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Lara M. B.

Adattarsi al risveglio(Human Hybrid)

Copertina: Fotografia di Abdulaziz Almansour, Kuwait,

Canon EOS 40D 17-85mm IS USM Fonte www.sxc.hu

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Alla mia cara, unica e universale amica Deborah,

senza il suo sostegno non avrei scritto una parola

A Thomas,compagno di vita che

ho tormentato per leggerlo

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Estrazione

La mano del professor Stevens si agitava dimenandosi come un animale in trappola. Mescolava deciso sparpagliando i biglietti in moto vorticoso. “Giornata dell'estrazione” aveva annunciato entrando in aula, e ora in piedi, davanti alla lavagna, gongolava stringendo la palla di vetro in una morsa tentacolare assorbita per metà dalla flaccida pancia.Insegnava letteratura moderna da vent’anni, e nonostante una vita passata davanti ai banchi di scuola, ancora provava un macabro divertimento nel sorteggiare le coppie studio con la lotteria del fato, così amava chiamarla. Annoiata, ormai da quattro anni, assistevo al solito teatrino della suspense, senza alcun entusiasmo. Quattro anni durante i quali per destino o sfortuna mi era toccato più o meno studiare con quasi tutti quelli del mio corso, e questa, per fortuna, era l'ultima volta. Mancavano solo tre mesi alla fine della scuola, tre interminabili mesi. “Leila Harvey” disse sbandierando ai quattro venti il biglietto con scritto il mio nome. Era solo il quinto estratto, restavano ancora diciotto anime su cui infliggere la scure, sospirai nell'attesa scarabocchiando sul quaderno.La mano riprese le acrobazie, centrifugava i fogli su e giù, rimestandoli dalla loro passività, inermi acrobati del caso.Metodico a livello esponenziale Stevens, di solito usava

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rovistare quattro volte prima di calare l'artiglio, e così condannarci allo studio sociale, ma non questa volta.Qualcosa sembrava avergli catturato l'attenzione, fissava un punto indefinito, quasi fosse ipnotizzato da una visione celestiale. Incerti e meravigliati dal cambio di rotta, con alcuni compagni ci scambiammo degli sguardi dapprima divertiti poi sempre più perplessi. Qualcuno richiamò il professore, che non sembrò rianimare la sua attenzione. Trascorse forse un minuto, poi come se nulla fosse riapprodò sul pianeta Terra. Gli occhi, fino ad un'istante prima spenti e vuoti, si posarono su di me, nuovamente vivaci e pieni di aspettative e fissandomi fece scattare la morsa intrappolando un biglietto fra tutti. Ci siamo, pensai.Mentre leggeva il nome, cercai di indovinare dalla sua espressione chi fosse il prescelto. Scrutai attentamente strizzare gli occhi dietro le spesse lenti, e analizzai la scia dei solchi dell’età diramarsi fino alle tempie. Fu il leggero movimento delle labbra, lo schiudersi appena quel tanto da far uscire un piccolo soffio d'aria, a scuotermi come un fulmine in piena estate. Era il chiaro segno che indicava una sola persona fra tutte le presenti. Nell'istante che lo realizzai la voce rauca di Stevens echeggiò nell'aula: Evan Hassler. Immediatamente si sollevò un acceso mormorio insieme ad alcune risate. Una sequenza inarrestabile di occhiate di scampato pericolo mi colpirono come frecce lanciate da un plotone di arcieri provetti. Non potei fare altro che rispondere con un sorriso ironico di circostanza, era la dura legge dell'estrazione e del fato a cui non si scappava.Mi girai piano a guardarlo, nella speranza di incontrare un gesto di cortesia, un sorriso, una smorfia di noia, un

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sussulto della mano, una scrollata di spalle, insomma, qualsiasi movimento lo rendesse umano. Invece, come al solito, trovai i suoi occhi neri fissi e invalicabili. Evan Hassler era il peggio che potesse capitarti. Nessuno voleva avere a che fare con lui. Introverso all'ennesima potenza, avevi sempre l'impressione che fosse sul punto di ucciderti. Rigido, silenzioso, schivo. Un cattivo educato.Si sapeva poco di lui, era arrivato con la sua famiglia a Fairbanks più o meno cinque anni prima, da una sconosciuta località dell'Alberta, oltre a frequentare il mio stesso corso di letteratura moderna, latino, e forse anche qualche altra materia, nient'altro era dato sapere. Nonostante venisse a scuola regolarmente era come se non ci fosse, invisibile, distaccato, taciturno, sempre per conto suo e da un paio di anni accompagnato dalle due sorelle più giovani e un certo Ryan Mchill del terzo anno. Anche loro con una bella areola d’asocialità. Data l'invisibilità che li contraddistingueva, ormai, nessuno faceva più caso a loro. Esclusi da ogni forma aggregativa, scolastica, extra scolastica, sociale, umana. Per quel che mi riguardava, in quasi mille giorni di scuola gli avevo rivolto la parola si e no due volte e solo in situazioni di dovuta circostanza. Venivano chiamati affettuosamente la famiglia Addams, naturalmente lui era Lurch per via dell'altezza, dato che a differenza del maggiordomo degli orrori, era decisamente più giovane e carino, ma inquietante al cubo.Il suono della campanella coincise con l'estrazione dell'ultimo biglietto. Con la coda dell'occhio lo intravidi spingere la sedia nell’intento di alzarsi, era il momento giusto per parlargli, ma dovevo agire in fretta. Veloce, come un bradipo sotto

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adrenalina, mi portai vicina al suo banco e per la terza volta in quattro anni, con un filo di voce, gli rivolsi la parola.“Come ci organizziamo?” bisbigliai.“Scusa!?” rispose Evan leggermente infastidito e sorpreso.“Dicevo… come ci organizziamo per la tesi su Anna Karenina?” lo dissi tutto d’un fiato mentre il cuore accelerava con prepotenza.“Alle tre e mezza alla biblioteca centrale” rispose senza alcuna esitazione.La risposta rapida e precisa mi colse impreparata. “D'accordo” dissi “ti lascio il mio numero di telefono così se ci sono problemi mi puoi sempre avvertire”.“Non c'è bisogno, ci sarò” immobile mi squadrò.Senza badare alla risposta presi dal quaderno un pezzo di carta per scrivergli il numero. O almeno cercai di farlo. Mi sentivo le mani pesanti e rigide. Scarabocchiai il numero alla meno peggio e gli porsi il foglietto. “Tieni”.Evan mi stava ancora fissando con i suoi occhi bui che, per quanto intensi, sembravano scrutarmi l'anima. “Che c'è?” chiesi con una nota di rimprovero.Ero affetta da una leggera eterocromia agli occhi e spesso concentrava gli sguardi di chi incontravo. Era il motivo per cui molti mi chiamavano la ragazza Bowie e più spesso la ragazza cane. Ormai ero abituata e non ci facevo più caso, ne me la prendevo, ma la prepotenza con cui Hassler mi stava fissando mi disturbava. L'espressione tornò come al solito rigida, annoiata, glaciale, con un movimento impercettibile sfilò il foglio dalle mie dita e se lo infilò in tasca, senza dargli nemmeno un'occhiata.

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“Ci vediamo davanti” sorrise senza allegria dileguandosi rapido verso l'uscita dell'aula.Un'onda gelida attraversò ogni cellula del mio corpo, farfugliai un “Okay” strozzato che udii solo io e forse il professor Stevens, il quale dalla cattedra mi osservava con un sorriso ambiguo. Che cosa aveva da sorridermi quel vecchio idiota. Maledetto lui e le sue ricerche. Pensai.Lentamente raccolsi le mie cose, cercando di arginare la delusione. “Ti tocca fare la tesi con Lurch?” la voce familiare di David mi raggiunse portando il buonumore appena perduto. Mi voltai a guardalo “Come fai a saperlo?”.“Beh, ti ho visto parlare con l’uomo che sussurrava al vuoto” replicò “così ho chiesto a Samantha cosa diavolo stava succedendo. Mi sembrava davvero strano che tu tentassi un approccio e soprattutto che lui parlasse”.“Hai visto come mi guardava?” mormorai ancora frastornata dalla conversazione gelida di poco prima “è davvero un tipo poco rassicurante” dissi a voce bassa.“Così lo sminuisci” rispose.Sorrisi incerta, “Credo di aver fatto la figura dell'idiota”. “Che novità, niente di nuovo” mi prese sotto braccio accompagnandomi fuori dall'aula.“Dai! andiamo, non ci pensare”.Come una bambina mi lasciai trascinare lungo il corridoio, fuori da scuola, alla luce bianca del cielo lattiginoso. Durante il tragitto verso casa pensai all'appuntamento del pomeriggio. Non avevo proprio idea di cosa aspettarmi, era la prima volta che facevo una ricerca con lui. Sapevo, dai racconti dei miei compagni, si sarebbe presentato con

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la tesi già bella e fatta. In cuor mio lo speravo davvero, il libro mi aveva proprio annoiato, e l'idea di rileggerlo e approfondirlo mi sconfortava.“Allora, che fai oggi?” chiese David mentre accostava l'auto davanti casa.“Lo sai, no, devo vedere Hassler per la ricerca” risposi.“Ah già, me ne ero scordato, allora buona fortuna, poi fammi sapere com'è andata. Io resterò a casa, devo ripassare trigonometria, magari ci vediamo più tardi”.“Non lo so, comunque ti faccio sapere” scesi dall'auto inoltrandomi nel vialetto.David era una specie di fratello adottivo, abitava tre case a sud della mia, ottanta passi esatti. Lo conobbi il giorno dopo il nostro arrivo a Fairbanks. Secondo la tradizione del vicinato impiccione, era stato costretto da sua madre ad accompagnarla a presentarsi. Con la pettinatura a scodella e le ginocchia incerottate, era comparso alla porta con una torta tra le mani. Ma la presentazione durò il tempo di un batter di ciglia. Gli era bastato scorgere Mario Bross alla Playstation, per precipitarsi nel soggiorno offrendo a me e mia sorella un pezzo di torta in cambio di un joypad, il tutto senza nemmeno presentarsi a mio padre. Questo accadeva esattamente dieci anni or sono. Da allora entra e esce da casa mia come fosse la sua e altrettanto faccio io.Varcata la soglia, abbandonati zaino, giacca, cappello, sulla cassapanca di legno all'ingresso, mi incamminai verso il soggiorno. Della musica proveniva dalla stanza di mia sorella.“Ciao! Sono a casa” urlai sbirciando lungo il corridoio. La porta era chiusa, e il fatto che non rispondesse era il chiaro segnale della presenza di Brian.

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Silenziosamente mi infilai nella mia camera. Prima dell'appuntamento avevo ancora un paio di ore, decisi di dedicarle a quello che mi riusciva meglio, oziare. Sdraiata ad ascoltare la musica, lentamente, piano piano mi appisolai. Era il momento più bello dei pomeriggi invernali dell'Alaska. Sonnecchiare nel tepore di casa e far passare le giornate noiose e fredde del Nord. Ma purtroppo fu un sonno breve, l’entrata elefantesca di mia sorella Jennifer pose fine alla quiete.“Ho saputo che ti tocca?” gracchiò.“Cosa?” risposi allarmata con il cuore in gola “ma sei matta?”.“Ti devi vedere con Evan … il fantasma!”.La guardai esterrefatta “Ma chi te l'ha detto?”. “Chi vuoi che me l'abbia detto ... Samantha, no. Ti ricordi? sorella di Brian, nonché mio fidanzato e molto probabilmente futuro marito?” e per l'ennesima volta dalla sera prima mi mostrò il brillante regalato da Brian per San Valentino.“Già” bofonchiai “E quando te lo avrebbe detto?”.“Un minuto fa” squillò.Scossi la testa “E' allucinante”. Mentre mi rialzavo dal letto, intravvidi Brian attraversare il corridoio, e rapida, pur di togliermi dalle grinfie di Jennifer lo pedinai in cucina.Di Brian mi piaceva il fatto che qualsiasi cosa stesse accadendo, un terremoto, un incendio, la fine del mondo, lui restava serafico, distaccato, sornione. Credo che fosse proprio questa caratteristica a permettergli di resistere alla mia imperativa sorella ormai da tre anni. La sua presenza mi consolava e soprattutto ammortizzava Jennifer.“Ciao Leila!” disse allungandomi il cartone del succo di

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frutta appena prosciugato.“No, grazie” risposi sedendomi al tavolo “comunque, tua sorella è un pozzo senza fine”.Mi sorrise “Lo so, per questo preferisco stare qui piuttosto che a casa con lei”.“Ti capisco” annuii.Jennifer, nel frattempo, si era seduta sul bancone della cucina e con le gambe stringeva quelle di Brian in una morsa audace. Odiavo le loro smancerie. Schiarendomi la voce richiamai la loro attenzione.“Eilà ci sono anche io … qui … con voi” sventolai la mano “mi vedete?”.Jennifer sbuffò allontanando Brian il quale si sedette accanto a lei.“Ti prego di stare attenta” disse con il suo tipico tono da sorella maggiore apprensiva “Sono sempre quelli così che poi si svegliano un giorno e fanno un massacro o peggio. Dove vi incontrate?”.“Alla biblioteca” risposi sbuffando “comunque a me sembra solo schivo e non squilibrato come dici tu. Se fosse davvero pericoloso non credi sarebbe già successo qualcosa. Invece se ne sta sempre per i fatti suoi. Sembra sempre iper-controllato”.“Magari sono in fuga, o magari … sono dei vampiri!” disse Brian afferrandomi la testa cercando di mordermi il collo. Lo allontani spingendolo contro il frigorifero dando il via al solito tafferuglio casalingo. “Sì proprio!” gracchiò Jenny “però non è figo come un vampiro”.“Beh, io lo trovo carino” dissi annaspando nella stretta al collo di Brian “strano, sì, ma a modo suo carino”.

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Le loro espressioni si fecero immediatamente interrogative e sorprese, Jennifer stava per dire qualcosa, ma venne richiamata dal rumore dell'auto di papà. Rapida balzò giù dal bancone proiettandosi in soggiorno ad accendere la televisione mentre Brian lesto si infilava le scarpe. Come se papà fosse un fesso. Pensai fra me. “Ciao ragazze e … ciao Brian, che sorpresa!” senza esitazione gli affondò una pacca amichevole e punitiva allo stesso tempo sulla spalla. Sapeva perfettamente dei loro pomeriggi da educational channel trascorsi in camera di Jenny.“Non mi fermo, sono passato a prendere dei documenti, ho la riunione di presentazione con lo staff su un nuovo metodo di cablaggio dell'utero”.“Papà!” urlò mia sorella dal divano “non ci interessano i dettagli horror”.“Va bene, va bene, prendo i fogli della ricerca, e me ne vado”.In quell'andirivieni non mi degnò nemmeno di uno sguardo.“Ciao papà” urlai quando ormai era sulla soglia, lontano anni luce dal ménage familiare.“Tutto bene tesoro?” rispose a tono dal portico.“Sì tutto bene”.“Perfetto, allora a stasera”.Trafelato, in orbita verso un'altra dimensione, si dileguò. Era fatto così. Sempre di corsa a far nascere bambini. Me ne tornai in camera sprofondando al computer. David aveva postato la sigla della famiglia Addams, chiara allusione al mio incontro pomeridiano, naturalmente, Samantha aveva commentato.

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Mancava meno di un'ora all'appuntamento, e per passare il tempo decisi di fare qualche ricerca in internet, giusto per avere degli spunti da proporre, casomai si fosse presentato a mani vuote. La North Star Pubblic Library non era molto distante e ci sarei andata volentieri a piedi, se non fosse per le previsioni meteo. Era in arrivo l’ennesima tempesta di neve. Decisi di farmi prestare l'auto da David, promettendogli di riportarla entro le cinque. Nonostante avessi in comproprietà con mia sorella un'auto, da un mese mi era stato vietato l'uso del mezzo dopo che accidentalmente avevo tamponato l'auto della polizia. Inutili i milioni di tentativi per farle capire la mia buona fede e la sfortuna, non era stata colpa mia, almeno volutamente, ma del maledetto fondo stradale ghiacciato. Non avevo avuto alternative. O planavo lungo la strada come un proiettile senza controllo o mi fermavo con l’auto che mi precedeva, e quel giorno l'unica macchina presente sul mio tracciato era stata quella del bel tenente Henderson. Arrivai all’appuntamento in anticipo di qualche minuto, faceva troppo freddo per aspettarlo fuori, così mi infilai nell'atrio della biblioteca. Il silenzio spettrale risvegliò la sensazione di angoscia che da qualche giorno mi portavo addosso. La paura, e la certezza che qualcosa di insolito stava per accadere. Buttai un occhio oltre l'ingresso e immediatamente intercettai la bibliotecaria al bancone assorta al computer e una ragazza seduta ad un tavolo nascosta da una barriera di libri. Mi rilassai, proprio deserto non era. Nell'attesa osservai dalla vetrata il panorama triste di Fairbanks. Era la solita fotografia sbiadita, un lungo e disteso deserto bianco che si perdeva

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con il cielo dello stesso colore. L'ordinario paesaggio da inverno dell'Alaska, bianco di giorno, di mille colori la notte. Mentre contemplavo il panorama glaciale lo vidi arrivare a piedi da ovest. Il passo rapido e deciso era sinuoso ed elegante. Ne restai sorprendentemente rapita, in tutti quegli anni di scuola non l'avevo mai notato. Mi chiesi se non fosse una legenda la storia che non praticava attività fisica per problemi cardiaci, a vederlo avanzare in quel modo sembrava prestante e in buona salute.A differenza del mio sistema cardiocircolatorio che aveva iniziato a fluire all'impazzata. Feci due profondi respiri nella speranza di abbassare la frequenza e così allentare la morsa alla gola. Ora, stava salendo le scale, statuario e terrificante. Cercai di sorridere anche se la sua espressione non invitava a troppe smancerie. Trattenni il respiro e con decisione tirai la porta a vetri verso l'interno invitandolo ad entrare.“Grazie” disse.“Di niente. Mi sono messa dentro perché fuori fa freddo” esordii stringendomi nelle spalle.Annuì inespressivo, facendomi sentire un'idiota e fuori luogo. Ritenta sarai più fortunata, pensai.“Ehm, senti, ho trovato un po' di informazioni in internet” dissi tirando fuori i fogli stropicciati dalla borsa. E come già intuivo, non feci in tempo a spiegarli, con la destrezza di un abile mago, Evan estrasse dalla giacca un fascicolo rosso. Addirittura rilegato.“Ho già fatto tutto, tieni. Ti prego di leggerla e domani a scuola mi dici se hai degli interventi da fare” il tono era come sempre scortese.

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“Come previsto” mormorai “me l'hanno detto che fai tutto tu”.“Sì!” replicò “non mi piace studiare con gli altri”.Mi sorpresi da tanta loquacità, era la conversazione più lunga che gli avessi mai sentito fare da quattro anni a questa parte, e sorprendentemente non mugugnava come Lurch. Stavo per accettare, quando la curiosità decise di stuzzicarmi. Non volevo che finisse lì, poteva essere l'occasione giusta per scoprire qualcosa in più su Evan e la sua strana combriccola di simpaticoni. “Beh se per questo, anche a me non piace studiare con gli altri, quindi ... dato che non è una mia scelta dover lavorare con te, lo faccio subito. Stasera vorrei fare altro piuttosto che leggere il manoscritto su Anna Karenina” senza aspettare alcuna risposta agguantai il plico dalle sue mani, girai le spalle e decisa puntai verso l'area lettura. Adocchiai il primo tavolo sotto la finestra a est e mi ci fiondai. Mentre attraversavo la sala pregai mi stesse seguendo. L'ultima cosa che volevo era fare la figura della stupita e ritrovarmi da sola. Scivolai nella sedia e alzai lo sguardo. Evan era esattamente come lo avevo lasciato, immobile, accanto alla porta di ingresso. Gli indicai la sedia vicino facendogli segno di venire a sedersi. Irrigidito si mosse adagio, e contrariato, irritato avanzò verso il tavolo senza mai togliermi gli occhi di dosso. Optò per la sedia di fronte alla mia, un chiaro segnale di sfida.Se proprio doveva uccidermi non lo avrebbe fatto di certo in un luogo pubblico, pensai.“Come vuoi” disse con la solita espressione indecifrabile.“Bene” risposi lanciandogli un'occhiata sprezzante, affinché gli fosse ben chiaro che non mi faceva paura.

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Aprii il corposo fascicolo e iniziai a leggere.Mi bastò la sola introduzione per capire fin da subito quanto la ricerca fosse ben fatta, e scritta in maniera impeccabile. Mi chiesi come avesse fatto in così poco tempo. Eravamo usciti da scuola da meno di due ore, troppo poco per mettere giù venti pagine. Con l'accozzaglia di roba che avevo scaricato da internet, in dieci ore sarei riuscita a mettere insieme al massimo tre pagine, per di più, incoerenti.Più o meno alla ventesima riga, un bisbiglio richiamò la mia attenzione. Alzai lo sguardo e mi guardai attorno, ma non vidi nessuno oltre alla bibliotecaria e allo scudo di libri della ragazza ed erano troppo distanti da noi per avvertire le loro voci. Nella panoramica incontrai invece il suo sguardo penetrante. Lo stesso che aveva avuto la mattina mentre scrivevo il numero di telefono.“Che c'è?” chiesi innervosita “hai problemi con i miei occhi?”.Dovevo averlo preso di sorpresa, poiché corrugò la fronte dimostrando di essere vivo in quel corpo sempre rigido.“No, non ho nessun problema” rispose.Di nuovo percepii un altro bisbiglio.“Hai sentito?” chiesi fissandolo.Esitò sezionando ogni frammento delle mie pupille “Cosa?” chiese in un tono astioso e allo stesso tempo turbato.“Un bisbiglio?”.“No, niente” disse “sono qui in attesa che tu finisca di leggere la tesi nel deserto di questa biblioteca e non ho sentito nulla”.Lo guardai perplessa. Era proprio odioso, di mala voglia ripresi a leggere.

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“Sono sicuro che troverai la tesi perfetta” disse improvvisamente.“Lo vedo che è perfetta..., però se permetti finisco di leggerla” risposi secca pentendomi già dalla prima sillaba, non era da me comportarmi con supponenza sgarbata, ma aveva ragione. Perché mai la stavo leggendo? Se dovevo essere sincera, non me ne fregava proprio nulla di Anna Karenina e del suo patema amoroso. La verità era che stavo prendendo tempo, speravo di scoprire qualcosa di più su quell'essere alieno, ma chi ero io per superare il muro del suo silenzio? In quattro anni nessuno era riuscito. Era meglio andarsene a casa e farla finita lì. Stavo per chiudere il plico, quando Evan si alzò, un movimento morbido che mi fece desistere dalle mie intenzioni.“Vuoi dell'acqua?” mi chiese accennando un sorriso, per la prima volta nel secolo. Dovevo aver visto male. Evan Hassler non sorrideva mai.“No, grazie” risposi a disagio.“Io sì” accennò di nuovo un sorriso “vado a prenderla, resta qui” veloce si allontanò.“E dove vuoi che vada” mormorai sarcastica tra me e me.Nell'attesa lessi ancora qualche riga. Che noia. La teoria sul libro di Anna Karenina era corretta, in linea perfetta con quanto raccontato dal professor Stevens e dal resto del mondo. Un libro epocale e totalizzante. Personalmente lo trovavo noioso, e triste, odiavo Kitty e la sua scelta da minestra riscaldata. Rifiutata dal belloccio di turno, avvinta da una profonda crisi di identità depressiva, si rifugiava nella fede cieca per poi sposare alla fine il povero Levin, il meno peggio. Mentre Anna, vittima di se stessa e di sentimenti malati, si buttava nella disperazione

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rovinandosi la vita, e lasciando due orfani. Mi davano noia i romanzi di questo genere, mi infastidivano le sofferenze amorose. Per me l’amore non poteva essere disperazione, abnegazione, sacrificio. Che strazio. E scegliere il meno peggio lo trovavo anche più dilaniante. Ma questa era la mia umile teoria. Di sicuro se avessi espresso questi concetti al professor Stevens, non mi avrebbe nemmeno classificato.Evan tornò con due bottigliette d'acqua, e gentile me ne offrì una.“Grazie” dissi abbozzando un sorriso ebete.“Prego, allora cosa ne pensi?” mi incalzò guardando il fascicolo.La speranza era davvero l'ultima a morire. Mi stava facendo una domanda. Qualcosa di più del solito niente, e incredibilmente il tono era cortese.“Bella, non posso dire altro. Avevi ragione tu. Non ho alcun commento da inserire, semmai solo l'aggiunta del mio nome”.Questa volta il sorriso fu più accentuato. Restai a guardarlo stregata da quella breve espressione umana.“Cosa c'è?” subito lo sguardo tornò cupo.“Niente” mormorai.Ora mi guardava a mala pena, sfuggendo ogni volta che intercettava il mio sguardo. L'eco dei passi della bibliotecaria richiamarono la nostra attenzione.“Ragazzi, forse è il caso che andiate, il tempo peggiora prima del previsto, per precauzione la biblioteca chiuderà in anticipo”.Chiusi il plico e lo feci scivolare sul tavolo verso Evan.“Per me va bene, e scusa se sono stata un po' scorbutica”

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il quaderno rosso faceva da tramite alle nostre mani. Lasciai rapida la presa imbarazzata.“Non ti preoccupare. Tienilo, io ne ho una copia, devi studiarlo, se il professor Stevens ti interroga qualcosa dovrai pur dirgli”.Sorrisi, annuendo.“Giusto”.Un attimo dopo ero in piedi rivestita e pronta per andarmene. Quando uscimmo dalla biblioteca il muro di freddo mi fece desistere dal proseguire, mi bloccai sulla gradinata. Il cielo aveva preso la tonalità tipica dell'ennesima tempesta di neve, meno di un’ora e sarebbe stato impossibile rientrare a casa. “Abiti lontano?” chiese.“No, non molto, abito sulla Lathrop Street vicino al George Park, cinque minuti”.“Sei in macchina?”.“Sì...” risposi “invece tu, abiti sul Tanana River? Vuoi un passaggio?”.“No grazie, sono in macchina”.Lo guardai incerta, ricordavo di averlo visto arrivare a piedi, ma preferii non approfondire, il freddo mi spingeva ad andarmene.“Okay” dissi.“Va bene... allora … ciao” per un istante mi parve esitare, poi di scatto il suo sguardo si orientò verso ovest, tornando freddo come al solito. “Ci vediamo” scrollai le spalle e mi incamminai verso la macchina. E nell'allontanarmi, la mia maledetta, irrefrenabile, e fastidiosa curiosità si fece di nuovo largo nella mente e soprattutto sulla mia debole volontà. Dominata dal desiderio di dare una sbirciatina mi voltai a

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osservare se fosse ancora nei paraggi e sì, era ancora lì, fermo sulla gradinata, esattamente come lo avevo lasciato. E mi stava guardando. Per togliermi dall'imbarazzo gli sorrisi di nuovo e lo salutai sventolando la mano. Il movimento, un po' troppo slanciato, mi fece perdere l'equilibrio, catapultandomi a terra.Che figura da frescona pensai. Scivolata come una pera cotta.Il tempo di pensare alla figuraccia ed Evan mi era accanto. “Ti sei fatta male?” chiese in tono premuroso.Impacciata, cercai di risollevarmi a sedere “No, no tutto bene”, sapevo di essere avvampata dalla vergogna, le guance erano roventi ed ero troppo imbarazzata per guardarlo. Che razza di ebete dovevo essergli sembrata.“Dai, ti aiuto” tese la mano sfoderando un sorriso tenue.Ammaliata dal gesto e soprattutto da quella vicinanza osservai l'aria condensata uscire dalle sue labbra, e per un istante desiderai sentire il calore di quel respiro. Chiusi gli occhi e scossi la testa. Santo cielo, che razza di pensieri mi venivano in mente, mi tolsi il guanto fradicio e posai la mano nella sua, puntando i piedi a terra, dandomi la spinta a rialzarmi. L'espressione gentile e premurosa di qualche istante prima scomparve dal suo volto. Come morso da un serpente, Evan lasciò andare la presa salda della mano, facendomi barcollare all'indietro. Per fortuna ero praticamente in piedi e questo mi aiutò a non cascare a terra di nuovo. Attonita lo guardai in attesa di una spiegazione che non arrivò. Evan fissava un punto indefinito a terra, immobile, come una statua di ghiaccio. “Grazie” dissi.Nel levarmi la neve di dosso lo scrutai con la coda

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dell'occhio. Che problemi aveva per essersi trasformato in un stoccafisso?In mezzo alla strada, in quel silenzio surreale, l'inquietudine si fece di nuovo largo in me.“Allora io vado” dissi incerta.Senza proferire alcuna parola e tenendo sempre lo sguardo fisso a terra, Evan, senza mai abbandonare la rigidità che aveva avvolto il suo corpo, si mosse spostandosi lentamente sul marciapiede.Non ci pensai troppo, veloce mi incamminai verso la macchina. Non sapevo cosa pensare di quel comportamento assurdo, anche se in fondo non era del tutto assurdo per un tipo come Evan. Raggiunsi l'auto, e senza esitazione mi ci infilai dentro, non vedevo l'ora d'andarmene. Le parole di Jennifer iniziavano a prendere forma. Forse era davvero uno psicopatico con disturbi bipolari. Non era normale e avevo paura.Un colpo al finestrino mi fece sussultare. Era di nuovo lui, tra le mani il fascicolo rosso. Doveva essermi caduto nel mio spettacolo acrobatico. In parte rassicurata dal suo sorriso tirato, titubante, abbassai il finestrino di pochi centimetri.“Ti è caduta” disse infilando la tesi nello stretto varco.La catturai tirandomela dentro. “Grazie” e veloce mi sigillai in auto avviando il motore. Dall'agitazione schiacciai l'acceleratore con troppa decisione, tanto che le gomme fecero un paio di giri a vuoto prima di aderire al suolo bianco. Sgommai via alzando una nuvola di neve.Mentre mi allontanavo, lo fissai nello specchietto retrovisore fino a diventare minuscolo e impercettibile, e

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solo allora mi rilassai inalando aria nei polmoni. Per qualche motivo, a me sconosciuto, avevo superato il muro del suo silenzio, e incredibilmente avevo intravvisto uno spiraglio di umanità. Ma ora, dopo quella reazione non ero più certa di volere intravvedere altro. Lo squillo del telefono mi fece sobbalzare. Era mio padre, con il suo tempismo da film degli orrori.“Dove sei?”.“Sto tornando a casa”.“Fai presto, io sono ancora in ospedale, resterò qui fino alla fine della tormenta”.“Va bene, cinque minuti e sono a casa, riporto la macchina a David e rientro”.“Brava, Brian ha aiutato Jennifer a portare dentro la legna, mi raccomando non uscite fino a che non è finito tutto, speriamo che non venga giù come il mese scorso, se no restiamo bloccati una settimana”.“Okkkay” cantilenai e chiusi la comunicazione.Arrivata davanti a casa di David, lo trovai sotto il portico, apprensivo e trepidante, con il cellophane stretto tra le braccia. Lo aiutai a coprire l'auto e mi avviai verso casa. La visibilità era diminuita sensibilmente, vedevo appena il profilo dell'auto di Brian parcheggiata davanti al vialetto, mancavano più o meno cinquanta metri.Fu allora che notai un uomo ai margini del parco. Era spuntato all'improvviso, uscito dal nulla, e immobile sembrava aspettarmi.Camminavo rasente la siepe della signora Marlone, opponendomi alle scariche del vento. Ancora nove passi al giardino di casa che avrei fatto volentieri di corsa, ma la neve ghiacciava ancor prima di toccare terra, uno scatto arrischiato mi avrebbe fatto cadere di nuovo. Otto passi,

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sette passi, sei passi...Fulmineo, l'uomo, come era apparso dal bosco adesso mi era di fronte. “Cosa...” non riuscii a dire altro, uno strattone, mi fece cadere a terra. Un attimo dopo ero a testa in giù. Vedevo il terreno bianco della neve, o qualcosa di simile scorrere sotto di me. Mi portava in spalla e correva maledettamente veloce, una saetta nel bosco. Con le mani cercai di afferrare i rami che sfrecciavano via, ma la presa era troppo debole e mi sfuggiva ogni volta. Mi aggrappai alla cinghia dei suoi pantaloni cercando di far leva e sollevarmi, muovermi, speravo di fargli perdere la presa, l'equilibrio, o almeno fargli rallentare quella corsa furibonda. All'improvviso si fermò. Mentre planavo a terra, una sensazione di vuoto serrò lo stomaco. L'impatto con il suolo mi bloccò il respiro qualche istante per poi esplodere in un urlo di dolore che scaturiva dalle ossa fratturate. Affondai le mani nella neve cercando di rialzarmi, ma scivolai di nuovo nel bianco ghiacciato. La spalla faceva un male cane. Dovevo essermela rotta, guardai la mano sinistra penzolare con il braccio, appeso, inerme, senza vita. In preda alla vertigine tutto prese a girare.L'uomo, mi trascinò per i capelli contro il tronco di un albero sbattendomi la fronte ripetutamente contro la corteccia dura. Tramortita e offuscata dal sangue scivolai a terra. “Chi sei, cosa vuoi?” ringhiò talmente vicino da percepire il calore del suo respiro sulla guancia. Mi bloccava nella neve strattonandomi il braccio dolorante. La paura pietrificante mi irrigidii ancora di più, chiusi gli occhi dal

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terrore. Aprivo e chiudevo la bocca cercando di emettere qualche suono, ma ero completamente afona, senza voce. Se non mi uccideva lui sarei morta per infarto talmente il cuore pulsava all'impazzata. Milioni di pensieri si accavallarono nella testa, uno sopra l'altro. Mi strattonò di nuovo facendomi urlare di dolore, poi la stretta ferrea si allentò d'improvviso, e un rumore sordo fece calare il silenzio. A fatica mi voltai sdraiandomi sulla schiena. Osservai sopra di me le cime degli alberi ubriachi muoversi sotto le raffiche di vento, la tempesta era iniziata, avvertivo il sibilo, l'onda ghiacciata a breve mi avrebbe raggiunto. Dovevo essere dentro il George Park. A quell'ora e in quel giorno di sicuro non c'era nessuno nei dintorni che potesse aiutarmi. Sentivo le forze abbandonarmi. Il corpo pesante, pesante la testa, la mente, il respiro e lo spirito.Osservai l'ombra dell'uomo avvicinarsi. Per un'irragionevole reazione chiusi di nuovo gli occhi come se quel gesto potesse attutire il dolore della morte che sopraggiungeva. Mentre avvertivo i passi lenti, soffocati dalla neve farsi più vicini, pensai a mio padre, a mia sorella, a David, e al breve e intenso sorriso di Evan. Poi una mano calda mi sfiorò la guancia, e mi parve di vederlo, forse era un sogno.

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Tribolazioni

Captavo la voce sottile di mia sorella sempre più vicina, diversamente dal solito era più sommessa, una leggera nota di preoccupazione le conferiva un timbro difforme dal solito. Cercai di aprire gli occhi, ma le palpebre parevano incollate, inamovibili, come pesanti macigni. Sapevo di essere in ospedale, l'odore nell’aria era inconfondibile, i vestiti di mio padre ne erano sempre pregni. “Jennifer” dissi, la voce rauca vibrò in gola carbonizzandomela.“Leila tesoro”, rispose mio padre, immediatamente un’onda calda si irradiò dalla mano a salire su fino alla spalla, “Amore” disse ancora.Piano piano, lo strato di calce che serrava gli occhi si scollò liberandomi dall’oscurità. Non fu la luce a infastidirmi, ma vedere il volto di mio padre, pallido, tirato, decisamente disperato.“Cosa è successo?” dissi con voce più incisiva che squarciò l'esofago in fiamme.Un sorriso gli illuminò il volto conferendogli immediatamente un colorito più roseo. Rapido schioccò le dita alla sua destra “Chiama l'infermiera?” ordinò.Cercai con lo sguardo di capire a chi si stesse rivolgendo, e mi parve di vedere David uscire dalla stanza. Durante la panoramica furtiva incontrai lo sguardo di

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Brian, seduto sulla poltroncina di fronte al letto, serafico come sempre, mi salutò con un impercettibile movimento della testa.“Come sono felice!” disse ancora mio padre stringendo forte la mano “come ti senti?”.Una luce abbagliante scosse le pupille.“Ciao Leila, ci sei?” era la voce di una donna giunonica con capelli ricci e neri.“Leila, se mi senti, fammelo capire, muovi la testa”.Facile a dirsi, mi sembrava di averla incastrata in un blocco di cemento tanta era la fatica a muoverlo.“Sì, la sento” risposi, era più facile che muoversi.“Molto bene! Vado a chiamare il dottore”.“Sono così contento” disse mio padre abbracciando mia sorella.“Dai papà, stai calmo” Jennifer si liberò dalla sua stretta angosciata avvicinandosi al letto.“Ma cosa è successo?” chiesi di nuovo schiarendomi la gola che bruciava sempre di più.L'atmosfera già tesa si raggelò ulteriormente, e il silenzio come si dice in queste occasioni, regnò sovrano. Guardavo nei loro occhi cercando una spiegazione. “Non ricordi nulla?” chiese David dal fondo della stanza.“Poco” risposi “come sono arrivata qui?”.Fu Jenny a farsi carico di parlare, l'intonazione della voce divenne più compassionevole e gentile, non l'avevo mai sentita parlare in quel modo.“Sei stata aggredita nel parco di fronte a casa” avvicinò una sedia al letto e si sedette prendendomi la mano, “hai una spalla lussata e una ferita alla fronte, ti hanno messo cinque punti. Grazie a Dio non c’è nulla di grave” fece una pausa guardando papà “per fortuna l'aggressore non

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ha fatto in tempo... ” decisi di non farle finire la frase.“Ma chi è stato?”.“Non lo sappiamo, tu cosa ricordi?”.“Era veloce e...”.Intervenne mio padre “Se non fosse stato per il tuo compagno di studi poteva finire peggio”.Compagno di studi? Ma di chi diavolo stava parlando? “Chi?” chiesi interdetta.“Evan” disse mia sorella “Era venuto a cercati per riportanti il guanto che avevi lasciato in biblioteca, arrivato davanti casa ha visto un tizio prenderti di forza portandoti dentro il parco”.Non ascoltai più una parola, ero rimasta ferma al suono del suo nome. Di quegli attimi ricordavo poco oltre al terrore e al dolore, ma di lui non avevo alcuna memoria. Non potevo crederci. Mi aveva salvato. Quell'ombra che avanzava nella neve, quella mano calda, doveva essere lui.Quando ritornai sul pianeta terra, mia sorella stava ancora parlando.“... e grazie a Dio è intervenuto. Purtroppo il bastardo è scappato. Evan non ha saputo dire chi fosse” fece una pausa guardando di nuovo mio padre.“Pensa ti ha portato a casa in braccio, con la tempesta. E' davvero un bravo ragazzo” aggiunse sistemandomi il lenzuolo. La guardai sgomenta, all'improvviso si era trasformato in un bravo ragazzo, del serial killer psicopatico non c’era più traccia.L'infermiera tornò insieme ad un uomo più alto, dall'ampia stempiatura, anche lui con indosso il camice bianco.“Allora Leila, sono il Dottor Mitchell” mi sfiorò il braccio, rabbrividii al contatto con le sue mani di ghiaccio

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“dagli esami risultano non esserci complicazioni, purtroppo ti sei procurata una brutta lussazione che ti obbligherà a portare il tutore per quindici, massimo venti giorni” mi parlava sfogliando velocemente la cartella medica.“Tutto dipende dalla guarigione della spalla” si tolse gli occhiali e finalmente ebbi modo di guardarlo negli occhi. “Ti abbiamo messo cinque punti di sutura sulla fronte che toglieremo tra una settimana, mentre le escoriazioni guariranno naturalmente in poco tempo, basta tenerle pulite e disinfettate” una luce mi accecò di nuovo le pupille “Mi sembra che reagisci bene. Hai delle domande?” spense la piletta infilandosela nella tasca del camice.Avevo solo una domanda e non esitai a farla “Quando posso tornare a casa?”.“Questa è sempre la prima domanda che si fa quando si è in un letto di ospedale. Nel tuo caso, ti teniamo in osservazione solo per stanotte. Domani mattina dopo alcuni esami di routine ti rimandiamo a casa. Per quanto riguarda la scuola potrai tornarci tra una settimana e solo dopo che ti toglieremo i punti”.“Dottore, Leila è svenuta!” gracchiò Jennifer.“Dalla risonanza non c’è nulla di anomalo, anzi ha un bel cervello pieno di sinapsi. Lo svenimento spesso è la conseguenza di una forte emozione e nel tuo caso credo sia stata del tutto legittima”.“Già” borbottai e fissai mio padre.Il dottore seguì il mio sguardo “Ho avvertito la polizia del risveglio di tua figlia, a breve arriveranno per avere una deposizione. Se hai bisogno chiamami, non farti problemi”.

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“Va bene, grazie Stuart” disse papà stringendogli la mano. In quel momento mi resi conto degli stati generali a cui aveva sottoposto l'ospedale per assistermi. Provai vergogna, ma preferii non approfondire la cosa. Domani me ne sarei tornata a casa.Appena il dottore e l’infermiera uscirono dalla stanza, mio padre sfilò la cartella medica dal letto. Leggeva e annuiva pensieroso. Quando ebbe finito la riposizionò nel suo alloggiamento e tornò a sorridermi. Tutto bene pensai. La direzione sanitaria poteva stare tranquilla. “Ti ricordi qualcosa?” chiese timidamente Jennifer.“Poco, solo che tornavo a casa e un tizio è spuntato dal George Park, sembrava mi aspettasse, mi ha trascinato nel bosco come fossi una piuma. Jenny, correva veloce. Poi...” mi interruppi, due poliziotti stavano bussando alla porta. Riconobbi immediatamente il più alto dei due. Sorrisi della strana coincidenza. “Buongiorno Leila, sono il tenente Henderson e lui è il mio collega Loomis” disse l'agente “possiamo farti un paio di domande?”.“Sì, va bene, buongiorno” cercai di mettermi più comoda, ma non riuscivo a muovere nulla del mio corpo. Mio padre armeggiò con la pulsantiera del letto alzando lo schienale.“Allora Leila, abbiamo parlato con Evan Hassler, il quale ci ha fornito alcuni dettagli, ora vorremmo sapere da te cosa ricordi” il suono del suo nome mi fece tornare i brividi. “Posso avere dell'acqua?” chiesi rivolgendomi a mia sorella.“Subito” con le mani schioccò le dita verso Brian il quale senza proferire parola si inabissò fuori dalla stanza.

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Una donna, anche lei in camice bianco, entrò salutando i poliziotti con il solo cenno della testa.“Buongiorno, sono la Dottoressa Kart, sono qui per darti supporto psicologico se ne ce ne fosse bisogno”.Dopo alcuni convenevoli con mio padre e la dottoressa, il tenente diede inizio all'interrogatorio.“Allora vuoi provare a ricordare qualcosa?”.“Okay”.“Che ore erano all'incirca?”.“Erano le quattro e mezza. Me lo ricordo bene, avevo guardato l'orologio fuori dalla biblioteca, e da lì a casa sono cinque minuti di macchina. Ho lasciato la macchina a David e mi sono incamminata verso casa, quindi quattro e quaranta circa, più o meno”.Il collega del tenente prendeva nota su un piccolo taccuino. Aspettai che terminasse di scrivere.“E quando sei arrivata non hai notato qualcuno?” chiese Henderson.“No, non c'era nessuno, è spuntato dall'altro lato della strada mentre tornavo da casa di David a piedi”.“A che altezza?”.“Più o meno all'altezza della casa della signora Marlone, la mia vicina, ero a circa metà della sua siepe”.“Capisco... ti ricordi qualcosa di lui, vestiti, particolari?”.“Niente, solo che era un uomo, indossava un giubbotto nero e portava un cappello anch'esso nero, dei jeans, ma ricordo poco, la visibilità era bassa”.“Scarpe?”.“Non lo so, non le ho proprio guardate, mi spiace”.“Più o meno quanto era alto?”.Ci pensai un po' su, perdendomi nei ricordi, forse troppo a lungo poiché intervenne il tenente.

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“Era più alto di me?” chiese.Lo guardai appena e scossi la testa.“No, più o meno come David” lo indicai con le dita.Tutti nella stanza si voltarono verso David. Stava appoggiato alla parete con le braccia conserte.“Un metro e ottantadue” disse.“Va bene, quindi lui è uscito dal parco, dicevi?”.“Si almeno credo, non lo so, mi ricordo solo che a un certo punto lui era lì, da dove fosse arrivato non ne ho la più pallida idea, non ho visto auto parcheggiate, l'avrei notato, non ci sono mai auto in sosta lungo la via”.Mio padre continuava a camminare avanti e indietro teso, il suo andirivieni mi stava innervosendo, e credo anche il tenente Henderson ne fosse indispettito, un paio di volte si era voltato a guardarlo nella speranza si fermasse di sua spontanea volontà.“Papà” lamentai “ti fermi per favore?”.Si bloccò immediatamente, David lo accompagnò a sedersi nella poltrona vicino alla porta.“Proseguiamo, cosa è successo dopo?”.Brian era ritornato con l'acqua, come un assetato nel deserto allungai la mano verso di lui. I poliziotti si spostarono creando un varco per farlo passare.“Tieni”.Sete. Sete. Sete.Guardavo la bottiglietta avvicinarsi e non vedevo l'ora di sentire quell'acqua spegnere l'incendio nella gola. La bevvi tutta d'un sorso, lasciando andare un sospiro di sollievo solo alla fine. Il fuoco era placato, finalmente. Il tenente annuì, mostrando un sorriso gentile mi invitò a riprendere il racconto.“Ehm, scusate, stavo camminando e un attimo dopo mi era

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davanti, non sono riuscita a dire nulla, e neppure sono riuscita a guardalo, mi ha strattonato facendomi cadere a terra, poi ricordo solo che correva, mi teneva sulle spalle e io lo colpivo sulla schiena”.La dottoressa intervenne “Sei stanca?”.“No, sono a posto” dissi quasi indispettita da quell'interruzione “dicevo, mi ha trascinata nel bosco come fossi una piuma, tenente, una piuma, e poi mi ha buttato per terra, continuava a chiedermi cosa volevo, chi ero” sospirai “poi non lo so, mi sono trovata qui”.Abbassai la testa. Non ricordavo proprio altro.“E' stato tutto molto veloce” strinsi il lenzuolo tra le mani “lui era molto veloce”.“E di Evan Hassler ti ricordi?” chiese Loomins.Scossi la testa. Di lui non mi ricordavo proprio.“Va bene, Leila, se ti dovesse venire in mente qualcosa di nuovo ce lo farai sapere, un'altra cosa, appena starai meglio vorremmo accompagnarti sul luogo dell’aggressione, magari ti aiuterà a ricordare qualche altro particolare”.“D'accordo tenente”.I due poliziotti e la dottoressa uscirono a parlare con mio padre. Vedevo dalla porta papà sbracciarsi, mentre David vicino cercava di tranquillizzarlo. “Hai fame?” chiese mia sorella.“No, per niente” sbuffai “Grazie Brian, per l'acqua” dissi.“Figurati” abbozzò un sorriso stringendomi il piede.“Devi mangiare qualcosa” intervenne di nuovo mia sorella.Mio Dio, come la odiavo quando entrava in modalità apprensione. Non me la toglievo più di dosso. Per sopravvivere dovevo per forza dirle di sì, solo in questo

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modo smetteva di tediarmi.“Va bene, ho fame!” replicai irritata.“Perfetto chiedo se possono darti qualcosa, al massimo vado giù al distributore automatico” mentre se ne usciva dalla stanza portandosi dietro il fido cane la richiamai.“Jenny! Che ore sono?”.“Le otto” rispose.“Le otto di che giorno, del quindici febbraio?” chiesi.“Sì”.Dunque erano passate meno di quattro ore, ma per come mi sentivo spaesata e stordita sembrava essere passata un'eternità.David e mio padre mi fecero il resoconto della conversazione avuta con la polizia. Secondo il tenente doveva trattarsi di uno squilibrato. Il fatto che cercasse di capire chi fossi gli faceva presupporre che potesse trattarsi di qualcuno con manie di persecuzione. Avrebbero indagato con l'aiuto della Dottoressa Karl, volevano interrogare altri medici con pazienti schizofrenici. Nella zona, aggressioni di quel genere, non si erano mai verificate. E naturalmente io ero la prima. Pensai.“Da adesso in avanti non esci più da sola” aveva concluso mio padre.Guardai David, alzando gli occhi al cielo, sospirando.“Certo, certo” acconsentii senza remore, non era assolutamente il momento, ne il luogo per fare discussioni. Avevo altri pensieri, primo fra tutti sopravvivere a quella sensazione di vulnerabilità e secondo uscire da quell'ospedale.Mia sorella ritornò con un tramezzino al tonno che dovetti trangugiarlo a forza davanti a lei.

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In virtù della sua posizione in ospedale, papà supplicò la direzione affinché mi fosse assegnata una guardia alla camera fino all'indomani mattina, neanche il Presidente avrebbe potuto avere un trattamento migliore. L’ultimo a lasciarmi fu David, aveva abbandonato l'espressione cerea e spaventata per un sorriso forzato.“Ci vediamo domani, bellezza”.Gli presi la mano sorridendogli “Sto bene, David non ti preoccupare”. Il viso contratto e il sorriso tirato celavano la sua sofferenza lo conoscevo troppo bene. “Sul serio, David, non ti preoccupare”.Cercò di trattenere il respiro, gli occhi si stavano caricando di lacrime.“Lo vedo, sono solo spaventato a morte, ero lì ad un passo e non ho visto nulla, avrei dovuto aspettare che rientrassi a casa”.“Dai David, smettila, ti prego, c'è già mio padre e mia sorella in angoscia ci manchi solo tu”.Ricacciò il magone in gola “Va bene, hai ragione, allora ci vediamo domani, e chiamami se ti annoi stanotte” mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò.Gli antidolorifici mi fecero l'effetto di farmi cadere nelle braccia di Morfeo senza quasi batter ciglio.E sognai. Ero alle pendici di un ghiacciaio e ad ogni passo affondavo nella neve fino al ginocchio. In quella distesa bianca e infinita non vedevo niente se non l'ombra di una montagna rocciosa in lontananza. Accompagnata da bisbigli di parole incomprensibili avanzavo verso l'ammasso roccioso e più mi avvicinavo più i sussurri si amplificavano. Non appena raggiunsi la roccia il

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panorama glaciale cambiò. Al posto della bianca neve, ora ero circondata da una distesa verde e rigogliosa e di fronte dove un attimo prima non c'era nulla apparve un albero verdeggiante dal fusto diritto e robusto. Era ramificato nella parte medio-alta e la corteccia grigiastra era intensamente solcata e incisa. Alla base un uomo sussurrava nel tronco. Era Evan.Mi risvegliai di soprassalto, attraversata da un brivido oceanico. Il sogno ora era realtà, ai piedi del letto Evan mi guardava. “Scusa, non volevo spaventarti” disse “alla centrale di polizia mi hanno detto che ti eri svegliata e sono passato a vedere, volevo accertarmene”. Lentamente si portò al fianco del letto.“Mi ha detto l'infermiera che domani torni a casa” sorrise appena.“Sì” bisbigliai “come hai fatto, non è orario di visite?” pensai alla guardia imposta da mio padre.“A quanto pare sono un eroe” le labbra si incurvarono in qualcosa di definitivo come un sorriso. Nella penombra della stanza il viso era ancora più bello del solito.“Ah, sì, grazie, e scusa se non ti ho ringraziato prima” mormorai sentendomi stupida per non averlo detto prima.Non disse nulla rimanendo in silenzio nella sua tipica immobilità, e di nuovo lo sguardo tornò grave e indecifrabile come al solito.“Bene, sono felice che tu stia meglio quindi posso andare”.“Tu sai chi era? Lo hai visto in faccia?”.“No, mi dispiace, non so proprio chi fosse. Tutto quello che ho visto l’ho riferito alla polizia... mi dispiace” rimase a guardarmi in silenzio, mentre l'espressione si faceva più

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contratta, tanto che mi passò la voglia di proseguire il dialogo.“Ci vediamo a scuola” disse dopo alcuni secondi.“Ciao” risposi.Mi riaddormentai di nuovo e questa volta senza sogni. Un sonno profondo e confortante.L'indomani dopo avermi prelevato il sangue e portato la colazione mi diedero il foglio di dimissioni. Mio padre aveva un intervento programmato da mesi, e non potendo farsi sostituire, fece venire a prendermi Jennifer accompagnata dal fido Brian.A mezzogiorno e mezzo eravamo a casa. L'ambiente profumava di pulito e tutto era stranamente in ordine. Perfino la cassapanca all'ingresso era sgombra dall'ammasso di giacche e borse, e inspiegabilmente sul tavolo del soggiorno spiccava in bella mostra un vaso colmo di fiori. Anzi guardando meglio, notai che erano diversi i vasi sparsi un po' ovunque.“Sono arrivati stamattina” disse Jennifer “amici, conoscenti con gli auguri di pronta guarigione, il telefono non smetteva di squillare tanto che ho staccato la spina”.“Ma chi ha telefonato?” chiesi stupita.“Tutti, Leila, non ci crederai tutti e di più, perfino quello del negozio di bigiotteria giù in centro. Tutta Fairbanks lo ha saputo, papà ha fatto nascere quasi tutti i bambini della città”.Dopo quella notizia raggiunsi il letto dove sprofondai depressa. Jennifer invece, girava per la casa posseduta dalla sindrome della governante perfetta. Si muoveva come un ciclone, da una stanza all'altra sistemando qualsiasi cosa fuori posto. Compresi il motivo di tanta animosità nel rassettare gli ambienti, quando il campanello

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sbraitò alle tre precise. Una processione di amici e vicini occupò casa per le due ore successive. Tutti avevano saputo, e tutti erano lì per dare supporto, che consisteva nel guardarmi con commiserazione. Fu un susseguirsi di “come stai, come ti senti, sono davvero dispiaciuto, vedrai che lo prenderanno, abbi cura di te, devi farti forza, non ci pensare” e così via. Venne anche Samantha, la quale mi tartassò per avere i dettagli piccanti sull’ormai leggendaria operazione di salvataggio da parte del giovane eroe di Fairbanks, l’improbabile Evan Hassler. In mezzo a quella baraonda mi abbandonai nel divano, dove mi raggiunse David.“Che noia tutta questa gente” borbottai infastidita.“Lo so, tra poco se ne andranno. Resisti. E' la regola del buon vicinato, lo sai, la legge del mi faccio gli affaracci tuoi”.Per fortuna mia sorella nelle vesti di cicerone se la cavava egregiamente. Per l'intero pomeriggio continuò a ripetere senza sosta, e alcuna esitazione nella voce, la stessa storia a tutti i presenti, uno a uno. Ogni volta che intercettavo il suo chiacchiericcio stava descrivendo qualche particolare dell'aggressione, nemmeno fosse stata lei la vittima. E per la prima volta in tre anni di relazione vidi Brian provato, ci aveva raggiunto sul divano sbuffando, esausto anche lui. A volte Jennifer mi sembrava più vecchia di dieci anni, invece dei due che ci dividevano.Finalmente alle cinque se ne andarono tutti e sola mi isolai in camera. Fissavo il soffitto ripensando al giorno prima. Continuavano a scorrermi in testa le immagini di quegli istanti, lui sul ciglio della strada, il bosco, le urla, il silenzio. Un particolare mi sfuggiva, e per quanto mi sforzassi non ne venivo a capo. C’era qualcosa di

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familiare in quella figura, anche se non lo avevo visto in volto qualcosa tintinnava nella testa.Evan aveva detto che non sapeva chi fosse. Quindi doveva essere qualcuno che conoscevo io. Mi alzai e andai in soggiorno a guardare verso la strada. Fissai a lungo il punto dove era apparso l'aggressore. Forse fu la suggestione, ma per un momento mi sembrò che qualcosa si muovesse tra le piante.“Che fai?”.“Niente”.“Cosa guardi?” chiese Jenny avvicinandosi.“Che palle, niente” sbottai.Me ne tornai rapida in camera e ci rimasi fino al ritorno di papà. Dopo mangiato Jennifer mi aiutò a sistemarmi, non appena toccai il letto scivolai nel vuoto del sonno.L'indomani, al risveglio, le ossa imploravano pietà. L'effetto degli antidolorifici si era esaurito durante la notte e ora rigida e dolorante dovevo alzarmi. Con una gru azionata nel cervello mi misi in piedi tra lamenti e sospiri. Piano piano, passo dopo passo approdai al bagno. Lo specchio rifletteva l'immagine di una me sconosciuta e conosciuta. Il livido sullo zigomo destro da blu della sera prima aveva preso tonalità più violacee. Sulla fronte spiccava un grosso cerotto bianco, un lembo si era appiccicato ai capelli creando un'onda innaturale nella pettinatura. Intrappolata in una camicia da notte riesumata da chissà quale baule, fui costretta a chiamare Jennifer. Il tutore alla spalla sinistra era troppo invalidante e io incapace di muovermi. Jenny mi aiutò a lavarmi alla meno peggio e a vestirmi. A metà mattina il tenente chiamò per avvertirmi che alle

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tre sarebbe passato per fare il sopralluogo al parco. Mi chiese se me la sentivo di esserci. Non sapevo come sentirmi, se agitata, sconfortata, preoccupata, scombussolata, devastata, spaventata. Accettai, mi premeva solo tornare alla normalità e soprattutto non avere più intorno Jenny.All'ora prevista, l'auto della polizia parcheggiò in contemporanea con quella di mio padre. Voleva essere presente anche lui, l'aggressione lo aveva scosso molto, aveva telefonato almeno sette volte nell'arco della mattinata. Dopo i soliti convenevoli tra uomini in divisa ci incamminammo tutti quanti verso casa di David per ripercorrere i miei passi. All’altezza della casa della signora Marlone ci soffermammo tutti a lungo nel punto che ricordai essere quello dell’aggressione. Nessuno di noi notò qualcosa di particolare, così ci incamminammo verso il George Park, precisamente nel punto dove era sbucato l’aggressore. Il tenente diede un’occhiata veloce, ma con la neve caduta tutta la notte era impossibile trovare una qualsiasi traccia che potesse essere utile. Ci addentrammo nel bosco e più o meno due minuti dopo ci fermammo intorno a degli abeti, un nastro giallo ornava gli alberi creando un circolo quasi perfetto. Vederlo dal vivo mi fece un certo effetto. Ecco la scena del crimine. “Allora Leila, eccoci, ti viene in mente qualcosa guardando intorno?” chiese Henderson.Gironzolai attorno, incerta, non riconoscevo nulla, e nessun particolare sfiorava la memoria. Sinceramente non coglievo molto. “Penso di sì, ma non lo so, sembra tutto uguale un bosco, per di più in inverno”.“Lo so, ma a volte basta un particolare” sorrise gentile.

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“Ma questo è quello che ha segnalato Evan?” chiesi.“Sì, lui dice che questo è il punto esatto in cui ti ha raccolto” mi indicò un punto imprecisato accanto a lui.“Lì invece è da dove dice di essere arrivato, e lì dove ha spinto l'aggressore” seguivo le sue mani perdendomi nel nulla. Annuivo senza capire molto.“E qui è dove abbiamo trovato il tuo braccialetto, durante il sopralluogo”.Il mio braccialetto, non ci avevo fatto caso. Il braccialetto di cuoio intrecciato che avevo comprato alla festa di mezza estate. Lo portavo al polso sinistro. Con la questione della fasciatura e il tutore non mi ero resa conto di averlo perduto. Quindi doveva essere per forza il posto della scampata morte.“Mi dispiace, non mi ricordo nulla di più di quello che le ho già raccontato”. Mio padre mi raccolse a lui in un tenero abbraccio.“Non ti preoccupare, a volte i ricordi tornano alla mente con più tempo. Basta un particolare, un piccolo elemento insignificante per risolvere l'enigma” disse.Già, ma qui di elementi non ne vedevo nemmeno l'ombra. Silenziosi tornammo alla strada. Salutai gli agenti e rientrai in casa, prima di infilarmi nella mia tana osservai mio padre parlare con gli agenti. Era agitato, gesticolava, mentre loro imperturbabili ascoltavano silenziosi le sue angosce. Angosce che dovetti sorbirmi nei giorni a seguire, aveva preso una settimana di ferie per starmi vicino. Più che aiutarmi sembrava un pazzo sempre pronto sul chi va là. La prima cosa che aveva fatto, dopo la visita dei poliziotti, fu comprarsi una pistola, lui sempre contrario alle armi, pacifista per natura, ora girava per casa con una fondina

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nuova di pelle. Ogni scricchiolio della nostra sgangherata casa di legno, lo faceva scattare in piedi a qualsiasi ora. E non c'era verso di parlargli.I giorni seguenti li passai nella mia stanza, ascoltando musica, guardando milioni di video in internet, aggiornando i post sui miei spostamenti tra cucina, bagno, soggiorno, cucina, bagno e letto. Isolata, evitavo volutamente ogni incontro con i due carcerieri.A volte, quando nessuno dei due mi teneva sotto tiro, mi rimettevo alla finestra e guardavo verso il parco. Più passavano i giorni più i ricordi svanivano e nessun dettaglio particolare riaffiorava. Frattanto, la settimana era passata, in ospedale mi tolsero i punti lasciandomi un marchio sulla fronte gonfio e prepotente. Secondo il dottore, un anno, e un paio di sedute di laser terapia l'avrebbero cancellata per sempre. Mi chiesi se fosse efficace anche con la ferita che mi portavo dentro. Un colpo di laser e via l'inquietudine. Un po' di botulino e di nuovo raggiante nella vita. No, nessun laser avrebbe colmato il senso di vulnerabilità e soprattutto di incertezza che mi accompagnava da giorni.Dalle radiografie la guarigione alla spalla procedeva piuttosto bene, il dottore era rimasto particolarmente sorpreso dalla rapidità di recupero. A parere suo, ancora cinque giorni e avrei potuto togliere il tutore, in anticipo rispetto ai tempi. Quindi niente mi vietava di tornare a scuola. Gli esami erano vicini e non potevo perdere altri giorni di scuola, la notizia mi rallegrò infinitamente, potevo lasciare la mia segregazione forzata. La mattina del grande rientro mi feci fare la frangia da mia sorella. Odiavo i capelli sugli occhi, ma in questa circostanza era d'obbligo, lo sfregio era troppo evidente.

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Adesso oltre all’eterocromia avevo anche una bella cicatrice che avrebbe attirato altri sguardi.Per l’occasione David venne a prendermi addirittura sulla porta scortandomi come fa un gentiluomo, premuroso e ansioso.“Allora pronta per il gran rientro?” chiese nel suo sorriso raggiante.“Come no!” risposi “non ci crederai ma non vedo l'ora, non sopporto più di stare agli arresti domiciliari” abbassai il finestrino per sentire l'aria, finalmente aria fresca.Guidava sommesso, frenava lentamente e controllava due volte ad ogni svolta. Non dissi nulla. Era dura per tutti.Quando finalmente rividi l'edificio rosso spiccare sulla neve bianca, fui pervasa da un'onda di felicità, tornavo alla normalità. Non vedevo l'ora di perdermi nelle aule gelide di scuola, e nell'indifferenza generale. Scesi dalla macchina aiutata da David, amorevole come non lo era mai stato fino ad allora.La frangia doveva rendermi irriconoscibile, in pochi mi salutarono, e confermò quel sospetto che avevo sempre avuto, ovvero di quanto fossi indifferente al prossimo.Andai subito in segreteria a farmi firmare il permesso di rientro, e scivolai nell'aula di scienze, felice di mimetizzarmi dietro al microscopio. Qualcuno venne a salutarmi, anche se con la maggior parte c'eravamo massaggiati al computer la settimana precedente.A pranzo scortata dal buon David raggiungemmo Samantha al tavolo della mensa dove per l'ora seguente mi raccontò le ultime novità della scuola. Mark si era messo con Tracy del terzo anno. Janet, invece, si era lasciata con Tommy, per mettersi con Matt quello

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del negozio di caccia e ora Tommy era più che mai depresso. La squadra di pallacanestro aveva vinto l'ultima partita e Jane di terza era stata beccata nel bagno a fumare marijuana. Ascoltavo disinteressata, mentre spulciavo la pasta nel piatto. Evan era quattro tavoli in linea diretta davanti al mio, li avevo visti sedersi a metà ora. David seduto di fronte con le sue spalle larghe da giocatore di hockey era un perfetto scudo. Non lo vedevo da quella sera in ospedale e non ci eravamo più parlati. Non era una novità, con lui e la cricca non si parlava mai. Da quella posizione però potevo osservarlo, senza essere vista. Non ebbi il tempo nemmeno di metterlo a fuoco che abbassai immediatamente lo sguardo, i suoi occhi bui mi avevano colpito e affondata. “Ma la cosa più divertente è quella a proposito di Lurch” disse entusiasta Samantha richiamando la mia attenzione.“Ah sì! Leila, senti questa” disse David schioccandomi le dita davanti al viso.Mi raccontò della Preside e dell'encomio ricevuto da Evan Hassler per avermi salvato dalle grinfie dell'aggressore. Davanti a tutta la scuola, la Preside aveva dato una targa al giovane eroe. L'immagine di lui al centro della palestra con in mano il premio, mi fece ridere, stentavo a credere che quell’essere così schivo fosse stato costretto al confronto scolastico nella palestra. Alleggerita da quella notizia cercai nuovamente il tavolo degli Hassler, ma di loro non c’era più traccia.“E come ha reagito?” chiesi.“Impassibile come al solito” disse David.“Comunque Leila, che fortuna che fosse lì” disse Samantha.“Già” risposi.

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Pensare a Evan e all'elogio mi rallegrò molto. Avrei voluto proprio vederlo. Mi chiesi se fosse il caso di parlargli. In fondo mi aveva salvato. Forse si aspettava da parte mia maggiore gratitudine. O forse era il caso di fare finta di nulla, come al solito. Avrei deciso il da farsi sul momento.E l'occasione si presentò proprio all’ultima ora. Mentre scendevo le scale verso il pian terreno, lo intravidi rovistare nel suo armadietto. Era il momento giusto. Accelerai il passo tenendomi ben salda alla balaustra, nemmeno tre scalini e mi arrestai a metà rampa. Come se avesse intuito le mie intenzioni, aveva richiuso l’armadietto con decisione per poi voltarsi e lanciarmi un’occhiata di profonda avversione. Senza che mi avesse detto una sola parola, avevo capito immediatamente. Non proseguii oltre il terzo scalino. Rapido era scivolato nell'onda umana del corridoio. Era tutto chiaro, tutto era tornato come prima, tabula rasa, come se nulla fosse successo. Superata anche l'ultima ora me ne tornai a casa con David. Appena entrammo in casa mio padre ci venne incontro euforico. Dopo giorni da mezzogiorno di fuoco, in guardia pronto all'attacco, notai l'assenza della sua fondina a tracolla. La polizia aveva scoperto chi mi aveva aggredito, si trattava di un tizio con problemi psichiatrici, proprio come aveva ipotizzato fin dall'inizio il tenente. Si era costituito quella stessa mattina. Henderson ci aspettava al comando di polizia per fare il riconoscimento e ufficializzare la denuncia di aggressione.Durante il tragitto in auto non dissi nulla, pensavo solo a come avrei reagito nel momento in cui l’avrei rivisto, ma soprattutto continuavo a chiedermi se mai l'avessi

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riconosciuto. In fondo il volto mi era ignoto. Chissà chi era? Quando arrivai in centrale mi venne incontro il tenente Henderson, mio padre eccitato quasi lo abbracciò. L'agente Henderson, era davvero un brav'uomo, ne aveva viste tante in tutta la sua carriera da ufficiale e ormai aveva acquisito una certa dimestichezza con le persone e i vari stati emotivi umani. Era il tipico americano su cui puoi sempre contare, patriottico, una certezza nei momenti bui, sicuro e sempre disponibile. “E' il nostro dovere, dottore” disse allontanandosi delicatamente dalla presa poderosa di mio padre, poi rivolgendosi a me mi indicò il suo ufficio.Lo ricordavo bene, c'ero già stata per portare i documenti dell’assicurazione dopo il tamponamento, solo che allora ero più che mai intimorita.“Leila, vieni vorrei parlarti”. La stanza era spoglia, come ricordavo, era la scrivania a concentrare tutto l’arredamento. Stracolma di fascicoli e fogli.“Prego” spostò una sedia invitandomi a sedere, poi ne prese un'altra posizionandola di fronte alla mia sulla quale si sedette con le mani sulle ginocchia. “Allora, Leila, il tizio è un uomo con problemi mentali, da anni è in cura presso il centro di riabilitazione psichiatrica e neurologica di Fairbanks. Soffre di manie di persecuzione. Si chiama Arthur Wright, fino a tre anni fa era sposato, la moglie e la figlia lo hanno lasciato a causa della sua malattia. Soffre di allucinazioni, è convinto che gli alieni lo perseguitino. E' la prima volta che aggredisce qualcuno. E' sempre stato innocuo. Si è costituito un'ora fa” fece una pausa, schiarendosi la voce “ora Leila, devi riconoscerlo e ufficializzare la denuncia”.

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Tutto sommato ero sollevata. Era solo un pazzoide. “E poi cosa gli succederà?” chiesi.“Dato che è un malato psichiatrico, verrà affidato ad una struttura di sicurezza”.Lo guardai sorridendogli “Non cambierà nulla per lui!” dissi.“In un certo senso no”.Rimasi in silenzio qualche secondo, buttai un occhio alla foto appesa dietro la scrivania, raffigurava un gruppo di poliziotti schierati nella divisa d’ordinanza davanti l’ingresso della centrale. Sorridevano tutti. Accanto una di lui con un pastore tedesco. Più sotto lui che ritirava una targa per qualche onorificenza. Sospirai fra me e me incerta.“E' un poveraccio tenente Henderson, posso fare a meno di denunciarlo?” chiesi.“E' un tuo diritto e soprattutto un dovere denunciarlo, ti avrebbe potuto uccidere”.“Mi sembra più un uomo disperato che un assassino”.Di denunciare un poveraccio proprio non avevo voglia, tanto meno un povero cristo che vedeva gli alieni. Era la maledizione dell'Alaska dopo un po' tra il bianco della neve, l'aurora boreale, il sole perenne, la psicosi avvolge i sensi e l'anima, dare di matto è l'unica via di fuga.Il tenente, tirò fuori da una pila precaria, un fascicolo rosso con il mio nome ben in vista. Ripensai al professor Stevens e alla tesi di Anna Karenina e naturalmente all'odioso Evan.“Decidi tu, Leila” disse.“Posso vederlo?”.“Certo” disse alzandosi di scatto.Insieme andammo in una stanza dalla quale attraverso una

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grande vetrata spiai un uomo seduto ad una sedia davanti ad un tavolo che parlava da solo. Mi sembrò decisamente innocuo. “Ho chiamato anche Evan Hassler per fare il riconoscimento” disse il tenente “Purtroppo non l'ha riconosciuto. Ha detto che forse potrebbe essere lui, ma quei pochi attimi nel bosco non gli davano la sicurezza necessaria per denunciarlo”.Guardai il tenente poi riguardai il povero Wright “A me sta bene così, mi basta solo che mio padre la smetta di andare in giro armato”.“Sei sicura?” chiese in un mezzo sorriso.“Sicura!” risposi.“D’accordo” disse comprensivo “sei sempre in tempo per cambiare idea”.“Penso non ci sarà motivo”.Una volta firmati diversi documenti tornai da mio padre al quale raccontai tutto, essendo un medico, capì meglio di me la scelta. Rientrati a casa, finalmente l'atmosfera sembrò tornare quella di qualche settimana prima.La sera mi addormentai ripensando a quell’uomo vaneggiante chiedendomi cosa ne pensasse Evan. L’indomani a scuola, cascasse il mondo, lo avrei fermato e ci avrei parlato.Per tutta la mattina lo cercai durante il cambio ora, ma di lui non c’era traccia, non era una novità. Non importava, tanto sapevo dove trovarlo. All'ora di pranzo mi spinsi veloce in mensa, appena entrai nella sala lo individuai, seduto con i soliti tre amigos. Era di spalle, quindi non poteva vedermi, tanto meno anticipare le mie intenzioni, quindi senza esitazione mi

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mossi all’attacco, decisa e rapida. Riuscii a fare non più di due passi che venni freddata dagli occhi di Ryan e delle sorelle. E di nuovo, esattamente come il giorno prima, Evan si alzò andandosene rapido non prima di avermi lanciato un'altra occhiataccia delle sue. Delusa andai al tavolo dove ad attendermi c'era Samantha con espressione incredula e maliziosa.“Per caso stavi andando dagli Addams?” chiese.“Sì, volevo sapere cosa aveva detto alla polizia” risposi buttando il panino sul tavolo.“Lascia perdere, Leila, quelli sono davvero strani” disse David.“Sono inarrivabili” dissi laconica.Per il resto della mattinata non mi diedi più pena di cercarlo, non importava. In fondo tutto si era risolto. Chi se ne fregava di quello che pensava. Andasse al diavolo.Mentre tornavo a casa con David ebbi una splendida notizia. Mia sorella si sarebbe trattenuta in università un’ora in più rispetto al previsto, finalmente potevo rientrare a casa da sola e starmene in pace per un'ora intera. Il mio entusiasmo durò poco, esattamente dieci secondi, fino al trillo del cellulare di David. Jenny, con un sms, lo aveva arruolato a badante fino al suo rientro. “David, ti va di lasciarmi da sola, ne ho proprio bisogno” dissi scendendo dall'auto.Mi guardò incerto. “Cosa devi fare?” chiese.“Suicidarmi!” risposi “cosa vuoi che faccia, niente, solo stare sola” ed era la verità, che cosa dovevo fare di speciale se non continuare a respirare.Fece un sospiro “D'accordo, facciamo così, ora me ne vado a casa, ma torno tra cinquanta minuti esatti, così quando arriva Jenny non sospetterà nulla”.

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“Grazie, ottima idea” gli lanciai un bacio al volo e mi infilai in casa.Finalmente potevo stare da sola. Presi del gelato dal frigorifero, accesi la tv e mi sdraiai sul divano. Ripensavo a come era andata la mattinata. Le facce a scuola, le conversazioni inutili. E naturalmente un pensiero andò anche a lui. Chissà quale problema assurdo aveva per comportarsi così. Ripensai al bosco e ci rimuginai un po' su. Qualcosa dell'habitat non mi tornava. Dal divano riuscivo a vedere il punto esatto in cui era comparso quel giorno Wright, e presi una decisione. Volevo tornare sul luogo dell'aggressione. David sarebbe arrivato dopo un'ora, idem mia sorella e mio padre solo a tarda sera. Era l’occasione giusta. Attraversai la strada veloce, almeno per quello che riuscivo a essere, l’imbragatura del tutore al braccio mi faceva camminare come un pinguino sulle uova. Controllai il circondario e mi inoltrai nel bosco. Il punto non era molto distante dalla strada, infatti lo ritrovai quasi subito. Di nuovo ebbi la stessa sensazione che avevo avuto con l’agente Henderson. Non riconoscevo nulla.Qualcosa proprio non mi tornava. L'estate prima avevo fatto il livello base del corso di guida turistica, e tra gli insegnamenti vi era il riconoscimento delle piante. L'abete che mi aveva deturpato la fronte mi sembrava piccolo. Passai le dita sulla corteccia trovandola decisamente liscia rispetto a come la ricordavo. Eppure quello era il luogo che aveva dichiarato Evan.Il sibilo delle piante, mi illuminò. Alzai gli occhi al cielo, e non vidi quello che mi aspettavo. Ricordavo bene le punte degli alberi ubriachi, mentre quelle che ora osservavo, erano perfettamente schierate, verdeggianti,

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proiettate verso il cielo azzurro. Nessuna inclinazione, nessun effetto permafrost. Nella zona, la foresta di alberi ubriachi era a circa un quarto d'ora da lì, più a ovest. Il cuore prese a battermi forte. Ora ne avevo la certezza. Senza pensarci mi incamminai verso ovest. Il cellulare echeggiò nel bosco, spaventandomi a morte.Maledizione, era mia sorella, e dovevo rispondere per forza.“Dove sei?”.“Sto facendo una passeggiata con David”.“Non è vero, sono da David” la risposta mi raggelò.Dannazione aveva la capacità di scoprirmi sempre.“Dimmi dove sei, ti vengo a prendere” disse.“Dai Jenny ti prego, voglio stare da sola”.“Ma doooove sei?” urlò e per un attimo mi parve di sentire l'eco della sua voce correre tra gli alberi fino a raggiungermi come un'onda sonora.“Sono a downtown al centro commerciale, volevo comprare un libro, dai non dirlo a papà, ti prego!”.“Ti vengo a prendere!”.“No, torno da sola, devo farlo, non posso restare a casa tutta la vita”.“Allora viene a prenderti Brian!”.Come al solito mi stava mettendo alle strette, e dovevo placarla.“Va bene, ma tra un’ora, sono in libreria”.“Tra mezz’ora” rispose.“Okay” riattaccai, spegnendo il cellulare.Non mi importava se non mi trovava, almeno la smetteva di torturarmi.Camminai un quarto d'ora circa, e appena riconobbi il posto il cuore si piantò in gola. Era quello. Sì, esattamente.

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Osservai ogni anfratto, cercando di raccogliere i ricordi. Ripercorsi mentalmente gli istanti dell'aggressione, cercando particolari. La caduta, l'albero, le sue mani. Poi ricordai uno scintillio. Qualcosa che aveva sfiorato i miei occhi, per un'istante. Un anello, un anello bianco appeso ad un collare di cuoio. E capii. Lo avevo visto al collo di Ryan McHill una volta nella sala d'attesa del consulente scolastico.Ora, mi era più chiara e evidente quella familiarità che avevo percepito fin dall'inizio e ora capivo anche il comportamento di Evan. Era stato Ryan McHill, il suo migliore amico, il suo compagno di merende e lui lo stava proteggendo. Aveva mentito, aveva detto di non sapere chi fosse, ecco spiegato il motivo per cui eludeva ogni tentativo di avvicinamento. Dovevo dirlo immediatamente al tenente Henderson. Uno scricchiolio mi bloccò il respiro e le buone intenzioni. Impietrita, lentamente mi girai incerta e allo stesso tempo certa di non essere più sola. Nella veloce panoramica però non vidi nessuno. Rilassai le spalle e respirai. Forse era solo un animale o un ramo cadente. Una leggera corrente nell’aria mi accarezzò i capelli. Ora lo sapevo, non ero più sola. Era accanto a me. Con i suoi soliti occhi neri e invalicabili. Abbassai lo sguardo a terra, mentre il respiro si faceva più affannoso e contratto.Non sapevo cosa aspettarmi. Speravo in un colpo secco e rapido. Nessun dolore o agonia. Morire all'istante che vivere gli ultimi momenti di quella paura frustrante, la morte certa che sopraggiungeva. Il cattivo educato mi guardava silenzioso e io fissavo la neve.Poi, parlò con voce laconica “Leila, vorrei spiegarti”.

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Cosa mi doveva spiegare? Avevo capito tutto.“Quanto è successo” continuò.I miei occhi erano ancora puntati a terra, dove avrei voluto sprofondare. L'idea di rivedere il nero del suo sguardo mi raggelava. La pelle era tirata dalla paura.“Non devi parlare con nessuno di quanto successo”.Ecco che confermava il mio sospetto, avevo ricordato bene.Evan si era fatto più vicino tanto da sentire il suo profumo “Non ti ho aggredito io, sono solo intervenuto”. Un profumo inebriante. Sbigottita e tremante sussurrai il nome di Ryan.“Non importa” disse “non devi farne parola con nessuno” la mano mi prese il mento, voleva che lo guardassi. Alzai lo sguardo perdendomi nel buio della sua anima. “Hai capito?” chiese scandendo le parole. “Ma quell’uomo?” sussurrai fasciata nella paura.“Non importa, è solo un vecchio pazzo”.“Non..., non è giusto” balbettai.“Non importa” sbottò “E' stato un incidente, un equivoco. Al quale ora devo rimediare, non devi sapere altro. Sei ancora viva, e lo sarai a lungo se lascerai perdere”.Perché non avevo dato ascolto a Jennifer, perché ero così testarda da cacciarmi sempre nei casini. Volevo correre via, ma con il tutore e la neve alta non avevo alcuna possibilità di fuga. A questo punto dovevo solo resistere alla paura. “Lascia perdere” il suono della sua voce era più collerica.“Non mi fai paura” sbraitai.“Peccato, perché invece dovresti averne”.“Non mi fai paura” dissi ancora fissandolo ad un palmo dalle sue labbra “perché non hai lasciato finire il tuo

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amico?”.Mio padre me lo diceva sempre che dovevo imparare a governare i miei impulsi, a parer suo avere sempre l’ultima parola non mi avrebbe aiutato nella vita. In quel momento mi resi conto, come non mai, quanto avesse ragione.Evan mi guardò a lungo.“E' stato un errore!” disse in un tono di voce che stentai a riconoscere come suo.“Cosa? Un errore” farfugliai ridendogli in faccia.“Leila, controllati, è meglio se lasci le cose come stanno, potrebbero esserci delle conseguenze, quindi ti invito a lasciar perdere”.“Allora che cosa vuoi, solo che stia zitta!” dissi sussurrando, trovando il coraggio pazzo dall'ultimo anfratto del mio cervello.Cercai di spingerlo via con forza. Con una mossa impercettibile, ora la sua mano stringeva il mio collo. Era talmente vicino alla mia bocca che per un attimo desiderai abbandonarmi a quelle labbra carnose, anche se la presa mi stava quasi soffocando. “Leila, non provarci più …” mi lasciò andare guardandomi stranito. E stranita da lui cercai di allontanarmi.Indietreggiai di un passo, nel movimento goffo misi un piede in fallo e persi l’equilibrio, rovinando pesantemente sulla spalla sinistra. Il rumore stridulo delle ossa anticipò il mio urlo di dolore. Dovevo essermi lussata la spalla, di nuovo. Imprecando come mai avevo fatto, cercai di sollevarmi, gli occhi si inondarono di lacrime dal dolore tanto che non riuscii a vedere più niente. Con una presa ferma Evan mi bloccò, facendomi sdraiare

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a terra, la mano sulla bocca bloccava le mie urla di sofferenza, mentre con l'altra mi sbottonava il giubbotto. Ero annebbiata dal pianto e nuovamente dalla paura. “Voglio solo aiutarti” disse avvicinandosi al mio viso “Capito?” disse marcato “cerca di resistere”. Mi tolse la mano dalla bocca lasciandomi singhiozzare nel dolore. Con un gesto secco aprì la zip della felpa, e squarciò la maglietta lasciandomi solo con il tutore a proteggermi. “Stringi” disse mettendomi in bocca un pezzo della maglia strappata.Il contatto delle sue mani calde sulla pelle mi fecero sussultare. Chiusi gli occhi per la vergogna.Sganciò il tutore adagiando il braccio delicatamente a terra. In quella posizione, scoperta, vulnerabile, dolorante pensai di essere pronta a morire o peggio. Evan, intanto si era seduto a terra accanto a me, strinse il polso e l’avambraccio con decisione facendo aumentare il dolore.“Adesso ti rimetto a posto la spalla” fece un pausa chiudendo gli occhi, come se si stesse concentrando “e Leila, farà male”. Sgranai gli occhi.Appena la punta della sua scarpa trovò posizione nel cavo ascellare, il dolore si fece più pressante.“Al mio tre stringi i denti” disse di nuovo.“Uno... due … tre”.E lo feci, Dio se lo feci, un dolore lancinante attraversò la carne, la mente, l'anima, uno strappo nelle membra profondo. Durò meno di dieci secondi, talmente intensi che in un ultimo singhiozzo sommesso chiusi gli occhi lasciandomi svuotata e debole. Il dolore era sparito e con esso la paura.

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Evan, lentamente e in modo delicato assicurò il braccio al tutore della spalla. Con prontezza mi prese in braccio, portandomi vicino ad un abete a terra sul quale mi fece scivolare a sedere. Era talmente vicino che sentivo il calore del suo viso, perfetto. Aveva modi delicati e gentili.“Ora lascio la presa” disse.Annuii, chiudendo gli occhi.Mi tolse il giubbotto e la felpa completamente zuppi insieme a quello che restava della maglietta e mi fece indossare la sua giacca. La chiuse fino a sotto il collo come si fa con i bambini prima di farli uscire al freddo.Avrei voluto dirgli grazie, ma tutte le energie erano concentrate nel reggermi su quel tronco abbattuto dal freddo.“Non volevo” disse piano “perdonami”.Lo guardai negli occhi, e per la prima volta non trovai la solita barriera indecifrabile, leggevo del vero dispiacere. Sospirai appesa alle sue labbra.“Manterrai il segreto, Leila” disse “per favore?”.Il suono del mio nome vibrato dalla sua voce suscitò una scarica di brividi, questa volta non di paura, brividi di desiderio.“Tu mi dirai il perché?” chiesi debolmente.“No” sentenziò, e di nuovo con tono gentile “ti chiedo profondamente scusa per quanto accaduto, e ti giuro mai più ti verrà fatto alcun male, ma ti prego, non dire nulla a nessuno”.“Okay” risposi respirando profondamente.“Ti accompagno!” con le mani mi cinse la vita.“No, grazie vado da sola” in un moto di orgoglio mi raddrizzai sulle gambe, e restai un paio di secondi in bilico