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Cap. 4 Il sistema finanziario nazionale: l’egemonia americana (1939-1976) Sommario Il sistema finanziario internazionale dominato dall’egemonia di un solo Stato-nazione, gli Stati Uniti, fu, da una parte, l’esito della distruzione materiale e sociale di tutte le altre economie industrializzate avvenuta durante la Seconda guerra mondiale; dall’altra, fu il risultato della centralità data dalla nazione egemone al mercato dei beni, con la conseguente ricerca di un vantaggio nel governo mondiale delle risorse. Gli Stati Uniti attuarono le loro preferenze sia attraverso azioni costrittive, come l’intervento diretto sulle risorse, sulla produzione e sui consumi; sia con processi di socializzazione esterna, come la condivisione di norme, orientamenti e preferenze; sia di socializzazione interna, attraverso l’intervento nelle economie e nelle istituzioni degli altri paesi. Nel sistema che prende vita con la Seconda guerra mondiale, quindi, la condizione di centro viene occupata da un solo Stato, quello egemone; mentre la periferia è costituita dalle economia di mercato del resto del mondo. Tale condizione, tuttavia, risulta del tutto vera se si osserva il carattere originale del sistema finanziario in sé, con il dollaro che venne imposto come moneta di riserva del mercato internazionale attraverso un trattato internazionale. Essa risulta, invece, parzialmente vera si guarda alle modalità operative, alle attività dell’insieme degli intermediari finanziari che costituiscono il sistema stesso. L’egemonia americana risulta essere, in ultimo, vincolata, in quanto l’egemone finì per essere inevitabilmente parte del progetto da lui stesso disegnato. Se inizialmente le preferenze statunitensi furono rivolte ad un’economia fondata su scambi multilaterali, tale scelta fu abbandonata quando emerse la fragilità post-bellica delle economie europee e asiatiche; ad essa, quindi, si sostituì dal 1947 un processo di socializzazione di norme, orientamenti e preferenze con le maggiori economie capitalistiche. Con il sostegno di Wall Street, la promozione del Piano Marshall e la creazione dell’OECE, l’egemonia americana si realizzò pienamente creando un sistema di embedded liberalism, che consentì all’egemone di avere meno di quanto avesse immaginato, ma più di quanto avesse potuto ottenere per mezzo di trattative istituzionali. Il disegno di egemonia vincolata ebbe nei cambi fissi, nel divieto della libera circolazione dei capitali e nella crescita dei settori finanziari lo strumento finalizzato alla crescita dei redditi: l’esito fu il grande aumento nel volume degli scambi sul mercato internazionale, guidato dagli Stati Uniti. Il sistema descritto ebbe dunque nelle istituzioni definite negli accordi internazionali di Bretton Woods la sua principale cornice istituzionale e operativa: esso si identificava con gli impegni di 1

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Cap. 4 Il sistema finanziario nazionale: l’egemonia americana (1939-1976)

Sommario

Il sistema finanziario internazionale dominato dall’egemonia di un solo Stato-nazione, gli Stati Uniti, fu, da una parte, l’esito della distruzione materiale e sociale di tutte le altre economie industrializzate avvenuta durante la Seconda guerra mondiale; dall’altra, fu il risultato della centralità data dalla nazione egemone al mercato dei beni, con la conseguente ricerca di un vantaggio nel governo mondiale delle risorse. Gli Stati Uniti attuarono le loro preferenze sia attraverso azioni costrittive, come l’intervento diretto sulle risorse, sulla produzione e sui consumi; sia con processi di socializzazione esterna, come la condivisione di norme, orientamenti e preferenze; sia di socializzazione interna, attraverso l’intervento nelle economie e nelle istituzioni degli altri paesi.

Nel sistema che prende vita con la Seconda guerra mondiale, quindi, la condizione di centro viene occupata da un solo Stato, quello egemone; mentre la periferia è costituita dalle economia di mercato del resto del mondo. Tale condizione, tuttavia, risulta del tutto vera se si osserva il carattere originale del sistema finanziario in sé, con il dollaro che venne imposto come moneta di riserva del mercato internazionale attraverso un trattato internazionale. Essa risulta, invece, parzialmente vera si guarda alle modalità operative, alle attività dell’insieme degli intermediari finanziari che costituiscono il sistema stesso. L’egemonia americana risulta essere, in ultimo, vincolata, in quanto l’egemone finì per essere inevitabilmente parte del progetto da lui stesso disegnato.

Se inizialmente le preferenze statunitensi furono rivolte ad un’economia fondata su scambi multilaterali, tale scelta fu abbandonata quando emerse la fragilità post-bellica delle economie europee e asiatiche; ad essa, quindi, si sostituì dal 1947 un processo di socializzazione di norme, orientamenti e preferenze con le maggiori economie capitalistiche. Con il sostegno di Wall Street, la promozione del Piano Marshall e la creazione dell’OECE, l’egemonia americana si realizzò pienamente creando un sistema di embedded liberalism, che consentì all’egemone di avere meno di quanto avesse immaginato, ma più di quanto avesse potuto ottenere per mezzo di trattative istituzionali. Il disegno di egemonia vincolata ebbe nei cambi fissi, nel divieto della libera circolazione dei capitali e nella crescita dei settori finanziari lo strumento finalizzato alla crescita dei redditi: l’esito fu il grande aumento nel volume degli scambi sul mercato internazionale, guidato dagli Stati Uniti.

Il sistema descritto ebbe dunque nelle istituzioni definite negli accordi internazionali di Bretton Woods la sua principale cornice istituzionale e operativa: esso si identificava con gli impegni di convertibilità valutaria e di stabilità finanziaria che con quegli accordi furono stabiliti tra gli stati aderenti. Non sorprende quindi osservare che esso andò rapidamente in frantumi quando quelle condizioni vennero meno. Quando cioè: la convertibilità delle valute in dollari e del dollaro in oro non fu più credibile a fronte del volume dei dollari e delle riserve disponibili; la crescita delle economie di mercato socializzate, quelle del G-7, divenne debole o assente; infine, quando il costo uniforme delle materie prime e dell’energia non fu più sottoposto ad un controllo egemonico in grado di fissarne il prezzo. Nel tempo, tale sistema finanziario viene scandito in due fasi diverse, che possono avere nel ritorno alla convertibilità delle valute europee del 1958 una linea discriminante: la prima, caratterizzata dalla convergenza dei redditi e dalla crescita, tra il 1947 e il 1958; la seconda, determinata da una divergenza nei redditi, dall’inflazione e, infine, dall’inconvertibilità, tra il 1959 e il 1976.

1. Economia monetaria e crescita dei redditi

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1.1 I caratteri generali: coercizione e socializzazione

Etimologicamente, il termine egemonia sta ad indicare il potere di comando normalmente assegnato ad uno Sato all’interno di un’alleanza in termini militari, politici o economici. In questo senso, lo Stato egemone sarà quello in grado di imporre per mezzo di incentivi e sanzioni un ordinamento costrittivo nelle scelte degli altri Stati. In accordo con Max Weber, l’esperienza mostra che «nessun potere può accontentarsi per sua volontà di fondare la propria permanenza su motivi esclusivamente affettivi o razionali rispetto al valore. Ogni potere cerca piuttosto di suscitare e coltivare la fede nella propria legittimità».

In riferimento al sistema finanziario internazionale successivo alla Seconda guerra mondiale, è immediato notare che l’azione egemone è stata esercitata dagli Stati Uniti: essi hanno, in primo luogo, attuato incentivi e sanzioni istituzionali con l’obiettivo di modificare le preferenze della classe dirigente dei paesi Alleati, durante il primo periodo post-bellico; successivamente, nel ventennio successivo, essi si sono incaricati di guidare quel processo di persuasione normativa che consentì agli stessi Stati Uniti, attraverso contatti culturali, incentivi materiali e minacce di sanzione, di ottenere legittimità nel comando. Questo processo di promozione e trasferimento della gerarchia dei valori propri dello Stato-nazione egemone viene definito dalla letteratura politica come socializzazione.

Le condizioni che permettono la realizzazione del processo di socializzazione sono essenzialmente tre. In primo luogo, esso è favorito da una precedente situazione di guerre e crisi politiche che portano ad avere una coincidenza tra instabilità internazionale e crisi di legittimità della classe dirigente nazionale. In secondo luogo, trattandosi di processo di trasferimento di valori, esso richiede una recettività delle élite politico-amministrative. In terzo luogo, infine, lo sviluppo della socializzazione tende a manifestarsi in seguito al momento di esercizio coercitivo del potere.

Coercizione e socializzazione portano agli stessi obiettivi e sono in molti casi difficilmente distinguibili su un piano politico, mentre lo sono sempre sul piano economico. La coercizione è identificabile con la manipolazione degli incentivi e delle sanzioni materiali applicate dallo Stato egemone; la socializzazione, invece, si materializza nella condivisione delle modalità di azione, nonché nella promozione dell’attività produttiva, dei consumi, delle tutele sociali dei diritti all’istruzione, alla salute e alla giustizia.

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Concretamente, gli Stati Uniti hanno gettato le basi della propria egemonia attraverso i due mezzi della coercizione e della socializzazione nell’immediato secondo dopoguerra. Le modalità con cui fu gestita la prassi affitti e prestiti tra gli Stati Uniti e i paesi Alleati dopo la fine del conflitto – si pensi in particolar modo al rapporto con la Gran Bretagna – , così come l’intervento di riorganizzazione delle strutture produttive e nelle modalità della rappresentanza politica dei paesi sconfitti – come la riorganizzazione economica e sociale della Germania e del Giappone – rappresentano il momento coercitivo. Nello stesso periodo, è possibile riscontrare il centro dell’azione di socializzazione nel disegno dell’economia internazionale di beni e capitali che si realizzò con gli accordi Bretton Woods. L’esito di queste azioni fu la creazione di un sistema finanziario nazionale dominato dall’egemonia finanziaria americana.

Quest’egemonia si realizza in primo luogo attraverso le condizioni di economia monetaria con cui gli agenti finanziari vengono portati ad operare. Si intende qui per economia monetaria quella di un sistema economico in cui la moneta è investita di un ruolo proprio che influisce sulle motivazioni e sulle decisioni degli agenti, diventando, in sintesi, uno dei fattori operativi; tanto che la conoscenza del comportamento della moneta risulta strumentale alla comprensione degli eventi. scelte di medio periodo degli agenti.

Un’economia monetaria si realizza attraverso le seguenti condizioni. La prima è l’esistenza di un settore economico che ha un proprio ruolo, quello di intermediazione finanziaria, che consente la dissociazione tra risparmi e investimenti al fine di ottimizzare i due comportamenti. La seconda condizione è l’instabilità nel processo di accumulazione, in quanto non vi è sicurezza nella capacità di realizzare utili attraverso la propria attività produttiva in maniera continuativa. La terza è il condizionamento operato dal credito, ovvero dal costo e dal volume dell’offerta, sul processo di accumulazione di cui prima. La quarta condizione è costituita dalla relazione cumulata tra reddito e ricchezza.

Occorre sottolineare con forza che queste condizioni di “economia monetaria” si applicano in modo pieno per la prima volta solo dopo gli accordi di Bretton Woods che possono ritenersi l’atto di nascita del fiat standard, ovvero della moneta legale, e con essa del nazionalismo monetario e del primato dato dalle autorità di governo agli equilibri sul mercato interno.

Fu infatti solo in seguito all’esperienza acquisita negli anni tra le due guerre che la pratica di una politica monetaria rivolta al controllo dei prezzi, alla tutela della legge della parità del potere di

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acquisto a livello internazionale fu abbandonata. In specie l’esperienza degli anni Trenta aveva portato alla condivisione di tre insegnamenti: a) il sistema dei pagamenti organizzato in gold standard comportava rigidità deflattive che accentuavano la condizione ciclica e comportavano danni rilevanti nei livelli di produzione e occupazione; b) la scelta dei cambi flessibili non era sostenibile in quanto comportava una volatilità così marcata nei rendimenti e una incertezza così diffusa da determinare un freno agli investimenti; c) la crescita del livello tecnologico la politica economica dei governi ne comportava una necessario coinvolgimento nelle scelte di politica industriale e interventi nella attività produttiva.

Ne seguiva che in un sistema di cambi fissi, quale quello su cui ci si orienta nel secondo dopoguerra, i surplus, o deficit, che si determinano nel breve periodo negli scambi internazionali devono essere resi compatibili con gli equilibri interni dei mercati reali per mezzo di operazioni di sterilizzazione svolte dalle banche centrali. Se questo non si verifica gli squilibri esterni si protraggono e inducono a processi di redistribuzione della ricchezza finanziaria netta verso i paesi in surplus, con conseguenti spinte inflattive verso i paesi in deficit strutturale, con l’accentuarsi della mobilità dei capitali e, in ultimo, con una generale crisi della stabilità del sistema stesso.

È questa la ragione per cui il sistema previde la creazione di uno specifico intermediario internazionale, il Fondo monetario, cui si attribuì un patrimonio di riserve composto da quote assegnate ai paesi aderenti attraverso trattative dominate dallo Stato-nazione egemone. Inoltre, al Fondo veniva demandata la possibilità di intervenire nelle politiche monetarie fiscali nazionali attraverso l’azione di prestiti, cioè contratti, internazionali, che come tali erano trasferimenti specifici di risorse a fronte di una cessione della sovranità nazionale per un determinato periodo di tempo.

Gli Stati Uniti, avendo la maggioranza delle quote del Fondo, avevano anche il maggior numero di delegati e riuscirono pertanto a utilizzare il fondo come una propria agenzia, uno strumento di socializzazione esterno attraverso l’accettazione delle norme. Il disegno delle regole – norme, orientamenti e preferenze – aveva quindi come obiettivo di fondo l’attuazione di un disegno di potenza nazionale e commercio estero degli Stati Uniti. In questo contesto, le norme costituiscono i principi generali su cui si basa una visione dell’ordine internazionale; gli orientamenti sono le scelte di comportamento che da quelle norme sono derivate; infine, le preferenze, in termini di prosperità, sicurezza o conoscenza, generano le sequenze di scelte che hanno fatto si che e le economie di mercato organizzate nel contesto di regole attuato dopo la

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secondo guerra mondiale siano state vincolate dalla condizione della potenza nazionale di un solo Stato.

Non vi era di fatto nessuna effettiva difficoltà tecnica nell’operare scelte cooperative – il piano Keynes prevendo una moneta internazionale come unità di conto, il bancor, fu un esempio chiaro di questo – ma esse furono respinte per costruire un sistema di incentivi e sanzioni che consentisse alla nazione Stati Uniti di avere una efficace politica di potenza nazionale per mezzo della gestione delle modalità di esercizio del commercio estero e del sistema dei pagamenti. Il piano White nel disegno di Bretton Woods e del FMI ebbero nel piano Marshall il suo naturale punto di contatto per una compenetrazione tra economia finanziaria e economia reale.

La rapidità di crescita delle economie nazionali dei paesi industriali aderenti all’accordo, tuttavia, diede luogo già dai primi anni Cinquanta ad una condizione di egemonia vincolata. Formalmente, il vincolo si esplicitava nell’obbligo statunitense di convertire in oro all’equivalenza di 35 dollari all’oncia, le quote in dollari detenute dalle banche centrali nazionale come base per la loro offerta di moneta. Quindi, questa condizione di riserva internazionale attribuita alla valuta di un solo paese andava a creare un sistema asimmetrico che dipendeva, quindi, dalla fiducia data al dollaro.

Essendo il dollaro e gli Stati Uniti al centro del sistema, essi erano l’unico paese che potevano utilizzare in modo autonomo la leva della politica monetaria. Tuttavia, questo privilegio era al tempo stesso un vincolo: gli Stati Uniti, infatti, perseguendo l’obiettivo di una sostenuta domanda internazionale di beni, furono costretti ad utilizzare la politica monetaria in funzione espansiva.

I due vincoli della parità di cambio e della politica monetaria espansiva garantivano un ordine economico internazionale che aveva come scopo principale quello di sostenere una continua crescita del volume di scambio internazionale dei beni reali, di cui gli Stati Uniti possedevano la quota maggioritaria.

Come mostra la figura 4.1, se la condizione economica del sistema si trova ad essere nel punto 2, a meno che non vi sia svalutazione e aumento del livello di spesa nazionale, l’equilibrio interno ed esterno non può essere raggiunto. La sola politica fiscale può raggiungere il punto 3; la sola svalutazione può raggiungere il punto 4.

FIGURA 4.1

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La possibilità di creare condizioni di espansione produttiva, promuovendo una modifica coordinata delle condizioni di equilibrio sia sul mercato estero che su quello interno, così come indicato dalla figura 4.2, è resa possibile solo da un effetto espansivo di offerta di moneta consentito, di fatto, nel sistema di cambi fissi quale quello di Bretton Woods, al solo Stato-nazione che disponesse di una moneta avente ruolo sia di valuta domestica sia di riserva internazionale, ovvero gli Stati Uniti.

FIGURA 4.2

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Sarà quindi la sola economia egemone a poter muovere in cambi fissi DD in funzione espansiva; normalmente una politica espansiva, come indica la figura 4.3, porterebbe ad una azione deflattiva e ad una sotto occupazione.

FIGURA 4.3

Sono queste le ragioni per cui si sono avute in tutto il periodo del sistema di Bretton Woods una m olteplicità di svalutazioni e rivalutazioni da parte degli stati che non potevano contare su una politica monetaria autonoma. FIGURA 4.4

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E’ questa stessa ragione che ha poi portato ad un a condizione di vantaggi ripetuti nella svalutazione delle valute nazionali e nel permanere del dollaro ad una condizione centrale anche quando non ne aveva più la possibilità in termini di vantaggio nella produzione sul mercati reali dalla metà degli anni ’60.

Il vantaggio – necessariamente di breve periodo, se non si ricorre a svalutazioni, è evidenziato nella figura 4.5 e nella sua coordinata 4.5.1.

FIGURA 4.5

FIGURA 4.5.1

L’accumulazione repressa di svalutazioni e moneta chiave ha creato gli attacchi speculativi degli anni Sessanta e in ultimo le spinte dirompenti degli anni 70 che hanno portato alla fine del sistema.

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1.2 – Le modalità operative

Dopo la Seconda guerra mondiale, il processo di costruzione dell’egemonia finanziaria statunitense passa attraverso l’imposizione di una cultura industriale e finanziaria in tutti i paesi che aderiscono al Piano Marshall. Questa cultura comportava una riorganizzazione dell’economia in unità istituzionali, classificate in settori secondo uno schema di contabilità nazionale uniformata agli standard statunitensi. In questo modo, veniva costruito, in ogni paese, un sistema di conti pubblici che consentiva una distribuzione delle risorse finalizzata a un percorso di crescita.

La teoria economica non consente di poter affermare in maniera certa che esista una relazione tra la dimensione del settore finanziario e una crescita dell’economia reale: l’evidenza empirica, invece, mostra l’esistenza di tale relazione. Quello che possiamo desumere dallo studio della contabilità nazionale, infatti, è che la moderna crescita economica è stata accompagnata, nelle prime fasi, da una più che proporzionale espansione della sovrastruttura finanziaria. Ciò suggerisce che questa espansione è una fase necessaria dello sviluppo di un Paese fino alla sua maturità, che si riflette in un indice di interrelazione finanziaria molto vicino ad 1:1.

La rilevanza di ogni specifico settore finanziario è data dalla diversa natura delle sue specifiche componenti, ovvero principalmente banche, assicurazione, borse valori e altri intermediari finanziari. Un indicatore di tale incidenza è dato dalla loro quota nelle attività finanziarie totali. Tale quota è cresciuta costantemente in tutte le economie di mercato. Uno studio dei cambiamenti dei bilanci nazionali mostra che la composizione e il peso delle voci di bilancio ha subito variazioni, tuttavia non in maniera sostanziale.

La crescita del settore finanziario in ogni singolo paese è stata strumentale, da una parte, alla crescita del Pil dei diversi paesi; dall’altra, alla diffusione dell’egemonia statunitense nel periodo successivo alla guerra: attraverso il settore finanziario, infatti, l’attività produttiva nazionale veniva promossa in equilibrio con il cambio internazionale. Questo equilibrio è dato dall’equivalente tra la base monetaria e il valore di cambio, ottenendo come risultato finale che il mercato internazionale cresca molto di più dei singoli mercati nazionali.

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2. Guerra ed egemonia

La guerra ebbe ripercussioni, diverse per modalità, caratteristiche ed intensità, su tutte le aree del mondo. Come già nella Prima guerra mondiale, ma con maggiore forza, gli Stati Uniti videro accrescere enormemente il proprio potere economico, sia a livello assoluto che in relazione agli altri paesi. Già prima dell’entrata in guerra nel dicembre del 1941, l’occupazione e il reddito statunitensi aumentarono in conseguenza delle necessità di approvvigionamento degli eserciti e della popolazione europei. In generale, considerando il periodo che va dal 1939 al 1944, il prodotto interno lordo americano crebbe del 150% mentre la

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produzione industriale aumentò del 300%. La guerra giocò ovviamente un ruolo chiave in questo processo di crescita, facendo aumentare la produzione a fini bellici dal 2% del totale nel 1939 fino al 40% registrato nel 1943. Per avere un quadro generale della netta superiorità della produzione industriale statunitense, soprattutto di materiale bellico, basti pensare che, nel 1944, essa costituiva il 40% della produzione mondiale di armamenti, mentre già nel 1942 gli Stati Uniti da soli producevano più armi di tutti i paesi dell’Asse.

La crescita della produzione americana ebbe effetti anche sull’occupazione, che fece registrare un aumento di 19 milioni di posti di lavoro nel periodo 1941-1944, nonché dei consumi, che crebbero, nello stesso periodo, del 12%. Tutti i settori dell’industria americana trassero qualche vantaggio dallo stato di guerra anche se le industrie degli armamenti furono, ovviamente, quelle maggiormente avvantaggiate. In questi settori si registrarono anche i maggiori avanzamenti di sviluppo tecnologico, che sarebbero stati poi alla base delle produzioni post-belliche di automobili, aerei, lavorazione dei metalli, nonché delle industrie del settore metallurgico, chimico e elettrotecnico. In generale, l’industria americana sperimentò un’espansione tecnologica e produttiva senza precedenti, raggiungendo, da una parte, un’altissima efficienza – efficienza, tra l’altro, che si accompagnò ad una concentrazione nelle grandi industrie, provocando parallelamente la crisi della piccola e media impresa – e, dall’altra, diffondendosi anche nelle aree in precedenza quasi interamente rurali, come quelle dei vasti stati dell’ovest e del sud degli Stati Uniti.

La guerra generò inoltre cambiamenti in altre zone del mondo. Uno dei più macroscopici dal punto di vista economico avvenne in conseguenza dell’invasione tedesca della Francia, che si concluse con l’ingresso a Parigi delle truppe della Wehrmacht nel giugno del 1940. L’occupazione ebbe costi altissimi per i francesi. La politica del Terzo Reich, infatti, fu quella di impiegare massicciamente le risorse dei territori occupati per finanziarie sia le truppe sul territorio, sia l’espansione produttiva in patria.

È stato calcolato che durante il periodo bellico i trasferimenti finanziari che la Germania nazista estorceva ai paesi conquistati ammontavano all’incirca al 40% del totale del gettito fiscale tedesco. In questo senso la Francia fu il paese maggiormente colpito, dovendo versare una somma pari a circa di 20 milioni di Reichsmark al giorno per un totale, tra il 1940 e il 1944, di oltre 600 miliardi di franchi ad una parità, fortemente sopravvalutata, di 20 franchi per marco. Per rendere l’idea dell’enorme ammontare dei pagamenti francesi nel periodo di occupazione tedesca, si calcola che il totale dei costi sostenuti nel solo 1943 fosse pari a

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circa il 9% del prodotto interno lordo tedesco. Questa percentuale, tra l’altro, era addirittura minore della media calcolata dei prelievi di tutti i territori occupati nel periodo 1940-1944, che ammontava al 14% del prodotto interno lordo della Germania nazista di quegli anni. Tali cifre escludono i vantaggi che le aziende tedesche si garantivano mediante le confische di macchinari, territori e intere aziende, nonché attraverso l’impiego, a condizioni quasi di schiavismo, di lavoratori dei paesi occupati. A tal proposito, è noto l’esempio della I.G. Farben, un’industria chimica tedesca che, impiegando manodopera dei territori conquistati in condizione di schiavitù – è stato calcolato che l’aspettativa di vita in un campo di lavoro della I.G. Farben era all’incirca di tre mesi –, riuscì ad aumentare la sua produttività in un ambito multinazionale.

Deve essere in ogni caso segnalato che le esperienze sotto l’occupazione nazista furono diverse a seconda dei paesi presi in esame: ad esempio, la Norvegia fu destinataria di investimenti nel settore petrolifero e idroelettrico – due centrali idroelettriche vennero completate in questi anni con denaro tedesco – , anche se il prodotto nazionale norvegese decrebbe con il passare degli anni in quanto il paese venne coinvolto con intensità crescente negli sforzi per sostenere lo sforzo bellico tedesco. D’altronde, era questo un destino comune a tutti i paesi alleati della Germania – come ad esempio Finlandia, Ungheria, Romania e Bulgaria – che, a mano a mano che la guerra procedeva, venivano sempre più sfruttati per finanziare la macchina bellica nazista. Il Belgio e l’Olanda subirono, anche se con minor intensità, lo stesso destino della Francia, essendo costretti a pagare quotidiani pagamenti verso la Germania, mentre i paesi che soffrirono le conseguenze più drastiche dell’occupazione furono certamente quelli orientali, come la Cecoslovacchia e la Polonia, le cui risorse – in primis umane, ma anche industriali e delle materie prime – vennero sfruttate indiscriminatamente, facendo crollare la propria capacità produttiva.

Anche l’espansione in oriente del Giappone aveva radici economiche, che possono essere individuate nell’esclusione del paese nipponico dai grandi blocchi commerciali degli anni Trenta, ed ebbe, nel periodo post-bellico, notevoli conseguenze sul piano dell’organizzazione internazionale dei commerci. La principale preoccupazione delle autorità giapponesi, decisiva nel trascinare il paese in guerra, fu la necessità di conquistare approvvigionamenti di materie prime e combustibili, nonché di creare mercati protetti per le merci giapponesi. La guerra si risolse, però, in un disastro per il Giappone, soprattutto in relazione alle infrastrutture, alla capacità industriale e alla flotta mercantile: si calcola, infatti, che alla fine del conflitto la marina americana aveva distrutto l’88% dei 6,5 milioni di tonnellate del naviglio mercantile nipponico.

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Il conflitto ebbe conseguenze economiche anche nei paesi non direttamente interessati dai combattimenti. L’india, ad esempio, riuscì a ricavare qualche piccolo vantaggio, anche se dato lo scarso livello tecnologico di partenza questi non poterono essere rimarchevoli. Tuttavia, qualche effetto industrializzante si ebbe nei settori delle munizioni, delle costruzioni navali e della meccanica, soprattutto in relazione alle commesse britanniche. Anche nei paesi latino-americani il secondo conflitto mondiale portò alcune conseguenti di una certa importanza. Questi paesi divennero dei grandi fornitori di materie prime per gli Stati Uniti, accumulando riserve di dollari e aumentando la propria quota di esportazioni mondiali, che passò dal 7,8% del 1938 al 13,4% registrato nel 1946. In conseguenza della mancanza di rifornimenti da parte dei tradizionali partner europei, aumentò anche l’interscambio commerciale tra gli stessi paesi del Sud America.

Tra i paesi europei impegnati nel conflitto, dopo la caduta della Francia nell’estate del 1940, la Gran Bretagna si ritrovò da sola a fronteggiare l’offensiva tedesca. Tuttavia, per quanto la produttività inglese crebbe durante il conflitto, essa non riuscì né a sostenere i ritmi delle necessità belliche, né a raggiungere i livelli degli Stati Uniti, i quali, grazie al progresso tecnologico fatto registrare, riuscivano ad occupare una quota minore di manodopera nel settore delle industrie di materiale bellico e nelle stesse forze armate. Gli Stati Uniti, come nella Prima guerra mondiale, accorsero così in aiuto dei paesi alleati. Tuttavia la novità delle modalità di finanziamento delle spese belliche dei paesi europei, e della Gran Bretagna in particolar modo, fu che questi non furono erogati come prestiti o anticipazioni ma presero la forma di forniture di materiali e beni alimentari, come ad esempio munizioni e alimenti conservati, ai paesi che erano in guerra contro l’Asse. L’accordo cosiddetto Leand-Lease – affitti e prestiti – trasferì all’Impero britannico un totale di beni e servizi che ammontava all’incirca al 5% del reddito nazionale statunitense, mentre all’inizio del 1945 il totale dei rifornimenti di ogni genere ai paesi europei in guerra contro il nazi-fascismo, inclusa, dopo il 1941, anche la Russia sovietica, ammontava a 5.000 milioni di dollari. In cambio delle forniture americane ad un prezzo vantaggioso, che sarebbe stato possibile saldare al termine del conflitto, i riceventi degli aiuti accettavano, come specificato dall’articolo VII del Lend-Lease Agreements, di partecipare insieme agli Stati Uniti alla ricostruzione di un sistema commerciale aperto e multilaterale, rinunciando agli accordi commerciali bilaterali e accettando di rimuovere barriere doganale e quote discriminanti.

La guerra determinò una generale sofferenza delle borse mondiali, provocando un generalizzato declino degli affari e una mobilitazione delle risorse che, come abbiamo visto, veniva gestita quasi totalmente dagli Stati. Da questo punto di vista, in realtà, la

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situazione si presentava in forma diversa rispetto a quella della Prima guerra mondiale, in quanto il controllo statale sulle attività finanziarie e sui trasferimenti di risorse a fini bellici era decisamente più forte, riducendo così le opportunità per banchieri e finanzieri di ricavare guadagni dalle diverse transazioni.

Sulla piazza di Wall Street, come tra l’altro nella City di Londra, vi fu un ridimensionamento, come detto, delle attività finanziarie internazionali. Soprattutto nel primo periodo del conflitto vi fu una forte decrescita del numero delle imprese quotate sulla piazza newyorchese, il cui valore era fortemente influenzato dagli eventi bellici e dalle notizie che circolavano. Ad esempio, i prezzi medi delle azioni aumentarono del 10% nel settembre del 1939, in quanto ci si aspettava molti profitti da parte delle aziende americane in seguito alle commesse di guerra di Gran Bretagna e Francia, poi caddero del 20% nel maggio-giugno del 1940 in seguito all’invasione tedesca della Francia e poi continuarono a decrescere costantemente fino all’aprile del 1942, quando raggiunsero un livello che era del 40% inferiore di quello registrato prima dell’inizio della guerra. La svolta si ebbe il 28 aprile del 1942, quando Roosvelt annunciò misure di razionamento e prezzi amministrati, allontanando in tal modo le paure dell’inflazione e permettendo una ripresa degli investimenti in borsa, tanto che nel settembre del 1945 i prezzi medi a Wall Street erano già raddoppiati.

Tra le conseguenze del conflitto vi fu la crescita dell’importanza del Federal Reserve Board di Washington, a scapito di quello di New York che, come visto, era invece stato l’attore principale della politica finanziaria americana negli anni Trenta. In questo nuovo contesto il tasso di sconto fissato all’1% nel 1937 fu mantenuto per tutta la durata della guerra, favorendo il finanziamento di un debito pubblico statale che passò, nel periodo 1941-1945, da 48 milioni di dollari a 260 per affrontare le spese di guerra. Le banche d’investimento furono largamente coinvolte nel collocamento dei titoli del Tesoro, che emise sette prestiti di guerra negli anni considerati, ma ricavarono pochissimi guadagni da tale coinvolgimento, mentre i titoli emessi dalle imprese private si dimezzarono tra il 1941 e il 1943 per poi aumentare nuovamente solamente negli ultimi due anni del conflitto.

Seguendo un trend che sarebbe stato poi istituzionalizzato largamente nel secondo dopoguerra, in Gran Bretagna la geometria decisionale in materia finanziaria e monetaria si spostò, durante la guerra, nettamente in favore della politica e quindi del Tesoro, con una riduzione dell’incidenza delle decisioni della Banca d’Inghilterra, che divenne il braccio esecutivo del governo in materia monetaria, svolgendo anche funzioni di intermediario con la City e con le banche commerciali. Queste ultime furono tra le

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banche che superarono con più facilità il periodo di guerra proprio grazie all’intervento dello Stato che, da una parte, era diventato il loro maggior cliente – nell’agosto del 1945 i depositi della Midland Bank, ad esempio, erano costituiti per l’82% da titoli governativi –; e dall’altra ne indirizzava le attività con istruzioni precise su come impiegare le proprie risorse.

Come negli Stati Uniti, tuttavia, il volume d’affari della borsa di Londra si ridusse enormemente, contraendosi circa dell’80% tra il 1939 e il 1941, per poi riprendersi, in parallelo con Wall Street, dal 1942 in poi. I corsi azionari infatti seguirono le vicende belliche, toccando il punto più basso nel 1940 quando la città era sotto i bombardamenti tedeschi e circa un terzo della City era in rovina. Con il lento volgere della guerra a favore degli Alleati, anche i titoli azionari recuperarono il proprio valore, con l’indice industriale che passò da 79,7 alla fine del 1941, a 93,7 nel 1942 ed infine a 103,1 registrato il 31 dicembre 1943, con un guadagno sul prezzo minimo toccato nel 1940 pari al 60%.

Tra le grandi piazze finanziarie mondiali la situazione più drammatica era, per le ripercussioni delle vicende belliche e l’invasione tedesca, sicuramente quella di Parigi. Dopo l’occupazione delle truppe naziste, i pagamenti a cui la Francia era stata imposta venivano gestiti dalla Banca di Francia e dal suo governatore Yves de Boisanger, che aprì un conto presso la Reichskreditkasse sul quale il Tesoro era costretto a versare ogni dieci giorni una rata di 4 miliardi di franchi. Fino all’aprile del 1942 timide trattative vennero portate avanti per tentare di ridurre tale cifra: questi tentativi, però, cessarono del tutto quando Pierre Laval ridivenne Primo ministro di Vichy, appunto nell’aprile del 1942, inaugurando una politica pienamente collaborativa con gli occupanti, senza nessuna preoccupazione per le possibili tendenze inflazionistiche, che portò ad un aumento dei prezzi pari all’88% di quelli registrati prima del conflitto. L’inflazione, però, contribuì d’altro canto a sostenere le attività della borsa di Parigi che, grazie all’abbondanza di liquidità, vide crescere le operazioni in maniera vertiginosa a partire dal 1941, quando si registrò un aumento dei prezzi medi delle azioni del 300%.

Le grandi banche attraversarono, come del resto in tutti gli altri paesi, un periodo di grande difficoltà, a causa della diminuzione delle operazioni di cambio e del finanziamento del commercio internazionale, che si fece decisamente scarso. In questo contesto, in Francia, cominciò a diffondersi l’abitudine di saldare le diverse transazioni in contanti, colpendo in tal modo le operazioni di sconto. Come altrove, crebbe il volume delle obbligazioni del Tesoro – che in Francia doveva, come ricordato, anche sostenere l’onere degli enormi pagamenti verso la Germania – , crescendo parallelamente anche la percentuale delle obbligazioni possedute

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dalle grandi banche: ad esempio, nel 1945, il Crédit Lyonnais aveva un portafogli costituito per il 90% da obbligazioni del Tesoro. Tra le banche private, seguendo una politica inaugurata nella Germania nazista, quelle di proprietà ebraica furono quelle che subirono maggiormente dell’occupazione tedesca e, in particolar modo, delle politiche anti-semite che il governo di Vichy perseguiva. Il Comité d’Organisation des Banques, nel 1940, identificò 30 case bancarie come ebraiche, chiudendole, come nel caso della Lazard Frères, arianizzandole oppure, come accadde alle proprietà dei Rotschild, confiscandole.

La situazione delle istituzioni finanziarie italiane durante la guerra è una delle più peculiari nell’intero panorama mondiale, soprattutto per via delle vicende belliche. Nella prima fase della guerra, ovvero tra il 1939 e il 1942, la politica monetaria e finanziaria condotta dal governo e dalla Banca d’Italia ricalca sostanzialmente quelle degli altri paesi, orientandosi verso il finanziamento della guerra e mettendo in campo strumenti finanziari per tentare di mantenere quanto più possibile una stabilità dei prezzi, che crebbero del 52%, cioè in media con gli altri paesi europei tranne, come s’è visto, la Francia, e in realtà la Germania, dove un ferreo controllo dell’economia e lo sfruttamento dei territori occupati aveva permesso un’inflazione pari solamente al 6,4%.

Il drastico andamento della guerra italiana e i bombardamenti alleati dell’autunno del 1942 fecero però sì che il paese entrò in una vera e propria crisi, inaugurando una situazione che divenne drammatica quando, con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, il paese si spezzò in due, perdendo praticamente la propria autorità monetaria sul territorio. Sia nei territori sotto il governo alleato al sud, che in quelli sotto il controllo tedesco al nord, si sperimentarono forme inflazionistiche: da una parte, al sud, esse erano dovute all’emissione delle cosiddette «am-lire» e alla totale assenza di qualsiasi controllo monetario su gran parte del territorio, dove i combattimenti distruggevano anche gran parte delle attività produttive e delle infrastrutture; al nord, invece, la Banca d’Italia, ancora formalmente autonoma sotto il governatorato di Vincenzo Azzolini, era costretta a stampare moneta per pagare le forze di occupazione tedesche. Come conseguenza, tra il 1942 e il 1945, la circolazione monetaria complessiva, sia al nord che al sud, aumentò di 4,9 volte, mentre i prezzi all’ingrosso furono maggiori di 13,5 volte e il costo della vita aumentò di 14,7 volte. Tra il settembre del 1943 e la liberazione di Roma del giugno 1944, ma in realtà fino alla conclusione del conflitto e la caduta di Hitler, la situazione italiana rimase molto difficile e caratterizzata da una enorme inflazione.

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Tra le piazze finanziarie che videro accrescere la propria importanza nel corso del conflitto ci fu certamente la Svizzera, soprattutto in virtù del fatto che la sua valuta, il franco svizzero, fu l’unica tra quelle europee che rimase convertibile in oro per tutta la durata della guerra, facendone una moneta molto ricercata. La Germania nazista, ad esempio, usava la piazza finanziaria svizzera per vendere oro contro franchi, impiegando poi questi ultimi per rifornirsi di materie prime di primaria importanza per la conduzione delle operazioni militari, come il petrolio e il tungsteno, dai paesi neutrali quali la Spagna, il Portogallo o la Turchia. L’accresciuto controllo politico delle attività finanziarie determinò, anche in Svizzera, una diminuzione delle attività e quindi dei profitti delle banche. Tuttavia, le banche svizzere continuarono a fornire servizi creditizi a molte aziende e banche tedesche: importante erano infatti i rapporti tra la Crédit Suisse e la Deutsche Banke e tra la Société de Banque Suisse e la Dresdner Bank, ma non possono essere trascurate anche le quote di investimenti svizzeri in grandi imprese come la già citata I.G. Farben. 2

3. Regolamentazione e crescita

Il sistema monetario post-bellico cominciò a nascere dalla stessa esperienza del conflitto, tanto che già durante il medesimo Stati Uniti e Gran Bretagna iniziarono a porre i primi mattoni di quell’edificio finanziario internazionale che sarebbe stato formalizzato a Bretton Woods nel luglio del 1944. Con la firma della Carta Atlantica nell’agosto del 1941 e il Mutual Aid Agreement del febbraio del 1942, le autorità inglesi e americane si accordavano infatti su alcuni principi di base che avrebbero poi costituito le basi su cui costruire i futuri accordi: se, da una parte, gli inglesi accettarono di ripristinare la convertibilità della sterlina e di rinunciare alle preferenze tariffarie imperiali fissate dalla conferenza di Ottawa del 1932; dall’altra gli americani promisero di continuare gli aiuti finanziari da destinare alla ricostruzione anche dopo la cessazione delle ostilità, nonché a rispettare la priorità che le autorità britanniche, nella ormai piena accettazione delle teorie keynesiane, davano alle politiche del pieno impiego.

Risulta essenziale sottolineare, però, come vedremo a breve, che il quadro di accordi che prese vita a Bretton Woods non funzionò, in realtà, secondo le modalità decise nel luglio del 1944, ma fu orientato in maniera progressiva dagli Stati Uniti a favorire un processo di socializzazione, orientato in due modalità: nella forma esterna di cooperazione istituzionale internazionale e in vincoli normativi scaturiti da questi incontri; e nella forma interna di omogeneizzazione dei diversi settori dei sistemi economici raccordati in schemi di contabilità nazionale. Il sistema

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dell’egemonia statunitense entrò progressivamente in vigore negli anni Cinquanta, culminando con la fissazione delle parità tra le valute aderenti al sistema decisa nel 1958, ed iniziando la sua crisi dagli inizi degli anni Sessanta in seguito ai mutati equilibri produttivi e commerciali tra i maggiori paesi industrializzati.

La cultura economica e finanziaria delle autorità americane e inglesi che gestirono i negoziati e determinarono le specifiche del sistema monetario internazionale del secondo dopoguerra – guidate da un lato da Harry D. White e dall’altro da John M. Keynes, che furono anche gli estensori dei due piani su cui si fondarono le trattative – era profondamente influenzata dalle vicende che avevano caratterizzato gli anni tra le due guerre mondiali, con particolare riferimento all’esperienza degli anni Trenta. La percezione degli errori commessi nel periodo precedente al 1939 portò alla consapevolezza di dover costruire un edificio internazionale che garantisse stabilità nei tassi di cambio, pieno impiego all’interno delle economie nazionali e cooperazione internazionale. Gli errori commessi nel periodo tra le due guerre, che avevano impedito la crescita economica internazionale, erano riconducibili ad una triade di elementi: il gold exchange standard; i tassi di cambio variabili e le svalutazioni competitive; infine, il ruolo dello Stato nell’economia.

Il gold standard, nella nuova forma che esso aveva preso a partire dalla conferenza di Genova, era durato, di fatto, solamente sei anni, a partire dal ritorno alla parità aurea della sterlina nel 1925 fino alla sospensione della medesima nel 1931. Esso era giudicato adesso come un sistema obsoleto: un meccanismo farraginoso perché troppo rigido e non adatto a sostenere la nuova organizzazione economica e produttiva mondiale. Soprattutto, come si è visto, il gold exchange standard permetteva un’allocazione asimmetrica delle riserve auree: gli Stati Uniti e la Francia, da soli, avevano accumulato nel 1924 il 53% dell’oro mondiale, mentre la continua fuoriuscita di oro dalla Gran Bretagna aveva costretto quest’ultima, per poter rimanere in regime di parità, a contrarre la propria offerta monetaria. La libera fluttuazione dei cambi secondo le forze di offerta e domanda si era dimostrata altrettanto decisiva nell’instabilità economica mondiale degli anni Trenta, permettendo il perseguimento di politiche monetarie definite di beggar-thy-neighbour, mirate quindi ad ottenere un vantaggio competitivo mediante svalutazioni competitive, come ad esempio quella serie inaugurata dalla svalutazione della sterlina nel 1931. I cambi fluttuanti, inoltre, lasciavano un ampio spazio ai flussi di capitali speculativi, che si muovevano tra le valute al solo scopo di trarne un vantaggio, appunto, speculativo, come insegnava la vicenda del franco nel periodo 1922-1926.

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L’ultimo elemento, la concezione del ruolo dello Stato, dipendeva molto dalle teorie keynesiane, ora in fase di piena affermazione, e dall’esperienza bellica, che nuovamente, come nella Prima guerra mondiale, funzionò quasi come esempio virtuoso di gestione finanziaria. Si postulava così, a Bretton Woods, il passaggio dell’intervento statale da un piano microeconomico ad un piano macroeconomico, con notevoli conseguenze sulla politica monetaria e soprattutto sul ruolo delle banche centrali all’interno di un complesso sistema politico di gestione dell’attività economica. Se in precedenza, in funzione del gold standard e poi nella speranza di un suo ripristino, la banca centrale aveva svolto il ruolo centrale di operatore di una politica monetaria che doveva essere indipendente al potere politico centrale, ora, dato che la stessa politica monetaria si inseriva in un quadro più ampio di iniziative nel quale, ad esempio, la parte maggiore veniva svolta dalla politica fiscale, anche la banca centrale si trovava in una posizione di comprimaria, subordinata al resto delle scelte di politica economica del governo.

In questo modo, seguendo un trend in corso fin dagli anni Trenta e che prosegue negli anni post-bellici, si va incontro ad un’ampia nazionalizzazione degli istituti bancari centrali: tra il 1936 e il 1945 vengono nazionalizzate le banche centrali di Danimarca, Canada e Nuova Zelanda; dopo la conclusione della guerra, è il turno dei maggiori paesi industrializzati, come la Francia, la Germania, il Regno Unito e i Paesi Bassi. Le uniche banche a non essere nazionalizzate tra i paesi più importanti furono la Fed americana e la Banca d’Italia, anche se entrambe nei loro statuti, incorporavano già forti elementi di indirizzo nel perseguimento del benessere collettivo: la Fed aveva ricevuto questo indirizzo fin dalla sua fondazione nel 1913, mentre la Banca d’Italia si era vista rafforzare le caratteristiche di istituto con finalità di interesse pubblico con la legge bancaria del 1936, che, senza alterare l’assetto proprietario, aveva trasformato l’istituto in un ente di diritto pubblico con divieto di avere rapporti creditizi con una clientela non bancaria.

Questo processo di nazionalizzazione delle banche si inseriva in un contesto di cultura economica sorretto da una idea, largamente condivisa, secondo la quale la politica del tasso di sconto, che era stata il principale strumento di politica monetaria della banche centrali fino a tutta la Prima guerra mondiale, dispiegasse i propri effetti sulla domanda aggregata con troppo ritardo. Assumendo un ruolo ancillare, quindi, gli istituti centrali avevano il compito di mantenere i tassi ai livelli minimi in compatibilità con l’equilibrio esterno, mentre sarebbe stata la politica fiscale a controllare l’andamento della domanda. In questo contesto, anche gli strumenti a disposizione delle diverse banche centrali stavano cambiando, seguendo un processo già in corso fin dagli anni Trenta che si dispiegò poi pienamente nel secondo dopoguerra. Un breve

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salto indietro nel tempo aiuta a comprender lo sviluppo dell’utilizzo dei banchieri centrali delle operazioni di mercato aperto e, in seguito, della regolamentazione della riserva obbligatoria quali strumenti volti al controllo della base monetaria.

Fin dall’inizio del Novecento le operazioni di sconto presso le banche centrali erano andate esaurendosi, soprattutto in conseguenza del processo di concentrazioni bancaria che aveva dato vita a grandi istituti strutturalmente liquidi, in grado di soddisfare le esigenze della clientela senza ricorrere allo sconto delle cambiali presso la banca centrale. Con la Prima guerra mondiale si affermò, poi, un nuovo strumento finanziario, ampiamente utilizzato proprio per finanziare, come visto nel capitolo precedente, le necessità belliche: il buono del Tesoro. L’abbondanza di questi titoli di Stato, che le banche centrali erano state costrette ad acquistare per finanziare il conflitto, fecero si che nel primo dopoguerra ci fu una certa sfiducia in operazioni di mercato aperto, nelle quali gli istituti centrali vendevano e compravano titoli direttamente sul mercato, portando all’inserimento negli statuti ad esempio della Reichsbank e della Banca di Francia del divieto di effettuare tali operazioni.

Tuttavia, operazioni di mercato aperto furono sperimentate con successo dalla Fed all’inizio degli anni Trenta con lo scopo primario di accrescere la liquidità di un sistema bancario in grande difficoltà. Queste pratiche vennero adottate, nello stesso periodo, anche dalla Banca d’Inghilterra e, su questi esempio, si verificò un’inversione di tendenza: in questo senso i divieti ad intraprendere questo tipo di operazioni furono rimossi dai regolamenti della Reichsbank nel 1933 e della Banca di Francia nel 1938, portando gli acquisti e le vendite sul mercato aperto a diventare, già alla fine della Seconda guerra mondiale, uno dei principali strumenti per controllare la liquidità dei sistemi bancari. Il livello di riferimento adottato per calcolare la base monetaria, e quindi per regolare le varie operazioni di compravendita sul mercato aperto da parte delle banche centrali, era il livello delle riserve delle banche. Regolamentando con un’apposita normativa, inaugurata nel 1933-1935 negli Stati Uniti e poi applicata anche in altri paesi, la riserva obbligatoria delle banche, che doveva essere versata dalle medesime nelle casse della banca centrale, questa diventava uno strumento di politica monetaria. Negli anni subito precedenti e immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, tali principi vennero recepiti dalle normative bancarie di un gran numero di paesi: prima della guerra si affermarono in Messico, Svezia, Austrialia, Nuova Zelanda, Ecuador e Costa Rica; in Italia essa venne introdotta da Luigi Einaudi nel 1947, mentre nel Regno Unito, tradizionalmente refrattario ad una regolamentazione scritto, il nuovo strumento fu applicato con un

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tipico comunicato della Banca d’Inghilterra che annunciava un accordo interbancario in materia.

In questo modo le banche centrale nazionalizzate venivano inserite, con nuovi meccanismi d’intervento, all’interno di una pletora di strumenti economici e monetari nelle mani delle autorità politiche. Veniva istituzionalizzato, nel secondo dopoguerra, uno dei concetti chiave del nascente sistema di Bretton Woods: l’indipendenza della conduzione della politica economica nazionale, con il fine ultime di perseguire la crescita economica e il pieno impiego, in un quadro di cooperazione monetaria basato su una regolamentazione internazionale. Questa regolamentazione fu il frutto, come accennato, di un negoziato tra i due principali paesi usciti vincitori dalla guerra: gli Stati Uniti, ormai esplicitamente la maggiore potenza industriale del mondo, e il Regno Unito.

Una asimmetrica mediazione tra i due progetti presentati da Keynes, in rappresentanza britannica, e da White per gli americani, che tendeva comunque a favorire la visione degli Stati Uniti, presero una prima forma nel Joint Statement by Experts on the Establishment of an International Monetary Fund, che divenne la bozza di lavoro principale per la stesura degli Articles of Agreement of the International Monetary Fund siglati il 22 luglio del 1944. Due erano le nuove istituzioni che venivano fondate: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nota in seguito come Banca Mondiale. Gli obiettivi principali del Fondo, come dichiarato dall’Articolo I (Purposes), dovevano essere: la promozione della cooperazione monetaria internazionale; la facilitazione della crescita economica e del raggiungimento del pieno impiego, nel rispetto dell’autonomia macroeconomica dei paesi aderenti; il mantenimento di tassi di cambio stabili al fine di evitare svalutazioni competitive, che avrebbero depresso il commercio internazionale; la creazione di un sistema di pagamenti multilaterali e la rimozione di barriere doganali o flussi di commercio discrezionali.

Se i piani di Keynes e White prevedevano, da una parte, il ripristino di un sistema di cambi variabili e, dall’altra, la costruzione di una struttura a cambi fissi, l’accordo che venne raggiunto fu quello di un sistema di cambi fissi all’interno del quale venivano però previsti degli aggiustamenti anche sostanziali. Il riferimento monetario internazionale diveniva il dollaro, la moneta del paese vincitore e della maggiore economia mondiale, unica valuta convertibile in oro alla parità in vigore il 1 luglio del 1944, ovvero di 35 dollari per oncia, il valore, cioè, a cui era stato ancorato il dollaro nel 1934. L’articolo IV degli accordi di Bretton Woods (Obligations Regarding Exchange Arrangements) prevedeva che, su questa base di riferimento, le altre valute avrebbero dovuto dichiarare il proprio tasso di cambio con il dollaro e mantenerlo nel

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corso del tempo con un margine di variazione dell’1% al di sopra o al di sotto del livello stabilito.

Tuttavia, gli accordi prevedevano un ampio margine di manovra per le autorità monetarie dei vari paesi aderenti, in quanto si concedeva, come dettato dall’Articolo XX (Final Provisions), la facoltà di cambiare la parità stabilita fino al 10% del valore originale in caso di squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti. Tale modifica poteva essere applicata senza ricorrere all’approvazione diretta da parte del Fondo, che sarebbe stata invece decisiva nell’approvare modifiche maggiori del 10%. Se, quindi, all’apparenza Bretton Woods sembra essere un sistema di cambi fissi tra le valute aderenti, esso nasconde invece degli accordi secondo i quali le valute potevano, come detto, fluttuare, portando l’architettura monetaria decisa nel 1944 ad assomigliare più ad una griglia di cambi fissi aggiustabili pensati per divenire un momento di coordinamento delle future fluttuazioni valutarie. Inoltre, è interessante sottolineare come in tutti i trentuno articoli che componevano gli accordi d’istituzione del Fondo Monetario Internazionale non vi era mai specificato cosa gli estensori del piano intendessero per «squilibrio fondamentale»; anzi, come ricordato in seguito dallo stesso White, vi fu un generale accordo circa l’impossibilità di enunciare una definizione soddisfacente di tale dicitura. La mancata definizione dei parametri che avrebbero consentito una svalutazione valutaria rispondeva alla necessità di non fissare delle rigidità che avrebbero poi ristretto i margini di manovra delle autorità monetarie nazionali in caso di necessità di modifiche delle parità valutarie pattuite.

Un altro tassello, quindi, andava a costruire l’edificio di Bretton Woods come struttura di regolamentazione sovranazionale di autonomie nazionali. Contemporaneamente, un ulteriore elemento veniva introdotto al fine di segmentare maggiormente le economie nazionali: partendo dal presupposto che le autonomie politiche dei paesi membri non sarebbero potute risultare efficaci se si fosse lasciato libero corso alla mobilità internazionale dei capitali e alle conseguenti azioni speculative destabilizzanti, vennero attribuiti controlli sulle transazioni valutarie, come prescritto dall’Articolo IV.3 (Surveillance Over Exchange Arrangements). Vale la pena ricordare che se prima della crisi del 1929 e della conseguente Grande depressione tali controlli sarebbero stati considerati una violazione delle regole fondamentali del gioco economico, sull’esperienza degli anni Trenti tali controlli diventarono la regola, formalizzata, appunto, dalla conferenza di Bretton Woods.

Quello che venne disegnato fu quindi un assetto monetario in cui l’ammontare del circolante delle diverse valute, ad eccezione del dollaro, non avrebbe più dovuto essere determinato dalla quantità di oro posseduta. Per quanto il secondo dopoguerra sia stato il

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periodo di maggior sviluppo e benessere economico mai registrato dalle economie occidentali, va sottolineato che tale successo non può essere attribuito all’ordine monetario deciso a Bretton Woods per il semplice motivo che il sistema che prese forma nel periodo successivo fu ben diverso da quello immaginato dagli architetti inglesi e americani nel luglio del 1944.

Il sistema di Bretton Woods era stato originariamente costruito per essere la cornice normativa sovranazionale all’interno della quale si sarebbe sviluppato un nuovo sistema di commercio internazionale multilaterale. Al termine del conflitto, tuttavia, il ripristino dei flussi commerciali era fortemente limitato dalle drammatiche condizioni in cui versava gran parte del continente europeo e dell’Asia: intere regioni furono spopolate e devastate; oltre diciassettemila città e settantamila villaggi furono distrutto, del tutto o parzialmente, insieme a ponti, strade, linee ferroviarie, ospedali, biblioteche, scuole e ovviamente fabbriche e aziende agricole. La stessa spina dorsale produttiva di molti paesi era quindi in ginocchio. Questa situazione, insieme alla quasi completa autosufficienza statunitense, portava all’impossibilità di ripristinare nell’immediato quel commercio internazionale che si reputava vitale per la crescita economica mondiale: impossibilitati a produrre merci competitive sul mercato internazionale e bisognosi di ogni genere di prodotto, i paesi europei sperimentavano un deficit in quel momento strutturale della bilancia commerciale che non permetteva un rapido ripristino delle parità tra le valute o la sospensione dei controlli sul commercio: queste restrizioni, infatti, sarebbero potute essere abolite senza creare ulteriore deficit, o senza portare ad una svalutazione monetaria, solamente se fosse stata ridotta la spesa interna dei paesi. Politicamente, questo sarebbe stato un peso non facilmente sostenibile.

L’immediata fornitura di aiuti alle popolazioni e ai governi degli stati europei venne gestita dall’Ambasciata americana di Londra in cooperazione con i dipartimenti governativi britannici. Nella visione americana, che permeò poi l’azione delle Nazioni Unite, si doveva seguire un percorso per tappe, che avrebbe portato prima al soddisfacimento dei bisogni primari delle popolazioni, con cibo e vestiario; poi alla riabilitazione di medio periodo, con la ricostituzione degli stock prodotti primari; infine alla ricostruzione industriale vera e propria. Con queste idee era stata fondata il 9 novembre del 1943 la United Nations Relief and Rehabilitation Administration, che aveva precisamente il compito di gestire i primi aiuti ai territori liberati. La prima tranche consisteva in beni del valore complessivo di 2,6 miliardi di dollari. Di tale cifra, il 72% era fornito dagli Stati Uniti, il 12% dal Regno Unito, il 6% dal Canada, il 2% dall’Unione Sovietica e il resto da altri paesi. Nell’agosto del 1945 venne concordata una seconda tranche di aiuti. Il Canada si ritirò e la sua quota, pari al 6%, venne assunta dagli Stati Uniti, che

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stipularono un patto unico con tutti i paesi europei, sperimentando per la prima volta un sistema che sarebbe stato poi ripetuto e implementato con il Piano Marshall.

Gli sviluppi e le dinamiche che presero vita tra il 1946 e il 1947 resero evidente come il sistema immaginato un paio di anni prima a Bretton Woods avrebbe avuto una lenta applicazione, e soprattutto sarebbe stato attuato con deviazioni sostanziali da quanto stabilito nel luglio del 1944. A questo processo contribuirono alcuni problemi strettamente connessi tra loro: la permanenza di accordi commerciali bilaterali e il lento e sostanzialmente deludente progresso di accordi commerciali multilaterali; la permanenza dei controlli sul commercio e sui cambi, ai quali i paesi europei erano praticamente obbligati dalla disastrosa condizione post-bellica; infine, la scarsità di dollari in Europa.

Alla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti erano il paese con la produzione industriale maggiore al mondo. Alla fine degli anni Quaranta, ad esempio, le aziende statunitensi producevano quasi il 50% dei beni manifatturieri mondiali e la produzione industriale registrata nel 1947 era superiore a quella di dieci anni prima del 42%. D’altro canto i paesi dell’Europa continentale e dell’Asia, che avevano subito enormi distruzioni durante la guerra, non erano in grado di pagare le importazioni necessarie di beni, né quelli di prima necessità, né quelli necessari alla ripresa industriale. Nel 1947, i paesi europei nei quali si concentravano le aree distrutte dal conflitto, importarono merci per un ammontare di 20,2 miliardi di dollari, mentre le esportazioni e le altre entrate correnti furono pari a 13,1 miliardi di dollari, determinando un deficit della bilancia dei pagamenti di 7,1 miliardi di dollari e portando alla scarsità di dollari.

In questo contesto caotico vennero inaugurati i progetti tendenti alla liberalizzazione commerciale proprio con l’idea di risolvere le strozzature esistenti mediante un coordinamento della riduzione delle tariffe. Questi progetti andarono incontro ad un sostanziale fallimento ma, sorprendentemente, finirono per dar vita ad un accordo, il GATT, che, sebbene lontana da quella immaginata e con regole a volte anche macroscopicamente violate dai partecipanti, ebbe un notevole successo sul lungo periodo. Già nel dicembre del 1945, gli Stati Uniti resero noto un piano per istituire un’organizzazione internazionale del commercio, la International Trade Organization (ITO), invitando gli altri paesi, compresa l’Unione Sovietica, a unirsi ai negoziati che sarebbero iniziati con un primo incontro nell’ottobre del 1946 a Londra, per discutere la stesura di una carta del commercio internazionale sulla base di un lavoro preparatorio di un comitato internazionale sorto nel febbraio dello stesso anno. I negoziati proseguirono per tutto il 1947 ed infine, a marzo del 1948 durante la conferenza dell’Avana, venne

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stilata la cosiddetta Carta dell’Avana, ovvero il Final Act of the United Nations Conference on Trade and Employment.

L’ITO, però, non entrò mai in funzione in quanto non venne mai ratificato dal Congresso americano, anche per via delle forti pressioni britanniche che riuscirono a far inserire nel trattato l’adozione in una molteplicità di circostanze di discriminazioni commerciali e restrizioni quantitativa. Il fallimento dell’ITO è anche legato al successo ottenuto dalla prima sessione del General Agreement on Tariffs and Trade, che si era tenuta a Ginevra nell’aprile del 1947. Fondato su due principi fondamentali – un approccio multilaterale e non discriminatorio e la condanna di restrizioni quantitative al commercio, il GATT venne ratificato da 23 paesi nell’ottobre del 1947, che diedero vita, dopo il primo round di negoziati, a 123 accordi su 45.000 voci daziarie, che rappresentavano all’incirca la metà del commercio mondiale. Nonostante persistessero differenze di prospettive tra americani e britannici, che si ripeterono durante i successivi round, il sistema proseguì, come proseguirono le preferenze commerciali del Commonwealth perseguite dal Regno Unito.

Nello stesso periodo di tempo, un altro evento si accompagnò alle vicende dei trattati commerciali del GATT, finendo per dare linfa vitale all’inaugurazione del Piano Marshall, senza il quale la ripresa della produttività industriale europea, e quindi i relativi flussi commerciali internazionali, sarebbe stata difficile. Fu, infatti, il ritorno alla convertibilità della sterlina nell’estate del 1947 – convertibilità subito sospesa dopo poco più di un mese – che rese evidente le reali difficoltà della ripresa industriale europea e le necessarie azioni da intraprendere.

All’interno dell’accordo anglo-americano American Loan Agreement, siglato il 15 luglio 1946 per rimpiazzare il Lend-Lease, conclusosi il 2 settembre del 1945, il Regno Unito aveva accettato, in cambio di prestito americano pari a 3,85 miliardi di dollari, di tornare alla convertibilità della sterlina entro un anno. Questo percorso era coerente con quanto stabilito a Bretton Woods nell’ottica di un rapido ripristino di un sistema commerciale internazionale funzionale all’egemonia americana, che prevedeva, oltre il ritorno alla convertibilità, la fine delle preferenze commerciali imperiali del Regno Unito con i paesi del Commonwealth. La convertibilità della sterlina, scambiata con 4,03 dollari, fu così ripristinata precisamente il 15 luglio del 1947. Le settimane di convertibilità furono un vero e proprio disastro finanziario: la Banca d’Inghilterra vide diminuire molto rapidamente le proprie riserve – si calcola che perse un miliardo di dollari nel giro di appena un mese – e fu costretta a sospendere la convertibilità già il 20 agosto.

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Gli Stati Uniti ottennero così, da una parte, l’indebolimento dell’uso della sterlina quale valuta di riserva internazionale, il cui prestigio minava i progetti dell’egemonia del dollaro; e dall’altra, una minor pressione sulla domanda internazionale di valuta statunitense. Quest’ultima condizione, favorendo, insieme al contemporaneo Piano Marshall, un rilancio dell’attività produttiva europea, gettò le basi per la creazione di quella domanda di beni che sarebbe poi stata soddisfatta dal settore industriale americano negli anni successivi.

Il problema della scarsità di dollari si manifestò nel biennio immediatamente successivo alla conclusione della guerra. Già agli inizi del 1947 un Comitato di coordinamento inter-ministeriale di alti funzionari statunitensi degli Esteri, della Marina e della Guerra avvisarono il governo che le esportazioni statunitensi del biennio 1946-1947 sarebbero potuto essere assorbite dal resto del mondo solamente per altri 12 o 18 mesi. Il credito internazionale era infatti molto limitato, il programma di aiuti dell’UNRRA stava per concludersi e le riserve di valuta estera dei paesi importatori si stavano per esaurire. Conseguenza di tale situazione internazionale, avvisava il medesimo comitato, avrebbe portato ad un declino delle esportazioni americane con conseguenze decisamente negative in termini di attività industriale e occupazione interna. La soluzione che veniva immaginata dai funzionari americani era l’embrione di quello che sarebbe diventato il Piano Marshall, cioè un massiccio programma di aiuti diretti a finanziarie la crescita europea e, di conseguenza, il flusso delle esportazioni.

Su queste linee programmatiche si basava il discorso tenuto da George Marshall, segretario di Stato statunitense, il 15 giugno del 1947 all’università di Harvard. Occorre sottolineare come le raccomandazioni del comitato inter-ministeriale e lo stesso discorso di Harvard precedono la crisi della sterlina dell’estate di quello stesso 1947. Eppure, va parimenti evidenziato come l’iter dei negoziati internazionali con i partner europei che portarono all’approvazione del Piano Marshall iniziò solamente dopo quella disastrosa esperienza, che suggerì alle autorità statunitensi che era impossibile immaginare un mondo di commerci liberalizzati senza prima offrire un programma di aiuti finanziari indirizzato a far riprendere l’attività industriale europea.

Dopo la proposta statunitense, i partner europei – ad esclusione del blocco dell’est che venne ancorato all’Unione Sovietica, che aveva rifiutato gli aiuti statunitensi – si riunirono così in due conferenze per delineare la futura cooperazione economica europea nella gestione dei fondi americani: una prima bozza di lavoro venne stilata nel corso della prima di tali conferenze, tenutasi a Parigi nel luglio del 1947. Preparato dalla formulazione

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della cosiddetta dottrina Truman in funzione anti-sovietica, in un nascente clima di guerra fredda, l’Economic Cooperation Act fu approvato dal Congresso americano il 17 marzo del 1948, dando il via allo European Recovery Plan (ERP). Contestualmente dall’altra parte dell’Atlantico, al termine della seconda riunione dei partner europei nasceva, il 16 aprile del 1948, l’Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE), incaricata di gestire i 13.159 milioni di dollari che l’ERP mise a disposizione dell’Europa tra il 1948 e il 1952.

Questa somma venne suddivisa tra i vari paesi europei in modo diseguale: il Regno Unito fu il paese maggiormente finanziato, ricevendo 3,176 milioni di dollari, seguito dalla Francia con 2.706, l’Italia con 1.474 e la Germania occidentale, che ricevette 1.389 milioni di dollari. L’allocazione dei fondi dimostra come la paura anti-comunista, se fu essenziale per la ratifica del piano di aiuti dal Congresso, non lo fu nello stesso modo nell’ispirare le forme della messa in atto del Piano Marshall: il Regno Unito, ad esempio, il paese più finanziato, non correva alcun pericolo di vedere arrivare un partito comunista al potere. La logica che guidava i finanziamenti sembrava, più che altro, corrispondere al volume del commercio estero nazionale, andando a finanziarie maggiormente quei paesi che importavano una quota maggiore delle esportazioni statunitensi.

L’efficacia del Piano Marshall fu principalmente quella di risolvere l’impossibilità di importare delle economia europee che, una volta rimosso tale ostacolo, furono in grado di riequilibrare il rapporto tra domande potenziali e offerta aggregata, portando ad una rapida crescita. È stato calcolato che, al 1952, la produzione industriale dei paesi dell’OECE era stata del 39%, mentre le esportazioni erano cresciute del 200% e le importazioni di più del 30%.

La carenza di dollari non fu eliminata ma venne significativamente moderata. Tuttavia, nell’immediato, le speranze in una rapida ripresa del commercio internazionale vennero frenate dalla breve recessione economica statunitense del biennio 1948-1949, che provocò una diminuzione delle importazioni americane dall’Europa, portando ad aumentare la carenza di dollari nel vecchio continente. I paesi più colpiti furono quelli dell’area del Commonwealth, ma non il Regno Unito, in quanto tra quei paesi vi erano i maggiori produttori delle materie prime necessarie all’industria americana: le importazioni statunitensi calarono del 50% nel primo e nel terzo trimestre del 1949, mettendo in crisi le economie di quei paesi e, di concerto, anche il Regno Unito. Il deflusso di oro inglese fu molto rapido, tanto che tra luglio e settembre 1949 vennero persi 300 milioni di dollari in oro, finché la Banca d’Inghilterra fu costretta, il 18 settembre, a svalutare la

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sterlina. Entro una settimana altri 23 paesi svalutarono le proprie valute e altri sette nel periodo successivo, mentre le sole valute che rimasero ancorate alle proprie parità furono il dollaro statunitense, il franco svizzero, lo yen giapponese e qualche moneta dei paesi latino-americani e dell’Europa dell’Est.

Le svalutazioni, insieme all’esaurirsi della crisi americana alla fine del 1949 e lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, ebbero gli effetti desiderati dalle autorità monetarie, tanto che le riserve auree del Regno Unito triplicarono nei due anni successivi, portando ad un miglioramento della posizione anche di numerosi altri paesi. Tuttavia queste esperienze facevano crescere la necessità di immaginare qualche istituzione monetaria regionale europea, che affiancasse il Fondo Monetario Internazionale nella gestione dei pagamenti intra-europei. Dalla dichiarazione della parità ufficiale del dicembre del 1946 furono infatti necessari dodici anni per costruire un sistema finanziario, in cui lo scambio di flussi e stock avvenisse in modo efficace: l’esito fu la convertibilità tra le valute europee del 1958.

L’obiettivo di addivenire a tale scenario era condiviso anche dall’amministrazione americana dell’ERP, soprattutto per via degli effetti positivi che l’integrazione finanziaria e la conseguente crescita europea avrebbero avuto per le esportazioni statunitensi. Vi fu, quindi, un impegno positivo nello stimolare una progressiva cooperazione tra le economie dei paesi europei, marcando un decisivo cambiamento di atteggiamento rispetto al primo dopoguerra.

Lo strumento principale per formalizzare di questo disegno fu l’Unione Europea dei Pagamenti (UEP), istituita il 19 settembre del 1950 dai paesi dell’OECE con sede a Basilea, con un iniziale programma di funzionamento della durata di due anni, rinnovabile annualmente, che venne esteso fino alla fine del 1958. Gli Stati Uniti giocarono un ruolo essenziale nella costruzione di questo strumento, versando il capitale iniziale per una cifra pari a 350 milioni di dollari. Il funzionamento della UEP era abbastanza semplice, funzionando come una sorta di stanza di compensazione continentale: alla fine di ogni mese ogni paese membro avrebbe sistema la sua posizione circa i debiti e crediti con l’Unione nel suo complesso, che sarebbero poi stati saldati in dollari, oro o ulteriori aperture creditizie.

Contestualmente, i paesi dell’OECE approvarono anche, nel giugno del 1950, un Codice di liberalizzazioni che all’Articolo II prevedeva la riduzione delle barriere tariffarie del 60% entro ottobre del 1950 e del 75% entro febbraio del 1951. Seppur con risultati diversi a seconda dei paesi, non si può negare che il successo della UEP e del connesso Codice di liberalizzazioni fu

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importante. In media, infatti, i paesi dell’OECE liberalizzarono il commercio per il 67% delle merci, con i seguenti dati riferiti ai singoli paesi più importanti: il Regno Unito faceva registrare la percentuale più alta, con l’86% della liberalizzazione; seguiva l’Italia con il 76%, la Francia e i Paesi Bassi con il 66%, il Belgio e il Lussemburgo con il 64% ed infine la Germania con il 63%.

È interessante osservare come l’Unione Europea dei Pagamenti e il Codice di liberalizzazioni del 1950, se da una parte rappresentano un’applicazione regionale dei principi espressi da Bretton Woods, dall’altra raffigurano anche la sostanziale distanza che lo scenario internazionale prese giù a partire dalla fine degli anni Quaranta dal modello disegnato dagli anglo-americani nel luglio del 1944. La liberalizzazione dei commerci con l’eliminazione delle barriere tariffarie, insieme alla creazione di un sistema di pagamenti multilaterale, costituivano infatti il cuore degli Articles of Agreements di Bretton Woods e, paradossalmente, trovarono la propria piena attuazione in un sistema integrato a livello macro-regionale europeo, che dal 1950 in poi rimosse progressivamente gran parte degli ostacoli al commercio intra-europeo. Tali accordi nati in seno all’UEP con il decisivo sostegno iniziale degli Stati Uniti apparivano però in pieno contrasto con lo stesso Bretton Woods, segnando un sostanziale allontanamento dallo stesso. Ammettendo la nascita di un mercato integrato europeo, e quindi implicitamente di pratiche commerciali discriminatorie in antitesi sia con Bretton Woods che con il GATT, gli Stati Uniti abbandonavano la propria idea di creazione di un sistema di scambi liberalizzati su scala mondiale al fine di sostenere la crescita economica dei paesi che avevano la quota maggiore di assorbimento delle esportazioni americane, ovvero i paesi dell’OECE.

Anche la formazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nata nel 1951 in seguito ad un percorso che iniziò con un discorso del ministro degli esteri francese Robert Schuman del maggio del 1950, veniva alla luce sotto l’egida degli Stati Uniti ma in palese violazione dei principi di non discriminazione e delle norme del GATT. La CECA aveva come obiettivo principale l’integrazione dell’intera produzione franco-tedesca del carbone e dell’acciaio, ponendola sotto l’autorità di un’organizzazione alla quale partecipavano anche gli altri paesi europei, includendo così anche i paesi del Benelux e l’Italia.

Il mutamento negli indirizzi di politica economica internazionale degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa occidentale sembra, quindi, essere stato decisamente influenzato dalle crisi del periodo 1947-1949, che fecero emergere chiaramente l’impossibilità di affrontare le difficoltà della ricostruzione e della crescita economica europea in un mondo completamente liberalizzato. Nello stesso periodo, con

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il rifiuto del Piano Marshall da parte dell’Unione Sovietica e l’inizio della Guerra fredda, anche motivi politici intervennero nel cementare quell’interesse statunitense a guardare con interesse maggiore alla crescita europea che al modello monetario e commerciale internazionale immaginato a Bretton Woods: la discriminazione commerciale diventava così strumentale, sia da un punto di vista economico che da un punto di vista politico, per il conseguimento dell’egemonia statunitense.

L’organizzazione internazionale della finanza e del commercio che cominciò ad emergere agli inizi degli anni Cinquanta fu, comunque, essenziale nel fornire una struttura di sostegno alla ripresa della crescita economica mondiale, dando sostanzialmente luogo ad un mondo che, alla metà degli anni Cinquanta, quando i presupposti per il ritorno alla convertibilità tra le valute erano stati raggiunti, era diviso in due aree separati da controlli sui cambi: un’area che si fondava sull’Unione Europea dei Pagamenti, che includeva anche l’area della sterlina; e un’altra area basata sul dollaro. Gli Stati Uniti, dal canto loro, ammisero uno strutturale deficit della propria bilancia dei pagamenti, attraverso il quale venne alimentata la crescita della liquidità internazionale e la crescita delle economie europee.

Le aree non industrializzate del mondo beneficiarono, per tutto il periodo, di aiuti statali di altri paesi che divennero, alla fine degli anni Quaranta, una fonte di approvvigionamento di capitali necessaria per far fronte ai pagamenti internazionali. Tra il 1953 e il 1957 i paesi meno sviluppati ricevettero 2.000 milioni di dollari all’anno di prestiti ufficiali, elargiti sia dai vari Stati che dalla Banca mondiale. Quest’ultima era restia al finanziamento di strutture per l’istruzione e la sanità, in quanto esse fornivano un apporto all’aumento della produzione difficilmente quantificabile, e si concentrava invece sul finanziamento di impianti elettrici, ferrovie e reti stradali. I paesi non industrializzati, dipendenti dai paesi avanzati per l’importazione di capitali, lo furono anche per le loro esportazioni: in più, venendo a mancare l’applicazione pratica dei principi di non discriminazione che erano stati affermati a Bretton Woods e con il GATT, sia la finanza che il commercio si distribuirono fortemente tra i paesi in base alle aree alle quali essi si legavano: i paesi che facevano parte, ad esempio, dell’area della sterlina e ai territori dell’Europa occidentale, insieme a Cuba, videro un aumento delle proprie esportazioni del 227% nel periodo 1928-1955, mentre i paesi che non avevano tali legami internazionali videro aumentare, negli stessi anni, le loro esportazioni solo della metà di quella percentuale.

Il sistema di Bretton Woods, diverso in numerosi aspetti da quello ideato dai suoi architetti, entrò infine pienamente in vigore il 31 dicembre del 1958, quando tredici paesi dell’Europa occidentale

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ripristinarono la convertibilità delle proprie valute, grazie soprattutto al costante disavanzo nella bilancia dei pagamenti statunitense che aveva permesso una redistribuzione delle risorse verso il resto del mondo. Se, infatti, nel 1948 gli Stati Uniti possedevano più del 60% delle risorse monetarie globali, nel 1958 questa percentuale era calata a meno del 50%. L’FMI ufficializzò poi, nel 1961, la nuova situazione di convertibilità monetaria aggiornando l’elenco delle nazioni che soddisfacevano i criteri dell’articolo VIII degli accordi.

4. Apogeo e crisi dell’egemonia americana

Nel periodo che va dalla fine della guerra di Corea alle crisi petrolifere degli anni Settanta, che come perno centrale nella storia finanziaria mondiale il ripristino delle parità valutarie del 1958, si verificò una fase di espansione economica su scala mondiale, che coinvolse, contemporaneamente, un gran numero di paesi. Se da una parte i governi applicavano politiche economiche miranti a sostenere la domanda aggregata, dall’altra il GATT divenne centrale nel processo di abbassamento delle barriere doganali che liberalizzarono lo scambio di manufatti tra i paesi industrializzati e anche quello delle materie prime. I flussi commerciali e finanziari subirono gli effetti delle scelte di politica economica sia dei paesi industrializzati, che diventarono il centro del sistema grazie alla loro capacità di innovazione tecnologica e di esportazione dei capitali, e i paesi in via di sviluppo, che si costituirono come periferia del sistema, esportatrice di materie prime e importatrice di capitali. In questo modo, l’offerta si compone attraverso i fattori delle materie prima, da parte dei paesi in via di sviluppo, e del fattore dell’innovazione tecnologica, sviluppato dai paesi industriale; la domanda, invece, è sostenuta dalla crescita del reddito disponibile nei paesi industrializzati promosso attraverso politiche monetarie.

4.1. Il centro del sistema: i paesi industrializzati

Gli investimenti tecnologici che avevano come obiettivo l’innovazione di prodotto e di lavorazione furono uno dei tratti distintivi dei paesi industrializzati in questo periodo. Non c’è da stupirsi se i paesi più ricchi erano anche i paesi con il più alto livello di progresso tecnico del periodo. Tra questi, gli Stati Uniti primeggiavano senza rivali, fondando questa leadership su un più alto rapporto tra Pil e spese per ricerca e sviluppo; al secondo posto, gli americani erano seguiti dalla Gran Bretagna e, poi, dalla Germania dell’ovest. È stato rilevato che su cento delle maggiori innovazioni tecnologiche introdotte nel periodo 1945-1970, infatti,

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sessanta furono sviluppate da aziende americane, quattordici dai britannici e undici da imprese tedesche.

Più della metà degli investimenti in ricerca dei paesi dell’OCSE e degli Stati Uniti erano destinati a finanziari gli sviluppi tecnologici del settore industriale, mentre quasi i tre quarti degli investimenti privati si concentravano nei settori dell’elettronica, della chimica, dell’elettricità e dei mezzi di trasporto. I medesimi settori erano anche le aree in cui si concentrava la spesa pubblica, con l’aggiunta del settore aereospaziale.

I settori industriali nei quali si concentrarono maggiormente gli investimenti, pubblici o privati che fossero, furono anche i settori che registrarono la maggiore crescita economica. Tuttavia, ne furono avvantaggiati anche i settori che dipendevano, per le materie prima e i macchinari utilizzati, dalle aree produttive che si stavano sviluppando con più rapidità. L’industria tessile, ad esempio, si trasformò nel corso degli anni Sessanta in un settore ad alta intensità di capitale, in quanto la produzione dei nuovi macchinari finiva per impiegare i progressi tecnologici raggiunti in altri settori produttivi, mettendo a frutto gli studi sui materiali, la tecnologia delle fibre, l’idrodinamica, l’aerodinamica e, in seguito, l’elettronica, che fece si che dal 1970 in poi le tecniche con controllo numerico furono applicate nella produzione dei macchinari.

Lo sviluppo di nuove tecnologie applicate ai vari settori industriali, seppur con epicentri nazionali caratterizzati dall’asimmetria segnalata in precedenza, si diffuse al di fuori dei paesi innovatori molto rapidamente e in vari modi diversi. Un ruolo chiave in questo senso venne giocato dalle grandi imprese multinazionali, che diffondevano gli sviluppi tecnologici attraverso i rapporti tra le imprese principali e le loro filiali sparse in diversi paesi del mondo. Un altro canale di trasferimento tecnologico tra paesi era costituito dagli aiuti internazionali che i paesi sviluppati fornivano ai paesi meno industrializzati, anche se l’adeguatezza della tecnologia in questi contesti era spesso dubbia visti i costi, a volte eccessivi, per adeguare gli impianti e il sistema economico – si pensi ad esempio all’abbondanza di manodopera o alla scarsità di capitali – dei paesi più poveri. Ad esempio, in America latina, nel periodo compreso tra il 1939 e il 1973 l’utilizzo di tecnologie che utilizzavano il petrolio, in sostituzioni di tecniche che comportavano un minor uso di energia o che erano basate su altre risorse d’energia localmente disponibili, portò ad un aumento del 500% della domanda di petrolio: in Brasile ed Argentina, durante gli anni Settanta, ad esempio, il 25% della valuta estera a disposizione veniva utilizzato per l’acquisto di petrolio.

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L’architettura mondiale degli scambi fu profondamente influenzata dal progresso tecnologico post-bellico, che ebbe un notevole impatto nel modulare i flussi commerciali sia con innovazioni di processo, che con innovazioni di prodotto: la prima derivante dall’asimmetria nello sviluppo tecnologico tra paesi, che produceva vantaggi comparati nello scambio di manufatti; la seconda derivante, invece, dalla crescente varietà di nuovi prodotti.

In seguito alla guerra di Corea, per tre decadi l’area che registrò il maggior aumento negli scambi commerciali fu quella dei paesi industrializzati, che scambiavano tra loro principalmente prodotti di scala e meccanici, mentre importavano dai paesi in via di sviluppo una grande percentuale di prodotti tessili standardizzati. In generale, la maggior parte del commercio di manufatti tra paesi industrializzati si svolgeva nell’ambito di settori industriali simili: più del 60% degli scambi nei dieci paesi che, da soli, fornivano il 58% delle esportazioni a livello mondiale, si svolgevano in ambito intra-settoriale. Questi si dividevano in prodotti tra loro diversi ma perfettamente sostituibili, oppure nello scambio di semilavorati e componenti tra varie filiali tra loro verticalmente integrate e proprietà di una stessa società multinazionale. I paesi in via di sviluppo fornivano invece quote importanti di esportazioni di prodotti standardizzati, in particolar modo nel campo dell’abbigliamento.

Gli Stati Uniti, che nel periodo post-bellico avevano incrementato il loro vantaggio tecnologico e, quindi, le capacità di innovazione, fondavano la propria industria su una manodopera qualificata e sull’esportazione di prodotti che necessitavano di un alto livello di ricerca e sviluppo, che erano anche meno soggetti alla sostituzione di beni d’importazione. Il Giappone fu uno di quei paesi cosiddetti inseguitori, insieme alla Germania, durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Le spese per l’acquisto di brevetti e licenze straniere, che toccarono quota 250 milioni di dollari nel 1969 a partire dai 20 milioni registrati nel 1955, consentirono al paese di ridurre gradualmente il gap tecnologico con gli Stati Uniti. In questi decenni, la Germania raggiunse la Gran Bretagna sul terreno delle esportazioni, essendo la competitività inglese decisamente in declino, nonostante la svalutazione della sterlina nel 1967 ridiede un piccolo slancio alle industrie inglesi, mentre l’Italia divenne uno tra i maggiori esportatori al mondo grazie al miglioramento della competitività dell’industria nazionale.

Questa nuova struttura dei flussi commerciali fondò molto del suo successo sul GATT, sebbene quest’ultimo venne sviluppato secondo direttive in parte diverse da quelle con cui era sorto, permettendo ai paesi partecipanti di scegliere i prodotti e le voci dove erano più disponibili a fare concessioni tariffarie. L’esempio più macroscopico fu quello europeo. I sei paesi che avevano dato

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vita alla CECA, infatti, siglarono nel 1957 il Trattato di Roma con il quale venne costituita la Comunità Economica Europea (CEE), stabilendo le regole del mercato comune, tra le quali vi era l’adozione di una tariffa comune da applicare negli scambi commerciali con gli altri paesi del mondo. Lasciata fuori da questa iniziativa, la Gran Bretagna promosse come misura temporanea l’Associazione Europea per il Libero Scambio (EFTA), che coinvolse i paesi rimasti fuori dalla CEE.

Nel 1962, inoltre, l’amministrazione Kennedy promosse il Trade Expansion Act, pensato per includere la Gran Bretagna nel mercato europeo attraverso importanti riduzioni tariffarie unite alla completa eliminazione dei dazi in quei prodotti in cui Stati Uniti e CEE detenevano più dell’80% delle esportazioni a livello mondiale. Anche se Da Gaulle, attraverso il veto posto nel 1963, bloccò la richiesta di adesione della Gran Bretagna, il successo dell’allargamento del libero mercato fu evidente: durante il cosiddetto Kennedy Round, i dazi vennero ridotti dai paesi industrializzati del 70% sulle rispettive importazioni, esclusi i cereali, la carne e i prodotti caseari.

Il generale abbassamento delle barriere doganali e l’aumento vertiginoso degli scambi commerciali diedero il via anche ad un aumento dei flussi di capitali che, ricominciando a crescere tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, provocarono un rimescolamento nelle gerarchie internazionali, rappresentando un punto di svolta nelle relazioni finanziarie internazionali e riportando in auge la City londinese. La rinascita di Londra si fondò sull’uso di due nuovi elementi che, alla fine degli anni Cinquanta, comparvero sui mercati mondiali: gli eurodollari e le eurobbligazioni.

È possibile rintracciare la genesi dei cosiddetti eurodollari agli inizi degli anni Cinquanta quando crescenti quantità di dollari cominciarono a venire depositate presso numerose banche europee, la maggior parte delle quali a Londra. L’origine di tali depositi era varia. Da una parte essi provenivano dagli investimenti statunitensi, in particolar modo quelli delle grandi multinazionali, dagli aiuti alle popolazioni civili e dalle spese per il mantenimento delle truppe all’estero, a cui si aggiungeva però, con intensità crescente con il passare degli anni, il deficit della bilancia di pagamento statunitense. Un’altra ragione che stimolò la nascita degli eurodollari fu certamente la Guerra fredda, che portò l’Unione Sovietica e i paesi dell’est Europa a depositare i propri attivi in dollari nelle banche europee, in quanto temevano che un peggioramento nelle relazioni internazionali con gli Stati Uniti, sempre possibile, avesse potuto comportare un congelamento di quei fondi se depositati in banche americane.

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Un ruolo importante nella crescente disponibilità di dollari delle banche europee e inglesi si deve anche alla cosiddetta Regulation Q americana, che stabiliva un massimale per gli interessi pagati sui depositi bancari statunitensi, e alle sue conseguenze in ambito internazionale. Il massimale, infatti, poteva, e così avvenne, essere superato dalle banche inglesi, che offrendo tassi d’interesse maggiori attiravano flussi in dollari. Questa pratica finanziaria fu inaugurata dalla Midland Bank, che nel giugno 1955 offrì un tasso pari all’1,8% su depositi a trenta giorni in dollari, mentre la regolazione statunitense fissava il massimo all’1%: attirando dollari, la banca inglese li rivendeva poi sul mercato interno in cambio di sterline, ricomprando poi a termine i dollari e guadagnando attraverso l’arbitraggio sui tassi di interessi. Il divieto introdotto in Gran Bretagna di denominare in sterline i finanziamenti agli scambi con paesi terzi, per interrompere il ribasso della sterlina, rese ancora più vantaggioso sostituire la valuta inglese con il dollaro nelle transazioni internazionali, specialmente da parte delle banche che operavano oltremare, come la Kleinwort e la Bank of London and South America.

Quando nel dicembre del 1958 le valute europee tornarono alla convertibilità reciproca, vi fu un graduale abbassamento dei controlli sui flussi di capitale e una crescita rapida del mercato degli eurodollari, i quali costituivano una fonte di credito di enorme quantità. Usando i fondi che provenivano in massima parte dalle multinazionali americane, infatti, le banche inglesi finanziavano il commercio internazionale e i prestiti a breve: se nel 1958 questo mercato contava un giro d’affari di 1,5 miliardi, nel 1973 si arrivò a toccare quota 130 miliardi di dollari.

Velocemente, sull’onda dell’aumento dei prestiti bancari denominati in dollari, i banchieri della City londinesi cominciarono ad emettere obbligazioni, denominate sempre in dollari ma emesse su Londra anziché su New York, alle quali la Banca d’Inghilterra diede il suo nulla osta nel luglio del 1962. La prima emissione di eurobbligazioni può essere rintracciata in un’operazione del maggio del 1963, condotta dalla merchant bank Samuel Montague che aveva collocato, per conto del governo del Belgio, un prestito di 20 milioni di dollari. Poche settimane dopo fu la volta della prima eurobbligazione destinata ad un’impresa privata: Sigmund Warburg, infati, nel gennaio 1963 siglò un accordo con Autostrade Italiane, al tempo una controllata dell’IRI, alla quale venne accordato un prestito di 15 milioni di dollari, ad un tasso d’interesse del 5,5% e per una durata di sei anni, che venne effettivamente emesso il primo luglio dello stesso anno.

L’emissione delle eurobbligazioni divenne ancora più vantaggiosa all’indomani dell’introduzione negli Stati Uniti della Interest Equalization Tax, il 18 luglio 1963: questa imposta sul

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rendimento dei prestiti esteri emessi negli Stati Uniti determinò, infatti, un aumento dei costi d’emissione delle obbligazioni estere. Questo portò, in appena cinque anni dal loro primo apparire, le eurobbligazioni a raggiungere i 4 miliardi di dollari all’anno, con vantaggi per tutte le parti coinvolte, data la mancanza di un obbligo a presentare documentazione particolare da parte dei debitori – visto che i prestiti non erano soggetti alla legislazione di alcun paese – , nonché dato l’anonimato e l’esenzione da imposte alla fonte, che avvantaggiava gli investitori.

Un’ultima tipologia creditizia cominciò a nascere in Europa alla metà degli anni Sessanta, coprendo il settore dei prestiti a medo termine, con scadenze a 10-15 anni. Gli eurocrediti furono prestiti interbancari a tasso variabile, finanziati in eurodollari, più flessibili rispetto alle obbligazioni e per questo appetibili da un vasto mercato. La prima a emettere questo tipo di forma di credito fu la First National City Bank nel maggio del 1966. Successivamente, il successo riportato dagli eurocrediti portò all’organizzazione di consorzi di credito che riunivano più istituti bancari, come ad esempio quello, che ammontava a 15 milioni di dollari, organizzato nel giugno del 1966 dalla Bank of London and South America, e quello, pari a 100 milioni, gestito dalla Lehman Brothers e dal Bankers Trust International per l’Austria. In generale, gli eurocrediti crebbero dai 2 miliardi di dollari del 1968, fino ai 20 miliardi registrati nel 1973.

Come visto, il processo di accumulazione di dollari nei paesi europei, in primo luogo in Gran Bretagna, occupò tutto il decennio degli anni Sessanta, fin dai primissimi anni successivi al ripristino della convertibilità delle divise monetarie dei principali paesi europei. Il dollaro, quindi, si stava imponendo sempre più come moneta chiave dell’economia internazionale, in quanto, oltre ad essere l’unità di conto delle importazioni e delle esportazioni, veniva utilizzato anche come mezzo di scambio delle transazioni interbancarie e come moneta di riserva di Stati e privati. Questa dipendenza dal dollaro si rivelò come uno degli elementi decisivi nell’incrinare il funzionamento dell’intero sistema: paradossalmente, proprio nel momento in cui Bretton Woods entrò pienamente in vigore, nel 1959, i suoi meccanismi mostrarono i segni di una debolezza che si manifesterà esplicitamente solo un decennio più tardi.

Il sistema si evolveva, infatti, in modo squilibrato: come notato fin dal 1947 da Robert Triffin, economista belga a Yale, l’instabilità del sistema di Bretton Woods era dovuta proprio all’aumento dei saldi esteri denominati in dollari, che portava ad un parallelo aumento delle riserve internazionali, sempre in dollari. Proprio l’accumulo di dollari era il nodo centrale della questione: infatti, detenere dollari era conveniente fin quando non sussistevano dubbi

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sulla capacità degli Stati Uniti di onorare la convertibilità in oro. Ma la fiducia nelle possibilità statunitensi cominciò a vacillare fin dall’inizio degli anni Sessanta, quando i conti in dollari del resto del mondo incombevano sulle riserve auree americane: nel 1960, per la prima volta, le passività monetarie in divisa estera superarono l’ammontare delle riserve auree americane; nel 1963, invece, i debiti americani verso l’estero superarono il debito interno. Se un paese estero avrebbe richiesto di convertire in oro i proprio saldi in dollari avrebbe scatenato una corsa internazionale alle riserve auree statunitensi, costringendo gli Stati Uniti alla svalutazione.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, il problema che si poneva alle autorità monetarie e finanziarie mondiali era duplice: da una parte accrescere le liquidità internazionali necessarie a sostenere la crescita economica; dall’altra trovare uno strumento di liquidità da sostituire al dollaro, che, come visto, mostrava i primi segni di sofferenza nelle pressioni a cui veniva sottoposto dalla sua convertibilità aurea. Già nel 1959, infatti, era stato preso atto che l’economia mondiale era cresciuta enormemente rispetto al 1944, portando così ad un aumento delle quote dell’FMI pari al 50%; quest’aumento, tuttavia, dato che il valore del dollaro nello stesso periodo era più che raddoppiato, non variava quasi per nulla le risorse effettive a disposizione del Fondo.

Nel momento in cui, nella prima metà degli anni Sessanta, la debolezza del dollaro divenne evidente, cominciò ad apparire altrettanto evidente che gli Stati Uniti non intendevano sacrificare i propri obiettivi politici e sociali, come, ad esempio, l’impegno militare in Vietnam, che divenne sempre maggiore a partire dal 1965, e le spese sociali: nel 1960, ad esempio, Kennedy incentrò tutta la propria campagna elettorale con una promessa di portare la crescita annua al 5%, escludendo dal novero delle possibilità per riequilibrare il sistema monetario internazionale manovre sui tassi d’interesse o misure fiscali restrittive. Anche l’arma della svalutazione, che avrebbe posto fine alla supremazia del dollaro come valuta di riferimento mondiale, non era praticabile, in quanto sarebbe stata interpretata come una chiara dichiarazione di fallimento.

Tuttavia, proprio la campagna elettorale di Kennedy con lo slogan «to get America moving again», venne interpretata come anticipatrice di possibile politiche inflazionistiche, che provocarono la prima crisi sul mercato dell’oro di Londra fin dalla sua riapertura nel 1954: gli speculatori, infatti, per timore di una svalutazione, portarono il prezzo dell’oro sul mercato privato londinese dai 35,20 dollari all’oncia, prezzo a cui l’oro veniva comprato dal Tesoro statunitense, fino a 40 dollari all’oncia. La soluzione, temporanea, venne trovata in un accordo tra banche centrali con la nascita,

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come vedremo a breve, del cosiddetto Gold Pool nel novembre del 1961.

In queste condizioni, il sistema di Bretton Woods riuscì a sopravvivere durante gli anni Sessanta e fino al 1971 grazie, principalmente, ad iniziative di cooperazione a livello internazionale tra Stati e banche centrali, che tornò in auge dopo quasi trent’anni di interruzione: un esempio di tale cooperazione è fornito dalla decisione, simbolica oltre che pragmatica, presa dai governatori delle varie banche centrali di incontrarsi presso la Banca dei Pagamenti Internazionali a Basilea con cadenza mensile, per scambiarsi informazioni, suggerimenti e decidere le mosse da applicare.

Dopo la rivalutazione del marco del 4 marzo 1961, ad esempio, le pressioni sulla sterlina si intensificarono, portando alla stipula di alcuni accordi di scambio tra le banche centrali, che prevedevano l’impegno a mantenere i loro saldi in valuta anziché convertirli in oro, fornendo anche un miliardo di dollari alla Gran Bretagna. Un ulteriore prestito agli inglesi fu fornito, nel 1964, dalla Fed di New York, in quanto gli americani, dato che la sterlina era la seconda valuta di riserva internazionale e, una sua svalutazione, avrebbe comportato forti pressioni sul dollaro, si impegnarono a far sì che il valore della divisa inglese non cadesse aprendo una linea di credito di tre miliardi di dollari verso la Gran Bretagna.

Altre due iniziative devono essere prese in considerazione in questo quadro di eventi: il Gold Pool, che funzionò nel periodo 1961-1967, e i diritti speciali di prelievo presso l’FMI, le cui trattative, iniziate nel 1963, si conclusero nel 1967 con disposizioni che entrarono effettivamente in regime nel 1969. I negoziati per creare nuove riserve, alternative al dollaro, furono inaugurati dal Gruppo dei Dieci, ovvero il G-10. Nel 1961, quindi, le nazioni industrializzate decisero, attraverso gli Accordi Generali di Prestito, di aumentare la proprio quota, denominata nelle varie valute nazionali, per un totale di sei miliardi di dollari, legando l’accesso a queste risorse all’approvazione dei ministri delle finanze dei paesi industrializzati. Nel 1963 venne inoltre creato un gruppo composto da alti delegati finanziari, che propose un altro aumento delle quote dei paesi, pari al 25%, che venne eseguito nel 1966.

Contestualmente, le crescenti passività verso l’estero degli Stati Uniti, che avevano già da tempo superato le riserve auree del paese, avevano portato ad un aumento del prezzo del dollaro al di fuori dei confini americani oltre il limite desiderato dei 35 dollari all’oncia. Visto che il dollaro sembrava percorrere un trend discendente, al fine di disincentivare la vendita dei dollari detenuti come riserva internazionale, venne creato un consorzio di banche centrale, appunto il Gold Pool, che si accordarono per non

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convertire i dollari in loro possesso e vendere invece il proprio oro, per allentare così le pressioni sugli Stati Uniti.

Tuttavia, questo consorzio perse con gli anni la propria efficienza, soprattutto in relazione al fatto che gli Stati Uniti non sembravano propensi a sacrificare i propri obiettivi militari all’estero e di politica interna per sostenere la propria valuta. Questo portò ad un graduale aumento dello scetticismo degli altri paesi ad intervenire in favore del dollaro: la Francia, infatti, nel 1967 si ritirò dal Gold Pool, costringendo di fatto gli Stati Uniti ad aumentare il loro contributo in questo senso; dopo un’ultima ulteriore vendita d’oro per un valore di 800 milioni di dollari, l’accordo venne concluso nella primavera del 1968.

Negli stessi anni giungevano a termine le trattative per l’istituzione, all’interno dell’FMI, dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP). Dopo una prima proposta da parte del G-10 risalente al 1961, l’accordo per l’istituzione dei Diritti Speciali di Prelievo venne approvata il 26 agosto del 1967, accogliendo le proposte della commissione presieduta dall’italiano Rinaldo Ossola. Si arrivò così al primo emendamento agli Accordi dell’FMI, ratificato il 28 settembre 1967 dall’Assemblea del Fondo a Rio de Janeiro. Dopo alcune modifiche introdotte nel giugno del 1968, il nuovo accordo entrò definitivamente in vigore nel luglio del 1969, prevedendo le prime assegnazioni di DSP dal 1 gennaio 1970.

I DSP andavano a costituire una forma di liquidità internazionale a piena convertibilità valutaria del Fondo allocati ai paesi membri in proporzione alle quote di partecipazione degli stessi al Fondo. I DSP non costituiscono una vera e propria valuta, ma piuttosto un diritto, appunto, di acquistare una o più valute liberamente utilizzabili detenute nelle riserve dei paesi membri. Nel periodo 1970-1974, il valore di 1 DSP era fissato, pur non essendo convertibile in oro, allo stesso valore in oro del dollaro, quindi 35 DSP all’oncia. Il valore sarebbe poi cambiato dopo il 1974 in seguito alle due svalutazioni del dollaro del 1971 e del 1973, e sarebbe stato calcolato riferendosi alla media del valore di un paniere delle più importanti monete a livello internazionale.

La ratio dietro alla creazione dei DSP, quindi, consisteva nell’accrescere le liquidità internazionali senza dover ricorrere ad un aumento della circolazione mondiale del dollaro: all’occorrenza di un deficit nella bilancia dei pagamenti, i paesi in difficoltà potevano utilizzare, infatti, i DSP a loro disposizione per dimostrare la loro capacità di accedere alla liquidità necessaria. È stato calcolato che, dal gennaio 1970 fino alla ratifica del secondo emendamento agli Accordi del Fondo dell’aprile del 1976, sono stati concessi crediti in DSP per un totale di 8,9 miliardi: 3,1 miliardi concessi nel 1970, e 2,8 miliardi per il 1971 e per il 1972.

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Al 30 aprile 1976 solamente otto paesi – Etiopia, Kuwait, Libano, Libia, Arabia Saudita, Singapore e Emirati Arabi Uniti – non avevano fatto richiesta per utilizzare i DSP.

4.2. La periferia del sistema: i paesi in via di sviluppo

Durante le tre decadi successivi alla Seconda guerra mondiale, i paesi non industrializzati avevano poche caratteristiche in comune: prevalevano, invece, notevoli differenze sul piano culturale, storico ed economico. Tuttavia, spesso in questi paesi prevalsero analisi economiche e proposte tra loro molto simili: la diagnosi dominante era infatti che la sola produzione di materie prime, agricole e minerarie, e di prodotti alimentari non fosse sufficiente ad innescare un processo di arricchimento nazionale. Pertanto, l’instabilità delle esportazioni venne constatata mediamente con politiche di sostituzione delle importazioni, tese a finalizzare una crescita dell’industria manifatturiera locale, accrescendo contestualmente anche il mercato locale.

Le risorse finanziarie per raggiungere tale scopo vennero recuperate in particolar modo attraverso una massiccia tassazione sulle esportazioni delle materie prime, utilizzando poi i ricavi di tali prelievi fiscali per elargire sussidi alle industrie locali. Per lo stesso obiettivo vennero imposti dazi doganali e contingentamenti sulle importazioni di manufatti dall’estero, provocando un mutamento dei prezzi sul mercato interno per stimolarne la crescita. Il tasso di protezione effettiva del Brasile era in media del 118%, con il 41% sui macchinari e picchi dell’8.480% sui profumi e i saponi.

Il settore maggiormente colpito era, in questo senso, l’agricoltura, in quanto i contadini si trovavano a poter vendere i propri prodotti ad un prezzo più basso, mentre erano costretti a pagare un prezzo maggiore per acquistare i manufatti industriali. In Pakistan, ad esempio, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta il rapporto tra i prezzi dei manufatti e quelli dei prodotti agricoli era mediamente il doppio rispetto a quello esistente sul mercato mondiale. In general, nei paesi in via di sviluppo, queste politiche provocarono, oltre che una generalizzata tendenza alla migrazione verso le aree urbane, la crescita delle importazioni di prodotti alimentari ad un tasso doppio rispetto alle esportazioni.

Gli anni del secondo dopoguerra furono anche gli anni in cui si assistette ad un cospicui afflusso di aiuti allo sviluppo da parte dei paesi occidentali nei paesi in via di sviluppo. Gli investimenti internazionali interessarono in particolar modo le regioni dell’America Latina e, in generale, quelle zone a colonizzazione europea: l’India, ad esempio, dopo l’indipendenza raggiunta nel 1947 e l’adozione negli anni successivi di politiche di

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nazionalizzazione, protezione e controllo statale delle industrie, smise di essere un paese attrattivo per il capitale straniero. In altri paesi in via di sviluppo, invece, le conseguenze economiche degli investimenti stranieri potevano variare enormemente: in alcuni casi cambiamenti radicali della politica nazionale potevano entrare in conflitto con gli interessi economici delle multinazionali straniere, provocando anche l’intervento diretto dei paesi occidentali, come nel caso dell’Iran nel 1953 e del Guatemala nel 1954; in altri contesti, invece, si realizzarono forme di investimento estero virtuose, come l’esempio della Fondazione Rockfeller che fondò in Messico, nel 1946, un centro internazionale per il mais e per il frumento, esperienza poi replicata nel 1959 quando, insieme alla Fondazione Ford, la Fondazione Rockfeller fondò un istituto internazionale di ricerca sul riso nelle Filippine.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i capitali in entrata nei paesi in via di sviluppo avevano ripercussioni economiche e politiche sfavorevoli alle nazioni ospitanti. Gran parte degli investimenti erano infatti concentrati nel settore minerario ed estrattivo, privando i paesi di risorsi non rinnovabili a un ritmo che non giovava al paese, portando minimi benefici al sistema economico. La manodopera, infatti, impiegata in mansioni a bassa specializzazione, non acquisiva nuove competenze, rendendo quindi impossibile la nascita di nuove iniziative private locali.

In generale, gli aiuti internazionali vennero distribuiti in maniera diseguale tra i vari paesi in via di sviluppo: nel 1970, ad esempio, i paesi in via di sviluppo più prosperi ricevettero maggiori aiuti rispetto agli altri e tendenzialmente i paesi più piccoli ricevevano aiuto pro capite maggiori rispetto a quelli di maggiori dimensioni. Inoltre, vi fu una trend decrescente degli aiuti frutto di accordi bilaterali allo sviluppo nel periodo 1960-1970, tanto che è stato calcolato che tali aiuti, in rapporto al Pil dei paesi sviluppati, passarono dallo 0,52% del 1960 al 0,34%. A tal proposito, nel 1969, il presidente della Banca Mondiale Robert McNamara istituì la commissione Pearson che richiese l’impegno dei paesi industrializzati a portare il rapporto tra aiuti e Pil almeno al 0,7%, senza tuttavia sortire alcune effetto.

Anche gli aiuti allo sviluppo gestiti dalla Banca Mondiale non furono molto incisivi nel modificare le tendenze di fondo di questi flussi di capitali, anche perché il contribuito dei finanziamenti della Banca Mondiale fu pari ad appena il 10% del totale. Inoltre, anche questi aiuti avevano implicazioni politiche ed economiche simili a quelle provocate dagli aiuti bilaterali, dato che i capitali andavano a finanziari quei progetti e quei settori reputati utili dalle autorità della Banca Mondiale. Ad esempio, l’India fu vincolata a ridurre i controlli sull’economia e a modificare le proprie politiche circa la

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bilancia dei pagamenti per poter accedere ad alcuni prestiti dall’estero verso la metà degli anni Sessanta.

Il drenaggio di risorse dal settore agricolo verso quello industriale non fece solamente aumentare l’importazione di prodotti alimentari, ma generò anche una riduzione delle esportazioni di materie prime non petrolifere. Negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, i paesi in via di sviluppo persero mediamente il 75% delle quote di mercato delle materie prime che esportavano, in gran parte perché i paesi industrializzati producevano prodotti altamente competitivi, se non perfettamente sostituibili. Tuttavia, nello stesso arco temporale, alcuni paesi in via di sviluppo che non avevano risorse petrolifere da esportare, riuscirono comunque a registrare alti tassi di crescita delle esportazioni, in media superiori al 6% annuo. La maggior parte di essi erano paesi di piccole dimensioni, i quali, con meno problemi di approvvigionamento di una grande massa di popolazione, fecero registrare tassi di crescita delle esportazioni anche maggiori rispetto ai paesi industrializzati, riuscendo anche a far crescere i redditi medie interni.

La composizione in termini di prodotti degli scambi commerciali dei paesi in via di sviluppo va distinta, nella seconda metà del Novecento, in due sotto-insieme con caratteristiche specifiche: i paesi produttori di petrolio e i paesi che ne erano invece importatori.

Nel caso dei produttori di petrolio la questione che fu maggiormente rilevante fu la maggiore o minore stabilità politica e, più in generale, il loro rapporto con le grandi multinazionali. Questi temi sono discussi con più precisione nel capitolo successivo, quando l’impatto dei paesi produttori di materie prime petrolifere sull’economia mondiale fu decisivo. Tuttavia, basti qui osservare come nel primo trentennio post-bellico le condizioni di questo gruppo di paesi furono in realtà molto penalizzanti, con un grande vantaggio invece per le compagnie petrolifere multinazionali e per i paesi industrializzati. A tale periodo seguirono, invece, anni di rivolte sociali che portarono a guerre o a condizioni monopolistiche per i paesi in questione, che determinarono l’aumento dei prezzi e la rigidità di mercato negli scambi con le economie industrializzate: proprio questi elementi determinarono, infine, un enorme impatto sulla crisi generale del sistema egemonico americano.

Il secondo gruppo di paesi, quello composto da paesi esportatori di materie prime non petrolifere, risulta essere, nel periodo in esame, molto più rilevante del precedente. La composizione in termini di prodotti di questi paesi mostra come lo scambio non sia scomponibile in prodotti manufatti verso materie prime.

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Nel corso degli anni Sessanta, ad esempio, la quota delle materie prime sul totale delle importazioni è stata simile nei due gruppi di paesi. Verosimilmente, ciò fu dovuto alle diverse tecnologie produttive applicate nelle due aree, delineando quindi un vantaggio comparato dovuto al gap tecnologico. Come conseguenza, si verificarono frequenti scambi intersettoriali di prodotti semilavorati in ragione di innovazioni di processo e, quindi, una frequente instabilità nei volumi delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo.

I paesi in via di sviluppo tentarono di contrastare questa posizione di svantaggio mediante politiche nazionali piuttosto che attraverso accordi cooperati e processi di socializzazione. Tra i vari strumenti di politica monetaria a disposizione, quello più utilizzato fu il ricorso alle svalutazioni per stabilizzare eventuali squilibri fondamentali nella bilancia dei pagamenti. Tra il 1954 e il 1971 si sono infatti verificati 48 casi di crisi nella bilancia dei pagamenti con successiva svalutazione da parte dei paesi in via di sviluppo. L’Argentina, ad esempio, svalutò ben quattro volte: nell’ottobre del 1955, nel dicembre del 1958, poi nel 1962 e nel 1970; il Brasile, invece, svalutò nel febbraio del 1967; l’India nel 1966; la Colombia per quattro volte, dal 1957 al 1967; le Filippine nel 1962 e nel 1970. All’interno di quest’ampia casistica – nella successiva tabella sono inseriti tutti i casi di svalutazione di quegli anni – tuttavia, è bene operare una distinzione cruciale: alcuni paesi, infatti, svalutarono la propria valuta attraverso iniziative concordate con il Fondo Monetario Internazionale; altri paesi, invece, attuarono politiche economiche di svalutazione senza l’appoggio del Fondo.

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È interessante ora osservare come le svalutazione operate senza il sostegno del Fondo, durante il periodo di Bretton Woods, abbiano

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avuto mediamente un esito più fallimentare, nel medio periodo, rispetto a quei paesi che invece ricorsero al Fondo per orchestrare le necessarie manovre di politica economica. Nei paesi assistiti dal Fondo, infatti, si nota come il tasso reale di cambio viene riallineato nei quattro anni successivi alla svalutazione e la bilancia dei pagamenti viene riequilibrata. Un fattore essenziale, in queste svalutazioni di successo, venne giocato, più che dalle manovre monetarie in sé, dalle politiche fiscali e macroeconomiche che il Fondo imponeva. Non sembra essere lontana dalla realtà, quindi, l’ipotesi che queste svalutazioni concordate con il Fondo avevano mediamente più successo delle altre in quanto sottoposte a misure costrittive dettate da un organismo internazionale, com’era appunto il Fondo, in larga misura controllato dalla nazione egemone, ovvero dagli Stati Uniti.

4.3. La fine dell’egemonia americana

La fine del Gold Pool e la mancata realizzazione di una riforma strutturale dell’architettura monetaria internazionale, con il dollaro che continuava a perdere valore a fronte di una sua difesa istituzionale che, alla fine degli anni Sessanta, si faceva sempre più costosa, portarono al crollo del sistema di Bretton Woods. Le tappe che scandirono tale crollo furono la crisi delle due valute principali dell’economia internazionale: prima quella della sterlina, che venne svalutata del 17% nel novembre del 1967; e poi quella del dollaro, la cui convertibilità aurea fu sospesa unilateralmente nell’agosto del 1971: la valuta statunitense venne poi svalutata dell’8%, sempre nel 1971, e di un ulteriore 10% nel 1973. Questo percorso portò, poi, all’approvazione del secondo emendamento agli Accordi del Fondo, nella prima metà del 1976, che prevedeva l’abolizione del prezzo ufficiale dell’oro traghettando il mondo verso un sistema di cambi flessibili.

La crisi della sterlina, che culminò nella svalutazione del 1967, aveva le sue origini negli anni precedenti ed era sostanzialmente legata alla dimensione di seconda valuta di riserva internazionale, di cui gli Stati Uniti non voleva privarsi per timore di ripercussioni sul dollaro, accoppiata però ad un’economia che faceva registrare una crescita decisamente più lenta rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale e al Giappone. Mantenere il cambio della sterlina al valore di 2,8 dollari fu la battaglia che venne combattuta dai governi inglesi post-bellici e che fu, alla fine, destinata alla sconfitta. Nel corso degli anni Sessanta l’unico elemento positivo all’interno del quadro inglese era la capacità di attirare, come abbiamo visto, capitali a breve termine grazie all’elevato tasso d’interesse praticato, pur con alcune oscillazioni, dalla Banca d’Inghilterra lungo tutto il periodo: nel gennaio 1961 il tasso fu innalzato al 5%, per arrivare al 7% nel luglio del 1962. Tra il 1962 e

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il 1964 si registrò una manovra di tagli alla spesa pubblica e un incremento della pressione fiscale, che fecero aumentare la disoccupazione di un punto percentuale tra il 1961 e il 1962, ma permisero di calmare i mercati, grazie anche all’intervento delle banche centrali europee e del Fondo Monetario Internazionale, che sostennero il valore della sterlina.

Nel 1964, dopo che De Gaulle pose il veto all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE, il Partito laburista tornò al governo dopo tredici anni: il nuovo gabinetto, guidato da Harold Wilson, rimaneva tuttavia contrario all’ipotesi della svalutazione, temendo possibili spirali inflazionistiche. Un nuovo flusso di capitali fu fornito dal Fondo, che aprì verso la Gran Bretagna un credito d’emergenza di un miliardo di dollari, e dagli Stati Uniti che guidarono in prima linea un sindacato di undici paesi per fornire ulteriori tre miliardi di dollari di prestiti agli inglesi. Queste continue iniezioni di liquidità non facevano, però, che ritardare un’inevitabile conclusione: la chiusura del canale di Suez durante la Guerra dei sei giorni del 1967 fece nuovamente incrinare la fiducia nella stabilità dei commerci inglesi. Un’ennesima fuga di capitali, inoltre, fu innescata dalle dichiarazioni del ministro degli esteri francese Maurice Couve de Murville, che espresse i suoi dubbi sulla stabilità della sterlina e sulla capacità del governo inglese di ricevere ulteriori prestiti. Il 18 novembre 1967 il governo inglese fu costretto a svalutare, come detto, del 17% la valuta inglese.

Il fallimento del pool dell’oro e la crisi della sterlina, con conseguente svalutazione, erano, a posteriori, gli indizi del crollo imminente: i crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti americani e lo sviluppo degli euromercati furono determinanti in questo senso, ma non furono gli unici elementi che determinarono la fine di Bretton Woods. Come dimostra l’esperienza inglese del 1967, il nodo della questione era legato in maniera significativa ad una ripresa delle economie occidentali che si basava su un modello di sviluppo che prevedeva, in primo luogo, la completa trasformazione delle stesse da economie agricole e trasformatrici in sistemi produttori principalmente di servizi; in secondo luogo, questo sviluppo era incardinato su un patto sociale che aveva inglobato le masse dei lavoratori grazie ad un’alta e crescente spesa sociale statale. Si poneva, quindi, alle autorità dei vari governi nazionali un dilemma squisitamente politico: il rallentamento produttivo e la conseguente crescita del deficit nella bilancia dei pagamenti poteva essere coniugato con la difesa di cambi fissi immaginata a Bretton Woods solamente abiurando al patto sociale che aveva garantito, per più di vent’anni, sviluppo e prosperità. La fissità del cambio, come dimostra il caso inglese del 1967, doveva quindi essere sacrificata sull’altare della stabilità e della spesa sociale.

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L’ultimo atto andò in scena tra il 1971 e il 1976. L’inflazione statunitense era sempre stata sotto controllo: nel periodo della convertibilità di Bretton Woods, tra il 1959 e il 1970, si era attestata ad una media del 2,6% annuo, più passa dei paesi del G-7. Tuttavia, la crescita della base monetaria statunitense era andata accelerando in particolar modo a partire dal 1964, in concomitanza con il maggior impegno militare nel Vietnam dell’amministrazione Johnson e con le spese per i programmi sociali: le autorità monetarie statunitensi, quindi, decisero di sacrificare la stabilità dei prezzi agli obiettivi di politica estera e di politica sociale.

Data la centralità del dollaro e dell’economia americana nel contesto globale, l’inflazione statunitense non tardò a trasmettersi agli altri paesi. Tuttavia, per tutto il periodo, data una crescita molto più rapida rispetto a quella degli Stati Uniti delle economie dell’Europa occidentale e del Giappone, questi paesi furono in grado di importare e sostenere un’alta inflazione e un aumento dei prezzi. Tale processo non poteva, però, durare in eterno. Già nel biennio 1968-1969 si verificarono in Francia e Germania importanti riaggiustamenti del cambio: il primo in relazione agli eventi del maggio francese del 1968, a cui il governo rispose con una politica monetaria espansiva che produsse una fuga dal franco e un severo ridimensionamento delle riserve auree francese, la cui pressione fu alleviata da un pacchetto di aiuti coordinato proprio dagli Stati Uniti. La fuga dal franco generò un flusso di capitali in Germania, provocando un apprezzamento del marco. Le due condizioni, provocarono, nel corso del del 1969, un ridimensionamento di entrambe le valute: il franco venne svalutato dell’11,1% nell’agosto del 1969, mentre il marco fu rivalutato del 9,3% nel settembre dello stesso anno.

Una nuova crisi del sistema monetario internazionale fu scatenata dalla bilancia dei pagamenti statunitense che, dopo una chiusura in surplus nel biennio 1968-1969, crebbe enormemente nel biennio successivo, raggiungendo un negativo di 30 miliardi di dollari nell’agosto del 1971. Un flusso di dollari raggiunse quindi i paesi in surplus commerciale, in primo luogo il Giappone e la Germania: la Deutsche Bundesbank sospese, il 5 maggio 1971, le operazioni sui mercati valutari, seguita dalle banche centrali di Giappone, Austria, Belgio, Olanda e Svizzera.

Le intenzioni mostrate dalle autorità francesi e inglesi di convertire in oro i dollari presenti nelle proprie riserve aumentarono la pressione sugli Stati Uniti. Il 15 agosto Nixon annunciò di aver incaricato il Segretario del Tesoro John Connally di sospendere temporaneamente la convertibilità in oro del dollaro, imponendo contestualmente una sovrattassa del 10% sulle importazioni: il tutto venne fatto senza neanche consultare il Fondo

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Monetario Internazionale. Privi di un sistema monetario internazionale, i paesi industrializzati si riunirono, nel dicembre del 1971, a Washington, decidendo con la firma dello Smithsonian Agreement la svalutazione del dollaro del 7,9%, portando il suo valore a 38 dollari all’oncia, senza però ripristinare l’obbligo di convertibilità per la valuta statunitense; vennero, inoltre, durante l’estate-inverno del 1971, decise le rivalutazioni delle maggiori valute mondiali nei confronti del dollaro: lo yen si apprezzò del 16,9%, il marco tedesco del 13,6%, il franco e la sterlina del 8,6%; la lira italiana del 7,5%.

Tuttavia, il nodo gordiano della situazione monetaria internazionale non era stato sciolto. La rivalutazione delle divise europee comportò un aumento delle esportazioni americane, sospinte da una politica monetaria statunitense espansiva: l’offerta monetaria, nel novembre del 1972, cresceva infatti ad un tasso del 6% annuo. All’inizio del 1973 l’elevato tasso d’inflazione statunitense provocò un’altra fuga dal dollaro, che portò a variazioni nel tasso di cambio con il dollaro da parte delle maggiori economie europee, ed infine ad una nuova svalutazione decisa dalle autorità americane nel febbraio del 1973, stavolta pari al 10%. La CEE decise di far fluttuare le proprie valute, con una banda di oscillazione del 2,25%, e così fece anche la Banca del Giappone. Il problema legale, connesso agli Accordi dell’FMI, si concretizzava nel fatto che i paesi erano costretti a mantenere fissi i tassi di cambio: nel gennaio del 1976, così, nella riunione dei direttori esecutivi tenutasi a Kingston in Giamaica propose il secondo emendamento agli Accordi, che sarebbe stato poi approvato dal Consiglio nel maggio dello stesso anno, legalizzando di fatto il sistema dei cambi flessibili.

5. Gli intermediari del sistema

5.1. Il Fondo Monetario Internazionale

L’istituzione del Fondo Monetario Internazionale fu certamente una delle risultanti più innovative che scaturirono dagli accordi di Bretton Woods del 1944. Per un verso il nuovo organismo aveva, almeno in nuce, alcune caratteristiche che sembrano avvalorale l’interpretazione che lo vede come un primo abbozzo di banca centrale sovranazionale: si veda, a tal proposito, in particolar modo l’articolo I degli Articles of Agreement, dove il Fondo viene indicato come fornitore di risorse con adeguate salvaguardie ai paesi membri in temporanea situazione di squilibrio delle bilance dei pagamenti.

Se, nella teoria, questo rimaneva, a prescindere dalle differenze tra le proposte di Keynes e di White, un punto fermo delle politiche

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del Fondo, insieme al tentativo di mettere in campo tutti gli strumenti necessari per scoraggiare i movimenti di capitali speculativi; la concreta messa in pratica degli accordi si scontrò, prima e dopo la conferenza di Bretton Woods, con una forte opposizione portata strenuamente avanti dal settore finanziario americano.

Le preoccupazioni del mondo finanziario statunitense nei confronti del nascente sistema di Bretton Woods possono essere racchiuse in tre elementi fondamentali. Il primo di questi era legato alla posizione dominante che gli Stati Uniti avevano ottenuto dopo la Seconda guerra mondiale e che tutti si attendevano continuassero ad occupare anche negli anni seguenti: tale posizione di forza, si temeva avrebbe generato una quota eccessiva di oneri finanziari e macroeconomici su un solo paese, appunto gli Stati Uniti.

In secondo luogo, una parte della finanza americana, quella più legata all’attività produttiva, era preoccupata dalla cosiddetta possibilità di moral hazard che il sistema avrebbe potuto generare mercati finanziari che avrebbero catturato risorse invece di destinarle alla produzione e, per l’altro verso, avrebbero potuto creare squilibri inflattivi che si sarebbero ripercossi sulla stabilità del sistema. Queste preoccupazioni suscitarono interventi istituzionali per aumentare i controlli valutari, per questa via scoraggiando gli afflussi e i deflussi di capitale su Wall Street, che avrebbe visto in tal modo tarpate le proprie ambizioni di diventare la piazza finanziaria del mondo, scalzando in questo modo Londra.

Sull’onda di questi timori, dietro le quinte dei negoziati ufficiali tra i delegati di Stati Uniti e Gran Bretagna, che portarono agli accordi di Bretton Woods, si svolsero intense manovre e attività lobbistiche tutte all’interno del mondo finanziario e politico statunitense, che ebbe l’effetto di portare ad un notevole ridimensionamento del peso del Fondo rispetto ai piani originari. Più che nell’assetto generale e nei principi di fondo, le spie di questo ridimensionamento sono da ricercare nei dettagli, in alcuni espedienti tecnici che avevano lo scopo di andare incontro alle necessità e alle preoccupazioni del settore finanziario americano appena richiamate. In conclusione, più che una banca centrale sovranazionale, il Fondo nacque più che altro come un’agenzia dei governi senza alcun potere proprio di creazione di liquidità internazionale.

Gli stratagemmi inseriti tra le maglie degli articoli del Fondo riguardavano alcuni dei temi più scottanti, quali i movimenti di capitale, la vigilanza internazionale e la struttura di governo del nuovo organismo. Il principale accorgimento per tutelare il mondo finanziario americano si trova all’articolo VI dello Statuto, dove

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viene fatto divieto al Fondo di prestare risorse per contrastare i deflussi di capitale, quale che ne fosse la causa. Inoltre, il settore privato statunitense riuscì nel suo intento lobbistico anche sulla questione dei controlli sui movimenti di capitali, un tema essenziale nella geometria del potere finanziario internazionale. Sempre nell’articolo VI degli accordi si trova, infatti, soltanto la facoltà dei governi, e non più l’obbligo, a cooperare per contenere i movimenti internazionali di capitale. Cadeva contestualmente anche l’ipotesi di concedere al Fondo il potere di imporre ai paesi membri il controllo sui flussi di capitale.

In secondo luogo, il linguaggio utilizzato nell’intero accordo era un linguaggio estremamente tecnico e complesso, con lo scopo di rendere il meno agevole possibile la comprensione dei meccanismi profondi del Fondo, allontanando l’idea che potesse essere assimilato ad una banca sovranazionale. In tal senso, scomparvero anche nel disegno finale tutti i riferimenti a strumenti di vigilanza e regolamentazione internazionale a scopo prudenziale.

Anche la struttura di governo del Fondo rifletté l’avversione del mondo finanziario americano alla nascita di una struttura finanziaria sovranazionale. Se, infatti, il piano di Keynes e del Tesoro britannico desiderava istituire un governo indipendente di esperti, gli americani fecero pressioni, coronate infine da successo, per la creazione di un consiglio di amministrazione, il Board of Directors, formato da funzionari a nomina governativa, che avrebbero dovuto lavorare nella sede di Washington a tempo pieno. È facilmente intuibile come questa scelta poneva dei limiti alla discrezionalità delle scelte del Fondo, in quanto la nomina governativa dei suoi direttori prestava il fianco al controllo politico dell’organismo da parte dei diversi governi nazionali, facendo tramontare definitivamente l’idea di avere un’istituzione forte di un’irreprensibile autorevolezza tecnica.

Nonostante gli scarti tra i piani e le realizzazioni concrete, il Fondo Monetario Internazionale fu comunque un’innovazione che non aveva precedenti nella storia, che andò ad occupare un posto di rilievo all’interno del panorama finanziario internazionale. Tuttavia, nei primi quindici anni di attività la domanda di finanziamenti fu piuttosto scarsa, portando il Fondo a non avere un ruolo ben definito, anche per la concomitanza del Piano Marshall che forniva ai paesi europei tutti i fondi di cui essi avevano bisogno per la ricostruzione post-bellica.

L’anno chiave per il Fondo, che gli conferì un ruolo davvero cruciale, fu il 1958, con il ripristino della convertibilità valutaria dei maggiori paesi europei, i quali, contestualmente, furono obbligati al rispetto delle prescrizioni dell’articolo VIII dello Statuto. Da quel momento, il sistema si trasformò in un insieme interagente di Stati-

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nazione, regole e mercati valutari e dei capitali in crescente espansione. Proprio il ripristino della convertibilità dei paesi europei era, d’altronde, stato possibile in seguito ad un costante disavanzo della bilancia dei pagamenti americana: se nel biennio 1956-1957 il saldo era ancora in sostanziale equilibrio, il deficit cominciò a crescere dal 1958, arrivando a 4 miliardi e crescendo poi a 6 miliardi nel 1959. Proprio nel 1959 le passività esterne degli Stati Uniti eguagliarono, per la prima volta, le riserve in oro, per poi superarle costantemente nel corso degli anni successivi a fronte di persistente deficit annuale della bilancia dei pagamenti.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quindi, il Fondo Monetario Internazionale si trovò al centro di un sistema internazionale, dopo la ripristinata convertibilità del 1958, in cui però due nuovi elementi – gli squilibri prodotti dal disavanzo statunitense e l’aumento della mobilità di capitali – contribuivano a creare un effetto potenzialmente destabilizzante.

Il centro dei problemi, che si riflette anche in un aumento delle discussioni in merito a partire proprio dall’inizio degli anni Sessanta, era certamente la questione della liquidità internazionale. Tuttavia, tale questione nascondeva in realtà al suo interno almeno tre diverse problematiche, che intrecciavano tra loro i propri effetti, riguardando la quantità e la qualità delle risorse del Fondo e, soprattutto, il ruolo che il dollaro era andato assumendo all’interno del panorama finanziario internazionale.

Il primo problema riguardava, appunto, le risorse del Fondo, che non erano più adeguate a sostenere l’aumentato volume dei commerci internazionali. Questa difficoltà ebbe una soluzione relativamente facile, che venne raggiunta grazie all’aumento delle quote dei rispettivi paesi alle risorse ordinarie del Fondo, attraverso un aumento del 50% nel 1959 e del 25% nel 1966. Questi aumenti, però, rivelavano anche il secondo problema circa le riserve del Fondo. Quest’ultimo, infatti, non avevano una proprio capacità di creazione monetaria e dipendeva esclusivamente di risorse conferite dai paesi membri in valuta nazionale. In caso di emergenza, quindi, difficilmente il Fondo avrebbe avuto le disponibilità necessarie a risolvere i possibili problemi dei paesi più grandi, come ad esempio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Una risposta parziale a quest’ultima problematica venne dalla creazione del cosiddetto G-10: i dieci paesi più industrializzati siglarono, nel 1962, i General Arrangements to Borrow (Gab), un accordo parallelo al Fondo, al fine di costituire una scorta di risorse utilizzabili aggirando i macchinosi procedimenti del Fondo. In particolar modo il controllo politico di queste risorse pose alcune questioni di non secondaria importanza circa l’autorità a cui dovesse essere demandata la decisione finale: si arrivò, infine, ad

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un accordo che prevedeva un meccanismo cosiddetto «a doppia chiave»: l’accesso ai fondi del Gab doveva essere quindi accordato dal Board dell’Fmi, dalla maggioranza dei paesi aderenti, nonché dai tutti i paesi la cui valuta fosse inserita nel prestito.

Il terzo problema inerente la questione della liquidità internazionale, certamente il più difficile da risolvere e che, a ben vedere, fu una delle cause principali del crollo di Bretton Woods, riguardava il dollaro, ed in particolare il suo utilizzo come principale fonte di liquidità internazionale conseguentemente ai persistenti disavanzi nella bilancia dei pagamenti statunitense verificatesi dalla fine degli anni Cinquanta in poi.

In questo senso, il sistema monetario internazionale si era evoluto in una particolare tipologia egemonica: il cosiddetto dollar standard. Il difetto centrale del sistema era che la disponibilità di liquidità a livello mondiale, posto il dollaro come valuta di riserva internazionale e strumento di pagamento nei flussi commerciali, finiva per dipendere dalle scelte di un paese in cui vigeva un regime di fiat standard, ponendo così enorme pressione sulle scelte di politica monetaria del paese perno del sistema, dalle quali derivava, in sostanza, la fiducia generale.

Ci si trovava di fronte, quindi, al già richiamato dilemma Triffin. Gli Stati Uniti potevano, da una parte, correggere gli squilibri della propria bilancia dei pagamenti, costringendo però il resto del mondo a subire gli effetti deflazionistici di tali politiche e rinunciando contestualmente al ruolo egemonico che gli veniva conferito dall’emettere la valuta di riferimento a livello internazionale. Oppure, le autorità americane avrebbero potuto, come fecero, alimentare la domanda mondiale di liquidità in dollari fino al punto che un evento di qualsiasi natura sopraggiungesse a far crollare la fiducia nel dollaro, scatenando una nuova corsa alla convertibilità come accadde nel 1931.

Se la soluzione più immediata e logica al problema sarebbe stata la creazione di una qualche forma di moneta sovranazionale, l’effettiva messa in pratica di questa soluzione andava incontro a problemi difficilmente sormontabili: da una parte, infatti, gli Stati Uniti si schierarono contro il progetto per tema di perdere la posizione egemonica derivante dalla posizione del dollaro; dall’altra parte, garantire la fiducia di una moneta sovranazionale senza nessuna autorità preposta a questo compito sarebbe stato un compito decisamente difficile da portare a termine.

Nel corso degli anni Sessanta, per le motivazioni già richiamate, le posizioni cominciarono a cambiare, anche in conseguenza, da un lato, delle ventilate minacce portate avanti dal governo francese di dare istruzione alla Banca di Francia di convertire in oro i dollari

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detenuti in eccesso; dall’altro, dell’aumento del prezzo dell’oro sul mercato libero, che superò il prezzo di 35 dollari all’oncia, segnalando una crescente sfiducia dei mercati nella forza del dollaro.

Da questa problematica scaturirono, a ben vedere, le novità introdotte tra la seconda metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Se i già citati Gab costituivano il riconoscimento del ruolo dell’Fmi, ma rimanevano strumenti molto limitati, l’introduzione, nel 1969, dei Diritti Speciali di Prelievo (Dsp) costituiva la prima istituzione di una forma di moneta sovranazionale: la loro attuazione, però, era stata inserita in un quadro così dettagliato di disposizioni limitative che ne rese l’impatto concreto piuttosto limitato. Dopo la sospensione della convertibilità del dollaro nell’agosto del 1971, infine, venne approvata nel 1976 quando venne sospeso l’obbligo del mantenimento dei cambi fissi.

5.2. I grandi centri finanziari mondiali

Lo sviluppo dei grandi centri finanziari mondiali, nel periodo che va dal 1945 al 1976, non deve essere confuso con la storia del sistema monetario internazionale, anche se i meccanismi di funzionamento di quest’ultimo ebbero certamente un’influenza notevole nell’orientare scelte e decisioni. Inoltre, le piazze più importanti ebbero un’evoluzione che fu solo in parte uguale a quella del progresso economico e politico delle rispettive nazioni. Wall Street, ad esempio, pur in posizione di indiscussa forza, non lo fu mai in maniera così predominante come lo fu, invece, il peso dell’economia americana a livello mondiale; di converso, la City di Londra, la cui storia post-bellica fu certamente caratterizzata da un evidente declino, non perse mai del tutto la propria influenza, ed anzi recuperò molta della strada perduta a partire dagli anni Sessanta, quando divenne il centro del mercato degli eurodollari e delle eurobbligazioni, andando ad occupare un posto nella finanza mondiale neanche lontanamente paragonabile al peso specifico dell’economia britannica.

a. Wall Street e il sistema bancario statunitense

Alla conclusione della Seconda guerra mondiale New York era certamente emersa quale centro finanziario più importante a livello globale, anche in conseguenza del ruolo degli aiuti finanziari statunitensi alla ricostruzione europea. Numerosi fattori contribuirono a rinsaldare, con gli anni Cinquanta, la posizione di Wall Street come centro finanziario del pianeta. In primo luogo, il ruolo del dollaro era fondamentale, in quanto la valuta americana rappresentava il mezzo di pagamento e la valuta di riserva a livello

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internazionale, senza alcun rivale all’orizzonte, essendo anche l’unica moneta convertibile in oro; inoltre, gli Stati Uniti potevano avvalersi, da una parte, di un’enorme quantità di riserve auree, accumulate durante la guerra, dall’altra di un’istituzione, la Federal Reserve Bank of New York, che ricopriva un ruolo decisivo nelle questioni monetarie sia sul mercato interno che a livello internazionale.

Tra la fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta, New York sviluppò un vivace ambiente bancario e finanziario. Le banche commerciali newyorchesi erano diventate le più grandi del mondo, superando di gran lunga le corrispettive londinesi con risorse complessive che ammontavano nel 1954 a 32,3 miliardi di dollari, contro i 19,8 miliardi degli inglesi. Gli affari internazionali venivano molto curati, con uffici dedicati ad attività come la compravendita di valute estere, il finanziamento dei commerci e i prestiti ad istituti bancari stranieri. Inoltre, nel 1955, sette banche statunitense possedevano filiali all’estero, mentre, di converso, erano ventuno le banche straniere, appartenenti a dodici diverse nazioni, che avevano delle filiali sulla piazza di New York, svolgendo per la maggior parte attività di compravendita valutaria, specialmente in relazione alla valuta del paese di provenienza.

Le banche di investimento, insieme a broker e mediatori in cambi esteri, società di gestione dei conti connessi al commercio estero, spedizionieri doganali, rappresentanti di import-export, case d’accettazione e di sconto – anche se non sviluppate ed efficienti come a Londra – ; tutte aziende specializzate erano presenti contemporaneamente sul mercato newyorchese, fornendo una vasta e completa gamma di servizi finanziari. Contestualmente, il New York Stock Exchange riprese a crescere fin dai primi anni Cinquanta, in parallelo con la fase espansiva dell’economia statunitense: il volume delle transazioni aumentò vertiginosamente, passando da una media di 312 milioni annui investiti in titoli della fine degli anni Quaranta, fino ai 667 milioni del 1959 e portando anche alla crescita del numero degli investitori individuali, segno di una crescente democratizzazione della borsa americana. Più o meno nello stesso arco di tempo, l’indice Dow Jones sperimentò una notevole crescita complessiva, corrispondente al 240% per il periodo 1953-1960: pari a 260 punti nel dicembre del 1953, il Dow Jones raggiunse quota 386 nel dicembre dell’anno successivo, oltrepassando per la prima volta il picco più alto toccato nell’agosto del 1929, e raggiungendo 650 al termine del 1960.

Alcune problematiche, tuttavia, permanevano, facendo di New York un centro certamente egemone a livello mondiale che, tuttavia, non poteva dirsi né unico, né completo ed efficiente in ogni settore finanziario. I titoli negoziati sul mercato newyorchese, ad esempio, erano ancora titoli quasi esclusivamente statunitensi:

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gli anni Cinquanta testimoniarono, a tal proposito, una nuova fase di espansione delle multinazionali americane, come ad esempio la General Electric, la Standard Oil Co. of New Jersey, o l’IBM. Sebbene alla contrattazione dei titoli delle imprese americane partecipassero mediatori provenienti da tutto il mondo, rendendo giustizia quindi al ruolo internazionale di Wall Street, l’emissione di titoli esteri era ancora troppo costosa, limitando così i prestiti internazionali, con qualche significativa eccezione, come quella del finanziamento della CECA.

Anche la legislazione vigente negli Stati Uniti per il settore bancario e finanziario poneva non pochi ostacoli al pieno sviluppo delle potenzialità degli istituti americani. In particolare, le banche commerciali ebbero diverse difficoltà nel reperire i fondi necessari per soddisfare le necessità di credito che un’economia in grande fase espansiva offriva. Se, durante gli anni Cinquanta, la domanda dei prestiti raddoppiò, la raccolta dei depositi bancari aumentò solamente del 50%. Principale indiziato di questa situazione era, nuovamente, la Regulation Q, la quale, impedendo alle banche di offrire alti interessi sui depositi, limitava di fatto l’appetibilità dei depositi stessi. Escluso, quindi, lo strumento del tasso di interesse come metodo per attrarre fondi, le banche newyorchesi cominciarono un’intensa attività di fusioni che servivano ad incrementare le risorse da mettere a disposizione della crescente domanda creditizia proveniente dal settore dell’economia reale. Fu, in questo modo, che si realizzò la fusione nel 1955, tra la Manhattan Bank, la National City Bank e la First National Bank; quella tra la J.P. Morgan e il Guarantee Trust, nel 1959; infine, quella, del 1961, tra la Central Hanover Bank e il Manufacturers Trust.

Tuttavia, sebbene le banche commerciali diventarono, in questo modo, le più grandi al mondo, la loro possibilità di crescita era tutt’altro che illimitata, soprattutto per via della legislazione vigente che impediva l’apertura di filiali in altri Stati. Fu così che sorsero nuovi strumenti finanziari pensati proprio per accrescere le risorse delle varie banche. Il principale di essi fu il certificato di deposito che, lanciato nel 1961, per la prima volta, dalla First National Bank, poteva essere scambiato anche su un mercato secondario appositamente creato in precedenza.

Anche se le banche newyorchesi dovettero superare gli ostacoli posti dalla legislazione americana e da diverse misure prese dal governo federale per limitare l’esportazione di capitale statunitense, nonché una rinascita della City legata al mercato delle eurobbligazioni, esse rimasero comunque in una posizione di dominio circa la finanza internazionale, anche se la piazza in cui operavano poteva non sempre essere quella di New York.

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Proprio gli anni Sessanta determinarono il momento in cui vi fu la prima grande espansione multinazionale degli istituti bancari americani. Segno più evidente di tale sviluppo fu la crescita del numero delle filiali delle banche statunitensi all’estero, le quali passarono dalle 131 del 1950, a 899 nel 1986, concentrata in larghissima parte nei paesi industrializzati e nelle piazze finanziarie più importanti. Il luogo preferito era, ovviamente, l’Europa, dove si contavano, nel 1975, 113 filiali – di cui 58 solo a Londra – e 29 uffici di rappresentanza delle otto maggiori banche americane.

Nel corso degli anni Sessanta, inoltre, con sempre maggiore intensità le banche statunitensi spostarono le loro attività in Europa, con il fine ultimo di aggirare una legislazione bancaria che negli Stati Uniti si era fatta sempre più restrittiva, con le restrizioni agli investimenti diretti delle multinazionali del 1965 e l’aumento dei tassi ufficiali di interesse nel 1966 e poi nel 1969, che tuttavia non eliminarono il massimale previsto dalla Regulation Q. A tal fine, ad esempio, per prima la First National Bank, nel novembre del 1959, utilizzò la propria filiale di Londra per raccogliere depositi in dollari per poi trasferirli sulla piazza di New York e finanziarie prestiti negli Stati Uniti.

In generale, nel corso del decennio, le banche statunitensi aumentarono molto la propria quota nel mercato degli eurodollari, soprattutto per mezzo della piazza londinese, passando dal 17% del 1958 al 54%, registrato nel 1969. Le medesime filiali della City furono utilizzate anche, dopo la legislazione del 1963 e del 1965 – ovvero, rispettivamente, la Intereste Equalization Tax e la Voluntary Foreign Credit Restraint Programme, che chiusero il mercato dei capitali alle emissioni straniere – per effettuare operazioni di emissioni di prestiti internazionali, andando ad occupare un ruolo importante nel mercato delle eurobbligazioni, in particolar modo tra il 1963 e il 1972, quando otto filiali di banche statunitensi apparivano tra i venti più grandi intermediari su questo tipo di mercato. Le banche americane, quindi, attraverso le proprie filiali londinesi, riuscirono ad aggirare le varie misure restrittive vigenti negli Stati Uniti, partecipando con notevoli guadagni al mercato delle eurobbligazioni e degli eurocrediti, che fecero parte da quel momento di una strategia globale.

b. La City di Londra

Alla conclusione della guerra le istituzioni secolari, gli strumenti e le competenze che caratterizzavano la piazza finanziaria di Londra erano intatte e immutate nel loro prestigio e nelle loro capacità. Nonostante l’avanzata decisa di Wall Street, le ambizioni internazionali della City non era scemate, né tanto meno si era, apparentemente, indebolito il suo comparto bancario: la Midland

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Bank, ad esempio, era al 1945 ancora la più grande banca del mondo, seguita dalla Bank of America.

Alcuni elementi di carattere economico, però, fecero si che il declino della City fosse evidente almeno per tutta la durata degli anni Cinquanta e, pur recuperando nel decennio successivo, non tornò mai ai livelli né degli anni Venti né, tanto meno, del periodo pre-1914. Non era solo l’ascesa dell’egemonia americana a minare il primato finanziario inglese. La cornice economica generale dell’economia britannica, infatti, era, nel secondo dopoguerra, caratterizzata da una crescente debolezza: la scarsa solidità delle industrie inglesi faceva sì che mancassero, alla City, i costanti flussi di capitale in uscita per finanziare il commercio e gli investimenti internazionali, togliendo uno dei tasselli essenziali su cui si era basata la complessa struttura finanziaria inglese nei decenni del suo splendore. Il corollario di questa sofferenza sul piano industriale era rappresentato dalla debolezza della moneta nazionale, la sterlina, che non veniva più usata come strumento di pagamento e valuta di riserva internazionale, superata in questo dal dollaro, eliminando un altro degli elementi essenziali al successo della finanza inglese. Le due importanti svalutazioni della sterlina, inoltre, nel 1949 e nel 1967, non andarono certo nella direzione di un ripristino della sua stabilità e credibilità a livello internazionale. In ultimo, le politiche governative sembravano orientate, nel primo quindicennio successivo al 1945, ad un mantenimento del controllo sui cambi e a restringere la libertà di movimento di capitali. Sopravviveva, inoltre, uno spiccato dirigismo nell’allocazione del credito grazie ad un’attiva politica del Tesoro che agiva attraverso le direttive della Banca d’Inghilterra. Come, si dice, sosteneva lo stesso Keynes, la nazionalizzazione delle banche non era necessaria, perché esse erano, di fatto, già nazionalizzate nella pratica quotidiana.

Il declino della City non fu, tuttavia, una débâcle. Se in alcuni settori essa, effettivamente, perse terreno, in altri la finanza inglese mantenne tutto il suo potere. La rete internazionale degli istituti bancari inglesi era, infatti, ancora la più estesa, con un numero di filiali oltremare che continuò a crescere per tutto il periodo, passando dalle 2.315 del 1938, alle 3.612 del 1955. La più grande banca multinazionale britannica, la Barclays Bank Dco, contava, sempre nel 1955, ben 997 filiali estere, contro le 55 della National City Bank americana. La stessa Londra era la sede di 69 filiali e uffici di rappresentanza di istituti bancari stranieri, che diventarono 80 nel 1960. Le merchant bank continuavano a investire nel commercio internazionale – che rappresentava, ad esempio, per la Schroder il 30% dei guadagni nel periodo 1946-1953 e il 25% nel 1954-1958 – , anche se l’attività di accettazione e di sconto legata al finanziamento del commercio estero britannico salì in maniera vistosa: se, infatti, alla fine degli anni Venti il 70%

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dei titoli era emesso all’estero, negli anni Cinquanta quella percentuale era scesa al 37%.

Ciononostante, le competenze e le connessioni di lungo periodo della finanza britannica, mantennero la City quale luogo principale del finanziamento del commercio internazionale, in quanto, nonostante la supremazia del dollaro, metà dei flussi commerciali internazionali continuarono ad essere denominati in sterline. Nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta, inoltre, riaprirono molti mercati che avevano tradizionalmente la propria sede a Londra, come il mercato della gomma nel 1946, dello stagno nel 1949, del cacao nel 1951, del piombo nel 1952; dello zinco, del rame e della lana nel 1953, ed infine quello del caffè, riaperto nel 1957. Il destino di questi mercati di materie prime fu diverso da prodotto a prodotto: se, ad esempio, il London Metal Exchange riuscì a reggere la competizione di New York, il mercato della lana si spostò a Sidney mentre quello della gomma in estremo Oriente. Di contro, il mercato dell’oro, riaperto nel 1954 a Londra, riguadagnò la sua centralità nella piazza di Londra a scapito sia di New York che di Zurigo. Un altro dei settori in cui le competenze finanziarie inglesi erano ancora predominanti e dove Londra mantenne il suo primato era quello assicurativo: la Lloyd’s rimase, infatti, un gigante, soprattutto nei rami dell’assicurazione contro gli incendi, infortuni e in quello delle assicurazioni marittime

L’emissione di titoli esteri, invece, fu il settore in cui la City perse più terreno, soprattutto nei confronti di New York, ma anche rispetto a Zurigo e Parigi, con un trend discendente osservabile anche sul lungo periodo. È stato infatti calcolato che, se la media precedente alla Prima guerra mondiale era di 200 milioni di sterline di emissioni di prestiti esteri all’anno, questa scese a 150 milioni alla fine degli anni Venti per poi precipitare durante la depressione economica degli anni Trenta, raggiungendo la media annua di 31 milioni di sterline nel periodo 1931-1938. Nonostante dopo il 1945 vi fu, rispetto almeno agli anni Trenta, una piccola ripresa, la media annua per il periodo tra il 1950 e il 1958 si stabilizzò sui 61 milioni annui, andando a rappresentare il 6% del totale delle emissioni lanciate nel paese nel 1961.

Quest’ultimo dato, se osservato congiuntamente al fatto che la maggior parte delle filiali estere delle banche era nei paesi dell’area della sterlina – il 75% si trovavano infatti in Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica – e all’aumento della percentuale del finanziamento dei commerci britannici, dà la misura di un ripiegamento della finanza inglese sul Commonwealth e, in generale, sull’area della sterlina. È interessante notare come gli inglesi strutturarono su questo gruppo di paesi – che comprendeva le colonie più dodici Stati indipendenti – un sistema finanziario che ricordava molto quello mondiale ottocentesco del quale la Gran

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Bretagna era stato il centro indiscusso. Infatti, la City era ora il perno intorno al quale funzionava l’area finanziaria della sterlina: venivano forniti capitali a lungo termine ai paesi dell’area, garantendo l’assorbimento, senza dazi, delle loro esportazioni. I meccanismi che guidavano questi flussi di capitale e manufatti erano basati su principi antichi: le monete di quest’area venivano scambiate a tassi fissi; si operavano controlli uniformi sui cambi rispetto ai paesi al di fuori dell’area; vi era una libera circolazione di capitali; infine, si aveva una condivisione delle riserve. In questo contesto la sterlina rivisse, seppur in modo limitate e geograficamente ristretto, il suo ruolo ottocentesco, funzionando da strumento di pagamento e da valuta di riserva.

Tuttavia, dall’inizio degli anni Sessanta, la congiuntura economica che portò all’accumulazione di dollari in Europa e alla nascita, come visto in precedenza, degli euromercati, permise a Londra di recuperare il terreno perduto e tornare ad essere uno dei maggiori centri finanziari internazionali con rilevanza mondiale, e non più solo regionale: in questo decennio, infatti, la City assunse il controllo della parte maggioritaria del mercato degli eurodollari e delle eurobbligazioni ponendosi al centro delle nuove tipologie di transazioni bancarie internazionali.

Alcune condizioni contribuirono alla rinascita della City. Tra gli elementi principali vi erano le tradizionali competenze in campo finanziario della piazza londinese, accumulate grazie ad una storia plurisecolare e che erano solamente in attesa di poter ricominciare a svolgere le funzioni che meglio conoscevano. Il secondo fattore era costituito dalla tendenza delle istituzioni britanniche ad incoraggiare e stimolare questo tipo di attività: il Tesoro e la Banca d’Inghilterra esprimevano una chiara volontà di sorreggere le aspirazioni internazionali della finanza inglese: di importanza centrale, in questo senso, fu l’esenzione dei depositi denominati in valuta straniera dalle varie restrizioni che si applicavano invece ai depositi in sterline, conducendo nella pratica alla nascita di due attività finanziarie nettamente separate tra loro: una interna, strettamente regolata e denominata in sterline; una seconda verso l’estero, con ampie libertà e denominata in valuta straniera. Infine, deve essere citata la legislazione bancaria degli altri maggiori paesi, che facevano in modo di far confluire i dollari verso Londra, vista le specifiche misure statunitensi della Regulation Q, o quelle di paesi come Francia, Svizzera, Italia e Germania, che tendevano a scoraggiare i depositi esteri.

Sfruttando le possibilità offerte dal nuovo mercato degli eurodollari, la finanza inglese rinacque: per dare una misura di questa rinascita, e del dominio londinese degli euromercati, si calcola che, alla fine degli anni Sessanta, i prestiti con fondi in eurodollari venivano negoziati a Londra per una cifra pari all’80%

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del totale. Un altro dato che permettere di cogliere la nuova posizione della City nel panorama mondiale è il numero delle filiali delle banche estere, per conto delle quali venivano svolte molte delle transazioni che avevano luogo nella City; numero che crebbe notevolmente, passando da 69 nel 1955, a 159 nel 1970, e arrivando a 243 nel 1975, il doppio rispetto alle filiali estere presenti a New York nello stesso anno.

Per far fronte alla nuova mole di affari, nonché accrescendone anche il peso a livello internazionale, venne inaugurata nella City una nuova tipologia di istituto finanziario: i consorzi bancari. Questi ultimi – veri istituti e non semplici sindacati – erano costituiti da diversi gruppi di banche di varia nazionalità, che si univano per perseguire una strategia finanziaria condivisa, per lo più costituiti da banche che non avevano le risorse necessarie per lanciarsi da sole in operazioni finanziarie sui nuovi euromercati, che venivano considerati incerti e quanto mai rischiosi. Il primo di questi consorzi bancari, la Midland and International Bank Limited, venne fondato nel 1964 e andava a riunire la Midland Bank, la Toronto Dominion Bank, la Standard Bank e la Commonwealth Bank of Australia; molti altri ne vennero fondati negli anni successivi, tra cui il maggiore tra essi, che nacque nel 1970 con il nome di Orion Bank.

Gli euromercati ebbero un duplice effetto sulla finanza inglese e sulla City. Se, da una parte, le nuove possibilità finanziarie determinarono certamente una rinascita dell’importanza di Londra come centro internazionale, queste determinarono anche una maggiore esposizione alla concorrenza degli istituti inglesi. I segni di tale concorrenza sono perfettamente rintracciabili nelle statistiche: se, nel 1958, più del 60% del mercato degli eurodollari era controllato dalle banche britanniche, nel 1968 questa quota era scesa al 30%, con un crollo particolare sperimentato dalla quota di mercato delle clearing bank, che passò dal 22% al 2% in appena una decade. Tale situazione si riflettevano anche nel mercato delle eurobbligazioni, dove solamente tre case britanniche – Warburg, Rothschild e Hambro – si posizionavano nella lista delle venti banche che guidarono le emissioni nel periodo 1963-1972. L’elemento che appare più importante sottolineare, tuttavia, è che la rinascita di Londra fondata sulle possibilità concesse dagli eurodollari gettò le basi per quella separazione, richiamata in precedenza, dei destini della City, della finanza inglese, da quelli dell’economia e dell’industria britannica, così come dai destini della sua moneta, la sterlina, che rimase marginale in tutte le nuove operazioni condotte in quegli anni.

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