L’OLTRE ADRIATICO UN OBIETTIVO MANCATO NEL PROCESSO...

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE AZIENDALI E STATISTICHE Via Conservatorio 7 20122 Milano tel. ++39 02 503 21501 (21522) - fax ++39 02 503 21450 (21505) http://www.economia.unimi.it E Mail: [email protected] Presentazione della monografia Luigi Tomaz, In Adriatico nel secondo millennio, Think ADV, Conselve, 2010. L’OLTRE ADRIATICO, UN OBIETTIVO MANCATO NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE. CAUSE E CONSEGUENZE POLITICHE ED ECONOMICHE ARNALDO MAURI Working Paper n. 2011-09 MAGGIO 2011

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  • DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE AZIENDALI E STATISTICHE

    Via Conservatorio 7 20122 Milano

    tel. ++39 02 503 21501 (21522) - fax ++39 02 503 21450 (21505) http://www.economia.unimi.it

    E Mail: [email protected]

    Presentazione della monografia Luigi Tomaz, In Adriatico nel secondo millennio, Think ADV, Conselve, 2010.

    L’OLTRE ADRIATICO, UN OBIETTIVO MANCATO NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE.

    CAUSE E CONSEGUENZE POLITICHE ED ECONOMICHE

    ARNALDO MAURI

    Working Paper n. 2011-09 MAGGIO 2011

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    L’OLTRE ADRIATICO, UN OBIETTIVO MANCATO NEL

    PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE

    Implicazioni politiche ed economiche

    Arnaldo Mauri

    Università degli Studi di Milano

    1. Introduzione

    Nel 2003 avevo scritto la presentazione di un ponderoso volume di Luigi

    Tomaz intitolato In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo; da Dionigi di

    Siracusa ai dogi Orseolo, che esaminava la storia dell’Adriatico sino all’anno

    mille. L’opera di Tomaz fu segnalata da numerosi ed importanti quotidiani e

    periodici in Italia e all’estero. In tempi successivi apparvero su riviste culturali,

    comprese quelle di natura accademica, ampie e meditate recensioni che ne

    illustravano i contenuti riconoscendo sia il grande interesse dei temi affrontati sia

    la validità delle metodologie di ricerca adottate.

    Il libro di Luigi Tomaz, pur nella specificità degli argomenti trattati, ha riscosso

    un lusinghiero successo sia nella diffusione sia di critica per il fatto di coniugare

    sapientemente il rigore della ricerca storica con la piacevolezza dello stile

    narrativo e per la ricchezza del corredo di illustrazioni: belle fotografie e di

    disegni dell’autore. Erano inoltre riprodotti interessanti documenti in latino

    accompagnati da traduzioni a fronte. Anche grazie a queste preziose dotazioni

    quell’opera di Tomaz, così come altre monografie dello stesso autore date alle

    stampe in precedenza o negli anni seguenti, appare nei cataloghi di prestigiose

    biblioteche universitarie, civiche e private sia italiane sia straniere.

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    2. Il secondo tomo dell’opera

    Oggi Luigi Tomaz si accinge a pubblicare un secondo libro che abbraccia un ampio arco temporale immediatamente successivo a quello del citato volume. Questo nuovo importante contributo, intitolato In Adriatico nel secondo

    millennio: dai dogi Orseolo alla prima guerra mondiale, rappresenta un ulteriore

    tassello che si inserisce in un progetto di ricerca di ampia portata dedicato alla

    storia dell’Adriatico e della sua civiltà. Anche in veste di studioso di temi

    economici mi sento molto attratto dalle letture storiche. Niehans (1990) enfatizza

    l’utilità della conoscenza dell’economia per interpretare compiutamente la storia e

    viceversa. A questo riguardo ritengo che la storia dell’Adriatico, un mare tanto

    importante per i collegamenti marittimi fra il sud mediterraneo e l’Europa

    centrale, ed in particolare quella degli ultimi secoli, rappresenti un caso da

    manuale di interrelazione fra economia, storia e geopolitica.

    L’analisi storica condotta con approccio interdisciplinare da Tomaz risulta

    di grande interesse dal momento che, come indica chiaramente il sottotitolo

    dell’opera, parte dall’affermarsi della supremazia veneziana su questo mare al

    tempo dei dogi Orseolo per arrivare al termine di quella che giustamente l’Autore

    definisce, nel filone del pensiero irredentista, come la quarta guerra di

    indipendenza italiana, ovvero la prima guerra mondiale.

    Lo studio copre quindi un ampio arco temporale, corrispondente quasi a un

    millennio, nell’ambito del quale viene delineato con nitidezza e vivacità da Luigi

    Tomaz un complesso e problematico quadro storico allargato a tematiche

    politiche, militari, economiche e sociali, che riguarda da vicino questo mare e le

    terre che vi si affacciano, ma che a ben vedere riflette sullo sfondo anche l’intera

    Nazione italiana. Riallacciandoci a quanto detto in precedenza sui legami fra

    storia ed economia, non si deve dimenticare che l’Adriatico è un mare che si

    presenta, nell’ottica economico-commerciale dei traffici marittimi, come un

    gigantesco ed importante canale navigabile lungo circa 800 km., largo

    mediamente 150 km. e che si protende dal bacino centrale del Mediterraneo verso

    l’area mitteleuropea. Orbene l’Adriatico è stato per secoli un golfo italiano, un

    dominio incontrastato della Serenissima, tanto che la sua metà superiore era

    indicata frequentemente nelle carte dell’epoca, anche straniere, come Golfo di

    Venezia (Golfe de Venise, Gulf of Venice, Golf von Venedig).

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    Concordo inoltre pienamente con Luigi Tomaz (2003), quando sostiene che

    l’Adriatico, a differenza di altri mari che circondano la nostra penisola, sin

    dall’antichità non ha rappresentato per lunghi periodi di tempo una frontiera, una

    netta linea di separazione fra popoli differenziati per etnia, lingua, cultura,

    religione e fra stati separati e fra loro ostili, ma ha svolto egregiamente invece

    un’utilissima funzione di ponte, di collegamento senza soluzione di continuità

    delle terre che vi si affacciano, le une a fronte delle altre, e dei popoli che le

    abitano, un ponte che ha alimentato scambi di merci e migrazioni stagionali o

    definitive di persone. Lo stesso graduale e lento processo di formazione della

    Nazione Italiana, germogliato spontaneamente, nel Medioevo1 dal seme fecondo

    dell’Italia Augustea, suddivisa in undici regioni,2 ha riguardato e accomunato per

    alcuni secoli entrambe le sponde di questo mare. Per inciso contesto con fermezza

    la tesi di una Nazione Italiana improvvisamente sbocciata dal nulla nel secolo

    XIX con il Risorgimento, precisamente nel 1861, una tesi che purtroppo nei tempi

    odierni sembra raccogliere consensi almeno in base a quanto si ascolta nei

    programmi radiotelevisivi e si legge nelle pagine culturali dei quotidiani in

    occasione della celebrazione del centocinquantenario dell’unità d’Italia. Questa

    tesi farebbe iniziare il processo di nation building concernente l’Italia nella

    seconda metà del secolo XIX, ma è una tesi che mal si concilia con la stesso

    termine di “Risorgimento” che porta a pensare a qualcosa che esiste già, la

    nazione, che è in stato di catalessi e che si risveglia e risorge.

    3. Il Regno d’Italia napoleonico

    Si è visto nel paragrafo precedente come il lento e graduale processo

    costitutivo della Nazione Italiana abbia avuto inizio in epoca medioevale come

    fenomeno spontaneo, che prescinde sia dalla volontà umana sia in particolare

    1 Punto di avvio del lento processo di formazione della Nazione italiana è stata l’assimilazione degli invasori germani da parte della popolazione indigena latina. Questa assimilazione è avvenuta nel giro di qualche secolo in tutto il paese, con l’eccezione dell’Alto Adige dove le popolazioni di stirpe bavarese immigrate non sono state assorbite dagli indigeni, ma anzi hanno assorbito gli scampati all’aggressione. La popolazione indigena (gli odierni ladini) è sopravvissuta in alcune valli. 2 Elenco delle undici regioni dell’Italia augustea: Regio I, Latium et Campania; Regio II, Apulia et Calabria; Regio III, Lucania et Brutii; Regio IV, Samnium; Regio V, Picenum; Regio VI, Umbria; Regio VII, Etruria; Regio VIII, Aemilia; Regio IX, Liguria; Regio X, Venetia et Histria; Regio XI, Transpadana.

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    dalle decisioni politiche. Se si passa invece a considerare l’Italia non nella sua

    idea di identità di popolo o di identità nazionale e neppure come entità storico-

    geografica. ma semplicemente nella sua cornice giuridico-politica di entità

    statuale così come concepita al presente, perveniamo, agli inizi della Storia

    contemporanea, esattamente al 26 gennaio 1802. In tale data, per iniziativa di

    Napoleone Bonaparte, viene proclamata a Lione dalla Consulta straordinaria

    cisalpina la Repubblica Italiana che eredita dalla preesistente Repubblica

    Cisalpina il tricolore3 e un ampio territorio comprendente il Piemonte orientale, la

    Lombardia, la parte occidentale e meridionale del Veneto, gran parte dell’Emilia e

    la provincia di Massa e Carrara.

    La Repubblica Italiana viene successivamente trasformata in monarchia

    con la nascita nel marzo 1805 del Regno d’Italia sul cui trono ascende lo stesso

    Napoleone Bonaparte che è incoronato il successivo 24 maggio con la corona

    ferrea dei re longobardi. Nasce allora, sotto tutela francese, uno Stato pienamente

    italiano, con capitale Milano, che, pur adottando il nome di Italia, corrisponde

    solo parzialmente sia alla Nazione Italiana sia all’Italia fisica o intesa come

    regione storico-geografica. Uno Stato del quale spesso e volentieri ci si dimentica

    nei discorsi che affrontano anche in questi tempi le tematiche risorgimentali e il

    processo di unificazione nazionale.

    Uno Stato, il Regno d’Italia napoleonico, che tuttavia non viene percepito

    allora dai suoi cittadini come una bizzarra, insensata ed artificiale costruzione

    politica imposta con la forza delle armi da un invasore straniero (così considerato

    pur se l’Imperatore francese era nato ad Ajaccio, parlava l’italiano della Corsica

    come madrelingua e portava un cognome indubbiamente italiano di origine

    toscana). E’ opportuno sottolineare a questo riguardo che il regno napoleonico

    riscuote vasti consensi, suscita in molti italiani grandi speranze e risveglia sopiti

    sentimenti di appartenenza nazionale (Ghiringhelli, 2008). Il Regno d’Italia

    napoleonico amplia la superficie del territorio posseduto dalla preesistente

    Repubblica Italiana estendendosi notevolmente verso est con l’annessione di

    Venezia. Questo Stato italiano nei suoi primi anni di vita - è fondamentale

    ricordarlo in questa sede - comprende oltre al Friuli anche le terre della sponda

    orientale dell’Adriatico così come le isole immerse in questo mare in precedenza

    appartenenti sia al commonwealth veneziano sia alla Repubblica di Ragusa. A

    3 Il tricolore adottato per la prima volta a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 su proposta di Giuseppe Compagnoni.

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    distanza di qualche anno il Regno d’Italia napoleonico acquisisce il Trentino e

    buona parte dell’odierna provincia di Bolzano.4

    Purtroppo, quando non si è ancora prossimi alla meta rappresentata

    dall’unità nazionale, che sarà raggiunta ad oltre un secolo di distanza, il

    Congresso di Vienna convocato dai vincitori per definire l’assetto territoriale da

    conferire all’Europa continentale dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, decreta

    stolidamente la morte prematura del Regno d’Italia scartando una soluzione forse

    più intelligente e sicuramente meno impopolare rappresentata da una sua

    sopravvivenza sotto il saldo controllo di Vienna.

    Ma la Restaurazione implementata sotto l’abile regia del cancelliere

    Klemens von Metternich, che mira a costruire una duratura egemonia politica ed

    economica austriaca sulla Penisola, diversamente da come ci si sarebbe aspettato

    per un minimo di onestà e di coerenza con i principi e gli intendimenti conclamati

    di ripristino della legalità e della situazione precedente alla Rivoluzione francese,

    non resuscita la gloriosa Repubblica di Venezia e gli altri stati indipendenti

    italiani del settecento.

    Seguirà, dopo meno di mezzo secolo, la nascita dello Stato-nazione italiano

    rappresentato dal Regno sabaudo proclamato nel 1861. Si dovrà poi attendere la

    fine della prima guerra mondiale per vedere garrire di nuovo al vento il tricolore

    italiano sulla sponda orientale dell’Adriatico anche se, in questo caso, solo su una

    parte limitata di tale sponda e non durevolmente, a causa delle mutilazioni subite

    dall’Italia con il Trattato di Parigi del 1947 (Gabrielli, 2004).

    4. Le grandi potenze europee e il Risorgimento

    Senza voler togliere nulla ai grandi meriti degli apostoli del Risorgimento

    e degli artefici dell’unità nazionale dobbiamo ricordare che l’unificazione

    dell’Italia avrebbe incontrato ben maggiori e forse insormontabili difficoltà se le

    grandi potenze europee si fossero concordemente e decisamente opposte a questo

    4 Già in precedenza quando il Ducato di Milano era dominio austriaco ed esisteva ancora la Repubblica di Venezia vi erano legami culturali fra il capoluogo lombardo e l’Istria. E’ significativo il caso di Gian Rinaldo Carli, illustre illuminista ed economista nato a Capodistria nel 1720, che fu chiamato dagli austriaci alla presidenza del Supremo Consiglio dell’Economia del ducato milanese nel 1765. E’ famoso l’articolo pubblicato dal Carli su in n. 2/1765 de Il Caffè, intitolato La patria degli Italiani, intriso di patriottismo, uno degli scritti del XVIII secolo che anticipano il Risorgimento.

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    progetto. In realtà avvenne proprio il contrario e Cavour seppe sfruttare

    tempestivamente ed intelligentemente, senza mettere a repentaglio il progetto

    originario di un’Italia indipendente ed unita, le circostanze favorevoli che di volta

    in volta si presentavano. In verità solamente l’Austria contrastava

    sistematicamente e tenacemente l’unificazione di una regione geografica (così

    infatti l’Italia era vista a Vienna5) che, dopo la caduta di Napoleone, considerava

    una propria dipendenza. Questa posizione dominante assicurava, infatti,

    all’Austria notevoli vantaggi sia sul piano politico che su quello economico.

    La Russia, che dopo il Congresso di Vienna aveva invano cercato di

    contendere all’Austria l’egemonia sull’Italia (Reinerman, 1974), aveva

    successivamente assunto un atteggiamento oscillante in quanto da un lato

    prendeva atto con malcelata soddisfazione che l’Austria, suo principale

    concorrente nel disegno di acquisizione dei territori balcanici del grande malato,

    l’Impero Ottomano,6 fosse assillata da grattacapi ai confini sud-occidentali mentre

    dall’altro lato il governo russo guardava con sospetto tutti i movimenti

    indipendentisti ed inoltre non dimenticava l’intervento piemontese nella guerra di

    Crimea a fianco di Francia e Inghilterra. La Russia si considerava infine a pieno

    titolo il difensore del mondo slavo, soprattutto di quello di religione ortodossa,

    che si affacciava sull’Adriatico.

    Francia, Gran Bretagna e Prussia invece pur in tempi diversi, con modi

    diversi, in misura diversa e spinte da obiettivi e interessi diversi aiutarono il nostro

    Risorgimento. La Francia di Napoleone III, rifiutando una politica conciliante di

    spartizione dell’Italia con l’Austria, si schierò militarmente in Italia a fianco del

    Regno di Sardegna nella seconda guerra di indipendenza non solo per ottenere il

    Nizzardo e la Savoia, che comunque rappresentavano un non trascurabile

    compenso. Parigi desiderava infatti avere accanto uno stato satellite, un’Italia

    destinata, nei disegni francesi, a restare potenza di media grandezza, un’Italia di

    dimensioni territoriali limitate e disposta ad accettare nella politica internazionale

    una posizione subalterna rispetto alla sorella latina maggiore, la Francia.

    5 Si ricorda al riguardo la celebre battuta di Klemens von Metternich sull’Italia espressione geografica. 6 In realtà nei mutamenti dell’assetto dei confini riscontrabili nel periodo racchiuso fra le due guerre mondiali la compagine imperiale maggiormente colpita non fu la Turchia, che riuscì comunque a mantenere una parte importante del territorio controllato agli inizi del secolo XIX, ma paradossalmente proprio l’Austria, ridotta dapprima ad un piccolo stato e successivamente sparita di scena, fagocitata dalla Germania nazista.

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    Per quanto riguarda la Gran Bretagna, come osservava acutamente De Felice

    (2011), non si deve confondere la posizione dell’opinione pubblica, decisamente

    simpatizzante per il movimento risorgimentale italiano, con la politica

    governativa, non insensibile in uno stato democratico in piena era vittoriana al

    pensiero prevalente dei cittadini, ma in realtà sempre vigile, calcolatrice, fredda e

    risoluta nella tutela degli interessi economici e strategici britannici in gioco.7

    Forse in Italia si tende oggi a sopravvalutare l’apporto inglese all’unificazione del

    paese. La Gran Bretagna in certi momenti diede il suo appoggio al processo di

    unificazione, ma in altri creò invece delle difficoltà.

    Gran Bretagna e Prussia temevano entrambe che la Francia approfittasse di

    questo vuoto geopolitico rappresentato da un’Italia frammentata per espandersi a

    sud-est annettendosi, come aveva già fatto con successo in tempi diversi per la

    Corsica e il Nizzardo e temporaneamente a cavallo fra i secoli XVIII e XIX per

    altri territori italiani (Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Toscana. Umbria e

    Lazio).8 La Francia sarebbe diventata, in questa ipotesi, una potenza di maggiori

    dimensioni per superficie e per popolazione, una potenza prepotentemente

    presente nel Mediterraneo ed economicamente e militarmente più forte.9

    Il cancelliere Otto von Bismark, che pure non nutriva particolari sentimenti

    di simpatia e stima per gli italiani sosteneva al riguardo che se non fosse esistito

    uno Regno d’Italia lo si sarebbe dovuto inventare, lasciando quindi intuire una

    utile funzione di argine all’espansione territoriale della Francia verso sud-est

    assegnata al giovane stato nazionale italiano. Inoltre alla Prussia non dispiaceva

    affatto vedere l’Austria umiliata, dal momento che tra i due paesi era in corso una

    competizione senza esclusione di colpi per l’egemonia in seno alla

    Confederazione Germanica e che gli Asburgo potevano rappresentare un ostacolo

    al conseguimento dell’obiettivo rappresentato unificazione della Germania sotto la

    guida della Prussia retta dalla dinastia Hohenzollern..

    7 Già Carlo Cattaneo con apprensione si poneva il problema di come l’Inghilterra avrebbe accolto l’unione di Venezia e Genova sotto il medesimo stato, evento che avrebbe mutato in una certa misura i rapporti di forza nel Mediterraneo (Cattaneo, 1849, pp. 101,102). La posizione britannica verso l’Italia nel contesto di una politica mediterranea è stata chiaramente riassunta dal New York Times (22.08.1887) nell’articolo Italy and Her Ambition: “England will never sacrifice a man or a shilling except where her own interests are directly involved” . 8 E’ interessante ricordare a questo riguardo i sarcastici commenti della stampa europea, e soprattutto di quella britannica, sui plebisciti gestiti dalla Francia a Nizza e in Savoia. 9 Possiamo immaginare quanto l’Inghilterra temesse l’annessione da parte della Francia delle città portuali della Liguria e della Toscana.

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    Su un solo punto tutte le grandi potenze europee concordavano, pur se con

    obiettivi e sensibilità differenti, riguardo alla formazione dello stato unitario

    italiano: desideravano che il processo di unificazione italiana non interessasse la

    totalità delle terre storicamente italiane e che non coinvolgesse interamente l’oltre

    Adriatico, sia quello appartenuto per secoli e Venezia e successivamente, per

    alcuni anni, al Regno d’Italia napoleonico sia, soprattutto, i due grandi porti di

    Trieste e di Fiume.

    L’Austria che astutamente nel 1815 aveva fatto conglobare anche territori

    con popolazione italiana come il Trentino e Trieste nella Confederazione

    Germanica, difendeva a denti stretti e con tutti i mezzi a sua disposizione i propri

    domini adriatici e gli sbocchi al mare del suo grande e plurietnico impero

    continentale che implicavano rilevanti e vitali interessi economici gravitanti

    sull’area mitteleuropea. La difesa austriaca dell’oltre Adriatico si era ancor più

    incattivita quando il governo di Vienna, dopo aver perso completamente il

    Lombardo-Veneto alla fine della terza guerra di indipendenza, giocava tutte le sue

    carte sullo scacchiere balcanico sperando di trarre profitto dal processo di

    decomposizione dell’Impero ottomano e si riprometteva conseguentemente di

    mantenere il pieno controllo della Dalmazia. Infine, anche dopo la cessione di

    Venezia, l’Impero asburgico non intendeva rinunciare ad una posizione

    preminente in Adriatico nel ricordo della lezione impartita nello scontro navale di

    Lissa ai presuntuosi parvenu italiani.

    La Gran Bretagna, dominatrice dei mari e, in particolare del Mediterraneo,

    non era disposta a rinunciare a Malta ed era decisamente contraria all’eventualità

    che un singolo Stato (nella fattispecie l’Italia) acquisisse il controllo totale di tutte

    le coste dell’Adriatico (occidentali e orientali) e dei porti affacciati su questo mare

    in modo da monopolizzare il commercio via Mediterraneo con i vasti e ricchi

    mercati dell’Europa centrale.

    La Prussia vedeva nei porti dell’Adriatico nord-orientale, e particolarmente

    in Trieste, inserita nella Confederazione germanica, lo sbocco al Mediterraneo del

    mondo germanico pur se non era ostile alle aspirazioni italiane per la Dalmazia,

    soprattutto se limitate ai territori che per secoli avevano fatto parte del

    Commonwealth veneziano. Non si spiegherebbe altrimenti il fallito tentativo

    italiano di occupare l’isola dalmata di Lissa nel 1866, quando l’Italia era alleata

    della Prussia nella guerra contro l’Impero Austro-ungarico.

  • 9

    L’Impero zarista parteggiava ovviamente per i popoli slavi nell’ottica di un

    prevedibile futuro confronto con gli italiani per il dominio dell’Adriatico. Non a

    caso, durante la fase preparatoria del Trattato di Londra del 1915, il

    rappresentante russo conte Alexander Benkendorff, sostenendo le rivendicazioni

    della Serbia in Dalmazia, fu il più convinto e tenace oppositore delle mire italiane

    su questa regione. Anche l’Unione Sovietica, succeduta alla Russia, continuò la

    politica adriatica ostile all’Italia, in particolar modo nella definizione del confine

    italo-iugoslavo durante la fase preparatoria del Trattato di Parigi del 1947. La

    proposte sovietiche furono infatti quelle maggiormente punitive per l’Italia.

    Osserviamo infine la Francia, che era inizialmente lo stato meno avverso

    all’espansione dell’Italia verso l’Adriatico. Tomaz ricorda a questo riguardo che

    durante la seconda guerra di indipendenza la flotta franco-sarda era riuscita a

    incutere soggezione alla flotta austriaca e aveva occupato l’Isola di Lussino nel

    Golfo del Quarnaro, sbarcandovi 3.000 uomini accolti festosamente dalla

    popolazione tra uno sventolio di tricolori mentre i comandanti erano ricevuti con

    tutti gli onori dalle autorità comunali. Successivamente era stata liberata anche la

    vicina Cherso dopo che il presidio militare austriaco era stato richiamato sulla

    terraferma. Autorevoli personaggi di Lussino, e in particolare il podestà Premuda,

    a causa del loro comportamento collaborativo verso i franco-sardi furono in

    seguito processati dopo il rientro degli austriaci a seguito dell’accordo di

    Villafranca (Tomaz, 2010).

    Questo episodio lascia intravedere come il governo di Parigi non fosse

    contrario a quel tempo ad un inserimento di almeno alcune terre dell’oltre

    Adriatico già appartenute per secoli a Venezia nei disegni dell’unificazione

    italiana mentre non ci sono dubbi sul fatto che la popolazione e le autorità

    comunali di Lussino interpretassero in questo senso lo sbarco nell’isola di militari

    piemontesi e francesi, tanto da comportarsi in modo tale da compromettere

    seriamente i futuri rapporti con il governo di Vienna. La Francia poi vedeva con

    favore l’irredentismo anti-austriaco che serviva a dirottare l’attenzione degli

    italiani dalla Corsica e da Nizza per concentrarla verso il Trentino, Trieste, l’Istria

    e la Dalmazia. Solo in seguito, nel secolo XX, e precisamente a partire dalle

    discussioni sul nuovo assetto dei confini al termine della prima guerra mondiale,

    la Francia cambiò decisamente rotta, spinta da motivi legati a un’ottica

    geopolitica, ed assunse conseguentemente un posizione nettamente ostile

  • 10

    all’espansione territoriale italiana verso le sponde orientali dell’Adriatico

    contrapponendosi agli interessi italiani nello spazio balcanico.10 L’atteggiamento

    di Parigi non mutò al termine del secondo conflitto mondiale. Basti ricordare che

    la linea di confine tra Italia e Iugoslavia proposta dalla Francia prima del Trattato

    di Pace del 1947 era la più sfavorevole per l’Italia dopo quella sovietica.

    5. L’ultima occasione

    Ad ogni modo, come si evince dalla lettura della monografia di Luigi

    Tomaz, dopo la prima occasione maturata durante la seconda guerra di

    indipendenza11 e andata perduta a seguito del ripensamento di Napoleone III a

    Villafranca, l’ultima vera occasione per l’Italia di completare l’unificazione

    nazionale auspicata da tutti i protagonisti del Risorgimento, un progetto di

    unificazione che contemplava l’annessione di tratti di costa sulla sponda orientale

    dell’Adriatico e di isole immerse in questo mare, non si è presentata per l’Italia,

    come generalmente si pensa anche a causa del non infondato - ma per gli italiani

    pernicioso - mito della “vittoria mutilata”, alla fine della prima guerra mondiale.12

    Agli inizi del XX secolo, infatti, la composizione demografica per etnie di molti

    territori della riva orientale dell’Adriatico, già incerta nei secoli precedenti, era

    stata irreparabilmente compromessa.13 Se la costa occidentale dell’Istria e Trieste

    erano ancora in larga maggioranza abitate da italiani, all’interno di questi territori,

    in Istria e soprattutto in Dalmazia la situazione era molto diversa e da tempo assai

    10 Seguendo questa politica la Francia al termine del primo conflitto mondiale si adoperò per bloccare l’espansione italiana ad est e per favorire la nascita, l’ampliamento e il potenziamento di uno stato che unisse tutti gli slavi del sud, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni sotto la dinastia dei Karadordevic, divenuto successivamente Regno di Iugoslavia. Nel contempo, sempre in base ai medesimi obiettivi di geopolitica, la Francia guardava con particolare interesse anche altri paesi come la Cecoslovacchia, la Polonia e la Romania. 11 Si veda quanto detto in precedenza in occasione dell’occupazione dell’Isola di Lussino da parte di un contingente franco-sardo di 3.000 uomini nel 1859. 12 Il mito della “vittoria mutilata” non era infondato in quanto incontestabilmente non erano stati rispettati precisi impegni assunti dai membri dell’Intesa verso l’Italia con il Patto di Londra del 1915 che aveva preceduto la dichiarazione di guerra del governo di Roma agli Imperi centrali. D’altra parte non vi sono dubbi sul fatto che si trattò di un mito pernicioso. Si creò infatti un diffuso senso di insoddisfazione che concorse a preparare il terreno all’ascesa al potere del fascismo, all’adozione di una politica estera fondata sul revisionismo che condusse l’Italia all’adesione all’Asse ed all’ingresso nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista.. 13 Era infatti impensabile da parte dell’Italia una gigantesca operazione di pulizia etnica come quella realizzata dalla Turchia nei primi decenni del secolo XX al fine di annichilire la presenza di importanti insediamenti di altre etnie sul proprio territorio (genocidio armeno, espulsione in massa dei greci).

  • 11

    problematica per l’Italia. Per quanto concerne in particolare la situazione della

    costa dalmata, solo la città di Zara mostrava una chiara presenza maggioritaria

    dell’etnia italiana.14 Anche nella maggior parte delle isole dalmate l’etnia italiana

    non deteneva più la maggioranza.

    Si trattava evidentemente in primo luogo del risultato naturale del sommarsi

    di variabili demografiche (natalità e movimenti migratori) riguardanti le varie

    etnie. L’inizio del flusso migratorio slavo verso la Dalmazia risaliva agli ultimi

    secoli del primo millennio mentre relativamente all’Istria poteva soprattutto essere

    ricondotto all’epoca della dominazione della Serenissima ed alla discutibile e

    comunque imprudente politica di Venezia di ripopolare indiscriminatamente con

    slavi, morlacchi, albanesi e greci delle isole egee, spesso profughi a causa

    dell’avanzata dei turchi, le aree rurali istriane che avevano subito un calo di

    popolazione a causa del fenomeno dell’urbanizzazione o di epidemie portate dalle

    navi provenienti dal Mediterraneo orientale (Salimbeni, 1994).15 Il flusso

    migratorio era destinato ad irrobustirsi notevolmente sotto il dominio austriaco.

    Non si deve omettere di aggiungere che entravano in gioco anche gli effetti della

    politica di assimilazione e snazionalizzazione seguita dall’Austria-Ungheria,

    principalmente a partire dalla la terza guerra di indipendenza.16 Una politica di

    snazionalizzazione che si avvaleva anche della preziosa collaborazione del clero

    cattolico dal momento che le massime cariche nelle gerarchia ecclesiastica erano

    state opportunamente affidate ad elementi ostili al gruppo etnico italiano.17

    14 Il 18 marzo 1861, quando a Zara giunge la notizia della proclamazione del Regno d’Italia la popolazione è presa dall’entusiasmo e alle finestre appaiono i tricolori. 15 Fra un secolo alcuni paesi europei si accorgeranno degli errori compiuti nella seconda metà del secolo XX e nei primi decenni del secolo successivo imputabili all’assenza di una chiara politica dell’immigrazione fondata sulla selezione, sull’accoglienza e sul completo inserimento dei nuovi arrivati nella società del paese meta del flusso migratorio. 16 L’impero Austro-Ungarico, contrariamente a quanto compiuto in precedenza o successivamente da parte di altri stati di quest’area non attuava pulizie etniche, ma seguiva invece politiche di snazionalizzazione non violente a danno delle etnie che facevano riferimento a Stati indipendenti confinanti e che alimentavano sentimenti irredentisti. In particolare nei territori adriatici si incoraggiava l’immigrazione slava, si provvedeva ad arrestare la spinta all’italianizzazione degli immigrati slavi chiudendo le scuole italiane e si favoriva l’ascesa sociale di croati e sloveni anche attraverso l’accesso alle carriere pubbliche. In generale le politiche di assimilazione e snazionalizzazione avvantaggiavano, soprattutto nelle aree dell’Impero caratterizzate da maggiore criticità, le etnie dominanti tedesche e ungheresi e quelle considerate leali agli Asburgo come ad esempio croati, sloveni, ruteni e mentre penalizzavano le etnie meno affidabili come italiani, romeni e serbi. Furono incoraggiati anche movimenti migratori in uscita dai territori italiani dell’Impero asburgico verso territori dell’area danubiano-balcanica appartenenti al medesimo impero come la Slavonia, la Bosnia-Erzegovina, la Transilvania dove sopravvivono comunità di origine italiana (Vignoli, 2000). 17 Ad esempio, a Trieste si ha, a partire dal 1831, una serie ininterrotta di sette vescovi non appartenenti all’etnia italiana, precisamente sei slavi e un tedesco.

  • 12

    Possiamo invece affermare, con il senno di poi, che fu forse proprio la terza

    guerra di indipendenza italiana ad offrire al Risorgimento l’ultima chance per

    conseguire un’unità nazionale comprensiva delle terre della sponda orientale

    dell’Adriatico. Duole costatare come allora un obiettivo che sembrava a portata di

    mano non fosse stato raggiunto nonostante le favorevoli premesse18 e ciò a causa

    della deludente performance dell’esercito evidenziata dallo smacco di Custoza e

    dell’umiliante e del tutto imprevedibile sconfitta subita dalla flotta italiana ad

    opera di quella austriaca nello scontro navale di Lissa del 1866.

    A questo riguardo è necessario aggiungere che la flotta italiana era presente

    nelle acque di Lissa non per compiere una mera esibizione di forza al centro

    dell’Adriatico, ma con il preciso compito di proteggere le operazioni di sbarco di

    militari italiani sull’isola. L’Italia intendeva infatti prendere possesso di un’isola

    dalmata dove l’etnia italiana aveva una significativa presenza e dove già gli

    isolani si accingevano a festeggiare lo sbarco del contingente italiano. Poi ci fu

    l’improvviso micidiale attacco da parte della flotta austriaca che evidentemente

    aveva messo da parte l’atteggiamento di massima prudenza adottato durante la

    seconda guerra di indipendenza. La marina militare austriaca continuava a contare

    molti italiani fra ufficiali e marinai nei propri equipaggi e la flotta vittoriosa nello

    scontro navale di Lissa era comandata dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff,

    già brillante allievo dell’Accademia navale imperiale di Venezia.

    D’altra parte il governo italiano sin dai tempi di Cavour, durante la seconda

    guerra di indipendenza, aveva ben compreso la posizione dell’Inghilterra,

    favorevole in linea di massima alla spinta risorgimentale per l’unità d’Italia, ma

    sempre vigile sulla questione del dominio dei mari e poco disposta a rinunce e

    concessioni al riguardo.19 L’Italia si muoveva, conseguentemente, in questo

    scacchiere con molta prudenza monitorando attentamente anche le mosse

    britanniche.

    Il governo di Londra non avrebbe probabilmente battuto ciglio se l’Italia,

    grazie ad una vittoriosa campagna militare di Garibaldi proseguita oltre l’arco

    alpino, fosse entrata inopinatamente in possesso dell’intero Tirolo e in aggiunta

    18 La Prussia, mentre era contraria all’acquisizione da parte dell’Italia di territori inclusi nella Confederazione Germanica, con l’eccezione forse del Trentino (non si spiegherebbe altrimenti la via libera verso Trento data dal governo italiano a Garibaldi), sembrava non contrastare le aspirazioni italiane sull’oltre Adriatico già appartenuto alla Repubblica di Venezia. 19 Con riferimento alla Seconda guerra di indipendenza italiana si deve ricordare la decisione di Londra per una significativa presenza navale britannica in Adriatico che fece riflettere Napoleone III e lo stesso Cavour concorrendo a mitigarne le ambizioni (Simpson, 1962).

  • 13

    del Vorarlberg o se ci fosse stata l’annessione di qualche isola nel Golfo del

    Quarnaro (ad esempio Cherso e Lussino) o al largo della costa dalmata come ad

    esempio Lissa. L’Inghilterra mostrava invece inequivocabilmente di non gradire

    una consistente e generalizzata espansione dell’Italia sulla costa orientale

    dell’Adriatico e di non essere affatto disposta ad accettare che questo mare

    diventasse un golfo molto più italiano di quanto lo fosse stato in passato un golfo

    veneziano.20 Infatti Venezia estendeva il proprio dominio su buona parte della

    costa orientale, ma non controllava la costa adriatica della penisola italiana e

    neppure i grandi porti di Trieste e di Fiume. Invece il Regno d’Italia di recente

    nascita aveva aspirazioni molto più ambiziose che riguardavano entrambe le coste

    del Mare Adriatico. Il medesimo atteggiamento sarà tenuto dalla Gran Bretagna

    anche dopo l’annessione italiana di Trieste, Fiume e Istria al termine della prima

    guerra mondiale. Si comprende chiaramente quindi in quest’ottica la mancanza di

    entusiasmo e persino la contrarietà palesate dal governo britannico nel rispettare i

    precisi impegni riguardanti l’assetto della sponda orientale adriatica previsti dal

    Trattato di Londra del 191521 sia i motivi dell’appoggio fornito dai servizi segreti

    inglesi nel periodo infrabellico all’organizzazione terroristica croato-slovena di

    ispirazione nazionalistica, denominata TIGR (Trst, Istra, Gorica, Rijeka) che

    operava in Venezia Giulia contro gli italiani (Apollonio, 2004). La Gran Bretagna

    mantenne sostanzialmente una posizione di ostilità rispetto alla presenza italiana

    in Adriatico anche dopo il secondo conflitto mondiale, dapprima nella fase di

    definizione del confine italo-iugoslavo e successivamente nella gestione del

    Territorio Libero di Trieste istituito dal Trattato di Parigi del 1947 e mai realizzato

    anche per il fatto che la Zona B era stata affidata in amministrazione ad una delle

    parti interessate in situazione di chiaro conflitto di interessi. Nella stessa Zona A

    20 Per il medesimo motivo il governo britannico non darà il proprio appoggio all’acquisizione italiana della Tunisia, proprio per il fatto che l’Italia già controllava la sponda opposta del Canale di Sicilia, mentre non si opporrà all’occupazione di questo territorio da parte della Francia, (Langer, 1925; Mardsen, 1970). 21 Con il Trattato di Londra l’Italia otteneva il consenso degli Alleati dell’Intesa l’allineamento del futuro confine alla frontiera naturale delle Alpi sino alle Alpi Giulie, le isole di Cherso e Lussino, la Dalmazia centro-settentrionale sino al fiume Cherca comprendente le città di Zara e Sebenico e inoltre le seguenti isole dalmate: Premuda, Selve, Ulbo, Scherda, Maon, Pago, Puntadura, Meleda, San Andrea, Busi, Lissa, Torcola, Curzola, Cazza, Lagosta. All’Italia veniva promesso inoltre l’Arcipelago di Pelagosa al largo del Gargano, già in precedenza appartenuto al Regno di Napoli. Il Trattato invece prevedeva la rinuncia da parte italiana a città ed isole in precedenza facenti parte del Commonwealth veneziano e successivamente incluse nel Regno d’Italia napoleonico come Spalato, Ragusa, Traù, Cattaro, Antivari, Dulcigno e le isole di Veglia, Arbe, Lesina e Brazza. Era inoltre esclusa la città portuale di Fiume con una popolazione a maggioranza italiana ma che non aveva appartenuto in passato né a Venezia né al Regno d’Italia napoleonico.

  • 14

    gli inglesi, ai quali spettava la carica di governatore non assunsero un

    atteggiamento benevolo verso il gruppo etnico italiano che pure rappresentava la

    larga maggioranza della popolazione complessiva e repressero con estrema

    durezza le manifestazioni patriottiche triestine del 1953. In quell’occasione le

    forze dell’ordine aprirono il fuoco contro i manifestanti provocando la morte di

    sei giovani.

    Si è affermato in precedenza che gli infausti esiti delle battaglie di Custoza

    e di Lissa furono opposti rispetto a ragionevoli attese fondate sul confronto delle

    forze in campo. A questo punto sarebbe interessante immaginare uno scenario

    alternativo nell’ipotesi di un pieno successo militare italiano e di conseguenti più

    consistenti acquisizioni territoriali a seguito delle tre guerre di indipendenza

    contro l’Austria.22 In questa visione storica controfattuale si configura una

    situazione, che non era sconsiderato congetturare ex ante: l’Italia avrebbe potuto

    annettersi non solo il Lombardo-Veneto, ma anche il Trentino ed una consistente

    porzione dei territori già veneziani dell’oltre Adriatico.

    Cerchiamo di immaginare cosa sarebbe successo all’Italia in questa ipotesi. Lo

    stato delle alleanze internazionali non sarebbe probabilmente mutato. Il secolo

    XX sarebbe iniziato vedendo l’Italia membro nella Triplice. L’Italia, tuttavia, non

    sarebbe intervenuta nel primo conflitto mondiale in assenza di presupposti e di

    stimoli validi a giustificare una decisione tanto grave. Non certamente a fianco

    degli imperi centrali perché impedita dalla grande vulnerabilità delle sue coste

    peninsulari e insulari in presenza di un dominio navale incontrastato del

    Mediterraneo da parte degli anglo-francesi. D’altra parte l’acquisizione della sola

    Trieste non rappresentava un incentivo sufficiente a bilanciare i rischi e le perdite

    prevedibili con l’abbandono della neutralità e con l’opzione di cobelligeranza a

    fianco dell’Intesa.

    Con tutta probabilità, a seguito della dissoluzione dell’Impero asburgico, la città

    di Trieste, attraverso una consultazione popolare, si sarebbe unita pacificamente

    all’Italia nel dopoguerra. Si deve poi aggiungere che, senza la partecipazione alla

    22 A ben vedere, non solo la terza guerra di indipendenza, ma in precedenza anche la prima e la seconda avrebbero potuto consentire una estensione del processo di unificazione nazionale anche alla sponda orientale dell’Adriatico. Per quanto riguarda la prima guerra di indipendenza, Luigi Tomaz (2010, pag, 513) cita uno scritto di nazionalista croato, Mattia Ban, che parlando della presenza in Adriatico della flotta veneto-sardo-napoletana nel 1848, affermava; “Se, appena scoppiati i primi moti, la flotta italiana avesse potuto costeggiare la Dalmazia, questa si sarebbe sollevata”. Per quanto attiene invece alla seconda guerra di indipendenza, si è accennato nel precedente paragrafo al tripudio con cui venne accolto dalla popolazione di Lussino lo sbarco delle truppe franco-piemontesi nel 1859.

  • 15

    prima guerra mondiale, all’Italia sarebbero state risparmiati non solo seicentomila

    morti, ma la dittatura fascista, la politica estera revisionista ed il conseguente

    ingresso nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista. D’altra

    parte alla Germania, nel secondo conflitto mondiale, sarebbe stata più utile

    un’Italia neutrale con cui commerciare che un territorio occupato da gestire e

    difendere e questa considerazione ci avrebbe evitato un’invasione dal Brennero,

    almeno sino al momento di una improbabile vittoria finale di Hitler. Gli Alleati

    avrebbero esercitato pressioni economiche e finanziarie sull’Italia per spingerla

    verso la guerra contro la Germania, ma il governo di Roma avrebbe potuto

    opporre un motivato rifiuto.

    Non è difficile immaginare i grandi benefici ottenibili da parte dell’Italia

    nel caso in cui gli eventi storici avessero seguito questo percorso alternativo. In

    particolare l’economia dell’intero bacino adriatico avrebbe ricevuto un notevole

    impulso dallo sviluppo dei rapporti fra le due sponde. Di contro sarebbero forse

    sorte tensioni a partire dal periodo infrabellico in merito ai confini dell’Istria e

    della Dalmazia (Tomaz, 2007). Tensioni alimentate dal risveglio nazionale degli

    slavi del sud e in particolare dalla rapida e turbolenta ascesa di movimenti

    nazionalisti croati e sloveni vista con simpatia o strumentalizzata da alcune grandi

    potenze. In un periodo successivo questi sviluppi politici sfavorevoli alla causa

    italiana avrebbero forse costretto l’Italia a sottoscrivere accordi internazionali

    implicanti rettifiche di confine nell’oltre Adriatico, ma si sarebbe probabilmente

    trattato di cessioni territoriali di entità non ragguardevole e comunque limitate

    quasi esclusivamente alla terraferma. Infine, accettando la peggiore delle ipotesi,

    l’Italia sarebbe stata estromessa da gran parte della Dalmazia continentale, ma

    avrebbe conservato il controllo di tutte o quasi tutte le isole dell’Adriatico.23 Si

    sarebbe quindi creata una situazione simile a quella riscontrabile nell’odierno

    confine turco-ellenico, dove la Grecia, espulsa dalla terraferma anatolica,

    mantiene la sovranità su tutte le isole del Mare Egeo con l’eccezione di Imbro e

    Tenedo.

    23 Oggi invece la Croazia controlla la quasi totalità delle isole in mare aperto dell’Adriatico, compreso l’Arcipelago di Pelagosa, al largo del Gargano, mentre all’Italia è rimasto solo l’Arcipelago delle Tremiti.

  • 16

    6. L’Italia e l’Adriatico dopo il Congresso di Vienna

    Ma ritornando al Congresso di Vienna del 1814-15 è opportuno ricordare,

    come giustamente sottolinea Luigi Tomaz, che il nuovo assetto politico conferito

    all’Italia dai vincitori di Napoleone, contrassegnato dalla costituzione del Regno

    Lombardo-Veneto e del Regno di Illiria, non intacca di fatto l’unità economica e

    culturale delle terre italiane che si affacciano sull’Adriatico conseguita nel 1805

    con la nascita del Regno d’Italia napoleonico e conservata dopo la creazione delle

    Province Illiriche sotto un’amministrazione francese, che era oltretutto esercitata

    in larga parte a mezzo di funzionari italiani.24

    La medesima situazione viene mantenuta anche dopo successive

    riorganizzazioni amministrative territoriali decise a più riprese dalle autorità di

    Vienna. L’Austria tuttavia non accoglie le suppliche degli italiani di Dalmazia

    miranti a raggruppare sotto un unico governo, sottoposto alla corona imperiale,

    tutti i territori che potevano essere considerati italiani per lingua, storia e cultura

    situati sulle due sponde dell’Adriatico con il pensiero recondito di creare, almeno

    di fatto, una struttura dualistica austro-italiana.25 Le stesse autorità viennesi,

    sempre come non manca di ricordare Tomaz, difendono, d’altro lato, l’autonomia

    della Dalmazia respingendo con fermezza le reiterate e pressanti rivendicazioni

    croate miranti a inglobare questa contesa regione nel Regno di Croazia e Slavonia

    (Tomaz, 2007). Il governo di Vienna respinge anche la richiesta formulata da

    autorevoli esponenti della comunità slovena, di unire Trieste e l’Istria alla

    Carniola motivando la propria decisione sulla diversità presente nelle etnie

    prevalenti nelle due aree (Tomaz, 2010).

    Solo la Terza guerra di indipendenza, seguita dall’annessione del Veneto

    all’Italia, genera un distacco traumatico da Venezia delle comunità italiane della

    riva orientale dell’Adriatico. Un distacco che viene sofferto non solo a Venezia e

    nel Veneto, ma soprattutto in Istria e in Dalmazia dove ancora molti fra gli

    abitanti si sentono orfani della Serenissima e rimpiangono l’immagine

    24 A titolo esemplificativo di questa unità degli italiani sottoposti all’amministrazione imperiale austriaca riportiamo il caso della flotta militare imperiale denominata, sino al 1849, Ostereichisce-Veneziansche Kriegsmarine, i cui equipaggi sia a livello di ufficiali che di marinai erano in larga parte formati da italiani reclutati a Venezia e nel Veneto, a Trieste, a Fiume, in Istria e in Dalmazia. 25 Tomaz (2007), a questo riguardo, commenta: “l’Impero d’Austria, persa l’occasione di divenire Austro-Italiano, divenne Austro-Ungarico e decise di avviarsi verso il trialismo Austro-Ungarico-Slavo”.

  • 17

    rassicurante del glorioso gonfalone di San Marco. Vengono repentinamente

    tagliati legami secolari fra le due sponde dell’Adriatico riguardanti la cultura, la

    scuola, la pubblica amministrazione, la marina militare e mercantile, la finanza, il

    commercio, l’agricoltura e l’industria (D’Alia, 1916). Negli anni successivi, poi,

    per effetto di guerre, trattati internazionali, decisioni politiche interne di ordine

    amministrativo, politiche di assimilazione etnica e snazionalizzazione, mutamenti

    della composizione etnica causati da fattori demografici si è arrivati ad una

    definitiva rottura di tale unità.

    7. Lo spazio danubiano-balcanico

    Sulla sponda orientale dell’Adriatico l’Italia confina con lo spazio

    danubiano-balcanico, che gli autori di lingua inglese definiscono comunemente

    patchwork of states. Si tratta di un vasto spazio geografico abitato da una pluralità

    di etnie profondamente diverse fra loro per origini, razza, storia, lingua, cultura, e

    religione (Ancel, 1926; Analis 1978; Prévélakis, 1997). Su questi territori, infatti

    dopo la caduta dell’Impero romano si sono succedute per secoli ondate migratorie

    e invasioni che hanno determinato esodi e hanno seminato ovunque distruzione e

    morte. Gli invasori non sono stati assimilati dagli indigeni come è avvenuto nella

    Gallia, nella penisola iberica e in Italia. I vari popoli insediati nell’area coabitano

    da secoli riluttanti ad amalgamarsi fra loro, spesso in assenza di chiari confini o

    con insediamenti disposti a macchia di leopardo in un clima di perenne incertezza

    e di accesa conflittualità interetnica (Analis, 1987; Poulton, 1993). Ed è proprio in

    questo travagliato spazio ad oriente dell’Italia, considerato da alcuni autori come

    una grande sentina gentium (Comyn-Platt, 1906), in cui sono confluiti popoli

    provenienti dalle aree boscose e paludose dell’Europa centro-orientale (slavi),

    dalle steppe dell’Asia centrale (uralici e iranici) e dal subcontinente indiano

    (zingari), che si è verificata nei due ultimi secoli la maggiore turbolenza

    accompagnata da frequenti variazioni nei confini fra stati. Il cancelliere Bismark,

    preoccupato che le crescenti tensioni austro-russe nella spartizione dei Balcani

    potessero, come effettivamente in seguito avvenne, coinvolgere la Germania in

    una guerra contro la Russia, affermava che i Balcani non valevano la vita di un

  • 18

    solo granatiere di Pomerania. Ad un secolo di distanza risale invece la nota battuta

    di Winston Churchill: “the Balkans produce more history than they can consume”.

    Dalla dissoluzione di tre vasti imperi al termine del primo conflitto

    mondiale, l’Impero Austro-Ungarico, l’Impero Russo e l’Impero Ottomano, sono

    successivamente sorti nuovi stati, alcuni dei quali si sono a loro volta frantumati

    per dare vita ancora ad un’altra pluralità di stati (Malcom, 1994; Hösch, 2006). I

    ricorrenti mutamenti nei tracciati delle frontiere sono stati talora accompagnati da

    vessazioni imposte alle minoranze etniche o peggio da spostamenti forzosi di

    popolazioni e da sanguinose pulizie etniche (Analis, 1987; Poulton, 1993).

    Questa non invidiabile posizione di contiguità con un mondo così

    turbolento, violento e spietato è stata per secoli causa di problemi per l’Italia e per

    gli stati italiani che avevano preceduto l’unità nazionale. Nel secondo dopoguerra

    si ricordano le penose amputazioni territoriali subite dall’Italia e le sofferenze

    delle popolazioni italiane di confine. Si ricordano al riguardo le stragi delle

    foibe, il grande esodo dei giuliano-dalmati e la confisca dei beni abbandonati

    dagli esuli (Solari, 2002).

    Ancora oggi, in questa parte dell’Europa rimasta ibernata per quasi mezzo

    secolo oltre la cortina di ferro, ostaggio dell’arcigno potere sovietico e retta talora

    da ferrei regimi nazional-comunisti come quelli di Enver Hoxa in Albania, di

    Josip Broz Tito in Iugoslavia e di Nicolae Ceausescu in Romania, i discorsi sui

    confini, alimentati dal mito ancora radicato dello Stato-nazione, hanno l’effetto di

    surriscaldare gli animi e di creare frizioni nei rapporti con i paesi limitrofi. Ci si

    augura che l’ingresso nella Comunità Europea, già avvenuto per Bulgaria,

    Romania, Slovenia e Ungheria e previsto a scaglioni per tutti gli altri paesi

    dell’area, abbia l’effetto positivo di allentare queste pericolose tensioni

    potenzialmente conflittuali.

    8. Obiettivi dei nazionalismi

    Nell’ottica dei nazionalismi ogni Stato-nazione dovrebbe mirare al

    raggiungimento di confini “giusti” o “ adeguati” rispetto alla visione della “patria”

    riflessa non infrequentemente nella massima espansione territoriale conseguita

    nella storia, con il risultato che si vengono purtroppo a configurare ampie e

  • 19

    diffuse sovrapposizioni di rivendicazioni territoriali (Mauri, 2007). Chi aspira ad

    una grande Slovenia rimette in discussione le frontiere con tre stati confinanti:

    l’Austria, l’Italia e la Croazia. A chi auspica una grande Ucraina o una grande

    Bulgaria risponde chi evoca il ritorno ad una grande Romania o una grande

    Ungheria. Il sogno di una grande Serbia si scontra inevitabilmente a nord con gli

    ambiziosi progetti della grande Croazia e a sud con le aspirazioni dagli albanesi

    all’unità nazionale. Ma la sagoma della grande Albania si sovrappone anche ai

    presuntuosi disegni espansionistici per una grande Macedonia slava, che

    contemplano l’annessione di parte della Grecia settentrionale e di una piccola

    porzione di Bulgaria (Poulton, 1995; Rossos, 2008).

    Osservando la situazione presente possiamo individuare sia i paesi

    maggiormente avvantaggiati sia quelli maggiormente danneggiati dalle modifiche

    nel tracciato delle frontiere che si sono verificate a partire dagli inizi del secolo

    scorso. Tra i paesi che dovrebbero sentirsi maggiormente appagati (e che talora

    invece non lo sono affatto a causa delle sfrenate ambizioni del nazionalismo)

    dall’assetto attuale delle frontiere ricordiamo in primo luogo l’Ucraina, un paese

    che, a rigor di termini, non dovrebbe neppure rientrare nello spazio danubiano-

    balcanico, ma che vi si è prepotentemente inserito per effetto di una smisurata

    espansione territoriale a spese degli stati confinanti ad occidente che oggi sono i

    seguenti: Polonia, Slovacchia, Moldavia, Ungheria e Romania. L’Ucraina, grazie

    alla incontenibile forza negoziale dell’URSS al termine del secondo conflitto

    mondiale, una forza negoziale fondata sulla minacciosa presenza dell’Armata

    rossa sui territori contesi, e a seguito dell’ottenimento dell’indipendenza nel 1991

    al momento della dissoluzione dell’impero sovietico, ha visto spostare

    significativamente le proprie frontiere verso occidente sino a penetrare in

    profondità nel delta del Danubio, dopo aver superato il confine storico del Nistro

    (Dniestr), e ad insediarsi in un lembo del Bassopiano pannonico (la

    Transcarpazia), travalicando il confine naturale dei Carpazi.26

    Di contro, il paese maggiormente penalizzato dalle variazioni dei confini è

    stato indubbiamente l’Ungheria, alla quale in entrambi i conflitti mondiali è

    26 La cessione della Transcarpazia fu imposta da Stalin alla Cecoslovacchia. Questa singolare rivendicazione territoriale mossa non ad un alleato della Germania nazista, ma a una sua vittima, era ispirata a motivazioni preminentemente di ordine strategico-militare. Partendo da queste basi, infatti, le forze corazzate sovietiche sarebbero state in grado di raggiungere in breve tempo alcune importanti città dell’Austria, dell’Ungheria, della Slovacchia, della Slovenia, della Croazia, della Serbia e della Romania.

  • 20

    toccata la cattiva sorte di trovarsi schierata dalla parte soccombente e che ha

    conseguentemente perso due terzi del territorio originariamente controllato. La

    Croazia, non differentemente dalla Nazione magiara, si è trovata anch’essa

    schierata dalla parte sbagliata nelle due citate guerre, ma la sorte le è stata meno

    avversa o anzi, a ben vedere, persino benigna dato che non solo non ha perso

    nulla, ma ha esteso notevolmente il proprio territorio in varie direzioni. Una

    Croazia che si è imprevedibilmente inserita nel novero dei paesi della spazio

    danubiano-balcanico che si sono maggiormente avvantaggiati durante il secolo

    XX.

    Decisamente male sono andate invece le cose per la Serbia, che invece

    aveva indovinato le sue scelte di politica internazionale allineandosi nelle due

    guerre mondiali a fianco dei paesi che alla fine sarebbero usciti vincitori. Una

    Serbia oggi priva di sbocchi al mare, una Serbia che ha perso a sud il controllo

    della provincia del Vardar, divenuta stato indipendente sotto il nome di

    Macedonia (un nome peraltro contestato dalla Grecia che paventa rivendicazioni

    territoriali sulla sua regione settentrionale),27 una Serbia che ha subito il divorzio

    dal Montenegro e che pare essere uscita definitivamente soccombente nell’aspro

    confronto con i secessionisti albanesi del Kossovo.

    La Bulgaria, schierata come Ungheria e Croazia in entrambe le guerre

    mondiali dalla parte dei perdenti e sconfitta in precedenza anche nella seconda

    guerra balcanica non è del tutto scontenta dell’assetto odierno dei confini essendo

    riuscita almeno a recuperare la Dobrugia meridionale (detta anche Quadrilatero)

    27 Nella suddivisione amministrativa della Repubblica Federale Popolare di Iugoslavia in sei repubbliche, introdotta da Tito mirava ad accentrare il potere nelle mani dei gruppi etnici slavi e ad attenuare la conflittualità fea questi gruppi. Rimanevano penalizzati i gruppi etnici non slavi per il fatto che, ad esempio, non erano state create repubbliche per la Dalmazia, la Voivodina, il Kossovo, l’Istria. Per fare un esempio che riguarda da vicino le tematiche del presente contributo basta rilevare che se le richieste iugoslave nel dopoguerra fossero state in toto esaudite, una vasta area abitata a maggioranza dall’etnia italiana assegnata alla Iugoslavia avrebbe compreso l’intera regione della Venezia Giulia e parte del Friuli (con l’inclusione di città come Trieste, Pola, Capodistria, Parenzo, Rovigno, Fiume, Gorizia, Monfalcone, Cividale e forse la stessa Udine) senza tuttavia che fosse prevista la creazione ad hoc di una “Repubblica della Marca Giuliana”, ma solo una spartizione fra Slovenia e Croazia. In questo contesto la Serbia di vide amputare la parte meridionale (la citata provincia del Vardar) abitata da una pluralità di etnie (macedo-slavi, albanesi, aromuni, megleno-romeni, rom, turchi, serbi, bulgari, ecc) fra le quali il gruppo etnico slavo-macedone, il più numeroso sulla base di stime attendibili, superava a stento la metà della popolazione. Fu creata quindi la Repubblica macedone, la quale prendeva questo nome per la circostanza di incorporare un lembo dell’antico Regno di Macedonia. Questa decisione si poneva il duplice obiettivo di ridimensionare la Serbia, per evitare un’eccessiva concentrazione di potere in questa repubblica, e di creare i presupposti per rivendicare la Macedonia greca con il fine di ottenere per la Iugoslavia uno sbocco anche sul Mare Egeo. Si comprende quindi chiaramente l’avversione della Grecia per il nome che con la propria costituzione questo nuovo stato si è attribuito (Mauri, 1995; Desotopoulos,2008 ).

  • 21

    ceduta alla Romania appunto nel 1913. Questa modifica confinaria a vantaggio

    dello Stato bulgaro, imposta dalla Germania nazista nel 1940, è stata confermata

    per volere dell’Unione Sovietica al termine del secondo conflitto mondiale.

    La Grecia, schierata nelle due guerre mondiali dalla parte dei vincitori, ha

    potuto recuperare la quasi totalità delle isole del Mare Egeo ed espandere

    notevolmente i propri confini settentrionali. Tuttavia con grande sconforto i

    nazionalisti ellenici hanno visto definitivamente svanire il sogno della “Megali

    Idea” nel completamento dell’unificazione nazionale, una Grande Grecia che

    avrebbe dovuto includere l’odierna Tracia turca e vasti territori della penisola

    anatolica dove sopravvivevano consistenti minoranze etniche di religione

    cristiana, le quali anche se non avevano origine greca dopo la scomparsa

    dell’Impero romano d’Oriente conservavano sentimenti di appartenenza alla

    cultura ellenica.

    9. La presenza latina nell’area danubiano-balcanica

    Lo spazio danubiano-balcanico nella sua peculiare complessità presenta

    aspetti generalmente ignorati. Generalmente si pensa a quest’area geografica

    come ad un mondo monopolizzato dagli slavi del sud, ma in realtà questo vasto

    gruppo etnico comprensivo di vari popoli rappresenta solo una delle varie

    componenti etniche della popolazione che vive in quest’area. Se prendiamo in

    esame solo le etnie principali insediate oggi nello spazio danubiano-balcanico ed

    escludiamo quella italiana del litorale adriatico, già oggetto di attenzione nelle

    pagine precedenti, possiamo dividere la popolazione complessiva in due grandi

    gruppi. Nel primo gruppo, rappresentato da popoli che, adottando come base

    stabile di riferimento temporale l’epoca imperiale romana, caratterizzata anche

    delle origini della presenza cristiana nell’area, possono essere considerati

    autoctoni, si devono annoverare, chiamandoli con il nome attuale, gli albanesi, i

    greci ed i romeni. Nel secondo gruppo invece vi sono popoli allogeni, immigrati

    in quest’area geografica in diverse ondate, in tempi diversi e da differenti luoghi

    di etnogenesi: possiamo elencare al riguardo gli slavi, i magiari, i tedeschi, i turchi

    e gli zingari.

  • 22

    Giova ricordare che lo spazio danubiano-balcanico nell’epoca imperiale

    romana, scelta opportunamente come base di riferimento, era suddiviso in due

    separate aree di diffusione linguistica e culturale: un’area latina e un’area greca.

    Queste due aree, tuttavia, non erano delimitate da confini di tipo formale e

    amministrativo all’interno dell’Impero romano, ma erano piuttosto il risultato sia

    di consolidati rapporti commerciali e culturali sia di flussi migratori interni

    all’Impero (Mommsen, 1962).

    Nella parte settentrionale dominavano la lingua e la cultura di Roma mentre

    nella parte meridionale si erano da secoli affermate la lingua e la cultura elleniche.

    Grosso modo la linea di demarcazione fra l’area latina e quella greca attraversava

    da ponente a levante la penisola balcanica partendo dalla costa adriatica

    dell’odierna Albania in prossimità della città di Durazzo, passando per l’odierna

    Bulgaria e percorrendo le cime della catena montuosa dei Piccoli Balcani sino a

    raggiungere il Mar Nero. Questa linea immaginaria è chiamata oggi dagli studiosi

    “linea Jireček” dal nome dello storico ceco Konstantin Josef Jireček (1854-1918)

    che la tracciò dopo un accurato studio fondato sulle scritte rinvenute sui reperti

    archeologici risalenti appunto all’epoca imperiale romana.28 In particolare la parte

    latina dello spazio danubiano-balcanico era molto legata all’Italia e i rapporti

    culturali, politici e commerciali erano persino, in certi casi, più intensi rispetto a

    quelli esistenti all’interno di quelli che sono oggi i confini dello stato italiano e

    sicuramente assai più sviluppati rispetto a quelli allora esistenti fra la penisola e

    altre province dell’Impero. Quest’area che abbiamo definita latina era pienamente

    inserita nell’Impero tanto da fornire il fiore dell’esercito romano e della pubblica

    amministrazione e da dare i natali a 40 imperatori, fra i quali si possono

    annoverare Diocleziano, Aureliano, Costantino il Grande e Giustiniano (Dragan,

    1996).

    Durante il periodo delle invasioni barbariche popoli di stirpe germanica,

    slava, iranica e uralica provenienti da regioni che sulla base della terminologia

    odierna chiameremmo sottosviluppate penetrarono in profondità nella parte di

    lingua latina nell’Europa romana (Azzara, 1999). In Occidente le ferite inferte

    dagli invasori hanno lasciato cicatrici di entità limitata dal momento che i nuovi

    arrivati, come osservato nelle pagine precedenti, si amalgamarono gradualmente

    28 E’ opportuno precisare che nell’analisi dei reperti venne attribuita minore importanza a quelli rappresentati da opere pubbliche e da insediamenti militari per le quali la lingua latina era comunemente usata anche nell’area linguistico-culturale greca.

  • 23

    con le popolazioni indigene adottandone la lingua, la cultura e la religione. Questo

    processo ha richiesto secoli ed è stato agevolato dalla sproporzione numerica

    esistente al momento dell’invasione fra immigrati e indigeni e dalla notevole

    inferiorità culturale dei primi rispetto ai secondi.

    Il fenomeno migratorio assume tuttavia connotati assai più drammatici nella

    parte orientale della comunità latina, ovvero lo spazio racchiuso fra l’Adriatico e

    il Mar Nero dove gli effetti dell’invasione, dopo oltre un millennio, appaiono

    significativamente diversi. In occidente il confine fra mondo latino e mondo

    germanico ha sostanzialmente tenuto pur se vi è stato un arretramento ad ovest del

    Reno e soprattutto a sud del Danubio; in quest’ultimo caso il confine etnico ha

    anche oltrepassato la catena alpina incrociando la valle dell’Adige all’altezza della

    stretta di Salorno. Ad oriente, invece, le invasioni barbariche hanno avuto

    conseguenze assai più gravi e durature. In altre parole vi è stato quello che

    potremmo definire un cataclisma etnico per effetto del quale il mondo latino

    orientale fu frantumato e ancor oggi risulta suddiviso in più parti (Diaconescu,

    2000). Ad oriente si è venuta a formare un’isola latina, staccata dalla latinità

    occidentale, che conta oltre 25 milioni di abitanti, residenti prevalentemente in

    Romania e in Moldavia, dove i neolatini rappresentano la larga maggioranza della

    popolazione.29 Altre sacche di etnie indigene di origine latina, oggi di dimensioni

    notevolmente minori e talora purtroppo in via di estinzione, sono riscontrabili nei

    seguenti stati odierni: Grecia, Albania, Macedonia (FYROM), Bulgaria, Serbia,

    Bosnia, Croazia e Tracia turca (Winnifrith, 1987; Malcom, 1994).

    Le cause di questo ineguale impatto delle invasioni barbariche fra est e

    ovest dell’Europa vanno ricercate nella diversa origine degli invasori e soprattutto nelle ineguali loro motivazioni. Differentemente dai bellicosi popoli

    di stirpe germanica, che miravano a conquistare territori prosperi da governare, le

    tribù slave, assai più arretrate culturalmente e di indole sanguinaria (Gibbon,

    1967), erano maggiormente inclini all’agricoltura che all’arte militare ed erano in

    cerca di terre fertili sulle quali insediarsi e moltiplicarsi.30 La popolazione rurale

    29 Di questa grande isola etnica fanno parte anche aree limitrofe situate in Ucraina, Bulgaria, Ungheria e Serbia. 30 Si legge in Conte (1991) “venuti per restare, gli slavi plasmarono i propri insediamenti in conformità alla strutture economiche e sociali loro proprie, in forme cioè esclusivamente rurali. Si ritiene che la causa della distruzione delle città delle zone occupate e della cacciata o annientamento degli abitanti di esse vada ricercato nell’ostacolo alla ruralizzazione di per se rappresentato dai centri urbani”. Il medesimo autore sostiene che vi fu un radicale sconvolgimento

  • 24

    indigena dei territori conquistati era quindi considerata dai germani come una

    preziosa risorsa da conservare, proteggere e sfruttare, mentre per gli assai più

    numerosi slavi rappresentava una presenza ingombrante da eliminare. Non è stata

    ancora definita con esattezza la collocazione geografica della culla degli slavi

    anche per assenza di informazioni esaurienti ricavate dall’archeologia e da fonti

    storiche del passato. La teoria più diffusa, ma non accettata da tutti, colloca

    l’etnogenesi degli slavi in Poliessia, nella zona delle paludi del Pripet ai confini di

    Bielorussia, Polonia e Ucraina.31

    La calata dei popoli slavi verso la penisola balcanica eliminò quindi da

    molte terre fertili le popolazioni indigene, cacciate verso impervie zone montane,

    scarsamente appetibili sotto il profilo agricolo e più consone alla zootecnia.32 E’

    interessante notare come la diaspora verso terre povere cui furono costrette le

    popolazioni indigene investite dalle ondate migratorie slave obbligasse i profughi

    dalle città e dalle campagne ad abbandonare le loro precedenti attività

    commerciali, artigianali ed agricole per dedicarsi alla pastorizia, un’attività che

    comportava grande mobilità, requisito essenziale in una strategia della

    sopravvivenza in tali drammatiche circostanze (Mauri, 1995). Si determinava

    tuttavia per le popolazioni indigene una caduta della qualità della vita che aveva

    effetti devastanti sulla dinamica demografica e sulla salvaguardia del loro

    patrimonio culturale. Paradossalmente, a seguito di questo processo involutivo,

    nell’area danubiano-balcanica i discendenti dei barbari conquistatori dopo alcuni

    secoli superarono nettamente per tenore di vita e livello culturale la progenie dei

    civili e raffinati romani. Per molti secoli le lingue romanze nella maggior parte di

    quest’area sopravvissero infatti solo in forma orale, tramandate da una

    generazione all’altra, mentre le lingue usate anche in forma scritta e le lingue

    utilizzate per la religione, la legge e la cultura erano quelle degli invasori slavi.

    La parte meridionale della Balcania, ovvero quella di lingua greca, non fu

    risparmiata dagli invasori slavi che spinsero le loro temerarie incursioni, foriere

    etnico e strutturale della società che portò alla scristianizzazione e ad un imbarbarimento dello stile di vita che durò per secoli. 31 Per altri autori l’area originaria degli slavi sarebbe più vasta e situata sul versante nord-orientale dei Carpazi in prossimità alle sorgenti della Vistola e del Dnepr (Conte, 1991). 32 Annota al riguardo Conte (1991) che a partire dal esolo VI si verificò un maremoto slavo in direzione dei mari Adriatico ed Egeo che sconvolse gli equilibri etnici, sociali e politici, gli stili di vita e la mentalità dei territori conquistati causando un notevole arretramento della civiltà che durò alcuni secoli. Potremmo aggiungere che tale caduta di civiltà fu significativamente più grave di quella verificatasi nei territori in cui si insediarono gli invasori di stirpe germanica, e precisamente nelle penisole italiana e iberica nonché in Gallia.

  • 25

    costantemente di distruzioni, saccheggi e massacri delle popolazioni indigene,

    sino al Peloponneso e ad alcune isole prossime alla terraferma (Conte, 1991).

    Comunque la parte greca della Balcania resistette assai meglio all’impatto delle

    invasioni slave rispetto alla parte latina in quanto più distante dalle basi di

    partenza degli aggressori e grazie alla maggiore densità demografica e alla

    protezione da parte di Costantinopoli (sia l’Impero che il Patriarcato) che

    assicurava, fra l’altro, un valido scudo a tutela della lingua e della cultura

    elleniche. Anche in quest’area si è dovuto registrare, tuttavia, un arretramento

    verso sud del confine con il mondo slavo. In queste terre tradizionalmente greche

    si insinuarono non solo i barbari invasori, ma anche comunità pastorali nomadi

    latine in fuga dai territori in cui erano precedentemente stanziate, comunità che

    oggi sono in via di estinzione.

    10. Una nazione sorella nell’area danubuano-balcanica: la Romania

    Prendiamo infine in osservazione la Romania, che occupa la settima

    posizione in graduatoria per popolazione degli Stati membri dell’UE e che à il

    paese più importante dello spazio danubiano-balcanico vuoi per superficie

    territoriale vuoi per popolazione. Un paese che non confina con l’Italia e che non

    si affaccia sull’Adriatico, ma sul Mar Nero. La Romania, che si sente legata

    all’Italia da vincoli di sangue e di cultura,33 e che deve alla colonizzazione

    romana la propria lingua ed il nome,34 nonostante la collocazione geografica,

    tende a guardare verso l’occidente latino piuttosto che verso il mondo slavo che la

    circonda (Iorga, 1920) e che in più occasioni ha tentato di fagocitarla. La Romania

    negli ultimi due secoli ha vissuto vicende abbastanza simili a quelle italiane

    avendo ottenuto l’indipendenza nel secolo XIX e l’unità nazionale al termine della

    prima guerra mondiale.

    33 La seconda strofa dell’inno nazionale romeno afferma che nelle vene dei romeni scorre sangue degli antichi romani mentre quella successiva inneggia all’Imperatore Traiano. La colonizzazione romana ha dato alla Nazione romena anche il nome e la lingua (Eliade, 1992). Persino l’evangelizzazione e l’inserimento nella Cristianità occidentale, contrariamente a quanto comunemente si crede, precedono le invasioni barbariche, che causarono la scristianizzazione di vasti territori (Conte, 1991) e la successiva integrazione nella sfera ecclesiastica bizantina: lo provano le risultanze archeologiche ed il lessico religioso di base (Alzati, 2002). 34 Molti in Italia pensano che il nome Romania sia invece collegato con il popolo Rom e con il romani, la lingua parlata da questa etnia originaria dell’India e arrivata nei Balcani probabilmente nel XV secolo passando per la penisola anatolica..

  • 26

    Questo paese, pur essendo legato al pari dell’Italia, da un patto di alleanza con gli

    imperi centrali e retto da una monarchia affidata alla dinastia Hohenzollern, aveva

    optato in un primo tempo per la neutralità nel conflitto in corso seguendo

    l’esempio italiano. Le pressioni per l’entrata in guerra erano tuttavia forti. Da un

    lato la Germania premeva per il rispetto degli impegni assunti mentre dall’altro

    lato l’Intesa sollecitava l’intervento a suo fianco in guerra e offriva come

    contropartita tutte le “terre irredente” incluse nell’Impero Austro-Ungarico. In

    verità i romeni aspiravano all’unità nazionale attraverso il recupero di tutte le

    province sottoposte al giogo straniero, ma non potevano esimersi dal fare una

    scelta di campo in quanto le due grandi potenze che occupavano territori

    rivendicati, vale a dire l’Austria-Ungheria e la Russia, erano inserite in due

    schieramenti contrapposti. Prevalse, come nel caso dell’Italia, la scelta a favore

    dell’Intesa e alla fine, a seguito di una serie di circostanze favorevoli, la vittoria

    degli Alleati e il collasso dell’impero zarista, la Romania fu in grado di recuperare

    insperatamente quasi tutti i territori rivendicati: quindi non solo Transilvania e

    Bucovina in precedenza sottoposte al dominio asburgico, ma anche la Bessarabia

    già assoggettata alla Russia.

    Dopo un ventennio di pace, la Romania, a seguito del crollo della Francia

    che assieme alla Gran Bretagna le aveva garantito i confini sanciti dai Trattati di

    Saint-Germain (1919), del Trianon (1920) e di Parigi (1920), ricevette nel giugno

    1940 un minaccioso ultimatum dall’Unione Sovietica con il quale le si intimava di

    “restituire” la Bessarabia e di cedere la Bucovina settentrionale a titolo di

    indennizzo per “occupazione abusiva” (sic!) della citata Bessarabia.35 Il governo

    di Bucarest saggiamente accettò la modifica dei confini, ma a pochi mesi di

    distanza la Germania impose alla Romania la cessione della Transilvania

    settentrionale all’Ungheria (Secondo arbitrato di Vienna, 30 agosto 1940) e della

    Dobrugia meridionale alla Bulgaria (Trattato di Craiova, 7 settembre 1940).

    In politica estera tuttavia alla Romania era preclusa la via della neutralità,

    che era stata adottata nell’Europa continentale da Spagna, Portogallo, Svezia e

    35 L’occupazione sovietica della Bessarabia era prevista nei protocolli segreti del Patto Molotov-Ribbentrop, ma non quella della Bucovina, che la Germania considerava territorio mitteleuropeo. In realtà, durante la sua avanzata, l’Armata rossa non rispettò gli accordi sui tempi concessi per il ritiro dei militari romeni e inoltre non si limitò ad occupare la Bessarabia e la Bucovina settentrionale, ma conquistò anche il territorio di Herţa, con popolazione quasi totalmente romena e appartenente al Regno di Romania sin dal secolo XIX, la cui cessione non era stata menzionata né nei protocolli dell’accordo germano-sovietico né nell’ultimatum inviato dal governo di Mosca a quello di Bucarest.

  • 27

    Svizzera, sia per la collocazione geografica (al centro dell’area danubiano-

    balcanica e al confine con l’Unione Sovietica) sia per la significativa dotazione di

    materie prime indispensabili all’economia di guerra tedesca.36 Con la speranza di

    recuperare le regioni perdute ad est il dittatore Ion Antonescu, chiamato al potere

    in un momento cruciale in cui, dopo la drammatica fine della Polonia, era in

    pericolo la stessa sopravvivenza della Romania, scelse l’amicizia con la Germania

    si fece coinvolgere nell’invasione dell’Unione Sovietica (Operazione Barbarossa

    del giugno 1941).

    L’esercito romeno non si limitò a liberare i territori occupati dal sovietici,

    ma proseguì l’avanzata a fianco della Wehrmacht sino al Caucaso. La Romania,

    con il consenso tedesco, si annesse poi la Transnistria, territorio racchiuso tra i

    fiumi Nistro e Bug meridionale, dove era presente da secoli una consistente

    minoranza romena, ma che non aveva mai fatto parte in passato del Principato di

    Moldavia, uno degli stati storici in cui era divisa la Nazione romena, il quale,

    fondendosi con il Principato di Valacchia, aveva dato vita alla Romania.37

    L’inarrestabile avanzata dell’Armata rossa dopo Stalingrado portò la

    Romania a ricalcare anche questa volta un ìter sperimentato in Italia: la

    destituzione del conducator da parte del Re Michele e la capitolazione. L’esercito

    romeno fu quindi massicciamente impiegato dai sovietici nelle operazioni militari

    in Ungheria, Cecoslovacchia e Austria e questo importante e costoso (in termine

    di morti e feriti) contributo valse la restituzione alla Romania dei territori sottratti

    dall’Ungheria su imposizione della Germania nazista.

    L’Unione Sovietica, al termine del conflitto, non restituì le regioni occupate

    nel 1940, si impadronì di altri territori romeni, impose alla Romania una regime

    comunista e inserì il paese fra i propri satelliti.38 Le autorità di Mosca decisero di

    36 Si poteva infatti scegliere se essere amici o nemici della Germania ed in questo secondo caso si prospettava una sorte simile a quella che sarebbe toccata alla Iugoslavia. 37 I partiti democratici romeni, che pur avevano confortato con il loro assenso la decisione del conducator Antonescu di entrare in guerra contro l’URSS al fine di liberare i territori occupati dai sovietici, si opposero decisamente al proseguimento dell’avanzata dell’esercito romeno oltre il Nistro e all’annessione della Transnistria da parte della Romania. 38 L’occupazione della Romania da parte dell’Armata rossa è durata 14 anni con una presenza di effettivi che raggiunse un milione. Per alcuni anni il potere delle autorità sovietiche sulle risorse e sugli abitanti della Romania fu assoluto ed utilizzato a esclusivo vantaggio delle forze di occupazione e dell’economia dell’URSS (Baciu, 1990). Inoltre, anche successivamente alla firma del Trattato di Pace del 1947 l’Unione Sovietica procedette unilateralmente a modificarne in più punti a proprio vantaggio le clausole e, in particolare, ridisegnò il confine tra i due paesi impadronendosi, per uso militare, anche dell’unica isola in mare aperto della Romania, l’Insula Şerpilor, mai restituita e assegnata poi, in spregio ai patti, all’Ucraina al momento dell’acquisizione dell’indipendenza nel 1991.

  • 28

    assegnare la Bucovina settentrionale, Herţa, la fascia costiera della Bessarabia e la

    parte orientale della preesistente Repubblica Autonoma Sovietica Moldava (che

    era stata creata nel 1924) e la sua capitale Balta alla Repubblica Socialista

    Sovietica dell’Ucraina e con la rimanente porzione della Bessarabia, aggiunta alla

    parte occidentale della citata Repubblica Autonoma Moldava diedero vita alla

    Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia (Dima, 1991). La Repubblica

    moldava, nata senza uno sbocco al mare,39 ottenne successivamente

    l’indipendenza nel 1991, al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica,

    ma contestualmente al suo interno, per iniziativa della minoranza russa e con

    l’appoggio militare russo, la Transnistria, regione moldava situata ad est del

    Nistro proclamò a sua volta la propria indipendenza con il nome russo di

    Pridnestroskaia Moldavskaia Respublika.40

    A seguito di questa serie di eventi in Moldavia, o per meglio dire nella parte

    della Repubblica moldava risparmiata dall’iniziativa secessionista promossa dai

    pieds noirs russi, la popolazione, pur appartenendo in larga maggioranza all’etnia

    romena, appare oggi confusa nei propri sentimenti e divisa fra due orientamenti

    fra loro inconciliabili (Ciobanu, 2005). L’orientamento che al momento sembra

    avere maggior seguito si ricollega alla storia recente ed all’esperienza sovietica

    della Repubblica moldava e corrisponde allo schieramento politico di sinistra che

    è fermamente contrario alla riunificazione con la Romania, tiepido nei rapporti

    con l’Unione Europea e che, coerentemente, rifiuta la concessione

    dell’indipendenza alla repubblica secessionista di Transnistria. Il secondo

    orientamento assegna invece priorità all’obiettivo rappresentato dalla

    riunificazione nazionale con la Romania, che offrirebbe un immediato inserimento

    nell’Unione Europea, e fa riferimento ad uno schieramento politico moderato che,

    con non minore coerenza, è propenso, pur di ottenere l’assenso di Mosca alle

    39 La Moldavia è stata privata di uno sbocco sul Mar Nero per consentire all’Ucraina di arrivare, a mezzo del possesso di una striscia costiera senza soluzione di continuità, sino al Delta del Danubio. Questa arbitraria modificazione dei confini tradizionali decretata da Mosca per favorire l’Ucraina toglieva alla Bessarabia la sua storica città portuale di Cetatea Alba, l’antica Leucopoli. Inoltre la stessa creazione della Repubblica moldava all’interno dell’Unione Sovietica aveva lo scopo di fornire i presupposti per future rivendicazioni territoriali a danno della Romania per il fatto che la maggior parte dell’originario Principato di Moldavia è inclusa in questo stato (Dima, 1991). 40 L’indipendenza di questa repubblica, governata con metodi polizieschi da una cupola di veterocomunisti , non è stata riconosciuta a livello internazionale neppure dalla Russia che pure la presidia e ne garantisce la sopravvivenza con un proprio contingente militare. Grazie all’aiuto militare russo la repubblica ribelle ha conquistato Tighina, città natale dell’ex presidente romeno Emil Constantinescu, che si affaccia sulla riva destra del Nistro.

  • 29

    proprie aspirazioni unitarie, a negoziare la rinuncia definitiva alle terre situate

    oltre il confine storico romeno del Nistro.41

    11. I vaneggiamenti di certi nazionalismi

    Le ragioni addotte alla base delle rivendicazioni territoriali dai vari

    nazionalismi appaiono eterogenee dal momento che ognuno sceglie e propaganda

    gli argomenti, non sempre validi e non sempre coerenti fra loro, di volta in volta

    reputati più opportuni appigliandosi alla geografia fisica, alla geopolitica, alla

    storia, all’economia, alla religione, alla distribuzione sul territorio dei gruppi

    etnici, alla genetica, alla toponomastica attuale o passata, all’idioma più

    diffusamente parlato e infine alle radici vicine o lontane, documentate o presunte

    di tali idiomi. Non infrequentemente poi si ricorre disinvoltamente ad

    argomentazioni pretestuose e ad interpretazioni arbitrarie di eventi storici e di dati

    demografici,42 ad anacronismi nell’uso dei toponimi, oppure ad apporti che sono

    frutto di fantasia o infine a veri e propri falsi come quando si sostiene che i popoli

    che abitavano nell’antichità l’area danubiano-balcanica come i daci, gli illiri, i

    macedoni ed i traci appartenessero tutti alla grande famiglia slava o fossero

    comunque molto affini agli slavi. A personaggi storici di spicco come Alessandro

    Magno, Diocleziano, Giustiniano e Marco Polo sono state attribuite da alcuni

    autori imbevuti di nazionalismo origini slave. La battaglia navale di Lissa del

    1866 è presentata come una schiacciante vittoria della flotta croata (de facto) su

    quella italiana.

    Il mondo accademico è stato coinvolto in questi scontri fra nazionalismi e

    storici, geografi, etnologi, filologi e genetisti si sono sentiti spesso in dovere di

    mobilitarsi al servizio della politica per offrire supporto e legittim