestessa dell’art. 53 della Costituzione).

Una politica che mal si concilia con lesfide che attendono la manifattura europea,che nel corso degli anni, in Italia, non hadato una gran prova di efficacia. L’illusioneripresa dal PRS è quella di risolvere nel pre-sunto contesto della “macroregione” lavocazione europea e, perché no, mediterra-nea della Lombardia. Qui si scopre ancheuna vocazione assistenziale: far convergeretutti i fondi europei relativi a un territoriopiù vasto non per produrre valore aggiuntoe specializzazione, ma per ripianare le espo-sizioni sulle grandi opere mai completate.La vocazione industriale e manifatturiera, lariconversione più o meno ecologica sonosempre fuori portata. Un punto rilevantedel PRS, in ragione del tasso di disoccupa-zione reale della Lombardia, che si aggiraattorno al 18%, sono le politiche del lavoro,che la Regione si ostina a chiamare politichedel mercato del lavoro. Già Keynes ricorda-va che non esiste un mercato del lavoro insenso stretto, mentre gli economisti main-stream lo prefigurano come centrale, ma laRegione rinuncia completamente alla quali-ficazione della domanda di lavoro. Infattinel PRS si legge: “Altro tema guida del-l’azione regionale sarà un nuovo patto tra ilsistema educativo e il sistema economico: ilfuturo occupazionale dei giovani dipendeprimariamente da un più efficiente raccordoe dall’integrazione tra i percorsi di istruzio-ne e formazione rinnovati e il mercato dellavoro”. Poco più avanti si legge ancora:“sarà valorizzata la contrattazione aziendalequale leva strategica per aumentare salari eproduttività, attraverso l’adozione di model-li organizzativi flessibili volti a favorirenuova occupazione, forme di conciliazionee di welfare aziendale, flessibilità in uscita

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attraverso l'adozione di modelli innovativiper la ricollocazione di lavoratori in fase diespulsione dal mercato del lavoro per effet-to di processi di riorganizzazione produtti-va o di crisi aziendali o territoriali, da realiz-zare attraverso il concorso responsabile epartecipato dell’impresa, delle organizzazio-ni di rappresentanza sindacale e datoriale edegli organismi bilaterali”. A parte il fattoche occorre ancora offrire una spiegazioneplausibile sul come la contrattazione azien-dale possa favorire la produttività e la cre-scita del reddito, alla fine è sempre il checosa e non il come si produce a creare valo-re aggiunto (Schumpeter e Smith). Il PRSvede il problema del lavoro sempre comeun problema di qualità dell’offerta, asse-gnando al mercato la definizione del targetdella domanda. In realtà, soprattutto inLombardia, abbiamo un problema (dram-matico) legato all’alto profilo formativo deigiovani che la domanda delle imprese nonsoddisfa. Una domanda con profili cheassomiglia sempre di più alla domanda delleimprese del Sud-est asiatico. In verità anchenelle imprese del Sud-est asiatico la doman-da di lavoro comincia a configurarsi comedomanda high-tech.

Se fosse vera la tesi della Regione, i nostrigiovani laureati dovrebbero essere rincorsiappena usciti dall’università e pagati a pesod’oro, vista la loro scarsità, ma non ci sem-bra di vedere una tale rincorsa alla “cono-scenza” degli studenti. In realtà, come siosserva dai dati dell’ISTAT, l’occupazionegiovanile diminuisce perché non c’è unacoerente domanda con la formazione matu-rata, cioè non c'è un tessuto produttivocapace di intercettare il know-how chel’istruzione pubblica offre ai nostri giovani.

Cercasi policy per la Lombardia

L’assenza di una politica economica esociale lombarda, in questi ultimi 15 anni,ha compromesso la sostenibilità del sistemaeconomico regionale, del tessuto produttivomanifatturiero e dei servizi. La caduta delreddito da lavoro dipendente ha contribuito

alla polarizzazione del reddito e della ric-chezza: il 20% delle famiglie con un redditobasso percepisce il 6,9% dei redditi prodot-ti, mentre il 20% di quelle più abbienti nedetiene il 42,7%. Sono valori che si amplifi-cano se consideriamo invece la ricchezza: il20% della popolazione più ricca ha il 61%della ricchezza complessiva, contro il 2%del 20% della popolazione più povera.

Le formule a buon mercato del tipo“federalismo solidale” o consolidare la “viaalta” dello sviluppo, sono slogan inutili e, inalcuni casi, sbagliati. La barzelletta del fede-ralismo solidale è poi incostituzionale, per-ché il carico tributario è individuale e fonda-to sulla capacità contributiva.

Sono le aspettative di cambiamento futu-ro a condizionare il presente, ma se noncostruiamo le basi di un futuro, la policy ègestione (cattiva) del presente.

Una sfida inedita, ma di portata storica.Non basta quindi dire “sono di sinistra”. Lasinistra si misura sui grandi temi della storiacon dei progetti. Da quando abbiamo persoi progetti, siamo a rimorchio dell’etica. Nonè sbagliato avere un’etica, ma un progetto dicambiamento presuppone qualcosa di più.

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Il caso Alessandria

Matteo Gaddi

Alessandria rischia di diventare il laborato-rio di un massacro sociale: se questoComune attuerà il “risanamento” del bilan-cio attraverso pesantissimi tagli occupazio-nali, diventerà un esempio tutto negativoper gli altri enti locali in condizioni analo-ghe.

Ogni comune, cioè, programmerà unpiano di rientro dal dissesto basato sul tagliodei posti di lavoro. Sia per la pesantezzadiretta delle conseguenze (sono stati dichia-rati 188 esuberi, ma siamo solo all’inizio),sia per la portata politica dello scontro inatto, la reazione dei lavoratori e delle orga-nizzazioni sindacali è stata molto decisa: nelgiro di due mesi si sono tenuti due scioperigenerali molto partecipati, oltre a presìdi,lavoratori incatenati alle porte del Comune,assemblee, volantinaggi ecc. Un aspettopositivo da sottolineare è quello della soli-darietà che i dipendenti pubblici alessandri-ni sono riusciti a ottenere: agli scioperigenerali infatti c’è stata una buona parteci-pazione di altre categorie e di molte fabbri-che del territorio.

Va ricordato che l’enorme buco (ci sonorichieste da parte dei creditori per 216milioni di euro: essi però a seguito di verifi-che potrebbero ridursi attorno ai 160 milio-ni) da cui origina il dissesto del Comune diAlessandria è un lascito della precedenteamministrazione di centro-destra, rispettoalla quale è più volte intervenuta la Cortedei Conti. Ma l’atteggiamento dell’attualesindaco di centro-sinistra è consistito nelvoltafaccia rispetto alle promesse in campa-gna elettorale e alle prime dichiarazioniimprontate alla collaborazione con le orga-nizzazioni sindacali, le RSU e i lavoratoritutti, proprio per tutelare i livelli occupazio-nali. Di conseguenza il confronto col gover-no non è stato indirizzato sui binari che sin-dacati e lavoratori avevano proposto (ilricorso anche a risorse straordinarie, vista la

straordinarietà della situazione) ma haimboccato la pericolosa deriva di dove equanto tagliare. Anziché, quindi, discuterecol Governo di una possibile esperienzapilota di tutela dei livelli occupazionali e deiservizi pur in condizioni finanziarie negati-ve, l’unica cosa alla quale ha pensato l'am-ministrazione di Alessandria è stata il con-teggio degli “esuberi;” cioè come “risanare”il bilancio a spese di (almeno) 188 lavorato-ri.

Per questo non si può parlare di “PianiIndustriali delle aziende partecipate”: que-sto documento dell’amministrazione comu-nale si riduce al rendiconto dei posti di lavo-ro da tagliare (e dei servizi da sopprimere).L’unico approfondimento contenuto neldocumento è quello sul ricorso a possibiliammortizzatori sociali: dando sempre perscontato, quindi, che non si possano tutela-re i posti di lavoro.

Il Sindaco Rita Rossa continua a sostene-re che “non ci sono alternative”. Non èvero: licenziare è un'alternativa, rispetto adaltre scelte possibili. La politica è a questoche dovrebbe servire.

I segnali di un massacro sociale incom-bente erano già nel Bilancio di Previsione2012 del Comune, con il taglio pesantissimodelle spese correnti, cioè servizi e retribu-zioni di lavoratori, intese alla stregua disprechi, di spesa improduttiva, di zavorra datagliare. Con le spese correnti si pagano ilpersonale dell’Ente e le prestazioni di servi-zi (cioè i servizi erogati alla comunità dalleaziende partecipate): si tratta perciò di speseassolutamente necessarie per il valido fun-zionamento di un comune, cioè per l’eroga-zione di servizi alla popolazione.

Il cosiddetto “Piano Industriale delleaziende partecipate” è impostato su questedirettrici:

- La dichiarazione di 188 esuberi varia-mente ripartiti;

- L’intenzione della chiusura di vari servi-zi, senza soluzioni alternative;

- La proposta di reinternalizzare alcuniservizi: la cosa grave è che questo in certaparte avviene senza internalizzare i relatividipendenti;

- Il ricorso a possibili (?) ammortizzatori

INCHIESTE E RICERCHE SUL LAVORO

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sociali (nel caso di ATM, cioè dell'azienda ditrasporto pubblico locale);

- Le liquidazioni (ammesso che sia fatti-bile) di società;

- Lo scioglimento di aziende (comel'azienda speciale Costruire Insieme: servizieducativi) e l’affidamento dei loro servizi acooperative sociali.

Su Aspal non si è mai proposta una solu-zione credibile per i dipendenti: ci si è ridot-ti a dichiarare 58 esuberi con sole 12 possi-bili ricollocazioni a seguito di una ipotizzatareinternalizzazione di parte dei servizi.Ovviamente della sorte concreta dei suoiservizi (giovani, informatica, mediazioneculturale, refezione assistenza mense deinidi, asili, musei civici, turismo, riscossioneimposte, contravvenzioni) non viene garan-tito nulla, nonostante l'altissima valenzasociale di molti di essi; di alcuni anzi si scri-ve chiaramente “chiusura del servizio”.

Per ATM è evidente che, se da un bilan-cio di 10,5 milioni ne vengono tagliati 3,5, sipreannunciano esuberi per almeno 50-70persone. Ma non basta. Se dovesse rimane-re confermata la posizione della RegionePiemonte di pesanti tagli al trasporto pub-blico, ATM subirebbe una ulteriore riduzio-ne, dovuta proprio al calo della quota dicontribuzione regionale da euro 4,5 milionia euro 3,798 milioni. Quindi tra Comune eRegione verrebbero meno oltre 4 milioni dieuro determinando, di fatto, la scomparsa diquesta azienda e dei relativi posti di lavoro eservizi. Su AMIU (l'azienda che si occupadei rifiuti) per troppo tempo non si è fattoaltro che proporre interventi peggiorativiper i dipendenti (come la rinuncia al con-tratto nazionale di Federambiente per pas-sare a quello delle multiservizi, con unvistoso peggioramento di trattamento),inoltre si è tentata la cessione ad IREN(società emiliana di raccolta di rifiuti) e sisono adombrati possibili esuberi. Adessoaddirittura la società viene messa in liquida-zione con istanza di fallimento. Per anninon si è voluto affrontare il problema dellaseparazione che permane rispetto al consor-zio pubblico ARAL formato dai comunialessandrini: una separazione priva di sensoche impedisce di costituire una filiera inte-

grata e completa del ciclo rifiuti, sotto con-trollo pubblico. Adesso, con AMIU in liqui-dazione, il servizio rifiuti viene affidato adARAL: bene, purché venga spiegato comeverranno tutelati i livelli occupazionali.

Sempre in materia di partecipate, si faticaa capire la messa in vendita di quote aziona-rie di Alegas, cioè della società deputata allavendita di gas, cioè della società che portasoldi in cassa grazie alle attività di commer-cializzazione. La smania privatizzatrice sem-bra calpestare anche il minimo buon senso.

Per l’azienda speciale Costruire Insiemesono previsti 65 esuberi. Si ipotizza, comedetto, di scioglierla e di affidarne i servizi digestione dei nidi e delle scuole dell’infanziaa cooperative sociali: una beffa. Sembraquasi che il dissesto sia stato colto comeoccasione per esternalizzare la gestione diquesti servizi.

E’ evidente che con gli strumenti ordina-ri il Comune di Alessandria non è in gradodi gestire una situazione di dissesto, cioè unfatto assolutamente straordinario. E se RitaRossa continua a ripetere che non ci sonoalternative, gli esuberi sono un fatto obbli-gato. Ma il vero problema, per Alessandria,ed in prospettiva per gli altri enti locali indissesto, è di ottenere una soluzione struttu-rale da parte del Governo, cioè un appositofondo di gestione delle situazioni di dissestoche consenta di gestirle senza tagliare i postidi lavoro e i servizi alla cittadinanza. Questonon significa dimenticare le responsabilitàdi chi ha determinato il dissesto che, anzi,vanno accertate fino in fondo: ma non pos-sono pagare per altri i dipendenti pubblici ela popolazione.

Si tratta cioè di evitare che il risanamentodei conti pubblici passi attraverso operazio-ni di massacro sociale. Ma per fare questonon serve che il Comune si metta contro ilavoratori; servirebbe l’atteggiamento esat-tamente contrario, cioè quello di una allean-za tra Comune, dipendenti e organizzazionisindacali orientata ad aprire un confrontoserio col Governo. Se questo fronte si èrotto non è stata certo colpa dei lavoratori,costretti a leggere dalle pagine dei giornalidi essere diventati esuberi, e dei loro sinda-cati.

inchieste e ricerche sul lavoro

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CINA 2013Samir Amin

I dibattiti sul presente e sul futuro dellaCina, una potenza “emergente”, non mihanno mai convinto.

Alcuni affermano che la Cina ha scelto,una volta e per tutte, la “via capitalistica” eintende perfino accelerare il suo inserimen-to nella globalizzazione capitalistica con-temporanea. Ne sono molto compiaciuti esperano solo che questo “ritorno alla nor-malità” (dato che il capitalismo è “la finedella storia”) si accompagni a un avvicina-mento alla democrazia di tipo occidentale(pluripartitismo, elezioni, rispetto dei dirittiumani). Essi credono – o hanno bisogno dicredere – nella possibilità che la Cina conquesti mezzi si inserisca, seppure gradual-mente, in termini di reddito pro-capite nellesocietà opulente dell’occidente, cosa che ionon ritengo possibile. I cinesi condividonoquesto punto di vista. Altri deplorano ciò,in nome dei valori di un “socialismo tradi-to”. Alcuni si associano alla pratica occiden-tale del “China bashing” (l’espressione siriferisce allo sport preferito dei media occi-dentali di tutte le tendenze – inclusa disgra-ziatamente la sinistra – che consiste neldenigrare sistematicamente, e anche crimi-nalizzare, tutto quanto si fa in Cina.).

Altri ancora – coloro che detengono ilpotere a Pechino – descrivono la via intra-presa come “socialismo alla cinese”, senzaulteriori precisazioni. Se ne possono peral-tro riconoscere le caratteristiche leggendoda vicino i testi ufficiali, in particolare i pianiquinquennali, che sono precisi e vengonoseguiti piuttosto seriamente.

Di fatto la domanda se la Cina sia capita-lista o socialista è mal posta, troppo genera-le ed astratta per permettere una rispostache abbia un senso nei termini di questa

alternativa assoluta. Di fatto la Cina ha sem-pre seguito una sua strada originale fin dal1950, o forse fino dalla rivoluzione deiTaiping nel XIX secolo. Cercherò qui dichiarire la natura di questa via originale adogni fase del suo sviluppo dal 1950 a oggi,nel 2013.

La questione agraria

Mao descrisse la natura della rivoluzionesviluppata in Cina dal Partito comunistacome una rivoluzione antimperialista e anti-feudale che tendeva al socialismo. Mai Maoaffermò che dopo aver liquidato l’imperiali-smo e il feudalesimo il popolo cinese avesse“costruito” una società socialista. Egli defi-nì sempre questa costruzione come unprimo passo sul lungo cammino verso ilsocialismo.

Devo sottolineare la natura specificadella risposta che la Rivoluzione cinesediede alla questione agraria. La terra (agri-cola) distribuita non venne privatizzata;rimase proprietà della nazione rappresenta-ta dalla comune di villaggio e alle famiglierurali ne venne accordato solo l’uso. Non fuquesto il caso della Russia dove Lenin, difronte alla fatto compiuto dell’insurrezionecontadina del 1917, riconobbe la proprietàprivata dei beneficiari della distribuzionedelle terre.

Come fu possibile che in Cina (e inVietnam) si potesse mettere in atto il princi-pio che il terreno agricolo non è una merce?Si ripete sempre che i contadini in tutto ilmondo aspirano alla proprietà e solo a que-sta. Se tale fosse stato il caso della Cina, ladecisione di nazionalizzare la terra avrebbedovuto portare a un’incessante guerra con-tadina, come successe quando Stalin iniziòla collettivizzazione forzata nell’UnioneSovietica.

Non si può spiegare l’atteggiamento deicontadini in Cina e in Vietnam (e in nessunaltro posto) con un’ipotizzata “tradizione”

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che li vorrebbe ignari del concetto di pro-prietà. Si tratta piuttosto del risultato di unaintelligente linea politica portata avanti daiPartiti comunisti dei due paesi. La SecondaInternazionale assunse come verità incon-trastata che la proprietà costituiva l’inevita-bile aspirazione dei contadini, cosa abba-stanza reale nell’Europa del XIX secolo.Nella lunga transizione europea dal feudale-simo al capitalismo (1500-1800) le originarieforme feudali istituzionalizzate di accessoalla terra attraverso diritti condivisi fra re,signori feudali e contadini servi della glebasono state gradatamente dissolte e sostituitedalla moderna proprietà privata borghese,che considera la terra come una merce – unbene di cui il proprietario può disporre libe-ramente (comperare e vendere). I socialistidella Seconda Internazionale accettarono,pur deplorandolo, questo fatto compiutodella “rivoluzione borghese”.

Essi inoltre pensavano che la piccola pro-prietà contadina non avesse futuro, e chequesto appartenesse alla grande impresaagricola meccanizzata su modello dell’indu-stria. Essi pensavano che lo stesso sviluppocapitalistico avrebbe portato a concentrarela proprietà e ad adottare le forme più effi-caci per il suo sfruttamento (vedere gli scrit-ti di Kautsky sull’argomento). La storia hadimostrato che sbagliavano. L’agricolturacontadina ha dato luogo all’agricolturafamiliare capitalistica in un senso doppio;nel senso che produce per il mercato (ilconsumo interno dell’azienda agricola èdiventato irrilevante) e che usa attrezzaturemoderne, input industriali e crediti bancari.Inoltre questa agricoltura familiare capitali-stica si è dimostrata abbastanza efficiente inconfronto con le grandi imprese agricole, intermini di volume di produzione per ettaroper lavoratore/anno.

Questa osservazione non esclude il fattoche il moderno agricoltore capitalistico siasfruttato dal capitale monopolistico genera-lizzato, che controlla l’apporto di inputs ecrediti e il marketing dei prodotti.

L’agricoltore è diventato così un lavoratorein subappalto del capitale dominante. Così,convinti (erroneamente) che la grandeimpresa sia sempre più efficiente della pic-cola in ogni settore – industria, servizi eagricoltura – i socialisti radicali dellaSeconda Internazionale ipotizzarono chel’abolizione della proprietà fondiaria (nazio-nalizzazione della terra) avrebbe portato allacreazione di grandi aziende agricole sociali-ste (analoghe ai futuri “sovkoz” e “kolkoz”sovietici). Ma non furono in grado di speri-mentare tali misure perché la rivoluzionenon era nell’agenda dei loro paesi (i centriimperialisti).

I bolscevichi accettarono queste tesi finoal 1917. Essi presero in considerazione lanazionalizzazione delle grandi proprietàdell’aristocrazia russa, lasciando la proprietàin comune ai contadini. Ma vennero presi disorpresa dall’insurrezione dei contadini, chesi impadronirono delle grandi proprietà.

Mao trasse insegnamento da quella storiae sviluppò una linea di azione politica deltutto diversa. Iniziando negli anni 30 nellaCina meridionale, durante la lunga guerracivile di liberazione, Mao fondò la crescen-te presenza del Partito comunista su unasolida alleanza con i contadini poveri esenza terra (la maggioranza), mantenendorapporti amichevoli con i contadini medi eisolando i ricchi in ogni fase della guerra,pur senza provocarne necessariamentel’ostilità. Il successo di questa linea politicapreparò la grande maggioranza degli abitan-ti delle campagne a prendere in considera-zione e ad accettare una soluzione ai loroproblemi che non si basava sulla proprietàprivata di terreni acquisiti mediante distri-buzione.

Io penso che le idee di Mao, e la loro riu-scita, hanno la loro radice storica nella rivol-ta dei Taiping del XIX secolo. Mao così riu-scì dove il Partito bolscevico aveva fallito:allacciare una solida alleanza con la grandemaggioranza rurale. In Russia, il fatto com-

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piuto del 1917 eliminò le future possibilitàdi allearsi con i contadini poveri e medi con-tro i ricchi (i kulak), perché i primi eranopreoccupati di difendere la loro proprietàprivata appena acquisita e perciò preferiro-no seguire i kulak piuttosto che i bolscevi-chi.

La “specificità cinese” – che ha conse-guenze molto importanti – ci impedisceassolutamente di considerare la Cina con-temporanea (perfino nel 2013) come “capi-talistica”, perché la via capitalistica è basatasulla trasformazione della terra in merce.

Presente e futuro della produzione sem-plice

Ma una volta accettato il principio, leforme di uso del bene comune (la terra dellecomunità di villaggio) possono essere moltodiverse. Per capirlo, dobbiamo poter distin-guere la produzione semplice dalla piccolaproprietà.

La produzione semplice – contadina eartigianale – ha dominato la produzione intutte le società del passato. Ha mantenutoun posto importante nel capitalismomoderno, legato adesso alla piccola proprie-tà – nell’agricoltura, nei servizi e perfino incerti segmenti dell’industria. Certamente staarretrando nella triade dominante delmondo contemporaneo (Stati Uniti, Europae Giappone). Ne è un esempio la scompar-sa del piccolo commercio, sostituito dagrandi operatori commerciali. Ma questonon significa che si tratti di “progresso”,neppure in termini di efficienza, e ancor piùse si prendono in considerazione le dimen-sioni sociali, culturali e di civiltà. Di fatto, sitratta di un esempio della distorsione pro-dotta dal dominio dei monopoli generaliz-zati orientati al profitto. Perciò in un futurosocialismo la produzione semplice saràforse destinata a riprendere la sua importan-za. Nella Cina contemporanea, in ogni caso,la produzione semplice – che non è legatanecessariamente alla piccola proprietà –mantiene un posto importante nella produ-

zione nazionale, non solo in agricoltura maanche in ampi segmenti della vita urbana.

La Cina ha sperimentato forme diverse eanche contrastanti di uso della terra comebene comune. E’ necessario discuterne dauna parte l’efficienza (volume di produzio-ne di un ettaro per lavoratore/anno) e dal-l’altra la dinamica delle trasformazioni postein movimento. Quelle forme possono raf-forzare le tendenze verso lo sviluppo capi-talistico, che finirà per mettere in questionelo status di non-merce della terra, o posso-no essere parte di uno sviluppo in direzionesocialista. A queste domande si può darerisposta solo esaminando in concreto leforme in questione, nella maniera in cui sisono realizzate nei diversi momenti dellosviluppo cinese dal 1950 ad oggi.

All’inizio, negli anni 50, la forma adotta-ta fu la produzione semplice familiare com-binata con semplici forme di cooperazioneper gestire l’irrigazione, per i lavori cherichiedevano coordinazione, e per l’uso diun certo tipo di attrezzi. Ciò andò di paripasso con l’inserimento della produzionesemplice familiare in un’economia di Statoche manteneva il monopolio dell’acquisto diprodotti destinati al mercato e della fornitu-ra di inputs e di credito, tutto sulla base diprezzi pianificati (decisi dal centro).

L’esperienza delle comuni che seguì laformazione di cooperative di produzionenegli anni 70 fornisce molti insegnamenti.Non fu necessariamente una questione dipassaggio dalla piccola produzione allagrande impresa agricola, anche se l’ideadella superiorità di quest’ultima ispiravamolti dei suoi sostenitori. Le basi fonda-mentali di questa iniziativa avevano originenell’aspirazione a una costruzione socialistadecentralizzata. Le comuni non avevanosolo la responsabilità di gestire la produzio-ne agricola di un grande villaggio o colletti-vo di villaggi e borgate (anche questa orga-nizzazione era un misto di forme di piccolaproduzione familiare e una più ambiziosa

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produzione specializzata) ma fornivanoanche una struttura più ampia: 1 – organiz-zare attività industriali collaterali per occu-pare i contadini disoccupati in certi periodidell’anno; 2 – collegare attività economicheproduttive con la gestione dei servizi socia-li (istruzione, salute, abitazione); 3 - dare ini-zio alla decentralizzazione dell’amministra-zione politica della società. Proprio comeaveva inteso la Comune di Parigi, lo Statosocialista doveva diventare, almeno in parte,una federazione di comuni socialiste.

Le comuni sotto molti aspetti furono cer-tamente in anticipo sui tempi e la dialetticafra la decentralizzazione dei poteri decisio-nali e la centralizzazione determinata dal-l’onnipresenza del Partito comunista nonsempre funzionò con scioltezza. Ma i risul-tati sono lungi dall’esser stati disastrosi,come la destra vorrebbe farci credere. Unacomune della regione di Pechino, che oppo-se resistenza all’ordine di far cessare il siste-ma, continua a collezionare risultati econo-mici eccellenti, uniti alla presenza di dibatti-ti politici di alto livello che sono sparitialtrove. Alcuni progetti attuali di “ricostru-zione rurale”, avanzati da comunità rurali invarie regioni della Cina, sembrano ispiratiall’esperienza delle comuni.

La decisione di abolire le comuni, presada Deng Xiaoping nel 1980, rafforzò la pic-cola produzione familiare, che rimase laforma dominante nei trent’anni che segui-rono la sua decisione. Ma si era notevol-mente ampliato il ventaglio di diritti di colo-ro che avevano in uso la terra. (le comuni divillaggio e le unità familiari). Per loro eradiventato possibile “affittare” ad altri laterra (ma mai “venderla”), sia ad altri picco-li produttori – facilitando così l’emigrazionenelle città, soprattutto di giovani istruiti chenon volevano restare in campagna – o adaziende che organizzavano un’unità agricolamolto più grande e moderna (mai un lati-fondo, che in Cina non esiste, ma comun-que unità sempre più grandi di un’aziendafamiliare). Questa forma è il mezzo usato

per incoraggiare la produzione specializzata(come del buon vino, per il quale la Cina hachiesto l’assistenza di esperti francesi) e spe-rimentare nuovi metodi scientifici (gli Ogme altri).

A mio parere, non ha alcun senso“approvare” o “rifiutare” a priori la diversi-tà di questi sistemi. Ancora una volta èimperativo tentare un’analisi concreta diognuno di essi, sia nel progetto che nellarealtà della loro applicazione. Resta il fattoche l’inventiva diversità di forme di usodella terra in proprietà comune ha portato arisultati eccezionali. In primo luogo, in ter-mini di efficienza economica: malgrado chela popolazione urbana sia cresciuta dal 20 al50% della popolazione totale, la Cina è riu-scita ad aumentare la produzione agricolaper stare al passo con i giganteschi bisognidell’urbanizzazione. Si tratta di un risultatonotevole ed eccezionale, senza precedentinei paesi del Sud “capitalistico”. La Cina hamantenuto e rafforzato la propria sovranitàalimentare, anche se soffre di un handicapdi notevole importanza: la sua agricolturanutre ragionevolmente bene il 22% dellapopolazione mondiale mentre ha solo il 6%delle terre coltivabili del mondo. Inoltre, intermini di modi (e livelli) di vita della popo-lazione rurale, i villaggi cinesi non hannopiù nulla in comune con ciò che ancoradomina nel terzo mondo capitalistico.Strutture permanenti comode e ben attrez-zate formano un contrasto stridente, nonsolo con la vecchia Cina di fame e povertàestrema, ma anche con le forme estreme dipovertà che ancora dominano le campagneindiane o africane.

I principi e le politiche messe in atto(proprietà comune della terra, sostegno perla produzione semplice in assenza di picco-la proprietà) sono alla base di questi risulta-ti ineguagliati. Hanno reso possibile un rela-tivo controllo delle migrazioni dalle campa-gne alle città. Si paragoni questo alla viacapitalistica, per esempio in Brasile. La pro-prietà privata della terra agricola ha svuota-

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to le campagne – che oggi sono abitate solodall’11% della popolazione. Ma almeno il50% della popolazione delle città vive inslums (le favelas) e sopravvive solo grazieall’“economia informale” (incluso il crimineorganizzato).

Non esiste nulla di simile in Cina, dove lapopolazione urbana nel suo complesso halavoro e abitazione adeguati, anche al con-fronto di vari “paesi sviluppati”, senza nep-pure ricordare quelli dove il PIL pro-capiteè a livello di quello cinese.

Fondamentale è stato il trasferimento dipopolazione dalle campagne estremamentepopolate (solo il Vietnam, il Bangladesh el’Egitto sono simili), che ha permesso dimigliorare le condizioni per la produzionesemplice rurale, rendendo disponibile unamaggior estensione di terreno. Il trasferi-mento, per quanto relativamente controlla-to (ancora una volta, non c’è nulla di perfet-to nella storia dell’umanità, né in Cina néaltrove) sta forse minacciando di diventaretroppo rapido. E su questo si è aperta inCina una grande discussione.

Il capitalismo di Stato cinese

La prima etichetta che viene in mente perdescrivere la realtà cinese è il capitalismo diStato. Va molto bene, ma l’etichetta restavaga e superficiale se non se ne analizza ilcontenuto specifico.

Si tratta veramente di capitalismo nelsenso che la relazione cui i lavoratori sonovincolati da parte delle autorità che organiz-zano la produzione è simile a quella checaratterizza il capitalismo: lavoro sottomes-so e alienato, estrazione di pluslavoro. InCina esistono forme brutali di sfruttamentoestremo dei lavoratori, per esempio nelleminiere di carbone o nei ritmi estremamen-te spinti delle fabbriche a manodopera fem-minile. Ciò è scandaloso per un paese cheproclama di voler avanzare sulla via delsocialismo. Risulta peraltro inevitabileinstaurare un regime di capitalismo di Stato,

e questo è vero ovunque. I paesi capitalistisviluppati non saranno in grado di intra-prendere una via verso il socialismo (cheoggi peraltro non è in agenda) senza passa-re per questa prima fase. E’ la fase prelimi-nare di ogni potenziale impegno di qualsi-voglia società per liberarsi dal capitalismostorico e intraprendere la lunga strada versoil socialismo/comunismo. Socializzare eriorganizzare il sistema economico a tutti ilivelli, dall’azienda (l’unità elementare) finoalla nazione e al mondo, richiede una lungalotta per un tempo storico che non si puòprospettare a priori. Oltre questa riflessionepreliminare, dobbiamo descrivere concreta-mente il capitalismo di Stato in questione,rivelando la natura e il progetto dello Statoin questione, perché non esiste solo un tipodi capitalismo di Stato, ma ve ne sono moltie diversi. Il capitalismo di Stato dellaFrancia della Quinta Repubblica, dal 1958 al1975, fu progettato per servire e rafforzarei monopoli privati francesi, non certo peravviare il paese sulla strada del socialismo.

Il capitalismo di Stato cinese fu edificatoin vista di tre obiettivi: costruire un moder-no sistema industriale sovrano e integrato;gestire la relazione fra questo sistema e laproduzione semplice delle campagne; con-trollare l’inserimento della Cina nel sistemamondiale, dominato dai monopoli genera-lizzati della triade imperialista (Stati Uniti,Europa, Giappone). E’ inevitabile persegui-re queste tre priorità, giacché aprono dellepossibilità di progresso sulla lunga stradaverso il socialismo, ma nello stesso temporafforzano le tendenze ad abbandonarequella possibilità a favore di uno sviluppocapitalistico puro e semplice. Bisogna accet-tare il fatto che il conflitto è inevitabile esempre presente. La domanda è questa: laCina in concreto quale delle due strade sce-glie di favorire?

Il capitalismo di Stato cinese nella suaprima fase (1954-1980) richiese la naziona-lizzazione di tutte le società (combinata conla nazionalizzazione delle terre agricole), sia

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grandi che piccole. Poi seguì un’aperturaall’impresa privata, nazionale e/o straniera,e venne liberalizzata la produzione semplice(piccole società, commercio, servizi) sianelle campagne che nelle città. Ma la grandeindustria di base e il sistema del creditoinstaurati durante il periodo di Mao nonvennero denazionalizzati, anche se si modi-ficarono le forme organizzative del loroinserimento in un’economia “di mercato”.

Questa decisione andò di pari passo conla costituzione di mezzi di controllo sull’ini-ziativa privata e sulla potenziale partnershipcon il capitale straniero. Resta da vederefino a che punto tali mezzi svolgano la lorofunzione o se al contrario non siano diven-tati gusci vuoti grazie alla collusione (permezzo della corruzione o di accorgimentigestionali) con il capitale privato.

Comunque ciò che il capitalismo di Statocinese è riuscito a realizzare fra il 1950 e il2012 è semplicemente straordinario. Difatto è riuscito a costruire un sistema pro-duttivo moderno, sovrano e ben integratosu scala di questo paese gigantesco, che sipuò paragonare solo agli Stati Uniti. E’ riu-scito a lasciarsi indietro la stretta dipenden-za tecnologica delle sue origini (importazio-ni sovietiche, poi modelli occidentali) svi-luppando le proprie capacità di produrreinvenzioni tecnologiche. Ma non ha (anco-ra?) iniziato a riorganizzare il lavoro nellaprospettiva della socializzazione della diri-genza economica. Il Piano – e non l’“aper-tura” – è rimasto il mezzo fondamentale perconcretizzare questa costruzione sistemati-ca.

Nella fase maoista dello sviluppo, ilPiano era imperativo in ogni dettaglio: natu-ra e localizzazione di nuovi impianti, obiet-tivi della produzione, e prezzi. In quellafase, non era possibile alcuna ragionevolealternativa. Voglio rammentare qui, senzaperò dilungarmi, l’interessante dibattitosulla natura della legge del valore, che alloraaveva accompagnato e sostenuto la pianifi-

cazione. Fu appunto il successo – e non ilfallimento – di quella prima fase che richie-se di modificare i mezzi per un’accelerazio-ne del progetto di sviluppo. L’“apertura”all’iniziativa privata – iniziata nel 1980, masoprattutto dal 1990 – fu necessaria per evi-tare la stagnazione che era stata fatale perl’URSS. Malgrado che l’apertura coincidessecon il trionfo globalizzato del neo-liberismo– con tutti gli effetti negativi di questa coin-cidenza, su cui tornerò – la scelta di un“socialismo di mercato” o meglio ancora diun “socialismo con il mercato” a fonda-mento della seconda fase di sviluppo acce-lerato, a mio parere è ampiamente giustifica-ta.

I risultati di quella scelta sono ancora unavolta semplicemente straordinari. In pochidecenni, la Cina ha dato luogo a un’urbaniz-zazione produttiva industriale che coinvolge600 milioni di persone, due terzi dei quali sisono urbanizzati negli ultimi vent’anni(circa l’equivalente della popolazione euro-pea!). Questo si deve al Piano e non al mer-cato. La Cina dispone ora di un sistema pro-duttivo veramente sovrano. Nessun altropaese del Sud (con l’eccezione di Corea eTaiwan) è riuscito a tanto. In India e inBrasile sono presenti solo pochi elementidisparati di un progetto del genere, ma nien-te di più.

In questa nuova situazione, i metodi perprogettare e realizzare il Piano si sono tra-sformati. Il Piano resta imperativo per gliinvestimenti per le grandi infrastrutture: perdare casa a 400 milioni di nuovi abitantiurbani in condizioni adeguate, per costruireuna reste straordinaria di autostrade, strade,ferrovie, dighe, impianti elettrici; per apriretutta o quasi tutta la campagna cinese; pertrasferire il centro di gravità dello sviluppodalla costa all’ovest continentale. Il Pianoresta imperativo – almeno in parte – per gliobiettivi e le risorse finanziarie delle impre-se di proprietà pubblica (Stato, province,municipalità). Per il resto, punta su obiettivipossibili e probabili per espandere la picco-

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la produzione urbana di merci, sulle attivitàprivate industriali o altro. Questi obiettivisono presi molto sul serio, e vengono indi-cate le risorse economiche e politichenecessarie per la loro realizzazione. Nelcomplesso, i risultati non sono molto diver-si dalle previsioni “pianificate”.

Il capitalismo di Stato cinese ha inseritonel proprio progetto di sviluppo delledimensioni sociali (non dico “socialiste”)ben visibili. Questi obiettivi erano già pre-senti nell’era maoista: abolizione dell’analfa-betismo, cure mediche di base per tutti ecc.Nella prima parte della fase post-maoista(gli anni 90) ci fu innegabilmente la tenden-za a trascurare questi aspetti. Ma bisognanotare che la dimensione sociale del proget-to è tornata in primo piano e si prevede checontinuerà ad avanzare sulla spinta dipotenti e attivi movimenti sociali. La nuovaurbanizzazione non ha paralleli in nessunaltro paese del Sud. Ci sono certamentequartieri eleganti e altri che non lo sonoaffatto; ma non sono slums, come hannocontinuato a espan¬dersi ovunque nellecittà del terzo mondo.

L’inserimento della Cina nella globaliz-zazione capitalistica

Non si può proseguire l’analisi del capita-lismo di Stato cinese (chiamato “socialismodi mercato”) senza prendere in considera-zione il suo inserimento nella globalizzazio-ne.

Il mondo sovietico aveva prospettatouno sganciamento dal sistema capitalistamondiale, con la parallela costruzione di unsistema socialista integrato che comprende-va l’URSS e l’Europa orientale. L’URSS riu-scì ampiamente nell’operazione di sgancia-mento, imposta d’altra parte dall’ostilitàoccidentale; perfino deplorando il bloccoper l’isolamento che provocava. Ma il pro-getto di inserire nel sistema l’Europa orien-tale non andò mai molto avanti, malgrado leiniziative del Comecon. Le nazioni

d’Europa orientale rimasero in una posizio-ne incerta e vulnerabile, in parte sganciate –ma su una ristretta base nazionale – e inparte aperte all’Europa occidentale, soprat-tutto dagli anni 70. La questione di un’inte-grazione fra Cina e URSS non si pose mai,non solo perché il nazionalismo cinese nonl’avrebbe mai accettato, ma soprattutto per-ché le priorità cinesi non lo esigevano. LaCina maoista attuò lo sganciamento alla suamaniera. Si può allora affermare che la Cina,inserendosi nella globalizzazione a partiredai primi anni 90, ha rinunciato in pieno eper sempre allo sganciamento?

La Cina entrò nella globalizzazione neglianni 90 mediante lo sviluppo accelerato del-l’esportazione delle manifatture, diventatopossibile per il suo sistema produttivo chedava priorità alle esportazioni, il cui tasso dicrescita superava quello della crescita delPIL. Il trionfo del neo-liberismo favorì ilsuccesso di questa scelta per quindici anni(dal 1990 al 2005). In seguito la scelta si èdimostrata discutibile non solo per gli effet-ti politici e sociali, ma anche perché minac-ciata dall’implosione del capitalismo globa-lizzato neoliberista, che cominciò nel 2007.Il governo cinese ne sembra cosciente e hasubito tentato una correzione dando mag-gior rilievo al mercato interno e allo svilup-po della parte occidentale del paese.

Affermare, come si sente fino alla nau-sea, che il successo della Cina va attribuitoall’abbandono del maoismo (il cui “falli-mento” era ovvio), all’apertura verso l’este-ro e all’ingresso di capitale straniero è sem-plicemente idiota. La costruzione maoistarealizzò le fondamenta senza le quali l’aper-tura non avrebbe raggiunto il suo ben notosuccesso. Ben lo dimostra il confronto conl’India, che non ha fatto una rivoluzioneanaloga. Non è meno idiota dire che il suc-cesso cinese si deve soprattutto (e perfinocompletamente) alle iniziative del capitalestraniero. Non è il capitale multinazionaleche ha costruito il sistema industriale cinesee ha realizzato gli obiettivi di urbanizzazio-

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ne e la costruzione delle infrastrutture. Ilsuccesso è da attribuire al 90% al progettosovrano cinese. L’apertura al capitale stra-niero ha svolto certamente alcune utili fun-zioni, aumentando l’import di tecnologiemoderne. Ma grazie ai suoi metodi di par-tnership, la Cina ha assimilato le tecnologiee ora ne padroneggia lo sviluppo. Non c’ènulla di simile altrove, neppure in India o inBrasile, e meno che mai in Tailandia,Malesia, Sud Africa o altri paesi.

L’inserimento della Cina nella globalizza-zione è rimasto per di più parziale e control-lato (o almeno controllabile, se si vuole met-terla così). La Cina è rimasta fuori dalla glo-balizzazione finanziaria. Il suo sistema ban-cario è totalmente nazionale e focalizzatosul mercato creditizio interno. La gestionedello yuan è ancora nelle mani sovrane dellaCina. Lo yuan non è soggetto all’instabilitàdei cambi flessibili imposti dalla globalizza-zione finanziaria. Pechino può dire aWashington “lo yuan è la nostra moneta e ilvostro problema”, proprio comeWashington nel 1971 disse agli europei “ildollaro è la nostra moneta e il vostro pro-blema”. Inoltre, la Cina detiene un’ampiariserva da poter usare sul suo sistema credi-tizio interno. Il debito pubblico è irrilevan-te, a confronto con i tassi di indebitamento(considerati intollerabili) degli Stati Uniti, diEuropa, Giappone e molti Stati del Sud. LaCina può così incrementare l’espansionedella spesa pubblica senza seri problemi diinflazione.

L’ingresso di capitale straniero in Cina,da cui il paese ha tratto innegabili benefici,non ha il merito del successo del suo pro-getto. Al contrario, è il successo del proget-to che ha reso allettante l’investimento inCina da parte delle transnazionali occiden-tali. I paesi del Sud che hanno aperto le loroporte molto più ampiamente che la Cina, ehanno accettato senza condizioni la globa-lizzazione finanziaria, non sono riusciti adesercitare la stessa attrazione. Il capitaletransnazionale non è attratto in Cina dal

saccheggio delle risorse naturali del paese, eneppure per delocalizzare le attività e profit-tare dei bassi salari del lavoro, senza alcuntrasferimento di tecnologia; e neppure percogliere i profitti di unità produttive deloca-lizzate, senza alcuna relazione con un inesi-stente sistema produttivo nazionale, comein Marocco e Tunisia; e neppure per un raidfinanziario che permetta alle banche impe-rialiste di impadronirsi dei risparmi nazio-nali, come avvenne in Messico, in Argentinae nel Sudest asiatico. In Cina invece gli inve-stimenti stranieri possono certo trovarebassi salari da cui trarre succosi profitti, maa condizione che i loro piani si adattino aquelli cinesi e che sia permesso il trasferi-mento di tecnologia. Insomma, si tratta diprofitti “normali”, anche se si può farequalcosa di più in collusione con le autoritàcinesi.

La Cina, potenza emergente

Nessuno dubita che la Cina sia unapotenza emergente. Un’idea diffusa è che laCina stia solo cercando di recuperare ilposto che aveva occupato per secoli e cheaveva perso solo nel XIX secolo. Ma questaidea, certamente corretta e anche lusinghie-ra, non ci aiuta molto a capire la natura delsuo emergere e le sue prospettive reali nelmondo contemporaneo. Incidentalmente,coloro che sostengono questa idea vaga egenerale non hanno alcun interesse a riflet-tere se la Cina sia destinata ad emergereadottando i principi generali del capitalismo(cosa che essi considerano probabilmentenecessaria) oppure mantenendo fede al pro-getto di “socialismo con caratteristichecinesi”. Da parte mia, io affermo che se laCina è veramente una potenza emergente,lo è precisamente perché non ha scelto lavia capitalistica di sviluppo, pura e semplice;e che, di conseguenza, se decidesse di segui-re la via capitalistica, il suo progetto sarebbein serio pericolo di fallimento.

La tesi che sostengo implica il rifiuto del-l’idea che i popoli non possono saltare la

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sequenza necessaria di fasi e che la Cinadeve passare per uno sviluppo capitalisticoprima di poter prendere in considerazioneun possibile futuro socialista. Il dibattitosulla questione fra le diverse correnti delmarxismo storico non si è mai concluso.Marx rimase incerto sulla questione. Si sache appena dopo il primo attacco europeo(la guerra dell’oppio), egli scrisse:“Attenzione, siete alla frontiere della repub-blica borghese della Cina”. Fu una magnifi-ca intuizione e dimostra la sua fiducia nellacapacità del popolo cinese di rispondere allasfida, ma nello stesso tempo rappresentaanche un errore, perché di fatto la frase valetta come “Siete alle frontiere dellaRepubblica popolare cinese”. Eppure sap-piamo che nei confronti della Russia, Marxnon rifiutava l’idea di saltare la fase capitali-stica (vedere la corrispondenza con VeraZasulich). Oggi si potrebbe credere cheaveva ragione il primo Marx, e che la Cina sitrova davvero sulla via dello sviluppo capi-talistico.

Ma Mao aveva capito – meglio di Lenin –che la via capitalistica non avrebbe portatoda nessuna parte e che la resurrezione dellaCina poteva essere solo opera dei comuni-sti. Gli imperatori Qing alla fine del XIXsecolo, seguiti da Sun Yatsen e dalKuomingtang, avevano già pianificato unaresurrezione cinese in risposta alla sfidadell’Occidente. Ma essi non immaginavanoaltra via se non quella del capitalismo e nondisponevano delle forze intellettuali neces-sarie per capire che cosa sia realmente ilcapitalismo e per quale ragione questa stra-da fosse chiusa per la Cina, come per tuttele periferie del sistema capitalistico mondia-le. Mao, uno spirito marxista indipendente,lo capì. Ancor più, Mao capì che la battaglianon era vinta in partenza – con la vittoriadel 1949 – e che il conflitto fra l’impegnosulla lunga via verso il socialismo, che eracondizione per la rinascita della Cina, e ilritorno alle spire del capitalismo avrebbeoccupato tutto intero il futuro prevedibile.Dal mio punto di vista ho sempre condivi-

so l’analisi di Mao e ritornerò alla questionein alcune mie riflessioni sul ruolo della rivo-luzione dei Taiping (che io considero i lon-tani antenati del maoismo), sulla rivoluzionedel 1911 in Cina e su altre rivoluzioni nelSud all’inizio del XX secolo, sui dibattitiall’inizio del periodo di Bandung e le analisidel vicolo cieco in cui sono chiusi i cosid-detti paesi emergenti del Sud che si sonoimpegnati sulla strada del capitalismo. Tuttequeste considerazioni sono corollari dellamia tesi centrale riguardante la polarizzazio-ne (cioè la costruzione del contrasto fracentro e periferia) che domina lo sviluppomondiale del capitalismo storico. La pola-rizzazione elimina la possibilità che unpaese della periferia possa “recuperare”entro il contesto del capitalismo. Da cui sitrae la conclusione che se il recupero, perraggiungere i paesi opulenti, è impossibile,bisogna fare qualcos’altro – cioè intrapren-dere la strada del socialismo.

La Cina ha seguito un suo cammino par-ticolare non solo dal 1980, ma fin dal 1950,anche se tale cammino è passato attraversofasi che sotto molti aspetti sono moltodiverse. La Cina ha sviluppato un suo pro-getto coerente e sovrano, particolarmenteadatto ai suoi bisogni. Non è certamente ilcapitalismo, la cui logica esige che la terraagricola sia trattata come una merce. Lasovranità del progetto resiste nella misura incui la Cina resta fuori dalla globalizzazionefinanziaria contemporanea.

Il fatto che il progetto cinese non siacapitalistico non significa che “è” socialista,ma solo che rende possibile avanzare sullalunga strada verso il socialismo. Tuttavia, èsempre sotto la minaccia di una deriva chelo porti fuori da questa strada per finire inmaniera pura e semplice con un ritorno alcapitalismo.

Gli splendidi risultati conseguiti dallaCina sono il risultato del suo progettosovrano. In questo senso, la Cina è l’unicoautentico paese emergente (insieme con la

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Corea e Taiwan, di cui parleremo più avan-ti). Nessuno dei molti altri paesi cui la Bancamondiale ha rilasciato un certificato di“emergenti” lo è realmente, perché nessunocoltiva con costanza un progetto coerente esovrano. Tutti accettano i principi fonda-mentali del capitalismo, perfino in settoripotenzialmente destinati a un capitalismo diStato. Tutti hanno accettato la globalizza-zione contemporanea in ogni sua dimensio-ne, anche quella finanziaria. La Russia el’India sono eccezioni parziali su questopunto, ma non il Brasile, il Sudafrica e altri.A volte si trovano cenni di “politica indu-striale nazionale”, ma nulla di paragonabileal sistematico progetto cinese di costruireun sistema industriale completo, integrato esovrano (soprattutto nel settore della cono-scenza tecnologica).

Per queste ragioni tutti gli altri paesi,troppo affrettatamente definiti emergenti,restano vulnerabili in misura diversa, masempre molto più della Cina. Per tutte que-ste ragioni, i segni più evidenti del loro statodi paesi emergenti – un congruo tasso disviluppo, la capacità di esportare prodottimanifatturieri – sono sempre collegati con iprocessi di pauperizzazione che colpisconola maggioranza della popolazione special-mente contadina), mentre non è questo ilcaso in Cina. Certamente la crescita delladisuguaglianza è ovvia ovunque, inclusa laCina; ma questa osservazione resta superfi-ciale e ingannevole. La diseguaglianza nelladistribuzione dei benefici in un modello disviluppo che mai l’ha esclusa (anche seaccompagnata da una riduzione della pover-tà, come è il caso della Cina) è una cosa; ladiseguaglianza legata a una crescita chebeneficia solo una minoranza (dal 5 al 30%della popolazione, secondo i casi) mentre ildestino di tutti gli altri resta disperato, èun’altra cosa. Gli adepti del China bashingnon si accorgono – o fanno finta di nonaccorgersi – di questa differenza decisiva.La diseguaglianza che si manifesta nell’esi-stenza di quartieri con ville lussuose da unaparte, e quartieri con abitazioni dignitose

per la classe media e i lavoratori, dall’altra,non è lo stesso che la diseguaglianza che simanifesta nella giustapposizione di quartie-ri ricchi, abitazioni per la classe media eslums per la maggioranza. I coefficienti diGini sono validi per misurare i cambiamen-ti da un anno all’altro all’interno di un siste-ma a struttura fissa. Ma nel confronto inter-nazionale fra sistemi con strutture diverse,perdono del tutto il loro senso, come ognialtra misura di grandezze macroeconomi-che nei rendiconti nazionali.

I paesi emergenti (diversi dalla Cina)sono davvero “mercati emergenti”, apertialla penetrazione dei monopoli della triadeimperialista. Quei mercati permettono allatriade di estrarre a proprio vantaggio unaparte considerevole del plusvalore prodottonel paese in questione. In Cina è diverso: sitratta di una nazione emergente in cui ilsistema permette di trattenere la maggiorparte del plusvalore prodotto in loco.

La Corea e Taiwan sono solo due fortu-nati esempi di autentico processo di emer-sione nel e mediante il capitalismo. Questidue paesi devono il loro successo alle ragio-ni geostrategiche che hanno portato gli StatiUniti a permetter loro di realizzare ciò cheWashington vietava agli altri. Il contrasto frail sostegno che gli Stati Uniti hanno accor-dato al capitalismo di Stato di questi duepaesi e l’opposizione estremamente violen-ta al capitalismo di Stato dell’Egitto diNasser o dell’Algeria di Boumedienne, gettauna luce sufficiente sulla questione.

Non discuterò qui i progetti del Vietname di Cuba, che sembrano abbastanza realiz-zabili, o le condizioni di una possibile ripre-sa del progresso in questa direzione inRussia. E neppure discuterò gli obiettivistrategici della lotta che le forze progressistestanno tentando quasi ovunque nel Sudcapitalistico, in India, nel Sudest asiatico, inAmerica Latina, nel mondo arabo e inAfrica, lotte che potrebbero facilitare l’usci-ta dall’attuale vicolo cieco e favorire la for-mazione di progetti sovrani che possano

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iniziare un’autentica rottura con la logica delcapitalismo dominante.

Grandi successi, nuove sfide

La Cina non è arrivata al bivio solo ades-so: è stata così ogni giorno fin dal 1950. Leforze sociali e politiche della destra e dellasinistra, attive nella società e nel partito,sono sempre state in lotta.

Da dove proviene la destra cinese? Lavecchia borghesia burocratica e comprado-ra del Kuomingtang venne certo esclusa dalpotere. Ma nel corso della guerra di libera-zione, interi segmenti di classe media – pro-fessionisti, funzionari e industriali – delusidall’incapacità del Kuomingtang di fronteall’aggressione giapponese, si avvicinaronoal Partito comunista, o addirittura vi entra-rono. Molti di loro – certamente non tutti –restarono nazionalisti e niente di più. Diconseguenza, con l’apertura all’iniziativaprivata nel 1990, apparve una destra nuovae più forte, non riducibile solo ai busines-smen che hanno avuto successo e fatto (avolte colossali) fortune, rafforzati dallerispettive clientele – che includono funzio-nari di Stato e di partito, incaricati del con-trollo ma che arrivano alla collusione e allacorruzione.

Quel successo, come sempre, ha incorag-giato le idee destrorse nelle classi medieistruite e in costante aumento. In questosenso la diseguaglianza crescente – anche senon ha nulla in comune con la diseguaglian-za di altri paesi del Sud – rappresenta ungrave problema politico, il veicolo per dif-fondere idee di destra e favorire la depoliti-cizzazione e ingenue illusioni.

Voglio fare un’ulteriore riflessione cheritengo importante: la produzione semplice,in particolare quella contadina, non è spintada idee di destra, come pensava Lenin (edera corretto nelle condizioni russe). In que-sto caso la situazione della Cina contrastacon quella dell’ex URSS. I contadini cinesi

nel complesso non sono reazionari perchénon difendono il principio della proprietàprivata, al contrario dei contadini russi, chei comunisti non riuscirono mai a distoglieredall’appoggio ai kulaki in difesa della pro-prietà privata. I contadini cinesi invece,dediti alla produzione semplice, (senza esse-re piccoli proprietari), costituiscono oggiuna classe che non cerca soluzioni di destra,ma agisce nel campo delle forze che voglio-no adottare politiche sociali ed ecologichepiù coraggiose. Il grande movimento di“rinnovamento della società rurale” lodimostra. I contadini cinesi sono situati inmassima parte nel campo della sinistra, afianco della classe operaia. La sinistra ha isuoi intellettuali organici ed esercita unacerta influenza sugli apparati di Stato e dipartito.

Il perpetuo conflitto fra destra e sinistrain Cina si è sempre riverberato nelle succes-sive politiche attuate dallo Stato e dalla diri-genza del partito. Nell’epoca maoista, lalinea di sinistra non ha vinto senza lottare.Avvertendo il progresso delle idee di destraentro il partito e i suoi dirigenti, un po’ allamaniera sovietica, Mao scatenò la rivoluzio-ne culturale per combatterlo. “Bombardareil quartier generale”, cioè la dirigenza delpartito, dove si stava formando la nuovaborghesia. Ma la rivoluzione culturale, chenei primi due anni aveva corrisposto allesperanze di Mao, si risolse poi in completaanarchia, con la perdita di controllo da partedi Mao e della sinistra del partito sul segui-to degli avvenimenti. La deviazione portò loStato e il partito a riprendere in mano lasituazione, dando alla destra una nuovaopportunità. Da allora, la destra è rimastauna parte importante di tutte le entità diret-tive. Ma la sinistra è ancora ben presente sulcampo, e obbliga i massimi dirigenti a com-promessi di “centro” – ma si tratta di cen-tro destra o centro sinistra? Per capire lanatura delle sfide che oggi la Cina deveaffrontare, è fondamentale capire che ilconflitto fra il progetto di sovranità cinese,quale è ora, e l’imperialismo nordamericano

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con i suoi alleati subalterni europei e giap-ponesi, è destinato ad aumentare di intensi-tà finché la Cina continuerà ad avere succes-so. Esistono varie zone di conflitto: lapadronanza cinese delle tecnologie moder-ne, l’accesso alle risorse del pianeta, il raf-forzamento delle capacità militari cinesi, el’obiettivo che si pone la Cina di ricostruirela politica internazionale sulla base del dirit-to sovrano dei popoli a scegliere il propriosistema economico e politico. Ognuno diquesti obiettivi entra in conflitto diretto conquelli perseguiti dalla triade imperialista.

L’obiettivo della strategia politica statuni-tense è il controllo militare del pianeta,l’unico modo per Washington di mantenerei suoi vantaggi egemonici. Questo obiettivoviene perseguito con le guerre preventive inMedio oriente, e in questo senso quelleguerre sono preliminari alla guerra preventi-va (nucleare) contro la Cina, che l’establi-shment nordamericano prospetta a sanguefreddo come possibilmente necessaria“prima che sia troppo tardi”. Fomentarel’ostilità contro la Cina è un fatto insepara-bile da questa strategia globale, che è benmanifesta nel sostegno accordato agli schia-visti del Tibet e del Sinkiang, nel rafforza-mento della presenza navale USA nel Marcinese e nel continuo appoggio alle forzemilitari del Giappone. Gli attivisti del Chinabashing contribuiscono poi a tener vival’ostilità.

Washington nello stesso tempo si dedicaa manipolare la situazione assecondando lepossibili ambizioni della Cina e di altricosiddetti paesi emergenti mediante la crea-zione del G20, destinato a dare a quei paesil’illusione che aderendo alla globalizzazioneliberista farebbero i propri interessi. Il G2(Stati Uniti e Cina) rappresenta un’ulterioreinganno nello stesso senso, perché renden-do la Cina complice delle avventure capita-listiche degli Stati Uniti, farebbe perdereogni credibilità alla politica estera di pace diPechino. L’unica risposta efficace che si puòopporre a questa strategia deve muoversi su

due livelli: 1 – potenziare le forze armatecinesi e fornirle del potenziale necessarioper una risposta deterrente; 2 – perseguiretenacemente l’obiettivo di ricostruire unsistema politico internazionale policentrico,nel rispetto di ogni sovranità nazionale, e inquesto senso agire per dare nuovo vigorealle Nazioni Unite, oggi emarginate dallaNATO.

Voglio sottolineare l’importanza di que-sto secondo obiettivo, che include la priori-tà di ricostruire il “fronte del Sud” (unaBandung 2?) in grado di appoggiare le ini-ziative indipendenti dei popoli e degli Statidel Sud del mondo. Ciò implica a sua voltache la Cina si renda conto dell’assurdità diun possibile allineamento con le pratichepredatorie dell’imperialismo (il saccheggiodelle risorse naturali del pianeta), dato cheessa non possiede una potenza militare ana-loga a quella degli Stati Uniti, che è in ulti-ma istanza la garanzia del successo dei pro-getti dell’imperialismo. La Cina invece hamolto da guadagnare se continuerà a offriresostegno all’industrializzazione dei paesi delSud, che il club dei “donatori” imperialistista cercando di rendere impossibile.

Il linguaggio usato dalle autorità cinesisulle questioni internazionali, estremamentemisurato (il che è comprensibile) rende dif-ficile capire in quale misura i dirigenti delpaese siano consapevoli delle sfide cheabbiamo analizzato. Più seriamente, la scel-ta di quel linguaggio rafforza illusioni inge-nue e la depoliticizzazione dell’opinionepubblica.

L’altro aspetto della sfida riguarda la que-stione della democratizzazione della gestio-ne politica e sociale del paese. Mao formulòe mise in pratica un principio generale per lagestione politica della nuova Cina, che rias-sunse in questi termini: unire la sinistra,neutralizzare (aggiungo: e non eliminare) ladestra, governare dal centro sinistra. A mioparere, questa è la maniera migliore e piùefficace per avanzare gradatamente, con la

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comprensione e l’appoggio della grandemaggioranza. Mao diede un contenutopositivo al concetto di democratizzazionedella società combinata con il progressosociale sulla lunga strada verso il socialismo.Egli ne formulò il metodo in questa manie-ra: “la linea di massa” (scendere fra lemasse, apprendere le loro lotte, tornare su aivertici del potere). Li Chun ha analizzatocon precisione questo metodo e i risultatiche ha reso possibili.

La questione della democratizzazionelegata al progresso sociale – in contrastocon una “democrazia” slegata dal progressosociale (e spesso anzi legata al regressosociale) – non riguarda solo la Cina, ma tuttii popoli del mondo. I metodi da usare perrisolvere felicemente la questione non sipossono riassumere in una sola formula,valida per tutti i tempi e i luoghi. In ognicaso, la formula offerta dai mezzi di propa-ganda occidentali – pluripartitismo ed ele-zioni – dovrebbe venir semplicemente rifiu-tata. Questo tipo di “democrazia” finisceper essere una farsa perfino in occidente, eancor più altrove. La “linea di massa” fu ilmezzo per produrre consenso su obiettivistrategici successivi in progresso costante,mentre il “consenso” nei paesi occidentaliviene ottenuto mediante la manipolazionemediatica e la farsa elettorale, e non è altroche l’allineamento alle esigenze del capitale.

Ma la Cina come potrebbe iniziare oggi aricostruire l’equivalente di una nuova lineadi massa nella nuova situazione sociale?Non sarà facile dato che il potere dei diri-genti, che nel Partito comunista si è per lopiù spostato a destra, fonda la propria stabi-lità sulla depoliticizzazione e sulle ingenueillusioni che accompagnano lo spostamento.Il grande successo della politica di svilupporafforza la tendenza spontanea a muoverein quella direzione. Le classi medie cinesisono ampiamente convinte che la stradamaestra per raggiungere il livello di vita deipaesi opulenti si è ormai aperta e nonincontra alcun ostacolo; credono che gli

Stati della triade (Stati Uniti, Europa,Giappone) non vi si oppongono; i metodidegli USA sono perfino ammirati acritica-mente, ecc. Ciò è vero in particolare per leclassi medie urbane che si stanno rapida-mente espandendo e le cui condizioni divita sono migliorate in maniera incredibile.Il lavaggio del cervello cui gli studenti cine-si sono sottoposti negli Stati Uniti, in parti-colare nelle scienze sociali, combinato con ilrifiuto di un insegnamento del marxismonoioso e privo di immaginazione, hannocontribuito a restringere lo spazio per dibat-titi critici radicali.

Il governo cinese non è insensibile allaquestione sociale, non solo per la tradizionedi un discorso fondato sul marxismo, maanche perché il popolo cinese, che ha impa-rato a combattere e continua a farlo, forza lamano del governo. Se negli anni 90 ladimensione sociale si era ridotta di frontealla priorità immediata di accelerare la cre-scita, oggi la tendenza si è rovesciata.Proprio nel momento in cui nell’Occidenteopulento si erodono le conquiste socialde-mocratiche della sicurezza sociale, la poveraCina sta espandendo concretamente la sicu-rezza sociale in tre direzioni – sanità, casa epensioni. La politica di abitazioni popolaridella Cina, sbeffeggiata dalla destra e dallasinistra europee, sarebbe invidiata non soloin India o in Brasile, ma anche nelle perife-rie di Parigi, Londra o Chicago.

Il sistema pensionistico e di sicurezzasociale copre ormai il 50% della popolazio-ne urbana (che – ricordiamolo - è cresciutada 200 a 600 milioni di persone) e il Piano(che ancora si formula in Cina) prevede diestendere la copertura all’85% della popola-zione nei prossimi anni. Invitiamo i giorna-listi esperti di China bashing a portareesempi comparabili nei paesi “avviati sullavia democratica” che essi continuamentelodano. Resta peraltro sempre aperto ildibattito sui metodi per attuare il sistema. Irappresentanti della sinistra sostengono ilsistema francese basato sul principio della

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solidarietà fra lavoratori e fra le diversegenerazioni – il che è una preparazione a unfuturo socialismo – mentre la destra prefe-risce ovviamente l’odioso sistema statuni-tense dei fondi pensione, che divide i lavo-ratori e trasferisce i rischi dal capitale allavoro.

Ma la conquista di benefici sociali non èsufficiente se non si combina con la demo-cratizzazione della gestione politica dellasocietà, con la sua ri-politicizzazionemediante metodi che favoriscano l’inven-zione creativa di nuove forme per il futurosocialista/comunista.

Seguire i principi del sistema elettoralepluripartitico, come ripetuto alla nausea daimedia occidentali e dagli attivisti del Chinabashing, e difeso dai “dissidenti” presentaticome veri “democratici”, non serve perrispondere alla sfida. Al contrario, l’applica-zione di quei principi in Cina porterebbe –come dimostrano le esperienze del mondocontemporaneo, in Russia, Europa orienta-le e mondo arabo – all’autodistruzione delprogetto di progresso economico e rinasci-ta sociale, che è di fatto l’obiettivo attuale dicoloro che invocano quei principi, con lamaschera di una vuota retorica (“non c’èaltra soluzione che il pluripartitismo e le ele-zioni!”). Ma non è sufficiente contrastarequesta pessima soluzione con un ritornoalla posizione rigida di difesa del “partito”,ormai sclerotizzato e diventato un’istituzio-ne destinata a reclutare i funzionari dell’am-ministrazione statale. Bisogna inventarequalcosa di nuovo!

Gli obiettivi di tornare a politicizzare lemasse e creare le condizioni favorevoliall’invenzione di nuove risposte non si pos-sono raggiungere con campagne di “propa-ganda”, ma solo mediante lotte sociali, poli-tiche e ideologiche. Ciò implica anzitutto ilriconoscimento della legittimità di tali lottee una legislazione basata sui diritti collettiviall’organizzazione, all’espressione e alla pro-posta di iniziative legislative. E ciò a sua

volta implica che anche il partito sia coin-volto in queste lotte: in altri termini, rein-ventare la formula maoista della li¬nea dimassa. La ri-politicizzazione non ha alcunsenso se non è combinata con procedureche incoraggino la graduale assunzione diresponsabilità da parte dei lavoratori nellagestione della società a tutti i livelli – azien-dali, locali e nazionali. Un programma diquesto tipo non esclude il riconoscimentodei diritti individuali di ogni persona, ma nesuppone l’istituzionalizzazione, e apre lastrada alla possibilità di inventare nuovemaniere di usare le elezioni per la scelta deileader.

Nota

Questo articolo deve molto ai dibattiti organiz-zati in Cina (novembre-dicembre 2012) da LauKin Chi (Università Linjang, Hong Kong), inassociazione con la Università sud-ovest diChiongqing (Wen Tiejun) e le Università Renmine Xinhua di Pechino (Dai Jinhua, Wang Hui), laCASS (Huang Ping) e alle riunioni organizzatecon gruppi di attivisti del movimento rurale nelleprovince di Shanxi, Hubei, Hunan e Chongqin.Estendo a tutti loro i miei ringraziamenti e la miasperanza che questo articolo possa essere utile per leloro future discussioni. Devo anche molto agli scrit-ti di Wen Tiejun e Wang Hui.

Dalla rivista Monthly Review(traduzione di Nunzia Augeri)

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I DENTI DEL DRAGO.STORIA DELL’INTERNAZIONALENERA TRA MITO E REALTÀI rapporti con il neofascismo italiano

BSF Edizioni, 2013, 15 Euro

Con l’espressione “Internazionale nera”si intende fare riferimento a esperienze delsecondo dopoguerra caratterizzate da rap-porti organici e continuativi tra partiti,gruppi o movimenti di matrice neofascistao neonazista, volti a incidere sulla scenapolitica.

In questo contesto, nella nostra ricostru-zione storica, non rientrano organizzazionicome Odessa (Organizzazione degli exappartenenti alle ss), fondata ancor primadella fine del Terzo Reich da ufficiali delle ss(in prima fila il colonnello Otto Skorzeny),oltre che da alti funzionari e rappresentantidelle industrie tedesche, o come Die Spinne(Il Ragno), costituita da criminali nazisti.Così dicasi della Hiag (Associazione dimutuo aiuto a ex membri delle Waffen-ss)nata nel 1951 o di Stille Hilfe (Aiuto silen-zioso per prigionieri di guerra e internati),registrata legalmente nel 1951 per iniziativadi ex ss, prelati della chiesa evangelica e cat-tolica, successivamente e fino ai giorninostri guidata da Gudrun Burwitz, la figliadi Heinrich Himmler, il comandante supre-mo delle ss.

Lo scopo di tutte queste strutture fuprincipalmente quello di garantire la fugadei dirigenti e dei soldati più compromessi,la loro assistenza e l’eventuale reinserimen-to dopo la fine della guerra, accantonandoper tempo anche ingenti patrimoni. Unobiettivo in buona parte conseguito se solosi considera quanti tornarono a incarichi dirilievo, sia nel mondo economico sia inquello politico, in alcuni paesi dove eranoriparati (Portogallo, Spagna, paesi arabi eAmerica latina) o nella stessa Germaniafederale. Nel parlamento tedesco, ilBundestag, eletto nel 1957, quasi un quarto

dei deputati risultò avere un passato nazista.Due di queste realtà organizzate, Odessa

e Die Spinne, scomparvero già negli anniCinquanta. Tutte, comunque, dettero uncontributo, anche finanziario, allo sviluppodelle organizzazioni neonaziste, partecipan-do seppur limitatamente ai diversi tentatividi costruzione di un’Internazionale nera.

Questo obiettivo di ridare vita alle vec-chie idee e ai miti del passato, venne rivesti-to in modo immaginifico dagli stessi prota-gonisti dell’aura di un’impresa mitologica. Ilrimando era agli antichi miti greci della fon-dazione di Tebe e degli Argonauti, daCadmo a Giasone, dove i denti dei draghisconfitti furono riseminati per far nascereschiere di nuovi guerrieri armati. Allo stessomito si rifecero in Italia anche quei nuclei direpubblichini, che rimasti legati fra lorosegretamente dopo la fine della guerra mon-diale, non a caso, si denominarono «Uovadel drago». “Soldati in sonno” prontiall’azione.

La storia dell’Internazionale nera e deisuoi rapporti con il neofascismo italiano,dall’immediato dopoguerra a oggi. Un lavo-ro storico-giornalistico condotto sulla basedei materiali informativi provenienti daicentri di documentazione ebraici, dellaResistenza e della Deportazione, ma soprat-tutto reperiti in questi ultimi anni negliarchivi di polizia e dei servizi segreti. Unaricca documentazione per una ricerca nonall’insegna di suggestioni o facili sensazio-nalismi, ma di una minuziosa ricostruzionedei multiformi tentativi di dar vita a uncoordinamento dell’estrema destra su scalamondiale.

Un excursus pluridecennale, dalla primaInternazionale di Malmoe alle reti neonazi-ste attuali, da Blood and Honour agliHammerskin, passando per gli antisemitidel Nuovo ordine europeo, i terroristidell’Oas, Jeune Europe, la World union ofnational socialits e le trame dell’AginterPresse dietro la strage di piazza Fontana e lastrategia della tensione in Italia.

In appendice un saggio sui populismi e leestreme destre oggi in Europa, a Est e aOvest.

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