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L’Osservatore Romano il Settimanale Città del Vaticano, giovedì 7 novembre 2019 anno LXXII, numero 45 (4.018) Anche oggi i cristiani sono perseguitati

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L’Osservatore Romanoil SettimanaleCittà del Vaticano, giovedì 7 novembre 2019anno LXXII, numero 45 (4.018)

Anche oggi i cristianisono perseguitati

L’Osservatore Romanogiovedì 7 novembre 2019il Settimanale

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L’OS S E R VAT O R E ROMANO

Unicuique suum Non praevalebunt

Edizione settimanale in lingua italiana

Città del Vaticanoo r n e t @ o s s ro m .v a

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v a

ANDREA MONDAD irettore

GIANLUCA BICCINICo ordinatore

PIERO DI DOMENICANTONIOProgetto grafico

Redazionevia del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano

fax +39 06 6988 3675

Servizio fotograficotelefono 06 6988 4797 fax 06 6988 4998

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Un giorno in una classe dell’ultimo anno di li-ceo, lezione di religione, la discussione scivolasul tema della morte e Giulia, la più brava diquella classe, sbuffa esclamando: «Ma profes-sore, perché lei viene qui a turbare il nostroequilibrio?». All’epoca pensai (ero io quel pro-fessore) a quel passo del vangelo di Matteo incui due indemoniati davanti a Gesù «Comin-ciarono a gridare: “Che cosa abbiamo noi incomune con te, Figlio di Dio? Sei venuto quiprima del tempo a tormentarci?”» (Mt 8, 28)ma non glielo dissi a Giulia, ripresi il dialogofacendole notare che la domanda sulla mortenon ero io a fargliela ma la vita stessa. Sonopassati più di quindici anni da quell’episo dioma ancora lo ricordo e le parole che il Papa harivolto il 31 ottobre ai partecipanti al IV incon-tro mondiale dei giovani promosso dalla fon-dazione Scholas occurrentes me lo hanno pre-potentemente riportato alla mente. Riascoltia-mo quelle parole pronunciate in spagnolo inun videomessaggio perché contengono unastraordinaria potenza: «Che ne sarebbe diquesto incontro se non ci fosse un finale? For-se non sarebbe un incontro. E che cosa ne sa-rebbe di questa vita se non avesse anch’essa ilsuo finale? So che qualcuno dirà: “Padre, nondiventi funebre”. Ma pensiamoci bene [...] Ladomanda sulla morte è la domanda sulla vita,e mantenere aperta la domanda sulla morte,forse, è la responsabilità umana più grandeper mantenere aperta la domanda sulla vita».

Il Papa sta indicando una responsabilità,umana dice lui, ma forse anche per questo amaggior ragione, cristiana, la responsabilità dimantenere aperta la domanda sulla vita. E lamorte qui può giocare un ruolo fondamentale:«Così, come le parole nascono dal silenzio e lìfiniscono, permettendoci di ascoltare i loro si-gnificati, lo stesso succede con la vita. Forsesuona un po’ paradossale, ma... è la morte apermettere alla vita di restare viva! È la fineche fa sì che si scriva un racconto, che si di-pinga un quadro, che due corpi si abbracci-no».

È nella fine il senso di una storia, della sto-ria dell’umanità che per i cristiani è proprioquell’abbraccio dei corpi a cui allude il Papa,un abbraccio in Dio e con Dio. Che nella finesia celato il senso ultimo della vita è anche uncommento al passo biblico che il giorno dopoquel videomessaggio, il 1° novembre, la liturgiacattolica in occasione della solennità di Ognis-santi ha offerto al popolo dei fedeli: «Carissi-mi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò chesaremo non è stato ancora rivelato. Sappiamoperò che quando egli si sarà manifestato, noisaremo simili a lui, perché lo vedremo così co-me egli è» (1 Gv 3, 2). È questo il temadell’identità dei cristiani, una identità dinami-ca, in tensione tra il “già” e il “non ancora”,un tema cruciale in questi tempi in cui l’iden-tità viene invece interpretata in modo rigido,assertivo, definitorio all’interno di una logicadell’esclusione e della contrapposizione. Non acaso il Papa è tornato sulla questionedell’identità nell’omelia del giorno dopo, il 2

novembre, in occasione della messa all’internodelle catacombe di Priscilla per celebrare laCommemorazione dei defunti.

Qui si vede la portata dirompente del cri-stianesimo, che non si conforma alla mentalitàdel mondo ma punge (e dà sapore) come il sa-le: è proprio nel rapporto con la morte che sipuò osservare la forza anche di contestazionedi una religione chiamata ad essere “segno dicontraddizione”. La morte è oggi nel mondosoggetta a un trattamento schizofrenico: èspesso urlata ed esibita, viene diffusa addirit-tura come “cultura” e al tempo stesso è total-mente rimossa, eliminata dallo scenario e daldiscorso quotidiano, al punto da non esserenemmeno nominata ma continuamente allusa,elusa, di fatto elisa. E invece i cristiani man-tengono aperta la domanda sulla morte, comechiede il Papa. Che però va oltre, in quel mes-saggio, già vertiginoso, del 31 ottobre, France-sco ci spinge ancora avanti, ci accompagna ol-tre quel “confine” che è la morte: «Ma atten-zione, la fine non sta solo nel finale. Forsedobbiamo prestare attenzione a ogni piccolafine della vita quotidiana. Non solo al finaledel racconto, che non sappiamo mai quandoterminerà, ma anche al finale di ogni parola, alfinale di ogni silenzio, di ogni pagina che sista scrivendo. Soltanto una vita consapevole diquesto istante finisce, riesce a far sì che questoistante sia eterno». Su questo la poetessa po-lacca Wisława Szymborska ha coniato un ver-so che è davvero “immortale”: «Non c’è vita /che almeno per un attimo / non sia stata im-mortale. / La morte / è sempre in ritardo diquell’attimo».

Questa consapevolezza che rende l’uomovincitore sulla morte ha un nome per il Papa:umiltà. «D’altra parte» dice Bergoglio, «lamorte ci ricorda l’impossibilità di essere, com-prendere e includere tutto. È uno schiaffo allanostra illusione di onnipotenza. Ci insegnanella vita a relazionarci con il mistero. La fidu-cia di saltare nel vuoto e renderci conto chenon cadiamo, che non sprofondiamo; che dasempre e per sempre c’è qualcuno lì che ci so-stiene. Prima e dopo la fine.

«È il “non sapere” di questa domanda illuogo della fragilità che ci apre all’ascolto eall’incontro con l’altro; è questo sorgere dellacommozione che ci invita a creare, e del sensoche ci riunisce per celebrarlo».

Da questa consapevolezza nasce la necessità,molto urgente per Francesco, di affrontare ladomanda sulla morte, provando a scompagina-re il mondo contemporaneo che si è «già con-figurato» e non lascia «spazio alla domandaaperta». È severa e lucida l’analisi del Papa:«In un mondo che rende culto all’autonomia,all’autosufficienza e all’autorealizzazione sem-bra che non ci sia posto per il resto. Il mondodei progetti e dell’accelerazione infinita, della“rapidizzazione”, non consente interruzioni, eperciò la cultura mondana che rende schiavicerca di anestetizzarci per farci dimenticare ciòche significa fermarci alla fine. Ma la dimenti-canza della morte è anche il suo inizio e inol-tre una cultura che dimentica la morte inizia amorire dentro. Chi dimentica la morte ha giàiniziato a morire».

Parole potenti e scomode quelle del Papa,che rischiano come direbbe Giulia, di “t u r b a reil nostro equilibrio”, anzi hanno propria que-sta intenzione se il compito dei cattolici, lo haricordato il Papa a San Giovanni in Lateranoil 9 maggio parlando alla sua diocesi, è quellodi “mantenere lo squilibrio”. Parole che squa-dernano le nostre abitudini ma solo così pos-sono farci aprire alla speranza che c’è ed ègrande, ed è fondata sull’amore, perché, con-clude Francesco: «Ricordatevi, se la morte nonha l’ultima parola, è perché in vita abbiamoimparato a morire per altro».

La mortedomanda apertasulla vita

#editoriale

di ANDREA MONDA

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GIOVEDÌ 31 OTTOBRENon è amore da telenovela

Capire la tenerezza dell’amore di Dio in Gesùper ogni persona: solo così, ha detto PapaFrancesco, è possibile comprendere realmentel’amore di Cristo. Per questo occorre invocarelo Spirito Santo affinché faccia percepire«l’amore di Cristo per noi», preparando ilcuore per «lasciarci amare» dal Signore. Que-sta la raccomandazione del Pontefice durantela messa del mattino, ispirata dalla prima let-tura tratta dalla Lettera di san Paolo ai Roma-ni. Il Papa ha spiegato come l’Apostolo dellegenti potrebbe sembrare addirittura «un po’superbo», «troppo sicuro di sé» nell’a f f e r m a reche nemmeno «la tribolazione, l’angoscia, lapersecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, laspada» riusciranno a separare i cristiani«dall’amore di Cristo». Eppure, ha evidenziatoil Pap, «siamo più che vincitori» con l’a m o redel Signore. San Paolo lo era perché, ha spie-gato Francesco, dal momento in cui «il Signo-re lo chiamò sulla strada di Damasco, comin-ciò a capire il mistero di Cristo»: «si era inna-morato», preso — ha osservato il Pontefice —da «un amore forte, grande», non da un «ar-gomento» da «telenovela». Un amore «sul se-rio», al punto da «sentire che il Signore lo ac-compagnava sempre nelle cose belle e nellecose brutte». Questo — ha notato Francesco —«lo sentiva con amore. E io mi domando: maio amo il Signore così? Quando vengono mo-menti brutti, quante volte uno sente la vogliadi dire: “Il Signore mi ha abbandonato, nonmi ama più” e vorrebbe lasciare il Signore. MaPaolo era sicuro che il Signore mai abbando-na. Aveva capito nella propria vita l’amore diCristo. Questa è la strada che ci fa vedere Pao-lo: la strada dell’amore, sempre, nelle buone enelle brutte, sempre, e avanti. Questa è lagrandezza di Paolo». L’amore di Cristo, haaggiunto il Pontefice, «non si può descrivere»,è qualcosa di grande. «È proprio Lui — hadetto — che è stato inviato dal Padre a salvarcie lo ha fatto con amore, ha dato la vita perme: non c’è amore più grande di dare la vitaper un altro. Pensiamo a una mamma, l’a m o redi una mamma, per esempio, che dà la vitaper il figlio, lo accompagna sempre nella vita,nei momenti difficili ma questo ancora è po-co... È un amore vicino a noi, non è astrattol’amore di Gesù; è un amore io-tu, io-tu,ognuno di noi, con nome e cognome». NelVangelo di Luca, il Papa ha notato «qualcosadell’amore concreto di Gesù». Parlando di Ge-rusalemme, Gesù ricordò le volte in cui tentòdi raccoglierne i figli, «come una chioccia isuoi pulcini sotto le ali» e gli fu impedito.Quindi “pianse”. «L’amore — ha chiarito Fran-cesco — porta Cristo al pianto per ognuno dinoi. La tenerezza che c’è in questa espressio-ne... Gesù poteva condannare Gerusalemme,dire cose brutte... E si lamenta perché non silascia amare come i pulcini della chioccia.Questa tenerezza dell’amore di Dio in Gesù. Equesto aveva capito Paolo. Se noi non arrivia-mo a sentire, a capire la tenerezza dell’a m o redi Dio in Gesù per ognuno di noi, mai potre-mo capire cos’è l’amore di Cristo. È un amorecosì, aspetta sempre, paziente, l’amore che gio-ca quell’ultima carta con Giuda: “Amico”, glidà la via d’uscita, fino alla fine. Anche con igrandi peccatori, Lui ama con questa tenerez-za. Non so se noi pensiamo a Gesù così tene-ro, a Gesù che piange, come ha pianto davantialla tomba di Lazzaro» o «guardando Gerusa-lemme». Francesco ha esortato quindi a chie-dersi se Gesù pianga per ogni persona, Luiche ha dato «tante cose» agli uomini mentreessi spesso scelgono di andare «per un’altrastrada». L’amore di Dio «si fa lacrima, piantodi tenerezza in Gesù». Per questo, ha conclusoil Pontefice, Paolo «si era innamorato di Cri-sto e nessuna cosa poteva staccarlo da Lui».(giada aquilino)

MARTEDÌ 5 NOVEMBREIl peccato di chiudersi

Il Signore invita alla festa che è incontro conlui, ma di fronte al rifiuto degli uomini mandaa chiamare i poveri e i malati sulle piazze per-ché approfittino della cena. Nell’omelia allamessa mattutina, Papa Francesco ha commen-tato il brano del Vangelo e ha esortato a chie-dersi: «Cosa preferisco io? Accettare semprel’invito del Signore o chiudermi nelle mie co-se, nelle mie piccolezze?». L’evangelista Luca,nel brano proposto dalla liturgia, racconta diun uomo che vuole dare una grande festa, magli invitati con diverse scuse non accettano.Allora manda i servi a chiamare i poveri e glistorpi. Il Pontefice ha definito questo raccontoun riassunto della storia della salvezza e anchedel comportamento di tanti cristiani. Ha spie-gato che «la cena, la festa, è figura del cielo,dell’eternità con il Signore». E ha aggiuntoche a una festa non si sa chi si incontra, si co-noscono persone nuove, si incontrano anchepersone che non si vorrebbero incontrare, mail clima della festa è la gioia, la gratuità. Per-ché, ha commentato, una vera festa deve esseregratuita: «E in questo il nostro Dio ci invitasempre così — ha detto — non ci fa pagarel’entrata. Nelle vere feste, non si paga l’entra-ta: paga il padrone, paga quello che invita».Ma c’è chi anche davanti alla gratuità mettedavanti i propri interessi. «Davanti a quellagratuità, a quella universalità della festa — haaffermato il Papa —, c’è quell’atteggiamentoche chiude il cuore: “Io non ci vado. Preferi-sco stare da solo, con la gente che piace a me,chiuso”. E questo è il peccato; il peccato delpopolo di Israele, il peccato di tutti noi. Lachiusura. “No, per me è più importante questodi quello. No, scelgo il mio”. Sempre il mio».Questo rifiuto, ha proseguito Francesco, è an-che disprezzo verso chi invita, è dire al Signo-re: «Non disturbarmi». È chiudersi «a quelloche il Signore ci offre: la gioia dell’i n c o n t rocon Lui. E nel cammino della vita — ha osser-vato Francesco — tante volte saremo davanti aquesta scelta, a questa opzione: o la gratuitàdel Signore, andare a trovare il Signore, incon-trarmi con il Signore o chiudermi nelle miecose, nel mio interesse. Per questo il Signore,parlando di una delle chiusure, diceva che èmolto difficile che un ricco entri nel regno deicieli. Ma — ha proseguito il Papa — ci sonoricchi bravi, santi, che non sono attaccati allaricchezza». Mentre «la maggioranza è attacca-ta alla ricchezza, sono chiusi. E per questonon possono capire cosa è la festa. Hanno lasicurezza delle cose che possono toccare». Lareazione del Signore davanti al nostro rifiuto èdecisa: vuole che alla festa venga chiamataogni sorta di persone, condotti, addirittura co-stretti, cattivi e buoni. «Tutti sono invitati.Tutti, nessuno può dire: “Io sono cattivo, nonp osso...”». Anzi, «il Signore perché tu sei cat-tivo ti aspetta in un modo speciale». Il Ponte-fice ha ricordato in proposito l’atteggiamentodel padre con il figliol prodigo che ritorna acasa: il primo aveva cominciato un discorso,ma lui non lo lascia parlare e lo abbraccia. «IlSignore — ha detto — è così. È la gratuità».Riferendosi poi alla prima lettura dove l’ap o-stolo Paolo mette in guardia dall’ipocrisia, ilPapa ha affermato che davanti ai giudei che ri-fiutavano Gesù perché si credevano giusti, ilSignore disse: «Ma io vi dico che le prostitutee i pubblicani vi precederanno nel regno deicieli». Il Signore, ha proseguito Francesco,ama i più disprezzati, ma chiama ogni perso-na. Di fronte però alla chiusura si allontana esi adira come dice il Vangelo. Ecco allora l’in-vito conclusivo del Papa: «Pensiamo a questaparabola che ci dà il Signore oggi. Come va lanostra vita? Cosa preferisco io? Accettare sem-pre l’invito del Signore o chiudermi nelle miecose, nelle mie piccolezze? E chiediamo al Si-gnore la grazia di accettare sempre di andarealla sua festa». (adriana masotti)

Le omeliedel Pontefice

«A 96 anni ho la gioia dicontinuare a essere prete fino infondo, celebro la messa, ascoltole confessioni, faccio le catechesi:non c’è dono più grande». Così ilreligioso missionario vincenzianopadre Filippo Grillo si èpresentato a Papa Francesco chelo ha accolto con un abbracciomartedì mattina, 5 novembre,dopo la messa a Santa Marta.«Sono sacerdote da settant’annima è come se fosse il primogiorno» ha confidato al Pontefice,con la vitalità della sua Napoli,la città dove ha sempre svolto ilministero sacerdotale, sia nellasua congregazione — ne è statosuperiore provinciale — sia, finoa 5 anni fa, come vicarioepiscopale per la vita consacratadell’arcidiocesi. Ancora oggi padreGrillo svolge il servizio di giudiceoccasionale al tribunaleecclesiastico regionale dellaCampania. Ad accompagnarlo aconcelebrare con il Papa c’e ra n opadre Vincenzo Lazzarini,sacerdote da 60 anni, missionarioin Eritrea, e padre SalvatoreFarì, che è succeduto proprio apadre Grillo nell’incarico divicario episcopale per la vitaconsacrata a Napoli.

#santamarta

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CÈ un dovere morale rispettarela dignità dei detenuti

ari fratelli e sorelle,Sono lieto di accogliervi in occasione del V

Corso internazionale di formazione dei cappellanimilitari cattolici al diritto internazionale umanita-rio, dedicato al tema “La privazione della li-bertà personale nel contesto dei conflitti arma-ti. La missione del cappellano militare”. Rin-grazio il Cardinale Peter Turkson per le cortesiparole che mi ha rivolto a nome vostro.

Quattro anni orsono, nel ricevere i parteci-panti alla precedente edizione di questo Corsodi formazione, sottolineavo l’esigenza di re-spingere la tentazione di considerare l’altro co-me un nemico da distruggere e non come unapersona, dotata di intrinseca dignità, creata daDio a propria immagine. Esortavo inoltre a ri-cordare sempre, persino in mezzo alle lacera-zioni della guerra, che ogni essere umano èimmensamente sacro (Cfr. Discorso ai parteci-panti al IV Corso di formazione dei cappellanimilitari al diritto internazionale umanitario, 26ottobre 2015).

Questa esortazione, che desidero rinnovareoggi, assume un significato ancora più pres-sante nei confronti delle persone private della

libertà personale per motivi connessi con iconflitti armati, giacché la vulnerabilità dovutaalla condizione di detenzione è aggravata dalfatto di trovarsi nelle mani delle forze combat-tenti avverse. Non di rado, le persone detenu-te nel contesto dei conflitti armati sono vittimedi violazioni dei loro diritti fondamentali, tracui abusi, violenze e diverse forme di tortura etrattamenti crudeli, disumani e degradanti.

Quanti civili, poi, sono oggetto di rapimen-ti, sparizioni forzate e omicidi! Fra di loro, sicontano anche numerosi religiosi e religiose,dei quali non si hanno più notizie o che han-no pagato con la vita la loro consacrazione aDio e al servizio della gente, senza preferenzeo pregiudizi di bandiere e di nazionalità.

Assicuro la mia preghiera per tutte questepersone e per le loro famiglie, affinché possa-no avere sempre il coraggio di andare avanti edi non perdere la speranza.

Il diritto internazionale umanitario prevedenumerose disposizioni in ordine alla protezio-ne della dignità dei detenuti, specialmente perquanto concerne il diritto applicabile ai con-flitti armati internazionali. Il fondamento eticoe l’importanza cruciale di queste norme per lasalvaguardia della dignità umana nel tragicocontesto dei conflitti armati fa sì che esse deb-bano essere adeguatamente e rigorosamente ri-spettate e applicate. Ciò vale anche nei con-fronti delle persone detenute, indipendente-mente dalla natura e dalla gravità dei criminiche esse possono aver commesso. Il rispettodella dignità e dell’integrità fisica della perso-

#cappellanimilitari

na umana, infatti, non può essere tributariodelle azioni compiute ma è un dovere moralea cui ogni persona e ogni autorità è chiamata.

Cari Ordinari e Cappellani militari, vi invi-to, nell’adempimento della vostra missione diformazione della coscienza dei membri delleforze armate, a non risparmiare sforzi affinchéle norme del diritto internazionale umanitariosiano accolte nei cuori di coloro che sono affi-

Anche nel contestodei conflitti armatiil rispetto della dignitàe dell’integrità fisicadei detenuti «è un doveremorale a cui ogni personae ogni autoritàè chiamata».Lo ha ricordato il Papanel discorso rivolto giovedìmattina, 31 ottobre,nella Sala Clementina,ai partecipanti al quintocorso internazionaledi formazionedei cappellani militaricattolici.

Udienzaai partecipantia un corsodi formazioneal dirittointernazionaleumanitario

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dati alla vostra cura pastorale. Vi fanno daguida le parole del Vangelo contenute nelgrande “proto collo” o grande regola di com-portamento: «Ero in carcere e siete venuti atrovarmi» (Mt 25, 36).

Si tratta di aiutare quella particolare porzio-ne del popolo di Dio affidato alla vostra curaa individuare nel patrimonio comune che legatutti gli uomini, e che trae la sua origine giàdal diritto naturale, quegli elementi che posso-no diventare ponte e piattaforma di incontrocon tutti. I ministri di Cristo nel mondo mili-tare sono anche i primi ministri dell’uomo edei suoi diritti fondamentali. Penso a quantitra voi sono accanto ai militari in situazioni diconflitto internazionale, chiamati ad aprire leloro coscienze a quella carità universale cheavvicina l’uomo all’uomo, qualunque sia larazza, la nazionalità, la cultura, la religionedell’a t ro .

Ma prima di questo c’è il lavoro preventivo,che è un lavoro educativo, complementare aquello delle famiglie e delle comunità cristia-ne. Si tratta di formare personalità aperteall’amicizia, alla comprensione, alla tolleranza,alla bontà, al rispetto verso tutti; giovani at-tenti alla conoscenza del patrimonio culturaledei popoli, impegnati per una cittadinanzauniversale, per favorire la crescita di una gran-de famiglia umana. Il Concilio Vaticano II

chiama i militari «ministri della sicurezza edella libertà dei popoli» (Cost. past. Gaudiumet spes, 79): voi siete in mezzo a loro perchéqueste parole, che la guerra offende e annulla,possano essere realtà, possano dare senso allavita di tanti giovani e meno giovani che, comemilitari, non vogliono farsi derubare dei valoriumani e cristiani.

Cari fratelli e sorelle, il 12 agosto 1949 veni-vano sottoscritte a Ginevra le Convenzioni perla protezione delle vittime di guerra. In questo70° anniversario desidero riaffermare l’imp or-tanza che la Santa Sede accorda al diritto in-ternazionale umanitario e formulare l’auspicioche le regole che esso contempla siano rispet-tate in ogni circostanza. Là dove opportuno,esse siano ulteriormente chiarificate e rafforza-te, specialmente per quanto concerne i conflit-ti armati non internazionali, e in particolare laprotezione della dignità delle persone privatedella libertà personale per motivi connessi conquesti conflitti.

Posso assicurarvi che la Santa Sede conti-nuerà a dare il suo contributo nelle discussionie nei negoziati in seno alla famiglia delle Na-zioni. Vi affido all’intercessione della VergineMaria, Madre di Misericordia, e di cuore im-parto la mia benedizione a voi e ai vostri cari.E anche voi, per favore, pregate per me. Gra-zie!

#cappellanimilitari

In cerca di pacePersone «in cerca di dialogo e di pace in que-sti tempi caratterizzati da una terza guerramondiale a pezzi». Così il cardinale PeterKodwo Appiah Turkson ha presentato a PapaFrancesco i partecipanti al quinto Corso inter-nazionale per la formazione dei cappellani mi-litari cattolici al diritto umanitario internazio-nale, svoltosi a Roma, dal 29 al 31 ottobre,presso l’Istituto patristico Augustinianum.«Siamo giunti — ha spiegato al Pontefice ilpresidente del Dicastero per il servizio dellosviluppo umano integrale — da Paesi e culturediversi, interpellati nella nostra coscienza uma-na e religiosa» per «esplorare le sfide contem-poranee riguardanti la protezione della dignitàe dei diritti delle persone detenute nel conte-sto dei conflitti armati».

Il corso è stato organizzato dal Dicastero incollaborazione con la Congregazione per i ve-scovi e con la Congregazione per l’educazionecattolica, con l’obiettivo di «sensibilizzare

l’opinione pubblica alla sorte dei detenuti e auna migliore protezione della dignità dellapersona umana, della sua libertà e dei suoi di-ritti inalienabili, nel contesto dei conflitti ar-mati». Inaugurando i lavori il 29 ottobre, Tur-kson ha ricordato il suo predecessore, il vene-rabile François-Xavier Nguyên Van Thuân cheha vissuto ben 13 anni in carcere in Vietnam.Quindi ha evidenziato come il corso intende-desse «considerare un aspetto particolare delladura realtà dei conflitti armati, cioè la priva-zione della libertà per le persone che si trova-no in situazione di vulnerabilità»: a comincia-re dai detenuti, che possono essere «combat-tenti caduti nella mani delle forze nemiche»,oppure «civili che non di rado sono oggetto dirapimenti, sparizioni forzate, esecuzioni extra-giudiziarie»; per non tacere poi «dei tratta-menti disumani che talvolta colpiscono le mi-noranze etniche, linguistiche, politiche, cultu-rali e religiose» nelle zone di guerra.

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Cari fratelli e sorelle!Vi do il benvenuto e ringrazio il vostro Presi-dente, e il vostro amico, per le parole di salutoe di presentazione di questa bella realtà assi-stenziale e sociale che è la Fondazione DonCarlo Gnocchi, sgorgata dalla mente e dalcuore di questo insigne prete ambrosiano.Nell’omelia della Beatificazione, avvenuta aMilano dieci anni orsono, il Cardinale Tetta-manzi lo additò alla Chiesa come «inquietocercatore di Dio e coraggioso cercatoredell’uomo, che ha consumato la sua vita nellaricerca del volto di Cristo impresso nel voltod’ogni uomo». Che bello!

In effetti, il Beato Don Carlo Gnocchi, apo-stolo della carità, servì in modo eroico Cristonei bambini, nei giovani, nei poveri e nei sof-ferenti, fin dall’inizio del suo ministero sacer-dotale, come appassionato educatore. Poi, dacappellano militare, conobbe le crudeltà della

lamente sociale, ma mossa dalla carità di Cri-sto. Un’opera, un frutto della carità di Cristo.

A distanza di tanti anni, voi portate avantila sua eredità e, come un talento prezioso, lastate moltiplicando con lo stesso suo zelo apo-stolico e la stessa fedeltà al Vangelo. Di questosono grato a ciascuno di voi: direttori e re-sponsabili dei Centri, medici e operatori, vo-lontari e amici. E siete qui oggi, insieme ai pa-zienti, agli ospiti e ai loro familiari, per confer-mare il vostro impegno di prossimità alle sof-ferenze delle persone più fragili, con lo stiledel buon samaritano e sull’esempio del vostroBeato fondatore. Non stancatevi di servire gliultimi sulla frontiera difficile dell’infermità edella disabilità: insieme alle terapie e alle tec-niche più avanzate per il corpo, offrite a quan-ti si rivolgono con fiducia alle vostre strutturele medicine dell’anima, cioè la consolazione ela tenerezza di Dio.

Una società che non accogliei sofferenti perde l’umanità

Il discorsoalla Fondazioneintitolataal sacerdotebeatificatodieci anni faa Milano

#dongnocchi

«Una società che non ècapace di accogliere,tutelare e dare speranza aisofferenti, è una società cheha perso la pietà, che haperso il senso di umanità».Lo ha detto il Pontefice aimembri della FondazioneDon Gnocchi, ricevuti inudienza nella mattina digiovedì 31 ottobre,nell’Aula Paolo VI.

seconda guerra mondiale, prima sul fronte gre-co-albanese, poi, con gli Alpini della Divisione“Tr i d e n t i n a ”, nella drammatica campagna diRussia. Nel corso della disastrosa ritirata daquel fronte, si prodigò con carità instancabileper i feriti e i moribondi, e maturò il disegnodi un’opera in favore degli orfani e dei piccolimutilati dallo scoppio di ordigni bellici. Rien-trato in Italia, diede attuazione a questo mera-viglioso progetto; la sua fu un’impresa non so-

Ispirandovi alla premura, alla delicatezza ealla sensibilità sacerdotale del Beato CarloGnocchi, siete chiamati a coniugare nella con-cretezza del quotidiano il servizio sociale e sa-nitario e l’azione evangelizzatrice. Questo si-gnifica per voi combattere con coraggio lecause della sofferenza e curare con amore il di-sagio delle persone sofferenti o in difficoltà. Itempi sono cambiati rispetto alle origini, ma ènecessario andare avanti con il medesimo spiri-

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to, con l’atteggiamento e lo stile che DonGnocchi descriveva così: «Cristiani attivi, otti-misti, sereni, concreti e profondamente umani;che guardano al mondo non più come a unnemico da abbattere o da fuggire, ma come aun figlio prodigo da conquistare e redimerecon l’amore» (Educazione del cuore).

Il senso e il valore della professione sanita-ria e di ogni servizio reso al fratello infermo simanifestano pienamente nella capacità di co-

dimostrato nella sua Passione. Una società chenon è capace di accogliere, tutelare e dare spe-ranza ai sofferenti, è una società che ha persola pietà, che ha perso il senso di umanità. Lavasta rete di centri e servizi che avete realizza-to in Italia e in altri Paesi rappresenta unbuon modello perché cerca di unire assistenza,accoglienza e carità evangelica. In un contestosociale che favorisce l’efficienza rispetto allasolidarietà, le vostre strutture sono invece casedi speranza, il cui scopo è la protezione, la va-

niugare competenza e compassione, ambedue in-sieme. La competenza è il frutto della vostrapreparazione, dell’esperienza, dell’aggiorna-mento; e tutto questo è sostenuto da una fortemotivazione di servizio al prossimo sofferente,motivazione che nel cristiano è animata dallacarità di Cristo. La competenza è la qualitàche rende credibile la testimonianza dei fedelilaici nei diversi ambienti della società; la com-petenza ti garantisce anche quando vai contro-corrente rispetto alla cultura dominante: nelvostro caso, quando dedicate tempo e risorsealla vita fragile, anche se a qualcuno può sem-brare inutile o addirittura indegna di esserevissuta.

Competenza e compassione. La sofferenza deifratelli chiede di essere condivisa, chiede atteg-giamenti e iniziative di compassione. Si tratta di“soffrire con”, compatire come Gesù che peramore dell’uomo si è fatto Egli stesso uomoper poter condividere fino in fondo, in modomolto reale, in carne e sangue, come ci viene

lorizzazione e il vero bene degli ammalati, deiportatori di handicap, degli anziani.

Cari amici, rinnovo il mio apprezzamentoper il servizio che rendete a quanti si trovanoin difficoltà. Vi incoraggio a proseguire il vo-stro cammino nell’impegno di promozioneumana, che costituisce anche un contributo in-dispensabile alla missione evangelizzatrice del-la Chiesa. Infatti l’annuncio del Vangelo è piùcredibile grazie all’amore concreto con cui idiscepoli di Gesù testimoniano la fede in Lui.

La testimonianza umana e cristiana del Bea-to Don Carlo Gnocchi, caratterizzata da amo-re per le persone più deboli, guidi sempre levostre scelte e le vostre attività. Il Signore viconceda di essere dappertutto messaggeri dellasua misericordia e consolazione, messaggeridella sua tenerezza. Vi accompagno con la miapreghiera e di cuore vi imparto la Benedizio-ne, che volentieri estendo a quanti sono ospi-tati nei vostri centri. E per favore, non dimen-ticatevi di pregare per me. Grazie!

#dongnocchi

L’Osservatore Romanogiovedì 7 novembre 2019il Settimanale

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Illustri Rappresentanti delle Chiese, delle Co-munità e delle Religioni, Signore e SignoriAmbasciatori, Signori Professori, cari studenti!

Sono lieto di essere qui tra voi a conclusio-ne di questa Giornata di Studio organizzatadall’Università Lateranense sull’educazione al-la pace, in preparazione all’evento sul PattoEducativo Globale che vivremo il 14 maggio delprossimo anno.

Educare alla pace richiede di dare sollievo erisposta a coloro — molti, purtroppo — che iconflitti e le guerre condannano a morte o co-stringono ad abbandonare gli affetti, le abita-zioni, i Paesi d’origine. Dobbiamo farci caricodelle attese e delle angosce di tanti nostri fra-telli e sorelle. Non possiamo restare indifferen-ti, limitandoci a invocare la pace. Tutti, educa-tori e studenti, siamo chiamati a costruire eproteggere quotidianamente la pace, rivolgen-do la nostra preghiera a Dio perché ce ne fac-cia dono.

La responsabilità verso le nuove generazioniesige anzitutto l’impegno a formarle e adascoltarle per rispondere alle sfide dei nostritempi, senza negare l’immutabile valore dellaverità, ma con un linguaggio comprensibile eattuale. Non basta essere critici rispetto al pas-sato o all’esistente, è necessario mostrare crea-tività e proposte per il futuro, aiutando ognipersona a crescere per diventare un protagoni-sta e non più solo uno spettatore.

La pace, la dignità umana, l’inclusione e lapartecipazione evidenziano quanto sia necessa-rio un patto educativo ampio e in grado di

trasmettere non solo la conoscenza di contenu-ti tecnici, ma anche e soprattutto una sapienzaumana e spirituale, fatta di giustizia, rettitudi-ne, comportamenti virtuosi e in grado di rea-lizzarsi in concreto. Quante volte i più giovanivengono esclusi perché gli obiettivi propostinon sono realmente percorribili, o magari sonopensati solo per soddisfare interessi limitati?Invece di condizionare il cammino futuro dellegiovani generazioni, dovremmo piuttosto tra-smettere ad esse un metodo capace di valoriz-zare l’esperienza, anche quella negativa — ecosa c’è di più negativo della guerra e delleviolenze? Un metodo capace di guardare i fat-

ti nelle loro cause e di fornire gli strumenti persuperare conflitti e contrapposizioni.

Per quanti sono chiamati a educare alla lucedella loro religione o del loro credo, questoimpegno diventa anche un modo per dare te-stimonianza e per aiutare altri a trovare unmodello alternativo a quello materiale e mera-mente orizzontale. Molte volte anche noi,donne e uomini di fede, ci limitiamo a dare in-dicazioni piuttosto che trasmettere l’esp erienzadi valori e virtù. E così, di fronte ai conflitti ealla necessità di costruire la pace, non ci accor-giamo che il nostro messaggio rischia di essereastratto e di rimanere inascoltato, teorico. Ad-dirittura proprio un habitat che si definisce“re l i g i o s o ”, ma in realtà è ideologico, genera inalcune persone sentimenti di violenza e persi-no desiderio di vendetta. Di fronte alla man-canza di pace, non basta invocare la libertàdalla guerra, proclamare diritti o anche utiliz-zare l’autorità nelle sue diverse forme. Occorresoprattutto mettersi in discussione, e recupera-re la capacità di stare tra le persone, dialogarecon esse e comprenderne le esigenze, magaricon la nostra debolezza, che poi è il modo piùautentico per essere accolti quando parliamodi pace.

Non solo i credenti, ma tutti coloro che so-no animati da buona volontà sanno quanto sianecessario il dialogo in tutte le sue forme. Dia-logare non serve solo a prevenire e risolvere iconflitti, ma è un modo per far emergere i va-lori e le virtù che Dio ha scritto nel cuore diogni uomo e ha reso evidenti nell’ordine dellacreazione. Cercare ed esplorare ogni opportu-nità per dialogare non è solo un modo per vi-vere o coesistere, ma piuttosto un criterio edu-cativo. Il dialogo è un criterio educativo. Inquesta linea trova giusta collocazione il per-corso di studi in teologia interconfessionale av-viato in questa Università. Andate avanti, concoraggio. Quanto abbiamo bisogno di uominidi fede che educano al vero dialogo, utilizzan-do ogni possibilità e occasione!

I vostri lavori odierni si concluderanno conl’apertura di una mostra che presenta opere il

Un criterioeducativo

I n a u g u ra t adal Papaalla Lateranenseuna mostrain memoriadel cardinaleJean-LouisTa u ra n

#dialogo

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cui linguaggio vuol essere dialogico. I dipintidell’artista saudita Al-Khuzaiem si propongo-no come strumenti per aprire sentieri di pace,richiamare diritti, e fare della persona il centrodi ogni azione e di ogni progetto educativo.

Questo momento diventa ancor più signifi-cativo perché ci ricorda l’opera di un uomodel dialogo e costruttore di pace, il CardinaleJean-Louis Tauran. La sua vita è stata tuttaproiettata nella prospettiva del dialogo. Anzi-tutto il dialogo con Dio, che il cristiano, il sa-cerdote, il vescovo Tauran ha coltivato, a cuiha ispirato le scelte e le azioni e nel quale hatrovato conforto durante la malattia. Il secon-do è il dialogo tra i popoli, i governi e le isti-tuzioni internazionali per il quale il diplomati-co Tauran si è prodigato favorendo la conclu-sione di accordi, di mediazioni o proponendosoluzioni, anche tecniche, a conflitti che mi-nacciavano la pace, limitavano i diritti dell’uo-mo e offuscavano la libertà di coscienza. Ilterzo, il dialogo tra le religioni, che ha visto ilCardinale spendersi non per riaffermare i pun-ti già in comune, ma per ricercarne e costruir-ne di nuovi. Quale Presidente del PontificioConsiglio per il Dialogo Interreligioso, egli ciha fatto capire che non basta fermarsi a ciòche ci avvicina, ma è necessario esplorare nuo-ve possibilità perché le diverse tradizioni reli-giose possano trasmettere, oltre che un mes-saggio di pace, la pace come messaggio.

C’è un episodio nel suo servizio alla SantaSede e alla Chiesa che fa comprendere le ansiee le aspirazioni, ma anche la semplicità e laprofondità di questo uomo di Dio. Nel giugnodel 1993 a Vienna, durante la Conferenza delleNazioni Unite sui diritti dell’uomo, l’alloramonsignor Tauran aveva appena terminato ilsuo intervento, richiamando il necessario dia-logo tra le religioni. Nel lasciare la tribuna sitrovò, per caso, di fronte un membro della de-legazione dell’Arabia Saudita che chiese comefare per approfondire l’importanza del dialo-go. La sua risposta fu: «Lo potremo farequando verrò nel suo Paese». Quel desideriolo accompagnò negli anni e trovò realizzazionesolo alcuni mesi prima del suo ritorno alla ca-sa del Padre con la visita svolta a Riyadhnell’aprile del 2018.

La volontà di dialogare sostenne, anche nel-la malattia, questa figura di sacerdote, leale edisponibile, amico, che anche per me è stataimportante e di grande aiuto per comprenderemolte situazioni nel mio servizio di Vescovo diRoma e successore di P i e t ro .

A quanti hanno contribuito a realizzare que-sta iniziativa va il mio grazie. A tutti rivolgol’invito a pregare senza sosta e a compiereogni sforzo perché attraverso un autenticoPatto Educativo Globale si possa inaugurareun’era di pace per l’intera famiglia umana.Grazie.

#dialogo

Cultura e arteÈ dedicata alla memoria del cardinale Jean-LouisTauran (1943-2018) la mostra «Calligrafia per ildialogo: promuovere la cultura di pace attraverso lacultura e l’arte», inaugurata da Papa Francesconell’atrio della Pontificia Università Lateranensegiovedì pomeriggio, 31 ottobre. Accolto dalcardinale Angelo De Donatis, vicario generale per ladiocesi di Roma e gran cancelliere dell’ateneo, dalrettore magnifico Vincenzo Buonomo, insieme conmonsignor Leonardo Sapienza, reggente dellaPrefettura della Casa pontificia, il Papa ha firmato illibro d’onore dell’esposizione con le operedell’artista saudita Othman Al-Kuzaiem. Promossadall’Unesco, dall’Università per la pace delleNazioni Unite e dal Pontificio consiglio per ilDialogo interreligioso, la mostra si inserisceall’interno della Giornata di studio sul tema

«Educazione, diritti umani, pace», svoltasi allaLateranense in preparazione dell’evento «Ricostruireil patto educativo globale», che avrà luogo il 14maggio 2020. Successivamente Francesco si ètrasferito nell’aula magna dell’ateneo per rivolgereun discorso ai partecipanti all’iniziativa, tra i qualioltre a rappresentanti di diverse Chiese, comunità ereligioni, erano i cardinali Miguel Ángel AyusoGuixot, successore di Tauran alla presidenza delPontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, eBeniamino Stella, prefetto della Congregazione peril clero; gli arcivescovi Angelo Vincenzo Zani,segretario della Congregazione per l’educazionecattolica, e Santo Marcianò, ordinario militare perl’Italia; e il vescovo Fernando Vérgez Alzaga,segretario generale del Governatorato dello Statodella Città del Vaticano.

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Cari giovani di Scholas Occurrentes riuniti datante nazioni del mondo, celebro con voi il fi-nale di questo incontro. Desidero restare lì, de-sidero trattenermi lì, nel finale.

Che ne sarebbe di questo incontro se non cifosse un finale? Forse non sarebbe un incon-tro. E che cosa ne sarebbe di questa vita senon avesse anch’essa il suo finale?

So che qualcuno dirà: «Padre, non diventifunebre». Ma pensiamoci bene. So da fontecerta che avete mantenuto accesa, durante tut-ta l’esperienza, la domanda sulla morte. Lìavete giocato, pensato e creato a partire dallevostre differenze.

Ebbene, me ne compiaccio e vi ringrazioper questo. Perché, sapete una cosa? La do-manda sulla morte è la domanda sulla vita, emantenere aperta la domanda sulla morte, for-se, è la responsabilità umana più grande permantenere aperta la domanda sulla vita.

Così, come le parole nascono dal silenzio elì finiscono, permettendoci di ascoltare i lorosignificati, lo stesso succede con la vita. Forsesuona un po’ paradossale, ma... è la morte apermettere alla vita di restare viva!

È la fine che fa sì che si scriva un racconto,che si dipinga un quadro, che due corpi si ab-braccino. Ma attenzione, la fine non sta solonel finale. Forse dobbiamo prestare attenzionea ogni piccola fine della vita quotidiana. Nonsolo al finale del racconto, che non sappiamomai quando terminerà, ma anche al finale diogni parola, al finale di ogni silenzio, di ognipagina che si sta scrivendo. Soltanto una vitaconsapevole di questo istante finisce, riesce afar sì che questo istante sia eterno.

D’altra parte la morte ci ricorda l’imp ossibi-lità di essere, comprendere e includere tutto. Èuno schiaffo alla nostra illusione di onnipoten-za. Ci insegna nella vita a relazionarci con ilmistero. La fiducia di saltare nel vuoto e ren-

derci conto che non cadiamo, che non spro-fondiamo; che da sempre e per sempre c’èqualcuno lì che ci sostiene. Prima e dopo la fi-ne.

È il “non sapere” di questa domanda il luo-go della fragilità che ci apre all’ascolto e all’in-contro con l’altro; è questo sorgere della com-mozione che ci invita a creare, e del senso checi riunisce per celebrarlo.

In definitiva, attorno alla domanda sullamorte si sono formate da sempre — nel corsodel tempo e ovunque sulla terra — le diversecomunità, popoli e culture. I diversi raccontiche lottano in tanti angoli per restare vivi, ealtri, che ancora non sono nati. Perciò oggi,forse più che mai, dobbiamo affrontare questadomanda.

Il mondo è già configurato, dove tutto ècomplicato non c’è spazio per la domandaaperta. Non è vero? È vero ma non è vero.Questo è il nostro mondo. Si è configurato enon c’è posto per la domanda aperta. In unmondo che rende culto all’autonomia, all’auto-sufficienza e all’autorealizzazione sembra chenon ci sia posto per il resto. Il mondo dei pro-getti e dell’accelerazione infinita, della “rapi-dizzazione”, non consente interruzioni, e per-ciò la cultura mondana che rende schiavi cercadi anestetizzarci per farci dimenticare ciò chesignifica fermarci alla fine.

Ma la dimenticanza della morte è anche ilsuo inizio e inoltre una cultura che dimenticala morte inizia a morire dentro. Chi dimenticala morte ha già iniziato a morire.

Per questo vi ringrazio tanto! Perché aveteavuto il coraggio di aprire questa domanda esperimentare con il corpo le tre morti chesvuotandoci riempiono la vita: la morte diogni istante, la morte dell’ego e la morte di unmondo che cede il passo a un altro nuovo.

Ricordatevi, se la morte non ha l’ultima pa-rola, è perché in vita abbiamo imparato a mo-rire per altro.

Desidero infine ringraziare in modo partico-l a re ORT Mundial e ognuna delle persone edelle istituzioni che hanno reso possibile que-sta attività nella quale appare tangibile la cul-tura dell’i n c o n t ro .

E chiedo per favore a ognuno di voi, aognuno a suo modo, a ognuno in base alleproprie convinzioni, di non dimenticarsi dipregare per me. Grazie.

Chi dimenticala morteha già iniziatoa morire

Videomessaggiodi Francesco

#scholasoccurrentes

Dal 28 al 31 ottobre si è svolto a Città delMessico il IV Incontro mondiale dei giovanipromosso dalla Fondazione Scholas Occurrentes eda World Ort, reti educative espressionerispettivamente dei valori del cattolicesimo edell’ebraismo. A conclusione dei lavori, giovedì 31,Papa Francesco ha inviato ai partecipanti ilvideomessaggio che pubblichiamo di seguito in unanostra traduzione dallo spagnolo.

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!L’odierna solennità di Tutti i Santi ci ricordache siamo tutti chiamati alla santità. I Santi ele Sante di ogni tempo, che oggi celebriamotutti insieme, non sono semplicemente deisimboli, degli esseri umani lontani, irraggiun-gibili. Al contrario, sono persone che hannovissuto con i piedi per terra; hanno sperimen-tato la fatica quotidiana dell’esistenza con isuoi successi e i suoi fallimenti, trovando nelSignore la forza di rialzarsi sempre e prosegui-re il cammino. Da ciò si comprende che lasantità è un traguardo che non si può conse-guire soltanto con le proprie forze, ma è ilfrutto della grazia di Dio e della nostra liberarisposta ad essa. Quindi la santità è dono echiamata.

In quanto grazia di Dio, cioè dono suo, èqualcosa che non possiamo comperare o barat-tare, ma accogliere, partecipando così alla stes-sa vita divina mediante lo Spirito Santo cheabita in noi dal giorno del nostro Battesimo. Ilseme della santità è proprio il Battesimo. Sitratta di maturare sempre più la consapevolez-za che siamo innestati in Cristo, come il tral-cio è unito alla vite, e pertanto possiamo edobbiamo vivere con Lui e in Lui da figli diDio. Allora la santità è vivere in piena comu-nione con Dio, già adesso, durante questo pel-legrinaggio terreno.

Ma la santità, oltre che dono, è anche chia-mata, è una vocazione comune di tutti noi cri-stiani, dei discepoli di Cristo; è la strada dipienezza che ogni cristiano è chiamato a per-correre nella fede, procedendo verso la metafinale: la comunione definitiva con Dio nellavita eterna. La santità diventa così risposta aldono di Dio, perché si manifesta come assun-zione di responsabilità. In questa prospettiva,è importante assumere un quotidiano impegnodi santificazione nelle condizioni, nei doveri enelle circostanze della nostra vita, cercando divivere ogni cosa con amore, con carità.

I Santi che oggi celebriamo nella liturgia so-no fratelli e sorelle che hanno ammesso nellaloro vita di avere bisogno di questa luce divi-na, abbandonandosi ad essa con fiducia. Eora, davanti al trono di Dio (cfr. Ap 7, 15), can-tano in eterno la sua gloria. Essi costituisconola “Città santa”, alla quale guardiamo con spe-ranza, come alla nostra mèta definitiva, mentresiamo pellegrini in questa “città terrena”.Camminiamo verso quella “città santa”, doveci aspettano questi fratelli e sorelle santi. È ve-ro, noi siamo affaticati dall’asprezza del cam-mino, ma la speranza ci dà la forza di andareavanti. Guardando alla loro vita, siamo stimo-

Non simboli ma personecon i piedi per terra

lati a imitarli. Tra loro ci sono tanti testimonidi una santità «della porta accanto, di quelliche vivono vicino a noi e sono un riflesso del-la presenza di Dio» (Esort. ap. Gaudete etexsultate, 7).

Fratelli e sorelle, il ricordo dei Santi ci indu-ce ad alzare gli occhi verso il Cielo: non perdimenticare le realtà della terra, ma per affron-tarle con più coraggio, con più speranza. Ciaccompagni, con la sua materna intercessione,Maria, la nostra Madre santissima, segno diconsolazione e di sicura speranza.

Al termine della preghiera mariana il Pontefice haricordato il cinquantesimo anniversario dell’Az i o n ecattolica ragazzi e ha salutato i partecipanti allaCorsa dei santi. Quindi ha annunciato lacelebrazione della messa per i fedeli defunti nelpomeriggio del 2 novembre alle catacombe diPriscilla.

Cari fratelli e sorelle,

Al l ’An g e l u sdella solennità

del 1° novembreil Pontefice spiega

chi sono i santi

#copertina

Maximino Cerezo Barredo«Beatitudini» (2005)

«I Santi e le Sante... non sono semplicementedei simboli, degli esseri umani lontani,irraggiungibili», ma «persone che hanno vissutocon i piedi per terra; hanno sperimentato...successi e... fallimenti, trovando nel Signorela forza di rialzarsi». Lo ha sottolineato il Papaa mezzogiorno di venerdì 1° novembre, solennitàdi Tutti i santi, durante l’Angelus recitatocon i fedeli presenti in piazza San Pietro.

della terra — siamo noi — e quella del cielo, tranoi e i nostri cari che sono passati all’altra vi-ta.

Domani pomeriggio mi recherò a celebrarel’Eucaristia nelle Catacombe di Priscilla, unodei luoghi di sepoltura dei primi cristiani diRoma. In questi giorni, in cui, purtroppo, cir-colano anche messaggi di cultura negativa sul-la morte e sui morti, invito a non trascurare, sepossibile, una visita e una preghiera al cimite-ro. Sarà un atto di fede.

E a tutti auguro una buona festa nella com-pagnia spirituale dei Santi. Per favore, non di-menticatevi di pregare per me. Buon pranzo ea r r i v e d e rc i !

saluto con affetto tutti voi,pellegrini dell’Italia e di va-ri Paesi; in particolare i ra-gazzi dell’Azione Cattolica;sono venuti con i loro edu-catori da tante diocesi italia-ne, nel 50° anniversariodell’ACR. Uno, due, tre... [iragazzi in piazza intonanoun canto] Saluto i giovanidel Decanato di Mauges,Francia; e i ragazzi di Caru-gate (Milano).

Saluto gli atleti che han-no preso parte alla Corsadei Santi, organizzata dallaFondazione “Missioni DonBosco” per sottolineare, an-che in una dimensione difesta popolare, il valore reli-gioso della ricorrenza diTutti i Santi. Ringrazio voie quanti, nelle parrocchie enelle comunità, in questigiorni promuovono iniziati-ve di preghiera per celebra-re Tutti i Santi e commemo-rare i defunti. Queste duefeste cristiane ci ricordano illegame che c’è tra la Chiesa

il Settimanale L’Osservatore Romanogiovedì 7 novembre 2019

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LGli occhi rivolti in alto, verso il soffitto di una nicchia scavata nel tufo,ad ammirare e contemplare la più antica raffigurazione mariana mairinvenuta nella storia, faticosamente riaffiorata dal velo dei secoli: laVergine che allatta il bambino mentre il profeta pagano Balaam indicala stella. Tutto intorno, nella penombra delle gallerie, le iscrizioni, iframmenti lapidei, i loculi ricavati nella roccia, agli inizi dellacristianità, dalla primitiva comunità romana che qui aveva uno dei suoicimiteri e qui testimoniava, nel rapporto con i propri cari defunti, lasua fede nella risurrezione.Papa Francesco ha vissuto così, nel pomeriggio di sabato 2 novembre,uno dei momenti più intensi della giornata che la Chiesa dedica allamemoria e alla preghiera per tutti i fedeli morti alla vita terrena e natia quella eterna. Il Pontefice, infatti, ha visitato le catacombe diPriscilla sulla via Salaria e qui ha celebrato la messa nella piccolabasilica dedicata al santo Papa romano Silvestro.«Nelle catacombe di Priscilla si può dire che si incontri la romanitànella sua pienezza», ha spiegato a «L’Osservatore Romano» ilcardinale Gianfranco Ravasi che, in qualità di presidente dellaPontificia Commissione di archeologia sacra ha fatto da “c i c e ro n e ” p eril Pontefice insieme a quattro giovani studenti che solitamente guidanoi visitatori attraverso i cunicoli dell’enorme complesso funerario.«Questo cimitero — ci ha spiegato il porporato presidente delPontificio consiglio della cultura — è in assoluto tra i più antichi:l’immagine della Madonna è datata al 230-240». Un luogo che con lesue vestigia racconta tanto di quell’antica comunità: «Nella cosiddettaCappella Greca c’è, ad esempio, la raffigurazione di una cena che siera ritenuto fosse un’Eucaristia e che in realtà rappresenta il rito delre f r i g e r i u m . Cosa significa? I cittadini, i cristiani di Roma venivano qui,nelle tombe a fare un pranzo per unirsi idealmente con i loro defuntiche partecipavano al banchetto celeste». E qui, ancora, ha aggiunto ilcardinale Ravasi, «è testimoniato il principio di “collegarsi” al martireda parte dei fedeli che, cioè, desideravano stare accanto a coloro cheerano stati martiri». In questo cimitero, ad esempio, c’era l’unione difede con i santi Filippo e Felice.E infine, a completamento di questo piccolo viaggio a ritroso nellaromanità dei primi secoli cristiani, va ricordata anche la chiesa dove hacelebrato la messa Francesco: l’edificio è moderno, ma è intitolato alsanto Pontefice romano Silvestro, il Papa di Costantino.Papa Francesco è così tornato alle radici della vita cristiana e, inparticolare, della comunità da lui presieduta come vescovo di Roma. Èarrivato poco prima delle 16, sotto una fitta pioggerellina autunnale,nel giardino della piccola basilica, dove è stato accolto dai cardinaliRavasi e Angelo De Donatis, vicario di Roma, da monsignor LeonardoSapienza, reggente della Prefettura della Casa pontificia, e da unarappresentante della comunità di 14 suore benedettine di Priscilla, allequali è affidata la custodia del complesso.Il Papa ha concelebrato insieme ai due porporati e a tre sacerdoti. Alrito, diretto dal maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie,monsignor Guido Marini, hanno partecipato un centinaio di invitatidalle suore. Hanno animato i canti sei monache agostinianeattualmente ospiti, secondo lo spirito di reciproco aiuto e accoglienzatra famiglie religiose, del convento benedettino di Montefiolo aCasperia, in provincia di Rieti.Al termine, Francesco ha compiuto una breve visita all’interno dellecatacombe, la prima della sua vita, come ha sottolineato con una certaemozione, durante l’omelia.

a celebrazione della festa di tutti i defunti inuna catacomba — per me è la prima volta nellavita che entro in una catacomba, è una sorpre-sa — ci dice tante cose. Possiamo pensare allavita di quella gente, che doveva nascondersi,che aveva questa cultura di seppellire i morti ecelebrare l’Eucaristia qui dentro... È un mo-mento della storia brutto, ma che non è statosuperato: anche oggi ce ne sono. Ce ne sonotanti. Tante catacombe in altri Paesi, dove per-fino devono fare finta di fare una festa o uncompleanno per celebrare l’Eucaristia, perchéin quel posto è vietato farlo. Anche oggi ci so-no cristiani perseguitati, più che nei primi se-coli, di più. Questo — le catacombe, la perse-cuzione, i cristiani — e queste Letture, mi fan-no pensare a tre parole: l’identità, il posto e lasp eranza.

L’identità di questa gente che si radunavaqui per celebrare l’Eucaristia e per lodare il Si-gnore, è la stessa dei nostri fratelli di oggi intanti, tanti Paesi dove essere cristiano è un cri-mine, è vietato, non hanno diritto. La stessa.L’identità è questa che abbiamo sentito: sonole Beatitudini. L’identità del cristiano è questa:le Beatitudini. Non ce n’è un’altra. Se tu faiquesto, se vivi così, sei cristiano. “No, maguarda, io appartengo a quell’associazione, aquell’altra…, sono di questo movimento...”. Sì,sì, tutte cose belle; ma queste sono fantasiadavanti a questa realtà. La tua carta d’identitàè questa [indica il Vangelo], e se tu non haiquesta, non servono a nulla i movimenti o lealtre appartenenze. O tu vivi così, o non seicristiano. Semplicemente. Lo ha detto il Si-gnore. “Sì, ma non è facile, non so come vive-re così...”. C’è un altro brano del Vangelo checi aiuta a capire meglio questo, e quel passodel Vangelo sarà anche il “grande protocollo”secondo il quale saremo giudicati. È Matteo25. Con questi due passi del Vangelo, le Beati-tudini e il grande protocollo, noi faremo vede-re, vivendo questo, la nostra identità di cristia-ni. Senza questo non c’è identità. C’è la fin-zione di essere cristiani, ma non l’identità.

Questa è l’identità del cristiano. La secondaparola: il posto. Quella gente che veniva quiper nascondersi, per essere al sicuro, anche perseppellire i morti; e quella gente che celebral’Eucaristia oggi di nascosto, in quei Paesi do-ve è vietato... Penso a quella suora in Albaniache era in un campo di rieducazione, al tempocomunista, ed era vietato ai sacerdoti dare i sa-cramenti, e questa suora, lì, battezzava di na-scosto. La gente, i cristiani sapevano che que-sta suora battezzava e le mamme si avvicinava-no con il bambino; ma questa non aveva unbicchiere, qualcosa per mettere l’acqua... Lofaceva con le scarpe: prendeva dal fiume l’ac-qua e battezzava con le scarpe. Il posto delcristiano è un po’ dappertutto, noi non abbia-mo un posto privilegiato nella vita. Alcuni vo-gliono averlo, sono cristiani “qualificati”. Maquesti corrono il rischio di rimanere con il“qualificati” e far cadere il “cristiano”. I cristia-ni, qual è il loro posto? «Le anime dei giustisono nelle mani di Dio» (Sap 3, 1): il postodel cristiano è nelle mani di Dio, dove Lui vuo-le. Le mani di Dio, che sono piagate, che sono

Anche oggi i cristianisono perseguitati

La messadel vescovo

di Romanelle catacombe

di Priscilla

Al ritorno dalle catacombe di Priscilla, accompagnato dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della basilica di San Pietro, il Papa si è recato nelle Grotte vaticane per unmomento di preghiera in suffragio dei Pontefici defunti.

#copertina

le mani del suo Figlio che ha voluto portarecon sé le piaghe per farle vedere al Padre e in-tercedere per noi. Il posto del cristiano ènell’intercessione di Gesù davanti al Padre.Nelle mani di Dio. E lì siamo sicuri, succedaquel che succeda, anche la croce. La nostraidentità [indica il Vangelo] dice che saremobeati se ci perseguitano, se dicono ogni cosacontro di noi; ma se siamo nelle mani di Diopiagate di amore, siamo sicuri. Questo è il no-stro posto. E oggi possiamo domandarci: maio, dove mi sento più sicuro? Nelle mani diDio o con altre cose, con altre sicurezze chenoi “affittiamo” ma che alla fine cadranno, chenon hanno consistenza?

Questi cristiani, con questa carta d’identità,che vivevano e vivono nelle mani di Dio, sonouomini e donne di s p e ra n z a . E questa è la ter-za parola che mi viene oggi: speranza. L’ab-biamo sentito nella seconda Lettura: quella vi-sione finale dove tutto è ri-fatto, dove tutto èri-creato, quella Patria dove tutti noi andremo.E per entrare lì non ci vogliono cose strane,non ci vogliono atteggiamenti un po’ sofistica-ti: ci vuole soltanto di far vedere la cartad’identità: “È a posto, vai avanti”. La nostrasperanza è in Cielo, la nostra speranza è anco-rata lì e noi, con la corda in mano, ci sostenia-mo guardando quella riva del fiume che dob-biamo attraversare.

Identità: Beatitudini e Matteo 25. Posto: ilposto più sicuro, nelle mani di Dio, piagate diamore. Speranza, futuro: l’ancora, là, nell’altrariva, ma io ben aggrappato alla corda. Questoè importante, sempre aggrappati alla corda!Tante volte vedremo soltanto la corda, neppu-re l’ancora, neppure l’altra riva; ma tu, aggrap-pati alla corda che arriverai sicuro.

«Anche oggi ci sono cristiani perseguitati, più chenei primi secoli, di più»: lo ha rimarcato il Papanell’omelia pronunciata a braccio nelle catacombedi Priscilla, durante la messa celebrata nelpomeriggio di sabato 2 novembre, in occasionedella commemorazione dei fedeli defunti. «Questo— le catacombe, la persecuzione, i cristiani — equeste letture, mi fanno pensare a tre parole:l’identità, il posto e la speranza», ha detto ilPontefice che ha poi approfondito il significato diquesti termini.

Alle origini della fede

L’Osservatore Romanogiovedì 7 novembre 2019il Settimanale

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!Il Vangelo di oggi (cfr. Lc 19, 1-10) ci pone alseguito di Gesù che, nel suo cammino versoGerusalemme, fa tappa a Gerico. C’era tantafolla ad accoglierlo, tra cui un uomo di nomeZaccheo, capo dei “pubblicani”, cioè di queigiudei che riscuotevano le tasse per contodell’impero romano. Egli era ricco non graziea un onesto guadagno, ma perché chiedeva la“tangente”, e questo aumentava il disprezzoverso di lui. Zaccheo «cercava di vedere chiera Gesù» (v. 3); non voleva incontrarlo, maera curioso: voleva vedere quel personaggio dicui aveva sentito dire cose straordinarie. Eracurioso. Ed essendo basso di statura, «per riu-scire a vederlo» (v. 4) sale su un albero. Quan-do Gesù arriva lì vicino, alza lo sguardo e lovede (cfr. v. 5).

E questo è importante: il primo sguardonon è di Zaccheo, ma di Gesù, che tra tantivolti che lo circondavano — la folla — c e rc aproprio quello. Lo sguardo misericordioso delSignore ci raggiunge prima che noi stessi cirendiamo conto di averne bisogno per esseresalvati. E con questo sguardo del divino Mae-stro comincia il miracolo della conversione delpeccatore. Infatti Gesù lo chiama, e lo chiamaper nome: «Zaccheo, scendi subito, perché og-gi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Non lorimprovera, non gli fa una “p re d i c a ”; gli diceche deve andare da lui: “deve”, perché è la vo-lontà del Padre. Nonostante le mormorazionidella gente, Gesù sceglie di fermarsi a casa diquel pubblico peccatore.

Anche noi saremmo rimasti scandalizzati daquesto comportamento di Gesù. Ma il disprez-zo e la chiusura verso il peccatore non fannoche isolarlo e indurirlo nel male che compiecontro sé stesso e contro la comunità. InveceDio condanna il peccato, ma cerca di salvare ilpeccatore, lo va a cercare per riportarlo sullaretta via. Chi non si è mai sentito cercato dallamisericordia di Dio, fa fatica a cogliere lastraordinaria grandezza dei gesti e delle parolecon cui Gesù si accosta a Zaccheo.

L’accoglienza e l’attenzione di Gesù nei suoiconfronti portano quell’uomo a un netto cam-biamento di mentalità: in un attimo si rendeconto di quanto è meschina una vita tutta pre-sa dal denaro, a costo di rubare agli altri e diricevere il loro disprezzo. Avere il Signore lì, acasa sua, gli fa vedere tutto con occhi diversi,anche con un po’ della tenerezza con cui Gesùha guardato lui. E cambia anche il suo mododi vedere e di usare il denaro: al gesto dell’ar-raffare si sostituisce quello del donare. Infatti,decide di dare la metà di ciò che possiede aipoveri e di restituire il quadruplo a quanti harubato (cfr. v. 8). Zaccheo scopre da Gesù cheè possibile amare gratuitamente: finora eraavaro, adesso diventa generoso; aveva il gustodi ammassare, ora gioisce nel distribuire. In-contrando l’Amore, scoprendo di essere amatononostante i suoi peccati, diventa capace diamare gli altri, facendo del denaro un segno disolidarietà e di comunione.

La Vergine Maria ci ottenga la grazia disentire sempre su di noi lo sguardo misericor-dioso di Gesù, per andare incontro con miseri-cordia a quelli che hanno sbagliato, perché an-che loro possano accogliere Gesù, il quale «èvenuto a cercare e a salvare ciò che era perdu-to» (v. 10).

Al termine della preghiera mariana, dopo averlanciato il suo appello per l’Etiopia (chepubblichiamo in ultima pagina #controcopertina),il Pontefice ha parlato della condizione deimigranti che lavorano come braccianti in Puglia, einfine ha salutato i vari gruppi di fedeli.

Desidero porgere il mio sentito ringraziamentoal Comune e alla Diocesi di San Severo in Pu-glia per la firma del protocollo d’intesa avve-nuta lunedì scorso 28 ottobre, che permetteràai braccianti dei cosiddetti “ghetti della Capi-tanata”, nel foggiano, di ottenere una domici-liazione presso le parrocchie e l’iscrizioneall’anagrafe comunale. La possibilità di avere idocumenti d’identità e di residenza offrirà loronuova dignità e consentirà di uscire da unacondizione di irregolarità e sfruttamento. Gra-zie tante al Comune e a tutti coloro che hannolavorato a questo piano.

Rivolgo il mio cordiale saluto a tutti voi, ro-mani e pellegrini. In particolare, saluto le Cor-porazioni storiche degli Schützen e dei Cava-lieri di San Sebastiano da diversi Paesi d’E u ro -pa; e i fedeli da Lordelo de Ouro (Portogal-lo).

Saluto i gruppi di Reggio Calabria, Treviso,Pescara e Sant’Eufemia di Aspromonte; saluto

i ragazzi di Modena che hanno ricevuto laCresima, quelli di Petosino, diocesi di Berga-mo, e gli Scout venuti in bicicletta da Viterbo.Saluto i membri del movimento Hakuna dallaSpagna.

A tutti auguro una buona domenica. Per fa-vore, non dimenticatevi di pregare per me.Buon pranzo e arrivederci.

Uno sguardoche cambia la vita

Alla preghieramariana

domenicaleil Pontefice

p a rl adi Zaccheo

#copertina

Commentando il Vangelo della trentunesimadomenica del tempo ordinario, Papa Francescoha parlato della figura di Zaccheo all’An g e l u srecitato con i fedeli presenti in piazzaSan Pietro il 3 novembre

L’Osservatore Romanogiovedì 7 novembre 2019il Settimanale

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Letture che abbiamo ascoltato ci ricordano chesiamo venuti al mondo per risorgere: non sia-mo nati per la morte, ma per la risurrezione.Infatti, come scrive nella seconda Lettura SanPaolo, già da ora «la nostra cittadinanza è neicieli» (Fil 3, 20) e, come dice Gesù nel Vange-lo, saremo risuscitati nell’ultimo giorno (cfr.Gv 6, 40). Ed è ancora il pensiero della risur-rezione che suggerisce a Giuda Maccabeo nel-la prima Lettura «un’azione molto buona enobile» (2 Mac 12, 43). Oggi anche noi pos-siamo chiederci: che cosa mi suggerisce il pen-siero della risurrezione? Come rispondo allamia chiamata a risorgere?

Un primo aiuto ci viene da Gesù, che nelVangelo odierno dice: «Colui che viene a me,io non lo caccerò fuori» (Gv 6, 37). Ecco ilsuo invito: “venite a me” (cfr. Mt 11, 28). An-dare a Gesù, il Vivente, per vaccinarsi controla morte, contro la paura che tutto finisca. An-dare a Gesù: può sembrare un’esortazione spi-rituale scontata e generica. Ma proviamo arenderla concreta, ponendoci domande comequeste: Oggi, nelle pratiche che ho avuto trale mani in ufficio, mi sono avvicinato al Si-gnore? Ne ho fatto motivo di dialogo conLui? E nelle persone che ho incontrato, hocoinvolto Gesù, le ho portate a Lui nella pre-ghiera? Oppure ho fatto tutto rimanendo neimiei pensieri, solo rallegrandomi di quello chemi andava bene e lamentandomi di quello chemi andava male? Insomma, vivo andando alS i g n o re o ruoto su me stesso? Qual è la dire-zione del mio cammino? Cerco solo di farebella figura, di salvaguardare il mio ruolo, imiei tempi e i miei spazi, o vado al Signore?

La frase di Gesù è dirompente: colui che vie-ne a me, io non lo caccerò fuori. Come a direche è prevista la cacciata per il cristiano chenon va a Lui. Per chi crede non ci sono vie dimezzo: non si può essere di Gesù e ruotare susé stessi. Chi è di Gesù vive in uscita verso diLui.

La vita è tutta un’uscita: dal grembo dellamadre per venire alla luce, dall’infanzia perentrare nell’adolescenza, dall’adolescenza allavita adulta e così via, fino all’uscita da questomondo. Oggi, mentre preghiamo per i nostrifratelli Cardinali e Vescovi, che sono usciti daquesta vita per andare incontro al Risorto, nonpossiamo dimenticare l’uscita più importante epiù difficile, che dà senso a tutte le altre: quel-la da noi stessi. Solo uscendo da noi stessiapriamo la porta che conduce al Signore.Chiediamo questa grazia: “Signore, desiderovenire a Te, attraverso le strade e i compagnidi viaggio di ogni giorno. Aiutami a uscire da

me stesso, per andare incontro a Te, che sei lavita”.

Vorrei cogliere un secondo pensiero, riferitoalla risurrezione, dalla prima Lettura, dal nobi-le gesto compiuto da Giuda Maccabeo per idefunti. Nel farlo egli, è scritto, «pensava allamagnifica ricompensa riservata a coloro che siaddormentano nella morte con sentimenti dipietà» (2 Mac 12, 45). Sono, cioè, i sentimenti

di pietà a generare magnifiche ricompense. Lapietà verso gli altri spalanca le porte dell’eter-nità. Chinarsi sui bisognosi per servirli è fareanticamera per il paradiso. Se infatti, come ri-corda san Paolo, «la carità non avrà mai fine»(1 Cor 13, 8), allora proprio essa è il ponte checollega la terra al Cielo. Possiamo dunquechiederci se stiamo avanzando su questo pon-te: mi lascio commuovere dalla situazione diqualcuno che è nel bisogno? So piangere perchi soffre? Prego per quelli a cui nessuno pen-sa? Aiuto qualcuno che non ha da restituirmi?Non è buonismo, non è carità spicciola; sonodomande di vita, questioni di risurrezione.

Infine, un terzo stimolo in vista della risur-rezione. Lo prendo dagli Esercizi spirituali, do-ve Sant’Ignazio suggerisce, prima di prendereuna decisione importante, di immaginarsi alcospetto di Dio alla fine dei giorni. Quella èla chiamata a comparire non rimandabile, ilpunto di arrivo per tutti, per tutti noi. Allora,ogni scelta di vita affrontata in quella prospet-tiva è ben orientata, perché più vicina alla ri-surrezione, che è il senso e lo scopo della vita.Come la partenza si calcola dal traguardo, co-me la semina si giudica dal raccolto, così la vi-ta si giudica bene a partire dalla sua fine, dalsuo fine. Sant’Ignazio scrive: «Considerandocome mi troverò il giorno del giudizio, pensa-re come allora vorrei aver deciso intorno allacosa presente; e la regola che allora vorrei avertenuto, prenderla adesso» (Esercizi spirituali,187). Può essere un esercizio utile per vedere larealtà con gli occhi del Signore e non solo coni nostri; per avere uno sguardo proiettato sulfuturo, sulla risurrezione, e non solo sull’oggiche passa; per compiere scelte che abbiano ilsapore dell’eternità, il gusto dell’a m o re .

Esco da me per andare ogni giorno al Si-gnore? Ho sentimenti e gesti di pietà per i bi-sognosi? Prendo le decisioni importanti al co-

Servire gli altriè l’anticamera del paradiso

#copertina

In ricordodei cardinalie dei vescovidefunti

spetto di Dio? Lasciamoci provocare almenoda uno di questi tre stimoli. Saremo più insintonia col desiderio di Gesù nel Vangelo dioggi: non perdere nulla di quanto il Padre gliha dato (cfr. Gv 6, 39). Tra le tante voci delmondo che fanno perdere il senso dell’esisten-za, sintonizziamoci sulla volontà di Gesù, ri-sorto e vivo: faremo dell’oggi che viviamoun’alba di risurrezione.

Papa Francesco haricordato i cardinali, gli

arcivescovi e i vescovideceduti nel corso dell’anno

durante la celebrazione disuffragio presieduta lunedì

mattina, 4 novembre,all’altare della Cattedradella basilica vaticana.

Dall’ottobre 2018 al mesescorso sono morti tredici

porporati (FernandoSebastián Aguilar,

Godfried Danneels,Nasrallah Pierre Sfeir,

Elio Sgreccia, Paolo Sardi,José Manuel Estepa

Llaurens, Jaime LucasOrtega y Alamino, Sergio

Obeso Rivera, AchilleSilvestrini, José de Jesús

Pimiento Rodríguez, RogerEtchegaray, William

Joseph Levada e SerafimFernandes de Araújo) e

147 presuli. Con ilPontefice hanno

concelebrato 32 cardinali —fra cui il segretario

di Stato Parolin — oltre a15 vescovi e a numerosi

prelati della Curiaromana. Con il corpo

diplomatico accreditatopresso la Santa Sede erano

l’arcivescovo Peña Parra,sostituto della Segreteria di

Stato, e i monsignoriCona, assessore,

Wachowski, sottosegretarioper i Rapporti con gli

Stati, e Murphy, capo delProtocollo. Anche tre

porporati, tra i quali ildecano del collegio

cardinalizio Sodano, oltreall’arcivescovo Gänswein,

prefetto della Casapontificia, hanno

partecipato al rito direttoda monsignor Marini,

maestro delle celebrazioniliturgiche pontificie, e

animato dalla CappellaSistina.

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«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vitadi coloro che si incontrano con Gesù». Cosìinizia l’Esortazione apostolica Evangelii gau-dium, pubblicata da Papa Francesco nel no-vembre 2013, otto mesi dopo il Conclave chelo aveva eletto Vescovo di Roma e Successoredi Pietro. Quel testo programmatico del ponti-ficato invitava tutti a ri-sintonizzare ogni atto,riflessione e iniziativa ecclesiale «sull’annunciodel Vangelo nel mondo attuale». Quasi sei an-ni dopo, per l’ottobre 2019 appena concluso, ilPontefice ha indetto il Mese missionariostraordinario, e nel contempo ha convocato aRoma l’Assemblea speciale del Sinodo dei ve-scovi dedicata alla Regione amazzonica, conl’intento di suggerire anche nuovi cammini diannuncio del Vangelo nel “polmone verde”,martoriato dallo sfruttamento predatorio cheviolenta e infligge ferite «ai nostri fratelli e al-la nostra sorella terra» (omelia del Santo Pa-dre per la messa di chiusura del Sinodo per laRegione panamazzonica).

Durante questo arco di tempo, Papa France-sco ha disseminato nel suo magistero riferi-menti insistenti alla natura propria della mis-sione della Chiesa nel mondo. Ad esempio, ilPontefice ha ripetuto infinite volte che annun-ciare il Vangelo non è «proselitismo», e che laChiesa cresce «per attrazione» e per «testimo-nianza». Una costellazione di espressioni tutteorientate a suggerire per accenni qual è il di-namismo proprio di ogni opera apostolica, equale può essere la sua sorgente.

Di tutto questo, e di molto altro, PapaFrancesco parla nel libro-intervista intitolato«Senza di Lui non possiamo far nulla. Unaconversazione sull’essere missionari oggi nelmondo».

Lei ha raccontato che da giovane voleva andaremissionario in Giappone. Si può dire che il Papaè un missionario mancato?

Non lo so. Sono entrato nei gesuiti perchémi colpiva la loro vocazione missionaria, il lo-

Il Papae la missione:«Senza Gesùnon possiamofar nulla»ro andare sempre verso le frontiere. Allora nonsono potuto andare in Giappone. Ma ho sem-pre avvertito che annunciare Gesù e il suoVangelo comporta sempre un certo uscire emettersi in cammino.

Lei ripete sempre: “Chiesa in uscita”. L’e s p re s -sione viene rilanciata da tanti, e a volte sembradiventato uno slogan abusato, a disposizione diquelli, sempre più numerosi, che passano il tempoa dar lezioni alla Chiesa su come dovrebbe o nondovrebbe essere.

“Chiesa in uscita” non è una espressione al-la moda che mi sono inventato io. È il coman-do di Gesù, che nel Vangelo di Marco chiedeai suoi di andare in tutto il mondo e predicareil Vangelo «a ogni creatura». La Chiesa o è inuscita o non è Chiesa. O è in annuncio o nonè Chiesa. Se la Chiesa non esce si corrompe, sisnatura. Diventa un’altra cosa.

Che cosa diventa una Chiesa che non annunciae non esce?

Diventa un’associazione spirituale. Unamultinazionale per lanciare iniziative e mes-saggi di contenuto etico-religioso. Niente dimale, ma non è la Chiesa. Questo è un rischiodi qualsiasi organizzazione statica nella Chie-sa. Si finisce per addomesticare Cristo. Nondai più testimonianza di ciò che opera Cristo,ma parli a nome di una certa idea di Cristo.Un’idea posseduta e addomesticata da te. Or-ganizzi tu le cose, diventi il piccolo impresariodella vita ecclesiale, dove tutto avviene secon-do programma stabilito, e cioè solo da seguiresecondo le istruzioni. Ma non riaccade mail’incontro con Cristo. Non riaccade più l’in-contro che ti aveva toccato il cuore all’inizio.

La missione è di per sé antidoto a tutto questo?Basta la volontà e lo sforzo di “u s c i re ” in missio-ne per evitare queste distorsioni?

La missione, la “Chiesa in uscita”, non sonoun programma, una intenzione da realizzareper sforzo di volontà. È Cristo che fa uscire laChiesa da se stessa. Nella missione di annun-ciare il Vangelo, tu ti muovi perché lo SpiritoSanto ti spinge, e ti porta. E quando tu arrivi,ti accorgi che Lui è arrivato prima di te, e tista aspettando. Lo Spirito del Signore è arri-vato prima. Lui previene, anche per preparartiil cammino, ed è già all’op era.

In un incontro con le Pontificie opere missiona-rie, Lei ha suggerito loro di leggere gli Atti degliApostoli, come testo abituale di preghiera. Il rac-

A conclusionedel mesemissionario

#libro-intervista

di GIANNI VALENTE

A conclusione del mese missionario straordinariomartedì 5 novembre, è uscito il volume-intervistadi Gianni Valente con Papa Francesco «Senza diLui non possiamo far nulla. Essere missionarioggi nel mondo» (Libreria editrice vaticanae San Paolo, 102 pagine, 10 euro).Dall’Agenzia Fides, che ha pubblicatoin anteprima alcuni estratti, riprendiamo il testonel quale il Pontefice ribadisce che «la Chiesao è annuncio o non è Chiesa».

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conto degli inizi, e non un manuale di strategiamissionaria “moderno”. Come mai?

Il protagonista degli Atti degli Apostoli nonsono gli apostoli. Il protagonista è lo SpiritoSanto. Gli Apostoli lo riconoscono e lo atte-stano per primi. Quando comunicano ai fratel-li di Antiochia le indicazioni stabilite al Conci-lio di Gerusalemme, scrivono: «Abbiamo deci-so, lo Spirito Santo e noi». Loro riconosceva-no con realismo in fatto che era il Signore adaggiungere ogni giorno alla comunità «quelliche erano salvati», e non gli sforzi di persua-sione degli uomini.

E adesso è come allora? Non è cambiato nien-te?

L’esperienza degli apostoli è come un para-digma che vale per sempre. Basta pensare acome le cose negli Atti degli apostoli avvengo-no gratuitamente, senza forzature. È una vi-cenda, una storia di uomini in cui i discepoliarrivano sempre secondi, arrivano sempre do-po lo Spirito Santo che agisce. Lui prepara elavora i cuori. Scombussola i loro piani. È luiad accompagnarli, guidarli e consolarli dentrotutte le circostanze che si trovano a vivere.Quando arrivano i problemi e le persecuzioni,lo Spirito Santo lavora anche lì, in manieraancora più sorprendente, con il suo conforto,le sue consolazioni. Come avviene dopo il pri-mo martirio, quello di Santo Stefano.

Che cosa avviene?

Inizia un tempo di persecuzione, e tanti di-scepoli fuggono da Gerusalemme, vanno nellaGiudea e nella Samaria. E lì, mentre sonosparpagliati e fuggitivi, cominciano a annun-ciare il Vangelo, anche se sono soli e con loronon ci sono gli Apostoli, rimasti a Gerusalem-me. Sono battezzati, e lo Spirito Santo dà loroil coraggio apostolico. Lì si vede per la primavolta che il battesimo è sufficiente per diventa-re annunciatori del Vangelo. La missione èquella cosa lì. La missione è opera Sua. È inu-tile agitarsi. Non serve organizzare noi, nonserve urlare. Non servono trovate o stratagem-mi. Serve solo chiedere di poter rifare oggil’esperienza che ti fa dire «abbiamo deciso, loSpirito Santo e noi».

E se non c’è questa esperienza, che senso hannole chiamate alla mobilitazione missionaria?

Senza lo Spirito, voler fare la missione di-venta un’altra cosa. Diventa, direi, un progettodi conquista, la pretesa di una conquista cherealizziamo noi. Una conquista religiosa, oforse ideologica, magari fatta anche con buoneintenzioni. Ma è un’altra cosa.

Citando Papa Benedetto XVI, Lei ripete spessoche la Chiesa cresce per attrazione. Cosa intendeindicare? Chi attrae? Chi viene attirato?

Lo dice Gesù nel Vangelo di Giovanni.«Quando sarò innalzato da terra, attirerò tuttia me». E nello stesso Vangelo, dice anche:«Nessuno viene a me, se non lo attira il Padreche mi ha mandato». La Chiesa ha sempre ri-conosciuto che questa è la forma propria diogni moto che avvicina a Gesù e al Vangelo.Non una convinzione, un ragionamento, unapresa di coscienza. Non una pressione, o unacostrizione. Si tratta sempre di una attrazione.Già il Profeta Geremia dice «tu mi hai sedot-to, e io mi sono lasciato sedurre». E questovale per gli stessi apostoli, per gli stessi mis-sionari, e per la loro opera.

In che modo avviene quanto Lei ha appena de-scritto?

Il mandato del Signore di uscire e annun-ciare il Vangelo preme da dentro, per innamo-

ramento, per attrazione amorosa. Non si segueCristo e tanto meno si diventa annunciatori dilui e del suo Vangelo per una decisione presaa tavolino, per un attivismo autoindotto. An-che lo slancio missionario può essere fecondosolo se avviene dentro questa attrazione, e latrasmette agli altri.

Qual è il significato di queste parole rispettoalla missione e all’annuncio del Vangelo?

Vuol dire che se ad attirarti è Cristo, se timuovi e fai le cose perché sei attirato da Cri-sto, gli altri se ne accorgono senza sforzo. Nonc’è bisogno di dimostrarlo, e tanto meno diostentarlo. Invece, chi pensa di fare il protago-nista o l’impresario della missione, con tutti isuoi buoni propositi e le sue dichiarazionid’intenti spesso finisce per attirare nessuno.

Lei, nella Lettera apostolica «Evangelii gau-dium», riconosce che tutto questo può «procurarciuna certa vertigine». Come quella di chi si im-merge in un mare dove non sa cosa incontrerà.Che cosa voleva suggerire con questa immagine?Queste parole riguardano anche la missione?

La missione non è un progetto aziendale

CO N T I N UA A PA G I N A 18

ben collaudato. Non è nemme-no uno spettacolo organizzatoper contare quanta gente viprende parte grazie alle nostrepropagande. Lo Spirito Santoopera come vuole, quandovuole e dove vuole. E questopuò comportare una certa ver-tigine. Eppure il vertice dellalibertà riposa proprio in questolasciarsi portare dallo Spirito,rinunciando a calcolare e acontrollare tutto. E proprio inquesto imitiamo Cristo stesso,che nel mistero della sua Ri-surrezione ha imparato a ripo-sare nella tenerezza delle brac-cia del Padre.

La misteriosa fecondità dellamissione non consiste nelle no-stre intenzioni, nei nostri me-todi, nei nostri slanci e nellenostre iniziative, ma riposaproprio in questa vertigine: lavertigine che si avverte davantialle parole di Gesù, quando di-ce «senza di me non potete farnulla».

Lei ama ripetere anche che laChiesa cresce «per testimonian-za». Quale suggerimento sta cer-cando di dare con questa sua in-sistenza?

Il fatto che l’attrazione si fa testimonianzain noi. Il testimone attesta ciò che l’opera diCristo e del suo Spirito hanno compiuto real-mente nella sua vita. Dopo la Risurrezione, èCristo stesso che si rende visibile agli apostoli.È lui che fa di loro dei testimoni. Anche la te-stimonianza non è una propria prestazione, siè testimoni delle opere del Signore.

Altra cosa che Lei ripete spesso, in questo casoin chiave negativa: la Chiesa non cresce per pro-selitismo e la missione della Chiesa non è proseli-tismo. Come mai tanta insistenza? È per custodirei buoni rapporti con le altre Chiese e il dialogocon le tradizioni religiose?

Il problema con il proselitismo non è solo ilfatto che contraddice il cammino ecumenico eil dialogo interreligioso. C’è proselitismo do-vunque c’è l’idea di far crescere la Chiesa fa-cendo a meno dell’attrazione di Cristo e

L’Osservatore Romanogiovedì 7 novembre 2019il Settimanale

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dell’opera dello Spirito, puntando tutto su unqualsiasi tipo di “discorso sapiente”. Quindi,come prima cosa, il proselitismo taglia fuoridalla missione Cristo stesso, e lo Spirito San-to, anche quando pretende di parlare e agirein nome di Cristo, in maniera nominalistica. Ilproselitismo è sempre violento per sua natura,anche quando la dissimula o la esercita con iguanti. Non sopporta la libertà e la gratuitàcon cui la fede può trasmettersi, per grazia, dapersona a persona. Per questo il proselitismonon è solo quello del passato, dei tempidell’antico colonialismo, o delle conversioniforzate o comprate con la promessa di vantag-gi materiali. Ci può essere proselitismo ancheoggi, anche nelle parrocchie, nelle comunità,nei movimenti, nelle congregazioni religiose.

E allora, cosa vuol dire annunciare il Vangelo?

L’annuncio del Vangelo vuol dire consegna-re in parole sobrie e precise la testimonianzastessa di Cristo, come fecero gli apostoli. Manon serve inventare discorsi persuasivi. L’an-nuncio del Vangelo può essere anche sussurra-to, ma passa sempre attraverso la forza scon-volgente dello scandalo della croce. E segueda sempre la via indicata nella lettera di SanPietro apostolo, che consiste nel semplice «da-re ragione» agli altri della propria speranza.Una speranza che rimane scandalo e stoltezzaagli occhi del mondo.

Da cosa si riconosce il “m i s s i o n a re ” cristiano?

Un tratto distintivo è quello di fare da faci-litatori, e non da controllori della fede. Facili-tare, rendere facile, non porre noi ostacoli aldesiderio di Gesù di abbracciare tutti, di gua-rire tutti, di salvare tutti. Non fare selezioni,non fare “dogane pastorali”. Non fare la partedi quelli che si mettono sulla porta a control-lare se gli altri hanno i requisiti per entrare.Ricordo i parroci e le comunità che a BuenosAires avevano messo in campo tante iniziativeper rendere più facile l’accesso al battesimo. Sierano accorti che negli ultimi anni stava cre-scendo il numero di quelli che non venivanobattezzati per tanti motivi, anche sociologici, evolevano ricordare a tutti che essere battezzatiè una cosa semplice, che tutti lo possono chie-dere, per sé e per i propri figli. La strada presada quei parroci e da quelle comunità era unasola: non aggiungere pesi, non accampare pre-tese, togliere di mezzo ogni difficoltà di carat-tere culturale, psicologico o pratico che potevaspingere le persone a rinviare o lasciar caderel’intenzione di battezzare i propri figli.

In America, all’inizio dell’evangelizzazione, imissionari discutevano su chi fosse “degno” di ri-cevere il battesimo. Come andarono a finire quelledispute?

Papa Paolo III rifiutò le teorie di chi soste-neva che gli indios erano per natura “incapaci”di accogliere il Vangelo e confermò la scelta dichi facilitava il loro battesimo. Sembrano cosepassate, eppure anche adesso ci sono circoli esettori che si presentano come “i l u s t ra d o s ”, illu-minati, e sequestrano anche l’annuncio delVangelo nelle loro logiche distorte che divido-no il mondo tra “civiltà” e “barbarie”. L’ideache il Signore abbia tra i suoi prediletti anchetante “cabecitas negras” li irrita, li mette dicattivo umore. Considerano buona parte dellafamiglia umana come se fosse un’entità di clas-se inferiore, inadatta a raggiungere secondo iloro standard i livelli decenti nella vita spiri-tuale e intellettuale. Su questa base può svi-lupparsi un disprezzo per i popoli consideratidi secondo livello. Tutto questo è emerso an-che in occasione del Sinodo dei vescovisull’Amazzonia.

In diversi tendono a porre in alternativa dia-lettica l’annuncio chiaro della fede e le opere so-ciali. Dicono che non bisogna ridurre la missioneal sostegno alle opere sociali. È una preoccupazio-ne legittima?

Tutto quello che è dentro l’orizzonte delleBeatitudini e delle opere di misericordia vad’accordo con la missione, è già annuncio, ègià missione. La Chiesa non è una Ong, laChiesa è un’altra cosa. Ma la Chiesa è ancheun ospedale da campo, dove si accolgono tut-ti, così come sono, si curano le ferite di tutti.E questo fa parte della sua missione. Tutto di-pende dall’amore che muove il cuore di chi fale cose. Se un missionario aiuta a scavare unpozzo in Mozambico, perché si è accorto cheserve a quelli che lui battezza e a cui predica ilVangelo, come si fa a dire che quell’opera èseparata dall’annuncio?

Quali sono oggi le nuove attenzioni e sensibilitàda esercitare nei processi volti a rendere fecondol’annuncio del Vangelo nei diversi contesti sociali ec u l t u ra l i ?

Il cristianesimo non dispone di un unicomodello culturale. Come ha riconosciuto Gio-vanni Paolo II, «restando pienamente se stes-so, nella totale fedeltà all’annuncio evangelicoe alla tradizione ecclesiale, il cristianesimo por-terà anche il volto delle tante culture e deitanti popoli in cui è accolto e radicato». LoSpirito Santo abbellisce la Chiesa, con leespressioni nuove delle persone e delle comu-nità che abbracciano il Vangelo. Così la Chie-sa, assumendo i valori delle differenti culture,diventa “sponsa ornata monilibus suis”, “la spo-sa che si adorna con i suoi gioielli”, di cui par-la il Profeta Isaia. E vero che alcune culturesono state strettamente legate alla predicazionedel Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cri-stiano. Ma nel tempo che stiamo vivendo, di-venta ancora più urgente tener presente che ilmessaggio rivelato non si identifica con nessu-na cultura. E nell’incontro con nuove culture ocon culture che non hanno accolto la predica-zione cristiana, non bisogna provare a imporreuna determinata forma culturale insieme conla proposta evangelica. Oggi anche nell’op eramissionaria conviene ancor di più non portarebagagli pesanti.

Missione e martirio. Lei ha richiamato spesso ilvincolo intimo che unisce queste due esperienze.

Nella vita cristiana l’esperienza del martirioe la proclamazione del Vangelo a tutti hannola stessa origine, la stessa sorgente, quandol’amore di Dio effuso nei nostri cuori dalloSpirito Santo dona forza, coraggio e consola-zione. Il martirio è la massima espressione delriconoscimento e della testimonianza resa aCristo, che rappresentano il compimento dellamissione, dell’opera apostolica. Penso sempreai fratelli copti trucidati in Libia, che pronun-ciavano sottovoce il nome di Gesù mentre ve-nivano decapitati. Penso alle suore di MadreTeresa uccise in Yemen, mentre accudivano ipazienti musulmani di una residenza di anzia-ni disabili. Quando le hanno uccise, avevano igrembiuli di lavoro indossati sopra il loro abi-to religioso. Sono tutti dei vincitori, non delle“vittime”. E il loro martirio, fino allo spargi-mento di sangue, illumina il martirio che tuttipossono patire nella vita di ogni giorno, con latestimonianza resa a Cristo ogni giorno. Quel-lo che si può vedere quando si va a visitare lecase di riposo dei vecchi missionari, spessomalridotti dalla vita che hanno fatto. Un mis-sionario mi ha detto che molti di loro perdonola memoria e non ricordano più niente del be-ne che hanno fatto. «Ma non ha importanza»mi diceva «perché invece questo il Signore loricorda molto bene».

CO N T I N UA Z I O N E DALLA PA G I N A 17

Per il Medioorientel’intenzionedi preghieradi novembre

«Perché in Medio oriente,in cui diverse componentireligiose condividono ilmedesimo spazio di vita,nasca uno spirito di dialogo,di incontro e diriconciliazione». È questal’intenzione di Francescoper il mese di novembrediffusa dalla Rete mondialedi preghiera del Papaattraverso il video postatosu www.thepopevideo.org.«Da queste terre ci è giuntala buona notizia di Gesù,risorto per amore», affermail Pontefice. Poi laconstatazione che «oggimolte comunità cristiane,insieme ad altre ebree emusulmane, lavorano quiper la pace, lariconciliazione e ilperdono». In effetti, inMedio oriente, aggiunge ilPapa, «la convivenza e ildialogo tra le tre religionimonoteiste si basano sulegami spirituali e storici».Nel filmato risuonano leparole di Francesco mentrescorrono immagini chefanno riflettere sul bisognodi riconciliazione e di pace.Si vede un gruppo dipersone intente a costruireun pozzo. Sonoappartenenti a diversereligioni. Le unisce lospirito di carità e disolidarietà verso chi è nelbisogno. Quelle pietre delpozzo in costruzione,appoggiate una sopra l’altra,sono il simbolo della societàche vuole trovare le suefondamenta nella fraternitàe nella coesione. Leimmagini che aprono ilvideo mostrano i luoghisacri alle tre religionimonoteiste presenti aGerusalemme. Sotto gliocchi dello spettatorescorrono le scene dei fedeliche si recano al SantoSepolcro, di un banchettoebraico, della spianata dellemoschee.

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OUn’educazione solo tecnicadiventa alienazione

ggi il sistema delle università si trova dinanzi asfide inedite che provengono dallo sviluppodelle scienze, dall’evoluzione delle nuove tec-nologie e dalle esigenze della società che solle-citano le istituzioni accademiche a fornire ri-sposte adeguate e aggiornate. La forte pressio-ne, avvertita nei vari ambiti della vita socio-economica, politica e culturale, interpella dun-que la vocazione stessa dell’università, in parti-colare il compito dei docenti di insegnare e difare ricerca e di preparare le giovani generazio-ni a diventare non solo qualificati professioni-sti nelle varie discipline, ma anche protagonistidel bene comune, leader creativi e responsabilidella vita sociale e civile con una corretta vi-sione dell’uomo e del mondo. In questo sensooggi le università si devono interrogare sulcontributo che esse possono e devono dare perla salute integrale dell’uomo e per un’ecologiasolidale.

Se queste sfide riguardano tutto il sistemauniversitario, le università cattoliche dovrebbe-ro avvertire con ancora maggiore acutezzaqueste esigenze. Con la vostra apertura univer-sale (appunto da “universitas”), potete fare inmodo che l’università cattolica sia il luogo do-ve le soluzioni per un progresso civile e cultu-rale per le persone e per l’umanità, improntatoalla solidarietà, venga perseguito con costanza

e professionalità, considerando ciò che è con-tingente senza perdere di vista ciò che ha unvalore più generale...

Lo sviluppo delle tecnoscienze, come già sipuò constatare, è destinato ad influire in mo-do crescente sulla salute fisica e psicologicadelle persone. Ma poiché esso incide anchesulle modalità e sui processi degli studi acca-demici, oggi più che in passato occorre ricor-dare che ogni insegnamento implica anche un

interrogarsi sui “p erché”, cioè richiede una ri-flessione sui fondamenti e sui fini di ogni di-sciplina. Una educazione ridotta a mera istru-zione tecnica o a mera informazione, diventaun’alienazione dell’educazione; ritenere di po-tere trasmettere conoscenze astraendo dalla lo-ro dimensione etica, sarebbe come rinunciare ae d u c a re .

È necessario superare l’eredità dell’illumini-smo. Educare, in genere, ma in particolare nel-le università, non è soltanto riempire la testadi concetti... L’università ha una coscienza, maanche una forza intellettuale e morale la cuiresponsabilità va oltre la persona da educare esi estende alle necessità di tutta l’umanità. E laFIUC è chiamata ad assumersi l’imperativo mo-rale di adoperarsi per realizzare una comunitàinternazionale accademica più unita, da unaparte affondando con più convinzione le pro-prie radici in quel contesto cristiano dal qualele università ebbero origine e, dall’altra, conso-lidando la rete tra le università di antica nasci-ta e quelle più giovani, per sviluppare uno spi-rito universalistico finalizzato ad accrescere laqualità della vita culturale delle persone e deipopoli. L’ecosistema delle università si costrui-sce se ogni universitario coltiva una particolaresensibilità, quella datagli dalla sua attenzioneper l’uomo, per tutto l’uomo, per il contestoin cui vive e cresce e per tutto ciò che contri-buisce alla sua promozione.

La formazione dei leader raggiunge i propriobiettivi quando riesce ad investire il tempoaccademico con lo scopo di sviluppare nonsolo la mente, ma anche il “c u o re ”, la coscien-za, e le capacità pratiche dello studente; ilsapere scientifico e teorico va impastato con lasensibilità dello studioso e ricercatore affinchéi frutti dello studio non siano acquisiti in sen-

#università

so autoreferenziale, solo per affermare la pro-pria posizione professionale, ma siano proiet-tati in senso relazionale e sociale. In definitiva,così come ogni scienziato ed ogni uomodi cultura ha l’obbligo di servire di più, perchésa di più, così la comunità universitaria, so-prattutto se di ispirazione cristiana, e l’ecosi-stema delle istituzioni accademiche devonorispondere nel loro insieme al medesimo obbli-go...

«Una educazione ridotta a mera istruzionetecnica o a mera informazione,diventa un’alienazione». Lo ha ricordato il Papaai partecipanti al convegno della Federazioneinternazionale delle università cattoliche (Fiuc) —svoltosi a Roma sul tema: «Nuove frontiere peri leader delle università» — ricevuti in lunedìmattina 4 novembre, in un’auletta dell’Au l aPaolo VI. Di seguito stralci del suo discorso.

Ogni saperedev’essere orientatoa una visionedell’uomo

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!Proseguiamo il nostro “viaggio” con il librodegli Atti degli Apostoli. Dopo le prove vissu-te a Filippi, Tessalonica e Berea, Paolo appro-da ad Atene, proprio nel cuore della Grecia(cfr. At 17, 15). Questa città, che viveva all’om-bra delle antiche glorie malgrado la decadenzapolitica, custodiva ancora il primato della cul-tura. Qui l’Apostolo «freme dentro di sé al ve-dere la città piena di idoli» (At 17, 16). Questo“impatto” col paganesimo, però, invece di far-lo fuggire, lo spinge a creare un ponte per dia-logare con quella cultura.

Paolo sceglie di entrare in familiarità con lacittà e inizia così a frequentare i luoghi e lepersone più significativi. Va alla sinagoga, sim-bolo della vita di fede; va nella piazza, simbo-lo della vita cittadina; e va all’Areopago, sim-bolo della vita politica e culturale. Incontragiudei, filosofi epicurei e stoici, e molti altri.Incontra tutta la gente, non si chiude, va a

Oppure con la fede che riconosce i figli diDio in mezzo alle folle anonime?

Paolo sceglie lo sguardo che lo spinge adaprire un varco tra il Vangelo e il mondo pa-gano. Nel cuore di una delle istituzioni più ce-lebri del mondo antico, l’Areopago, egli realiz-za uno straordinario esempio di inculturazionedel messaggio della fede: annuncia Gesù Cri-sto agli adoratori di idoli, e non lo fa aggre-dendoli, ma facendosi «pontefice, costruttoredi ponti» (Omelia a Santa Marta, 8 maggio2013).

Paolo prende spunto dall’altare della cittàdedicato a «un dio ignoto» (At 17, 23) — c’eraun altare con scritto “al dio ignoto”; nessunaimmagine, niente, soltanto quella iscrizione.Partendo da quella “devozione” al dio ignoto,per entrare in empatia con i suoi uditori pro-clama che Dio «vive tra i cittadini» (Evangeliigaudium, 71) e «non si nasconde a coloro chelo cercano con cuore sincero, sebbene lo fac-

ciano a tentoni» (ibid.). È proprio questa pre-senza che Paolo cerca di svelare: «Colui che,senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annun-cio» (At 17, 23).

Per rivelare l’identità del dio che gli Ateniesiadorano, l’Apostolo parte dalla creazione, cioèdalla fede biblica nel Dio della rivelazione, pergiungere alla redenzione e al giudizio, cioè almessaggio propriamente cristiano. Egli mostrala sproporzione tra la grandezza del Creatore

Mani tese per costruire ponticon chi non crede o ha altre fedi

Al l ’udienzag e n e ra l eil Papa commentail discorso di Paoload Atenee ribadiscel’importanzadel dialogocon le culture

#catechesi

parlare con tutta la gente. In tal modo Paoloosserva la cultura e, osserva l’ambiente di Ate-ne «a partire da uno sguardo contemplativo»che scopre «quel Dio che abita nelle sue case,nelle sue strade, e nelle sue piazze» (Evangeliigaudium, 71). Paolo non guarda la città di Ate-ne e il mondo pagano con ostilità ma con gliocchi della fede. E questo ci fa interrogare sulnostro modo di guardare le nostre città: le os-serviamo con indifferenza? Con disprezzo?

Occorre chiedere «anchenoi oggi allo Spirito Santodi insegnarci a costruireponti con la cultura, conchi non crede o con chiha un credo diverso dalnostro»: lo ha auspicatoil Papa — attualizzandola “lezione” di san Paolonel famoso discorsonell’Areopago di Atene —proseguendo le catechesisugli Atti degli apostoliall’udienza generale dimercoledì mattina,6 novembre, in piazzaSan Pietro.

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La Giornata di solidarietà organizzata dall’Aiutoalla Chiesa che soffre (Acs) assieme alla Conferenzaepiscopale polacca (Cep) in soccorso ai cristiani delSud Sudan e la necessità di «aprire i nostri cuori» abisognosi, indifesi, disoccupati e a «chi bussa allanostra porta in cerca di pane, di un rifugio» sonostate ricordate dal Papa nei saluti rivolti al terminedell’udienza generale ai gruppi di fedeli presenti.«Domenica prossima — ha detto ai polacchi — laChiesa in Polonia celebra l’undicesima Giornata disolidarietà con la Chiesa perseguitata, organizzatadalla Fondazione Papale Acs, assieme alla Cep.Quest’anno il soccorso spirituale e materiale èrivolto in particolare ai cristiani del Sud Sudan. Lavostra preghiera e le opere concrete di solidarietàportino sollievo ed aiuto ai fratelli e alle sorelle chesoffrono per Cristo in diverse parti del mondo».Ai pellegrini di lingua araba, «in particolare a quelliprovenienti dal Medio Oriente» il Pontefice harivolto l’esortazione «davanti alle tante sofferenzedel nostro tempo», a chiedere «al Signore di fare dinoi dei costruttori di ponti, e di aprire i nostri cuorialle necessità dei bisognosi, degli indifesi, deipoveri, dei disoccupati, e di chi bussa alla nostraporta in cerca di pane, di un rifugio e delriconoscimento della sua dignità».Subito prima dell’udienza, davanti a Santa Marta, ilPapa aveva ricordato nella preghiera i tre pompieri

Solidarietà con il Sud Sudan

e i templi costruiti dall’uomo, e spiega che ilCreatore si fa sempre cercare perché ognunolo possa trovare. In tal modo Paolo, secondouna bella espressione di Papa Benedetto XVI,«annuncia Colui che gli uomini ignorano, ep-pure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto» (Bene-detto XVI, Incontro col mondo della cultura alCollège des Bernardins, 12 sett. 2008). Poi, invi-ta tutti ad andare oltre «i tempi dell’ignoran-za» e a decidersi per la conversione in vistadel giudizio imminente. Paolo approda così alkerygma e allude a Cristo, senza citarlo, defi-nendolo come l’«uomo che Dio ha designato,dandone a tutti prova sicura col risuscitarlodai morti» (At 17, 31).

E qui, c’è il problema. La parola di Paolo,che finora aveva tenuto gli interlocutori con ilfiato sospeso — perché era una scoperta inte-ressante —, trova uno scoglio: la morte e risur-rezione di Cristo appare «stoltezza» (1 Cor 1,

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Chiediamo anche noi oggi allo Spirito San-to di insegnarci a costruire ponti con la cul-tura, con chi non crede o con chi ha un credodiverso dal nostro. Sempre costruire ponti,sempre la mano tesa, niente aggressione.Chiediamogli la capacità di inculturarecon delicatezza il messaggio della fede,ponendo su quanti sono nell’ignoranzadi Cristo uno sguardo contemplativo, mossoda un amore che scaldi anche i cuori più indu-riti.

italiani — Matteo Gastaldo, Marco Triches eAntonio Candido — morti in servizio perun’esplosione vicino ad Alessandria nella notte tra il4 e il 5 novembre. Lo ha fatto in occasione dellabenedizione un nuovo automezzo che l’aziendatedesca Man Truck & Bus ha donato ai vigili delfuoco della Città del Vaticano. Gli innovativistrumenti tecnici, che fanno dell’automezzo unpezzo unico nel suo genere, consentirannosoprattutto di rendere ancora più sicuro l’usodell’eliporto vaticano che è adibito, in modoparticolare, all’atterraggio e al decollo, sia diurnosia notturno, di eliambulanze e di elicotteriprovenienti o diretti verso l’ospedale BambinoGesù, per gravi urgenze ed emergenze pediatriche oper casi riguardanti espianti e impianti di organi.A illustrare al Pontefice il progetto e il nuovoveicolo sono stati il cardinale Bertello, presidentedel Governatorato dello Stato della Città delVaticano, con il vescovo segretario generaleFernando Vérgez Alzaga, Gianluca GauzziBroccoletti, comandante del Corpo dellagendarmeria e direttore dei Servizi di sicurezza eprotezione civile, i dieci vigili del fuoco della Cittàdel Vaticano che utilizzeranno l’automezzo, el’ingegner Paolo De Angelis, funzionariotecnico del corpo.

#catechesi

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di ENZOBIANCHI

L’

Il tempodella fine

17 novembreXXXIII domenica

del Tempoo rd i n a r i o

Luca 21, 5-19

Francesco Hayez«La distruzione del Tempiodi Gerusalemme»(1867, particolare Galleriainternazionale d’arte modernadi Venezia)

anno liturgico volge al termine e il nostrocammino riprenderà con il tempo di Avvento,inizio di un nuovo anno. Eccoci dunque incontemplazione delle realtà ultime, alle qualitende la nostra attesa: il Signore Gesù appari-rà nella gloria come il Veniente. È Gesù stessoche sul finire dei suoi giorni terreni prima del-la sua passione e morte, mentre si trova a Ge-rusalemme per la celebrazione della Pasqua, difronte al tempio, stimolato da una domandadei suoi discepoli delinea “il giorno del Signo-re ” (jom ’Ad o n a j ) quale giorno della sua venu-ta.

Il tempio di Gerusalemme, la cui ricostru-zione da parte di Erode era iniziata circa cin-quant’anni prima, appariva come una costru-zione sontuosa, che impressionava chi giunge-va a Gerusalemme. Essa non era come le altrecittà capitali: era «la città del gran Re» (Sal48, 3; Mt 5, 35), il Signore stesso, meta deigiudei residenti in Palestina o provenienti dal-la diaspora (da Babilonia a Roma), la città se-de (luogo, maqom) della Shekinah, della Pre-senza di Dio. Il tempio nel suo splendore neera il segno per eccellenza, tanto che si diceva:«Chi non ha visto Gerusalemme, la splenden-te, non ha visto la bellezza. Chi non ha vistola dimora (il Santo), non ha visto la magnifi-cenza».

Anche i discepoli di Gesù nella valle delCedron, di fronte a Gerusalemme, o sul montedegli Ulivi erano spinti all’ammirazione. MaGesù risponde: «Verranno giorni nei quali, diquello che vedete, non sarà lasciata pietra supietra che non sarà distrutta», parole che per igiudei suonavano come una bestemmia, alpunto che saranno uno dei capi di accusa con-tro Gesù nel processo davanti al sinedrio (cfr.Mc 14, 58; Mt 26, 61). Gesù non vuole negarela bellezza del tempio, né decretarne la distru-zione, ma vuole avvertire i discepoli: il tempio,sebbene sia casa di Dio, sebbene sia una co-struzione imponente, non deve essere oggettodi fede né inteso come una garanzia, una sicu-rezza. Purtroppo, infatti, il tempio di Gerusa-lemme era diventato destinatario della fede daparte di molti contemporanei di Gesù: non alDio vivente ma al tempio andava il loro servi-zio, e la loro fede-fiducia non era più indiriz-zata al Signore, ma alla sua casa, là dove risie-deva la sua Presenza...

Gesù, del resto, non fa altro che ammonireil popolo dei credenti, come aveva fatto secoli

prima il profeta Geremia: «Non basta ripetere:“Tempio del Signore, tempio del Signore, tem-pio del Signore!”, e pensare che esso possasalvare, ma occorre vivere secondo la volontàdi Dio, praticare la giustizia» (cfr. Ger 7, 1-15).Più in generale, le parole di Gesù erano fedeliall’annuncio dei profeti, che più volte avevanoammonito i credenti, mettendoli in guardia dalrischio di trasformare uno strumento per la co-munione con Dio in un inciampo, un luogoidolatrico, una falsa garanzia di salvezza. EGesù con il suo sguardo profetico vede che iltempio andrà in rovina, sarà distrutto, non sa-rà capace di dare salvezza a Israele.

Di fronte a questo annuncio del loro Mae-stro, i discepoli hanno una reazione di curiosi-tà: «Quando accadrà questo? Ci sarà un segnopremonitore?». A questi interrogativi Gesùnon risponde puntualmente, non formula pre-dizioni, ma piuttosto avverte i discepoli su co-me è necessario prepararsi per “quel giorno”che viene. Nessuna data, nessuna risposta pre-cisa alle febbri apocalittiche sempre presentinella storia, tra i credenti, nessuna immagineterroristica come segno, ma delle indicazioniaffinché i credenti vadano in profondità, leg-gano i segni dei tempi e vivano con vigilanzail proprio oggi, mai dimenticando, ma al con-trario conservando la memoria della promessadel Signore e attendendo che tutto si compia.Gli ultimi tempi sono i tempi dell’allenamentoal discernimento, a quell’esercizio attraverso ilquale si può giungere a «vedere con chiarez-za», a distinguere ciò che è bene e ciò che èmale e si possono trovare le ragioni per la de-cisione, per la scelta della vita e il rigetto dellamorte.

Il primo avvertimento di Gesù è una messain guardia di fronte a quelli che si presentanocome detentori del Nome di Dio: «Egó eimi,Io sono». Tale pretesa coincide con l’a r ro g a r s iuna centralità, un primato e un’autorità cheappartengono solo al Signore. Mai il credentediscepolo di Gesù può affermare: «Io sono»,ma piuttosto deve sempre proclamare: «Io nonsono» (cfr. Gv 1, 20-21) e fare segno, indicareil Cristo Signore (cfr. Gv 1, 23-36). Purtroppogli umani cercano sempre un idolo in cui met-tere fede, una sorta di tempio che li garantiscae — come insegna tristemente la storia — fini-scono per trovarlo o in persone che vengononel nome di Gesù ma in realtà sono contro dilui, o in istituzioni umane: istituzioni liturgi-

#meditazione

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che, teologiche, giuridiche, politiche, che ma-gari si proclamano volute da Cristo stesso,mentre in realtà sono scandalo e contraddizio-ne alla fede autentica! Gesù avverte: «Non an-date dietro (opíso) a loro», perché l’unica se-quela è quella indicata da Gesù stesso e testi-moniata dal Vangelo, la sequela dietro a lui,l’unico maestro, l’unica guida (cfr. Mt 23,8.10). Senza dimenticare che quando Luca,verso l’80 dopo Cristo, mette per iscritto que-

condotti a giudizio davanti alle autorità reli-giose, gettati in prigione e trascinati davanti aigovernanti e ai potenti di questo mondo, quel-li che esercitano il potere e opprimono i popo-li, ma si fanno chiamare benefattori (cfr Lc 22,25). L’ora della fine certamente ha il potere diincutere paura, ma questa non deve diventareinibizione per il cristiano, non deve diventareterrore o confusione, bensì occasione per ri-temprare la fiducia in Dio e la speranza nel

ste parole di Gesù, conosce quante volte falsiprofeti e impostori si sono presentati al popo-lo (cfr. At 5, 36-37; 21, 38).

I cristiani, inoltre, devono saper distinguerela p a ro u s í a , la venuta finale, accompagnata daeventi che mettono fine a questo mondo, daavvenimenti sempre presenti nella storia: guer-re, rivoluzioni, terremoti, carestie, cadute dicittà, tra cui la stessa Gerusalemme... Oltre aciò, vanno messe in conto le violente persecu-zioni che i discepoli di Gesù conosceranno findai primi giorni della vita della Chiesa (cfr. At4, 1-31). Come Gesù è stato perseguitato finoalla morte, così pure avverrà per i suoi disce-poli e le sue discepole, perché le autorità reli-giose non possono accogliere la buona notiziadel Vangelo, la fine dell’economia del tempio,la fine del primato della Legge e del vincolodella discendenza giudaica; e le autorità politi-che non possono sopportare la giustizia vissu-ta e predicata da Gesù! Ma cosa sono le perse-cuzioni se non un’occasione di rendere testi-monianza a Cristo? Il discepolo lo sa: guai setutti dicono bene di lui (cfr. Lc 6, 26), ma bea-to quando lo si insulterà, lo si accuserà e lo sicalunnierà dicendo ogni male di lui, solo per-ché egli rende eloquente nella sua vita il No-me di Cristo (cfr. Lc 6, 22; Mt 5, 11).

E questo non accadrà solo nell’o rd i n a r i e t àdei giorni, ma ci saranno anche dei tempi edei luoghi in cui i cristiani saranno arrestati e

suo Regno: la nostra sola paura dovrebbe es-sere quella di perdere la fede!

Ma il discepolo sa che nulla potrà separarlodall’amore di Cristo, né la persecuzione, né laprigione, né la morte (cfr. Rm 8, 35). Anzi,Gesù gli assicura che nell’ora del processo glisaranno date parola e sapienza per resistere aipersecutori, che non potranno contraddirlo. Inogni avversità, anche da parte di parenti, fami-liari e amici, il cristiano non deve temere nul-la. Deve solo continuare a confidare nel Si-gnore Gesù, accogliendo la sua promessa:«Con la vostra perseveranza salverete la vostravita». Ecco la virtù cristiana per eccellenza,l’hypomoné, la perseveranza-pazienza: è la capa-cità di non disperare, di non lasciarsi abbatterenelle tribolazioni e nelle difficoltà, di rimaneree durare nel tempo, che diviene anche capacitàdi supportare gli altri, di sopportarli e di so-stenerli. La vita cristiana, infatti, non è l’esp e-rienza di un momento o di una stagione dellavita, ma abbraccia l’intera esistenza, è «perse-veranza fino alla fine» (cfr. Mt 10, 22; 24, 13),continuando a vivere nell’amore «fino alla fi-ne», sull’esempio di Gesù (Gv 13, 1). Ecco per-ché questa pagina evangelica non parla dellafine del mondo, ma del nostro qui e ora, deltempo che precede la fine: la nostra vita quoti-diana è il tempo della difficile eppure beata(cfr. Gc 5, 11) e salvifica perseveranza.

#meditazione

Nikolai Ge, «La distruzionedel Tempio di Gerusalemme»(1859, particolare)

Cari fratelli e sorelle, sono addoloratoper le violenze di cui sono vittime i cristiani

della Chiesa Ortodossa Tewahedo di Etiopia.Esprimo la mia vicinanza a questa Chiesa

e al suo Patriarca, il caro fratello AbunaMatthias, e vi chiedo di pregare per tutte

le vittime di violenza in quella terra.Preghiamo insieme: “Ave Maria...”.

(dopo-Angelus, 3 novembre)

#controcopertina