SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI (Decreto ... · ... perché per mia sfortuna sono stata...

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SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI (Decreto Ministero dell’Università 31/07/2003) Via P. S. Mancini, 2 – 00196 - Roma TESI DI DIPLOMA DI MEDIATORE LINGUISTICO (Curriculum Interprete e Traduttore) Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei Corsi afferenti alla classe delle LAUREE UNIVERSITARIE IN SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA TITOLO DELLA TESI RELATORI: CORRELATORI: prof.ssa Adriana Bisirri CANDIDATA: Silvia Pitocco ANNO ACCADEMICO 2015/2016 1

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SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI(Decreto Ministero dell’Università 31/07/2003)

Via P. S. Mancini, 2 – 00196 - Roma

TESI DI DIPLOMADI

MEDIATORE LINGUISTICO

(Curriculum Interprete e Traduttore)

Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei Corsi afferenti allaclasse delle

LAUREE UNIVERSITARIEIN

SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA

TITOLO DELLA TESI

RELATORI: CORRELATORI:prof.ssa Adriana Bisirri

CANDIDATA:

Silvia Pitocco

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

1

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A mia nonna, per me come una madre,

alle nostre chiacchierate e all’amore immenso

che ci ha sempre unite.

A Claudio, che mi ha portato via dal mio inferno,

perché da quando in quella notte mi ha stretto la mano

non l’ha più lasciata, nemmeno ora.

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SommarioIntroduzione

Capitolo 1 I terremoti in Italia

Capitolo 2 Il Racconto23 Agosto 2016 – la partenza

3.37

L’inizio di una nuova vita

Ospedale San Salvatore – Edificio delta 8 – terzo piano

2 Settembre 2016 – L’operazione

Il primo incontro

10 Settembre – L’uscita

24 Gennaio – 3.36

Capitolo 5 – Le Interviste ai soccorritoriClaudio, Vigile del Fuoco di Rieti ( A cui è dedicata la tesi)

Giuseppe, Soccorso Alpino, L’Aquila

Capitolo 4

I terremoti si possono prevedere?Fronte del Sì.

Fronte del No.

Capitolo 5

E’ possibile un adeguamento del patrimonio?

Conclusioni

Ringraziamenti

Riferimenti Bibliografici

Sitografia

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Index

Chapter 1 23 of August 2016 - Departure

Chapter 2 3.37

InterviewsINTERVIEW WITH CLAUDIO

INTERVIEW WITH GIUSEPPE

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Índice

Capítulo 1

Entrevista con Claudio

Capítulo 2

Entervista con Giuseppe

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“ La nostra qualità più autentica è la capacità di

creare, di superare, di sopportare, di trasformare,

di amare

e di essere più grandi della nostra sofferenza.”

(Ben Okri)

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Introduzione

L’intento di questa tesi è un particolare, probabilmente diverso da

tutte le altre che abbiate mai letto, perché per mia sfortuna sono stata

vittima e testimone di una delle più devastanti calamità naturali degli

ultimi anni.

In questi casi si tende spesso a demonizzare la natura, come carnefice

implacabile, concentrandosi meno sulle colpe dell’essere umano eletto

ad unica vittima. Ma quante morti sono state causate da strutture non

idonee in luoghi riconosciuti da sempre come sismici?

Ma facciamo un passo indietro.

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Capitolo 1

I terremoti in Italia

Il territorio italiano, a causa della particolare condizione

geodinamica, dovuta alla convergenza della placca euroasiatica con la

placca africana, è frequentemente soggetto a fenomeni sismici,

conquistando il primato in Europa. Le placche sono delle porzioni di

litosfera, ovvero la parte più esterna del Pianeta che comprende la crosta

e delle porzioni di mantello dal comportamento meccanico rigido, che

varia da una profondità di 110km al di sotto dei continenti sino a circa

70km in ambiente oceanico. Cosa regoli il movimento delle placche

tettoniche è ancora in fase di studio: essenzialmente si pensa che la

crosta in subduzione, faccia da “traino” all’intera placca e che quindi la

velocità di deriva sia regolata dal tipo di subduzione che caratterizza il

margine della placca, qualora sia presente. I terremoti quindi sono

generati da queste forze geologiche e in particolare avvengono lungo

piani più o meno inclinati e lunghi della crosta terrestre chiamati faglie.

Una faglia è una superficie lungo la quale avviene un movimento

relativo tra due porzioni di crosta e possono essere di 3 tipi:

- normali

- inverse

- trascorrenti.

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Nelle faglie inverse il campo di sforzi che genera il sisma è di tipo

compressivo, e quindi provoca accorciamento e innalzamento della

crosta, in quelle normali invece il campo di sforzi è distensivo e quindi si

ha subsidenza e allungamento crostale, infine in quelle trascorrenti il

campo di sforzi

genera

movimento

orizzontale

reciproco,

chiamato

“trascorrenza”.

Ciascun tipo di

faglia può

essere

riconosciuto,

oltre che

dall’osservazione diretta sul campo, tramite l’analisi delle onde sismiche

che generano, come se fosse una sorta di impronta digitale della faglia,

in quanto ad ogni tipo di movimento della faglia corrisponde un

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determinato segnale sismico che viene analizzato dai sismografi e

ricostruito dai geofisici, detto meccanismo focale.

L’analisi dei movimenti focali mostrano come essi siano distribuiti lungo

le aree interessate dalla tettonica alpina e appenninica, dove sono causati

dai movimenti delle faglie.

Su 1.300 sismi distruttivi avvenuti nel Mediterraneo nel II Millennio,

ben 500 hanno interessato l’Italia.

Il terremoto avviene nella parte più superficiale del pianeta. Le

rocce che formano la crosta ed il mantello superiore subiscono

giganteschi sforzi, risultato dei movimenti tra le grandi placche in cui è

suddiviso lo strato più superficiale del pianeta. Questi movimenti,

spingono le placche generando sforzi che sono massimi vicino ai confini

delle stesse placche. Il movimento delle placche causa l’accumulo di

energia, che viene rilasciata sotto forma di terremoti, che possono essere

di varia intensità.

Tornando indietro negli anni si può notare come spesso i terremoti,

avvengano in aree già colpite in passato. Gli eventi storici più forti si

sono verificati in Sicilia, nelle Alpi orientali e lungo gli Appennini

centro-meridionali, dall’Abruzzo alla Calabria. Ma ci sono stati terremoti

importanti anche nell’Appennino centro-settentrionale e nel Gargano.

In particolare, dal 1900 ad oggi si sono verificati 30 terremoti molto

forti, cioè con magnitudo superiore a 5.8, alcuni dei quali sono stati

catastrofici.

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Capitolo 2

Il Racconto

Premetto di aver spettato molto, forse fin troppo, a scrivere questa

tesi, ma quando l’argomento è una parte della propria vita, anche molto

difficile persino da ricordare, non ci si sente mai abbastanza pronti. Ma

basta rimandare. Questo non è il racconto della solita fiaba, ma di una

parte di vita che nessuno dovrebbe essere chiamato a vivere, e che

nonostante questo ha tutti gli elementi necessari per essere definita una

grande avventura. Si dice che la vita ci metta di fronte a delle prove, ma

che nessuna di queste prove sia al di sopra delle nostre capacità. Proprio

per questo dopo tanto soffrire, ho deciso che avrei tratto il meglio da una

tragedia, che inizialmente pensavo mi avesse tolto tutto. In quel letto

d’ospedale dove sentivo come se tutte le emozioni mi fossero state

strappate via dal petto, ho promesso a me stessa che ciò che avevo

vissuto non mi avrebbe trasformato in una persona cinica ed insensibile,

non sarei diventata una di quelle persone che una di quelle persone che

avendo affrontato loro stesse il dolore, non sono più attente a quello

degli altri. Certo devo ammettere di essere stata notevolmente aiutata nel

mio percorso. Probabilmente senza le persone in cui mi sono imbattuta

nel mio cammino non ce l’avrei mai fatta. Ed è proprio questo uno dei

primi insegnamenti che ho tratto da questa esperienza: la bontà esiste, è

intorno a noi, dobbiamo solo prestare attenzione, tendere l’orecchio,

come si fa per ascoltare un segreto.

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Cresciamo, spesso, in una società che ci mette gli uni contro gli altri,

dove non c’è posto per un atto di carità fine a se stesso, dove ogni cosa

ha un prezzo. Cresciamo con una visione del mondo distorta e disillusa,

ci insegnano a non fidarci di nessuno, a difenderci, facendo diventare

cattiveria e la mancanza di sensibilità i pregio del mondo moderno. Ma

non c’è merito a fare del male, non c’è gloria nel divenire una persona

incapace di ascoltare i bisogni altrui, insensibile ai dolori dell’altro.

Infatti, in un mondo di disinteresse, se guardiamo bene, se ci

concentriamo possiamo scorgere ancora un po' di bontà e, quando ci

tocca personalmente, rimaniamo piacevolmente smentiti.

Per questo motivo, voglio che viviate con me quella che ho deciso di

chiamare la mia avventura, alla scoperta di me stessa e di un mondo che,

a volte, non è proprio come ci aspettiamo.

Come ogni storia degna di questo nome partiamo dall’inizio…

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23 Agosto 2016 – la partenza

Era il viaggio dell’estate, quello che aspetti tutto l’anno, quello in

cui finalmente dopo mesi di fatiche potrai finalmente dimenticare la

solita vita per qualche giorno, il viaggio nel paese dove ti senti un po' di

tornare alle origini.

Per me rappresentava questo Amatrice, un luogo sicuro dove poter

fuggire dalla mia vita per qualche giorno.

Ricordo di aver insistito molto per convincere mia madre e mia nonna a

partire, in quello che per noi era un periodo insolito. Infatti, per

tradizione, partivamo sempre agli inizi di settembre, per l’anniversario

della morte della sorella di mia nonna, che coincideva esattamente con il

giorno del suo compleanno.

Ma quest’anno era diverso. Avevamo affrontato molti problemi ed

avevamo bisogno di distrarci un po', per questo decidemmo di anticipare

la nostra partenza.

Quella mattina mi alzai di buon’ora. Come mio solito, dovevo ancora

finire di preparare la valigia. Il sole di Agosto che iniziava a farsi sentire

fin dalle prime ore del mattino, filtrava dalle fessure della persiana

ancora chiusa, illuminandomi il viso. Assonnata scesi a fare colazione e

subito dopo mi trascinai a spulciare tra i panni puliti alla ricerca di

qualcosa da portare con me. Finito di mettere i vestiti in valigia, decisi di

darmi una sistemata e andai in bagno a truccarmi. La trovai lì, come tutte

le mattine, davanti allo specchio che si preparava. Le rughe che le

abbellivano il viso raccontavano di una vita felice, ma anche delle tante

difficoltà con cui si era dovuta confrontare, ma nonostante tutto, dopo

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tanti anni la sua bellezza non accennava a sfiorire. Davanti allo specchio

nonna si spalmava la crema, con gesti lenti, accurati, diffondendo nel

bagno un odore speciale...un odore di casa. La mia vita era così, fatta di

piccoli gesti quotidiani, vissuti quasi come un rituale ed sono proprio

quei piccoli gesti a mancarmi di più. Entrai in bagno sorridente, felice

per l’imminente partenza ed iniziai anche io a prepararmi. Mi guardava.

Mi guardava sempre mentre mi truccavo, le piaceva con quanta cura e

maestria lo facessi, in quei momenti dal suo sguardo emanava tutto

l’amore di chi ti sta accanto da tutta una vita, perché fin dal mio primo

respiro il mio sguardo si è posato su di lei. C’era un gran trambusto

quella mattina, ma finalmente riuscimmo a partire, ovviamente in

ritardo, anche questo come da tradizione. L’auto nuova, affittata per

l’occasione ci rendeva il viaggio ancora più eccitante. Come sempre

trascorsi gran parte del viaggio a dormire, cullata dai discorsi di mia

madre e mia nonna.

Riaprivo gli occhi sempre nello stesso punto, all’inizio del corso,

momento in cui mi si riempiva il cuore, perché finalmente ero tornata.

Mi era sempre piaciuto andare ad Amatrice, lo vivevo come un momento

di evasione, ma quella volta sarebbe stata ancora più speciale, perché era

la mia prima volta in albergo. Infatti, solitamente, alloggiavamo in una

della due case della sorella di mia nonna. Una piccola villetta in una

frazione poco distante dal centro chiamata San Cipriano, che tutti

chiamavamo la casetta. Eppure questa volta dopo tante indecisioni

avevamo deciso di andare in albergo.

“Non andiamo a disturbare” dicevamo io e la mamma, “ e poi in hotel ci

riposeremo di più”.

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Arrivate in albergo, dove ci aspettava mio fratello partito qualche giorno

prima insieme alla sua nuova ragazza, iniziammo immediatamente la

consueta perlustrazione delle camere. Nonostante ci avessero promesso

due stanze nella mansarda, ci ritrovammo con una camera matrimoniale

al primo piano ed una al secondo. Subito decisi di lasciare la camera al

piano di sopra a mia madre, conoscendola bene, sapevo avrebbe preferito

quella nonostante si ostinasse a fare finta di nulla. Trascorremmo il

pomeriggio a gironzolare per il corso e a fare progetti sui giorni che ci

attendevano. Finalmente arrivò l’ora di cena e ci recammo al nostro

ristorante di fiducia. Durante la cena, tra chiacchiere e risate, nonna

come sempre si soffermò a raccontare le storie della sua giovinezza,

trascorsa in un paese poco vicino. C’era tanta storia in quelle strade,

tanta della nostra storia. Ci andavo in vacanza da quando ero piccola e

così i miei fratelli e mia madre prima di me. Era quel luogo sicuro, quel

luogo dove rifugiarsi quando si era stanchi della vita frenetica della città.

Dopo Cena la nonna tornò in camera, mentre io, mia madre, mio fratello

e la sua ragazza andammo a fare una passeggiata per il centro. Ci

fermammo in un bar vicino alla torre del campanile. Eravamo gli unici,

in quella sera d’estate a cercare qualcosa di caldo per digerire dopo la

grande abbuffata, tanto che il cameriere si mise a ridere. Quella sera

Amatrice era particolarmente affollata e risuonava delle voci allegre dei

tanti giovani che si accalcavano per il corso.

Ma io ero ancora raffreddata dopo una nottata passata in spiaggia in

occasione di Ferragosto e con il passare del tempo mi sentivo sempre più

debole e stanca, così decidemmo tutti di tornare in camera per riposare.

Arrivata in albergo mi fermai sulla terrazza. C’era una vista mozzafiato.

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Alzai gli occhi al cielo e vidi tante stelle come mai nella vita. Richiamai

il cane che gironzolava la attorno e andai in camera. Mi stesi sul letto

cullata dal rumore dell’acqua del lavandino aperta da nonna che come

tutte le sere riprendeva il suo rito. Accesi la televisione ed iniziai a

scorrere tra i canali di sky finché non trovai un cartone animato. Ma una

volta tornati in camera il cane iniziò ad agitarsi. Andava sempre davanti

la porta della camera e la graffiava cercando d’uscire. Pensando che

dovesse fare i bisogni, mi rimisi le scarpe afferrai un giacchetto e la

portai fuori, dove incontrai mio fratello uscito a riempire dello bottiglie

d’acqua ad una fonte poco lontana. Una volta presa l’acqua ci salutammo

e stremata dal raffreddore e dal viaggio tornai in camera.

Eppure il cane non accennava a calmarsi.

“Basta Nana...vieni qui” le dicevo indicando il letto. Pensavo che facesse

i capricci perché voleva dormire insieme a noi, ma lei non accennava ad

arretrare dalla porta, così presa dalla disperazione del sonno la presi in

braccio e la portai sul letto, dove alla fine si calmò. Mi lasciai andare tra

le braccia di Morfeo e mi risvegliai alle due del mattino, guardai

l’orologio e nonostante fossi annebbiata da mille pensieri riuscii a

riprendere sonno.

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3.37

Aprii gli occhi svegliata dal tremare della terra. L’ unica cosa che

vidi in quel momento fu l’intonaco bianco del soffitto della camera

sgretolarsi. Non capivo cosa stesse succedendo. Chiusi gli occhi e mi

accovacciai proteggendomi la testa con le braccia. Quando riaprii gli

occhi era tutto finito. Il soffitto della camera era completamente crollato

appoggiandosi dalla mia parte formando una sorta di capanna. I

calcinacci erano ovunque ed era impossibile orientarsi nella stanza.

Impiegai qualche istante a capire cosa fosse successo, ed impiegai

altrettanto tempo a capire che era successo proprio a me...era tutto reale.

La prima cosa che feci fu assicurarmi che nonna stesse bene ed

inizialmente vidi solo le macerie sul suo corpo e mi rassicurai. Ma io ero

bloccata. L’anta dell’armadio che fino a poco prima si trovava vicino

alla finestra era incastrata tra la mia gamba e il solaio. La mia gamba era

completamente scomparsa sotto le macerie ed i calcinacci. In quel

momento sono stata assalita da un nausea fortissima, mai provata prima.

Un bruciore mi prese la gola...stavo per vomitare. Cercai di mantenere il

controllo e di capire come uscire da quella tomba. Iniziai ad urlare con

tutta la voce che avevo. Qualcuno doveva essere riuscito a scappare,

qualcuno doveva essere ancora vivo. Continuai ad urlare, con un urlo di

disperato, un urlo di chi non si vuole arrendere. Nel frattempo sentivo la

voce di mia nonna che chiedeva aiuto che mi diceva di avere qualcosa

sulla testa, io cercavo di rassicurarla in tutti i modi mentre cercavo di

capire cosa avesse. Le scostavo le macerie che le erano cadute addosso

ma non capivo a che si riferisse, fino a quando i miei occhi non misero a

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fuoco la scena che ancora oggi mi tormenta. Una trave attaccata al

soffitto era crollata sul suo collo. Non le vedevo la testa. Mi prese il

panico. Tornai a chiedere aiuto ancora più disperata per le nostre sorti,

finché ad un certo punto non udii delle voci in lontananza. Qualcuno era

in cerca di superstiti.

“Dove sei?” mi gridavano le voci.

“Sono qui...alla 112” gridavo con tutte le mie forze.

Dopo tanto cercare, sentivo le voci sempre più vicine, mi chiedevano se

vedessi la luce della loro torcia.

“Si!” risposi io, intravedendo un bagliore. Cercai di guidarli come

potevo, ma giunti di fronte alla porta della camera li sentii parlare tra

loro e dire “qui è tutto bloccato...è impossibile entrare” e subito dopo i

loro passi che si allontanavano.

Ed in quel momento realizzai che stavo ci stavo morendo la sotto.

Si dice che quando si sta per morire la vita ci passi davanti agli occhi in

un attimo, mi dispiace distruggere questo mito ma non è successo così.

La mente inizia a viaggiare, inizi a pensare a tutte le persone che lasci, a

tutte le cose che non hai fatto e che non avrai possibilità di fare. La vita

torna ad assumere il suo vero valore, e sono proprio questi i momenti in

cui ti rendi conto di ciò che è davvero importante. Quando si è circondati

dalla morte non si pensa alle cose materiali, ma solo alle persone a cui

vuoi bene, quelle che non vorresti lasciare, ma non per puro egoismo,

solo per non farle soffrire. La prima persona che mi venne in mente fu

mio padre. La mattina della partenza neppure lo avevo salutato a causa di

una discussione avuta nei giorni precedenti, sempre riguardante il

viaggio ad Amatrice. Non potevo morire senza nemmeno aver salutato

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mio padre. Poi iniziai a pensare a mia madre, che alloggiava al piano di

sopra e a mio fratello che, invece, si trovava sul mio stesso piano. Ad una

ad una pensai a tutte le persone della mia famiglia, tutte le persone che

avrei dovuto lasciare. Se non fossi sopravvissuta nemmeno io la mia

famiglia ne sarebbe rimasta sconvolta, lacerata da un dolore che

probabilmente avrebbe portato alla sua disgregazione, alla sua fine,

perché ci sono dolori troppo grandi per essere affrontati.

In quel momento mi pervase una sensazione che ancora oggi fatico a

spiegare a parole. Io...avevo voglia di vita, volevo vivere, in quel

momento lo desideravo più di qualsiasi cosa al mondo. riflettevo su tutte

le emozioni che si provano vivendo, belle e brutte e più ci pensavo e più

mi sembrava meraviglioso e più mi veniva la voglia di tornare a provare

tutte quelle emozioni. Iniziai a pensare a tutti i problemi che avevo

avuto, tutte le brutte giornate, tutta la tristezza che avevo provato in

questi anni e finalmente capii che anche i momenti più brutti sono

speciali, perché è comunque vita. Così cercai di recuperare la lucidità e

iniziai a pensare a come potevo liberarmi. Per prima cosa dovevo

assolutamente rompere l’anta dell’armadio che mi bloccava la gamba,

solo così sarei riuscita a sgattaiolare giù per quella grossa voragine sotto

il letto e poi avrei cercato un’uscita. Ma l’anta era incastrata tra la mia

gamba ed il solaio. Dovevo sbrigarmi. Le scosse continuavano ad

intervalli regolari. Non sapevo per quanto tempo sarebbe resistito e non

sapevo neppure quanto tempo rimaneva alla mia gamba. l’apice della

coscia, l’unica cosa che ero riuscita a liberare diventava sempre più

gonfio, pieno di sangue che non riusciva a fluire. Dovevo sbrigarmi.

Iniziai a tastare le macerie intorno a me alla ricerca di qualcosa che fosse

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abbastanza resistente da riuscire a scalfire il legno dell’armadio. Afferrai

qualcosa, non so dire con esattezza cosa fosse, ma iniziai a battere contro

il legno con tutta la forza che avevo, ma dopo poco il “sasso” iniziò a

sbriciolarsi. Mi affrettai a cercarne un altro. Questo sembrava più solido

ed era anche appuntito, pensando che facesse al caso mio lo afferrai e

senza pensarci troppo tornai a lavorare sull’anta. Il tempo passava e la

già flebile speranza di essere trovata sfumava sempre di più. Possibile

che nessuno mi stesse cercando? A nessuno importava di me? I cattivi

pensieri iniziarono a prendere il sopravvento. Ma non potevo abbattermi,

poi se mia madre fosse riuscita ad uscire mi avrebbe sicuramente

cercata, non mi avrebbe mai lasciato li sotto. Dopo poco sentii un

telefono squillare insistentemente, era il cellulare di mia nonna, questo

voleva dire che ci stavano cercando. Lo sentivo vicino eppure non

riuscivo a vederlo. Nel buoi non riuscivo a scorgere neppure la luce dello

schermo. Senza perdere tempo tornai a battere sull’anta con ritrovata

energia, fino a quando non sentii un piccolo buchino, o meglio

un’ammaccatura. l’anta era spessa, ma una volta scalfita potevo allargare

il buco con le mani e così feci. Iniziai a grattare la superficie di legno e

compensato con la sola forza della disperazione, continuando così per

minuti o forse ore. Solo dopo mi accorsi che nel lungo lavoro le unghie

si erano spezzate e la mano era totalmente graffiata...ma non sentivo

dolore, non sentivo nulla.

l’aria si faceva sempre più pesante. Faceva caldo e una goccia di sudore

mi ornava la fronte. Ero andata a dormire con la felpa quella sera, così

cercai di toglierla, ma lo spazio era troppo poco. Mi accasciai poggiando

la testa sul braccio destro, chiusi gli occhi e cercai di fare respiri

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profondi. Ma no potevo lasciarmi andare proprio in quel momento. Se

dovevo morire lo avrei fatto lottando. Così ripresi la mia opera.

Le ore passavano lente, tra speranza e rassegnazione, quando ad un tratto

sentii una voce chiamarmi.

“Sono qui” risposi con tutta la voce che avevo.

“Sono Valerio” disse la voce.

“Valerio!” ripetei il suo nome disperata, non riconoscendo la voce di mio

cugino, fino a quando non fu lui a presentarsi.

Una volta capito dove mi trovavo e sentito la mia voce andò a chiamare

aiuto, ma non mi lasciò sola, tornò a farmi compagnia in quell’inferno.

Appena tornato chiesi subito di mio fratello.

“Silvia...ti dirò la verità...Alessandro non risponde...” mi si gelò il

sangue.

E’ strano quanto la preoccupazione per una persona a cui si vuole bene

possa essere più devastante di quella per la propria vita.

Non potevo sopportare di aver perso un’altra persona, era una cosa a cui

non sarei potuta sopravvivere.

Ricaddi nel baratro della disperazione, mentre mio cugino cercava di

distrarmi chiacchierando, fino a quando non vidi una testa spuntare dal

buco sottostante il letto: Silvia sono Claudio, un vigile del fuoco.

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L’inizio di una nuova vita

Quando lo vidi si riaccese in me la speranza.

“Claudio” dissi con voce tremante “mi dai la mano?”.

Lui mi porse la mano ed io gliela strinsi con decisione.

Ricordo ancora quella stretta, forte ma delicata, di quelle strette di mano

che ti trasmettono fiducia e sicurezza, di quelle strette di mano che ti

dicono che tutto andrà bene.

Iniziò a scrutare la situazione, per capire come liberarmi dalla morsa

dell’armadio.

“Non mi sento più la gamba” dissi terrorizzata “ ma dovrete tagliarla?”.

Ebbene si, in quelle ore di a agonia era proprio questo il pensiero che si

era fatto largo dentro di me, la paura di perdere la gamba. Infatti dopo

tutte quelle ore la coscia si era visibilmente gonfiata poiché lo

schiacciamento impediva il fluire del sangue, perciò già immaginavo il

peggio.

“Io non ti taglio niente” rispose Claudio con voce rassicurante.

Attendemmo l’arrivo di un seghetto per tagliare l’anta per un tempo

interminabile, mentre la sferza delle scosse non accennava a diminuire.

Ad ogni scossa stringevo la mano di Claudio come fosse la mia unica

ancora di salvezza e lui non mi lasciava.

Nonostante stesse mettendo a rischio la sua stessa vita non mi ha mai

lasciato, non c’è mai stato un momento di esitazione né di paura.

Mesi dopo ho ricevuto questo messaggio: “ Non ti avrei lasciato per

nessun motivo al mondo...Nonostante tutto pensavo di uscire da lì

insieme a te e così è stato...” (Claudio- Venerdì 30 Settembre)

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Arrivato il seghetto, iniziò a tagliare il la lastra di legno, ma con fatica

visto che trovandomi io all’angolo ero abbastanza lontano e lui doveva

sporgersi, per questo faceva fatica nel movimento di ritorno.

Così disse di aver bisogno di qualcuno che lo aiutasse per il contraccolpo

e quindi nel riportare la lama nella posizione di partenza.

Senza esitazione gli dissi che potevo farlo io, così iniziammo a segare

fino a quando l’anta non era talmente scalfita da permettergli di

romperla.

Così afferrò il pezzo di legno e con un sol colpo lo ruppe.

In quel momento sentii il sangue tornare a fluire nelle vene, ma non era

finita perché la cerniera di ferro continuava premere, impedendomi di

muovermi ed inoltre dal ginocchio in giù la gamba era totalmente

sommersa dalle macerie.

Cercò di tirare la sbarra di ferro, ma nonostante ci mettesse tutta la sua

forza e per quanto cercassi anche io di aiutarlo a spingere, era troppo per

una persona sola e dovette cercare aiuto.

Solo in seguito ho scoperto che nessuno voleva entrare lì dentro, nessuno

voleva entrare in quell’inferno, ma fu, invece, un signore di Amatrice ad

entrare per darci una mano.

Spinsero con tutta la loro forza l’asta, che premeva contro la mia gamba

provocandomi una forte fitta, fino a quando questa non si spezzò

liberandomi una parte della gamba. Ma ancora non era finita.

Come ho già accennato, infatti, una grossa parte della mia gamba era

sommersa dalle macerie, troppe per essere spostate a mani nude,

qualcosa doveva essere spostato per farle calare giù.

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Claudio iniziò a guardarsi intorno per capire come fare, quando d’un

tratto penso a spostare il materasso per permettere alle macerie di

scivolare giù.

Ma il materasso poteva essere troppo pesante ed inoltre dalla mia parte

era bloccato dal solaio crollato, ma mentre discuteva su come fare mi

venne in mente che il materasso non era un matrimoniale, bensì due

singoli accostati.

Afferrarono l’estremità del materasso dove si giaceva mia nonna e

iniziarono a tirare.

In quel momento le macerie scivolarono giù lasciandomi libera la

gamba, ma la mia gamba non era più la stessa, gonfia, bianca, senza vita,

una delle tante immagini che non dimenticherò mai, una delle tante

immagini che ancora tormentano le mie notti.

Sembrava fatta, ero libera, o meglio ad un passo dalla libertà, perché i

problemi sembravano non finire, infatti Claudio non riusciva a

raggiungermi, ero troppo lontana per essere raggiunta.

Mentre si consultavano su come fare, qualcuno propose di spostare il

corpo di mia nonna, ma gli risposero “guarda come sta..è impossibile

spostarla...”.

E’ quasi impossibile descrivere come mi sentii in quel momento.

Probabilmente fu proprio allora che realizzai pienamente la gravità della

sua situazione.

La morte di una persona cara è sempre difficile da affrontare, ma sentire

la morte che ci circonda, una morte violenta, vederla e toccarla con mano

è straziante.

“Devi spostarti e avvicinarti a noi” mi disse Claudio “ è l’unico modo”.

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Non sapevo se avrei trovato la forza, ma dovevo provarci, non avevo

scelta, sarebbe stato l’ultimo sforzo...il più grande.

“ Puntati con la gamba buona e spingi”.

Così feci.

Puntai la gamba sinistra contro il solaio e spinsi.

Mi assalì un dolore mai provato prima, era fortissimo, troppo per essere

sopportato e mi uscì un grido, un grido di dolore che non riuscii a

trattenere.

Mi bloccai per riprendere fiato e notai che la mia gamba, dalla metà

coscia in giù non si era mossa.

Io mi spostavo ma la mia gamba restava li, inerme.

“Devi spingermi la gamba” dissi a Claudio.

Lui la prese e la spostò come si sposta un oggetto inanimato, era senza

vita, come fosse un manichino.

Puntai di nuovo la gamba e mi diedi un’altra spinta, il dolore era atroce.

Feci un’altra pausa ma decisi che sarebbe stata l’ultima.

“Così ti allontani” esordì il signore di amatrice che era rimasto a dare

una mano, ma io cercavo in tutti i modi di spostarmi per farmi prendere

dalle spalle.

“Un attimo...” dissi io cercando di raccogliere le ultime forze, puntai il

piede contro il solaio con decisione e spinsi più che potevo fino a quando

non mi avvicinai abbastanza da essere presa.

Mi sentii afferrare da sotto le braccia ed in quel momento seppi che era

finita.

Mi afferrarono e trascinarono, ma per passare dovetti scavalcare il corpo

di mia nonna. Questa è una cosa che non racconto spesso, in quanto mi

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causa dolore, rimorso e vergogna. Ho pensato spesso da quel momento

quanto il mio gesto fosse stato una mancanza di rispetto nei suoi

confronti, perché in fondo qual è il limite che non si può superare per

salvarsi la vita?

Questo è uno dei motivi per cui con il tempo ho sviluppato diverse

versioni della mia storia, nessuna delle quali integrale come questa, ma

adatte alle diverse occasioni, perché nel mio immenso dolore ho deciso

che alcuni dettaglia, alcune sensazioni le avrei tenute per me, dovevano

essere la mia croce e questa croce l’avrei portata da sola. Non potevo

sobbarcare i miei familiari di un ulteriore dolore, un dolore che

avrebbero potuto risparmiarsi, non avrei permesso che vivessero il mio

stesso inferno.

Una volta giunta tra le loro braccia, mi trascinarono come poterono,

facendomi scivolare su un pezzo di un ponteggio rimediato nel disastro.

Mi calarono giù per il buco dal quale erano entrati. In quel momento

qualcuno mi disse di chiudere gli occhi e così feci, riaprendoli solo

quando la luce iniziò a penetrare dalle palpebre sbarrate.

Ero fuori. Ce l’avevo fatta, avevo mantenuto la promessa fatta a me

stessa.

Era una bella giornata, nel cielo non c’era una nuvola e quel sole che

maestoso illuminava i resti di quella che una volta era Amatrice, mi

parve il più luminoso che avessi mai visto.

Intorno a me tutto era irriconoscibile.

Mi poggiarono a terra preparandosi alla scalata delle macerie che ci

circondavano.

Non ricordo molto di questi attimi né di ciò che mi circondava.

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Nella confusione qualcuno gridava : “Silvia..c’è Silvia!”.

Mia madre cercò di avvicinarsi per chiedermi di nonna e quello fu un

altro momento straziante, nonostante qualcuno cercasse mi consigliasse

di tacere, dissi a mia madre che nonna non ce l’aveva fatta e lei lanciò un

grido straziante e colmo di dolore che ancora mi tormenta.

Così con voce tremante di chi cerca disperatamente il suo eroe, chiamai

Claudio, che lasciò il ponteggio sul quale mi trasportavano per venire

avanti insieme a me.

“ Sono qui.” disse lui, facendosi avanti dalla sua postazione affinché io

potessi vederlo.

“Claudio...mio fratello...prometti di tirare fuori mio

fratello...perché...perché io senza di lui non so se ce la faccio...”.

Claudio fece un cenno con la testa e tornò alla sua postazione.

Tra le poche e confuse cose che ricordo ci sono sicuramente gli occhi di

un ragazzo, un ragazzo della protezione civile che stava aiutando a

portarmi al punto di raccolta.

Vi sembrerà strano che io ricordi così nitidamente questi occhi, ma

dovete sapere che in quel lungo tragitto furono la sola cosa che vidi.

Con un braccio teneva la mia barella improvvisata e con l’altro mi

teneva la mano ed con quello sguardo, rassicurante, di chi vuole

proteggerti dagli orrori, dalla devastazione e dalla morte che ti

circondano.

“ ...Ti ho accompagnata fino all'ambulanza e lì ti ho dovuto lasciare per

forza...”

(Claudio – 30 Settembre)

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Quando arrivai, la palestra era colma di persone, che stavano più o meno

bene.

Mi poggiarono a terra ed iniziai la mia attesa.

Dopo un po' arrivò mia madre per avvertirmi che mio fratello stava bene,

fu solo in quel momento che gli chiesi di andare a recuperare il cane,

estratto poco prima di me.

Con grande stupore, si affrettò a tornare a ciò che restava dell’albergo,

accompagnata da mio cugino.

Mi guardavo intorno un po' spaesata quando d’un tratto voltandomi

verso la porta scorsi una figura avvolta in un lenzuolo che veniva verso

di me.

Era un uomo. Ma non doveva essere uno qualunque, aveva un viso che

avevo già visto, un viso familiare, che sapeva di casa, eppure non

riuscivo a capire chi fosse, né dove lo avessi visto prima.

Ammetto che mi ci volle del tempo prima di capire che quell’uomo che

stanco arrancava verso di me era mio fratello.

Era molto diverso da come lo avevo lasciato la sera prima.

Si inginocchio vicino a me, il corpo coperto di graffi, il viso gonfio e

plumbeo e una doppia striscia di sangue gli ornava la testa.

Il ricordo della sua prima visita si interrompe qui. So che probabilmente

non è molto poetico e non giova ai fini della resa della mia storia, ma

questa è la verità e mi sono ripromessa che avrei riportato solo il

vero...che avrei riportato un po' di mi stessa in questa tesi.

La vista di mio fratello in quelle condizioni fu, probabilmente, la prima

avvisaglia del mio cambiamento.

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Può sembrare quasi una banalità dire che un’esperienza del genere ti

cambia la vita e probabilmente le persone non prendono neppure sul

serio frasi del genere, ma vi posso assicurare che è vero, ed è un secondo

trauma da affrontare.

Capii subito, appena uscita, che qualcosa in me era cambiato, che ero

una persona diversa, ma solo nei giorni a seguire mi ritrovai nella

condizione di affrontare una vita, che non sentivo più la mia, con un

carattere che non era più il mio.

Fa male non riconoscersi.

Fa paura affrontare un cambiamento così drastico della propria

personalità in così breve tempo.

Mi sentivo come svuotata, svuotata da ogni genere di emozione.

Non provavo più paura, né gioia, né amore nei confronti di nessuno.

Ero fredda ed impassibile e mi sentivo come un involucro vuoto, senza

un’anima e vi posso assicurare che non provare nessun tipo di emozione

è devastante quasi come provare dolore.

Non ci si sente più umani, perché in realtà si è perso tutto ciò che ci

rende tali.

Nel frattempo intorno a me la devastazione.

Tutti coloro che non avevano riportato danni cercavano di aiutare i feriti,

i dottori disperati, la farmacia era stata rasa al suolo, non c’era più un

farmaco, non c’era più nulla.

Decisero di infilarmi una flebo, nel disperato tentativo di calmare il

dolore, sempre più lancinante.

La gamba ormai sembrava un fantoccio, immobile, gonfia, senza vita e

la rottura dell’osso non solo era evidente ma gli conferiva una strana

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forma, poiché essendo stato rotto di netto non ce la faceva a sostenere il

peso provocando un’inquietante rientranza.

Attendemmo le disposizioni per lo smistamento nei diversi ospedali.

Ci comunicarono che ci avrebbero diviso tra Rieti, L’Aquila e Sulmona a

seconda della disponibilità.

Arrivato il primo elicottero, il dottore si avvicinò e mi disse con voce

fermo: “L’Aquila”.

La madre di una ragazza, sdraiata accanto a me, iniziò a protestare

cercando di convincerlo a far partire prima sua figlia, ma il dottore fermo

sulle sue idee, mi fece portare via immediatamente.

Mia madre chiese subito se potesse venire con me, ma le negarono il

permesso e mi portarono via...sola.

Mi trasferirono su una barella, e da lì in ambulanza giungemmo al

grande prato dove vi era l’atterraggio per gli elicotteri.

Quante volte in quegli anni ero passata davanti a quel prato, al centro di

cui dominava imponente la grande H illuminata.

Quante volte passando per quella strada mi ero chiesta chi mai potesse

avere bisogno di un elicottero ad Amatrice, così tranquilla, così sicura.

Ed invece era toccato proprio a me sperimentare.

L’elicottero era già acceso, in attesa del mio arrivo.

Il rumore delle pale che giravano vorticosamente era assordante.

Salii sull’elicottero.

La mia posizione mi permetteva di vedere ben poco del panorama

sottostante, ma riuscivo a scorgere una fetta di cielo dal finestrino.

Ammetto che il giretto in elicottero non è stato così tranquillo come

sembra.

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Lo sentivo così instabile, soprattutto alla partenza, che mi ritrovai ad

avere paura di morire, di nuovo.

Dentro di me mi dicevo che non potevo essere scampata ad un terremoto

per poi morire su un elicottero, sarebbe stato un destino eccessivamente

beffardo, se non sadico.

Alla mia destra, sedeva un uomo, penso fosse un dottore, una di quelle

persone che guardandole negli occhi capisci che ne hanno passate tante e

mi guardava, mi guardava con gli occhi pieni di dolore fino a quando

qualche lacrima uscì dai suoi occhi.

Fece di tutto, ma non riusciva a trattenersi.

Io lo guardavo, mi dispiaceva che una persona stesse così per me, ma al

tempo stesso mi sembrava strano, soprattutto perché era una persona che

non avevo mai visto prima.

Questo mondo ci ha abituati fin troppo all’indifferenza della gente.

Nessuno ha né voglia, né tempo di prestare attenzione all’altro, a ciò che

gli succede, nessuno ha più né voglia, né tempo di provare compassione.

Stiamo diventando un mondo di persone disilluse, fredde, pensiamo

sempre che non possa accadere a noi, ma solo quando poi ci accade ci

rendiamo conto di quanto possa significare in quel momento una

carezza, una parola gentile, o anche semplicemente sentire che una

persona ci è vicina, che in quell’orrore non siamo poi così soli.

Vedendo le sue lacrime, non riuscii a trattenermi gli afferrai la mano,

cercando di trasmettergli ciò che potevo trasmettergli a parole: stavo

bene.

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Arrivati all’Aquila, ci stava aspettando l'ambulanza, ma il signore non

venne con noi, quella che doveva essere una dottoressa o un infermiere

disse: “Noi veniamo a piedi...il dottore ha bisogno di calmarsi”.

Era la prima volta che entravo in un’ambulanza.

Entrata dentro trovai due simpatici infermieri che iniziarono a farmi

qualche domanda, avevano un viso tranquillo e scherzavano, cosa che mi

fece sentire molto meglio.

Al pronto soccorso, invece, iniziarono i veri e propri controlli, o meglio

torture.

Infatti, nonostante quel giorno ne avessi affrontati di dolori, rimaneva un

ultimo scoglio da superare...gli aghi.

Ebbene si, dopo tutto ciò che era successo, io pensavo alla mia paura

delle punture e quel che è peggio è che in quel momento non potevo

neppure sfuggire.

Ricordo ancora nitidamente la sala dove mi portarono, o meglio le luci

che sovrastavano il lettino, quelle luci tonde bianche da sala operatoria o

da scantinato dello psicopatico di un film horror che vuole torturarti.

All’estremità del lettino di acciaio dove mi trovavo c’era un ragazzo, dal

viso tondeggiante e simpatico, lo guardai e dissi: “ Certo che è

inquietante questo posto...”.

“Con il tempo ci ho fatto l’abitudine” mi rispose lui sfoderando un

sorriso beffardo.

Nel frattempo intorno a me c’era un gran fermento.

Il primario tornato dalle ferie a causa dell’emergenza dirigeva una

squadra di infermieri, che mi facevano prelievi e cercavano di capire il

mio stato.

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Mi tagliarono il pigiama e le maniche della felpa con cui dormivo quella

sera e a cui tenevo tanto, che già anticipo fece una brutta fine.

Successivamente andai a fare le lastre.

Ogni spostamento era traumatico, in particolare quando mi spostavano

su superfici dure, la gamba faceva malissimo.

Al termine di tutti gli accertamenti mi spostarono finalmente sul letto,

dal quale mi sarei rialzata solo venti giorni dopo.

“Omioddio...è comodissimo!” esclamai rincuorata, mentre tutti

scoppiarono a ridere.

Attesi i referti della lastra poggiata in un corridoio li vicino, mentre di

tanto in tanto qualcuno mi chiedeva come mi sentissi, fino a quando

un’infermiera non si avvicinò dicendomi: “ Silvia c’è qualcuno che ti

vuole vedere”.

Non sapevo assolutamente chi potesse essere, mia madre non poteva

essere arrivata in così breve tempo.

Alla soglia della porta vidi una signora bionda, pienotta, dal viso stanco

e preoccupato che cercava di fingere un po' di normalità, mentre la

guardavo spaurita e confusa.

Si avvicinò e mi disse chi era.

Rimasi sorpresa scoprendo che lei era Anna Maria la collega di mia

madre che trascorreva le vacanze in un paesino vicino ad Amatrice e che

avremmo dovuto incontrare nei giorni successivi per fare una

passeggiata tra le montagne.

Lei rimase lì accanto a me, tenendomi stretta la mano, in silenzio, fino a

quando non mi trasferirono nel reparto di ortopedia.

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Ospedale San Salvatore – Edificio delta 8 – terzo piano

Mi portarono in una stanzetta dalle pareti di un blu chiaro,

illuminata da grandi finestre che filtravano la luce di un caldo sole di

fino Agosto.

Ero circondata da medici ed infermieri, nuda dalla vita in giù.

Il dolore sembrava essersi attenuato.

“ Qui c’è una ferita...è profonda,dobbiamo mettere dei punti” dissero

scrutando la mia gamba.

Possibile che non mi fossi accorta di una ferita tanto profonda?

“Ora metteremo una trazione per rimettere in asse l’osso” mi spiegarono

“ ma non preoccuparti ti faremo un'anestesia”.

Un’infermiera, che poi diventerà una delle tante persone speciali lasciate

lì , mi teneva la mano con fare rassicurante, “ Tu non guardare” disse

“guarda me”, acconsentii con un cenno da cui traspariva tutta la mia

preoccupazione e la guardai negli occhi stringendole la mano che lei

teneva vicino al suo ventre in una sorta di abbraccio.

Fecero due piccole punturine all’altezza del polpaccio, che risultarono

più dolorose del previsto a causa del gonfiore della gamba e subito dopo

sentii come il rumore di un trapano e la sensazione di un qualcosa che

prima bucava la pelle e poi entrava nell’osso, che si muoveva

assecondando il ruotare di quella che scoprii essere la mia trazione.

Attaccarono allo strano marchingegno, che si presentava come una

struttura abbastanza alta che si attaccava alla gamba per mezzo di due

chiodi, dei pesi affinché l’osso potesse ritornare alla sua posizione

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originaria e mi portarono in camera, quella che sarebbe stato per molto

tempo la mia casa.

Ad attendermi nella camera c’era la mia compagna di sventure, una

ragazza di più o meno la metà, operata proprio la mattina prima del

terremoto, Beatrice.

Una volta entrata esordii dicendo “meno male che ci sei tu, almeno parlo

con qualcuno”, lei mi sorrise rispondendomi che lei erano giorni che si

trovava in camera da sola.

La conversazione non andò avanti molto a lungo, mi sentivo stanca e

quella sensazione di vuoto interiore, tornò prepotente dentro di me, non

mi interessava più niente, l’unica cosa che gradivo in quel momento era

stare in silenzio, tra me e me e capire.

Poco dopo arrivò anche Anna Maria, che si mise accanto al mio letto ed

iniziò a vegliare su di me, bagnandomi le labbra di tanto in tanto.

Mi sentivo così stanca, spossata, senza più forze per reagire, ma allo

stesso tempo non riuscivo a deporre le armi, non riuscivo a chiudere

occhio, a riposare nonostante il corpo non mi chiedesse altro.

Ma ero come un animale ferito, allerta, pronta alla fuga, non potevo

permettermi di dormire, di lasciarmi sfuggire la situazione di mano

un’altra volta, troppo spaventata, la paura di morire mi perseguitava e il

mio attaccamento alla vita mi impediva il benché minimo riposo.

Le scosse continuavano incessanti, ad intervalli regolari, mettendo a dura

prova la mia psiche, che iniziava a vacillare, erano una tortura, uno

stillicidio...avevo paura, e

nonostante quel giorno avessi scoperto il lato migliore del genere umano,

non riuscivo a fidarmi di nessuno.

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E se fosse crollato anche l’ospedale?

Chi mi avrebbe portato fuori nel bel mezzo di un terremoto, in queste

condizioni, imprigionata su un letto, impossibilitata ad alzarmi.

E così trascorsero le mie prime ore in ospedale, vacillando tra la paura di

addormentarmi e il bisogno di riposare.

A dispetto dei cattivi pensieri sapevo di dover dormire, o almeno

provarci.

Chiusi gli occhi e non appena le mie palpebre celarono la luce del sole,

vidi di nuovo quella scena.

In un attimo tornai sotto le macerie, il solaio ad un palmo dal viso e lei

accanto a me, inerme, fredda.

Riaprii gli occhi sobbalzando, la mente umana può giocare brutti scherzi

in queste situazione e mantenere la calma è pressoché impossibile.

Ancora non riuscivo a realizzare la sua morte, probabilmente non la

realizzo neppure ora, ma in quei momenti, nonostante lo sapessi,

nonostante l’avessi vista e le fossi stata accanto non provavo nulla.

Quando una persona a cui tieni molto ti sta vicino tutta la vita, lei ti vede

crescere e tu, inevitabilmente, la vedi invecchiare, perciò mi ero ritrovata

spesso ad immaginare come sarebbe stato, il forte senso di abbandono

che avrei provato e al solo pensiero mi veniva da piangere, ma ora era

tutto diverso, non riuscivo a versare neppure una lacrima, né per lei, né

per me stessa.

Ero diventata un mostro.

Perché non mi interessava più di nulla e di nessuno?

Sarei rimasta così per sempre?

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Mentre questi pensieri affollavano la mia mente, squillò il telefono della

signora.

“Caterina?!” esordì Anna Maria.

“Si sta bene...tranquilla...ci sono io con lei” continuò, “certo ora te la

passo..” concluse porgendomi il telefono, che afferrai a fatica a causa

della flebo.

“ Come stai?” mi chiese con voce tremante.

“ Bene” risposi io.

“ Valerio ci ha portato a casa sua per fare una doccia, tuo padre sta

arrivando, ma le strade sono tutte bloccate...tra poco arriviamo”disse

cercando di rassicurarmi.

“ Tranquilla mamma..io sta bene” cercai di rassicurarla a mia volta.

“ Ti chiamo appena arrivano” concluse.

Non vedevo l’ora che arrivassero, avevo bisogno di stare con qualcuno

che conoscevo e poi dovevo avvertire Lea.

Le ore passavano intervallate da qualche chiamata di mamma e qualche

visita degli infermieri che con il tempo avrei imparato a conoscere

sempre meglio.

Dopo ore ed ora di attesa, finalmente mia madre chiamò la sua collega

dicendole che era arrivata e lei precipitò giù per andarle incontro e

mostrarle la via nel dedalo dei mille reparti di quell’ospedale.

Entrarono dalla porta con dei volti che difficilmente dimenticherò.

Per prima entrò mia madre, ancora in camicia da notte e vestaglia,

esattamente come l’avevo lasciata la sera prima, il viso smunto per il

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dolore immenso che solo una madre prova quando pensa di aver perso i

propri figli, poi mio padre, il viso devastato e consunto dalla grande

agitazione, sembrava avergli regalato qualche anno di troppo; e mia

sorella, beh mi si stringeva il cuore a vederla così, piena di una pena mal

celata ed infine mia zia accorsa anche lei appena aveva saputo.

È veramente brutto essere la causa di tanto dolore, e vedere i tuoi cari

soffrire è peggio della sofferenza stessa.

Uno alla volta si avvicinarono al mio letto per salutarmi, ed io seppur

non in grado di provare la benché minima emozione riuscivo a percepire

le loro, come se fossero dentro di me.

Ho scarsi ricordi di quei momenti, ma ricordo che dopo poco ci

salutammo e tutti si avviarono verso casa ed io e mia madre restammo

lì , sole.

Non avevamo più nulla, eravamo l'incarnazione del detto “scalze e

nude”, ma dopo poco iniziarono a venire infermiere con le cose più

disparate, spazzole, spazzolini pigiami e saponi, tutto ciò che poteva

servire a persone che non avevano più nulla.

Nel corso della giornata, iniziarono le visite, di persone che affermavano

di esserci state, che sapevano il mio nome, ma che non ricordavo affatto.

Ricordo che il primo ad arrivare fu un signore di una certa età con dei

folti baffi grigi di nome Alfredo, che appena entrato, ancora in divisa

venne ad abbracciarmi, ma c’era solo una persona che io volessi vedere

in quel momento, così gli chiesi: “ Ma c’era un vigile del fuoco insieme

a me...si chiama Claudio...”.

Disse di non conoscerlo e le mie speranze di riabbracciarlo di

affievolirono.

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Come avrei potuto ritrovare una persona avendo solo un nome ed una

professione?

Eppure mi sarebbe piaciuto rivederlo, poterlo riabbracciare e ringraziarlo

per esserci stato, per non avermi lasciato...mai.

Fecero uscire mia madre per la consueta somministrazione dei

medicinali, una volta terminato però tardava a rientrare, finché non la

vidi sulla soglia della porta.

“ Sai c’è un altro ragazzo che stava all’hotel Roma, stavamo

parlando...ha detto che dopo passa a salutarti”.

Poco dopo entrò un ragazzo sulla sedia a rotelle, il tallone rotto,

accompagnato dai fratelli, aveva il viso sconvolto, come tutti quel

giorno, probabilmente anche come me, si avvicinò mi tese la mano e si

presentò: “ Luca”.

“Silvia” riposi io affaticata.

Quelle presentazioni furono l’iniziò di un’amicizia che rese quei giorni

in ospedale meno tristi.

Dopo qualche giorno, infatti, tornò a trovarmi e iniziammo a

chiacchierare.

Le visite si fecero sempre più frequenti, fino a quando non prendemmo

l’abitudine di cenare insieme quasi tutte le sere.

Stare insieme a lui era un svago per la mia mente, che quando restavo da

sola, tendeva ad essere fin troppo affollata.

Parlando scoprii che alloggiava nella camera affianco la mia e che era

riuscito a scappare perché ancora non stava dormendo.

La strana coincidenza di essere vicini di stanza e di essere stati tutti e due

portati nello stesso ospedale e poi spostati in camere vicine, ancora mi da

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riflettere, ma in quei momenti di sofferenza, una bella amicizia era una

potente ancora di salvezza.

I giorni trascorrevano lenti, ritmi scanditi dai pasti e dalle visite dei

dottori, tutto era diventato la norma, un’abitudine, quella ormai era la

mia vita, e quasi iniziavo a farci l’abitudine.

Avevo fatto amicizia con quasi tutti gli infermieri, che spesso venivano a

trovarmi per fare una chiacchierata o rubarmi qualche dolcetto che, chi

veniva a trovarmi, si ostinava a portare.

Poi venne il giorno della “scarcerazione” di Beatrice, l’unica della mia

età in quella camera.

Mi dispiaceva vederla andare via, nonostante fossi contenta per lei,

infatti in quella settimana lei e la sua famiglia mi erano stati molto

vicino, dimostrandomi la solidarietà di chi ci è già passato e con dolore

vede qualcun altro affrontare lo stesso dramma.

Lo stesso giorno del suo rilascio, il primario decise di spostarmi in una

camera da due, affinché mia madre, stremata dalla costante veglia,

potesse riposare un po'.

Arrivata nella nuova camera mi assalì il silenzio.

Se prima il chiacchierare delle vecchiette mi faceva compagnia, ora in

quella stanza mi ritrovavo di nuovo sola, sola con i miei pensieri, le mie

angosce, le mie malinconie.

Questo mi portò ad attendere le visite con sempre maggior entusiasmo,

ma non tutte le visite, ovviamente, mi erano così gradite, né potevo

sopportarle per troppo tempo. E così tra momenti di compagnia e di

assoluta solitudine attesi il giorno dell’operazione.

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Mi avevano raccontato che il giorno prima di essere operata avrei

ricevuto la visita dell’anestesista e così iniziò l’attesa.

Ogni volta che sentivo dei passi avvicinarsi alla mia camera, guardavo

speranzosa verso la porta, ma non era mai chi aspettavo.

I giorni passavano e vedevo operarsi tutti gli altri pazienti.

Agosto era quasi finito, ero stanca di stare in quelle condizioni e speravo

che qualcuno mi dicesse perché questa operazione tardava ad arrivare,

quando una mattina, durante il consueto giro delle visite il dottore mi

comunicò che a causa dell’ematoma che avevo riportato, preferivano

attendere un po' di più prima di operarmi.

Trascorse quasi un’altra settimana, quando finalmente mi dissero che mi

sarei operata venerdì, venerdì due settembre.

Rimasi sconcertata da quella data, che per molti è un giorno come un

altro, ma non per me, il due settembre, infatti, sarebbe stato il

compleanno di mia nonna.

Eppure sapere che mi sarei operata proprio quel giorno mi riempiva di

speranza e mi faceva sentire sicura, come fosse stato un segno che lei

fosse lì a proteggermi ancora una volta, così tutte le paure scomparvero,

perché non avrebbe mai permesso che mi succedesse qualcosa e di

questo ne ero certa.

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2 Settembre 2016 – L’operazione

Riapro gli occhi in una grande sala.

Non riuscivo a muovere nulla se non gli occhi e mi lacerava una

fortissima nausea.

Si avvicinò un’infermiera che iniziò a parlarmi, a chiedere come stavo,

ma l’unica frase che riuscii a rantolare fu : “ Mi viene da vomitare...”,

così l’infermiera si avvicinò con una siringa e qualche secondo dopo

tutto il fastidio svanì.

Mi spiegarono come far funzionare la sacchetta di morfina attaccata alla

flebo.

Cercavo di concentrarmi, ma il mio cervello si rifiutava di capire, così

mi ritrovai ad annuire all’infermiera senza aver capito nulla.

Avevo gli occhi chiusi, ma sapevo di essere tornata in camera mia.

Sentivo il vociare dei miei fratelli e sapere che la mia famiglia era li mi

faceva sentire sicura.

Mia madre, accompagnata da mio fratello e mia sorella, andò a mangiare

e rimasi sola con mio padre.

Appena uscirono dalla porta sentii i suoi passi avvicinarsi e poi una

carezza ed un bacio sulla fronte, delicato, amorevole, dolce come solo

quello di chi non è molto avvezzo alle dimostrazioni d’affetto sa essere,

così, sapendo che lui vegliava su di me sono ricaduta nel sonno.

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Il primo incontro

“Okay, allora vado a prendere la calza” esclamò mia madre prima di

uscire dalla camera.

“ Va bene...a dopo” la salutai io.

Quella mattina, mia madre era andata a comprare la calza elastica che

avrei dovuto indossare quel giorno dopo aver tolto il drenaggio, un

piccolo tubicino di plastica collegato ad una sacca, dove veniva drenato

il sangue che fuoriusciva dall’ematoma che avevo riportato.

Andò a comprarla in un negozio di ortopedia lì vicino, che le aveva

consigliato la stessa caposala e dove si servivano sempre, facendolo

diventare il negozio di fiducia del reparto.

Entrata nel negozio, la servì un ragazzone alto, che le chiese cosa

desiderasse.

“ una calza elastica” disse lei, porgendo il foglietto con le misurazioni.

“ Protesi all’anca?” chiese curioso.

“No” rispose mia madre “ femore sotto il terremoto”.

Ci fu un attimo di silenzio, lui la guardò stupito e le chiese “ ma lei è la

madre di Silvia?”.

“ Si...sono io” rispose.

Aspettavo con impazienza il ritorno di mia madre, mentre

ingannavo il tempo cercando di scorgere il paesaggio fuori dalla mia

finestra.

Mi sembrava così strano aver trascorso tanto tempo in un luogo e non

sapere neanche cosa ci fosse fuori.

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Quando, sentii dei passi avvicinarsi alla porta e vidi spuntare mia madre

con uno strano sorriso, entrò e mi disse: “ Guarda chi c’è?”.

Guardai attentamente quella figura, che mi sorrideva, eppure non mi

tornava in mente niente, non riuscivo a capire chi fosse.

“ Non lo riconosci?” mi chiese mia madre.

“ Ehm...no” dovetti ammettere imbarazzata.

“ E’ Giuseppe” mi spiegò mia madre “ ha aiutato a portarti fuori”.

In quel momento lui si avvicinò al letto per salutarmi e lo strinsi in un

abbraccio che aveva il gusto amaro della disperazione, uno di quegli

abbracci che condividi solo con chi la sotto c’è stato, ma c’è stato

insieme a te, per te.

“ Grazie...grazie” furono le uniche parole che riuscii a farfugliare, che

per quanto possano sembrare scontate erano le uniche parole che sentivo

di dirgli dal profondo del mio cuore.

Iniziammo a parlare di tutto quello che era successo, di quello che

avevamo dovuto affrontare.

Mi raccontò tutto ciò che io non potevo sapere di quella tragica notte, le

persone che aveva salvato, la disperazione di sentirsi impotenti difronte

al disastro ma al tempo stesso la forza ed il coraggio di non arretrare

davanti al pericolo.

Da quel giorno la visita di Giuseppe diventò un appuntamento fisso.

Ogni giorno veniva a trovarmi, mi metteva sulla sedia a rotelle e mi

portava al bar dell’ospedale, incastrandomi come poteva nello stretto

ascensore.

Mi divertivo sempre ad essere scarrozzata in giro per l’ospedale e quelli

erano diventati per me uno dei pochi momenti di evasione.

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Parlare ci aiutava, ci aiutava ad esorcizzare e a cercare di metabolizzare,

per quanto difficile, quello che ci era capitato, perché è confortante

parlare con qualcuno che ci è passato, qualcuno a cui non devi spiegare

troppe troppe cose.

Mi raccontò di avermi cercato nei giorni seguenti, di aver fatto vedere il

video dei giornalisti al sindaco per cercare di capire se conoscesse mia

madre, e alla fine per uno strano scherzo del destino ci eravamo ritrovati

proprio lì.

Una delle tante mattine in cui passò a trovarmi, non lo fece a mani vuote,

mi portò il deambulatore che mi serviva per fare i primi passi e le

stampelle, poi appoggiò sul comodino una busta da lettere, bianca,

chiusa, mi guardò e mii disse che avrei dovuto leggerla solo una volta

che lui se ne fosse andato, poi mi aiutò ad alzarmi e come sempre

andammo giù al bar.

Si fece pomeriggio e con il passare delle ora quasi mi dimenticai della

busta, finché verso sera non decisi di aprirla.

Mi accomodai sulla sedia a rotelle, decisa a leggerla da sola, lontana da

tutti, così uscii dalla stanza e mi diressi vicino ad una delle tante finestre

che seguivano in corridoio del reparto e mi misi li davanti, dando le

spalle tutto e a tutti.

Presi un bel respiro e aprii la busta, dentro vi era una lettera, la aprii e tra

le mille parole mi cadde l’occhio su morte.

La richiusi immediatamente.

Non ero sicura di farcela, era ancora troppo doloroso.

Non so per quanto tempo rimasi davanti quella finestra prima di trovare

il coraggio di aprirla e leggerne il contenuto, ma poi mi decisi.

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Raccolsi tutto il coraggio che avevo ed iniziai a leggere la poesia che mi

aveva scritto:

UNA VOCE NEL BUIO

Un urlo disperato,

un urlo per la vita.

Sassi, ferro

Buio.

La tua voce

la nostra luce.

Buio

Vuoto

Sei lì

impaurita e inerme

sei lì

VIVA.

Viva di fianco alla morte

Viva sotto la morte.

Viva

e viva ne uscirai.

La tua mano

Il tuo viso.

Pallida di paura

ma felice di noi.

Noi che nulla siamo

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ma che molto possiamo.

Nulla abbiamo ma fuori ti abbiamo portato.

Trema

trema la terra non noi,

tremano i sassi ma tu esci con noi.

Vedi la luce e cerchi i tuoi cari,

tanto è il dolore

ma sei con noi.

Fuori

Ora inizia la tua seconda vita

Corri felice

e goditi tutti gli attimi che verranno.

Un abbraccio

Giuseppe

Finii di leggere immersa nelle lacrime e tornò dentro di me quel

dolore straziante, il dolore di una perdita brutale e violenta, ma aveva

ragione, quella per me era una seconda vita.

Uscire da quell’albergo è stato doloroso e bello come nascere un’altra

volta, anche se percepivo forte il mio cambiamento e spesso mi

destabilizzava.

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I giorni passavano e finalmente, dopo venti lunghi giorni era arrivato il

momento di tornare a casa.

L’ultimo giorno, come tutti i giorni dal momento in cui ci eravamo

conosciuti Giuseppe mi venne a salutare.

Gli mostrai fiera che riuscivo ormai ad alzarmi dal letto, seppur con

molta fatica, senza l’aiuto di nessuno.

Ma questa volta aveva portato con sé una sorpresa.

Un mazzo di fiori, di cui ancora conservo i petali ed un biglietto.

Lo aprii temendo il suo contenuto, sapevo che ci sarebbe stato scritto

qualcosa di commuovente e mi spaventava di affrontare un sentimento

che mi avrebbe sicuramente portato alla lacrime.

Lo aprii con circospezione,seppur temendo la mia reazione iniziai a

leggere:

“ Corri, non fermarti mai.

Hai tutta la vita.

Sorridi sempre e non mollare mai.

E se hai paura ti porto fuori io.”

Giuseppe

Non riuscii a dire nulla, ma mi sciolsi in un abbraccio.

Una delle cosa che ho sperimentato nel lungo periodo trascorso

all’Aquila è che le parole a volte non servono, trasmette molto di più il

contatto, un abbraccio, perché oltre alle parole quello che conta è esserci,

anche fisicamente.

Mi diedero molto da pensare quelle parole.

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Fino a quel momento, per me, era estraneo il pensiero che ci si potesse

volere così bene anche conoscendosi così poco, o che una persona fosse

pronta a sacrificarsi ad esserci nonostante tutto.

Tornai in camera un po' diversa, è difficile spiegare a parole come ci si

sente quando si sperimenta tanta bontà, è come se una lucina ti si

accendesse dentro e tutto sembra meno buio, meno brutto, ci si sente

meno soli.

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10 Settembre – L’uscita

Mi svegliai quel sabato mattina consapevole che quello sarebbe

stato l’ultimo giorno all’ospedale.

Mi stavo preparando da giorni, salutando tutti quelli che sapevo non ci

sarebbero stati quel giorno, ma dentro di me non ero certa di essere

pronta.

Mia madre mi portò il cornetto come tutte le mattine, lo mangiai sul letto

come sempre, mentre lei raccoglieva le nostre cose, pronta a lasciare

quella che era stata la mia casa per 20 lunghi giorni.

Non capivo come fosse possibile che avessi aspettato così tanto quel

momento e poi una volta arrivata mi venisse voglia di restare.

Insieme a mio padre iniziarono a portare giù buste e valigie, mentre io, in

camera, dicevo addio a quel mondo che tanto mi aveva protetto e tanto

mi aveva dato, ma era tempo di tornare alla mia vita.

Sapevo che una volta tornata a casa avrei dovuto affrontare tante realtà,

che immutate erano rimaste lì ad aspettare pazienti, ma non sapevo che

sarebbe stata così dura.

Percorremmo la via di casa e fermati davanti al cancello iniziai a

scrutare intorno a me.

Un posto che prima sentivo come il mio rifugio, ora lo percepivo come

la casa di un’altra persona.

Era come se stessi vivendo la vita di un’altra persona, qualcosa si era

rotto e tutto ciò che prima sentivo appartenermi, non mi suscitava la

minima emozione.

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Entrammo.

Aprii lo sportello della macchina e chiamai il cane, che anche se

inizialmente sulle sue, entrò in macchina a farmi le feste sedendosi sopra

di me, come a proteggermi.

Il difficile venne in seguito, quando dovetti entrare.

Infatti, scoprii ben presto che le scale ed il deambulatore non vanno

particolarmente d’accordo.

Con l’aiuto di mio padre e mio fratello, riuscii a fatica a salire le scale e

mi sedetti su di un divanetto all’ingresso.

Mi guardavo intorno, non perché non ricordassi come fosse casa mia, ma

perché tutto era diverso, io ero diversa e già si percepiva la grande

assenza.

Per quanto cercai di rimandare, venne anche il momento di salire in

camera.

Aprii le porte dell’ascensore ed uscii.

Mi fermai davanti a quella porta aperta senza riuscire né a dire né a fare

nulla.

Non avevo il coraggio di entrare avrei solo voluto chiudere tutto,

sigillare quella camera per fermare il tempo a quando c’era lei.

Mia madre mi invitò ad entrare e dopo qualche resistenza, raccolsi gli

ultimi granelli di coraggio che mi erano rimasti ed entrai.

Non passò molto, che sulla soglia della porta iniziai a piangere, ma non

erano semplici lacrime, ma un pianto addolorato, disperato.

Aprii il suo armadio odorai i suoi vestiti, cercando un modo per sentirla

un po' più vicina, ma il dolore era tanto da non riuscire quasi a stare in

piedi.

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Mia madre, anche lei piangendo, cercava di sorreggermi, ma provavo un

dolore talmente grande, talmente profondo, che in quel momento persi

interesse per tutto, in quel momento pensai di abbandonare tutto, anche e

me stessa.

Ripensandoci oggi, quasi mi pento di aver mostrato tanto dolore difronte

a mia madre, che aveva perso sua madre e temuto di aver perso anche i

suoi figli.

Molte volte, ho sottovalutato il dolore che possano aver provato le

persone fuori, impotenti di fronte alla catastrofe.

Il dolore di una madre che pensa di aver perso due dei suoi figli, che si

ritrova sola.

Forse un dolore del genere è più forte di quello provato da coloro che

sono rimasti personalmente coinvolti.

I giorni trascorrevano ed io mi crogiolavo sempre di più nel mio

dolore, non trovando una via d’uscita.

Continuavo a fare quello che facevo in ospedale, mentre la vita mi

scivolava tra le dita come sabbia.

Un pomeriggio mentre ero sul letto ad ascoltare la musica, come facevo

ormai tutti i giorni, mia madre entrò in camera dicendo: “ Silvia...senti

chi c’è al telefono.”

Odiavo rispondere al telefono quando non sapevo chi fosse, così un po'

infastidita afferrai il cellulare di mia madre e risposi.

Dall’altra parte sentii una voce stranamente familiare che mi disse:

“Ciao Silvia...sono Claudio.”

Non potevo crederci, era lui.

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Dopo tanto avevo perso ogni speranza di ritrovarlo, pensavo che tra le

tante persone che aveva salvato si fosse dimenticato di me ed invece era

riuscito a trovarmi, era riuscito a trovarmi per la seconda volta.

Chiacchierammo un po' di quello che era successo, entrambi

visibilmente imbarazzati ed emozionati e poi ci salutammo.

In quel momento non avrei mai immaginato il rapporto che si sarebbe

creato e neppure che saremmo mai arrivati a vederci, ma percepivo quel

senso di benessere e di tranquillità che la sua voce mi ha sempre dato, fin

dal primo momento.

Sentirlo mi aveva riempito il cuore.

Mi disse spesso che gli avrebbe fatto piacere incontrarmi ed io non

vedevo l’ora.

Ci mettemmo d’accordo per incontrarci all’Aquila, il giorno in cui avrei

dovuto fare la lastra.

Quella mattina ero molto agitata, arrivai in ospedale in ritardo e la fila

per la lastra sembrava infinita.

Alle dieci e trenta, come d’ accordo, Claudio arrivò in ospedale ed io

mandai mia madre a cercarlo, mentre io continuavo a fare la fila.

Dopo un po' di tempo, che a me sembrò infinito, si aprì la porta e fece

capolino mia madre.

La prima cosa che le domandai era dove fosse Claudio e se fosse riuscita

a trovarlo, lei mi disse che era li fuori che mi aspettava.

Non so spiegare il motivo, ma mi sentivo agitata, mi alzaia fatica,

afferrai le stampelle e mi diressi verso la porta, il cuore mi batteva forte,

mi affacciai e lo vidi lì, ad aspettarmi, con la moglie e il figlio.

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Sorrisi e lo salutai mentre mi avvicinavo, trascinandomi sulle stampelle,

quando poi mi ritrovai davanti a lui gli buttai le braccia al collo.

Mi liberai dalle stampelle e lo abbracciai, un abbraccio lungo e sentito,

che fece commuovere tutti coloro che si trovavano accanto a noi.

Ricordo perfettamente quel momento, il senso di sicurezza che provavo

nello stringermi tra le sue braccia.

Mi guardava come si guardano i bambini dopo che si sono fatti male, mi

scrutava quasi ad assicurarsi che stesse tutto a posto.

Chiacchierammo a lungo con gli altri di tutto quello che era successo, ma

io avevo bisogno di risposte, risposte a domande che non potevano

essere fatte davanti agli altri, così ci lasciarono soli per qualche minuto.

Giorni prima, in una delle numerose visite a Giuseppe, si iniziò a parlare

della condizione di mia nonna e soprattutto della mia ferma convinzione

di averci parlato, cosa del tutto impossibile a detta dei miei soccorritori.

Ma io avevo bisogno di chiarimenti, avevo bisogno di risposte da

quell’unica persone che non mi ha mai lasciato, e questa era finalmente

la mia occasione.

“Parlando con Giuseppe, mia ha detto che non è possibile che io abbia

sentito mia nonna” esordii senza troppi giri di parole “eppure io l’ho

sentita...sono diventata pazza?”

“Silvia, io con te sarò sincero perché ti voglio bene come fossi mia

moglie...io non penso che tu abbia sentito tua nonna quella notte” rispose

lui con la calma che lo contraddistingue “da come l’abbiamo trovata

quando siamo arrivati, penso sia morta sul colpo, forse hai sentito la

voce di qualcun altro...”.

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“Ma la voce era la sua sono sicura...mi ripeteva di avere qualcosa sulla

testa, ma io non sapevo cosa fare, ho provato a chiamare aiuto ma

nessuno mi sentiva...e poi ha gridato” dissi scoppiando in lacrime “un

grido che ancora mi perseguita..”

“L’unica soluzione allora è che il cuscino l’abbia protetta, quindi tenuta

in vita per un po', ma la trave era grande, non ci sarebbe stato comunque

nulla da fare...” rispose Claudio, cercando di trovare tutte le soluzioni

plausibili.

Ormai sconvolta dal pianto e dai sensi di colpa, decisi di porre fine ad

una conversazione che mi avrebbe solo fatta stare peggio. Ma in quel

momento mi ricordai di avere qualcosa per lui. Frugai nella tasca

posteriore dei jeans, ne afferrai il contenuto e poi glielo misi nella mano,

chiudendogli il pugno.

Mi guardò e poi aprì la mano scorgendo il braccialetto.

Iniziai a spiegargli che quello non era un braccialetto qualunque, ma un

braccialetto d’oro con una piastrina con inciso sopra il mio nome, che mi

era stato regalato il giorno del mio battesimo ed aveva una storia molto

particolare.

Anche il braccialetto, proprio come me, aveva lottato per arrivare sano e

salvo fino a quel giorno, affrontando le avversità che si presentano nella

vita di un piccolo oggetto nelle mani di una bambina non esattamente

calmissima.

Qualche giorno prima della partenza era stato ritrovato da mia nonna,

che aveva deciso di farlo allargare perché ormai era troppo stretto per il

mio polso e la mattina del 23 me lo aveva ridato allacciandolo

personalmente al mio polso.

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Sopravvissuto alle lunghe ore sotto le macerie mi era stato tolto in

ospedale e da quel momento non ebbi più il coraggio di rimetterlo al

polso.

Ma, aveva un significato ancora più importante per me, lo stesso che mi

portò a regalarlo a Claudio. Infatti, indossavo il braccialetto alla mano

sinistra la stessa che Claudio strinse quella notte, o meglio quella

mattina, fino alla mia liberazione.

“Ma sei sicura?” mi disse dopo avergli spiegato il motivo “puoi sempre

venire a riprendertelo.”

“Si sono sicura, voglio che lo tenga tu...così ti ricorderai di me”.

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24 Gennaio – 3.36

Entro nel bagno della camera di mia nonna, la trovò lì seduta

accanto al lavandino, iniziamo a parlare e mi chiede perché l’ho lasciata

lì sotto.

“Ero ancora viva...ti chiamavo e tu hai pensato solo a te stessa. Perché

mi ignoravi. Perché non mi rispondevi! Ho sofferto tantissimo e pregavo

solo che arrivasse la morte. Sono stata lì sotto viva per giorni.”

Alle sue parole inizio a piangere, a cercare di spiegarle che io non

l’avevo sentita, ma ad ogni mia parola mi accusava di averla lasciata lì

da sola, di aver pensato solo alla mia vita.

Tra un singhiozzo e l’altro tutto ricomincia a tremare.

Mi sveglio di soprassalto, il viso ricoperto di sudore e mi rendo conto

che era stato solo un sogno.

Appoggio la testa sul cuscino e cerco di calmarmi, facendo appello a

quel briciolo di razionalità rimasto in me, ma nonostante tutti i

ragionamenti solo una parola riecheggia nella mia mente: “assassina”.

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Capitolo 5 – Le Interviste ai soccorritori

Queste sono le testimonianze di persone comuni, che in quella notte

si sono ritrovate a fronteggiare l’inferno, a dimostrazione di come

l’incuria dell’uomo posso collassare di fronte ad un evento sismico al

quale non si era preparati, ma come, allo stesso modo l’essere umano sia

in grado di compiere i più coraggiosi e nobili gesti.

Ma la prima di esse, sottolinea anche il paradosso, infatti come si potrà

evincere nel corso dell’intervista al Vigili del Fuoco, questo corpo non

prevede alcun tipo di supporto psicologico, a mio parere essenziale,

soprattutto dopo aver affrontato una tragedia simile.

Claudio, Vigile del Fuoco di Rieti ( A cui è dedicata la tesi)

D: Fai parte del corpo nazionale dei Vigli del Fuoco, quali sono state le

motivazioni che ti hanno portato a scegliere un lavoro così particolare e

pericoloso?

R: Sono vigile del fuoco da nove anni, anche se ho effettuato dieci anni

da discontinuo ed un anno da militare prima di entrare.

Ho questa passione fin da quando sono piccolo, probabilmente come

tanti bambini, che ancora oggi quando usciamo con il camion

sorridono, ci salutano, sbracciano per farsi vedere, ed a volte gli

accendiamo anche la sirena. In seguito, ho avuto la fortuna di fare il

militare, e da quel momento è iniziata una vera e propria passione per

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questo lavoro, che secondo me è il lavoro più bello del mondo. Sono

riuscito a coronare il mio sogno nel 2008, quando vincendo il concorso

sono entrato a far parte ufficialmente dei vigili del fuoco.

D: Come vi preparano a gestire le emergenze?

R: Una volta vinto il concorso, si effettua un corso di 6 mesi a

Capannelle, dove ci informano sulle attrezzature, la gestione di alcuni

eventi particolari e in generali su molti altri argomenti, perché fare il

vigile del fuoco significa passare da un incendio ad un’alluvione, da

un’alluvione ad un terremoto. Si lavora a 360 gradi, perfino andare a

prendere un gattino su un albero, recuperiamo serpenti…

Proteggiamo gli animali, le persone, i beni. Quindi attraverso questo

corso, le istituzioni tendono a darci il maggior numero di notizie. In

seguito le altre conoscenze le acquisisci sul campo, lavorando. Per noi

l’inizio del lavoro costituisce un disagio, perché noi del centro sud

veniamo mandati al nord e poi piano piano ci riavviciniamo a casa, ma

è importante, perché ti permette di fare esperienze diverse.

D: Dove sei stato mandato?

R: Ho trascorso un anno ed otto mesi a Vicenza, un anno e tre mesi a

Siena, per poi rientrare a Rieti.

D: Ricevete una preparazione di tipo psicologico?

R: Questo è un grande deficit del corpo nazionale, perché facciamo una

settimana, neanche completa, di corso e poi viene abbandonato.

Qualunque tipo di intervento più o meno tragico, non viene

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accompagnato da un supporto psicologico. Anche se per l’evento del

terremoto, in caserma si diceva che avrebbero fatto una convenzione con

uno psicologo per chi aveva bisogno, ma alla fine non si è fatto più

nulla. Quindi non esiste nei vigili del fuoco una cosa del genere.

D: Quando ci si trova davanti a delle persone, come ad esempio nel caso

del terremoto di Amatrice, esiste una differenza tra ciò che è teoria e ciò

che è pratica? Qual è?

R: Noi abbiamo quelle che vengono chiamati POS, cioè le procedure

operative di sicurezza e ad ogni intervento corrisponde una POS, che

nella realtà sono quasi impraticabili, poiché l’evento non può essere

deciso a tavolino, nel momento in cui arrivi non sai mai quello che trovi.

Quando parti sai di andare per un incidente, però non sai se ci sono

persone coinvolte, non sai la macchina con cosa è alimentata, i fattori

sono molti e questo porta al fatto che la teoria non corrisponde quasi

mai alla pratica. Anche in eventi quali il terremoto, la formazione si fa

sul campo, con colleghi che già hanno vissuto esperienze simili, in

particolare colleghi più anziani, riescono a trasmetterti insegnamenti

importanti, come spero di fare io un domani con persone con meno anni

di servizio di me, grazie anche all’esperienza che ho fatto qui ad

Amatrice.

D: Come vengono gestite emergenze quali panico e dolore delle persone

alle quali prestate soccorso?

R: E’ molto difficile gestire panico e dolore, perché il panico di una

persone si può gestire solo parlandoci, cercando di tranquillizzarla in

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tutti i modi possibili, soprattutto quando costituisci l’unica speranza per

questa persona. Alla fine anche se la persona è presa dal panico, dal

nervosismo, si riesce a tranquillizzarla perché sei la sua unica salvezza.

Nel caso di Silvia, lei mi ha dato la mano e non me l’ha più lasciata. In

quel caso tenerle la mano è stato un modo per rassicurarla. Per quanto

riguarda il dolore è un po' differente. Nel nostro lavoro ci troviamo in

molte situazioni in cui c’è dolore, sia della persona coinvolta, sia dei

familiari. Quello è più difficile da affrontare. In quel caso, l’unica cosa

giusta secondo me, è saper ascoltare e stare vicino per ciò che ci

compete, perché dopo noi usciamo di scena...il dolore è particolare.

D: Io sono stata salvata da te, ed è stato naturale per me cercarti per

ringraziarti, tuttavia la ricerca è stata molto difficile. Cosa ti ha spinto a

questa ricerca? E Perché?

R: Io ho provato a cercarti tramite delle conoscenze che avevo nell’Aves

118 che smistava tutti i feriti del terremoto, ma non sono riuscito a

trovarti perché avevo possibilità solo nella regione Lazio ed invece tu eri

in Abruzzo.

Io ho cercato solo te, perché eravamo io e te da soli, non c’erano altre

persone, non avevo nessun collega, ma solo un civile che ad un certo

punto mi ha dato una mano, però ho trascorso solo con te la maggior

parte del tempo. Invece in altri casi, ero accompagnato da altri colleghi,

altri civili e quindi non ho sentito questa necessità di cercarli. Io ho

condiviso la mia esperienza più grande con te perché eravamo soli,

questa è la verità. Eravamo soli in una situazione di pericolo, per te

soprattutto. Io al mio pericolo non ci penso mai, sono fatto così. Per me

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l’importante era uscire con te, perché non ti avrei mai lasciato e quindi

ci tenevo a trovarti, a salutarti, a sapere come stavi...a rassicurarmi,

mettermi l’anima in pace, avere la certezza che stavi bene.

D: Che cosa hai provato nel rivedermi dopo tanto tempo?

R: Beh...è stato un mix di emozioni. Un mix di emozioni perché in quel

momento realizzi di aver salvato una vita...di aver fatto una cosa che

dovevi fare, hai la consapevolezza di essere riuscito a farlo. E lei ti è

riconoscente solo con uno sguardo, perché quando mi ha guardato mi

ha ripagato di tutto quello che ho provato in quel momento. Non si

piange non perché si è cinici, perché io sono una persona che si

emoziona, però riesci a gestirlo, perché un lavoro come il mio ti

permette di gestire anche queste situazioni. Ma il cuore mi è andato a

duemila.

D: Non vi danno linee guida su come gestire queste cose, se sia meglio

oppure no rivedere una persona?

R: No non abbiamo linee guida su questo. Ognuno fa quello che crede

essere meglio. Io l’ho voluto fare. Ho provato a cercarti e sono stata la

persona più felice del mondo quando tu mi hai cercato. l’ho voluto fare

perché passare un’ora li sotto con te...io non ho pensato mai alla mia

famiglia in quel momento, ma ho pensato solo ad uscire fuori, uscirne

nel miglior modo possibile e a come aiutarti a farti uscire dall’albergo

nel miglior modo possibile, cercando di non farti altri danni. In quel

momento la mia unica paura era provocarti altri danni, cosa che non

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avrei mai voluto, quindi preferisco metterci dieci minuti in più ma non

creare altri danni.

D:Nei giorni seguenti, come hai gestito la cosa dal punto di vista

psicologico?

R: I giorni dopo? Ne ho parlato molto a casa con mia moglie, perché

anche lei ha vissuto l’emergenza, lavorando al 118. Ne abbiamo parlato

anche con i colleghi, confrontandoci sulle varie esperienze, perché

Amatrice aveva tante frazioni. Io l’ho gestita così e poi da solo. Io penso

che da soli si possano risolvere il 90% dei problemi, o meglio dei

pensieri inerenti a questi cose.

D: Quanto è importante la squadra per voi?

R: La squadra per noi è tutto. Noi siamo composti da un capo squadra e

da quattro vigili e per noi il capo squadra è un punto di

riferimento...sempre. E sapere di avere con te quattro colleghi che

farebbero qualunque cosa per sostenerti ed aiutarti è fondamentale. So

che se succede qualcosa a me c’è qualcuno pronto a venirmi a prendere.

Possiamo avere idee discordanti però non andiamo mai in contrasto, le

uniamo sempre. Anche se c’è un capo squadra che decide, pur essendo il

capo non si impone mai con noi, ma ci ascolta. E per noi questo è

importante. La squadra per noi è tutto.

D: Ci sono altre cose che ti senti di aggiungere?

R: Vorrei dire che la sera del terremoto questo è stato un nostro limite,

perché arrivare in cinque ad Amatrice e trovare una situazione più

grande di quella che pensavamo ci ha portato a dividerci e la squadra a

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quel punto l’hai persa. Ci siamo divisi e abbiamo cercato di aiutare più

persone possibili...ed io mi sono incontrato con te...spero di averti

aiutata. Ci tenevo a dire che è stato un grande problema trovarsi soli,

ma ha costituito un’esperienza importante, soprattutto per chi fa

soccorso, o chi fa emergenza, perché ti trovi nella condizione di dover

imparare in fretta. Cosa che forse non capiterà mai più nella mia

carriera, impari a gestire in fretta tutte le cose di cui abbiamo parlato,

panico...paure, perché anche noi abbiamo paura...ma lo facciamo. In

quel momento ti isoli. Miri un obiettivo e lo vai a prendere. Almeno io

sono così.

“Mi avresti aiutato anche se ti fossi limitato a tenermi la mano fino alla

morte, mi è stato di grande aiuto. Sapere di non essere più da sola era già

tanto.” aggiungo io con lo sguardo pieno di gratitudine ed ammirazione.

“No ti avrei portato via prima... Poi hai sentito la mia voce chiamarti.

Non è stato facile trovarti, ma una volta trovata non ti lascio più, io la

penso così, potevo impiegarci anche dieci ore...non ti lascio più.”

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Giuseppe, Soccorso Alpino, L’Aquila

D:Fai parte del soccorso alpino, quali sono state le motivazioni che ti

hanno portato a fare il volontario?

R: Anni fa sono stato soccorso a mia volta da dei volontari. Mi ero perso

in montagna, ed ho visto che da una semplice passeggiata poteva

scaturire persino la morte. Ho visto queste persone come degli eroi,

forse a causa dei miei vent’anni, volevo sentirmi anche io come questi

eroi. Negli anni ho fatto parte di diverse associazioni, ma sempre per

quanto riguarda il soccorso in montagna. Ho fatto parte della Croce

Rossa, altri enti quali UTS, cioè le unità tecniche di soccorso e poi nel

1997 sono entrato a far parte del soccorso alpino.

D: Come vi preparano a gestire le emergenze?

R: C’è sicuramente molta teoria, ma ci preparano, anche, attraverso

delle simulazioni, che a mio parere coprono circa il 70% delle situazioni

che possono venire a crearsi. Durante le simulazioni si ricreano

situazioni di pericolo in cui le persone si possono trovare, ovviamente

sempre relativi alla montagna e ad eventi come lo è stato ad esempio

quello di Amatrice.

D: Ricevete una preparazione di tipo psicologico?

R: Si. Ci chiedono se abbiamo subito dei traumi, in quanto chi ha subito

dei traumi può rivedersi nel soccorso che sta facendo e quindi rischiare

di entrare nel panico, ma ovviamente questo non esclude l’entrata nei

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vari enti di soccorso alpino. Controllano la nostra emotività, ed anche

chi è troppo esaltato, che al contrario rischia di non entrare nel

soccorso, perché a livello psicologico le cose importanti sono la calma e

la prudenza, perché la fretta e l’incoscienza sono elementi che da

soccorritore ti trasformano in soccorso.

D: Come hai gestito la cosa nei giorni successivi?

R: I primi 10 giorni sono stati neutri. Sapevo benissimo quello che era

successo e ciò che avevo fatto, però dentro di me ancora non me ne

rendevo conto. Successivamente ho chiesto aiuto ad una mi amica

psicologa e ad un supporto psicologico, facoltativo che ci era stato

offerto quali membri del soccorso. Ogni evento ovviamente ti segna e

deve essere superato, se non si supera non si può continuare ad essere

soccorritori.

D: Quando ci si trova davanti a delle persone, come ad esempio nel caso

del terremoto di Amatrice, esiste una differenza tra ciò che è teoria e ciò

che è pratica? Qual è?

R: Come ti stavo dicendo si possono fare moltissime simulazioni, ma

raramente casi del genere si ritrovano nella realtà. In una simulazione,

anche se si cerca comunque di fare il massimo, si ha la consapevolezza

che pur commettendo un errore nessuno rischia la vita, mentre nella

realtà si non si può sbagliare, si deve andare a colpo sicuro, perché ogni

azione potrebbe portare alla perdita di una vita. Nella mia esperienza ho

notato che quando soccorri qualcuno puoi vedere la paura nei suoi

occhi, perché si può simulare tutto tranne la paura. E la paura stessa

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può far fare alle persone soccorse dei gesti inconsulti. Mentre un

bagnino per far calmare una persona che sta affogando può dargli uno

schiaffo, noi non possiamo farlo. Più si tiene vigile la persona soccorsa

e meglio è, così da capire le reali condizioni della persona.

D: Nel corso del soccorso, hai un trasporto emotivo oppure si tende a

rimanere distaccati?

R: Quello è soggettivo. Per quanto riguarda me, nel’80% dei casi sono

rimasto abbastanza neutro ed in certi casi si sottovalutano anche i

pericoli che noi stessi potremmo correre. Ma riusciamo a tenerci

abbastanza distaccati. Nel mio caso, anche di fronte alla morte, sono

riuscito a rimanere esterno, tranne nel caso dei bambini, che rientrano

in quel 20% che ti prende emotivamente.

D:Come gestite emergenze quali il panico ed il dolore delle persone alle

quali prestate soccorso?

R: Penso che gestire il panico sia la cosa più difficile che esista. Ciò che

proviamo a fare è calmare le persone, se questo non avviene le portiamo

via in un luogo sicuro, dove interverranno medici e persone predisposte

che riescono sia a tranquillizzare che a capire quali traumi abbia

effettivamente riportato la persona, perché a volte il panico fa sembrare

le cose più gravi di ciò che sono realmente. Già vedendoci in parte si

tranquillizzano, perché ci considerano degli eroi. Poi allontanarle dal

luogo del dramma le rassicura.

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D: Cosa ti ha spinto a cercare le persone che avevi soccorso quel giorno?

R: Un po' è stato il caso. Però vedere quelle persone che ora

camminano, giocano, sorridono, vivono in piccola parte è anche grazie

a me. E nonostante le varie teorie, io pensi che un soccorritore possa

avere un ottimo rapporto con il soccorso.

D: Cosa hai provato nel rivederle?

R: Felicità. Penso che la felicità e la gioia costituissero il 99%, mentre

nel’1% subentra quella soddisfazione personale di aver fatto a livello

tecnico un ottimo lavoro, però gioia e felicità superano tutto.

La telecamera si spegne. Giuseppe tira un sospiro di sollievo.

Restiamo ancora un po' a parlare in macchina di quello che è successo,

dei giorni dopo il sisma e delle tante difficoltà che quel territorio e quella

popolazione hanno dovuto affrontare.

“Il giorno in cui ho sentito della caduta dell’elicottero non potevo

crederci” affermo io, ricordando lo sconforto di quel giorno, “poi quando

ho visto le foto dei medici e degli infermieri presenti...beh scorrendo le

foto ho avuto un tuffo al cuore. Tra tutti un viso mi era molto familiare,

fin troppo. E quando capii che il dottore a cui avevo stretto la mano quel

24 Agosto, il dottore che vedendomi non riusciva a trattenere le lacrime

era proprio lui e quello era proprio l’elicottero che aveva portato me in

ospedale...in quel momento mi sono sentita colpita anche io...”.

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Mi racconta di aver conosciuto tutto l’equipaggio ed una frase mi è

rimarrà sempre impressa:” Li ho proprio ceduto...”.

“in quel momento hai avuto il crollo?” chiedo io.

“Si...in quel momento mi sono detto...questo è troppo me ne vado..”

“Dopo il terremoto la terra sembrava non fermarsi” continua a raccontare

sgomento “poi c’è stato il problema delle valanghe. Eravamo diventati

come una grande famiglia, sempre pronti a partire. A gennaio si è

aggiunto il problema della nebbia, l’elicottero si è alzato ed è riuscito ad

arrivare sulle piste e soccorrere questa persona che si era fratturato tibia

e perone. In quel caso l’elicotterista non ha fermato il motore come,

invece imporrebbe la procedura. Nel ritornare la nebbia e la neve l’hanno

tradito ed si è schiantato contro una montagna, dove per altro ci eravamo

allenati tante volte. Quando siamo arrivati quel giorno...purtroppo

quando un elicottero cade da quell’altezza si sa che non ci si può salvare,

ma ti rimane quel minimo di speranza. Ho parcheggiato la macchina,

percorrendo gli ultimi 600 metri a piedi e vengo piano piano a sapere di

tutte le persone che c’erano. Ho saputo per primo di Bucci, il medico e

poi di Peppe Serpetti che mi avevano fatto il corso per diventare

soccorritore e poi di Davide, un membro del soccorso alpino. Di Davide

la moglie diceva che non poteva essere morto, perché non avrebbe mai

lasciato la figlia...eppure con tre secondi di impatto non c’è più nessuno.

Questo è stato pesante, non perché su quell’elicottero potevo esserci io”

continua Giuseppe con lo sguardo pieno di dolore “ma perché si poteva

benissimo evitare. A volte l’elicottero si usa anche in modo spropositato.

Poteva arrivare tranquillamente un’ambulanza, che in caso di nebbia può

rallentare, può fermarsi...l’elicottero purtroppo no. Di quell’elicottero

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rimane solo una coda, con le pale mosse dal vento e mi ha dato

l’impressione di un uccello ferito che cercava di battere le ali per tornare

a volare. quell’elicottero si chiamava Juliet Tango...e quella è stata

l’unica volta in cui non è tornato in base…”

Quell’elicottero si chiamava Juliet Tango...quell’elicottero era il

mio elicottero.

“Quello che facciamo per noi stessi muore con noi,

quello che facciamo per gli altri e per il mondo

rimane ed è immortale”

(Albert Pine)

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Capitolo 4

I terremoti si possono prevedere?

Argomento spinoso, ha suscitato molti dibattiti in particolare a

seguito delle affermazioni di Giampaolo Gioacchino Giuliani, ex tecnico

dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario, che in occasione del

terremoto che colpì l’Aquila il 6 Aprile del 2009, asseriva l’esistenza di

una previsione circa il verificarsi dell’evento sismico e che in occasione

degli ultimi eventi è tornato a far sentire la sua voce.

Ma andiamo ad analizzare i due fronti contrapposti.

Fronte del Sì.

Se si intende sapere se è possibile sapere anno, mese ed ora del

prossimo terremoto, mi dispiace dire che la risposta è no. Se si intende

invece una previsione approssimativa, che mostra intervalli di tempo, di

spazio e di magnitudo entro i quali si può verificare un evento sismico, la

risposta sembrerà strana, ma è si. I terremoti, in tal senso, si possono

prevedere e sono gli esperti ad affermarlo, ovviamente non con

precisione. Infatti, non si può prevedere quando si verificherà, ma si sa

per certo dove. Sappiamo per certo che un forte terremoto colpirà la città

di Messina, di Reggio Calabria, Ragusa, Sulmona e Avezzano, tutte aree

densamente popolate. Oltre ai fenomeni cosiddetti precursori, è anche

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possibile attraverso l' individuazione delle aree sismogenetiche, lo studio

della loro sismicità storica e recente, dell'assetto tettonico e geologico,

definire la pericolosità sismica del territorio in base alla quale adottare

adeguate misure di prevenzione che possano ridurre gli effetti dei

terremoti.

Rappresentate e fermo sostenitore del si è sicuramente Giampaolo

Giuliani, secondo cui la prevenzione dei terremoti, non dovrebbe

limitarsi alla costruzione di strutture antisismiche, in quanto possono

essere previste con un ragionevole anticipo, monitorando le emissioni di

radon1 nelle rocce dei territori a rischio. E’ doveroso specificare che il

legame tra emissioni di radon e terremoti ha una base scientifica

concreta. Questo gas, prodotto dal decadimento dell’uranio, è infatti

presente in quantità variabili nel sottosuolo, intrappolato nelle rocce. La

compressione e le microfratture che avvengono nello strato roccioso

durante le ore che precedono un terremoto possono quindi fornire al gas

una via per raggiungere l’atmosfera, determinando un aumento dei livelli

di radon registrati nell’area. Gli studi di Giuliani e del suo gruppo,

iniziarono nel 2000 dopo un terremoto in Turchia (1999), realizzando un

rivelatore di sua invenzione, attraverso cui tra il 29 ed il 30 Ottobre del

2000 registrò valori particolarmente alti ed anomali, allertando

l’assessore abruzzese alla Protezione Civile di un imminente sisma.

Tuttavia non fu in grado di dare delle indicazioni precise, in quanto il

rilevatore poteva dare informazioni solo entro il suo raggio di azione. Il

31 Ottobre un terremoto di magnitudo 5.4 colpì il Molise.

1 Il radon (Rn) è un gas inerte e radioattivo di origine naturale. È un prodotto del decadimento nucleare del radio all’interno della catena di decadimento dell’uranio. Il radon è inodore, incoloree insapore, quindi non è percepibile dai nostri sensi.

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Dopo anni di studi e test, Giuliani riesce a realizzare un sistema di

monitoraggio completo, in grado, a suo dire, di prevedere i terremoti. Il

suo è un sistema di rilevatori-analizzatori di radon, le cui informazioni

vengono analizzata nella sala sismica, in grado di percepire l’energia che

si addensa su una faglia, prevedendo con un buon margine di

approssimazione l’epicentro dell’evento sismico e la sua intensità. Nel

maggio del 2006, sostenendo l'importanza del "sistema", era stata fatta

esplicita richiesta di finanziamento per l'espansione e il potenziamento

della rete di rilevamento per la previsione dei terremoti al direttore della

Protezione Civile Italiana Guido Bertolaso, senza esito positivo.

Giampaolo Giuliani ed alcuni collaboratori si ritrovano così a lavorare

nella loro sala sismica allestita nei sotterranei della scuola elementare

"De Amicis", a San Bernardino, per la raccolta dei dati dei suoi rivelatori

di radon, gli MP4 ed MP2, fin dall'agosto del 2008..

Da molto tempo, si studia la possibile correlazione tra radon ed eventi

sismici, aprendo così la strada alla possibilità di prevedere i terremoti. In

California venne sperimentato negli anni 70, per poi essere dismesso per

scarsa affidabilità. Anche in Italia, prima di Giuliani, vennero condotti

alcuni studi scientifici sulle radiazioni naturali presso i Laboratori

Nazionali del Gran Sasso, da parte dell’Istituto di Fisica Nucleare,

nell’ambito del progetto ERMES (Environmental Radioactivity

Monitoring for Earth Sciences). Tra i propositi della ricerca vi era quello

di analizzare le correlazioni tra le variazioni di emissioni di gas radon nel

sottosuolo ed il processo di deformazione entro le rocce. Dal marzo 1998

al giugno 1999 venne eseguito da alcuni ricercatori del Dipartimento di

Fisica dell'Università di Roma 3 un monitoraggio delle emissioni, che

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sembrò evidenziare una correlazione fra sismicità locale e variazioni nel

flusso del radon dal sottosuolo. In seguito vennero condotte ulteriori

ricerche, al fine di valutare possibili correlazioni fra radon e sismicità,

da ricercatori del Dipartimento di Fisica dell'Università di Bologna

assieme a ricercatori del gruppo ENI. Ricerca che continua ancora oggi

all'interno del laboratorio del Gran Sasso.

Fronte del No.

Attualmente non ci sono metodi riconosciuti dalla scienza in grado

di prevedere il tempo ed il luogo esatti in cui avverrà il prossimo

terremoto,

perché, come spiega Andrea Billi dell’Istituto di Geologia Ambientale e

Geoingegneria del Cnr, “i terremoti dipendono da leggi che non

conosciamo. Sappiamo dove avvengono, le zone interessate, ma i

processi che li determinano e che sono alla base dei fenomeni ancora li

ignoriamo.”

Per quanto molti siano i progressi fatti dalla scienza che studia i

terremoti, ad oggi ancora i sismologi non sono in grado di prevedere la

potenza e la pericolosità. Infatti, ogni giorno, sono molte le aree

interessate da sciami sismici a bassa magnitudo che però, non sfociano in

forti terremoti. Insomma, la potenza distruttiva di questi eventi geologici

non si può prevedere se non quando ormai è troppo tardi. Il motivo di

questa difficoltà è che gli scienziati non hanno ancora capito se esistano

segni precursori a base scientifica utili a comprendere la magnitudo,

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l'orario e l'epicentro esatto, di conseguenza non possono dirci se lo

sciame in atto sia da considerarsi potenzialmente pericoloso. Insomma,

visto che i terremoti non sono prevedibili, è necessario puntare sulla

prevenzione: ad esempio costruendo edifici adatti alla zona sismica e

informando la popolazione sulle cosa da fare in caso di evento sismico.

Capitolo 5

E’ possibile un adeguamento del patrimonio?

A seguito del terremoto che ha coinvolto il Centro Italia, radendo

letteralmente al suolo intere cittadine, la necessità della messa in

sicurezza del patrimonio edilizio italiano, è divenuto un argomento

sempre più preminente.

L’Italia, infatti, è caratterizzata da una notevole, e ben conosciuta,

attività sismica, ma anche dal patrimonio edilizio che noi tutti

conosciamo, che la pone a serio rischio.

Il Consiglio Nazionale Ingegneri, evidenzia che più di 21,5 milione di

persone abitino in aree esposte a rischio sismico, zone che vengono

indicate con un numero da 1 a 2, mentre altri 19 milioni risiedono nei

comuni classificati come zona 3, ovvero zona ad alto rischio sismico.

Ma siamo veramente preparati ad affrontare situazioni simili?

Penso che la risposta sia chiaramente no.

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Sebbene gli eventi sismici, in quanto eventi del tutto naturali, non siano

prevedibili, ne evitabili, si potrebbe attuare un piano di azione, almeno

per quanto riguarda il contenimento dei danni da essi provocati,

rendendo le strutture capaci di resistere per non provocare danni alle

persone.

Ma andando più nello specifico, cerchiamo di capire la procedura

amministrativa e normativa a cui si è vincolati per un adeguamento

sismico.

Per la progettazione o l’adeguamento sismico di un edificio si è vincolati

al DM 14 Gennaio 2008 (NTC08) che definisce i principi del progetto, la

sua esecuzione ed il collaudo e affronta, inoltre, il problema delle

costruzioni esistenti. Infatti il patrimonio italiano di rilevante importanza

storico-artistica costituisce spesso un vincolo, in quanto più difficilmente

adeguabile alle norme di sicurezza.

Solo gli edifici pre-esistenti con quello che viene definito un valore

strategico, sono vincolati a rispettare i livelli di sicurezza stabiliti

dall’ordinanza PCM 3274/2003.

Questa ordinanza, classica il territorio nazionale in quattro zone a diversa

pericolosità, in base all’intensità ed alla frequenza degli eventi sismici.

Sino al 2003 il territorio nazionale era classificato in tre categorie

sismiche a diversa severità. I Decreti Ministeriali emanati dal Ministero

dei Lavori Pubblici tra il 1981 ed il 1984 avevano classificato

complessivamente 2.965 comuni italiani su di un totale di 8.102, che

corrispondono al 45% della superficie del territorio nazionale, nel quale

risiede il 40% della popolazione.

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Nel 2003 sono stati emanati i criteri di nuova classificazione sismica del

territorio nazionale, basati sugli studi e le elaborazioni più recenti

relative alla pericolosità sismica del territorio, ossia sull’analisi della

probabilità che il territorio venga interessato in un certo intervallo di

tempo (generalmente 50 anni) da un evento che superi una determinata

soglia di intensità o magnitudo.

L’ordinanza del 2003, detta i principi generali sulla base dei quali le

Regioni hanno compilato un elenco dei comuni con la relativa

attribuzione ad una delle quattro zone di pericolosità.

Zona 1 - E’ la zona più pericolosa. Possono verificarsi

fortissimi terremotiZona 2 - In questa zona possono verificarsi forti terremotiZona 3 - In questa zona possono verificarsi forti terremoti

ma rariZona 4 - E’ la zona meno pericolosa. I terremoti sono rari

Attraverso il decreto, scompare il territorio non classificato, che

lascia spazio alla zona 4, in cui spetta alla Regione prescrivere l’obbligo

della progettazione antisismica. A ciascuna zona, inoltre, viene attribuito

un valore dell’azione sismica utile per la progettazione, espresso in

termini di accelerazione massima su roccia (zona 1=0.35 g, zona 2=0.25

g. zona 3=0.15 g, zona 4=0.05 g).

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Zona

sismica

Accelerazione

con probabilità

di superamento

pari al 10% in 50

anni (ag)1 ag >0.252 0.15 <ag≤ 0.253 0.05 <ag≤ 0.154 ag ≤ 0.05

Nella pratica, l’ordinanza definisce tre diversi tipi di intervento da

poter effettuare:

- Interventi di adeguamento, al fine di conseguire i livelli di sicurezza

previsti dal NTC;

- Interventi di miglioramento, che mirano ad aumentare la sicurezza

strutturale esistente, senza necessariamente raggiungere i livelli richiesti

dalle NTC;

- Riparazioni o interventi locali, che interessano elementi isolati o che

comunque comportino un miglioramento delle condizioni di sicurezza

preesistenti.

- Gli interventi antisismici

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Gli interventi mirati all’adeguamento sismico di un edificio variano

in base ad alcuni parametri come:

- tipo di costruzione (monopiano. pluripiano, ecc.)

- tipo di struttura portante

- fondazioni su cui si poggia l’edificio, cioè zona sismica in cui risiede

l’edificio e in generale in quale contesto è inserito.

Nonostante l’adeguamento debba essere effettuato da un tecnico

competente sulla base di indagini diagnostiche e prove in laboratorio, è

comunque possibile fornire delle informazioni su azioni basilari che

andrebbero effettuate su strutture già esistenti, come ad esempio il

consolidamento della muratura.

Ma quando effettivamente questi “accorgimenti” vengono attuati?

Molte delle abitazioni che hanno ceduto alla sferza del terremoto di

Amatrice erano abitazioni appena ristrutturate, addirittura costruite da

poco, in un territorio notoriamente sismico. Ma ciò che è ancora più

preoccupante e che forse non in molto sapranno è che l’Italia è un paese

all’avanguardia nella progettazione di misure antisismiche, che vengono

principalmente esportate all’estero.

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- Le misure antisismiche che l’Italia progetta ma esporta e non

usa

Si dice che nessuno sia profeta in patria. E questo detto non è mai

stato più attinente. Essendo stata io stessa coinvolta nel sisma sono

rimasta scioccata nello scoprire che il “sismic retrofit” ovvero

l’adeguamento sismico sviluppato da un team di ingegneri italiani

all’avanguardia a livello mondiale.

Il “sismic retrofit” è un complesso di tecniche per intervenire sui vecchi

edifici esistenti e renderli più sicuri, eppure solo in rarissimi casi viene

adottato nel nostro Paese. Per l’adeguamento degli edifici privati non ci

sono obblighi di legge, ma incentivi fiscali per i comuni appartenenti alle

zone 1 e 2, mentre per gli edifici strategici ci sarebbero degli obblighi,

ma spesso manca la volontà politica, per cui si fanno scelte differenti su

come spendere i soldi. In molti paesi colpiti dal terremoto del 24 Agosto,

ci sono stati crolli di ospedali, scuole, caserme, quasi nessuna struttura è

rimasta agibile. Questo dimostra che nonostante siano presenti dei

programmi di intervento, si aspetti sempre il peggio, prima di adeguare

le strutture.

Un esempio, è sicuramente Norcia, che dopo il terremoto del 1997 ha

subito degli adeguamenti che gli hanno permesso di superare il sisma

senza morti ne feriti.

In concreto, cosa si può fare per proteggere i vecchi edifici?

Questa domanda è stata posta al professor Paolo Bazzurro, docente della

facoltà di tecnica delle costruzioni allo Iuss di Pavia: “ Glia antichi

edifici in muratura, stanno in piedi con catene, tiranti, morsature agli

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angoli e tetti di legno. Poi le catene sono state tolte – spiega il docente –

magari per ragioni estetiche, le finestre sono state ingrandite, sono state

aggiunte porte, il tetto è stato rifatto in cemento armato che pesa di più.

Risultato: l’edificio è diventato vulnerabile”.

Parole profetiche nel caso di Amatrice, in cui interventi non adeguati

hanno costato la vita di intere famiglie, come ad esempio quella Giuditta.

La signora possedeva una delle case più belle nel centro di Amatrice,

ammirata da tutti e ristrutturata qualche tempo prima, ha ceduto

completamente sotto il peso di un tetto in cemento armato che superava

di gran lunga il peso dichiarato dai costruttori durante la ristrutturazione.

Quel tetto di 7 tonnellate si è portato via la vita di tutta la sua famiglia.

Eppure per migliorare la sicurezza può bastare veramente poco, dalle

semplici piastre per aggiungere vincoli tra pilastro e trave, alla posa di

tendini di acciaio, all’aggiunta di elementi di rinforzo come archi o

puntelli. Per gli edifici in cemento armato, si possono rendere più

resistenti le colonne attraverso l’utilizzo di quello che in gergo viene

chiamato “jacket”, un vero e proprio cappotto di calcestruzzo o materiali

compositi, oppure si può ricorrere all’isolamento di base, di cui si fa

utilizzo per gli edifici più importanti come gli ospedali.

Gli strumenti a nostra disposizione sono molti, da adottare a seconda

delle caratteristiche dell’edificio, ma il problema è anche il numero degli

edifici da trattare. “Ci vogliono tanti soldi – afferma il professor

Bazzurro – ma sono comunque meno di quelli che spendiamo per

ricostruire”.

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Dopo quasi 100 giorni dalla scossa del 24 Agosto, meno di 17.400

persone venivano assistite dal Servizio Nazionale della Protezione

Civile.

Il 30 Novembre 2016 la Dicomac 2 ha fatto il punto per quanto riguarda i

numeri dell’ assistenza alla popolazione e delle soluzioni abitative per le

emergenze, chiamate SAE. Il prototipo di casetta è stato realizzato dal

Cns, cioè il Consorzio Nazionale dei Servizi, che due anni fa si

aggiudicò la gara d’appalto indetta dal Dipartimento della Protezione

Civile. Le soluzioni abitative individuate dal Consorzio, prevedono

moduli in acciaio da 40, 60 e 80 metri quadri, combinabili tra loro, adatti

a qualsiasi condizione climatica. I Sae, sono inoltre predisposti per

essere rimossi e recuperati quando non più necessari. Questa soluzione,

corrisponde ad una sistemazione a medio periodo destinata alle persone

che ne hanno fatta espressa richiesta e che hanno la propria abitazione o

inagibile o posta nella zona rossa. La Regione Lazio ha attivato l’appalto

per 459 Sae da installare ad Amatrice in 27 aree e 181 ad Accumuli su 11

aree.

2 Centro di coordinamento nazionale delle Componenti e delle Strutture Operative di Protezione Civile

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Conclusioni

E’ sempre difficile riprendere le fila della propria vita, soprattutto

quando la vita non ti aspetta e tu, invece, avresti bisogno di un momento

di pausa.

Nel corso del tempo, ho capito che le persone attorno a me hanno due

modi di reagire, compatirti o trattarti come se non ti fosse mai successo

nulla.

Ma certo, far finta che nulla sia successo è veramente difficile e non ci si

riesce mai del tutto, ci si abitua solamente a convivere con quel senso di

vuoto, nel mio caso un senso di colpa che ci si trascina sempre dietro.

Ma, un’ esperienza di questo tipo dovrebbe lasciare qualcosa, una

consapevolezza nuove dei rischi che si possono correre nell’ignorare le

normative antisismiche in un territorio come quello italiano,

costantemente a rischio sismico. Con la dimostrazione che un patrimonio

artistico e culturale può essere mantenuto e protetto senza divenire un

pericolo per la popolazione. Il 24 Agosto, in un paesino come quello di

Amatrice ci sono stati 300 morti, più di quelli causati dal sisma

dell’Aquila. Ma quello che fa più male è l’incuria. Perché con pochi e

semplici gesti la vita di tante persone, strappate ai propri cari, costretti a

vivere un inferno, poteva essere risparmiata.

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“The most authentic thing about us is our capacity

to create, to overcome, to endure, to transform, to

love and to be greater than our suffering.”

(Ben Okri)

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I have to say that I’ve waited a lot before inducing myself to write

this thesis, because when the subject represents a part of your life, and in

particular a tough part of it, you never feel ready enough to do it.

Unfortunately this is not a fairy tale, but a part of life that no one should

live, and nevertheless this story have all the elements to be defined as a

big adventure.

They say that life make us face some challenges, and that none of them

is beyond our capacities.

For this reason, after all this pain, I decided that I would try to take the

best teachings from a tragedy that at the beginning took away everything

I had.

We grow up in a society that puts us in a constant competition with other

people, a society in which there is no place for an act of mercy, where

everything has a price.

They teach us that we don’t have to trust anybody, that we have to

defend ourselves, making the lack of sensibility almost a quality, but

there is no glory in ignoring the needs of others. If we look better, in fact,

we can see that there is yet a little bit of good.

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But we are getting away from the main theme of our journey, yes

because I’m calling you to live an adventure, discovering an unexpected

world.

As in any story worthy of its name, let us start from the beginning…

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Chapter 1

23 of August 2016 - Departure

It was the summer journey, the one that you wait all year long. The

journey in which you can forget your ordinary life, the journey in which

you can came back to the origins.

Amatrice was all of those things for me, that safe place where you can

run away from your life for a while.

I remember that I’ve had to convince my mother and my grandmother to

leave in a time that was unusual for us. In fact, we used to leave always

in the same period, on the first days of September for the death

anniversary of my grandmother’s sister, that was on the very day of her

birthday.

But this time was different. In fact, we had faced a lot of problems and

for this reason we decided to anticipate our departure.

That morning I woke up early, because as usual, I had to finish doing my

suitcase.

The sun of August was hot from the very first hours of the day.

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Still sleepy, I went to eat my breakfast and then I started looking for

clean clothes to take with me.

After preparing my suitcase, I decided to go and wear my makeup.

I found her in the bathroom, as every morning, in front of the mirror,

preparing herself for the day.

The wrinkles that adorned her face talked about a happy life, but talked

also about a lot of difficulties that she had been facing. Nevertheless,

after all these years, her beauty would not wither away.

In front of the mirror my grandmother was applying the cream on her

face, spreading in the bathroom that special smell… that scent of home.

This was my life, made of small gestures lived as a ritual, and those

small gestures are what I miss more.

I got in the bathroom smiling, happy for the imminent departure and I

started preparing myself. She was staring at me. She always stared at me

when I did my makeup. She liked to see how much love and attention I

paid. In that moments her glance transmitted me all the love of a person

who has loved you all your life.

We left with our usually delay. The new car, rented for that special

occasion, made the journey even more exciting. As usual I spent most of

the travel sleeping, lulled by the voices of my mother and my

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grandmother. I used to wake up always at the same point, at the

beginning of the main road, and was that moment when I felt that I was

finally back home.

I have always loved to go to Amatrice because for me it was a moment

of escape, but this time was more special than ever because we were

going to stay in hotel, and for me was the first time. In fact, we used to

stay in one of the two houses of my grandmother’s sister. A little cottage,

placed in a hamlet not so far from the center called San Cipriano.

Nevertheless that time, after a lot of discussions, we had decided to stay

in hotel.

“We can’t disturb every time” said my mother “and in hotel it will be

more relaxing”.

Arrived in the hotel, where my brother and his girlfriend were waiting

for us, we started the usual check of the rooms. Despite they had

promised to give us two rooms at the third floor, we found ourselves

with a double room at the first floor and a single at the second. I decided

immediately to take the room at the first floor, because I knew my

mother preferred the other one. We spent the afternoon walking around

and making projects for the next days.

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At dinner, we went to our favorite restaurant. During the dinner, my

grandmother told stories of her youth, that she spent in a little hamlet

near Amatrice.

There was a lot of history in that streets, a lot of our history. I used to

spend my holidays there as a child, like my brother and sister had done

before me. It was the safe place, the place where you escape when you’re

tired of the chaotic city life. After dinner my grandmother came back to

the room, instead we decided to walk around. In the evening of the 24

Amatrice was particularly crowded and there was the echo of the happy

voices. But I was sick, so we decided to go back to the hotel. When I

arrived to the hotel, I spent some time in the terrace. The view was

amazing. I looked up and I saw a huge quantity of stars, as never before.

When I went back to my room, I laid down and turned on the television,

but my dog was restless. She went back and forth, sitting in front of the

door, trying to go out. So, I wore my shoes, and picked up my jacket, and

we went out. Despite all this my dog didn’t calm down.

“Nana please...stop...come here” I told her. I thought that she played up

because she wanted to stay with us in the bed. I was so tired so I took her

and I put her near me in the bed and then I fell asleep. I woke up at 2

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A.M., I looked at the watch and despite I was thoughtful I fell asleep

again.

Chapter 2

3.37

I opened my eyes, awakened by the trembling of the earth. The only

thing I saw was the white plaster of the ceiling that was falling down. I

didn’t understand what was happening. I closed my eyes and I crouched

down trying to protect my head.

When I opened my eyes again it was all over. The ceiling of the room

had completely collapsed and it leaned on my part of the room, making a

sort of a hut. There were rubble everywhere and I was not able to

orientate.

It took some seconds before I understood what had happened, and I

needed some other time to realize that was happening to me.

The first thing that I did was make sure that my grandmother was all

right. At the beginning I saw only rubble on her body and this reassured

me. But I was stuck. The door of the wardrobe, which before was near

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the window, was stuck between my leg and the ceiling. My leg was

completely hidden under the debris. In that moment I was caught by a

strong nausea, a sickness never felt before. My throat was burning...I

was going to throw up. I tried to keep in control and understand how to

get out of that grave. I started to scream as loud as I could. Maybe

someone was out.

I continued to scream, a desperate scream, the scream of who don’t want

to give up.

Meanwhile I heard my grandmother’s voice, she was calling me, asking

for help.

She told that she had something on her head, I tried to reassure her and at

the same time I tried to understand what was wrong with her. I moved

the rubble that had fallen on her, but I didn’t understand what she was

talking about, until I saw a scene that still haunts me. A beam from the

ceiling had collapsed on her neck. I couldn’t see her head. I was in panic.

I continued asking for help, more and more worried about our situation,

until I heard distant voices. Someone was looking for survivors.

“Where are you?” screamed the voices.

“I’m here...the room number 112” I answered as loud as I could.

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I heard the voices closer and closer, they asked me if I could see the light

of their torch.

“Yes!” I screamed. I tried to guide them as I could, but when they arrived

in front of the door of my room I heard them say: “Here is all stuck...it’s

impossible to get in” and then i heard their footsteps away.

In that moment I realized I was dying down there.

They say that when you are going to die, you can see all your life in a

single moment. I’m sorry but this didn’t happen to me. But you start

thinking about all the things that you left behind, all the things that you

didn’t do and the things that you cannot do.

Life comes back to its real value, in those moments you understand what

really matters, the persons you love, the ones you don’t want to leave,

but not for selfishness, only because you don’t want to hurt them.

So I decided to calm me down and start thinking of how to escape. First

thing, I had to break the door of the wardrobe which was blocking my

leg, only that way I could try to slip through the big hole under my bed. I

didn’t know how long could the structure resist before collapsing

completely and I didn’t know how long my leg would resist. The first

part of my leg, the part that I had released, was increasingly bloated. I

had to hurry up. I started searching something that was hard enough in

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order to scratch the wood. I grabbed something, I don’t remember what

was exactly, so I started to hit the wood of the door as strong as i could,

but after a few hit the “stone” crumbled.

Time went by and with it also the hope of being found.

Why no one was looking for me? Nobody cares about me? These

thoughts started taking over me.

But I couldn’t give up.

INTERVIEW WITH CLAUDIO

Q: You are a firefighter. What reasons led you to choose such a

particular and dangerous job?

A: I have been a firefighter for nine years now. I also did ten years as a

volunteer fireman and one year in the military service before entering

the Corps. My passion started when I was child, probably like many

children, that still today when we go out with the red truck greet us,

trying to draw our attention, and sometimes we turn on the siren. Then,

my luck was that I joined the army, and since then a real passion for this

job started, the best job ever. My dream came true in 2008, when I won a

public competition and officially became a firefighter.

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Q: What kind of training do they give you to handle emergencies?

A: Once you win the competition, you attend a 6 months course at

Capannelle, where they train you on the equipment, on how to handle

particular situations and on many other subjects. Because being a

firefighter means to deal with a lot of different emergencies, from fire to

flood, from flood to earthquake. Being a firefighter means also to take a

kitty on a tree. We protect animals, people, goods. So through this

course, institutions try to give us as many notions as possible. Then with

experience you learn other skills. The first periods of our job are very

hard for us, because people from south Italy are sent to the north and

only afterwards you can come back, but this period allows you to do

different experiences.

Q: Where did you go?

A: I spent one year and eight months in Vicenza, then one year and three

months in Siena, and then I went back in Rieti.

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Q: Did you receive a psychological training?

A: This represent a big deficit in firefighters training. In fact we did only

a week of course. Every kind of emergency, more or less tragic, is not

integrated by a psychological support. On the occasion of the

earthquake of Amatrice, they said they would make an agreement with a

psychologist for people in need, but at the end they did nothing. That is

to say that there isn’t anything like this in firefighters.

Q: When in your emergency you deal with people, for example like

in the earthquake of Amatrice, there is a difference between theory

and reality?

A: We have a procedures called “POS” (security operating procedures).

For every emergency there is a POS, but in reality this procedures are

almost unworkable. In fact tragic events are not always the same. When

you leave for a car accident, you never know what you will find. You

don’t know if there are people involved, or the fuel of the car. There are

many factors and for this reason the theory doesn’t correspond often to

reality. Also in events like the earthquake, you learn the skills with

experience, and get help by colleagues that have already faced this kind

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of situations, that transmit you important teachings, as I hope to do in

future.

Q: How do you handle situations like people in panic or pain?

A: It is really difficult to handle panic and pain. You can handle panic,

trying to talk with the person, trying to calm him/her in every way. But at

the end the person calms down because in that moment you are the only

salvation. For example, Silvia held my hand and she didn’t leave it

anymore. In that case, holding her hand was a way to reassure her.

Pain is a little bit different. In our work we face a lot of situations in

which there is pain, not only in the person that is directly involved, but

also of the family. This is most difficult part to face. In that case, the only

thing that we can do is to listen and stay close to this person...pain is

particular.

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Q: You saved me. So for me it was natural looking for you in order

to thank you, even if the research was difficult. Why did you look for

me?

A: I looked for you through a person that I know in the AVES 118, that

sort all the injured from the earthquake, but I didn’t find you because

you were in Abruzzo.

I looked only for you because we were alone. There weren’t other

people. There wasn’t a colleague with me, I spent all the time with

you...alone. Instead in other cases I was with other colleagues, other

people and for this reason I didn’t have the need to meet them. I shared

my most important experience with you, because we were alone, that’s

the truth. We were alone in a situation of danger, in particular for you. I

never think about my danger, I am like this. For me the most important

thing was to go out with you, because I would never leave you and for

this reason I wanted to see you again, I wanted to know how you were. I

wanted to be sure that you were all right.

Q: What did you feel when you met me after all that time?

A: Well...a lot of different emotions, because in that moment you realize

that you saved a life...you are aware of what you did. And she is just

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grateful with a look. Because when she looked at me she rewarded me

for everything I had felt in that moment. I didn’t cried not because I’m

cynical, because I’m not, but you are able to handle it, because my job

permits you to manage also this situations.

Q: Did you receive guidelines on how to manage this things? Is it

better or worse to meet a person that you saved?

A: We don’t have guide lines on this matter. Each person do what he/she

thinks is better. I wanted to do it. I looked for you, and when you looked

for me I was the happiest person in the world. I wanted to do it because

to spend an hour down there with you...I never thought of my family, I

only thought of how to go out with you without causing other damages.

In that moment my only fear was to cause other damages.

Q: Psychologically, how did you handle this event in the days after?

A: I talked a lot with my wife, because she works in the emergencies too.

I talked also with colleagues, sharing our experiences, because Amatrice

included many villages. I handle it in this way, and also alone. Because I

think that alone a person can solve 90% of the problems.

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Q: How much important is the team in the firefighters?

The team is everything for us. The team is composed of a team leader

and four firefighters and for us the leader is a point of reference. And to

know that with you there are other four colleagues that will do

everything for support and help you is fundamental. I know that if

something happens to me there is someone that will help me. We can

have different opinions but we never get in a dispute, we always find a

common solution. Even if it is the team leader who take decisions, he

never imposes his ideas. And this is really important for us. The team is

everything for us.

Q: There is something that you want to say?

A: I want to say that this was a limit the day of the earthquake. Because

when we arrived in Amatrice we were only five and we found a situation

that was worse than we had thought, so we were forced to divide the

team and try to help as many people as possible... and I met you. It’s

really important for me to say this thing because to be alone is a big

problem for us, and in that moments you have to learn fast. You learn

how to handle panic and fears, because we have fears too...but we do all

the necessary. You aim at something and you go straight to get your

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objective. It was difficult to find you, but when I found you I never let

you go...I could spend ten hours there...but I never let you.

INTERVIEW WITH GIUSEPPE

Q: You are a member of the Alpine Rescue Corps. Why did you

become a volunteer?

A: Years ago I was rescued by volunteers. I was lost in the mountains,

and I realized that a walk could became a dangerous situation and also

lead to death. I considered these people as heroes – maybe because I

was in my twenties and I also wanted to feel like a hero. I took part in a

lot of associations, always regarding mountain rescue. I was a member

of the Red Cross, and also of other bodies such as UTS (technical rescue

units) and then in 1997 I became a member of the Alpine Rescue.

Q: What kind of training do they give you to handle emergencies?

A: There is a lot of theory, but they prepare us also through simulations,

that in my opinion cover the 70% of the possible situations. During this

simulations, situations of danger are recreated, obviously in the

mountains.

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Q: Do they give you a psychological training?

A: Yes. They ask if we had traumatic experiences, because in that case

there is the risk of panic. They also check our emotionality, and also if

we are too fanatical; in that case you cannot enter in alpine rescue,

because at psychological level the most important thing is the ability to

keep calm and prudent. In fact hurry and recklessness can transform you

from rescuer to rescue.

Q: Psychologically, how did you handle this event in the days after?

A: The first ten days were neutral. I knew what I had done and what had

happened, but deep inside I still didn’t realize. Afterward I asked for

help to a psychologist and also to a psychological support offered to the

members of the rescue. Obviously each event needs to be overcome, if

you don’t overcome it you can’t continue to be a volunteer.

Q: When in your emergency you deal with people, for example like

in the earthquake of Amatrice, there is a difference between theory

and reality?

A: You can simulate thousand of situations, but they rarely correspond to

reality. During a simulation, even if you do your best, you know that a

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mistake is not so dangerous and no one risks to die. Instead in reality

you can’t make mistakes, because each action could lead to the death of

a person. In my experience, I’ve noticed that you can see the fear in the

eyes of the person, because you can simulate everything, but not fear.

Q: When you rescue someone do you maintain yourself neutral?

A: This is a personal thing. In the 80% of cases I have managed to be

neutral sometimes also underestimating my risk. I have kept calm also in

front of death, except regarding children, that are part of that 20%.

Q: How do you handle situations like people in panic and pain?

A: I think that to handle panic is the most difficult thing. We try to calm

down the persons and we lead them to a safe place, where doctors and

other people intervene to calm the person. Usually already when they

see us they calm down, because they consider us heroes.

Q: Why did you look for the people you saved that day?

A: Because if this people walk, play, smile and live in part is also thanks

to me. And no matter what the different theories say, I think that a

rescuer can have a great relation with the rescue.

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Q: How you did you feel when you met them?

A: I was happy. Happiness and joy made the 99%, and the 1% is

personal satisfaction. The satisfaction of doing a great job. But

happiness and joy overcame all the other emotions.

I turn off the camera. Giuseppe pulls a sigh of relief. We remain a

little bit more in the car, talking about the difficulties of the days after the

earthquake.

“When I heard of the helicopter crash I couldn’t believe it”, I said. “Then

when I saw the photos of the doctors and nurses that where there...well it

was terrible. Among them I saw a face that was so familiar, and in that

moment I understood that he was the doctor who had held my hand. The

doctor who cried seeing me. It was him. It was my helicopter.”

He told me that he knew all the team and then he said a phrase that I will

remember for all my life:” In that moment I gave up”.

“After the earthquake the ground did not seem to stop”, he continues to

say. “Then there was the problem of avalanches. We became a big

family, always ready to leave. In January there was also the problem of

fog. The helicopter arrived on the tracks in order to rescue a person who

had many fractures. In that case the pilot didn’t turn off the engine as in

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the procedures. When they came back the fog and snow betrayed him

and it crashed against the mountain. When we arrived that day...well

when a helicopter fall from that height you cannot save, but you still

have that hope. I parked the car and I walked for the last 600 meters and

slowly I came to know of all the people that were in there. At first I knew

of the death of Bucci, and then of Peppe Serpetti, that hold the course

that I attended to became a rescuer. At the end I knew of Davide, a

member of the Alpine Rescue. Davide’s wife told that he couldn’t die

because he would never leave his daughter, but in three seconds of

impact everything was done.

This event was terrible for me, not because I could be in that helicopter”

Giuseppe continues “but because it can be avoided. Sometimes the

helicopter is used in an improper way. An ambulance would do, because

in case of fog it can stop. Of that helicopter only the tail remains. The

blades of the tail moved by the wind gave me the impression of a

wounded bird that tries to come back to fly. The helicopter was named

Juliet Tango...and that was the first time that it didn’t not come back to

the base...”

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That helicopter was named Juliet Tango...that was my helicopter.

“What we do for ourselves dies with us.

What we do for others and the world remains

and is immortal”

(Albert Pine)

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“Lo más auténtico de nosotros es nuestra capacidad de crear, de

superar, de soportar, de transformar, de amar y de ser más grandes que

nuestro sufrimiento.”

(Ben Okri)

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Éstas son las entrevistas de mis rescatadores, para celebrar el gran

trabajo que hacen estas personas todos los días.

Capítulo 1

Entrevista con Claudio

P: ¿Usted es parte del cuerpo de bomberos, porquè elegiste un

trabajo tan particular y perligroso?

R: Soy un bombero hace nueve años, aunque hice diez años como

discontinuo y un año como militar, ante de entrar en el cuerpo de lo

bomberos.

Tengo esta pasiòn desde que ero pequeño, probablemente como todos

los niños, que aun hoy cuando vamos con el camion sonrien y saludan y

algunas veces encendemos la sirena. Despues tuve la suerte de hacer el

militar y en ese momento empezò una pasion por este trabajo, que por

mi es el mejor trabajo del mundo. En el 2008 he ganado un concurso

que me permitio de entrar en el cuerpo de los bomberos.

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P: ¿Como prepararse para enfrentar situaciones de emergencia?

R: Despued haber ganado el concurso, tienes que efectuar un curso de 6

meses en Capannelle, donde nos enforman sobre los equipamiento, la

gestion de algunos eventos particulares y en general sobre muchos

argumentos, porque ser un bombadero significa enfrentar inundaciones,

sismos. Significa trabajar en todas las condiciones y tambien recuperar

un gatito da un arbol.

Nosotros protegimos animales, personas y bienes materiales.

En este curso, las istituciones dan el major numero de informaciones.

Por nosotros el empiezo del trabajo es muy dificil, porque los del sur

centro empiezan a trabajar en el norte. Pero es muy importante porque

esto te permite de hacer experiencias diferentes.

P: ¿Donde te han mandado?

R: Pasè un año y ocho meses en Vicenza, un año y tres meses en Siena y

despues volviò en Rieti.

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P: ¿Tienes una preparaciòn te tipo psicologico?

R: Esta es una grande carencia del cuerpo nacional, porquè hacemos

una semana de curso que despues se abandona. Cualquier tipologia de

emergencia, mas or meno tragica, no se acompaña de un suporte de tipo

psicòlogico. Aunque para el sismo se dijiò que harian una convenciòn

con un psicòlogo, por los que tenevan esta necessidad. Pero no existe

suporte de tipo psicologico en el cuerpo de los bomberos.

P: ¿Cuando usted se encuentra delante de la gente, como por

ejemplo en el sismo de Amatrice, hay diferencias entre la teoria y la

practica?

R: Nosotros tenemos los que se llaman POS, que son la procedimientos

de operaciòn de seguridad que corresponde a cada emergencia, pero en

realidad estos procedimientos son impracticables, porque la emergencia

no es organizada. En el momento en que se llega no sabes lo que se

puede encontrar. Cuando se sale para un accidente no se sabe si hay

personas feridas, no se sabe el tipo de combustible del movil, son

muchos los factores y por esto la teoria no corresponde casi nunca a la

practica. Tambien en el caso del sismo, la formciòn se hace durante el

trabajo, junto a colegas de mas experiencias que te trasmiten

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importantes enseñanzas, yo espero de hacer tambien con colegas con

menor experiecia gracias a la experiencia de Amatrice.

P: ¿Como se manejan emergencias como panico y dolor de los que

soccorrer?

R: Es muy dificil manejar panico y dolor, porque el panico de las

personans de puede gestir solo hablando, tratando de tranquilizar la

persona en todoas las maneras posibles, sobretodo cuado tu es la unica

esperancia por esta persona. En el caso de Silvia, ella tomò mi mano y

no dejò mas. Tomar la mano de Silvia fue una manera para

tranquilizarla.

En cambio el dolor es diferente. En nuestro trabajo tenemos que

enfrentar muchas situationes en que hay dolor, tanto de la persona

involucrada que de la familia. Es dificil manejar el dolor. En este casos,

la unica cosa que se puede hacer es escuchar, y estar cerca de las

personas...el dolor es particular.

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P: ¿Yo he sido salvada por ti, y por esto era natural buscarte y

decirte gracias, pero la busqueda no fue facil. Porque me has

buscado?

R: He intentado de buscarte a traves del 118 que ordenaba los heridos

del sismo, pero no te encontrè porque tenebo posibilidad solo en Lazio, y

tu estabas en Abruzzo. Yo busquè solo te, porquè estabamos simplemente

yo e ti, no tenia colega. Solo un civil me ayudò en algun momento, pero

he pasado con ti la mayor parte del tiempo. En otros casos fui

acompañado por otros colegas, otros civiles y por esto no he sentido la

necessidad de buscarlos. Compartì mi experiencia mas grande con

usted, porquè estabamos solos, esta es la verdad. Estabamos solos en

una situacion de peligro sobretodo por ti. Nunca pienso en mi peligro,

yo estoy tan. Para mi era importante salir con tigo, porque no te habria

dejado y entonces yo queria verte, salutarte y saber como estabas...estar

seguro que estabas bien.

P: ¿Que sintiò en verme de nuevo despues tan tiempo?

R: Muchas emociones. En aquel momento se da cuenta de que ha

salvado una vida...hice algo que tenià que hacer, y tiene el conocimiento

de ser capaz de hacerlo. Y ella es agradecida solo con una mirada,

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porque cuando me miraba he pagado por todo lo que he intentado. No

llorè no porque soy cinico, pero mi trabajo te permite gesti este

emociones. El corazon me iba a dos mil.

P: ¿No le dan directivas sobre este tema, si es mejor o no veer las

personas que he salvado?

R: No, no tenemos directivas sobr este tema. Cada uno hace lo que cree

es mejor. Yohe querido hacerlo. He intentado de buscarte y yo ero la

persona mas feliz del mundo cuando me haya buscado. Yo queria

hacerlo, porque pasar una hora de alli con tigo...nunca pense de mi

familia en ese momento. He pensado solo de salir y como hacerlo de

mejor manera posible, sin conseguir otros daños. En ese momento mi

unico miedo era causarte otros daños, lo que no queria, por eso prefiero

pasar diez minutos mas pero no conseguir otros daños.

P: ¿Los siguientes dias, como he manejado tu experiencia a nivel

psicologico?

R: Los siguientes dias? Hablè mucho en casa con mi esposa, porque ella

tambien viviò la emergencia, tranbajando en el 118. tambien hemos

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hablado con los colegas, comparando nuestras experiencias.yo he

manejado asì y tambien por solo. Yo creo por solo se pueden resolver el

90% de los problemas, o mas bien de lo pensamientos.

P: ¿Cuanto es importante el equipo para usted?

R: El equipo es todo para usted. Consistimos de un jefe de equipo y de

cuatro bomberos y por nosotros el jefe es un punto de

referencia...siempre. Y saber que contigo hay otros cuatros colegas que

haria cualquier cosa para suportarte y ayudarte es fondamental. Yo se

que si me pasa algo hay alguien dispuesto a recogerme. Podemos tener

ideas diferentes pero nunca vamos en contra. Aunque si hay un jefe de

equipo que toma las decisiones, ello nunca nos imponen sus ideas, ello

siempre eschuca nosotros. Y por nosotros esto es muy importante. El

equipo es todo.

P: ¿Hay algo mas que te gustaria añadir?

R: Si, quiero decir que la noche del sismo este fue nuestro limite, porque

llegar a Amatrice y buscar una situacion mas grave de lo que

pensabamos nos llevo a dividirnos y hemos perdido el equipo. Nos

dividimos para ayudar mas personas posibles...y yo te he conocido...y

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espero de haberte ayudado. Queria decir que estar por solo fue un

grande problema, pero he estada una experiencia muy importante,

porque tienes que aprender rapidamente. Aprende a manejar

rapidamente panico...y miedo, porque tambien nosotros tenemos miedo,

pero hacemos el necessario. Apunta un objectivo y ve a buscarlo. No fue

facil encontrarte, pero una vez encontrada no te dejo mas.

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Capítulo 2

Entervista con Giuseppe

P: ¿Tu es parte del rescate de montaña, porque decidio de ser

voluntario?

R: Hace años fui rescatados por voluntarios. Estaba perdido en las

montañas y y me di cuenta de que incluso un simple paseo puede llevar

a la muerte. Vi a estas personas como heroes y, debido a mi veinte años,

queria sentirme como un heroe. Lo largo de los años he sido miembro de

diversas asociasiones, siempre que se refieren al rescato de montaña. He

sido miembro de la cruz roja, y otras asociasiones como el UTS, unidad

tecnicas de rescate y despues en el 1997 entrò en el rescate de montaña.

P: ¿Como prepararse para enfrentar situaciones de emergencia?

R: Hay muchas teaorias, pero nos preparamos aunque a traves de

simulaciones , que por mi representan el 70% de los casos posibles. En

este simulaciones se crean situaciones de peligro.

P: ¿Tienes una preparaciòn te tipo psicologico?

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R: Si. nos pregunatn si hemos experimentado un trauma, porque los que

han experimentado traumas pueden entrar en panico durante el rescate.

Esto no escluye la entratada en el rescate. Controlan nuestras

emociones y tambien quien es demasiado exaltado. Esto excluye la

entrada en el rescate porque a nivel psycologico es muy importante la

capacidad de mantener la calma y la prudencia. Porque prisa e

imprudencia te convertiràn de rescatador a rescate.

P: ¿Los siguientes dias, como he manejado tu experiencia a nivel

psicologico?

R: Los primeros diez dias fueron neutrales. Yo sabia lo habia pasado y

lo que habia hecho, todavia dentro de mi non me daba cuenta. Despues

pedi ayudo de uno psycologo. Cada evento debe ser superado, y si usted

no puede no se puede continuar a ser rescatadores.

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P: ¿Cuando usted se encuentra delante de la gente, como por

ejemplo en el sismo de Amatrice, hay diferencias entre la teoria y la

practica?

R: Se pueden ser muchas simulaciones, pero raramente corresponden a

las situaciones reales. En una simulacion se pueden aun cometir errores

porque nadie ariesga su vida , mientras en la realidad no se pueden

cometir errores.

Cuando soccorre alguien se puede ver el miedo en sus ojos, porque se

puede simular todo excepto el miedo.

P: ¿Como se manejan emergencias como panico y dolor de los que

soccorrer?

R: Creo que manejar el panico es la cosas mas dificil. Lo que tendremos

de hacer es calmar la persona, y llevarla a un lugar seguro.

Generalmnte ya cuando ven a nosotros se calman, porque nos

consideran heroes.

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P: ¿Porque has buscado los que soccoriò?

R: Algunos por accidiente. Pero ver estas personas que caminan, juegan

y viven aun gracias a mi. Y nonobstante las teorias, yo creo que un

rescatador puede tener una relacion con el rescate.

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La camara se apaga. Giuseppe saca un suspiro de alivio.

Nos quedamos un poco mas de tiempo en el coche hablando de lo que

han pasado despues del sismo, y de las dificultades que la poblacion ha

enfrentado.

“el dia en que oi el accidente del elicoptero no podia creer” digo,

recordando aquel dia “ y cuado he visto las fotografia de los medicos y

de los enfermeros...vi un rostro familiar, y me di cuenta de que el medico

que habia dado la manoel 24 de Agosto, el medico que me vie y que no

podria tratener las lagrimas era el, y aquel era el helicóptero que me

llevó al hospital.”

me dice que el conocia todo el equipo.

“Despues del sismo la tierra parecia no parar” recuenta Giuseppe “ y

luego estaba el problema de avalanchas. Llegamos a ser una gran

familia, siempre listos. En Enero empezò aun el problema de la niebla, el

elicoptero llegò en las pistas. el helicóptero no se apaga el motor, como

exige el procedimiento. Devolviendo le nieve y la niebla lo han

traicionado y chocó contra la montaña. cuando un helicóptero cae desde

esa altura sabe che no se puede sobrevivir, pero deja un poquito de

esperanza.

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Sabia antes de Bucci, el medico y despues de Peppe Serpetti que habian

hecho el curso para rescatadores y despues de Davide, un miembro del

rescate de montaña. La esposa de Davide decia que el no podia ser

muerto porque nunca dejaria a su hija...pero con tres segundos no hay

mas nadie.

Esto me parecio y no porque yo podria estar sobre aquel elicoptero,

porque podria ser evitable. Se podria utilizar una ambulancia que en caso

de nieble se puede parar. Del elicoptero permanece solo la coda, con las

cuchillas movidas por el viento. El elicoptero se llamaba Juliet Tango…

y esa fue la única vez que no regresó a la base...”

El elicoptero se llamaba Juliet Tango...era el mio elicoptero.

“Lo que hacemos por nosotros mismos muere con nosotros,

lo que hacemos por lo demas, y por el mundo permanece

y es immortal”

(Albert Paine)

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Ringraziamenti

Un grazie alla Professoressa Adriana Bisirri, per la pazienza e

la disponibilità e per l’aiuto dato nella realizzazione di questa tesi,

al Prof. Alfredo Rocca, per aver creduto in me, e alla Professoressa

Luciana Banegas.

Grazie a Giuseppe, che nelle lunghe giornate trascorse in ospedale è

sempre venuto a trovarmi per strapparmi un sorriso, che non

pensavo più di avere.

Una grazie speciale a mia madre, per avermi supportato e

sopportato in questo percorso di studi, grazie per essere stata la

spalla su cui piangere, il sorriso da condividere, perché senza di lei

tutto questo non sarebbe stato possibile.

Grazie a mio padre, a mio fratello e a mia sorella, per avermi aiutato

a rialzarmi quando cadevo, trascinandomi se necessario, grazie per

avermi dato la forza per continuare quando pensavo di non poterne

più.

Questa tesi è anche vostra, perché senza di voi non sarei nulla.

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- Cicchiello Pierpaolo, 2010, La messa in Sicurezza e l’adeguamento

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- “Terremoto Centro Italia” dal sito della Protezione Civile:

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- “Terremoto Italia centrale: gli interventi nelle aree colpite” dal sito

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http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_new.wp?

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- “Normativa Antisismica” sito della Protezione Civile:

http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/leg_rischio_sismico.wp

- “Antisismica, lo stato dell’arte delle norme per la sicurezza degli

edifici” dal sito Edilportale:

http://www.edilportale.com/news/2016/08/focus/antisismica-lo-stato-

dell-arte-delle-norme-per-la-sicurezza-degli-edifici_53512_67.html

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