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105 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X L’aporia dello Stato in Fichte. L’egemonia della politica sull’economia come reazione all’epoca della compiuta peccaminosità. di Diego Fusaro “Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia non può entrare nulla di statico, immobile e morto. In essa tutto è azione, movimento e vita; essa non trova nulla, ma fa sorgere tutto sotto i propri occhi: e ciò al punto che io rifiuto interamente il nome di filosofia a quel commercio con morti concetti”. (J.G. Fichte, Lettera privata del gennaio 1800) 1. Premessa. Verso una storia critica delle idee. In prima approssimazione, il compito di una “storia critica delle idee” può essere delineato su due fronti, che solo astrattamente e in funzione espositiva possono essere distinti, perché nella pratica concreta della disciplina costituiscono una unità inscindibile. Per un verso, essa è chiamata a soffermare la sua attenzione, diacronicamente, sulle faglie e sulle discontinuità che si generano nella trasmissione delle forme culturali e simboliche e che vanno immancabilmente a scuotere la continuità narrativa inerziale di una data cultura, intessuta di schemi identitari e di tetragone permanenze. Per un altro verso, la “storia critica delle idee” deve occuparsi del nesso inscindibile che viene a instaurarsi in ogni momento storico, lungo l’asse della sincronia, tra il pensiero e i codici culturali, da una parte, e le condizioni materiali della produzione e del potere, dall’altra, mostrandone la fitta rete di coimplicazione e assumendo come proprio privilegiato oggetto d’analisi la “zona di scambio” tra idee e realtà, tra costellazioni concettuali e costellazioni socio- politiche. Si potrebbe anche dire, da un certo punto di vista, che la “storia critica delle idee” si regge sul tentativo di coniugare Foucault e Marx, facendo interagire il programma di ricerca del primo – con la sua attenzione per le discontinuità storica e per

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L’aporia dello Stato in Fichte.

L’egemonia della politica sull’economia come reazione all’epoca della

compiuta peccaminosità.

di Diego Fusaro

“Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia non può entrare nulla di statico, immobile e morto. In essa tutto è azione, movimento e vita; essa non trova nulla, ma fa sorgere tutto sotto i propri occhi: e ciò al punto che io rifiuto interamente il nome di filosofia a quel commercio con morti concetti”.

(J.G. Fichte, Lettera privata del gennaio 1800)

1. Premessa. Verso una storia critica delle idee.

In prima approssimazione, il compito di una “storia critica delle idee” può essere delineato su due fronti, che solo astrattamente e in funzione espositiva possono essere distinti, perché nella pratica concreta della disciplina costituiscono una unità inscindibile. Per un verso, essa è chiamata a soffermare la sua attenzione, diacronicamente, sulle faglie e sulle discontinuità che si generano nella trasmissione delle forme culturali e simboliche e che vanno immancabilmente a scuotere la continuità narrativa inerziale di una data cultura, intessuta di schemi identitari e di tetragone permanenze. Per un altro verso, la “storia critica delle idee” deve occuparsi del nesso inscindibile che viene a instaurarsi in ogni momento storico, lungo l’asse della sincronia, tra il pensiero e i codici culturali, da una parte, e le condizioni materiali della produzione e del potere, dall’altra, mostrandone la fitta rete di coimplicazione e assumendo come proprio privilegiato oggetto d’analisi la “zona di scambio” tra idee e realtà, tra costellazioni concettuali e costellazioni socio-politiche. Si potrebbe anche dire, da un certo punto di vista, che la “storia critica delle idee” si regge sul tentativo di coniugare Foucault e Marx, facendo interagire il programma di ricerca del primo – con la sua attenzione per le discontinuità storica e per

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l’ordre du discours [1] – con la “concezione materialistica” [2] e con lo smascheramento delle formazioni ideologiche tematizzate dal secondo, epurate però dal riduzionismo che potenzialmente le caratterizza fin dal loro atto genetico e che storicamente le ha caratterizzate lungo gli snodi in cui sono venute articolandosi le “avventure della dialettica” del marxismo novecentesco.

Del resto, nella stessa figura concettuale posta in essere dalla “storia critica delle idee” vi è un fecondo rimando reciproco – foucaultiano e, insieme, marxiano [3] – tra la componente critica e quella storica centrato sul presupposto per cui, da un lato, la critica, per essere tale, deve assumere come costante riferimento il divenire storico come luogo delle rotture e delle faglie che ritmano il succedersi di quelle che Foucault chiamava le epistème e, dall’altro, la storia, per non essere surrettiziamente e ideologicamente intesa come immutabile sfondo di permanenza illimitata delle figure concettuali e dei codici culturali, deve instaurare un’alleanza strategica con la critica demistificante. Da una diversa angolatura, potremmo dire che la storia presenta una sua naturale vocazione critica, nella misura in cui disgrega la pretesa solidità delle forme di sapere che si pretendono valide sub specie aeternitatis, e la critica ha una sua inaggirabile propensione a rintracciare nel fluire della storia i punti di rottura e di metamorfosi tramite i quali smascherare (storicizzandoli) i giochi di potere e di dominio che vengono a instaurarsi entro la società di volta in volta presa in esame.

Esercitando la “storia critica delle idee” su quello snodo decisivo della storia occidentale in cui si assiste, pressoché in contemporanea, alla fine dell’ancien régime e alla genesi dell’idealismo tedesco, diventa possibile destrutturare le vecchie interpretazioni, spesso poco attente al nesso simbiotico tra piano delle idee e piano delle condizioni storiche effettive, e prospettarne di nuove. Ad esempio, da una prospettiva critica, si può mostrare come solo una “storiografia pigra” possa perseverare nell’intendere l’idealismo tedesco, nel suo insieme, come una mera “copertura” dissimulata della religione e non una filosofia universalistica dell’emancipazione umana inserita nella cornice della storia universale. Almeno in questo aspetto, è il caso di dirlo, si sono sempre rivelati ermeneuticamente più accorti gli “apparati di potere” e quelli “sacerdotali”, che espulsero dall’università Fichte per ateismo nel 1798 e non hanno mai smesso di considerare Hegel un pericoloso ateo in pectore. Dalla stessa angolatura critica e lungo la stessa traiettoria, si può sostenere che la “metafisica idealistica” di Fichte, Hegel e – come abbiamo argomentato altrove [4] – dello stesso Marx non significa di per sé, in chiave reazionaria, trionfo della trascendenza e “regno dei cieli”: esiste certo una simile metafisica (quella medievale, ad esempio), ma, da Fichte in poi, si dà anche una metafisica immanentistica per la quale lo spingersi oltre i fatti fisicamente percettibili significa, ipso facto, dirigersi dentro l’ordine vivente della realtà umana, conoscere la totalità che sfugge necessariamente alla “pseudo-concretezza” [5] dell’“intelletto astratto”. Da questa angolatura, la tanto deprecata “metafisica” si configura, allora, come la costruzione di una totalità dialetticamente organizzata, in cui la “verità” delle singole parti esiste solamente nell’espressione della loro interconnessione essenziale e “concreta”, nel loro “con-crescere” effettivo.

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Seguendo la trama delle interrelazioni tra le costellazioni del potere e della produzione e quelle del piano simbolico e dell’ordine del discorso, l’odierno dilagare del nichilismo relativistico in un mondo che si contrabbanda come “postmoderno” si configura non tanto come l’astratta scelta soggettiva di chi opta per la rinuncia agli Assoluti in nome del dialogo e della tolleranza, quanto piuttosto come la necessaria ricaduta ideologica della generalizzazione della forma di merce a tutti gli ambiti di vita. Per sua stessa natura, la merce non ha fondamento, ma ha solo circolazione illimitata, il cui motore non sono i bisogni umani (sempre limitati), bensì i desideri infiniti [6] e illimitati posti artificialmente in essere dall’odierno capitalismo “assoluto-totalitario” [7]. Sempre seguendo il tracciato della storia critica delle idee, questo nichilismo, sul piano delle strutturazioni simboliche e ideologiche, si manifesta essenzialmente in due modi: come critica del fondamento e come critica della totalità. La delegittimazione della metafisica nel senso prima ricordato ne è l’esito inaggirabile. Se il fondamento dell’odierna configurazione del mondo è la libera e illimitata circolazione delle merci e la totalità è un unico mercato globalizzato, non stupisce che il “totalitarismo” di questa Weltanschauung debba anzitutto impedire che vi sia la pretesa di sollevare il problema di un diverso fondamento e di una diversa totalità, promuovendo in ogni modo scetticismo, disincanto, relativismo, politeismo dei valori, elogio delle differenze rigorosamente all’interno della “gabbia d’acciaio” della produzione capitalistica. L’odierno “monothéisme du marché” [8] non accetta istanze esterne che lo giudichino, che pretendano di mostrarne le intime contraddizioni o che propongano altri fondamenti. Si tratta della prima società della storia umana in cui, come già rilevato da Karl Polanyi [9], l’economia non è più embedded nel tessuto complessivo della società, ma si è completamente autonomizzata diventando un Assoluto immanente. Di qui, ancora una volta, nel trionfo di questo nuovo “oppio del popolo” che è la “religione della merce”, l’imporsi del nichilismo relativistico (non ci sono più fondamenti e valori, quindi il solo valore-fondamento resta la merce) e, con esso, il dilagare di una forma di pensiero totalmente privo di dialettica, che impedisce anche solo di indicare e nominare le contraddizioni di cui è intessuta la realtà.

La “metafisica immanentistica” di Fichte, Hegel e Marx, con la sua pretesa di conoscere la totalità e di valutarla assiologicamente, non può trovare spazio in un simile scenario storico, che la liquida ininterrottamente come residuo teologico incompatibile con il “pensiero post-metafisico” [10] o come sapere assoluto e, per ciò stesso, autoritario [11]. Nella fattispecie, il problema dello Stato, in Fichte, può costituire un fecondo punto di analisi per diversi ordini di motivi: anzitutto, in coerenza con lo spirito della storia critica delle idee, per andare a “scuotere” le verità inerziali ostinatamente legate al nome di Fichte, mostrando il “nesso vivente” tra il suo pensiero e la realtà storica del suo tempo; in secondo luogo, per adombrare le rotture, le discontinuità e le permanenze interne al suo pensiero; infine, per tornare, arricchiti dalle riflessioni e dalle critiche svolte da Fichte su quel tema, a riflettere sul nostro tempo storico nel tentativo di “apprenderlo nei pensieri”, secondo l’ambizioso compito assegnato da Hegel alla filosofia [12].

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2. La Wissenschaftslehre come ontologia della Rivoluzione francese.

Vi è una consolidata e, almeno apparentemente, intramontabile tradizione che tende a leggere Fichte nei termini di un “metafisico puro”, attento soltanto alle questioni teoretiche e del tutto estraneo a quelle storiche, politiche e sociali. Quando non venga interpretato unilateralmente come un puro teoreta, il pensatore della Wissenschaftslehre viene surrettiziamente “sdoppiato” in due diverse e opposte figure: da un lato, il Fichte metafisico puro, e, dall’altro, il Fichte “storico”, che si occupa di questioni politiche e sociali a prescindere dal suo impianto metafisico [13]. Seguendo il programma della “storia critica delle idee”, è possibile capovolgere queste interpretazioni tradizionali e produrre un vero e proprio “riorientamento gestaltico”, mostrando come non solo il pensiero fichtiano sia animato da una proficua interazione tra dimensione storica e dimensione teoretica, ma come la stessa metafisica fichtiana venga strutturandosi a partire da un serrato confronto con le dinamiche della storia reale.

La maggior parte degli interpreti riconosce unanimemente nell’incontro con la kantiana Kritik der praktischen Vernunft la scintilla che accese in Fichte l’esigenza della filosofia, e più precisamente, come ha sottolineato Luigi Pareyson, “la necessità di riscrivere la prima Critica dal nuovo punto di vista della seconda” [14]. Più raramente è stata evidenziata l’importanza della Rivoluzione francese nella genesi del pensiero fichtiano. Che essa abbia svolto un ruolo non secondario, rispetto alla seconda Kritik, è suffragato dallo stesso Fichte, il quale, soprattutto nel saggio del 1793 Beitrag zur Berichtigung der Urtheile des Publicums über die französische Revolution [15], tematizza a più riprese quello che con diritto può essere considerato un topos della riflessione tedesca fino alla prima metà del XIX secolo [16]: la rivoluzione politica compiuta dai Francesi trova un suo corrispettivo, sul piano teorico, nella portata “rivoluzionaria” del pensiero kantiano. Lo scarso dinamismo politico del popolo tedesco, la sia atrofia della prassi, è, in questo modo, compensato dalla sua ipertrofia intellettuale: la rottura con il passato non avviene pertanto, in area tedesca, tramite un gesto pratico ma, ancora una volta, tramite una svolta teorica, avviata dalla riflessione kantiana. “Ich lebe in einer neuen Welt, seitdem ich die Kritik der praktischen Vernunft gelesen habe” [17], scrive con toni entusiastici Fichte tra l’agosto e il settembre del 1790. E, a proposito della Rivoluzione francese, tra l’aprile e il maggio del 1795, instaura un raffronto diretto tra le virtù liberatrici del proprio sistema e quelle dell’agire rivoluzionario del popolo francese: “mein System ist das erste System der Freiheit; wie jene Nation von der äußern Ketten den Meschen losreißt, reiss mein System ihn von den Fesseln der Dinge an sich, des äußern Einflusses los und stellt ihn in seinem Grundsatze als selbstaendiges Wesen hin” [18].

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La Rivoluzione francese, non meno della praktische Vernunft kantiana, ha modellato il pensiero fichtiano, spingendolo verso l’assunzione dei problemi interconnessi della libertà e della liberazione come fulcro del proprio filosofare. Non è qui importante, ai fini della nostra analisi, una ricostruzione complessiva del giudizio fichtiano della Rivoluzione anche negli scritti successivi. Su questo punto, ci paiono convincenti sia gli argomenti di chi, come Martial Guéroult [19], ha chiarito in che senso, dal punto di vista fichtiano, la rivoluzione venga sempre intesa come legittima, ma sia sempre più messa in dubbio la sua “saggezza” [20], sia quelli – solo apparentemente in contraddizione con questa posizione – di chi ha sostenuto che non vi è mai, in Fichte, un rinnegamento del proprio entusiasmo originario per l’evento rivoluzionario [21] Più interessante, invece, può risultare un’analisi di come Fichte, anche alla luce della Rivoluzione, o per lo meno trovando in essa feconde risorse simboliche, vada rideclinando il proprio rapporto con il criticismo kantiano, fino a prenderne le distanze con la tematizzazione della “dottrina della scienza” nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (1794). In ciò, come è noto, giocò un ruolo tutt’altro che trascurabile la critica scetticheggiante mossa a Kant da Schulze nel suo Aenesidemus (1792), in cui il pensatore di Königsberg era oggetto di una sferzante requisitoria per aver condotto, nella prima Kritik, un discorso metaempirico sulle possibilità della conoscenza (in contraddizione con gli stessi princìpi in essa fondati). È la lettura di Schulze a risvegliare Fichte dal “sonno dogmatico” del criticismo kantiano, permettendogli di mettere a fuoco il dogmatismo di cui esso, volens nolens, continua a sostanziarsi. Nella lettera del dicembre 1793 a Stephani scrive Fichte:

“Haben Sie den Aenesidemus gelesen? Er hat mich eine geraume Zeit verwirrt, Reinhold bei mir gestürzt, Kant mir verdächtig gemacht, und mein ganzes System von Grund aus umgestürzt. Unter freiem Himmel wohnen geht nich! Es halft also nichts; es musste wieder angebaut werden” [22].

Nella prospettiva fichtiana, Kant ha impostato correttamente il problema, cercando di mostrare l’oggettività a partire dalla (e sul fondamento della) soggettività: l’ha impostato bene e, al tempo stesso, l’ha frainteso, senza compiere del tutto la “rivoluzione copernicana” [23] annunciata fin dalla Vorrede del 1787 alla seconda edizione della prima Kritik [24]. Da questo punto di vista, Fichte aveva buon gioco a considerarsi come il “compitore” della rivoluzione avviata ma non completata dal pensatore di Königsberg. L’obiettivo teorico kantiano, ossia la fondazione dell’obiettività della conoscenza e della realtà dell’esperienza sul modello empirico-matematico newtoniano (con la conseguenza unione tematica del processo di soggettivazione e della problematica della costituzione della realtà), si regge appunto, se letto in trasparenza, sul tentativo di fondare l’oggettività sulla soggettività. Vi è già chiaramente, in questa fondazione, il motivo centrale del pensiero dialettico e dell’idealismo fichtiano: il

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momento soggettivo e quello oggettivo non sono solo reciprocamente contrapposti, ma sono vicendevolmente mediati, con la conseguenza decisiva per cui l’uno non si dà senza l’altro. Secondo i rilievi critici già svolti da Reinhold e soprattutto da Maimon e dal David Hume über den Glauben, oder Idealismus und Realismus (1787) di Jacobi, oltre che da Schulze, l’ambivalenza di Kant risiede interamente nel non aver portato fino alle estreme conseguenze il passaggio, mantenendo, con il Ding an sich, un ingiustificato residuo dogmatico. Da questa angolatura, Kant può essere inteso come un “Giano bifronte”, nella misura in cui è centrale in lui la critica dell’Idea, con la tematizzazione dell’impossibilità di conoscerla e con il conseguente prescrizione ad attenersi ai dati dell’esperienza (si tratta, da questo punto di vista, di un autentico “empirismo trascendentale”), e al tempo stesso sono già operative, nel suo pensiero, le linee essenziali dell’idealismo, in primis l’idea che il mondo oggettivo sia costruito dal soggetto.

Con un linguaggio ancora toto coelo kantiano, nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre Fichte tiene a battesimo una scienza della totalità centrata sul superamento del dogmatismo kantiano e, dunque, della distinzione tra categorie dell’essere e categorie del pensiero. La dialettica diventa per questa via lo scheletro che sorregge la carne e il sangue di una “scienza filosofica” centrata sull’unità di soggetto e oggetto, unità che è al tempo stesso metafora della fiducia nella trasformabilità radicale del mondo reale ad opera della prassi umana. Sta proprio qui l’intreccio, in Fichte, tra elaborazione teoretica e riflessione storica a partire dalla Rivoluzione francese. Se la “logica formale” si configura come la scienza del retto uso delle categorie del pensiero, e si regge sulla preventiva separazione metodologica tra forma e contenuto, la fichtiana “dottrina della scienza”, dal canto suo, si presenta come scienza filosofica che presuppone un rapporto organico (ontologico-dialettico) tra un soggetto che progetta, agisce e trasforma la totalità delle proprie oggettivazioni e un oggetto che ne viene modificato. L’Ich fichtiano non è più l’Ich denke kantiano, programmaticamente situato ai margini della storia e della comunità: l’Ich è, sul piano logico, il principio primo della Wissenschaftslehre e, al tempo stesso, sub specie temporis, è il concetto unitario-tascendentale dell’Umanità, intesa come titolare di un’attività autosufficiente che può determinarsi unicamente in rapporto con il Nicht-Ich che essa stessa ha posto e che a sua volta deve essere inteso come Gegenstand, e dunque come “resistenza” naturale e sociale che viene posta a tutti i progetti di emancipazione e di “ringiovanimento” del mondo. Senza di esso, come Fichte stesso non cessa mai di ripetere, non potrebbe darsi neppure l’avanzamento dell’Io, che è appunto l’inesausta opera di posizione e di toglimento di ostacoli, erramenti e oggettivazioni superando i quali si danno progresso ed emancipazione in senso autentico [25]. Da una diversa prospettiva, il processo delineato nella Grundlage implica che l’Io ponga ininterrottamente di fronte a sé degli ostacoli al suo stesso avanzamento, ostacoli che devono essere pensati come superabili in via di principio da un punto di vista idealistico, secondo il principio del primato della praktische Vernunft.

Se è vero che l’Ich fichtiano è unità concettuale del piano logico e di quello storico, diventa allora pienamente comprensibile in che senso la metafisica di Fichte, per un

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verso, non sia affatto “adattiva” e “contemplativa” rispetto alla strutturazione del reale, e, per un altro verso, debba essere letta, nel suo processo genealogico, in costante riferimento alla Rivoluzione francese non meno che a Kant e al successivo dibattito sulla “cosa in sé”. Si potrebbe anzi sostenere che, entro certi limiti, la Wissenschaftslehre si origina come “ontologicizzazione” della Rivoluzione francese, come trasposizione sul piano ontologico dell’evento storico della Rivoluzione come grandioso superamento, tramite la prassi trasformatrice, delle oggettivazioni dell’Io. Da questo punto di vista, il Nicht-Ich della Wissenschaftslehre si configura come metafora non solo della società feudale-signorile, bensì di tutti gli ostacoli che si frappongono tra l’Ich e il pieno dispiegamento della libertà umana nel corso della storia.

Quanto sia stata decisiva per Fichte e per l’elaborazione della Wissenschaftslehre l’esperienza della Francia rivoluzionaria, a cui egli, come già Kant, assiste in qualità di mero “spettatore” disinteressato dal bordo della storia nell’inerte Germania – si potrebbe forse parlare, variando la nota espressione di Hans Blumenberg, di “rivoluzione con spettatore” [26] – emerge nitidamente tanto dalla Grundlage quanto, e forse ancora di più, dalla Erste Einleitung del 1797. “Il nostro idealismo non è dogmatico ma pratico” [27] (unser Idealismus nicht dogmatisch, sondern praktisch ist), chiarisce Fichte e assume come caposaldo del suo sistema apparentemente disincarnato dalla storia quella “prassi trasformatrice” di cui il pensiero marxiano e, nella fattispecie, l’undicesima delle Thesen über Feuerbach rivelerà una influenza tanto evidente quanto non riconosciuta: “l’io è in tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo – questo è il presupposto assoluto” [28] (das Ich schlechthin tätig, und bloss tätig – das ist die absolute Voraussetzung). Il movimento che si è mostrato in tutta evidenza, sul piano storico, con la Rivoluzione francese, rivelando l’opera coraggiosa un’umanità che si sforza moralmente di superare gli ostacoli che essa stessa ha posto nel corso della sua evoluzione e senza i quali mai avrebbe potuto progredire, è la struttura stessa del reale, il suo fondamento ontologico: “l’io – si sostiene nella Grundlage – pone contro e di fronte un og-getto (Gegenstand), dovunque possa porlo nell’infinità, e così facendo pone un’attività esterna a sé e dipendente non dalla sua attività (di porre) bensì piuttosto da un’attività contrapposta alla sua” [29]. Punto di arrivo della riflessione kantiana e punto di partenza di quella fichtiana, la Rivoluzione francese diventa l’esempio lampante della struttura dialettica della Wissenschaftslehre, di quell’“attività dell’io procedente all’infinito” [30] (ins Unendliche hinausgehende Tätigkeit) a cui Hegel non mancherà di muovere l’accusa di schlechte Unendlichkeit [31], di cattiva infinità che rincorre senza posa e senza determinazione concreta un obiettivo che sempre rinasce. Reinhard Lauth, tra gli altri, ha adombrato in modo convincente come i princìpi della Wissenschaftslehre siano rigorosamente pensati da Fichte in costante riferimento al contesto storico-sociale della Rivoluzione francese:

“Questo è quanto il filosofo voleva dire nel 1794 con il primo principio: l’umanità è per essenza in cammino verso la ragione. Essa lo è […] sempre soltanto mediante il superamento

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esistenzialmente rilevante di una resistenza da cui è essa stessa sorretta, una resistenza, come si è mostrato, determinata non dal fatto bruto – che dà luogo alla costituzione della natura – ma specificamente da un’altra persona, una resistenza, insomma, attraverso la quale è data la sfera sociale. In questo superamento non soggiacciamo però ad alcuna necessità: esso avviene liberamente. Anche il terzo principio esprime qualcosa di parzialmente assoluto. È la libera ‘attività indipendente’ che entra in un rapporto, regolato da leggi, con lo scambio, che si svolge in modo necessario e che contribuisce anch’esso a fondare la relazione. È proprio nel prospettare e porre questa ‘attività indipendente’ che la dialettica della dottrina della scienza viene a distinguersi da quella hegeliana” [32].

Fichte non ha mai nascosto la vocazione eminentemente pratica del suo progetto filosofico, insistendo sulla Tätigkeit come componente decisiva dell’Io, rispetto alla quale è secondaria (e derivata) la stessa istanza gnoseologica, “giacché a rigore ogni impulso è pratico, spingendo all’attività autonoma, e in questo senso tutto nell’uomo si fonda sull’impulso pratico, non essendoci in lui nulla che si debba all’attività autonoma” [33]. È soprattutto nella Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre [34] che tale vocazione emerge con la massima chiarezza. Lo scritto, come è noto, si regge su una contrapposizione tra Idealismus e Dogmatismus che, da una parte, obbliga il lettore a un “riorientamento gestaltico” e, dall’altra, potrebbe servire a risvegliare dal sonno dogmatico l’“uomo postmoderno”, che vive come un dato “naturale” la non trasformabilità del mondo o, in termini fichtiani, la non-superabilità del Non-Io. Mentre il dogmatismo – spiega Fichte – è l’atteggiamento tipico di chi accetta il mondo nella sua datità, assumendolo come un dato empirico fattuale, come una “cosa in sé” che deve essere rispecchiata sul piano gnoseologico, l’idealismo è la sola filosofia della libertà, poiché muove dall’Io e dalla sua attività creatrice e trasformativa. A debita distanza dal “dogmatismo” di chi, come Kant, parte dal presupposto che si dia un oggetto che cade al di là del campo d’azione del soggetto e che dunque non può essere né conosciuto né trasformato, l’idealismo muove dalla convinzione che il soggetto sia autenticamente libero e che non si dia nulla a prescindere dalla sua azione.

L’eliminazione di ogni presunta “cosa in sé” porta, sul piano pratico, alla tematizzazione di una “soggettività titanica”, in grado di trasformare liberamente il mondo in accordo con i suoi stessi princìpi: si tratta, come si diceva, di un “riorientamento gestaltico”, nella misura in cui l’idealismo, solitamente inteso nell’odierno mondo delle interpretazioni, come una filosofia conservatrice quando non reazionaria, rivela in Fichte un’incancellabile vocazione “rivoluzionaria” e una durevole passione critica e antiadattiva. Si tratta di una posizione che, come si diceva, potrebbe costituire la premessa per il risveglio dell’uomo postmoderno dal sonno dogmatico in cui

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giace intorpidito: un sonno caratterizzato dal fatto che oggi si accetta come dato naturale l’intrasformabilità del mondo, l’impossibilità di “togliere” il Non-Io. Il pensiero postmoderno, con il suo disincantato politeismo dei valori entro le sbarre della “gabbia d’acciaio” del capitalismo globalizzato, rappresenta, al di là delle apparenze, la riconciliazione con una realtà che, dopo tutto, non sembra degna di essere cambiata. Si tratta appunto – questo il corollario – di tornare a interpretare il mondo, abbandonando ogni velleità di trasformarlo. Secondo l’icastica formulazione di Peter Sloterdijk, il mondo non va cambiato, ma va sopportato [35]: e in caso di dissidio, è se stessi che bisogna cambiare, e non certo la realtà esterna. In termini fichtiani, si tratta di un inatteso trionfo del dogmatismo sull’idealismo. Lo sapeva bene Adorno, che nella sua Philosophische Terminologie mostrava il valore strutturalmente antiadattivo dell’idealismo fichtiano, nonché l’esigenza di ripartire da esso per contrastare il “dogmatismo” imposto da un’“industria culturale” sempre più strategicamente alleata dello status quo:

“Fichte e l’intero movimento dell’idealismo tedesco si sono già difesi contro qualcosa che solo oggi si è pienamente dispiegato, contro la coscienza reificata, pigra, che prende il mondo così com’è. Hanno lottato contro il realista volgare che si accontenta senza ribellarsi della superficie della mera esistenza, e che non oppone alcuna resistenza a ciò che di fatto esiste, ma gli si adatta” [36]

Su questo punto vale la pena svolgere qualche ulteriore considerazione. L’idealismo di Fichte, come del resto quello di Hegel e Marx, è sempre legato indissolubilmente al movimento di universalizzazione reale della libertà concreta, dispiegantesi nella storia e chiamata a diventare libertà di tutti. Da una diversa angolatura, e ancora una volta contro l’intramontabile pregiudizio che lo lega alla presunta conservazione del mondo così com’è, l’idealismo non può che essere la scelta filosofica di chi si schiera dalla parte dell’emancipazione umana e della liberazione universale, di chi – questo è il punto – aderisce ai princìpi che si sono dispiegati nella Rivoluzione francese. Scrive Fichte nel suo Versuch einer neuen darstellung der Wissenschaftslehre (1797-1798), in un passaggio giustamente famoso:

“La scelta di un certo tipo di filosofia dipende quindi dal tipo di uomo che si è: poiché un sistema filosofico non è una morta suppellettile, che si può prendere o lasciare a nostro piacimento, ma è vivificato dall’anima dell’uomo che ce l’ha. Un carattere fiacco per natura o fiaccato dalla servitù

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spirituale, dal lusso raffinato e dalla vanità, un carattere storpiato non si eleverà mai all’idealismo” [37].

La scelta dell’idealismo è dunque, essenzialmente, una scelta di libertà, di antidogmatismo e di rivendicazione della necessità di trasformare il mondo. A questo proposito, non deve certo stupire che Popper, in The Open Society and Its Enemies (1945), in cui pure non viene direttamente bersagliato il pensiero fichtiano, assuma Platone come oggetto della sua sferzante requisitoria, tracciando una tutt’altro che evanescente linea di continuità che porterebbe da Platone a Hegel, da Hegel a Marx e da Marx ai… gulag. Al di là dell’insostenibilità della tesi propugnata da Popper (e dai suoi epigoni italiani) circa il “totalitarismo” di Platone, di Hegel e di Marx, l’autore di The Open Society compie un’operazione che, se ci si pone dal punto di vista dell’accettazione del mondo-così-com’-è, è estremamente acuta ed efficace. Platone rappresenta infatti, indubbiamente, la vetta insuperata di critica radicale della società presente, ossia – al di là dello scarto storico, de te fabula narratur! – la democrazia mercantile fondata sulla dismisura delle ricchezze (da cui la feroce critica platonica alla pleonexia nel libro IV della Repubblica) [38]. Come se non bastasse, Platone, nella Settima lettera, confessa che è stata l’adikia della condanna a morte di Socrate ad averlo indotto a elaborare la sua filosofia [39]. Ricostruendo il progetto di Popper, è dunque contro Platone, ancor prima che contro Fichte, Hegel e Marx, che bisogna rivolgersi per demonizzare a priori la possibilità di trasformare o anche solo di criticare il mondo. Infatti – e, almeno in questo, emerge indubbiamente la profondità interpretativa di Popper – la genesi storica e sociale dell’idealismo, vuoi nella sua forma “bimondana” [40] (Platone), vuoi in quella “monomondana” (Fichte, Hegel e Marx), sta nella critica radicale dell’“ingiustizia” (adikia) e poi, duemila anni dopo, dell’“alienazione” (Entfremdung) della realtà socio-politica. Questa critica, in Platone, assume la figura concettuale di una presa di distanza spaziale-simbolica e utopica, nella forma di un “paradigma in cielo” [41] (paradeigma en ourano), poiché non può ancora strutturarsi – in assenza di un concetto “singolare-collettivo” di storia [42] – nella forma temporale di una successione “migliorativa” dal prima al dopo. Con l’idealismo tedesco, la critica del reale cessa di essere “bimondana” poiché si regge appunto su una Weltgeschichte pensata con un solo concetto di tipo trascendentale-riflessivo, come teatro della trasformazione e dell’universalizzazione della libertà.

Da queste considerazioni dovrebbe emergere la necessità di ri-partire dal progetto universalistico di emancipazione e di liberazione prospettato dall’idealismo tedesco: solo lungo questa via diventa possibile, forse, pensare una universalizzazione “dal volto umano”, che non sia solamente l’odierna caricatura che universalizza unicamente la forma di merce uniformando tutti gli esseri umani al solo modello del produttore e del consumatore manipolati, in una riduzione integrale della libertà umana nella libertà del consumo, nel vorticare delle differenze del multiculturalismo apparente, sotto il quale si regge, su un fondamento tutt’altro che “debole”, il monoculturalismo del mercato. È, del

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resto, solo una philosophische Wissenschaft nel senso di Hegel, di Fichte e di Marx a rendere possibile e praticabile, oggi, una critica radicale dell’odierno capitalismo globalizzato, senza per questo ricadere nell’inutilità del rilancio della tradizione comunista novecentesca, con i suoi orrori e le sue aporie teoriche ancor prima che pratiche.

2. Estinzione dello Stato o Stato commerciale chiuso?

È in questa cornice teorica che deve essere inquadrato il problema dello Stato nella riflessione fichtiana. Tale problema, come cercheremo di mostrare, è direttamente connesso con la Wissenschaftslehre e con la sua passione trasformatrice e non può essere affrontato a prescindere da essa. Senza perdere di vista la tutt’altro che esile bibliografia su questo tema [43], occorre segnalare anzitutto l’aporia in cui pare dibattersi, a un primo esame, la riflessione fichtiana sullo Stato. In estrema sintesi, l’aporia può essere formulata nei seguenti termini: dall’iniziale legittimazione della Rivoluzione francese e dalla tematizzazione della necessaria estinzione della “forma-Stato”, Fichte muove presto alla riconfigurazione di quello statalismo radicale centrale in Der geschlossene Handelsstaat (1800) che pare segnare una “rottura epistemologica” rispetto alla prima fase “giacobina” o comunque la si voglia definire. Tale aporia rivelerebbe non soltanto una contraddizione interna alla riflessione fichtiana, un suo “ripensamento” radicale su un tema tutt’altro che marginale: al contrario, essa sembrerebbe porre in contraddizione gli stessi princìpi della Wissenschaftslehre, la sua “passione trasformatrice” originatasi, come si è cercato di chiarire, dalla Rivoluzione francese non meno che dalla seconda Kritik kantiana. Da una diversa angolatura, il “primo Fichte”, “giacobino e sovversivo”, secondo l’immagine – certo tutt’altro che neutra – che di lui veniva veicolata negli ambienti conservatori, nemico dello Stato oppressivo quando non dello Stato in quanto tale, risulterebbe del tutto incompatibile con il “secondo Fichte”, quello che, dopo la sofferta vicenda dell’Atheismusstreit, si reinsedia nell’Università e pare conciliarsi con lo status quo, tematizzando la necessità di uno Stato forte e sovrano, commercialmente chiuso e organicisticamente strutturato. Come spiegare questa improvvisa svolta teorica? E, soprattutto, come può essa coniugarsi con l’immagine dell’idealismo fichtiano che abbiamo delineato in precedenza, presentandolo come una forma di “filosofia della trasformazione” e della libertà, per sua vocazione avversa al dogmatismo e all’inerzia? Si tratterà, nelle pagine che seguono, di ricostruire alcuni snodi decisivi che caratterizzano la posizione, o, meglio, le differenti posizioni di Fichte intorno allo Stato, nel tentativo di mostrare come la contraddizione sia solo apparente, come in verità il suo filosofare non rinunci mai all’iniziale istanza critico-trasformatrice e come anzi, per rimanere coerente

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con essa, debba assumere in un dato momento la forma “statalistica” e apparentemente “autoritaria” delineata in Der geschlossene Handelsstaat.

Rispetto agli scritti sulla Rivoluzione francese e sulla “rivendicazione di libertà di pensiero” [44], in cui si legittimava la Rivoluzione francese come grandioso tentativo da parte dell’umanità di rifondare la statualità su nuove basi, maggiormente conformi ai princìpi della ragione, nelle successive Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten – il ciclo di cinque lezioni che Fichte tenne a Jena nel 1794 – la prospettiva è addirittura radicalizzata: lo Stato – si sostiene esplicitamente in queste ultime – deve essere “superato” dall’umanità nel corso del suo processo di emancipazione. In particolare, il tema è al centro della seconda lezione, dedicata alla “missione dell’uomo in società” (Bestimmung des Menschen in der Gesellschaft), in cui si sostiene il carattere socievole della natura umana, in un recupero dell’antropologia aristotelica dello zoòn politikòn. Il soggetto fichtiano non è più l’in-dividuo astratto, destoricizzato, desocializzato e anticomunitario che aveva accompagnato, pur tra mille varianti e secondo declinazioni quanto mai eterogenee, l’avventura del soggetto moderno dall’ego cogitans cartesiano all’Ich denke kantiano: si tratta, al contrario, di un soggetto radicato nella storia e nella comunità, come è attestato in modo lampante, tra l’altro, dalla stessa risemantizzazione comunitaria e collettiva che avviene in Fichte di quell’Ich che, in Kant, oltre a essere una funzione e non una sostanza, era rigorosamente destoricizzato e sciolto da ogni legame extraindividuale. Ora, proprio in quanto zoòn politikòn, “l’uomo è destinato a vivere in società, egli deve vivere nella società; se vive isolato non è un uomo completo e compiuto, e contraddice a se stesso” [45] (der Mensch ist bestimmt, in der Gesellschaft zu leben; er soll in der Gesellschaft leben; er ist kein ganzer vollendeter Mensch und widerspricht sich selbst, wenn er isolirt lebt). Subito dopo aver spiegato la necessità di vivere in società come inaggirabile condizione per poter realizzare la propria essenza socievole tramite una “azione reciproca per mezzo della libertà” [46] (Wechselwirkung durch Freiheit), Fichte chiarisce che sarebbe fuorviante trarne la conclusione che sia per ciò stesso necessario vivere nello Stato: le due dimensioni – società e statualità – devono essere rigorosamente distinte e se nella prima è necessario vivere, non lo è parimenti nella seconda. Da una diversa angolatura, l’uomo è certamente un “animale socievole” e societario, ma non un “animale statale”: vivere nella società è un fine, mentre vivere nello Stato è un mezzo per far sì che gli uomini, non ancora dotati di una solida morale, possano raggiungere pacificamente quel fine. Scrive Fichte, in un passaggio che sembra anticipare gli esiti di certe riflessioni marxiane ed engelsiane sulla statualità:

“Voi vedete, miei signori, quanto sia importante non confondere la società in genere con quella particolare specie di società determinata empiricamente che si chiama Stato (besonderen empirisch bedingten Art von Gesellschaft, die man den Staat nennt). Il vivere nello Stato non fa parte degli scopi assoluti dell’uomo (absoluten Zwecke des Menschen), checché ne dica un illustre

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pensatore; al contrario è solo il mezzo per costituire una società perfetta, valido in ben determinate condizioni. Lo Stato, come del resto tutte le istituzioni umane che non sono altro che degli strumenti, è indirizzato alla propria autodistruzione (Vernichtung): lo scopo di ogni governo è di rendere superfluo il governo (es ist der Zweck aller Regierung, die Regierung überflüssig zu machen). […] È certo che sulla strada tracciata a priori per il genere umano c’è un momento in cui tutte le aggregazioni statali diverranno superflue (alle Staatsverbindungen überflüssig seyn werden)” [47].

È in accordo con le coordinate teoriche della Wissenschaftslehre che Fichte delinea questo programma di superamento della “forma-Stato”: poiché la storia dell’umanità si configura come un progressivo perfezionamento sotto ogni profilo, e dunque soprattutto – kantianamente – come un sempre più marcato dispiegamento della moralità, ne segue che un’umanità finalmente “moralizzata” non avrà più bisogno di ricorrere a uno “strumento coercitivo” per imporre dall’esterno la moralità tramite il rispetto di leggi non avvertite dal soggetto stesso come cogenti. L’obiettivo di ogni Stato diventa allora, appunto, quello di rendersi superfluo, ossia di accompagnare l’umanità a un tale livello di moralità da non dover più ricorrere alla coercizione statale per rispettare le leggi, in quella piena identità tra posizione delle leggi e libera sottomissione ad esse a cui Kant aveva attribuito il nome di “autonomia”. Era stato Kant stesso a mostrare come la condizione di “piena moralità” dell’umanità fosse da intendersi nel suo uso regolativo e costituisse pertanto un obiettivo a cui approssimarsi asintoticamente: secondo l’espressione della Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, “per ritenerci moralizzati (moralisirt) ci manca ancora molto” [48] Fichte mantiene, in questo, l’impostazione kantiana: la moralizzazione dell’umanità deve essere intesa in forma asintotica come movimento di progressivo e mai definitivo avvicinamento al telos, e dunque – questo è il punto – come compito inesauribile. Il fine non potrà mai dirsi compiuto, lo Stato non potrà mai essere superato, ancorché l’obiettivo resti – e non possa che restare – il renderlo superfluo. Il superamento della “forma-Stato” resta un ideale in nome del quale sforzarsi per favorire il perfezionamento dell’umanità lungo il suo cammino di moralizzazione:

“Avvicinarsi a questo fine ultimo – scrive Fichte –, ed avvicinarsi in progressione infinita, ciò egli [l’uomo] può e deve farlo. Possiamo definire unione (Vereinigung) questo avvicinarsi a una completa unità ed unanimità di tutti gli individui. Dunque la vera destinazione dell’uomo nella società è un’unione che divenga dal punto di vista dell’interiorità sempre più profonda

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e dal punto di vista dell’estensione sempre più ampia. Questa unione è però possibile solo mediante un perfezionamento” [49].

Ci troviamo al cospetto di una prima aporia, che come subito chiariremo è direttamente connessa con quella annunciata in precedenza: Fichte tematizza la non-necessità, per l’uomo, di vivere nello Stato e, al tempo stesso, sostiene l’insuperabilità della “forma-Stato”, motivandola sulla base dell’avanzamento infinito come scopo dell’agire umano nella storia, in coerenza con gli stessi princìpi della Wissenschaftslehre. Sembra quasi che, per certi versi, sia lo stesso “cattivo infinito” fichtiano a imporre questa contraddizione che pare riconfigurarsi come un’inattesa ricaduta nel dogmatismo: se il compito dell’umanità sta nell’avvicinarsi sempre più a una condizione di moralità che renda superfluo il ricorso allo Stato e se tale compito è infinito, e dunque non giunge mai a determinazione concreta, allora non soltanto lo Stato non può mai essere superato, ma esso pare diventare in modo inatteso una nuova “cosa in sé” che non può essere “tolta” dalla prassi trasformatrice dell’Ich. L’idealismo sembra così capovolgersi in dogmatismo. In verità Fichte risolve l’aporia conservando lo sforzo (e dunque la libertà) di moralizzazione e di “toglimento” dello Stato: libertà che se, invece, potesse effettivamente giungere a una determinazione concreta, e dunque al raggiungimento dell’obiettivo in questione, si capovolgerebbe in “inerzia”, in “inazione” e dunque in dogmatismo. Il mantenimento dello Stato pur nella prospettiva asintotica del suo superamento è dunque la condicio sine qua non per tenere vivi la prassi e l’ininterrotto sforzo dell’umanità.

Nel 1800 vede la luce Der geschlossene Handelsstaat: rispetto agli scritti precedenti, la prospettiva di Fichte cambia di centottanta gradi. Lo Stato non soltanto non è un mero mezzo che può e deve essere superato, risultando inutile e perfino nocivo per un’umanità pienamente moralizzata, come Fichte sosteneva prima del 1800; né esso è semplicemente il mero garante delle procedure di acquisizione, di conservazione e di accrescimento della proprietà privata dei singoli soggetti, secondo la concezione che si andava sempre più affermando sull’onda dell’utilitarismo. Al contrario, con un sorprendente capovolgimento di prospettiva, lo Stato è ora inteso come luogo in cui si dispiega effettivamente la libertà degli individui, come coronamento della società e come organizzazione che ha il compito di assicurare a tutti i cittadini lavoro e benessere, regolando la produzione e lo scambio; esso deve garantire che si realizzi la “ragion pratica”, assicurando il pieno dispiegamento della libertà di ciascuno tramite la libertà di tutti. Addirittura, in un’ottica fortemente organicistica, si sostiene che, al fine di assicurare l’equilibrio politico, lo Stato deve vietare il commercio con paesi stranieri (solamente il sapere deve essere patrimonio comune, trans-nazionale e liberamente circolante) e, al fine di evitare il fenomeno dell’accumulazione di ricchezze, deve sostituire l’oro e l’argento con una moneta convenzionale che valga solamente come mezzo di scambio. Quali sono le ragioni di questo improvviso riorientamento? Che cosa

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può aver indotto Fichte, tra il 1798 e il 1800, a una così radicale riconfigurazione del ruolo dello Stato e della sua forma? Ha scritto Luca Fonnesu:

“Tutta una serie di eventi conducono Fichte, a partire dal 1798, ad un profondo ripensamento della propria filosofia. L’allontanamento dalla prestigiosa cattedra di Jena, in seguito all’accusa di ateismo, nel 1798, segna per il pensatore la fine di un periodo di grande influenza sulla vita culturale e sul dibattito filosofico del tempo. Intorno a questi anni, cominciano anche a sorgere le riserve per la rivoluzione francese, se non per i “principi”, almeno per la “prassi”, e anche Kant, l’autore di quella rivoluzione che Fichte e i suoi contemporanei avevano accostato a quella francese, dichiara pubblicamente di ritenere la filosofia fichtiana “un sistema del tutto insostenibile”. Non tarderà ad arrivare anche la rottura con Schelling, e sarà proprio Schelling a sostituire l’astro fichtiano nella coscienza degli intellettuali” [50].

Per poter comprendere in tutta la sua portata la nuova concezione fichtiana dello Stato, a questa ricca costellazione di eventi accademici e personali crediamo occorra affiancare, in posizione niente affatto subalterna, una mutata prospettiva sul corso storico, un ripensamento non tanto dell’evento della Rivoluzione in quanto tale, quanto piuttosto del “mondo storico” che da essa stava prendendo a svilupparsi [51]: il mondo della globalizzazione illimitata e del trionfo del “valore di scambio”, figlio del “pensiero astratto” illuministico, della sua delegittimazione delle pretese della metafisica, del suo codice ostinatamente individualistico e del suo innalzamento dell’utilitarismo a sola filosofia possibile. È soprattutto come reazione al “mondo ctonio” fatto erompere in superficie dalla Rivoluzione che deve essere letta la reazione fichtiana, con la proposta di uno “Stato commerciale chiuso” al cui centro sia non l’individuo ma la comunità umana, con i suoi bisogni concreti, in un ristabilimento completo dell’egemonia del politico sull’economico. Convergendo in ciò con la successiva posizione di Hegel, Fichte non critica tout court il mondo plasmato dalla Rivoluzione né i princìpi illuministici su cui esso si sorregge: al contrario, esattamente come Hegel [52], resta fedele al movimento della Rivoluzione, a tal punto che – come ha precisato Lauth – “si potrebbe perfino asserire che egli abbia tenuto i principi della rivoluzione più fermi di quanto non abbiano fatto i rivoluzionari e i loro – non abbastanza radicali – fondatori spirituali” [53]. Dell’Illuminismo e, con esso, della Rivoluzione Fichte riconosce dialetticamente l’unità di indispensabilità e insufficienza. La critica fichtiana si basa sul fatto che il mondo scaturito dalla Rivoluzione presenta un codice teorico comune in tutte le sue declinazioni

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(dal deismo all’ateismo e all’economia politica inglese), ed è l’individualismo anticomunitario e utilitaristico.

Per decifrare questo punto decisivo, alla cui luce si può comprendere un’opera come Der geschlossene Handelsstaat, altrimenti destinata a rimanere enigmatica e a essere illimitatamente diffamata come “reazionaria”, occorre fare riferimento, sia pure rapidamente, ad alcuni passaggi delle opere di Fichte successive al 1800, che tracciano un “orizzonte di significato” a cui è del tutto interno – come vedremo – il problema dello “stato commerciale chiuso”. Solo in quest’ottica diventa possibile disambiguare l’aporia da cui avevamo preso le mosse. Se soffermiamo la nostra attenzione sui Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (1806), frutto delle lezioni di filosofia della storia tenute tra il 1804 e il 1805, vi troviamo significativamente tematizzato il mondo affiorato dalla Rivoluzione francese nei termini, tutt’altro che lusinghieri, di un’“epoca della compiuta peccaminosità” [54] (Stand der vollendeten Sündhaftigkeit): la Rivoluzione francese, a cui va l’indubbio merito di aver rovesciato il dispotismo e di aver “tolto” il negativo fino ad allora dominante, non è poi riuscita a creare un mondo all’altezza della sua impresa. Essa ha distrutto tutto senza nulla creare, rivelandosi appunto indispensabile e al tempo stesso insufficiente, come Fichte chiarisce nelle successive Reden an die deutsche Nation (1808):

“Evidente e credo confessato da tutti il fatto che lo sforzo dell’epoca che si chiude mirava a bandire gli oscuri istinti per far trionfare la chiarezza e la conoscenza. Questa mira è stata raggiunta in quanto ha smascherato il ‘nulla’ finora conseguito (das bisherige Nichts vollkommen enthüllt ist). Questo impulso verso la chiarezza non deve affatto venir ricacciato indietro, permettendo agli oscuri istinti di tornare a signoreggiare, ma anzi deve essere ulteriormente sviluppato e portato a un grado superiore (soll nur noch weiter entwickelt und in höhere Kreise eingeführt werden), sicché dopo che si scoperse il ‘nulla’, appaia anche il ‘qualcosa’, e cioè una forma di verità positiva che pone un punto di partenza (auch das Etwas, die bejahende und wirklich etwas setzende Wahrheit, ebenfalls offenbar werde)” [55].

Proprio come, in ambito teoretico, la prima Kritik kantiana ha avviato la “rivoluzione copernicana” senza però portarla a compimento, così, in ambito pratico-storico, la Rivoluzione è rimasta un “processo incompiuto” [56], che deve essere ultimato tramite il ristabilimento di un nuovo fondamento sociale-veritativo all’altezza dei tempi. Dalla Rivoluzione è infatti scaturito un mondo che, svuotato della trascendenza, ha surrettiziamente elevato l’empiria a dimensione dominante, eleggendo come propria filosofia di riferimento “il peggiore di tutti i sistemi filosofici, quello di

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Locke” [57]: la critica di ogni metafisica del trascendente non è poi stata in grado di fondare una nuova “metafisica morale” dell’imperativo categorico, ma si è dialetticamente rovesciata, hegelianamente, dall’“ascetismo della morale” al “regno animale dello spirito”. Come “tratti fondamentali” dell’epoca Fichte individua appunto l’empirismo radicale e l’utilitarismo, due poli in correlazione essenziale perché basati su un codice rigorosamente individualistico e sul rifiuto della dimensione sociale e comunitaria. Non deve stupire, rileva Fichte, che un mondo che ha liquidato le forme storiche precedenti senza fondare una nuova costellazione veritativa “non possa assolutamente essere né contenere nient’altro che l’accortezza di promuovere il proprio vantaggio personale” [58] (kein anderer seyn und nichts weiter enthalten könne, als die Klugheit, seinen persönlichen Vortheil zu befördern), dando luogo – variando la nota formula kantiana – a quell’utilitarismo “dal punto di vista cosmopolitico” su cui si fonda la globalizzazione del mercato. In particolare, “la fondamentale proprietà permanente e il carattere di una tale epoca è di fare solo per sé e per il suo proprio utile ogni autentico prodotto della medesima, tutto quel che essa pensa e fa” [59] (die bleibende Grundeigenschaft und der Charakter eines solchen Zeitalters ist der, dass jedes ächte Product desselben alles, was es denkt und thut, nur für sich und seinen eigenen Nutzen thue). Nella misura in cui è incardinato sulla programmatica ricerca dell’utile personale ed “empirico”, l’utilitarismo non necessita, e anzi scoraggia il più possibile, ogni sistema metafisico: “di qui deriva, come un tratto caratteristico di una tale epoca, la magnificazione dell’esperienza come unica fonte del sapere” [60] (daher kommt die Lobpreisung der Erfahrung für die einzige Quelle des Wissens, als ein charakteristischer Grundzug eines solchen Zeitalters). Si tratta, appunto, di portare a compimento la dinamica avviata ma non completata dalla Rivoluzione, per superare la pura negatività in cui è sospeso il presente.

Questo discorso, che costituisce la base teorica su cui Fichte costruisce la sua teoria dello “stato commerciale chiuso”, viene ulteriormente sviluppato nelle Reden an die deutsche Nation, testo che la “storiografia pigra” tende irresistibilmente a liquidare, tramite l’abusata prassi della diffamazione preventiva, come un’anticipazione del nazionalismo tedesco razzista del XX secolo, laddove invece, se letto in trasparenza, si tratta di una appassionata difesa dell’universalismo dell’emancipazione e della libertà, in cui la Germania figura come nazione destinata a svolgere la funzione di guida di questo progetto universalistico: “chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi” [61]. Più che tra tedeschi e stranieri, per di più su presunte basi razziali, le Reden instaurano una polarità sul piano universale tra “progressisti” e “regressisti”, tra sostenitori della possibilità storica e della necessità morale dell’emancipazione dell’umanità, da una parte, e sostenitori di una temporalità “circolare”, da cui non può emergere alcuna novità e dunque alcuna emancipazione, dall’altra; i Tedeschi sono chiamati a farsi promotori della prima visione del mondo e, alla sua luce, a guidare l’umanità verso l’infinito perfezionamento. L’opera si riconnette esplicitamente ai Grundzüge e all’esigenza, delineata in essi, di reagire all’utilitarismo e alla “dittatura dell’empiria”: “in queste conferenze – dice Fichte a proposito dei Grundzüge – dimostrai che l’èra attuale

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appartiene al terzo dei grandi periodi della storia mondiale, periodo che ha come impulso unico alle sue reazioni e ai suoi moti l’utile materiale (der sinnlich Eigennutz); che solo ammettendo la possibilità di questo impulso la nostra èra si spiega e si comprende; che attraverso questa chiara coscienza di tale sua natura essa rinsalda e consolida se stessa in quel suo vitale carattere” [62]. E aggiunge significativamente in riferimento alle Reden: “questi discorsi saranno il seguito di quelle mie conferenze intorno all’epoca attuale, annunziando l’èra nuova che può e deve sbocciare dalla distruzione del regno dell’egoismo, compiutasi per opera dello straniero” [63]. Alla Francia napoleonica è imputata l’introduzione in area tedesca, tramite l’invasione militare, dell’ideologia egoistica dell’individuo possessore, miscela instabile di utilitarismo ed empirismo radicale.

Alla luce di queste considerazioni, e soprattutto della nuova prospettiva che Fichte espone in forma compiuta nel 1804-1805 con i Grundzüge, diventa pienamente comprensibile la concettualizzazione, nel 1800, dello “stato commerciale chiuso” come coerente reazione all’egemonia dell’utile (economico) e alla correlata soppressione dello spazio veritativo della filosofia. In un mondo in cui, in un precipitare nichilistico di tutti i valori e delle stesse istanze critiche e veritative del sapere filosofico, la ricerca dell’utile diventa l’obiettivo assoluto dell’esistenza umana, alla cui luce la gelida “razionalità formale” funge da vernice che occulta l’irrazionalità complessiva di un mondo che Marx avrebbe più tardi definito “capovolto” (verkehrte Welt), la libertà idealistica sta, ancora una volta, nell’avanzare risolutamente la pretesa di cambiare il mondo, contro le resistenze dei dogmatici di sempre con la loro incrollabile fede nell’immodificabilità dell’assetto vigente. Per Fichte, fedele ai princìpi della Rivoluzione e, ipso facto, nemico del mondo che ne è scaturito, si tratta di contrastare l’egemonia dell’utile e dell’egoismo sfrenato che ad esso si accompagna: è in questi casi che, in coerenza con i temi delle lezioni sulla Bestimmung des Gehlerten, lo Stato deve svolgere la sua funzione di “strumento” per favorire l’avanzamento dell’umanità in vista della sua completa moralizzazione, e dunque in vista – questo è il punto – dell’estinzione dello Stato. Anche nella teorizzazione dello “Stato commerciale chiuso”, Fichte non rinuncia dunque al presupposto fondamentale della Wissenschaftslehre: l’avanzamento illimitato dell’umanità, con la conseguente estinzione dello Stato come ideale regolativo. Non è certo un caso che il nostro autore definisca lo “Stato commerciale chiuso” anche nei termini di un Vernunftstaat, di uno “Stato secondo ragione”: nell’epoca della “compiuta peccaminosità”, in cui la moralità sembra essere vacante, solo lo Stato può far valere in maniera coattiva i princìpi della ragione che rendono possibile la moralizzazione del genere umano. È la stessa passione idealistica della libertà a imporlo come principio morale decisivo.

Alla luce di quanto siamo venuti dicendo, si può dunque sostenere plausibilmente che l’aporia da cui avevamo preso le mosse – la contraddittoria transizione da una posizione che riconosceva la superabilità della “forma-Stato” a uno statalismo “rigido” – è, a un attento esame, più apparente che reale: per un verso, anche negli scritti anteriori a Der geschlossene Handelsstaat, si sostiene che lo Stato deve essere superato ma che tale telos consiste in un’approssimazione infinita, che mai potrà dirsi compiuta, con la conseguente

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permanenza illimitata dello Stato; per un altro verso, l’elaborazione dell’idea di uno “Stato commerciale chiuso” si regge sugli stessi princìpi della Wissenschaftslehre esposti nella Bestimmung des Gelehrten, in accordo con i quali lo Stato è un “mezzo” funzionale alla moralizzazione di un’umanità che non è ancora a tal punto moralizzata da poterne fare a meno; in un’epoca di “compiuta peccaminosità” e di egoismo universale, diventa necessario l’intervento massiccio di uno Stato “commerciale chiuso” che sappia opporsi al cosmopolitismo utilitaristico del mercato e al codice individualistico su cui esso si regge, per far valere l’istanza morale di un comunitarismo solidale nell’epoca della “compiuta peccaminosità”. L’idea dello Stato come “strumento” finalizzato alla moralizzazione comunitaria non viene mai meno nella riflessione fichtiana, come peraltro è suffragato anche dal fatto che ancora nel 1813 – un anno prima di morire – Fichte sosterrà che lo Stato è un apparato coattivo (Zwangstaat) che scomparirà per la sua Nichtigkeit [64]. Ma questa prospettiva – perfettamente coerente con la posizione di Fichte prima del 1798 – ritorna con insistenza anche nei Grundzüge, soprattutto nella decima lezione [65], nella misura in cui Fichte non esita a parlare dello Stato nei termini di un “istituto artificiale” [66] (künstliche Anstalt). Anche in Der geschlossene Handelsstaat, come del resto nei Grundzüge e nelle Reden, Fichte è dunque coerente con i princìpi della Wissenschaftslehre e con l’esigenza di trasformare liberamente il mondo per far sì che esso si accordi con i princìpi della ragione e possa così dispiegarsi quello che, nei Grundzüge, è individuato come lo scopo della storia umana, istituire “con libertà tutti i rapporti secondo ragione” [67] (alle Verhältnisse mit Freiheit nach der Vernunft). Di questa “passione trasformatrice” offre una preziosa testimonianza uno scintillante passaggio di Der geschlossene Handelsstaat, in cui emerge nitidamente come “dogmatico” sia colui che accetta l’utilitarismo della “globalizzazione”, mentre “idealista” sia chi si sforza di trasformare la realtà, rifiutandosi di accettarla come un dato naturale-eterno e rivolgendosi all’istituto dello Stato come fonte di moralità in un’epoca senza morale:

“Chi non è pensatore (der Nichtdenker), ma ha tuttavia buon senso e memoria, comprende lo stato reale delle cose che si presentano ai suoi occhi, e ne prende nota. Egli non ha bisogno di altro, perché deve soltanto vivere nel mondo reale e farvi i suoi affari; e non si sente stimolato a riflessioni, di cui non vede l’immediata utilità. Egli non corre mai col pensiero al di là di questo stato reale, e non ne concepisce un altro; ma per il fatto stesso di essersi abituato a non pensare che alla realtà esistente, nasce in lui, quasi senza che se ne accorga, la supposizione che solo questa realtà esista, e solo essa possa esistere. Le idee e i costumi del suo popolo e del suo tempo gli paiono le sole idee e i soli costumi possibili presso tutti i popoli e in tutti i tempi. Egli certamente non si meraviglia che tutto sia così com’è, perché, a parer suo, non può essere altrimenti; e non si propone la questione del come ciò sia

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avvenuto, poiché, secondo lui, tutto del pari è stato da principio. […] La sua malattia incurabile è di scambiare l’accidentale con il necessario (seine unheilbare Krankheit ist die, das zufällige für nothwendig zu halten)” [68].

In accordo con le linee tratteggiate nelle lezioni sulla Bestimmung des Gelehrten, per cui la cultura coincide con la capacità di “trasformare le cose al nostro esterno e di mutarle secondo i nostri concetti” [69], e contro l’atteggiamento “contemplativo” di chi, preso dal vortice dei suoi affari e dalla ricerca dell’utile, non si pone il problema della moralizzazione dell’umanità né del perfezionamento del reale, e anzi pensa, con falsa coscienza necessaria, che l’assetto utilitaristico del mondo sia immodificabile, l’idealista fa valere l’istanza trasformatrice, che nel caso in questione si configura come costituzione di uno Stato commerciale chiuso che freni l’illimitatezza del profitto e degli squilibri che esso va sempre più generando, creando differenziali di ricchezza di fronte ai quali la ragione non può che inorridire:

“Chi, al contrario, si è abituato non solo a riprodurre nel pensiero il realmente esistente, ma anche a foggiarsi liberamente con il pensiero il possibile, non raramente trova che legami e rapporti delle cose totalmente diversi da quelli esistenti, sono altrettanto possibili, anzi più possibili, più naturali e conformi a ragione; egli trova che i rapporti realmente esistenti sono non solo accidentali, ma qualche volta pure bizzarri” [70] (Wer sich hingegen gewöhnt hat, nicht nur das wirklich vorhandene durch den Gedanken nachzubilden, sondern auch das mögliche durch denselben frei in sich zu erschaffen, findet sehr oft ganz andere Verbindungen und Verhältnisse der Dinge, als die gegebenen ebenso möglich wie diese, ja wohl noch weit möglicher, natürlicher, vernunftmässiger; er findet die gegebenen Verhältnisse nicht nur zufällig, sondern zuweilen gar wunderlich).

Solo riproponendo l’egemonia della politica sull’economia “autonomizzatasi”, sul duplice fondamento dell’utilitarismo e della delegittimazione della metafisica come sapere della totalità e della sua valutazione assiologica, diventa possibile, tramite l’azione dello Stato, garantire l’eguale libertà dei soggetti e il loro libero sviluppo, frenando il movimento nichilistico del commercio globale, da Fichte significativamente etichettato come “anarchia commerciale” [71] (Anarchie des Handels): “ufficio dello Stato sia prima di

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tutto di dare a ciascuno il suo, immetterlo nella sua proprietà, e poi di proteggerlo” [72] poiché ripugna alla ragione “che uno possa pagarsi il superfluo, mentre pur uno dei suoi concittadini manchi del necessario o non possa pagarlo” [73] Non si tratta, ancora una volta, di uno statalismo autoritario fine a se stesso, in quanto lo Stato è sempre inteso come mezzo per il dispiegamento della libertà dell’uomo: “il vero scopo dello stato è di aiutare ciascuno a raggiungere quello a cui, come partecipe dell’umanità, ha diritto, e di mantenerlo in tale condizione” [74]. E ancora: “ognuno deve avere a giusto prezzo tutto ciò che è necessario per i suoi bisogni” [75]. Lo Stato non diventa mai, in Fichte, fine a se stesso, come accadrà nelle eterogenee forme totalitarie che hanno popolato il Novecento, ma resta sempre uno strumento al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni, e più precisamente della comunità in costante progresso verso il proprio perfezionamento.

Alla luce di queste considerazioni, dovrebbe emergere come dietro l’aporia da cui avevamo preso le mosse si nasconda in verità una coerente linea di sviluppo del pensiero politico fichtiano che, in armonia con i dettami dalla Wissenschaftslehre e dalla sua metabolizzazione dei princìpi della Rivoluzione francese, trova la sua cifra nella libertà umana e individua nello Stato un mezzo per garantire il processo di moralizzazione. Dovrebbe inoltre affiorare, in filigrana, quanto sia attuale la posizione propugnata da Fichte in Der geschlossene Handelsstaat, se non nelle soluzioni proposte (che per certi versi possono suonare “arcaiche” e inattuabili), sicuramente nelle problematiche individuate: il nostro tempo continua a essere l’“epoca della compiuta peccaminosità”, in cui il nichilismo della “forma-merce” è il solo fondamento di un mondo che si dichiara “post-metafisico” e senza fondamenti, denunciando lo Stato come forma autoritaria e – questo è il punto – ben sapendo come esso sia l’ultima forza in grado di opporsi all’odierno “monoteismo del mercato” di stampo neoliberista:

“Nasce così nel mondo commerciale una lotta perpetua di tutti contro tutti, lotta tra compratori e venditori; e questa lotta diventa sempre più ardente, più ingiusta e più pericolosa per le conseguenze, a misura che la popolazione cresce, lo stato commerciale s’ingrandisce per le acquisizioni che sopraggiungono, la produzione e le arti si sviluppano, e con ciò si aumentano e diversificano le merci circolanti e i bisogni” [76].

In questo scenario, peraltro decisamente più “peccaminoso” oggi che ai tempi di Fichte, lo Stato può oggi essere, allora, l’ultima forma di resistenza contro il dilagare dell’utilitarismo. Prova ne è che il sogno del pensiero neoliberale consiste, da sempre, nell’estinzione dello Stato, secondo un processo che si sta peraltro consumando sempre più massicciamente sotto i nostri occhi, favorito dal processo di “globalizzazione”,

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secondo il pudico nome che l’“epoca della compiuta peccaminosità” attribuisce oggi a se stessa.

[1] Cfr. soprattutto M. Foucault, L’ordre du discours, 1971; tr. it. a cura di A. Fontana, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972.

2 Il testo marxiano da cui ripartire per elaborare una piattaforma teorica per la storia critica delle idee può essere soprattutto la Deutsche Ideologie, al cui centro vi è – come è noto – una riflessione sul nesso tra le forme di strutturazione sociale, economica e politica di una data epoca e le sue produzioni simbolico-ideologiche: cfr. K. Marx – F. Engels, Die deutsche Ideologie, 1845-1846 (1932); tr. it. a cura di D. Fusaro, Ideologia tedesca, Bompiani, Milano 2011, con presentazione di Andrea Tagliapietra.

3 Sul nesso Foucaul-Marx ha recentemente scritto Toni Negri: “Foucault fa buon uso di alcune intuizioni che il giovane Marx non fu in grado di tradurre in un dislocamento della critica della proprietà, lungo le strutture trascendentali del capitalismo, fino alla fenomenologia della corporeità. Nonostante Foucault abbia adottato diversi travestimenti nel suo rapporto con Marx – larvatus prodeo – questo rapporto resta estremamente profondo” (M. Hardt – A. Negri, Commonwealth, 2009; tr. it. a cura di A. Pandolfi, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 42). Cfr. R. M. Leonelli (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010; M. Barrett, The Politics of Truth. From Marx to Foucault, Polity Press, Cambridge 1991.

4 Rimandiamo qui soprattutto al nostro Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani, Milano 2009, in cui si è tentato di mostrare come il pensiero marxiano resti interno al paradigma dell’idealismo fichtiano ed hegeliano. Abbiamo sviluppato il tema anche nel nostro L’“Ideologia tedesca” tra critica della spettralità e fondazione della scienza filosofica, in K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca, cit., pp. 19-306. Cfr. anche C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra materialismo e idealismo, Il Prato, Padova 2007.

5 Impieghiamo qui l’efficace espressione di Karel Kosik: cfr. K. Kosik, Dialektika konkretniho, 1963; tr. it. Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965.

6 Su questo tema, cfr. soprattutto il recente saggio di A. Tagliapietra, L’ultima delle dieci parole ovvero non desiderare, in G. Ravasi – A. Tagliapietra, Non desiderare la donna e la roba d’altri, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 71-160.

7 Ci permettiamo su questo punto di rimandare al nostro Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita, Bompiani, Milano 2010, con saggio introduttivo di A. Tagliapietra.

8 R. Garaudy, Avons nous besoin de Dieu?, De Brouwer, Paris 1994, 13. Cfr. anche C. Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea, Petite Plaisance, Pistoia 2009.

9 K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time, Beacon Press, Boston 1944; cfr. anche M. Granovetter, Economic Action and Social Structure: the Problem of Embeddedness, in “American Journal of Sociology”, n. 91 (1985), pp. 481-493.

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10 Cfr. J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken: philosophische Aufsätze, 1988; tr. it. a cura di M. Calloni, Il pensiero postmetafisico, Laterza, Roma-Bari 1991. Questa raccolta di saggi habermasiani è concepita come il seguito dell’analisi avviata in Der philosophische Diskurs der Moderne: Zwölf Vorlesungen, 1985; it. a cura di E. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità: dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987.

11 A proposito del presunto nesso tra “pensiero forte” e veritativo, da una parte, e autoritarismo, dall’altra, può essere utile ricordare come Spinoza – indubbiamente il pensatore meno relativista e meno “debole” dell’intera modernità – non soltanto non abbia avuto ricadute autoritarie in ambito politico, ma abbia anzi fondato, nel Tractatus theologico-politicus, una politica della democrazia incardinata sulla tolleranza e sulla libertas philosophandi. Per converso, può essere utile ricordare come il relativista scetticheggiante David Hume esortasse i suoi lettori a dare alle fiamme i libri di metafisica.

12 Alludiamo qui, naturalmente, alla nota definizione hegeliana della filosofia come ihre Zeit in Gedanken erfaßt: G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, 1821; tr. it. a cura di V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006, p. 61.

13 Ancorché l’elenco dei testi basati su tale impostazione sia alquanto lungo, ci limitiamo qui a segnalare come esempio paradigmatico di questa posizione il pur pregevole volume di Claudio Cesa, Fichte e il primo idealismo, Sansoni, Firenze 1975. Cfr. anche Id., Introduzione a Fichte, Laterza, Roma-Bari 1994.

14 L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano 1976, pp. 76-77.

15 J.G. Fichte, Beitrag zur Berichtigung der Urtheile des Publicums über die französische Revolution, 1793; tr. it. a cura di V. E. Alfieri, Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese, in Id., Sulla Rivoluzione francese. Sulla libertà di pensiero, Laterza, Roma-Bari 1966.

16 Su questo punto, cfr. soprattutto J. Droz, L’Allemagne et la révolution française, PUF, Paris 1949; V. Verra, La Rivoluzione francese nel pensiero tedesco dell’epoca, in “Filosofia”, n. 20 (1969), pp. 411-440.

17 J.G. Fichte, Briefwechsel, Haessel, Leipzig 1925, 2 voll., I, p. 123.

18 Ivi, I, p. 419.

19 Cfr. M. Guéroult, Fichte et la révolution française, in Id., Etudes sur Fichte, Hildesheim, New York 1974, pp. 152-246.

20 Come ha sottolineato Lauth, nel Beitrag sulla Rivoluzione francese in realtà “manca la seconda parte, storica, ove doveva essere trattato ciò ch’era proprio della situazione del momento. L’interesse prioritario era il giudizio sulla legittimità della rivoluzione” (R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, Guerini, Milano 1996, a cura di M. Ivaldo, p. 308).

21 A sostenere invece il giacobinismo totale di Fichte è M. Buhr, Revolution und Philosophie. Die urspruengliche Philosophie Johann Gottlieb Fichtes und die franzoesische Revolution, Berlin 1965; Id., Die Philosophie Fichtes und die franzoesische Revolution, in AA. VV., Republik der Menschheit. Französische Revolution und deutsche Philosophie, Pahl-Rugenstein, Köln 1989, pp. 104-117. Cfr. anche C. De Pascale, Filosofia e rivoluzione nel primo Fichte, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 56 (1975), pp. 566-581; cfr. anche Id., Le origini teoriche dei Discorsi alla nazione tedesca. La filosofia della storia di Fichte nel primo periodo berlinese, in “Studi senesi”, n. 89 (1977), pp. 39-103; K. Hammacher, Comment Fichte accède à l’histoire, in “Archives de philosophie”, n. 25 (1962), pp. 388-440.

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22 J.G. Fichte, Briefwechsel, cit., I, p. 393.

23 Su questo punto sono illuminanti le riflessioni svolte da Adorno: cfr. T.W. Adorno, Philosophische Terminologie. Zur Einleitung, 1973; tr. it. a cura di A. Solmi – S. Petrucciani, Terminologia filosofica, Einaudi, Torino 2007, pp. 250 ss.

24 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Vorrede zur zweiten Auflage, aprile 1787; tr. it. a cura di C. Esposito, Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, Bompiani, Milano 20072, p. 35, traduzione modificata: “ciò è in tal modo disposto come nei primi concetti di Copernico, il quale, poiché non trovava conveniente procedere nella spiegazione dei moti celesti in base all’assunzione che l’intera volta stellare ruoti intorno all’osservatore, cercò se ciò non poteva riuscirgli meglio facendo ruotare l’osservatore e all’incontro stare in quiete le stelle. Nella metafisica si può pure svolgere un simile tentativo, per quanto riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione si dovesse regolare secondo la conformazione degli oggetti, io non vedo come se ne potrebbe sapere qualcosa a priori. Ma se l’oggetto (come oggetto dei sensi) si regola secondo la conformazione della nostra facoltà d’intuizione, posso benissimo rappresentarmi questa possibilità”.

25 Cfr. M. Ivaldo, I princìpi del sapere: la visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli 1987; Id., Libertà e ragione. L’etica di Fichte, Mursia, Milano 1992.

26 Cfr. H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, 1979; tr. it. a cura di F. Rigotti, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Bologna 1985.

27 J. G. Fichte, Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, 1795; tr. it. a cura di G. Boffi, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani,Milano 2003, p. 281.

28 Ivi, p. 483.

29 Ivi, p. 501.

30 Ivi, p. 433.

31 Cfr. G.W.F. Hegel, Vernunft in der Geschichte, a cura di J. Hoffmeister, Meiner, Amburgo 19555, p. 149: il “cattivo infinito” è sempre alla rincorsa di qualcosa che continua a “ri-sorgere” fuori di sé, poiché “la perfettibilità – scrive Hegel – è in sé quasi tanto indeterminata quanto la mutabilità in genere; è senza fine e scopo”.

32 R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, cit., p. 88.

33 J.G. Fichte, Über den Geist und Buchstabe in der Philosophie, 1794-1795; tr. it. a cura di U.M. Ugazio, Sullo spirito e la lettera, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 52.

34 Cfr. Id., Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre (1797), in Fichtes Werke, a cura di I. H. Fichte, Bd. 1, Zur theoretischen Philosophie, I, Gruyter, Berlin 1971.

35 Cfr. Soprattutto P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 2 Bände, 1983; tr. it. a cura di M. Perniola, Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992; Id. Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, 2009; tr. it. a cura di P. Perticari, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010.

36 T.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., pp. 231-232.

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37 J.G. Fichte, Versuch einer neuen darstellung der Wissenschaftslehre, 1797-1798; tr. it. Prima introduzione alla Dottrina della scienza, in “Rivista di filosofia”, XXXVII, nn. 3-4, 1946 pp. 190 ss.

38 Cfr. Platone, Repubblica, IV 419 A – 422 E; tr. it. a cura di R. Radice, in Platone. Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 1160-1163.

39 Cfr. Id., Lettera VII, 324 C – 326 A; tr. it. a cura di R. Radice, in Platone. Tutti gli scritti, cit., pp. 1806-1807: “i mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante degli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia”.

40 Impieghiamo qui la distinzione tra “idealismo monomondano” e “idealismo bimondano” tematizzata da Lukács: cfr. G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, 1972 (postumo); tr. it. a cura di A. Scarponi, Per l’ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma 1976, 2 voll. in 3 tomi.

41 Platone, Repubblica, IX 592 B, cit., p. 1305.

42 Come ha mostrato Reinhart Koselleck (cfr. voce Geschichte, in Id. – W. Conze – O. Brunner, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett-Kotta, Stuttgart 1972-1997, II, pp. 649 ss.), prima della svolta settecentesca, lungo un arco di tempo protrattosi dal mondo dei Greci fino alla prima metà del XVIII secolo, era del tutto impossibile riferirsi concettualmente e linguisticamente alla storia “al singolare”, intesa come “soggetto agente” e come “concetto riflessivo”: essa o, più precisamente, esse erano immancabilmente riferite a soggetti empirici determinati, di cui venivano a essere, appunto, le storie. Da questo punto di vista, a esistere erano sempre la storia di Alessandro Magno, quella di Cesare, della Francia, dell’Impero, e così via, di storia in storia. Secondo il rilievo di Koselleck, era dunque impossibile – una vera e propria contraddizione in termini – “pensare la storia senza un soggetto (ohne ein Subjekt)” (ivi, p. 649): essa era sempre riferita a soggetti empirici determinati, di cui era, per l’appunto, l’oggetto che subiva trasformazioni o al cui “interno” (nel caso di Roma, della Francia, della Prussia, e così via) si svolgevano le concrete vicende. La pluralità rapsodica delle storie non implicava mai il loro riferimento a un senso a venire né l’“ipostatizzazione” della storia stessa, la sua trasformazione in un soggetto agente. Koselleck rievoca, a questo proposito, un aneddoto particolarmente significativo, che testimonia della transizione, densa di conseguenze teoriche, dal vecchio al nuovo concetto: si narra, infatti, che Federico il Grande, quando per la prima volta udì il termine Geschichte al singolare, non capisse a che cosa si riferisse e domandò, sbigottito, se si trattasse di un sinonimo di Historie. Il sovrano, come è evidente, conosceva perfettamente la parola, ma non il nuovo concetto che essa veicolava nel suo uso al singolare (cfr. Id., Über die Verfügbarkeit der Geschichte, 1977, in Id., Vergangene Zukunft: zur Semantik geschichtlicher Zeiten, 1979; tr. it. a cura di A. M. Solmi, Sulla disponibilità della storia, in Id., Futuro passato: per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986, p. 226; esiste anche una più recente riedizione del testo per i tipi della Clueb, Bologna 2007).

43 Senza addentrarci nella ingens silva della letteratura secondaria sul problema dello Stato in Fichte, ci limitiamo qui a segnalare tre lavori particolarmente significativi, dei quali terremo conto nelle pagine che seguono: K. Hahn, Staat, Erziehung und Wissenschaft bei J. G. Fichte, Beck, München 1969; G. Duso – G. Rametta (a cura di), La libertà nella filosofia classica tedesca: politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel, Franco Angeli, Milano 2000; J.C. Goddard et alii (a cura di), Fichte et la politique, Polimetrica, Bologna 2008; G. Solari, L’idealismo sociale del Fichte,in “Rivista di filosofia”, n. 33 (1942).

44 Cfr. J.G. Fichte, Zurückforderung der Denkfreiheit von den Fürsten Europens die sie bisher unterdrückten. Eine Rede, 1793; tr. it. a cura di V. E. Alfieri, Rivendicazione della libertà di pensiero dai principi dell’Europa che l’hanno finora calpestata. Discorso, in Id., Sulla Rivoluzione francese. Sulla libertà di pensiero, cit.

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45 J. G. Fichte Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, 1794; tr. it. a cura di N. Merker, La missione del dotto, Fabbri, Milano 2001, p. 28.

46 Ivi, p. 29.

47 Ivi, p. 28.

48 I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784; tr. it. a cura di F. Gonnelli, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 20066, p. 38.

49 J.G, Fichte, La missione del dotto, cit., p. 34.

50 L. Fonnesu, Antropologia e idealismo: la destinazione dell’uomo nell’etica di Fichte, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 21.

51 Per un inquadramento generale della filosofia della storia fichtiana, rimandiamo soprattutto a R. Picardi, Il concetto e la storia. La filosofia della storia di Fichte, Il Mulino, Bologna 2009; C. De Pascale, Vivere in società, agire nella storia. Libertà, diritto, storia in Fichte, Guerini, Milano 2001.

52 Non vi è qui lo spazio per una discussione sulla metabolizzazione hegeliana dei principi della Rivoluzione. Rimandiamo a H. Marcuse, Reason and Revolution. Hegel and the Rise of Social Theory, 1941; tr. it. a cura di A. Izzo, Ragione e rivoluzione. Hegel e la nascita della “teoria sociale”, Il Mulino, Bologna 1965; J. D’Hont, Hegel secret, 1968; tr. it. a cura di E. Tota – M. Duichin, Hegel segreto. Ricerche sulle fonti nascoste del pensiero hegeliano, Guerini, Milano 1989; G. Lukács, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, 1948; tr. it. a cura di R. Solmi, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi, Torino 19602; J. Ritter, Hegel und die französische Revolution, 1956; tr. it. a cura di A. Carcagni, Hegel e la Rivoluzione francese, Guida, Napoli 1970. Ritter ha mostrato come la stessa filosofia politica hegeliana possa essere letta in chiave progressista, associandola più alla Rivoluzione francese che non alla Restaurazione: “non esiste nessun’altra filosofia che come quella di Hegel sia altrettanto, e fin dentro i suoi più intimi impulsi, filosofia della rivoluzione” (ivi, p. 26). Ritter sottolinea con enfasi il ruolo centrale che la Rivoluzione francese avrebbe esercitato sulla formazione intellettuale di Hegel, mostrando come, anche dopo che l’iniziale entusiasmo andò scemando, questi non parteggiò mai per la Restaurazione, nemmeno negli anni berlinesi. Scrive Ritter: “il giovanile entusiasmo per la rivoluzione presente, in Hegel, all’inizio del suo itinerario filosofico, penetra nella sua stessa filosofia e continua a operare in modo vitale nella maturità” (ivi, p. 40).

53 R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, cit., p. 283.

54 J.G. Fichte, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, 1804-1805; tr. it. a cura di A. Carrano, I tratti fondamentali dell’epoca presente, Guerini, Milano 1999, p. 89.

55 Id., Reden an die deutsche Nation, 1808; tr. it. a cura di B. Allason, Discorsi alla nazione tedesca, UTET, Torino 1965, p. 70.

56 Utilizziamo qui la nota espressione con cui Habermas qualifica la modernità: cfr. J. Habermas, Die Moderne: ein unvollendetes Projekt, in Id., Kleine politische Schriften (I-IV), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, pp. 444-464.

57 J.G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, cit., p. 195.

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58 Ivi, p. 151.

59 Ivi, p. 152.

60 Ivi, pp. 151-152.

61 Id., Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 141.

62 Ivi, p. 27.

63 Ivi, p. 29.

64 Id., Sämtliche Werken, a cura di I. H. Fichte, 8 voll, Berlino 1845-1846, IV, p. 599.

65 Id., I tratti fondamentali dell’epoca presente, cit., pp. 246-259.

66 Ivi, p. 246.

67 Ivi, p. 85.

68 Id., Der geschlossene Handelsstaat, 1800; tr. it. Lo Stato commerciale chiuso, Bocca, Milano 1909, pp. 63-64.

69 Id., La missione del dotto, cit., p. 15l.

70 Id., Lo Stato commerciale chiuso, cit., p. 64.

71 Ivi, p. 70.

72 Ivi, p. 6.

73 Ivi, p. 17.

74 Ivi, p. 29.

75 Ivi, p. 60.

76 Ivi, pp. 76-77.