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UNA SPERIMENTAZIONE DI ANALISI DELLA DOMANDA POLITICA Riccardo Achilli Sommario Premessa generale...................................................... 2 Una esemplificazione di un percorso metodologico possibile.............3 L’anagrafica dei rispondenti........................................... 4 Le priorità generali e i limiti della politica italiana................7 Gli aspetti tematici.................................................. 11 L’euro...............................................................11 Il precariato........................................................12 L’immigrazione.......................................................14 Le tematiche sindacali...............................................15 Il finanziamento dei partiti.........................................18 La proprietà dei servizi pubblici essenziali.........................19 Conclusioni........................................................... 20 1

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UNA SPERIMENTAZIONE DI ANALISI DELLA DOMANDA POLITICA

Riccardo Achilli

SommarioPremessa generale...........................................................................................................................................2

Una esemplificazione di un percorso metodologico possibile..........................................................................3

L’anagrafica dei rispondenti.............................................................................................................................4

Le priorità generali e i limiti della politica italiana............................................................................................7

Gli aspetti tematici..........................................................................................................................................11

L’euro.........................................................................................................................................................11

Il precariato................................................................................................................................................12

L’immigrazione...........................................................................................................................................14

Le tematiche sindacali................................................................................................................................15

Il finanziamento dei partiti.........................................................................................................................18

La proprietà dei servizi pubblici essenziali..................................................................................................19

Conclusioni.....................................................................................................................................................20

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Premessa generale

La sinistra italiana si trova culturalmente insufficientemente attrezzata ad affrontare i nodi critici del tempo che viviamo. La perdita del consenso elettorale nei ceti popolari e proletari che essa dovrebbe tradizionalmente presidiare, e che in misura consistente sono arruolati dai diversi populismi, la difficoltà nel radicarsi nei ceti sociali emergenti del precariato cognitivo e della new economy, determinano di fatto una posizione elettorale non favorevole, fondata per lo più su spezzoni di militanza storica e sul ceto medio globalizzato ed istruito. Anche l’egemonia culturale sembra essersi persa, in un contesto completamente modellato dai miti fondanti del liberismo: individualismo metodologico (che una parte sciagurata della sinistra cavalca, sotto forma di libertarismo dei diritti civili), meritocrazia, competizione.

In altre parti del mondo occidentale (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Spagna, per certi versi Portogallo) si manifestano segnali incoraggianti, seppur tormentati e non scevri da contraddizioni, di ricostruzione della sinistra. Anche nel nostro Paese un processo di ristrutturazione della sinistra si è avviato da circa due anni con eventi di rilevanza (Cosmopolitica che ha avviato il processo di scioglimento della ex SEL, il dibattito interno a Rifondazione Comunista, la parziale scissione della Sinistra Dem dal PD e, forse più importante di tutti, perché interrompe una fase ultraventennale di sconfitte ed arretramenti, la vittoria del No al referendum del 4 Dicembre).

E’ largamente venuto il momento, per la sinistra italiana, di tornare alle radici della società italiana, delle sue pulsioni, dei suoi fabbisogni, delle aspettative che rivolge verso la politica. Numerosi anni di assenza di analisi di classe hanno reso sempre più difficile e sempre meno sistematica la capacità di rilevazione dei mutamenti radicali del substrato popolare su cui la sinistra dovrebbe poggiare. Nell’ultimo ventennio, sotto l’influenza di numerose forze esogene ed endogene, la società italiana è cambiata profondamente: innovazione tecnologica (si pensi alla vera e propria rivoluzione telematica che abbiamo vissuto), nuovi modi di produrre, la disgregazione e riaggregazione in forme diverse dei sistemi produttivi territoriali, potenti fenomeni sovrastrutturali, di tipo culturale, di stile di vita, veicolati dai media, hanno frammentato i vecchi blocchi sociali novecenteschi, riproponendoli in forme nuove e poco conosciute. La lunghissima e ancora non esaurita crisi economica ha accelerato questi processi, spezzando quasi definitivamente il vecchio compromesso welfaristico fra capitale e lavoro novecentesco, e riorganizzando le forze produttive secondo i dettami atomistici e ipercompetitivi tipici del neoliberismo. Persino il ruolo tradizionale di protezione fornito dalla famiglia sta cedendo, sotto i colpi dell’esaurimento delle sue dotazioni patrimoniali, un tempo cospicue, e dell’indebolimento dei legami tradizionali fra i suoi componenti.

Emergono nuove classi sociali, quali il precariato cognitivo o le forme intermedie fra proletariato e piccola borghesia della share economy, delle cui aspirazioni vitali e autorappresentazioni culturali sappiamo ben poco, e perlopiù per sentito dire o per conoscenze dirette, e senza sistematicità. Lo stesso proletariato industriale, ancora molto forte numericamente, cambia pelle, sotto i dettami delle nuove forme produttive della lean production e della qualità totale, in forme che richiedono una crescente cooperazione con la proprietà delle aziende, mentre segmenti di piccola borghesia si proletarizzano, in termini di posizionamento nel modo di produzione (si pensi al mondo del franchising ed a quello delle partite IVA, in cui solo formalmente la posizione è di tipo autonomo e imprenditoriale, ma in realtà nasconde forme di lavoro subordinato).

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Una esemplificazione di un percorso metodologico possibile

Occorre evidentemente tornare a studiare la società italiana, e la sua domanda politica, con strumenti organizzativi solidi (da questo punto, la costruzione di un partito radicato nei territori e in grado di fare sintesi di cultura politica, abbandonando suggestioni di orizzontalismi liquidi o illusioni “social” di partecipazione diretta è la priorità da perseguire) ma anche con strumenti di indagine sistematici.

Un percorso ideale, sotto questo secondo aspetto, dovrebbe rifuggire da semplificazioni demagogiche, come l’illusione che l’ascolto della “piazza” da solo, possa fornire autonomamente qualcosa di più di impulsi semi-razionali, ma sapendo che la costruzione di un programma politico passa necessariamente da una sintesi effettuata da livelli gerarchicamente crescenti di responsabilità politica. Naturalmente, però, l’ascolto va fatto, perlomeno come primo passo. L’interesse deve essere incentrato su forme di ricerca sociale che producano mobilitazione politica dei ceti di riferimento della sinistra, che generi un riavvicinamento alla politica militante da parte dei tanti che se ne sono allontanati, confluendo nell’astensionismo. In una configurazione ideale, i circoli territoriali di partito dovrebbero tornare ad essere luoghi di dibattito politico, anche strutturato, attraverso focus group o questionari, o metodi più avanzati di conricerca sui luoghi di vita e di lavoro. Vale la pena di sottolineare come l’opinione rilevante non sia soltanto quella della militanza consolidata, legata in modo indissolubile alla sinistra ma, in una ottica di ripresa di egemonia, deve estendersi anche a fasce di popolazione lontane dalla sinistra ed addirittura dalla politica, essendo cadute nell’astensionismo.

In questo documento, viene presentata, a puro titolo di esempio e con evidenti limiti metodologici e interpretativi, di cui si dirà a breve, una sorta di “demo” di una indagine rapida di opinione politica, molto generica, al fine di dimostrare le potenzialità di una ripresa di analisi sociale. La demo si basa su un questionario molto semplice, somministrato rapidamente, tramite le reti sociali, ad un costo pressoché nullo, cercando di andare a colpire una utenza più larga di quella unicamente di sinistra.

I limiti dell’esercizio consistono nella genericità delle domande, volutamente ricercata per non interferire con l’approfondimento programmatico, che compete alle strutture politiche, nella semplicità del questionario che, per voler essere solo un esempio, è consistito esclusivamente di domande a risposta chiusa. Ciò rende ovviamente più semplice l’elaborazione ex post dei risultati delle risposte, ma ha il difetto di “guidare”, entro certi limiti, il percorso di risposta.

La rappresentatività del panel di rispondenti (poco più di un migliaio di casi) non è di tipo statistico, per cui non è possibile inferire dai risultati di tale gruppo una tendenza generale per l’universo dell’elettorato. Per ovvi motivi legati alle forme di diffusione del questionario, la prevalenza dei rispondenti appartiene all’area della sinistra.

Fatte queste doverose premesse, il questionario (presentato in dettaglio in allegato) è suddiviso nei seguenti blocchi tematici:

- Descrizione generale del rispondente (età, professione, orientamento politico ecc.);- Considerazioni generali sulle priorità di massima e sui limiti d’insieme della politica italiana;- Orientamento su questioni tematiche: l’euro e l’Europa, il lavoro, l’immigrazione, il rapporto fra

politica e sindacato, ecc.

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Nonostante i limiti metodologici di un esercizio puramente esemplificativo, alcuni risultati appaiono, a giudizio di chi scrive, di un certo interesse, e vale la pena di descriverli, per mostrare la potenzialità di una ricerca sistematica della domanda sociale. Di seguito, quindi, si discutono i risultati del questionario sui 1.061 rispondenti.

L’anagrafica dei rispondenti

Il panel, come detto, è di 1.061 rispondenti. Il 68,4% è maschio. Più del 60% dei rispondenti ha più di 45 anni. La quota dei giovani è minoritaria: meno di un quinto è sotto i 30 anni, i minorenni sono l’1%. Fatte le debite considerazioni circa i limiti di rappresentatività di questo panel, esso è comunque il frutto di persone che, volontariamente, si sono dedicate a riempire un questionario, e lo hanno fatto mosse da un interesse politico minimale. Sembra che i più giovani siano meno attivamente interessati rispetto alle fasce di età più avanzate, e ciò, se dovesse essere confermato da indagini più approfondite, sarebbe un campanello di allarme per la politica. Sono i giovani, in generale, a presentare le istanze politiche di rottura degli equilibri, più “progressiste”.

Distribuzione % dei rispondenti per fascia di età

Meno di 18 anni 18-29 anni 30-45 anni 45-65 anni oltre 65 anni

1.0

17.521.1

44.2

16.1

Il profilo lavorativo dei rispondenti è tipico dei ceti medi: le percentuali più alte si concentrano fra impiegati e lavoratori autonomi/imprenditori. I pensionati, in linea con un panel di età relativamente avanzata, sono il 18,4%, a fronte di un 13,2% di studenti. Disoccupati e casalinghe (uno status professionale che solo a volte è volontario, in altri casi maschera una disoccupazione involontaria) sono circa il 10,6%. Gli operai costituiscono appena il 2,2% del panel.

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Distribuzione % dei rispondenti per condizione professionale

Studen

te

Casalin

ga

Disocc

upato/a

Impieg

ato/a

Libero

profes

. /impren

ditore/

trice

Operaio

Pensio

nato

Altro/n

r

13.2

2.1

8.5

27.0

16.2

2.2

18.4

12.4

Sotto il profilo contrattuale, fra chi lavora alle dipendenze prevale il contratto a tempo indeterminato (altro elemento legato ad una età media del panel non giovanissima, infatti i tre quarti di chi ha questa tipologia di contratto ha 45 anni e più). I contratti a termine o parasubordinati sono invece appannaggio di chi ha meno di 45 anni, con il 79,3%. Si conferma quindi un divario generazionale, fra chi ha avuto il tempo di inserirsi in un mercato del lavoro ancora garantito e chi, troppo giovane, è rimasto confinato dentro il precariato. Il lavoro a tempo parziale riguarda, più o meno paritariamente, sia uomini che donne, un possibile segno che tale strumento potrebbe aver oramai superato l’originaria finalità di mezzo di conciliazione fra tempi di vita e di lavoro per le lavoratrici, ed essere diventato un ennesimo veicolo di precarietà, soprattutto per un inserimento sul mercato del lavoro al ribasso per i più giovani (55,6% dei titolari di tale contratto)1.

1 Va tuttavia detto che il rapporto paritario nell’utilizzo di tale tipologia contrattuale fra i due generi è stato significativamente influenzato dalla prevalenza degli uomini nel panel.

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Distribuzione dei rispondenti che lavorano alle dipendenze o in forma parasubordinata per tipologia contrattuale – valori percentuali

3.4

31.5

7.7

57.4

Tempo parziale Tempo pieno e indeterminato A termine

non lavoro/ non lavoro alle dipendenze

Infine, sotto il profilo dell’orientamento politico, la modalità con la quale il questionario ha circolato ha fatto sì che esso sia pervenuto essenzialmente a simpatizzanti di sinistra, che rappresentano l’85,4% del totale. Le risposte del questionario sono quindi prevalentemente un test delle opinioni della base della sinistra, anche se non vanno ignorati i 73 rispondenti che non si identificano in nessuna parte politica, dichiarandosi senza orientamento, e che possono essere potenziali simpatizzanti del M5S oppure potenziali astensionisti (questa seconda ipotesi è meno probabile, se si sono presi la pena di riempire un questionario politico).

Il rispondente di sinistra, tipicamente, è di età matura se non ultrasessantacinquenne. E’ un impiegato (tendenzialmente con contratto stabile), un libero professionista o un pensionato. L’assenza di orientamento politico si riscontra soprattutto fra impiegati e autonomi/imprenditori, della fascia di età fra i 45 ed i 65 anni, ma quasi il 20% è costituito da disoccupati e casalinghe, ed una percentuale analoga è rappresentata da persone che, quando non sono autonomi o imprenditori, lavorano con contratto precario. L’area moderata e di destra è rappresentata soprattutto da studenti con meno di 30 anni, da autonomi/liberi professionisti e da persone in condizione non professionale (disoccupati e casalinghe). Gli operai sono troppo pochi per poter fare ragionamenti minimamente rappresentativi in termini di orientamento politico.

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Ripartizione % del panel per tendenza politica

85.4

4.5 3.2 6.9

Sinistra Centro/moderato Destra Nessun orientamento

Le priorità generali e i limiti della politica italiana

La priorità fondamentale è costituita dal lavoro. E’ un tema fondamentale, che supera di molto anche le politiche di contrasto alla povertà e welfaristiche/previdenziali (due item di risposta che concettualmente sono pressoché identici, perché le politiche welfaristiche servono per contrastare la povertà). Questa considerazione ha un certo rilievo anche in termini di progettazione di strumenti di sostegno al reddito: si chiede un inserimento attivo nel mercato piuttosto che un sostegno passivo al reddito. Più uno strumento universalistico di attivazione che una politica di reddito di cittadinanza senza canali di sostegno all’occupazione.

Il lavoro è la richiesta di quasi tutti i rispondenti aventi meno di 30 anni, come è ovvio, mentre, paradossalmente, la richiesta di contrasto alla povertà proviene soprattutto dalle classi di età fra i 30 ed i 65 anni, cioè dalle fasce che hanno una maggiore frequenza di persone in condizione professionale. E’ un dato preoccupante, che segnala il degrado del tenore di vita di chi lavora ed ha un reddito, ma anche il timore di cadere in povertà legato alla precarizzazione dei rapporti di lavoro: il 13% circa di chi ha un contratto precario ha indicato la lotta alla povertà come priorità.

Ricordando che il rispondente poteva esprimere due opzioni prioritarie, è anche interessante il “decoupling” fra richiesta di lavoro e richiesta di maggiore crescita economica. La richiesta di lavoro, in un certo senso ingloba quella di crescita economica, ma da un altro punto di vista ne è indipendente: soltanto 154 rispondenti, fra gli 831 che hanno indicato la priorità lavoristica, hanno anche indicato la crescita come altra opzione. Sembra quasi che i rispondenti, in molti casi, si preoccupino più di una migliore distribuzione delle opportunità di lavoro esistenti che un incremento in valore assoluto, che ovviamente dipende dalla crescita economica. Sembra echeggiare il “lavorare meno per lavorare tutti”, ma probabilmente in molti vi

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è anche una richiesta di migliori condizioni di lavoro e di riequilibrio dei frutti della crescita fra lavoro e capitale.

Il lavoro sembra essere il vero elemento politico unificante: è indicato come priorità da ampie maggioranze di rispondenti, non solo di sinistra, ma anche di centrodestra o prive di orientamento politico. Sembra quindi che una possibile egemonia culturale e programmatica passi dalla centralità assoluta del tema occupazionale.

Mentre il tema ambientale è anch’esso fra gli elementi prioritari (peraltro, il questionario è stato raccolto nei giorni immediatamente successivi ai fatti di Livorno, il che ha avuto una chiara influenza) ma ha una rilevanza soprattutto per l’elettorato di sinistra (e quello di centrodestra è l’area che manifesta il minore interesse sulla questione) ed è quindi meno marcatamente “trasversale”, va notato come il tema dei diritti civili, seppur importante, quasi esclusivamente per i rispondenti di sinistra, che costituiscono l’83,6% di chi risponde a tale item (ma anche per più di un quinto di chi si dichiara senza orientamento, a dimostrazione del forte contenuto libertario di parte dell’elettorato grillino, che tipicamente rifugge dalla differenza fra destra e sinistra, ed in misura non indifferente è alimentato da ex elettori di sinistra) è di gran lunga meno rilevante rispetto a lavoro, welfare e povertà, cioè rispetto ai cosiddetti diritti socio-economici. Questo è il portato di una società attraversata da una lunghissima crisi, che non può più permettersi il lusso di un egualitarismo formale senza prima riottenere forme consistenti di egualitarismo sostanziale. Circa il 54% di chi ha indicato i diritti civili è un impiegato, un autonomo/imprenditore, un operaio o un pensionato, cioè ha un reddito. La quota di disoccupati che indicano tale item è relativamente bassa, come quella degli studenti, preoccupati più dal loro inserimento sul mercato del lavoro che non da tematiche di tipo civile.

Stupisce, per certi versi, che solo 131 rispondenti abbiano segnalato, fra le priorità, il rapporto con la Ue. Si tratta di una priorità meno avvertita rispetto alla crescita economica ed al welfare o al contrasto alla povertà, eppure è proprio dal rapporto con la Ue che derivano le difficoltà nel mettere in campo politiche per la crescita (ed il lavoro), il welfare e la redistribuzione. Permane, nell’opinione pubblica, una certa difficoltà culturale nel comprendere appieno da dove derivino i problemi strutturali che rendono difficile recuperare condizioni economiche e sociali migliori. La Ue è avvertita come un soggetto lontano, per certi versi “neutrale”, oppure non condizionabile, comunque come una variabile per certi versi indipendente, mentre ci si illude che senza un cambiamento degli assetti europei si possano implementare politiche espansive di vicinità. Il 20,6% di chi segnala tale elemento, politicamente, non è di sinistra (mentre tale area, come si ricorderà, rappresenta meno del 15% del totale) e ciò segnala come la sensibilità ai rapporti con la Ue, ed in generale la politica estera, siano temi maggiormente presenti nella destra che non nella sinistra.

Il blocco securitario di risposte (sicurezza, immigrazione) è del tutto minoritario, ed è in larga misura avvertito da chi ha tendenze politiche di centrodestra o non ha nessun orientamento. Queste due tendenze di elettori arrivano a pesare per il 47,1% sul tema della sicurezza e per il 37,2% su quello migratorio, due percentuali ben superiori alla loro incidenza complessiva nel panel (che è del 14,6% complessivo). E’ evidente che tali temi costituiscono un forte richiamo identitario per la sinistra, che sul tema migratorio tende ad una risposta di apertura molto chiara, e sul tema della sicurezza presenta una tradizione libertaria, che teme derive repressive. Tuttavia, questi due temi sono fortemente percepiti dall’area elettorale esterna alla sinistra, anche fra l’elettorato “swinging”. Il rischio è quindi quello di una sorta di autosegregazione in un “Fort Apache” identitario, che non attrae fasce esterne al proprio elettorato tradizionale, impedendo di consentire una uscita dall’attuale posizione minoritaria.

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Non è un caso se il tema della sicurezza coinvolge, per il 26,5% delle risposte in tal senso, i disoccupati, che nel panel pesano solo per l’8,5%. Anche per gli operai, si verifica lo stesso fenomeno di relativa sovra-rappresentazione dell’incidenza percentuale delle risposte securitarie (rispettivamente, il 2,6% ed il 4,4% per il tema immigrazione ed il tema sicurezza) rispetto alla loro incidenza nel totale del panel (2,2%). Disoccupati ed operai sono categorie sociali che la sinistra dovrebbe prendere in considerazione nella sua composizione elettorale, e non tenere conto che sembrano esprimere una tendenza verso tali sistemi sarebbe quantomeno arrogante. Naturalmente, ciò non significa assecondare gli istinti peggiori dell’opinione pubblica, ma saper proporre un compromesso programmatico che tenga conto anche della realtà.

Chiude la classifica, buon ultimo, il tema delle riforme istituzionali, che sembra interessare soltanto le élite tecnocratiche ed i loro affiliati politici. L’area politica che non si riconosce nella sinistra è sovra-rappresentata rispetto al suo peso nel panel, costituendo il 30%, più del doppio della sua incidenza complessiva. In questo elemento si riflette l’atteggiamento complessivamente “difensivo” della sinistra sui temi istituzionali, che mira ad una battaglia per difendere gli assetti esistenti, non per modificarli.

Distribuzione delle priorità politiche del panel, valori assoluti, risposte multiple

Altro

Riforme istituzionali

Sicurezza

Immigrazione

Rapporti con l'Europa

Diritti civili

Crescita

Welfare e pensioni

Ambiente e territorio

Povertà

Lavoro

30

60

68

78

131

195

230

285

290

320

831

Sul versante delle problematiche politiche principali, il blocco rilevante identificato ruota attorno ad un problema di scarsa qualità ed autonomia della classe politica, percepita, in massima parte, come incompetente, poco autonoma rispetto a potentati ed interessi economici esterni al gioco democratico, e quindi, di conseguenza, come poco presente nei problemi quotidiani della vita. A tale problema qualitativo, non sembra che la leadership possa porre un argine significativo, e, anzi, l’idea di un leader forte che funga da sostituto di un ceto politico inetto è tipicamente di destra (tale item viene segnalato per il 61,5% da chi è di orientamento politico di centrodestra). La leadership è ovviamente importante in politica, soprattutto in un sistema fortemente mediatico come quello attuale, dove la complessità viene portata a sintesi dalla capacità del leader di offrire un messaggio unificante e di semplice comprensione. Culturalmente, però,

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detto tema rappresenta un tabù della sinistra, perché legato a timori autoritari ed a una tradizione, specie nella sinistra di origine socialista, incentrata sul libertarismo anche nella vita interna dei partiti.

Tuttavia, le migliori pagine della sinistra italiana sono state scritte, sia sul versante comunista che su quello socialista, dalla presenza di grandi leader, in grado di imporre un carisma intellettuale e politico, senza soffocare il dibattito interno e la diversità delle posizioni. Un partito non può fare a meno del suo leader. Le illusioni di gestione collettiva durano poco, perlopiù nelle fasi iniziali di start up. Ciò di cui ci si deve liberare sono le leadership inadeguate, o perché culturalmente inadatte alla fase, o perché soffocanti rispetto al dibattito interno. Per questo la leadership non può essere improvvisata, ma maturare dentro un percorso di selezione e crescita organizzativa interna, con l’assunzione progressiva di responsabilità crescenti. Ma pensare che il leader non sia una parte della soluzione è ingenuo, almeno a parere di chi scrive.

Per il resto, va segnalato come circa l’1,5% di chi segnala l’assenza di una sinistra forte come principale problema della politica italiana abbia un orientamento politico di centro destra o non abbia orientamento. Evidentemente, anche in una parte, per quanto molto minoritaria, di chi non guarda a sinistra, si avverte l’assenza di un avversario politico in grado di arricchire il dibattito con i valori della giustizia sociale, dell’eguaglianza, del pacifismo, del rispetto per l’ambiente. Ciò, da un certo punto di vista, è preoccupante, perché segnala come anche a destra vi sia qualcuno che inizia ad avvertire il soffocamento dello spettro delle tematiche dentro l’agone politico attuale, e ciò è una spia di progressiva restrizione della democrazia, che inizia ad essere percepita anche da chi non è dalla parte nostra.

Distribuzione delle principali problematiche politiche dell’Italia, valori assoluti

Assenza di un leader forte

Altro

Scarsa autonomia dai poteri economici e finanziari

Distacco politica da vita quotidiana

Assenza di una sinistra forte e unita e di un sindacato forte

Scarsa qualità classe politica

13

40

161

186

262

399

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Gli aspetti tematici

L’euroCome del tutto prevedibile, il grosso dei simpatizzanti di sinistra ritiene che sia possibile cambiare l’Europa dall’interno, preservando l’euro con politiche economiche invertite direzionalmente. Dentro il 69,6% di chi chiede di mantenere l’euro cambiando le politiche economiche c’è, per l’89,2%, la componente di chi si è dichiarato di sinistra. Per il 62,5%, tale risposta viene data da persone di età superiore ai 45 anni, cresciute politicamente dentro la retorica europeista degli anni precedenti la crisi e l’entrata in vigore dell’euro. Per la medesima percentuale, si tratta di ceto medio (impiegati, liberi professionisti ed imprenditori) e quindi probabilmente gioca un fattore psicologico, ovvero il terrore di perdere gli ultimi posizionamenti sociali e reddituali, preservati dalla crisi economica, in un ipotetico shock da fuoriuscita.

Quello che stupisce è piuttosto il fatto che il 79,7% di chi ha dichiarato che l’euro va difeso com’è, senza nemmeno cambiare la direzione delle politiche economiche, si professi di sinistra. Nel 39% dei casi di tratta di un titolare di una posizione reddituale fissa (contratto a tempo indeterminato, pensionato) che può temere la fuoriuscita per i suoi effetti su tale posizione di stabilità reddituale, ma per il 25% si tratta di studenti (che però pesano solo per il 13% nel panel complessivo). Sembra di poter dire che chi è giovane, e si appresta ad acquisire un titolo di studio superiore, ritiene di trarre dalla globalizzazione così com’è maggiori opportunità personali, pur rimanendo ancorato ad una adesione astrattamente di sinistra.

Specularmente, l’11,9% di chi pensa a vari livelli di abbandono della moneta unica si professa di centrodestra, ed un altro 11,5% è senza orientamento politico, ben oltre il 14,6% di incidenza sul panel complessivo dell’area di centrodestra o priva di orientamento. Gioca in questo caso una più radicata idea di Patria, che sono il portato politico della cultura della destra italiana. Chi vuole uscire dalla moneta unica, a vari gradi, è nel 17% dei casi un disoccupato, un operaio o una casalinga. Tali categorie pesano solo per il 12,8% sul panel totale. I precari costituiscono il 14,3% di chi vuole l’uscita, anche in questo caso al di sopra della loro incidenza totale, che è dell’11,1%.

Nella sostanza, sono le fasce popolari e fragili della popolazione a chiedere in misura maggiore forme di abbandono della moneta unica, perché ne percepiscono direttamente la minaccia. Anche in questo caso, seppur in forma sociologicamente più complessa, si ripropone lo stesso tema della questione migratoria e della sicurezza, analizzate in precedenza: rimanere dentro il fortino culturalmente identitario dell’internazionalismo, che però è presidiato da chi “ce l’ha fatta” rispetto alle tempeste della crisi economica oppure, oppure mirare maggiormente a catturare la rappresentanza sociale tradizionale, che in parte sta fuori dal fortino e guarda a destra o ai populismi? Questa è la linea che passa fra la difesa delle posizioni elettorali già acquisite, ed il tentativo di allargare la propria base, correndo però tutti i rischi legati ad uscire dalla protezione del fortino ed affrontare il mare aperto.

La base elettorale acquisita è il punto di partenza irrinunciabile di qualsiasi progetto, e non la si può abbandonare del tutto. Questo perché non ci si può permettere il lusso dei populismi, che in quanto tali riflettono passivamente l’opinione prevalente senza orientarla ideologicamente; il socialismo pretende di poter orientare l’opinione pubblica, e per poterlo fare, deve partire dal suo zoccolo di rappresentanza che costituisce la sua radice identitaria. I populismi possono costruire castelli di sabbia che si possono disfare se la tendenza dell’opinione pubblica cambia, come in un gioco di marketing politico; il socialismo deve costruire su fondamenta, che non sono solo culturali, ma anche umane, e cioè rappresentate dalla sua gente.

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E’ quindi evidente che l’orientamento prevalente degli elettori di sinistra che, almeno a giudicare dai dati del panel (con tutti i suoi limiti metodologici sopra esposti) sono ostili ad una uscita dall’euro inevitabilmente, e per certi versi comprensibilmente, finisce per pesare sulle posizioni programmatiche. Ciò che però va evitato è l’aggiustamento passivo su tali posizioni. Una opera di disseminazione culturale dei limiti intrinseci della riformabilità delle politiche economiche dell’rea euro va proseguita. Un compromesso programmatico, che contempli l’ipotesi di una via d’uscita perlomeno in caso di disastro (come l’esplosione di una nuova bolla finanziaria, in una fase in cui l’aggiustamento dei conti del sistema bancario è ancora lento, e la ripresa economica fragile) va contemplato. Almeno sotto forma di uscita di emergenza.

Ripartizione % del panel per giudizio sull’euro

Va dife

so ca

mbiando politi

che eco

nomiche

Va abban

donato

Va dife

so co

m'è

Va affian

cato a

valuta

parallel

aAltro

69.6

17.06.0 4.0 3.5

Il precariatoPoco più della metà del panel intervistato si pone, di fronte ai cambiamenti strutturali del mercato del lavoro, in una ottica di ritorno alle tradizionali tutele dello Statuto dei Lavoratori precedenti alla Fornero, con la richiesta di riassorbire e riportare ad unitarietà la disgregazione delle forme contrattuali dentro il vecchio articolo 18. Ora, come si è visto in precedenza, il tema del lavoro è centrale in termini sia di unificazione interna alla sinistra, sia di dialogo con un’area di elettorato più vasta. Il tema va quindi affrontato con molta attenzione e realismo: un ritorno “sic et simpliciter” alle precedenti forme di tutela, in presenza di un modello di specializzazione produttiva dell’economia italiana per molti versi simile a quello delle economie industriali emergenti e di un globalizzazione dei mercati molto evoluta, rischia di essere impraticabile. Le imprese, poste di fronte ad un ritorno di forme di tutela del lavoro pregresse, possono delocalizzare se sono di media e grande dimensione, tornare alla forma spuria di flessibilità costituita dal sommerso e dall’economia grigia se sono piccole. Se però tali imprese operano in settori dove gli skill specifici del personale sono difficilmente sostituibili delocalizzando in Paesi a minor tasso di tutela del lavoro oppure dove la qualità percepita del prodotto è indissolubilmente legata ad una origine territoriale, e stiamo parlando, da un lato dei settori knowledge-intensive, e dall’altro del made in Italy di eccellenza,

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oppure se operano in settori fisicamente non trasferibili (trasporti, turismo, servizi della PA) allora, in tali attività, si può sperimentare una forma di reintroduzione delle tutele dell’articolo 18. Viceversa, nei settori volatili, ad elevato tasso di internazionalizzazione, nelle fasi di lavorazione interne alle filiere produttive dove il territorio di produzione conta poco, o si introducono forme larvate di protezionismo (disincentivi alle imprese che delocalizzano, vincoli alle importazioni da Paesi che praticano dumping sociale e salariale) oppure la mera reintroduzione dell’articolo 18 è pressoché impossibile. Ma evidentemente l’adesione all’euro ed alla Ue, che i simpatizzanti di sinistra sono poco propensi ad abbandonare, rende impossibile fare queste politiche di protezionismo moderato.

Di conseguenza, almeno per quelle aree del sistema produttivo in cui il ritorno al passato è poco praticabile, occorre pensare a forme specifiche di welfare che migliorino le condizioni di un bacino di precariato non comprimibile del tutto, ad esempio forme di integrazione monetaria con servizi di orientamento/reinserimento lavorativo e formazione nelle fasi di transizione da un contratto all’altro, sul modello di esperienze come il minimax belga. E’ forse a questo che pensa quel 24,6% di rispondenti che ritengono di assistere l’area del precariato con politiche specifiche. Rispondenti che, nell’87,7% dei casi, si professano di sinistra.

Altra questione è invece quella di pensare che il problema del precariato si risolva dal versante dell’offerta, con la ben nota teoria liberista del trickle down, per la quale il miglioramento della competitività dell’offerta produrrebbe qualche miracolistico miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Tale ideologia di stampo liberista, e che costituisce la base delle politiche lafferiane di riduzione del carico fiscale sui più ricchi e sui produttori, si riflette, nel mercato del lavoro, nell’idea (abbracciata, non a caso, dai Governi Renzi e Letta, ma di antica impostazione, risalendo già ai tempi del primo Governo di Prodi) della decontribuzione come incentivo alla creazione di lavoro stabile nelle imprese. La pervasività velenosa di tale ideologia è talmente intensa che il 19,4% dei rispondenti ne è affetta, segnalando come la riduzione del carico fiscale e contributivo sulle imprese possa migliorare le condizioni dei lavoratori precari. Cosa più grave ancora, in questo quinto circa di rispondenti il 60,2% si dichiara di sinistra, forse ricordando i vecchi provvedimenti di decontribuzione varati dai Governi di centrosinistra (che però non hanno portato a nessun risultato apprezzabile rispetto al riassorbimento dell’area precaria dell’occupazione) 2. L’11,1% ha un contratto di lavoro precario, quindi è vittima di tale sistema. Il 6% circa è un disoccupato, quindi pensa veramente di poter trovare un lavoro stabile tramite una riduzione fiscale per i datori di lavoro. Tutto ciò, purtroppo, non fa che evidenziare quanto sia efficace, dal punto di vista delle motivazioni e della psicologia individuale, il messaggio neoliberista. Quanto anche larghi strati della sinistra ne siano stati infettati.

C’è addirittura uno 0,6% di rispondenti, costituito per due terzi da persone che si reputano si sinistra, che pensa che vada tutto bene così com’è e che non si debba intervenire, secondo i classici dettami neoclassici per i quali il mercato del lavoro trova da solo il suo equilibrio ad un punto di pieno impiego (tranne fattori frizionali di disoccupazione) se non si interviene, lasciando che salario e condizioni contrattuali oscillino verso il basso, fino al punto di equilibrio. Di fronte a questi risultati sconcertanti, non si può che rimanere sbigottiti per la distruzione dei fondamenti culturali della sinistra italiana, e prepararsi per un lavoro lunghissimo e difficilissimo di ricostruzione delle basi concettuali e di pensiero.

2 Va peraltro ricordato come Ibc, nel 2013, proponesse un incremento del carico contributivo sui contratti precari, al fine di disincentivarne l’utilizzo, dirigendo la domanda di lavoro su quelli stabili.

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Ripartizione del panel per giudizio sulle politiche di contrasto al precariato, valori percentuali

Riasso

rbito

con rit

orno ad

art. 1

8

Assisti

to da p

olitich

e spec

ifiche (

reddito

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inanza/

inserim

ento

)

Abbassare

tasse

sul la

voro

per le

impres

e

Non So

Non inter

venire

52.2

24.619.4

3.20.6

L’immigrazioneCome si è visto in precedenza, il tema migratorio non è certo ai primi posti nelle priorità politiche, specie della sinistra, con tutto ciò che tale scala di priorità comporta in termini di rappresentanza delle fasce popolari più deboli.

Tuttavia, nella non particolare rilevanza che il tema assume fra le priorità politiche dei rispondenti, il 56,3% ritiene che, quantomeno, occorra filtrare o rendere selettiva l’immigrazione (sarebbe interessante capire se tale filtro debba avvenire nel Paese di origine o di destinazione, ma per non appesantire il questionario ciò non è stato chiesto). Naturalmente, l’incidenza dei rispondenti di centro destra o senza orientamento specifico è piuttosto alta, su tale item: il 9,5% per i primi, l’8,2% per i secondi. Ma, d’altro canto, 491 rispondenti sui 597 che hanno scelto tale item si dichiarano di sinistra, segno che, probabilmente, pur in un contesto di scarsa rilevanza attribuita al tema in generale, in alcune aree di sinistra numericamente importanti inizia a prospettarsi qualche preoccupazione sulla sostenibilità di flussi migratori così consistenti per il mercato del lavoro e gli assetti sociali. in effetti, 46 dei 491 rispondenti di sinistra sono operai o disoccupati (quasi il 10% del totale) e 54 sono precari (11% del totale). E’ dove si annida il disagio sociale che nasce, pur in un ancoraggio a sinistra, una consapevolezza del problema, almeno potenzialmente.

Preoccupazione che invece non sembra sfiorare i 372 simpatizzanti di sinistra, su 391, che ritengono di lasciare completamente aperte le frontiere. Un numero consistente rispetto all’incidenza sul panel totale è costituito da giovani con meno di 29 anni, ancora una volta confermando, fra le generazioni più giovani che guardano a sinistra, una visione positiva/ottimistica dei fenomeni legati alla globalizzazione. 117 di coloro che vogliono lasciare le frontiere aperte hanno un contratto a tempo pieno ed indeterminato e generalmente una età che li protegge dalla trasformazione di tale tipologia di contratto operata dal Jobs

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Act, e quindi, fra i meno giovani, una ampia tolleranza per l’immigrazione sembra essere legata al livello di tutele e di sicurezze socio-lavorative ed economiche di cui si dispone.

La volontà di bloccare del tutto l’immigrazione è una tipica rivendicazione di destra, ma viene scelta, nei 45 casi di risposta a tale item, da persone vicine alla sinistra, per ben 17 volte, altro segno che il fenomeno migratorio, per le dimensioni che assume e la percezione di allarme sociale, sta iniziando a produrre effetti di chiusura anche a sinistra. Seguono, con valori pressoché identici, simpatizzanti di centro destra e persone senza orientamento politico (in effetti il M5S, che aspira a rappresentare questo gruppo di elettori, assume spesso un atteggiamento di chiusura rispetto all’immigrazione).

Ripartizione del panel per giudizio sulle politiche di contrasto all’immigrazione, valori percentuali

Non so

Bloccata del tutto

Lasciate aperte frontiere

Filtrata e resa selettiva

2.6

4.2

36.9

56.3

Le tematiche sindacaliGli ultimi 30-40 anni, dalla marcia dei colletti bianchi della Fiat di Torino in poi, il sindacato confederale ha attraversato una lunga crisi di rappresentanza, oramai perlopiù limitata ai pensionati ed alle élite più garantite del mondo del lavoro. Il mondo del nuovo lavoro, privo di tutele, non è stato intercettato, e le proposte di riconduzione a forme di stabilizzazione di tali lavoratori non sono risultate appetibili. Al contempo, con lo sprofondamento verso l’insignificanza di culture politiche come il comunismo, il socialismo autonomista, il cattolicesimo sociale, la cinghia di trasmissione fra sindacato e politica si è allentata sempre di più. Tanto che le prime richieste di “ridimensionamento finale” del sindacalismo confederale sono provenute dal PD. Il tutto senza che il sindacalismo autonomo e di base, per i suoi evidenti limiti intrinseci, sia riuscito a occupare uno spazio rilevante, accentuando, anziché contrastare, la frammentazione interna del mercato del lavoro e il conflitto interno al fronte dei lavoratori.

Di fatto, la sfiducia nell’azione del sindacato si è fatta generalizzata, tanto che una sia pur lieve e relativa maggioranza dei rispondenti ritiene che il suo ruolo nella contrattazione collettiva, prima di essere potenziato, vada rivisto/migliorato, ed il 6,3% si dichiara addirittura indifferente al ruolo delle rappresentanze confederali quando non ostile (3,9% dei casi). I 476 rispondenti che vogliono reagire alla crisi del sindacato con il potenziamento del suo ruolo nella contrattazione collettiva (e quindi,

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implicitamente, con il contrasto alla polverizzazione dei CCNL in contratti aziendali, settoriali o territoriali) sono, in più del 65% dei casi, persone con 45 anni e più. Nel 32% dei casi hanno un contratto a tempo pieno ed indeterminato, ed in un altro 24% dei casi sono pensionati. Quindi nel 56% dei casi sono titolari di reddito fisso, che hanno costruito le loro tutele nel mercato del lavoro pre-Fornero, in una fase in cui il sindacato confederale era ancora relativamente forte ed ha potuto incidere positivamente sulla loro condizione personale.

Di converso, più del 28% di chi pensa che il ruolo del sindacato sia da ridurre, o si mostra indifferente, è costituito da lavoratori precari, da disoccupati o da casalinghe (che spesso sono disoccupate involontarie), percentuale superiore all’effettivo peso di tali categorie nel panel. In sostanza, il sindacato ha difficoltà a rappresentare gli outsider sul mercato del lavoro, che lo ripagano con indifferenza o ostilità, in un circuito vizioso in cui l’uno delegittima l’altro. Il che ovviamente comporta il distacco da un modello di contrattazione collettiva dal quale, ovviamente, disoccupati e lavoratori flessibili sono esclusi per definizione.

Politicamente, chi vuole ridurre il ruolo del sindacato confederale si professa, nel 56% dei casi, di centrodestra o senza orientamento. In particolare, i senza orientamento, che nel panel pesano per il 7,3%, rappresentano invece il 19,5% di chi vuole abbattere il ruolo del sindacato, forse contribuendo a spiegare le recenti critiche di Di Maio. La difesa del sindacato, pur con tutti i caveat, che si traducono nella richiesta di riqualificarne l’azione, rimane quindi ancora una caratteristica fortemente legata ad una militanza a sinistra.

Ripartizione del panel per giudizio sul ruolo del sindacato rispetto alla contrattazione collettiva, valori percentuali

Da ridurre

Indifferente

Da rafforzare

Da rivedere

3.9

6.3

44.9

45.0

Una delle modalità operative possibili del sindacato è quella di cercare un rapporto più stretto con la politica, sia sotto forma del modello inglese, dove i sindacati sono parte del partito laburista, sia nella forma tipicamente italiana (ma non solo) della concertazione. Tale schema non sembra interessare molto ai rispondenti: il 66,5% non ritiene che il sindacato debba cercare una rapporto più stretto con la politica. La concertazione politico-istituzionale potrebbe, almeno nella percezione di chi ha risposto, aver indebolito la

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capacità del sindacato di rappresentare direttamente le ragioni del lavoro, che rimane il suo “core business”, per vari motivi. L’84% del “no” ad una maggiore politicizzazione del sindacato proviene da sinistra, più o meno la stessa percentuale che i rispondenti di sinistra hanno nel panel, per cui il rifiuto di tale schema non sembra avere colorazioni politiche particolari. Non è escluso che nel giudizio rientri il già richiamato diffuso sentimento di sfiducia per la politica, che quindi potrebbe essere vista come un elemento di inquinamento dell’azione sindacale.

E’ interessante notare che il 43% circa di coloro che hanno risposto “no” ad un più stretto rapporto fra sindacato e politica hanno giudicato, nella precedente domanda, che il ruolo del sindacato vada rafforzato. Nel rifiuto di un ruolo più stretto con la politica vi è quindi anche una rivendicazione piuttosto diffusa di autonomia dell’azione sindacale, meno legata a temi di schieramento politico/ideologico e più focalizzata sulla rappresentanza di interessi concreti del lavoro.

Va però anche notato come il tema sia, in realtà, soggetto a scarsa attenzione: la percentuale di rispondenti incerti fra il Si ed il No è piuttosto elevata (8,5%) segno che la questione non è stata approfondita particolarmente, e che, probabilmente, a fronte di un certo affaticamento della concertazione dopo la sua stagione d’oro, non si sa bene in quale forma dovrebbe strutturarsi il rapporto fra sindacato e politica (il 40% di chi non sa se sindacato e politica dovrebbero avere o meno un rapporto più stretto ha dichiarato di voler rafforzare il ruolo del sindacato, quindi evidentemente non sa, in questo rafforzamento, come si potrebbe costruire un migliore dialogo con la politica).

Ripartizione del panel per giudizio sull’opportunità di un rapporto più stretto fra sindacato e politica, valori percentuali

25.0

66.5

8.5

Si No Non so

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Il finanziamento dei partitiNegli ultimi anni, come prodotto di un diffuso sentimento antipolitico nell’opinione pubblica, le risorse finanziarie per i giornali di partito e gli stessi meccanismi di sostegno finanziario ai movimenti politici sono stati progressivamente rivisti verso il basso, e in larga misura neutralizzati. Rispetto a tale processo in atto, gran parte dell’opinione di sinistra del panel è sfavorevole, richiedendo, per circa due terzi degli intervistati, un ritorno ad un maggiore sostegno finanziario pubblici ai partiti ed ai loro quotidiani. Si tratta per il 92% di rispondenti che afferiscono all’area politica della sinistra. Tale risposta presenta una frequenza relativa alta fra i più giovani (meno di 30 anni). In sostanza, su tale aspetto si verifica un ribaltamento di un luogo comune: i più giovani chiedono con maggiore frequenza un ritorno indietro del sistema di finanziamento dei partiti verso la Prima Repubblica, mentre chi è di età più matura ed in condizioni professionali esprime una opinione più allineata alle tendenze più recenti di riduzione dello spazio di sostegno pubblico ai partiti.

Infatti, il 28,2% del panel favorevole alla riduzione del finanziamento pubblico è composto, per il 30% circa, da simpatizzanti di centro destra o persone senza orientamento politico definito, una percentuale molto alta, considerando la loro incidenza complessiva. Tendenzialmente, si tratta di persone di fascia di età compresa fra i 45 ed i 65 anni, in condizioni professionali (soprattutto impiegati e autonomi o imprenditori). Si tratta cioè della fascia di popolazione più legata ad una ideologia mercatistica, che vede nei corpi intermedi di rappresentanza una forma di ostacolo alla disintermediazione effettuata dai meccanismi di mercato, che esistono anche in politica, laddove si affida ad un leader, anziché ad un organismo di rappresentanza collettiva, la risposta alla domanda sociale. Il leader, infatti, corrisponde ad un prodotto politico offerto su un mercato elettorale, peraltro un prodotto a rapido deterioramento, mentre il partito sopravvive ai suoi leader, rappresentando una istituzione, che chi abbraccia una mentalità mercatistica disapprova. Soprattutto se tale istituzione viene finanziata con soldi pubblici, innestandosi, in questo modo, dentro il corpo dello Stato.

Distribuzione del panel per opinione circa la riduzione del finanziamento pubblico a partiti e giornali politici, valori percentuali

28.2

65.9

5.9

Favorevole Sfavorevole Non so

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La proprietà dei servizi pubblici essenzialiI processi di riduzione del disavanzo di bilancio pubblico son ostati utilizzati come paravento per nascondere obiettivi di riduzione dello spazio del soggetto pubblico nella gestione diretta di servizi essenziali, e sono oggetto da anni di una battaglia politica, svoltasi in più fasi, fra le quali quella referendaria sull’acqua, nel 2011. La stessa riforma-Madia sulle società partecipate mira, in realtà, ad aprire al mercato attività sinora svolte in regime monopolistico dalle municipalizzate. Così come la furia grillina, che si manifesta attraverso la messa in concordato preventivo di municipalizzate, come a Livorno e Roma, tende agli stessi obiettivi.

Sull’opinione del panel circa tale questione c’è ben poco da dire. Più del 96% degli intervistati ha dichiarato di volere che i servizi pubblici essenziali rimangano prevalentemente in mani pubbliche. La percentuale è così alta che non ci sono differenze significative in termini di orientamento politico, età, condizione professionale, ecc. Una piccola minoranza di 18 socio-liberisti auto-dichiaratisi di sinistra, probabilmente reduci dalle correnti “liberal” del centrosinistra, ha tuttavia contribuito a quel 3,3% di risposte favorevoli alla privatizzazione dei servizi pubblici primari, anche se, ovviamente, la maggioranza dei rispondenti sfavorevoli al mantenimento pubblico dei servizi essenziali ha orientamenti politici di centro-destra, o non ha orientamento, ed è quindi catturabile dal grillismo (che non a caso, nelle Giunte Nogarin e Raggi, si rende protagonista di interventi di parziale smantellamento delle imprese pubbliche locali).

Distribuzione del panel per opinione circa il mantenimento in mani pubbliche dei servizi essenziali, valori percentuali

96.1

3.3 0.6

D'accordo Non d'accordo Non so

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Conclusioni

Il rapporto analizza un panel non statistico di rispondenti, rispetto ad un questionario semplificato. Pur con i limiti metodologici dell’esercizio che sono già stati evidenziati in premessa, esso è in grado di mostrare le potenzialità di una analisi della domanda politica e sociale strutturata in forma maggiormente consolidata e scientificamente robusta. Lo spaccato delle opinioni e richieste politiche che proviene dall’analisi dei risultati, significativo soprattutto per l’area dei simpatizzanti della sinistra, mostra un quadro molto diversificato, che in parte giustifica anche le grandi difficoltà nel dare une rappresentanza unitaria a tale area politica. Emergono risultati noti, quindi conferme di tendenze prevalenti, soprattutto in materia di euro, di frontiera fra pubblico e privato nei servizi essenziali, di priorità programmatiche fondamentali. D’altro canto, però, vengono alla luce anche risultati per certi versi sorprendenti, che meriterebbero una analisi più approfondita, in materia di controllo dell’immigrazione, di rapporti fra politica e sindacato (e di opinione sul sindacato stesso) e di delusione per l’operato della classe politica, che rischia di generare fenomeni borderline con i populismi, che tale tema cavalcano.

Emergono altresì scelte rischiose e non facili da fare, fra difesa del recinto identitario e ricerca di un allargamento verso bacini di consenso più ampi e spesso connotati da un certo disinteresse rispetto alla politica, su temi delicati, quali l’euro e più in generale gli effetti della globalizzazione (che includono anche il tema migratorio). E’ probabile che su tali tematiche occorra realizzare un compromesso programmatico alto, fra l’esigenza di non allontanare la propria base elettorale consolidata, per quanto piccola, e quella di tornare verso settori sociali di tradizionale insediamento, quali il proletariato operaio ed il sottoproletariato urbano, che esprimono una domanda politica per certi versi molto diversa da quella dell’area di militanza della sinistra attuale, spesso costituita da ceti medi urbani istruiti e globalizzati. C’è poi tutto il tema, molto ampio, delle classi sociali emergenti, che si annidano nell’area del precariato lavorativo, e che spesso esprimono posizioni piuttosto diverse da quelle tipiche della sinistra. Lì, peraltro, c’è un problema di coscienza di classe da costruire, perché ampi segmenti di precariato cognitivo o di lavoratori della new economy non sono consapevoli del loro posizionamento reale nella catena del plusvalore.

Certi temi appaiono unificanti, e sono da assumere come vere e proprie parole d’ordine: il tema del lavoro è quello principale, ed evidenzia sia tendenze di opinione, a sinistra, dirette verso il ritorno alle vecchie tutele dell’articolo 18, sia tendenze alla costruzione di un welfare specifico per i precari. Da tale punto di vista, sembrerebbero pensabili politiche differenziate, che reintroducano l’articolo 18 vecchia maniera nelle aree meno esposte alla concorrenza del mercato del lavoro, ed al contempo costruiscano strumenti di tutela specifica in quei settori produttivi in cui il precariato, per motivi concorrenziali, non sia immediatamente superabile. L’area del contrasto alla povertà e del welfare e previdenza è anch’essa, per motivi tradizionali, fortemente suscettibile di produrre parole d’ordine unificanti per l’intera area della sinistra (in ciò evidentemente contrastando la tendenza alla privatizzazione, spesso mascherata con nobili intenti di sussidiarietà orizzontale, dei servizi sociali). Ambiente e territorio costituisce il terzo grande blocco di elementi programmatici unificanti.

In materia di immigrazione e sicurezza, poi, emerge in modo crescente una preoccupazione, condivisa anche da settori ampi della sinistra, sull’eccesso di apertura delle frontiere, ed una domanda di selettività nell’immigrazione, che contrasta con le tesi secondo cui la sinistra sarebbe semplicemente posizionata su una apertura indiscriminata. Tale preoccupazione emergente, anche negli elettori di sinistra, andrà presa in considerazione per il futuro, in termini di elaborazione programmatica.

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Il rapporto con il sindacato appare connotato da elementi di complessità, che dovrebbero rimandare ad un ragionamento più approfondito. Da un lato, emerge una certa sfiducia nel sindacato stesso, talché la maggioranza dei rispondenti è favorevole ad una revisione, se non addirittura una riduzione, del suo ruolo. Tale sfiducia, e questo è particolarmente grave, sembra consolidata nelle aree emergenti dello sfruttamento socio-lavorativo: i giovani, i precari. I lavoratori “anziani” e garantiti da un contratto a tempo indeterminato pre-Jobs Act, infatti, sono quelli che vanno a chiedere un potenziamento del ruolo del sindacato.

D’altro lato, si chiede un sindacato maggiormente autonomo, più svincolato dalla politica, e questa sembra essere una richiesta anche di chi rivendica un rafforzamento del suo ruolo. Si impone quindi un ripensamento del sistema sindacale italiano, della sua tradizionale relazione con la politica tramite i meccanismi concertativi, ma anche del suo “imprinting” politico-ideologico. Con tutta la cautela necessaria per interpretare tali dati, sembrerebbe emergere la richiesta di un sindacato meno universalista, meno legato a patti concertativi, e più ripiegato sul suo “core business”, ovvero la contrattazione e la tutela del lavoro.

Su tutti questi aspetti, è chiaro che solo una organizzazione partitica è in grado di affrontare, con la giusta sintesi, scelte così delicate. Per fortuna, i rispondenti del panel sembrano, per certi versi anche implicitamente, consapevoli della necessità di un partito solido, finanziariamente e organizzativamente, anche tornando verso forme tradizionali di finanziamento pubblico (peraltro, tale ritorno sembra essere caldeggiato dai rispondenti più giovani, il che è per molti versi confortante). Però un partito solido deve anche dotarsi di strumenti di analisi sociale sistematica. A giudizio di chi scrive, i risultati di questo lavoro sperimentale potrebbero essere arricchiti da una metodologia di indagine più approfondita e sistematica. In sintesi, la proposta è quella di utilizzare in forma attiva la rete territoriale dei circoli e delle sezioni di Sinistra Italiana, per coinvolgere piccoli gruppi di militanti ed elettori in focus group3 mirati su argomenti specifici di ordine generale.

I risultati di questa rilevazione verrebbero veicolati al livello nazionale, dove specifici gruppi di lavoro organizzati per tematica sarebbero chiamati a elaborarli in forma sintetica, fornendo un giudizio sulla rilevanza della tematica, così come da punteggi attribuiti dai partecipanti ai vari incontri territoriali, componendo analisi multicriteriali, e sintetizzando in forma generale le proposte liberamente formulate nelle domande aperte della traccia4.

Tali relazioni sintetiche dovrebbero poi essere passate ai livelli politici dirigenziali, centrali e locali, del partito, invitandoli a formulare proposte programmatiche vere e proprie, sulla base della loro lettura politica degli esiti. La piattaforma programmatica sarebbe poi “restituita” ai territori, mediante incontri plenari, a livello di circoli con militanti e simpatizzanti. Tali incontri dovrebbero servire a “testare” se la piattaforma regge, in termini di consenso.

3 In termini strettamente metodologici, il focus group è un confronto aperto, moderato da un esperto di conduzione di indagini di gruppo, all’interno di un piccolo gruppo di partecipanti, selezionati opportunamente (per evitare effetti distorsivi di tipo gerarchico, cacofonico, conflittuale, ecc.) su una traccia volutamente vaga e generica di argomenti. In questa sede, si riprende il termine in modo non del tutto rigoroso metodologicamente, anche perché i coordinatori di circolo che dovrebbero animare l’iniziativa non necessariamente possiedono le competenze di un moderatore, e si intende un metodo di raccolta per iscritto di proposte e suggerimenti da parte dei partecipanti. 4 Segmentando le risposte dei partecipanti per caratteristiche degli stessi (residenza geografica, condizione socio-professionale, genere, età, titolo di studio) utilizzando semplici tecniche di cluster analysis, è possibile anche trarre interessanti spunti sulle differenze di sensibilità programmatica rispetto a diverse condizioni personali e sociali dei rispondenti.

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Un secondo filone di ricerca dovrebbe essere mirato ad analizzare ceti e segmenti sociali nei quali la sinistra dovrebbe collocare la sua presenza naturale. Su tale filone, sarebbe necessaria una forma di identificazione di panel socio-professionali di rispondenti ad una inchiesta a un questionario più tradizionale, come quello usato in questa sede, opportunamente approfondito e focalizzato, utilizzando gli strumenti di trasmissione più idonei (ad esempio, la posta elettronica, se si tratta di questionari somministrati a militanti del partito, o interviste dirette sul posto di lavoro, se si tratta di panel intercettati mediante l’aiuto del sindacato, oppure interviste telefoniche, per le quali però servono delle expertise specifiche che sono possedute da società specializzate, e che andrebbero quindi utilizzati solo in forma residuale). Il questionario, necessariamente molto stringato, verrebbe predisposto a livello centrale, così come a livello centrale, a seconda dei casi specifici, si dovrebbe decidere la strategia di rilevazione.

PER SAPERNE DI PIU’:

Corbetta P. (1999), Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino

Campelli E. (1999), Da un luogo comune. Elementi di metodologia delle scienze sociali, Franco Angeli

Marradi A. (2007), Metodologia delle scienze sociali, Il Mulino

Corrao S. (2000), Il focus group, Franco Angeli

Pitrone M.C. (1984), Il Sondaggio, Franco Angeli

Lazarsfeld (1935), L’arte di chiedere perché. Tre principi per la formulazione dei questionari, In Lazarsfeld, Saggi storici e metodologici, Eucos, 2001

Allegra S.F., Fasanella A. (1995) Validità dei dati e approccio multitratto-multitecnica in AAVV (1995), Pragmatica degli indicatori, Sociologia e ricerca sociale, XVI, pagg. 47-48

Marradi A. (1989) Casualità e rappresentatività di un campione, Franco Angeli

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