Alberto Bucci Working Paper n.05.2002 – febbraio...
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Potere di mercato ed Innovazione tecnologica nei recenti modellidi crescita endogena con concorrenza imperfetta
Alberto Bucci
Working Paper n.05.2002 – febbraio
Dipartimento di Economia Politica e AziendaleUniversità degli Studi di Milanovia Conservatorio, 720122 Milanotel. ++39/02/76074534fax ++39/02/76009695
E Mail: [email protected]
Pubblicazione depositata presso gli Uffici Stampa della Procura della Repubblica e della Prefettura di Milano
Potere di Mercato ed Innovazione Tecnologica nei recenti Modelli diCrescita Endogena con Concorrenza Imperfetta
Alberto BUCCI*
Università degli Studi di Milano(Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di Economia Politica e Aziendale)
eUniversité catholique de Louvain
(Département des Sciences Economiques, Louvain-la-Neuve, Belgio)
Abstract
This paper overviews the main interactions between product market competition and long run growth.We focus on the first generation of R&D-based growth models and keep distinguished the vertical from thehorizontal differentiation approaches. Our main objective is to study why these two branches of the sameliterature give different predictions as far as the long-run relationship between competition and growth isconcerned. At this aim we introduce a generalised version of the growth models with horizontaldifferentiation and deterministic R&D activity which allows us to highlight the main differences between thetwo research lines. In the second part of the article we also review the literature that endogenises the mark-ups and eliminates the scale-effects prediction.
Keywords: Product Differentiation, Market Power, Technological Change, Endogenous Growth
JEL Classification: D43, L16, O31, O41
* Questo lavoro è tratto dalle mie tesi di dottorato presso l’Università degli Studi di Ancona e l’Universitè catholique deLouvain (Louvain-la-Neuve, Belgio). Intendo ringraziare i miei supervisors di tesi e tutti coloro che hanno in qualchemodo commentato precedenti versioni dell’articolo e, in particolare, B. Amable, F. Bagliano, R. Balducci, C. Benassi,R. Boucekkine, G. Candela, G. Conti, G. Cozzi, D. De La Croix, J. Ruiz, A. Scorcu, H. Sneessens, M. Tamberi e A.Vaglio per gli utili suggerimenti ricevuti. Resta inteso che tutti i restanti errori e omissioni sono miei.Autore: Alberto Bucci – Università degli Studi di Milano (Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di EconomiaPolitica e Aziendale) e Università catholique de Louvain (Departement des Sciences Economiques, Louvain-la-Neuve,Belgio).Indirizzo di Corrispondenza: Alberto Bucci - Università degli Studi di Milano (Facoltà di Scienze Politiche,Dipartimento di Economia Politica e Aziendale) – via Conservatorio, 7 – 20122 Milano. E-Mail:[email protected].: 02/76074463. Fax: 02/76009695.
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Introduzione
Nell’ambito delle teorie dello sviluppo economico, il progresso tecnico é certamente considerato uno dei
fattori più importanti alla base dei continui aumenti di produttività che hanno luogo nel tempo.1 Questa idea
é stata di recente ripresa anche da quel filone di studi che va sotto il nome di Teoria della Crescita
Endogena, al quale va il merito di aver riproposto in termini nuovi una questione da lungo tempo dibattuta
nell’ambito dell’analisi economica: quella relativa alle fonti del cambiamento tecnologico.
Che questa questione abbia da sempre catturato l’interesse degli economisti é testimoniato dall’ingente
quantità di lavori che, soprattutto dopo la comparsa dell’articolo pionieristico di R. Solow (1956), hanno
tentato proprio di spiegare, all’interno di un modello di equilibrio generale dinamico, ciò che fino a quel
momento era semplicemente considerato un dato esogeno (il progresso tecnico, appunto). Solo per fare
alcuni esempi, mentre K. Arrow (1962) e, più di recente, P. Romer (1986) e R. Lucas (1988) hanno
sottolineato che il progresso tecnico é un bene prodotto dagli agenti economici a seguito dello svolgimento
da parte loro di particolari attività (come quella di investimento in capitale fisico e/o umano), altri, come K.
Shell (1966, 1973) hanno esplicitamente evidenziato la sua natura di bene pubblico puro che, come tale, può
essere fornito esclusivamente dallo Stato per il tramite di spese governative di ricerca.2
Un mutamento radicale di impostazione si verifica agli inizi degli anni ‘90 quando, grazie soprattutto ai
lavori di Grossman e Helpman (1991), Aghion e Howitt (1992) e lo stesso P. Romer (1990a), viene fatta
nuova luce sul significato da attribuire al concetto di tecnologia e sulle sue principali connotazioni. Più in
dettaglio, tutti questi autori concordano nel ritenere il cambiamento tecnologico caratterizzato da non-
rivalità e (anche se solo parzialmente) non-escludibilità, alla stregua, dunque, di un bene quasi pubblico.
Soprattutto il primo attributo della tecnologia (la non rivalità) ha un’importante implicazione per la teoria
della crescita: esso, infatti, introduce delle non convessità (rendimenti di scala crescenti) nell’insieme delle
possibilità produttive dell’economia e rende pertanto necessario l’esplicito ricorso ai concetti di potere di
mercato e concorrenza imperfetta, non essendo più sostenibile il puro e semplice equilibrio competitivo
(Romer, 1990a,b; Romer, 1991).
E’ in questo specifico senso (e cioè per il fatto di considerare le rendite di monopolio ex-post come un
particolare meccanismo in grado di ricompensare chi decide di investire in capitale tecnologico) che anche i
1 Dal punto di vista empirico, tuttavia, il dibattito su questo punto é ancora molto aperto. Mentre, infatti, le analisi diBlomstrom et al. (1996) e Carroll e Weil (1994) mostrano chiaramente che é l’investimento in capitale tecnologico (enon quello in capitale fisico) a determinare un più elevato tasso di sviluppo economico (essendo la crescita del prodottoa causare, nel senso di Granger, il risparmio e, dunque, l’investimento in macchinari ed impianti, e non viceversa),quelle di A. Young (1994, 1995) giungono a risultati esattamente opposti. In particolare quest’ultimo economista,esaminando in dettaglio il processo di crescita impetuoso che ha caratterizzato, a partire dagli anni ‘60, le economie diCorea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, e impiegando una metodologia del tipo “growth-accounting”,conclude che il contributo offerto a questo processo dagli incrementi nel tempo della Produttività Totale dei Fattori(TFP), ovvero dal progresso tecnologico, é stato pressoché trascurabile, al contrario del ruolo che in questa circostanzaha giocato l’accumulazione di capitale (fisico e umano), nonché l’incremento del livello di partecipazione alla forzalavoro.2 A questo proposito si veda soprattutto K. Shell (1973), pp. 89-90.
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citati lavori di Romer (1990a), Grossman e Helpman (1991), Aghion e Howitt (1992) nonché Segerstrom et
alii (1990) possono considerarsi neo-schumpeteriani (cfr. Romer, 1994, pag. 6).3
A partire da queste premesse, nelle pagine seguenti rivediamo criticamente la letteratura teorica che si é
occupata di studiare i legami tra potere di mercato, innovazione e crescita in un contesto di concorrenza
monopolistica e di equilibrio generale dinamico (questi lavori sono in genere denominati R&D-based
growth models4).
I motivi che ci spingono a concentrarci su questi modelli, all’interno dell’ormai variegata produzione di
ricerca sulla crescita endogena, sono due. In primo luogo, questi approcci consentono di meglio legare gli
aspetti formali microeconomici dell’economia dell’innovazione e dei mercati non concorrenziali con quelli
macroeconomici dell’economia dello sviluppo, essendo questa possibilità di integrazione in genere
trascurata dagli altri approcci. Per usare le stesse parole di K. Shell (1973, pp.77-78), potremmo al riguardo
affermare:
”...While it is probably incorrect to attribute all the residual (unexplained increases inproductivity) to “technical progress”, it is clear that inventive activity contributes importantlyto increased productivity...For the most part, in these contemporary growth models5 of themixed or enterprise economy, either perfect competition is assumed or the specification ofindustrial organization is vague. The Schumpeterian vision of capitalist development, that thelevel of inventive activity and in turn growth in productivity are crucially dependent upon theprevailing form of industrial organization, is largely overlooked”.
I modelli del tipo R&D-based rappresentano a nostro parere il terreno più idoneo su cui interrogarsi
attorno agli effetti indotti dalla presenza di forme di mercato diverse da quella concorrenziale sulla
performance di lungo periodo di un sistema economico (e in particolare il suo tasso aggregato di crescita).
Strettamente collegato a questo è anche il secondo motivo che ci spinge ad approfondire questa specifica
modellistica di Crescita Endogena. La moderna teoria della crescita (o gran parte di essa), nel venire
impiegata come strumento normativo di politica economica ha finito con il concentrarsi esclusivamente su
prescrizioni di tipo macroeconomico. Al riguardo, ad esempio, é sufficiente far riferimento a quei lavori
(anche di tipo applicato) che hanno affrontato il tema dell’individuazione degli schemi ottimali di tassazione
o di spesa pubblica,6 nonché a quelli che si sono occupati delle politiche di apertura ottime per lo sviluppo
di un’economia, dedicando particolare enfasi alla necessità di integrazione tra Paesi.7 Scarso interesse è
3 Il riferimento é soprattutto al secondo Schumpeter, quello di “Capitalismo, Socialismo e Democrazia” (Schumpeter,1942).4 La definizione è di C. Jones (1995a).5 L’autore intende riferirsi ai lavori di K. Arrow (1962) e soprattutto di J.R. Hicks (1965) che introduce l’idea diinvention possibility set, poi ripresa, tra gli altri, anche da P.A. Samuelson (1965), C. Kennedy (1966, 1973) e Phelps eDrandakis (1966). Nonostante ciò, riteniamo che la stessa sua critica possa essere riferita anche a molti lavori di crescitapiù vicini ai nostri giorni.6 W. Easterly (1989), L.E. Jones et al. (1993), J. Lee (1992), Milesi Ferretti e Roubini (1994, 1998), Rebelo e Stokey(1995), G. Saint-Paul (1992) e ancora Corsetti e Roubini (1996), Easterly e Rebelo (1994) ed Engen e Skinner (1996),solo per fare alcuni esempi.7 P. Romer (1990a) e soprattutto Rivera-Batiz e P. Romer (1991a,b).
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stato, invece, finora dedicato allo studio dei rapporti tra micro politiche economiche e crescita, con
particolare riferimento alla regolamentazione di specifici mercati e/o attività (come quella innovativa).
Ancora una volta ci sembra che i modelli di crescita R&D-based rappresentino il punto di partenza più
opportuno su cui avviare una discussione attorno a queste problematiche per la semplice ragione, peraltro
già in parte anticipata, che è in essi a rendersi maggiormente necessario il riferimento a forme di mercato
imperfette che, in quanto tali, richiedono un qualche intervento correttivo da parte dell’operatore pubblico.
Questo contributo è strettamente legato ad altri lavori di rassegna critica sullo stesso argomento o su
argomenti affini, ma con importanti differenze. Qui desideriamo citare soprattutto i lavori di Targetti
(1993), Giannini (1996) e Cestone (1999). Il primo di questi lavori compie una survey ad ampio raggio delle
teorie della crescita (vecchie e nuove) ed è attento a sottolineare i punti di similarità e le differenze tra due
degli approcci più importanti allo sviluppo economico (quello Kaldoriano ed evolutivo da una parte e quello
più recente di matrice neoclassica dall’altro). L’idea proposta nell’articolo di Giannini (1996) è invece
quella secondo la quale non è possibile tenere separate una teoria della crescita da una teoria della
distribuzione del reddito (personale o funzionale). Ciò spinge l’autore a focalizzare la propria attenzione sui
modelli di crescita del tipo “human capital” (con agente rappresentativo e non) allo scopo di verificare
come in questa modellistica le differenze di reddito tra individui incidano sulle loro decisioni di
investimento in capitale umano. A differenza di Targetti (1993) e Giannini (1996), in questo articolo il
focus è rappresentato dalla prima generazione di modelli di crescita con progresso tecnologico endogeno e
forme di mercato diverse dalla semplice concorrenza perfetta. Nell’ambito di questa selezionata letteratura,
poi, ci chiediamo a cosa sono dovute le diverse predizioni dei principali approcci attorno alla relazione di
lungo periodo tra imperfect competition and growth. In questo senso il presente lavoro non rappresenta
semplicemente una rilettura di modelli esistenti. Infine, in un recente lavoro pubblicato su questo giornale,
Cestone (1999) passa in rassegna i principali lavori che si occupano della relazione tra decisioni di
corporate financing e concorrenza nel mercato del prodotto. A differenza di Cestone (1999), noi ci
chiediamo qual è l’impatto che più o meno elevate condizioni di concorrenzialità nel settore che produce
beni tecnologicamente avanzati può avere sul tasso di crescita di lungo periodo di una economia e in un
contesto nel quale il progresso tecnologico è endogeno.
Il percorso logico di questa rassegna si compone di tre tappe fondamentali: la prima farà riferimento
molto brevemente al tentativo di K. Shell (1966, 1973) di formalizzare il contributo che una consapevole
attività innovativa (condotta da agenti razionali che puntano al massimo profitto/utilità) può dare al
processo di sviluppo aggregato di un Paese.
Oggetto della seconda tappa sarà invece la discussione di come la letteratura più recente abbia affrontato
il tema delle micro-fondazioni del cambiamento tecnologico e degli incentivi all’innovazione (tipicamente il
potere di monopolio ex-post), dei quali necessariamente l’innovatore di successo deve poter godere allo
scopo di continuare nella propria attività di ricerca. In questo contesto, verranno analizzati in dettaglio i
contributi di P. Romer (1990a), Grossman e Helpman (1991, cap.3) e Aghion e Howitt (1992). Inoltre,
attraverso un unificato modello di innovazione deterministica endogena con differenziazione orizzontale del
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prodotto, si cercherà di capire perché i primi due lavori appena citati, pur partendo da ipotesi simili
giungono a conclusioni completamente diverse in merito ai complessi rapporti di lungo periodo tra
concorrenza imperfetta e crescita economica aggregata.
Nella terza ed ultima parte del presente articolo, infine, si analizzeranno in sintesi alcuni modelli che
tentano di risolvere i due principali problemi derivanti dalla prima generazione di approcci R&D-based alla
crescita, ovvero quelli rispettivamente legati alla presenza di mark-up esogeni e di effetti di scala nella
conduzione dell’attività innovativa. L’individuazione di possibili futuri spunti di ricerca concluderà il
lavoro.
1. Le Teorie Neoclassiche della Crescita negli anni ‘60
Non vi é dubbio che, nonostante i limiti del suo approccio,8 la rilevanza del contributo soloviano
(1956;1957) alla teoria della crescita stia proprio nell’aver assegnato al progresso tecnico il ruolo
fondamentale di motore dello sviluppo di un sistema economico.
Tuttavia, oltre al cambiamento tecnologico, nell’analisi originaria di Solow (1956) gioca un ruolo di
primissimo piano anche la propensione al risparmio che, pur essendo anch’essa (come il progresso tecnico)
considerata alla stregua di una semplice variabile esogena, è in grado di influenzare direttamente i livelli di
stato stazionario delle variabili espresse in termini pro-capite.
Così, a partire da queste premesse, negli anni ’60 la ricerca sulle determinanti la crescita economica di
un Paese si sviluppa attorno ai seguenti due filoni:
1) il primo è quello che, introducendo esplicitamente l’idea di agente rappresentativo, tenta di dare un
fondamento microeconomico alla funzione del risparmio (D. Cass, 1965; T.C. Koopmans, 1965);
2) il secondo, invece, si pone più direttamente il problema di spiegare il cambiamento tecnologico attraverso
una deliberata attività di investimento in Ricerca e Sviluppo (R&S). K. Shell (1966) rappresenta forse uno
dei primissimi tentativi in quest’ultima direzione ed il suo contributo costituisce senza ombra di dubbio il
fondamento logico di tutti i successivi cosiddetti R&D-based growth models. E’ per questo motivo che
preferiamo iniziare con un’analisi dei punti più salienti dell’opera di Shell.
Nel suo lavoro seminale del 1966, questi parte da una funzione di produzione aggregata con progresso
tecnico Hicks neutrale e considera un’economia nella quale l’accumulazione di conoscenza dipende in
modo esplicito dall’ammontare di risorse destinate all’attività inventiva. In termini formali, indicando con
tA lo stock di conoscenza tecnica disponibile al tempo t, la produzione di nuove idee in campo scientifico
avviene secondo la seguente tecnologia aggregata:
(1) tttt AYA βςα −=•
, 10 ≤< ς , 0≥β , 10 ≤≤ tα , t∀
8 Incluso il tentativo di spiegare le differenze tra Paesi nei redditi pro-capite solo ed esclusivamente sulla base dellerispettive differenze nella dotazione di capitale fisico (si veda al riguardo D. Romer, 1996, pagg. 23-25).
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dove ς rappresenta la probabilità (costante) di successo dell’attività di ricerca, tα è la frazione del
prodotto (Y) destinata in t alla realizzazione della medesima attività e β è il saggio di deprezzamento dello
stock di conoscenza presente sempre in t.
Dell’output che residua, pari a tt Y)1( α− , una parte ( ts−1 ), viene consumata e l’altra ( ts ) è risparmiata
ed investita sotto forma di beni capitali:
(2) ttttt KYsK δα −−=•
)1( .
La (2) rappresenta, appunto, la legge di movimento del capitale in cui s e δ rappresentano rispettivamente la
propensione al risparmio e il tasso di deprezzamento.
Il problema immaginato da K. Shell (1966) é quello di un governo (pianificatore benevolo) che deve
massimizzare l’utilità dell’unico agente presente nel sistema economico sotto i vincoli (1) e (2) e dati i
valori di partenza delle variabili di stato (A e K). In termini formali esso consiste nel risolvere:9
( )[ ] ( )( )[ ]{ }
==
−−=
−=
−−=
•
•
∞ ∞−−∫ ∫
datiKKAAKYsK
AYA
ts
dtYsUedtCUeMax
ttttt
tttt
tttt
tt
s tt
,)0(;)0(
)1(
:..
11
00
0 0,
δα
βςα
αρρ
α
La soluzione di questo problema (nel quale variabili di controllo sono s e α ) non è immediata e lo stesso
Shell (1966) non la presenta in forma esplicita. Egli, tuttavia, mostra che al tendere di t ad infinito, tanto
A(t) quanto K(t) tendono a dei valori limite costanti (rispettivamente A e K ). Ciò implica che nel lungo
periodo si raggiungerà ancora una volta una situazione di completa assenza di crescita nel sistema
economico. Come sottolineato da K. Sato (1966) nella discussione del lavoro di Shell, questa conclusione
dipende strettamente dal modo con cui viene formulata la legge di movimento dello stock di conoscenza
tecnica. Dalla (1), infatti, è possibile notare che •A dipende, tra gli altri, anche dal prodotto (Y): se questo,
come effettivamente avviene nel modello di Shell, tende a ridursi man mano che l’altro fattore riproducibile
(K) viene accumulato, ciò indurrà nel lungo periodo una tendenza di •A (il vero motore della crescita) a
convergere verso un valore pari a zero. Per generare crescita positiva di stato stazionario sarebbe stato
sufficiente, sottolinea sempre Sato, sganciare la dinamica di A da quella di Y, scrivendo, ad esempio, la (1)
semplicemente come:
9 Dall’identità: ttttttt CYsYY +−+≡ )1( αα , nella quale la prima componente a destra dell’uguale rappresenta lafrazione di output destinata alla ricerca, la seconda quella destinata all’investimento e, infine, la terza la quota delreddito che va al consumo, si ricava il valore di tC che compare nell’integrando del funzionale obiettivo.
66
(1’) βςα −=•
tt
t
AA
.
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In questo caso, infatti, nello steady-state (in cui α non dipende dal tempo) il tasso di crescita del sistema
sarebbe positivo, ovviamente a patto che ςα sia maggiore di β .10
A distanza di sette anni da questo articolo, Shell ripropone ancora la necessità di pensare in termini
nuovi al progresso tecnico, ovvero come output di uno sforzo deliberato di ricerca condotto da agenti
ottimizzanti. Nel suo articolo del 1973, infatti, egli ipotizza che l’attività di R&S sia intrapresa o
direttamente dal governo (nel tentativo di massimizzare il benessere sociale) o da un’impresa monopolista
che spera, in questo modo, di ottenere ex-post più elevate rendite. Nonostante queste interessantissime
premesse (in particolare la seconda), però, le difficoltà derivanti dal considerare esplicitamente l’esistenza
di rendimenti di scala crescenti (indotti dalla presenza di un input non rivale come la conoscenza tecnica
nella funzione di produzione aggregata) nell’ambito di un contesto di ottimizzazione dinamica non gli
permettono di trarre delle conclusioni esplicite.11 Bisognerà attendere ancora due decenni circa prima di
avere modelli nei quali le ipotesi di attività innovativa come motore della crescita di lungo periodo e quella
della presenza di mercati non concorrenziali si combinino perfettamente all’interno di una cornice di
equilibrio generale dinamico.
Eccetto, forse, per l’ultimo lavoro citato di Shell, gli anni ‘70 e la prima metà degli anni ‘80 non hanno,
in generale, rappresentato un decennio particolarmente florido di teorie e di studi sulla crescita di lungo
periodo, essendo in quegli stessi anni la ricerca macroeconomica quasi esclusivamente interessata allo
studio delle fluttuazioni cicliche di breve periodo (cfr. Barro e Sala-i-Martin, 1995).
2. Il Progresso Tecnico nella New Growth Theory
Bisogna attendere il 1986 per assistere al fiorire di quelli che in genere sono definiti come la prima
generazione di modelli di crescita endogena (P. Romer, 1986; R. Lucas, 1988; S. Rebelo, 1991; Jones e
Manuelli, 1990). In effetti, gli ultimi due modelli citati (quelli di S. Rebelo, 1991 e di Jones e Manuelli,
1990) non contengono alcuna endogenizzazione della tecnologia, ma rappresentano semplici
generalizzazioni convesse del modello di crescita esogena di R. Solow (1956). A differenza di questo,
infatti, riescono ad originare un saggio di sviluppo di steady-state positivo usando esclusivamente l’ipotesi
che l’input accumulabile (tipicamente il capitale fisico) presenti (nella funzione di produzione aggregata)
una produttività marginale che sia sempre costante (S. Rebelo, 1991) o sia costante solo asintoticamente
(Jones e Manuelli, 1990).
10 Come si vedrà in maggior dettaglio più avanti, una formulazione simile alla (1’) è stata utilizzata da P. Romer nel suocelebre lavoro del 1990. Su questo specifico aspetto del modello di Shell (1966) e della relativa critica di Sato (1966),cfr. Bussola (1996), pp.28-30.11 A ciò si aggiunga che lo stesso K. Shell (1973) riconosce che del modello in cui un singolo monopolista investe inricerca è difficile dare un’interpretazione in termini aggregati.
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Anche in questi approcci, tuttavia, come avviene in R. Solow (1956), l’economia é composta di un solo
settore, produce un unico bene omogeneo e questo può essere o consumato o accumulato sotto forma di
capitale fisico. Proprio la presenza di un unico settore di produzione rende questi schemi teorici
assolutamente inadeguati nel dar conto della nozione di innovazione tecnologica che, nella maggior parte
dei casi, assume esattamente il significato schumpeteriano di introduzione di nuovi beni, di nuovi processi
produttivi, di nuove forme di organizzazione e di nuovi mercati.12 Accanto a ciò, tuttavia, l’innovazione
tecnologica può, più semplicemente, significare la possibilità di differenziare il proprio prodotto rispetto a
quelli dei concorrenti, ciò rendendo necessario dover abbandonare l’ipotesi di concorrenza perfetta e
pensare in termini di equilibrio di concorrenza monopolistica.13
Su queste premesse, a partire dal 1990, è venuta sviluppandosi quella che potremmo definire come la
seconda generazione di modelli di crescita endogena (o R&D-based growth models), tra i quali i più famosi
sono sicuramente quelli di P. Romer (1990a), Segerstrom et al. (1990), Grossman ed Helpman. (1991), e
Aghion e Howitt (1992). Due le caratteristiche che accomunano questi approcci:
- innanzitutto si parte dall’ipotesi che gli incrementi di produttività che hanno luogo nel tempo (progressotecnico) siano la conseguenza di una formale attività di ricerca e sviluppo intrapresa consapevolmente daimprese che mirano ai profitti massimi;
- secondariamente, le forme di mercato prevalenti non sono più di concorrenza perfetta, l’incentivo adinnovare per la singola impresa essendo ora esplicitamente rappresentato dall’ottenimento di rendite dimonopolio ex post.
Dall’altro lato, invece, essi si differenziano a seconda del modo con cui si ipotizza che si manifesti il
progresso tecnico: tramite una continua espansione orizzontale dei beni capitali (P. Romer, 1990a;
Grossman e Helpman, 1991, cap.3) ovvero tramite continui incrementi qualitativi apportati agli stessi input
intermedi (Aghion e Howitt, 1992; Grossman ed Helpman, 1991, cap.4; Segerstrom et al., 1990).
2.1 Differenziazione Orizzontale, Potere di Mercato e Crescita di Lungo Periodo.
Il punto di partenza di P. Romer (1990a) e Grossman e Helpman (1991) è che la tecnologia è un bene
economico con caratteristiche proprie: non è un bene privato puro per via del connotato di “non-rivalità”
che la contraddistingue, ma non è nemmeno un bene pubblico puro per il fatto che chiunque vanti dei diritti
di proprietà su di essa è sempre in grado di “escludere” (almeno parzialmente) altri soggetti economici dai
suoi benefici. Detto in altri termini essa va esplicitamente considerata alla stregua di un input non rivale
12 Si veda al riguardo Ardeni, 1995, pp.31-35.13 Attorno alla recente diffusione dell’impiego del paradigma della concorrenza monopolistica in macroeconomia sivedano K. Matsuyama (1995), J. Silvestre (1995) R. Solow (1998).
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all’interno di una funzione di produzione nella quale compaiono anche input privati puri come il capitale e il
lavoro (Romer, 1990b). Secondo quest’ultimo economista:
“...There are (at least) two ways to think about nonrival inputs. One is to treat a good like adesign or a list of instructions as something that is distinct from the medium on which it is stored,and to say that it can be used simultaneously by arbitrarily many different firms and people. Amore literal way to describe a nonrival good is to treat the physical medium containing thedesign or instructions as the relevant good. Then a nonrival input has a high cost of producingthe first unit and a zero cost of producing subsequent units” (P. Romer, 1990b, pag. 97) .
Questa definizione (soprattutto la seconda) di tecnologia come input non rivale non è affatto innocua.
Infatti, se un processo produttivo utilizza con rendimenti di scala costanti capitale e lavoro (in modo tale che
raddoppiando le loro quantità raddoppi anche la produzione), allora l’inclusione in quello stesso processo di
un input non rivale (come la tecnologia) che contribuisca attivamente all’ottenimento di un determinato
output, farà sì che quest’ultimo aumenti più che proporzionalmente in seguito all’incremento di tutti i fattori
impiegati. In termini formali, ciò equivale ad affermare che:
(3) ( ) ( ) ( )NRFNRFNRF ,,, λλλλ => , 0>λ ,
in cui ( )⋅F rappresenta la funzione di produzione, R è il vettore di inputs privati (capitale e lavoro nel
nostro esempio), N è l’input (o, eventualmente, il vettore di inputs) non rivali e λ è una costante
moltiplicativa positiva. Si noti, inoltre, che l’ipotesi di rendimenti di scala costanti in R (raffigurata sopra a
destra del segno di maggiore) è del tutto ragionevole se si accetta, come premessa di fondo, la validità del
cosiddetto replication argument.14
L’idea sottesa alla (3) non era completamente ignota all’analisi economica prima del 1990, essendo già
stata proposta in passato dallo stesso K. Shell (1973).15 La conseguenza di una tale linea di ragionamento è,
tuttavia, a questo punto del tutto evidente: l’input tecnologico introduce delle non convessità (rendimenti di
scala crescenti) nell’insieme delle possibilità produttive di una economia, cosicché l’equilibrio di mercato
concorrenziale non è più sostenibile. Inoltre, data la particolare natura (non rivale e solo parzialmente
escludibile) attribuita al cambiamento tecnologico, un ovvio problema che sorge è quello di stabilire quale
debba essere la ricompensa da conferire all’innovatore di successo se, come effettivamente avviene in
questo contesto, egli sostiene dei costi per produrre un bene (l’innovazione, appunto) che è destinato per
definizione ad essere usato simultaneamente da un numero arbitrario di diverse imprese e persone. A tal
riguardo, questi modelli di crescita rivisitano la vecchia idea Schumpeteriana (nota in letteratura come
14 Cfr. Varian (1992).15 Questo autore scrive, infatti a pag. 80: “[...] contemporary growth theory relies heavily on the assumption ofconstant returns of scale. If technical knowledge is an argument of the production function, then constant returns in allfactors is not an attractive hypothesis. If the firm doubles its conventional factors, capital and labour, output should beat least doubled since mere replication is always a possibility.Therefore, if the firm doubles its conventional factors anddoubles its stock of knowledge (as measured, say, in patents held) then the firm’s output must be more than doubled. Ifthe firm does indeed face these increasing returns to scale, then it is glaringly obvious that specification of industrialorganization will not be straightforward”.
1010
l’ipotesi Schumpeteriana per eccellenza)16 secondo la quale il principale incentivo a innovare è
rappresentato dall’ottenimento, per le imprese che introducono nuovi beni o processi produttivi di successo,
di un qualche potere di monopolio ex-post. Motivo per cui, la conclusione alla quale, per altra via, si
perviene è che in tali modelli dinamici l’equilibrio che si raggiunge non può affatto essere di tipo
competitivo.
Di seguito proponiamo un modello generalizzato di innovazione deterministica endogena con
differenziazione orizzontale del prodotto capace di replicare come casi particolari anche gli approcci di P.
Romer (1990a) e di Grossman e Helpman (1991, cap.3).17 Il nostro obiettivo è di capire innanzitutto che
ruolo gioca il potere di mercato sul saggio di innovazione e sul saggio di crescita di equilibrio in questi
modelli e secondariamente a quali effetti possano essere in essi imputati le eventuali differenze di
predizione attorno alla relazione di lungo periodo tra concorrenza (imperfetta) e crescita aggregata.
2.2 Differenziazione Orizzontale, Potere di Mercato e Crescita di Lungo Periodo: una generalizzazione di P.Romer (1990a) e Grossman e Helpman (1991, cap.3)
Seguendo Romer (1990a) e Grossman e Helpman (G-H, 1991, cap. 3),18 immaginiamo una economia
composta da tre distinti settori verticalmente integrati che producono rispettivamente un bene finale di
consumo omogeneo, N differenti varietà di beni tecnologicamente avanzati e conoscenza tecnica. L'offerta
complessiva tanto di lavoro non specializzato (L), quanto di capitale umano (H) é costante ed esogenamente
data. Inoltre, mentre L é impiegato esclusivamente nel settore a valle (quello del bene finale), H puo' essere
invece impiegato (con la stessa produttività) in ciascun comparto del sistema economico (il capitale umano
è un imput perfettamente omogeneo).
• La produzione dell'output finale
L'omogeneo bene di consumo finale é prodotto in un settore di concorrenza perfetta in accordo alla
seguente funzione di produzione aggregata:19
(4) ( ) ( )( ) ( )αλ
αλφλφ
= ∫−−−
tN
jtYtt djxHLY0
111 , 10 ≤≤ φ ; 10 ≤≤ λ ; 11
0 <<+
≤ αλ
λ.
16 Così, per esempio, è definita in F. Delbono, 1990, pag.22.17 Il modello è tratto dal primo capitolo della mia dissertazione di PhD (Bucci, 2002a) e rappresenta un’estensione diBucci (2002b).18 Del Capitolo 3 del libro di Grossman e Helpman (1991) consideriamo il modello con spillover tecnologici (pp.57-65).
19 La restrizione λ
λα
+>
1 deriva dalla risoluzione del modello e sarà spiegata più avanti.
1111
(D'ora innanzi, allo scopo di non appesantire oltremodo la notazione, si eviterà di riportare sistematicamente
il pedice t accanto alle variabili che dipendono dal tempo, eccetto in quei casi che possano indurre
confusione).
I simboli impiegati nella (4) hanno il seguente significato: Y é l'output totale prodotto in t; L é
l'ammontare complessivo (e costante) di lavoro non specializzato; HY é lo stock di capitale umano
impiegato (sempre in t) nella produzione di Y; xj é la quantità impiegata della j-esima varietà di beni
capitali; infine, N rappresenta il numero di varietà di beni tecnologicamente avanzati inventati fino a t (e,
come tali, disponibili ad essere impiegati come input nel settore finale).
Il motivo per cui usiamo la funzione di produzione espressa nella (4), a rendimenti di scala costanti in L,
HY e xj congiuntamente considerati, é che essa, per determinati valori dei parametri, consente di illustrare
le principali conclusioni derivanti tanto dal modello di P. Romer (1990a) quanto da quello di Grossman e
Helpman (1991, Cap.3).
L'impresa rappresentativa operante nel settore a valle massimizza i propri profitti istantanei,
considerando dati tutti i prezzi. La sua funzione obiettivo é, dunque:
(5) ( ) ( )( )( ) ( ) ∫∫ ⋅−⋅−⋅−
⋅⋅= −−−
N
jjYL
N
jYY djxpHwLwdjxHL00
111 )(αλ
αλφλφπ ,
dove Lw é il saggio di salario pagato in t al lavoro non specializzato, w quello pagato al capitale umano e
pj é il prezzo di una unità del bene intermedio della varietà j (nella (5) Y viene considerato come
numerario). Si noti che essendo il capitale umano un input omogeneo dal punto di vista della sua
produttività, in equilibrio esso otterrà un unico saggio di salario (a prescindere dal settore in cui viene
impiegato). Questo spiega perché nella (5) usiamo w (anziché Yw ) per indicare il salario guadagnato dal
capitale umano nel settore finale.
Ottimizzando la (5) rispetto a xj é possibile ottenere la funzione inversa di domanda rivolta al j-esimo
input intermedio dal concorrenziale settore che produce l'omogeneo output finale ( pj ):
(6) 1
1
0
)1)(1()1( )()( −
−
−−−
= ∫ α
αλ
αλφλφλ j
N
jYj xdjxHLp .
• Il settore dei beni tecnologicamente avanzati
La forma di mercato che caratterizza questo comparto é la concorrenza monopolistica. L'industria in
questione, infatti, a differenza di quella che é a valle, non produce un unico, indifferenziato bene omogeneo,
bensì una varietà (potenzialmente di ampiezza infinita) di beni intermedi, ognuno dei quali entra
simmetricamente nella produzione di Y. Seguendo Grossman e Helpman (G-H, Cap. 3, pag. 49),
1212
ipotizziamo che ciascun monopolista (locale) intermedio abbia accesso alla medesima tecnologia (del tipo
one-to-one), a rendimenti di scala costanti nel solo capitale umano:
(7) jj hx = , ( )Nj ,0∈∀ .
Essendo N il numero di varietà di beni tecnologicamente avanzati inventati fino a t, dalla (7) segue che la
quantità complessiva di capitale umano allocata in t al settore intermedio )( jH sarà pari a :
(7') j
N
j
N
j Hdjhdjx ≡= ∫∫00
.
L'impresa che produce la j-esima varietà, una volta sostenuto il costo sunk legato all'acquisto del j-esimo
brevetto, massimizza il proprio profitto istantaneo sotto il vincolo della domanda (6):
(8) ( ) ( ) jj
N
jYj wxxdjxHL −
=
−
−−− ∫ ααλ
αλφλφλπ1
0
)1)(1()1( .
Si noti ancora una volta che nell’equazione (8) usiamo w (anziché jw ) per denotare il salario guadagnato
dal capitale umano nel settore intermedio (in equilibrio, essendo il capitale umano un input omogeneo, vi
sarà un unico saggio di salario che va a remunerare i lavoratori specializzati).
Differenziando parzialmente l’equazione (8) rispetto a xj ed eguagliando il risultato a zero, si ottiene:
(8’) pwp j ==α1
, ( )Nj ,0∈∀ .
Il risultato riportato nella (8') deriva esplicitamente dall'ipotesi che ciascuna impresa operante nel
settore dei beni capitali sia così piccola che variazioni marginali nella quantità prodotta dalla stessa impresa
non modifichino le scelte di produzione delle altre imprese concorrenti. In altri termini supponiamo che in
questo comparto non vi sia interazione strategica, cosicché il termine ( )1
0
−
∂∂
∫αλ
αN
jj
djxx
sia uguale a zero.
Si noti anche che sotto la medesima ipotesi (assenza di interazione strategica tra le imprese del settore
intermedio) la domanda rivolta al generico j-esimo produttore di beni capitali da parte del settore dell'output
finale presenta una elasticità al prezzo ε pari a 1 / 1 − α( ), e dunque il mark-up sul costo marginale fissato
da ciascun monopolista locale 1 / α( ), come ci attenderemmo, risulta essere una funzione della suddetta
elasticità:
−≡
−1111εα
. In altre parole:
"...here the parameter α is a measure of the degree of competition, since the derived demandcurve faced by an intermediate monopolist (i.e., the marginal product schedule) has anelasticity equal to 1 / 1 − α( ) which is increasing in α ". (Aghion e Howitt, 1997, pag.284).
In un equilibrio simmetrico, nel quale tanto x quanto p sono uguali per ciascun j, e impiegando la (7'), si
ottiene:
1313
(7")N
HxHNx j
j =⇒= ( )Nj ;0∀ .
Dato questo risultato e dopo alcuni passaggi, é possibile riscrivere la (6) come:
(6') 1)1)(1()1( −−
−−−= λααλ
λφλφλ xNHLp Y , ( )Nj ;0∀ .
Infine, dalla (8), il profitto di ciascun produttore di beni intermedi sarà pari a:
(8’’) ( ) ( ) ( )( )( )
πλαπ αλαλ
λλφλφ =−=+−
−−−1
1111 NHHL jYj , ),0( Nj ∈∀ .
In sintesi, nel caso di perfetta simmetria, ciascuna impresa di beni tecnologicamente avanzati deciderà di
produrre (al tempo t) la stessa quantità di output (x), allo stesso prezzo unitario (p), ottenendo in questo
modo il medesimo saggio di profitto istantaneo )(π . Questo risultato è la conseguenza dell’ipotesi di
simmetria con cui ciascuna varietà di beni capitali entra nella produzione dell’omogeneo bene di consumo
finale. Inoltre, vale la pena a questo punto sottolineare che, dal momento che stiamo considerando un
mercato di concorrenza monopolistica, π sarà decrescente in N solo se la condizione )1/( λλα +> risulta
rispettata. Questo spiega la restrizione sul parametro α che abbiamo esplicitamente introdotto all’inizio di
questa sezione (si veda l’equazione (4)).
• Il settore della ricerca industriale
Per produrre la generica varietà j di beni capitali é necessario possedere uno specifico brevetto.
Quest'ultimo può essere acquistato dal concorrenziale settore della ricerca, caratterizzato dalla seguente
tecnologia:20
(9) ( ) NN HNHNGN ⋅==•
η1; , 0>η ,
dove η/1 é un parametro che indica la produttività del capitale umano impiegato nel settore HN( ) ed N é il
numero di beni intermedi orizzontalmente differenziati esistenti in t. Data la concorrenzialità del settore, il
prezzo di un generico brevetto sarà pari, in t, al valore scontato del flusso di profitti che da t in avanti é
possibile ricevere grazie all'impiego del brevetto stesso. In altri termini, dovrà essere:
(10) PNt = πτ ⋅ e− r τ −t( )dτt
∞
∫ = λ 1 −α( )Lφ 1− λ( ) HYτ( )1− φ( )1− λ( ) ⋅ H jτ( )λ⋅ Nτ( )
t
∞
∫λ −α 1+λ( )
α⋅ e−r τ −t( )dτ , τ > t .
Nella (10), PNt é il prezzo al tempo t del generico j-esimo brevetto (quello che permette di produrre la j-
esima varietà di beni capitali), π é il profitto della j-esima impresa intermedia e r é l'esogeno tasso di
interesse.
20 La funzione di produzione di nuove "idee" (brevetti) indicata nella (9) é quella generalmente impiegata nei modelli dicrescita con innovazione deterministica endogena. Secondo Keely e Quah (1998), la tecnologia della ricerca industriale,come specificata nel testo, presenta due caratteristiche generalmente corroborate dall’evidenza empirica: 1) la positivacorrelazione tra input ed output della ricerca; 2) la natura cumulativa di quest’ultima (cosicché le nuove scoperte
1414
La (9), inoltre, implica che per produrre un nuovo brevetto occorre impiegare una quantità di capitale
umano pari a N/η . La condizione di libertà di entrata nel settore può, dunque, essere espressa nei seguenti
termini:
(11) wN
wN
P NNηη == ⇒
ηNP
ww NN
⋅== ,
dove PN assume il valore indicato nella (10) e Nw è il salario pagato al capitale umano nel settore della
ricerca (pari a w in equilibrio).
La relazione appena scritta stabilisce semplicemente che l'entrata di nuove imprese nel settore continuerà
finché il beneficio che é possibile ottenere dalla vendita di un brevetto addizionale (il suo prezzo) eguagli il
costo marginale della sua realizzazione wN )/(η .
Il modello viene chiuso con la descrizione del lato delle preferenze.
• Le preferenze
Nella nostra economia non vi é crescita della popolazione ed esiste piena occupazione. In questo
contesto un agente rappresentativo di vita infinita risolve il seguente problema dinamico:
(12)
{ }( )
=⋅−⋅+=
⋅=
∞→
⋅
∞−∫∞
=
0lim
:..
log0
00
ttt
ttttt
tt
Y
WYWrW
ts
dtYeUMaxt
µω
ρ
Nella (12), U0 é la funzione di utilità intertemporale, )log(Y é la funzione di utilità istantanea, )0(>ρ
é il tasso di preferenza temporale (o tasso soggettivo di sconto), µ é la cosiddetta variabile di co-stato e W,
ω , Wr ⋅ e r rappresentano rispettivamente la ricchezza dell'agente rappresentativo, il suo reddito da
lavoro, il suo reddito da capitale e il tasso di interesse al tempo t.
Dalla applicazione delle condizioni del primo ordine21 dettate dal Principio del Massimo si ottiene la
seguente equazione di Eulero:
(13) ργ −=≡•
tt
tY r
YY
.
• L'equilibrio nel mercato del capitale umano e lo steady-state
vengono comunque a dipendere dalle precedenti).21 In questo caso necessarie e sufficienti, essendo il problema concavo nella variabile di controllo (Y) e di stato (W),congiuntamente considerate.
1515
Allo scopo di trovare la regola di allocazione ottima del capitale umano presente in questa economia (e
disponibile in offerta fissa) ai tre settori che ne fanno uso (quello dell'output finale, dei beni capitali e della
ricerca) imponiamo che siano soddisfatte simultaneamente le seguenti tre condizioni:
(14) H = H jt + H Nt + HYt , ∀t ;
(15) wj = wY ;
(16) wj = wN .
La (15) stabilisce che il salario percepito da un'unità di capitale umano nel settore intermedio ( jw ) deve
essere pari a quello che verrebbe percepito nel caso in cui la medesima unità di capitale umano venisse
impiegata nel settore del bene di consumo finale ( Yw ). La (16) stabilisce lo stesso principio con
riferimento, questa volta, al salario percepito da un'unità di capitale umano nel settore intermedio e della
ricerca ( Nw ). Insieme, dunque, la (15) e la (16) rappresentano delle condizioni di non arbitraggio e
sottolineano che, dal punto di vista del rendimento privato, deve essere indifferente per chi possieda un’
unità di capitale umano utilizzare quest'ultima in ciascuno dei tre comparti dell'economia che domandano
questa risorsa. Dal punto di vista teorico ciò è perfettamente lecito dal momento che stiamo ipotizzando che
il capitale umano sia un input omogeneo, ovvero egualmente produttivo nello svolgimento di ciascuna
attività di cui il sistema economico da noi considerato consiste e, come tale, remunerato in base ad un unico
saggio di salario (in altri termini, stiamo assumendo che le medesime capacità normalmente impiegate per
produrre, diciamo, beni tecnologicamente avanzati, possano essere utilizzate, con lo stesso livello di
produttività, per ottenere anche un omogeneo bene di consumo finale, ovvero nuova conoscenza tecnica).
La (14), invece, rappresenta un semplice vincolo delle risorse che deve essere soddisfatto in ogni t.
Dalla risoluzione simultanea della (14), (15) e (16) é possibile dimostrare che si ottengono i seguenti
valori di equilibrio per le variabili rilevanti del modello:22
(A) ( )B
AHrη
ρηαλ +−=22 1 ;
(B) ( ) ( )( )[ ]{ }λφαλαηρααλ −−+−−= 1111 HB
H N ;
(C) ( )[ ]( )( )[ ] B
HB
BH jληρα
λφαλααλαλ 2
111 +
−−+−−= ;
(D) ( )( ) ( )[ ]( )( )[ ]
( )( )B
HB
BHYλφαηρ
λφαλααλλφ −−+
−−+−−−−= 11
11111 ;
(E) ( ) ( ) ( )( )[ ]{ }( )[ ]11
1111+−
−−+−−−=−==•
λφηαλφαληραλαλργ Hr
YY
Y ;
(F) ( ) ( )( )[ ]{ }λφαλαηρααληη
γ −−+−−===•
11111 HB
HNN
NN ;
1616
(G) ( ) ( )[ ] ( )φαφαφλφααλλ −++−+−++−≡ 1112A ;
(H) ( )[ ]11 +−≡ λφαB .
Un’osservazione che va subito fatta é che in questo contesto il tasso di crescita del prodotto
dell’economia γ Y( ) é una funzione dei parametri (tecnologici e di preferenza) del modello λ , η,ρ,φ( ) ,
nonché di α (l'inverso del mark-up praticato sul costo marginale di produzione dalle imprese che
producono beni tecnologicamente avanzati). Inoltre, γ Y risulta altresì una funzione positiva di H (l'intero
stock di capitale umano). In questo senso, trova supporto l'idea, già sostenuta in passato da Nelson e Phelps
(1966), secondo la quale lo sviluppo di un sistema economico non risiede nella capacità di quest'ultimo di
accumulare capitale umano (come in Becker (1964) e più recentemente in Lucas (1988)), bensì trova il suo
vero motore nello stock di lavoratori specializzati di cui la medesima economia dispone (l'intuizione, infatti,
é che un maggior numero di questi lavoratori consente più facilmente a una nazione di innovare). In altri
termini, le differenze nei tassi di crescita tra Paesi sono principalmente dovute alle differenze nei rispettivi
stock di capitale umano e, pertanto, alle loro differenti capacità di generare progresso tecnico. Sul ruolo
degli effetti di scala nella moderna teoria della crescita (e in particolare nei cosiddetti R&D-based growth
models) torneremo nel successivo paragrafo 5.
2.3 L’interazione tra Potere di Mercato e Crescita nei Modelli conDifferenziazione Orizzontale di Prodotto.
La (4), scritta in funzione di φ , λ e α , ci consente di rappresentare tanto il modello di P.Romer
(1990a) quanto quello di G-H. (1991, cap.3). A seconda, infatti, del particolare valore che si assegna ai
parametri, la (4) può assumere una forma particolare (CES vs Cobb-Douglas) e, inoltre, può contenere certi
input, escludendone viceversa degli altri. I casi sui quali ci concentriamo in questa rassegna sono due. In
primo luogo si consideri il caso in cui:
caso a) λ = 1, per cui la (4) implica: ( )α
α
1
0
= ∫
tN
jtt djxY .
In questa circostanza la tecnologia impiegata dal settore finale é una CES e il modello é quello di
Grossman e Helpman (1991, cap. 3), con il capitale umano che é impiegato direttamente solo nel settore
intermedio e in quello della ricerca. Se si sostituisce il valore λ = 1 nella (E) ed (F) di cui al paragrafo
precedente, infatti, é possibile trovare esattamente i valori di stato stazionario del modello di Grossman e
22 Per una dimostrazione formale si veda Bucci (2002a, cap.1).
1717
Helpman (rispettivamente per il tasso di crescita dell’output e per quello del numero di beni intermedi
orizzontalmente differenziati23):
(E’) ( ) ( )NY H γ
ααρ
ηαααγ
−=
−−−= 111 ;
(F’) αρη
αγ −
−= HN1
.
Inoltre, se si raffigura il tasso di crescita dell’output )( Yγ come funzione del mark-up )/1( αβ ≡ , allora é
possibile ottenere la seguente rappresentazione grafica:24
)(βγ Y
β
Figura 1
La relazione tra Crescita e Mark-Up nel Modello di Grossman e Helpmancon spillovers tecnologici (1991, cap.3, pp.57-65)
Il secondo caso che vogliamo discutere é quello relativo al modello di P. Romer (1990a), come riportato
in Aghion e Howitt (1998a, cap.1, pp.37-39).25
23 Si noti, inoltre, che se si pone 1=λ , allora la quantità di capitale umano allocata al settore finale )( YH éesattamente pari a zero. Ciò é consistente col fatto che nel modello di Grossman ed Helpman il settore finale nonimpiega direttamente capitale umano.24 Il motivo per cui nella Figura 1 il tasso di crescita aggregato risulta negativo per certi valori di β è che nonimponiamo alcuna restrizione su H nel disegnare )(βγ Y . Ad un attento esame delle equazioni (E’) ed (F’) è immediatoconcludere che condizione sufficiente affinché sia Yγ >0 è che sia )1/( ααηρ −>H , ovvero )1/( −> βηρH ,
αβ /1≡ . Il nostro obiettivo qui è soltanto quello di analizzare qualitativamente il comportamento del tasso di crescitarispetto a β e confrontarlo con quello che emerge dal modello di Romer. E ciò che risulta chiaramente dalla Figura èche il segno di )(' βγ non è affatto univoco.
1.2 1.4 1.6 1.8 2
0.2
0.4
0.6
0.8
1818
La funzione di produzione del bene finale del modello di Romer è facilmente ottenibile dalla (4)
ponendo λ = α e φ = 0 . Sotto queste assunzioni, la (4) implica:
caso b) ( ) ( )∫−=tN
jtYtt djxHY0
1 αα .
Inoltre in quest’ultimo modello l’output finale può essere o consumato o risparmiato sotto forma di nuovo
capitale fisico. L’output che non viene consumato può dunque essere utilizzato per produrre beni durevoli.
Si assume che un’unità di capitale possa produrre un’unità di beni intermedi di qualsivoglia varietà (e
quindi il costo marginale di produzione è rappresentato dal saggio dell’interesse, r). L’assunzione che
l’output non consumato possa essere accumulato come capitale fisico ed impiegato nella produzione di beni
tecnologicamente avanzati è equivalente ad assumere che i beni capitali siano prodotti in un separato settore
che abbia la stessa tecnologia di produzione del settore del bene di consumo finale. Ciò significa che nel
modello di Romer (1990a) i produttori intermedi usano capitale umano solo indirettamente (attraverso
l’output non consumato), piuttosto che direttamente. Dal momento che il capitale umano può ora essere
impiegato direttamente sia nella produzione del bene finale ( YH ) che nel settore della ricerca ( NH ), le
condizioni di equilibrio che caratterizzano l’allocazione inter-settoriale dei lavoratori specializzati tra i
diversi comparti dell’economia che usano questo fattore diventano:
i) H = HY + HN
ii) wY = wN . ,
e le relazioni di equilibrio si modificano nel modo seguente:
•
+
+=
ααρ
η 1Hr ; • ( )ηρα
α−
+= HH N 1
1; • ( )ηρ
α+
+= HHY 1
1;
• α
ρηα
γ+
−=
1
HY ; • ( )αη
ηραγ+−=
1H
N .
Anche in questo caso possiamo procedere a raffigurare graficamente la relazione tra crescita ( )Yγ e
mark-up ( )αβ /1≡ ed ottenere la seguente Figura 2:26
)(βγ Y
25 In realtà la funzione di produzione aggregata utilizzata da P. Romer (1990a) nel suo modello originale è:
( )∑∞
=
−−=1
1
iitYtt xLHY βαβα .
26 Di nuovo, nel disegnare la Figura 2 non imponiamo alcuna restrizione su H. In questo caso è facile dimostrare checondizione sufficiente affinché sia Yγ >0 è che sia αηρ />H , ovvero ηρβ>H . Questa volta, ciò che risultachiaramente dalla Figura è che il segno di )(' βγ è senza alcuna ambiguità negativo.
2 4 6 8-0.5
0.5
1
1.5
2
2.5
1919
α
β 1≡
Figura 2
La relazione tra Crescita e Mark-Up nel Modello di P. Romer (1990a) nella versionepresentata da Aghion e Howitt (1998a, Cap.1, pp.35-39)
E’ interessante notare che i due modelli finora considerati, pur condividendo la stessa rappresentazione
del sistema economico,27 producono predizioni diverse per quanto attiene alla relazione tra l’esogeno mark-
up praticato sul costo marginale dai monopolisti locali intermedi e il saggio di sviluppo aggregato
dell’economia: solo quando il capitale umano é usato direttamente nel settore intermedio (G-H, 1991, cap.
3) é possibile osservare una qualche relazione positiva tra crescita e mark-up (perlomeno in qualche range
del termine di mark-up).
Intuitivamente, ciò dipende dal fatto che in G-H (1991) per successivi incrementi del mark-up (ovvero
quando α → 0 ) la quantità di beni capitali complessivamente prodotta in equilibrio ( Nx ) tende a zero e
così anche la domanda di capitale umano proveniente dal settore intermedio (si noti, infatti, che Hj = Nx ).
In conseguenza di ciò, un maggior numero di lavoratori specializzati può essere allocato nel settore della
ricerca (che é quello che guida la crescita), tutto questo originando una relazione positiva tra αβ /1≡ e
γ Y per certi valori (sufficientemente ampi) del primo termine. Viceversa, nel caso del modello di P. Romer
(1990a), in cui il capitale umano si distribuisce tra il settore finale e la ricerca, l’incremento di mark-up (e,
dunque, di prezzo) praticato dai produttori intermedi, rende più conveniente, ceteris paribus, per chi
produce l’output finale sostituire i beni capitali (ora più costosi) con capitale umano, a danno del settore
della ricerca industriale.
Quanto finora detto può essere sintetizzato dicendo che in un modello generalizzato di innovazione
deterministica orizzontale del prodotto, la relazione tra il mark-up (esogeno) fissato dai monopolisti locali
intermedi e il saggio di sviluppo aggregato dell'economia non é affatto insensibile a
mutamenti nelle forme delle funzioni di produzione (Cobb Douglas vs CES) impiegate in ciascun comparto
del sistema economico (con particolare riferimento a quello a valle). Allo stesso modo, essa viene a
dipendere crucialmente anche dal tipo di input che ciascuna industria usa per produrre il proprio output
(capitale fisico vs capitale umano) e dalla dimensione del potere di mercato ( β ) goduto dai produttori
intermedi. In altri termini, nel contesto dei recenti approcci à la Romer (1990a) e Grossman/Helpman
(1991, cap.3), la suddetta relazione non può affatto essere considerata robusta.28
27 In entrambi i casi infatti questo risulta suddiviso in tre settori che producono rispettivamente un indifferenziato benedi consumo finale, N diverse varietà di beni intermedi e conoscenza tecnica ed entrambi sono stati finora da noiconsiderati come casi particolari di un modello economico più generale.28 Allo scopo di dimostrare ulteriormente questo risultato è possibile usare nell’equazione (4) combinazioni diverse deiparametri λ e φ , al fine di originare tecnologie di produzione del bene finale alternative. Ciò è fatto in Bucci (2002a,cap.1; 2002b). Ancora una volta, però, la conclusione a cui si perviene è la medesima: la relazione di lungo periodo traconcorrenza imperfetta e crescita dipende in misura sostanziale dalle funzioni di produzione impiegate (soprattutto
2020
3. L’interazione tra Potere di Mercato e Crescita nei Modelli conDifferenziazione Verticale di Prodotto.
Tanto nel modello di P. Romer (1990a) quanto in quello di G-H (1991, cap.3), il cambiamento
tecnologico si manifesta attraverso la continua introduzione di nuovi beni capitali che non rendono obsoleti
quelli precedenti, cosicché la rendita di monopolio goduta dall’i-esimo produttore intermedio (in possesso
dell’i-esimo brevetto) dura per sempre. Per questo stesso motivo tali approcci non sono in grado di far
risaltare il connotato forse più importante di una innovazione, e cioè il fatto che spesso il “nuovo” è
associato a cambiamenti radicali nei modi di produrre e di consumare e tali da rendere completamente
obsoleti quelli precedenti. Anche questa idea (come molte altre che trovano spazio nella moderna teoria
della crescita) non è completamente nuova, essendo già stata introdotta da J. Schumpeter (1942) che la
esprime affermando:
“l’apertura di nuovi mercati, [...], e lo sviluppo organizzativo che va dalla bottega e dallafabbrica artigiana fino ai complessi industriali [...] illustrano lo stesso processo ditrasformazione organica dell’industria [...] che rivoluziona incessantemente dall’interno lestrutture economiche, distruggendo senza tregua l’antica e creando senza tregua la nuova.Questo processo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo, ciò in cui ilcapitalismo consiste. [...] Ora, nella realtà capitalistica, in quanto distinta dalla sua immaginescolastica, quel che conta [...] è [...] la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuovatecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo [...], checondiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità e incide non sui margini del profitto esulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro stesse fondamenta, sulla loro vita”.(J.Schumpeter, 1942, trad. it., 1977).
In Aghion e Howitt (A-H, 1992) la nozione schumpeteriana di distruzione creatrice viene applicata ad
un modello di crescita endogena nel quale caratteristica principale del processo innovativo è l’incertezza.29
Di seguito rivediamo molto rapidamente le ipotesi e le conclusioni più importanti del modello: 30
a) esiste un solo bene finale omogeneo prodotto con la seguente tecnologia:
(17) αttt xAY ⋅= , 10 << α ,
quella del bene di consumo finale); dalla tipologia di input che entrano in esse (soprattutto il fatto che i beni intermediimpieghino unità di capitale fisico o umano) e, infine, dalla dimensione del mark-up ( β ).29 Un approccio simile era stato già tentato nel 1990 da Segerstrom et al. che immaginano un sistema economico nelquale la crescita deriva da una successione di miglioramenti qualitativi apportati ai prodotti all’interno di un numeroprefissato di settori. In questo modello, però, continua a non esserci incertezza nello svolgimento di questa attività. Nel1991, G-H (1991, cap. 4) introducono la nozione di creative destruction nel loro modello visto prima, ipotizzando,invece, esplicitamente l’esistenza di un’alea nella conduzione dell’attività di ricerca.30 Una versione molto semplificata ed intuitiva del modello originale di A-H (1992) è in Aghion e Howitt (1998a, cap.
2121
dove A è un parametro di produttività, x è la quantità impiegata dell’unica varietà esistente di input
intermedi e l’indice t non è riferito al tempo ma alla t-esima innovazione (si noti che 0)(' >xf e
0)('' <xf , e quindi la produttività del bene capitale nel settore finale cresce, ma a saggi decrescenti);
b) non vi è accumulazione di capitale fisico;
c) L (la quantità complessiva di lavoro o capitale umano) a disposizione dell’intera economia è costante ed è
ripartita tra la produzione del bene intermedio e il settore della ricerca, esattamente come in G-H (1991, cap.
3);
d) il processo innovativo è stocastico nel senso che, per la singola impresa, l’innovazione si verifica in
accordo ad una distribuzione di probabilità poissoniana (con tasso di arrivo pari a tnλ ). Questo significa
che impiegando nella ricerca un maggior numero di lavoratori/ricercatori ( tn ), aumenta la probabilità
istantanea ( tnλ ) di introdurre sul mercato una qualità più elevata di un dato input intermedio, essendo λ
una costante positiva che indica la produttività della tecnologia di ricerca. Pertanto, nel modello
quest’ultimo settore si presenta con le stesse caratteristiche che sono individuate nell’ambito dell’ampia
letteratura sulla competizione tecnologica, passata in rassegna da J. Reinganum (1989), J. Tirole (1991, cap.
10), F. Delbono (1990) e M. Polo (1993, cap.6). In questo filone di ricerca, infatti, l’incertezza che circonda
il processo innovativo viene modellata in due forme alternative: nel primo caso si assume che, nonostante
l’alea che circonda questa specifica attività, esista comunque perfetta correlazione tra investimento in
ricerca e conseguimento dell’innovazione (l’impresa che destina più risorse a questa attività vince con
certezza la gara innovativa con le altre imprese); nel secondo caso, invece, si ipotizza che l’attribuzione di
una maggiore quota di risorse alla ricerca rispetto ai concorrenti non assicuri di per sè ad un’impresa di
arrivare per prima al traguardo dell’innovazione. Evidentemente l’approccio di A-H (1992) ricade nel primo
dei due gruppi di modelli di attività innovativa incerta: un livello di tn maggiore dei rivali è in grado di far
guadagnare per prima alla specifica impresa il monopolio nel mercato dei beni intermedi;
e) l’innovazione nel modello assume la forma dell’introduzione di una qualità superiore di un dato bene
intermedio che ha l’effetto di far aumentare il parametro di produttività in maniera tale che sia
11 >=+ γt
t
AA
. In tal modo, il (t+1)-esimo input intermedio “distrugge” completamente le rendite associate
alla produzione di quello precedente (esternalità negativa), rendendo allo stesso modo possibile l’invenzione
successiva (esternalità positiva).
Essendo il settore della ricerca concorrenziale la condizione di assenza di possibilità di arbitraggio (no-
arbitrage-condition) può essere scritta come:
(18) tttt VnV λπρ −= ⇒ t
tt n
Vλρ
π+
= ,
2, pp. 53-61), a cui la nostra analisi si rifà.
2222
dove tV rappresenta il valore scontato di tutti i profitti futuri attesi connessi alla t-esima innovazione di
successo, tπ è invece il reddito corrente derivante dalla t-esima innovazione e ρ è il tasso dell’interesse.31
Sotto l’ipotesi aggiuntiva che nel comparto della ricerca vi sia libertà di accesso, la condizione di profitti
nulli equivale a:32
(19) 1+⋅⋅=⋅ tttt Vnnw λ ⇒ 1+= tt Vw λ .
Infine, la condizione di equilibrio nel mercato del lavoro impone:
(20) tt nxL += .
•••• Il settore dell’omogeneo bene di consumo finale
Massimizzando la funzione di profitto dell’impresa rappresentativa che produce l’output finale si ottiene
la domanda (inversa) di beni intermedi:
(21) pt = At ⋅α ⋅ xtα−1 .
•••• Il settore intermedio
In questo comparto viene impiegata una tecnologia del tipo “one-to-one”, tale per cui una unità di lavoro
produce esattamente una unità di output. Massimizzando la funzione istantanea del profitto del produttore
intermedio rispetto ad x e tenuto conto del vincolo della domanda inversa (equazione (21)), é possibile
calcolare la quantità ottima di output prodotta da quest’ultimo:
(22)αα −
=
11
2
/ ttt Aw
x .
Sostituendo la (22) nella (21) si ottiene il prezzo del bene intermedio della generazione t (che é uguale
ad un mark-up costante sul salario, proprio come nei modelli finora passati in rassegna):
(23) ⇒= tt wpα1 12 −⋅⋅=⋅= ααα tttt xApw .
Infine, usando la (22) e la (23) il profitto sarà :
(24) ( ) )(~11 11
2
ttt
tttttttt A
Aw
Axwxwp ωπαα
αα
απα
α
α ⋅=
⋅⋅⋅
−=⋅⋅
−=⋅−=
−−
− ,
31 In sostanza, la (18) afferma che l’interesse sul valore dell’innovazione t-esima ( tVρ ) deve essere pari alla sommadel profitto corrente (derivante dal possesso di quest’ultima) e dei suoi profitti attesi. Questi ultimi sono pari a:
ttttt VnnVn λλλ −=⋅−+− 0)1()( (con probabilità tnλ si scopre l’innovazione (t+1)-esima che distruggecompletamente il valore dell’innovazione t-esima, mentre con probabilità ( tnλ−1 ) non si introduce alcun nuovo benecapitale).
2323
αα
ααα
αωπ−
−
−
⋅⋅
−≡
11
21)(~t
tt A
w,
t
tt A
w=ω .
Dato che dall’equazione (24) ( )111~
+++ ⋅= ttt A ωππ , la (19) diventa:
(19’)( )
1
11
1
11
~
+
++
+
++ ⋅+
⋅⋅=
+⋅=⋅=
t
tt
t
ttt n
An
Vwλρ
ωπλ
λρπ
λλ ⇒( )
1
1~
+
+
+=≡
t
tt
t
t
nAw
λρωπ
λγω .
In stato stazionario (in cui tanto ω quanto n sono costanti), il numero di lavoratori allocato alla ricerca
(n) e il salario aggiustato per il livello della tecnologia (ω ) saranno determinati dall’intersezione delle due
seguenti relazioni:
(A) ω = λγ˜ π ω( )
ρ + λn;
(L) L = n + x ω( ) .
La (A) rappresenta l’equazione di profitti nulli nel settore della ricerca, mentre la (L) é un semplice
vincolo delle risorse in accordo al quale l’offerta complessiva di lavoro esogenamente data (L) deve essere
pari alla somma del numero di lavoratori impiegati nella ricerca e di quelli impiegati per produrre l’input
intermedio.
Una volta trovati i valori (costanti) di n e ω , dalla (L) è possibile determinare il valore di equilibrio
(anch’esso costante) di x. Pertanto, la produzione complessiva di output finale sarà pari a Yt = At ⋅ xα e il
suo tasso di crescita: γ Y ≅Yt+1
Yt=
At+1
At= γ .
Trasferendoci nel dominio del tempo,33 l’ultima relazione appena riportata diventa:
( ) ( ) ( )ttYtY εγ⋅=+1 ,
dove ( )tε rappresenta il numero di innovazioni che si verificano tra t e t+1. Essa é altresì una variabile
aleatoria che si distribuisce secondo una distribuzione poissoniana, con parametro nλ .34 Esprimendo la (B)
in logaritmi e calcolandone il valore atteso, alla fine si ottiene:
( ) ( )[ ] γλ loglog1log ⋅⋅=−+ ntYtYE .
In altri termini il tasso di crescita (stocastico) di questa economia dipende positivamente da tre elementi
fondamentali:
1) dalle risorse a disposizione (L), essendo n=L-x (effetto di scala);
2) dalla dimensione dell’innovazione, γ . Quest’ultima può anche essere intesa alla stregua di un parametro
di opportunità tecnologica;
32 Questa afferma semplicemente che i costi della ricerca ( tt nw ) devono essere uguali ai suoi ricavi attesi.33 t, infatti, é stato riferito sinora alla t-esima innovazione e non al tempo.34 Si noti che se ( ) 0=tε (in sostanza non si verifica alcuna innovazione tra t e t+1), allora Y(t+1)=Y(t) (ovvero non vié neppure crescita dell’output).
2424
3) dalla misura di potere di monopolio di cui viene a disporre l'innovatore di successo. Per vedere questo
risultato, si noti che in steady-state (quando nnn tt == +1 e ωωω == +1tt ) la relazione inclusa nella (19’)
diventa:
(19’’)
( )
n
nL
⋅+
−⋅
−
⋅=λρ
αα
λγ
1
1 , dato che )(11)(~nLx −
−=
−=
αα
αα
ωωπ
.
La (19’’) consente di definire n come funzione decrescente di α . In particolare, si trova:
n =γ 1 −α( )L
α +γ 1 −α( )[ ]−αρ
λ α + γ 1− α( )[ ],
da cui immediatamente si ottiene:
limα→0
n α( ) → L .
Detto diversamente, al tendere di α verso il valore unitario (ovvero all'aumentare della competizione nel
mercato dei beni intermedi) si riducono le potenziali rendite di monopolio di cui potrebbe appropriarsi
l'innovatore di successo e, di conseguenza, diminuisce il suo incentivo ad innovare. Ciò si riflette, a sua
volta, in una sempre più bassa quantità di risorse allocata al comparto della ricerca (n tende
progressivamente a zero) e, conseguentemente, in un minore saggio aggregato di crescita.35
Al termine di questa sezione, una conclusione che possiamo trarre dai principali modelli di crescita con
innovazione endogena degli inizi dello scorso decennio é che la relazione tra potere di mercato e sviluppo
economico aggregato dipende in maniera cruciale dal modo con cui si manifesta il progresso tecnologico: se
questo assume la forma di una continua espansione nella varietà di beni capitali (differenziazione
orizzontale) allora la summenzionata relazione può essere ambigua a priori (come si è visto nella sezione
precedente). Viceversa, se il progresso tecnico si manifesta sotto forma di miglioramento qualitativo dei
beni capitali esistenti (differenziazione verticale) allora esiste sempre un rapporto positivo tra grado di
potere di mercato e sviluppo di lungo periodo. Ciò intuitivamente si spiega per il semplice motivo che in
presenza di differenziazione verticale le rendite di monopolio acquisite con l’innovazione possono non
durare per sempre, esistendo la possibilità che siano erose da un successivo potenziale innovatore di
successo. Questo rischio rappresenta per sua stessa natura uno stimolo alla continua innovazione e consente
altresì di innescare un circolo virtuoso tra desiderio di mantenere la leadership di mercato (monopolio),
investimenti in innovazione e crescita economica.
Nelle prossime due sezioni ci concentriamo su quelli che per noi sono i limiti più evidenti di queste
teorie del progresso tecnologico endogeno con concorrenza imperfetta (la presenza di effetti di scala e di
35 Al proposito, così si esprimeva Schumpeter nel 1942:”[...]il monopolista dispone di metodi superiori che o non sonoaffatto disponibili per una folla di concorrenti o non lo sono con altrettanta prontezza: ci sono vantaggi che [...]inrealtà si ottengono solo sul piano del monopolio, ad esempio perchè [...]il monopolio gode di una posizionefinanziaria schiacciante. [...]l’azienda del tipo compatibile con la concorrenza perfetta [...] si trova in condizionimeno favorevoli per sviluppare e giudicare possibilità nuove” (J. Schumpeter, 1942, trad. it. 1977, pp.96 e 101).
2525
mark-up esogeni) e analizziamo in dettaglio le possibili soluzioni che la teoria economica moderna ha
prospettato per il loro superamento.36
4. I mark-up endogeni nella Teoria della Crescita con ConcorrenzaImperfetta.
Il vero limite dei modelli di crescita con concorrenza imperfetta passati finora in rassegna (P. Romer,
1990a; G-H., 1991, cap.3 e A-H, 1992), é che in tutti questi approcci il mark-up praticato sui costi marginali
dai produttori di beni tecnologicamente avanzati )/1( α , una volta fissato, non risponde ai cambiamenti
nelle condizioni di domanda e/o offerta (resta costante per sempre). Questo aspetto viene di recente
sottolineato da J. Galì (1995, pagg. 39-40), secondo il quale:
"Recent research on the mechanics of growth has focused on several departures from aneoclassical environment as possible explanations for some of the observed patterns of per-capita income...Though the assumption of perfect competition is frequently disposed of in thatliterature (e.g., Romer, 1990), the introduction of market power often plays a peripheral role asa device to sustain nonconvex technologies. In particular, the assumptions on technology andpreferences in most of those models imply that optimal markups charged by firms are constant,i.e., unresponsive to changes in demand conditions and/or the number of firms".
Proprio Galì scrive, attorno alla metà degli anni '90, una serie di lavori con i quali (non é esagerato dire)
apre un nuovo ed interessantissimo filone di ricerca nell'ambito della Nuova Teoria della Crescita: quello
relativo alla endogenizzazione della variabile di mark-up nei modelli con concorrenza imperfetta.
Obiettivo di questo paragrafo é di passare molto rapidamente in rassegna questa recentissima letteratura.
La nostra trattazione sarà volutamente breve in quanto nei lavori di Galì non vi é alcuna intenzionale attività
di ricerca e sviluppo da parte di soggetti razionali che puntano ai massimi profitti, laddove il taglio che
abbiamo tentato di dare al presente articolo é proprio esplicitamente basato sull’analisi e sulle implicazioni
più importanti (per quanto attiene strettamente ai rapporti di lungo periodo tra crescita e concorrenza
imperfetta nel mercato del prodotto) che derivano dai cosiddetti R&D-Based Growth Models.
4.1. I Modelli con Mark-Up Endogeni.
36 Recenti lavori empirici (Blundell et al., 1995 e Nickell, 1996, tra gli altri) suggeriscono l’esistenza di unacorrelazione positiva tra (differenti misure di) concorrenza nel mercato del prodotto e tasso di crescita della produttivitàa livello di impresa e/o industria, il che a sua volta sembra corroborare l’idea che maggiori livelli di concorrenzastimolino la crescita aggregata. Aghion, Dewatripont e Rey (1997); Aghion, Harris e Vickers (1997) e ancora Aghion eHowitt (1996; 1998a, Cap.7; 1998b) cercano di riconciliare questa evidenza con il paradigma Schumpeteriano dicrescita con differenziazione verticale del prodotto, considerando tre possibili spiegazioni basate rispettivamente suproblemi di agenzia, la natura tacita della conoscenza e la decomposizione delle attività di R&D in attività di ricerca eattività di sviluppo industriale. Inoltre, in due recenti articoli, van de Klundert e Smulders (1995, 1997) analizzano illegame tra competition and growth in un contesto nel quale le imprese che producono beni tecnologicamente avanzatipossono disporre di conoscenze tecniche specifiche nel produrre innovazioni. Anche questi due ultimi contributioriginano dinamiche interessanti per quanto attiene alla relazione di lungo periodo tra concorrenza e crescita. Problemidi spazio, nonché gli obiettivi specifici che abbiamo deciso di perseguire nel presente articolo, ci impediscono dianalizzare in dettaglio questi interessantissimi contributi.
2626
I lavori che J. Galì pubblica tra il 1994 e il 199637 studiano l'impatto che variazioni nei mark-up
(determinate dalle mutevoli condizioni di domanda) possono avere sulla dinamica di crescita di economie
non concorrenziali. Si tratta di modelli con accumulazione di capitale fisico nei quali esiste una relazione
negativa tra mark-up e stock aggregato della risorsa accumulabile; tale relazione negativa é ciò che
determina l'esistenza di stati stazionari multipli e di situazioni di indeterminacy anche in quei casi in cui
(sotto l'ipotesi che tutti i mercati siano perfettamente concorrenziali) esiste un unico stato stazionario e il
sentiero di equilibrio che conduce a quest'ultimo é stabile (Benhabib e Galì, 1995, pagg. 166-175).38
Per comprendere meglio questo punto, si consideri un'economia nella quale non vi é innovazione (né
orizzontale, né verticale) del prodotto e il caso specifico di un generico produttore (monopolista locale) di
beni intermedi (l'impresa j) che deve decidere se incrementare la quantità di capitale fisico che entra nella
produzione del proprio output. Dalle condizioni del primo ordine per la massimizzazione del profitto di
questo produttore si ottiene:
(25) ( ) δε
+=
−
rkf
Pp
jj
j '11 .
Il primo termine di sinistra nella (25) é il prezzo relativo del j-esimo bene capitale, jε é l'elasticità della
domanda al prezzo fronteggiata dall'impresa j, jk é la quantità di capitale fisico impiegata dalla medesima
impresa e )( δ+r é il costo totale del capitale (r é il tasso dell'interesse e δ il saggio di deprezzamento). In
sostanza, la condizione sopra riportata semplicemente stabilisce che l'impresa monopolista continuerà ad
investire in capitale fisico fino al punto in cui la produttività di una unità aggiuntiva di questo input
(espressa in termini di ricavo marginale) eguagli il costo marginale. La condizione che, invece, avremmo
scritto nel caso in cui il mercato dei beni intermedi fosse stato di concorrenza perfetta é la seguente:
(26) ( ) δ+=
rkf
Pp
jj ' .
Il confronto della (26) con la (25) implica che il mark-up ottimale fissato dal j-esimo monopolista é:
(27)
111
−
−=
jj ε
µ .
Nell'equilibrio simmetrico in cui il prezzo relativo )/( Pp j è uguale per tutti i beni intermedi (e
supposto pari a uno) e inoltre kk j = ; εε =j e µµ =j per ogni j, la (25) può essere riscritta come:
(25') δεµ
−=)()(' kfr .
37 J. Galì (1994; 1995; 1996) e Galì e Zilibotti (1994).38 Il riferimento principale é ovviamente al modello di crescita esogena con un unico settore produttivo di D. Cass(1965) e T.C. Koopmans (1965).
2727
L'intuizione per la presenza di ε nella determinazione di r é la seguente: il monopolista, prima di
investire in una unità addizionale di capitale deve tener conto della riduzione di prezzo che é necessario
praticare al suo prodotto allo scopo di vendere il maggior output (ottenibile proprio con l'impiego di più
capitale). Se l'elasticità della domanda al prezzo é bassa, allora maggiore deve essere la riduzione di prezzo
che andrebbe praticata per raggiungere l'obiettivo sopra menzionato (maggiore sarà la dimensione del mark-
up). La conseguenza sarà, dunque, che il rendimento su quell'unità addizionale di capitale (r) sarà anch'esso
basso.
Sotto le usuali assunzioni della teoria neoclassica della crescita, in base alle quali:
• f'(k) é decrescente e tende a zero per k che tende a infinito;
• µ é costante (e pari a uno, essendo tutti i mercati di concorrenza perfetta),
la (25') é una funzione monotona decrescente rispetto a k (r’(k)<0) e ciò implica che esisterà un unico valore
di k per il quale, in ipotesi di crescita di stato stazionario pari a zero (come nel modello di Cass (1965) e
Koopmans (1965)) é soddisfatta la relazione ρ=r , dove ρ rappresenta il saggio soggettivo di sconto (in
altri termini esiste, sotto le ipotesi appena ricordate, un unico k* di steady state). Se, invece, si assume che
ε (l'elasticità della domanda al prezzo) aumenti con lo stock di capitale (cosicché µ e k sono
negativamente correlati), allora potrebbe esistere qualche range di valori di k in cui risulta che r' k( ) é
maggiore di zero. In questo range, infatti, per successivi incrementi di k, la tendenza ai rendimenti
decrescenti nella accumulazione di capitale ( f ' k( ) decrescente) potrebbe essere più che controbilanciata
dalla riduzione di ))(( kεµ , con il risultato finale che r(k) potrebbe crescere con k. In quest'ultimo caso,
continuando a considerare l'ipotesi di crescita di steady state pari a zero (cosicché in equilibrio ρ=)(kr ),
stati stazionari multipli possono facilmente verificarsi come illustra la seguente Figura 3:
ρ
r(k)
O k
Figura 3La relazione tra il rendimento del capitale e lo stock di capitale consistente con
la presenza di equilibri multipli (Fonte: Gali', 1995, pag.48)
2828
Dato questo contesto teorico, tutti i lavori di Galì (ai quali si é accennato poco più sopra) sono
esplicitamente orientati ad esplorare alternative strutture economiche capaci di generare una relazione
negativa tra mark-up e stock di capitale fisico e, quindi, situazioni di equilibri multipli (come quella
illustrata sopra alle quali l'autore é particolarmente interessato). Come già detto precedentemente, in questi
lavori non vi è innovazione (né di prodotto, né di processo). Sarebbe interessante riuscire ad avere un
modello che combini in qualche modo l’approccio di Galì (con mark-up endogeni) con quelli di Aghion e
Howitt (1992) o Romer (1990a) e Grossman e Helpman (1991, Capp. 3 e 4) – con progresso tecnologico
endogeno e concorrenza imperfetta – allo scopo di vedere se (ed eventualmente come) cambiano le
predizioni di tutti questi ultimi modelli sulla relazione tra concorrenza e crescita sotto la specifica ipotesi
che il potere di mercato a disposizione dei monopolisti locali intermedi non sia più una variabile
esogenamente data.
5. Crescita Endogena ed Effetti di Scala.
Come si è visto nelle pagine precedenti, sia nei modelli nei quali il progresso tecnico si manifesta
attraverso un’espansione del numero di prodotti orizzontalmente differenziati, sia in quelli in cui esso
assume la forma di un continuo miglioramento qualitativo dei beni capitali esistenti, nel lungo periodo il
tasso aggregato di crescita dell’economia risulta una funzione crescente dello stock di capitale umano (o più
semplicemente del numero complessivo di lavoratori) disponibile. Questo effetto è noto come effetto di
scala.
L’idea che la scala dell’economia possa rappresentare un importante fattore di crescita economica
non è affatto recente, essendo stata proposta per primi da Nelson e Phelps (1966). Secondo questi
economisti, infatti, la dimensione della popolazione è correlata positivamente con lo stock di capitale umano
(e in particolare con il numero di impiegati nel settore della Ricerca e Sviluppo) di una nazione che, a sua
volta, è l’elemento cruciale che permette tanto di spostare verso l’alto la frontiera tecnologica39 quanto di
applicare (e/o adattare) internamente tecnologie in qualche modo importate dall’estero (anche tramite il
commercio in beni e servizi ad elevato contenuto tecnologico). Evidentemente questo approccio differisce
da quello di Becker (1964) e Lucas (1988), secondo cui è il tasso di accumulazione di capitale umano
(piuttosto che il suo stock) a contare di più per la crescita economica di lungo periodo di un paese.40
Recentemente, l’ipotesi di Nelson e Phelps (1966) è stata oggetto di numerosi lavori che, a seconda dei casi,
ne hanno evidenziato sul piano empirico la fondatezza ovvero l’implausibilità. Benhabib e Spiegel (1994),
39 Ciò vale evidentemente soprattutto per i Paesi già industrializzati o ad avanzato stadio di industrializzazione.40 Per una digressione più approfondita circa l’influenza rispettivamente dell’accumulazione e dello stock di capitaleumano sulla performance di lungo periodo di una nazione si veda Aghion e Howitt, 1998a (cap. 10).
2929
per esempio, sottolineano che i Paesi che hanno accumulato capitale umano più rapidamente tra il 1965 e il
1985 non coincidono esattamente con quelli che nell’arco dello stesso periodo temporale sono cresciuti in
termini pro-capite a saggi più elevati e mostrano che la crescita è un fenomeno essenzialmente legato al
livello iniziale dello stock di capitale umano. In altri termini, essi provano empiricamente l’assoluta
plausibilità dell'ipotesi di Nelson e Phelps (1966) e allo stesso tempo forniscono ulteriore supporto a tutti
quei modelli teorici (tra i quali anche gli R&D-based growth models) nei quali la crescita é influenzata
anche dalle caratteristiche dimensionali di una economia.
Allo stesso tempo, tuttavia, Jones (1995a,b) in due lavori tra di loro collegati mostra che per i Paesi più
industrializzati l’ipotesi di effetto di scala non trova assolutamente il conforto dei dati e, di conseguenza,
andrebbe rigettata (in particolare egli non trova alcuna correlazione per i Paesi OCSE tra il livello
dell’occupazione nel settore della ricerca e il tasso di crescita di lungo periodo).41 Questi due contributi di
Jones sono risultati così autorevoli in letteratura che, sul piano teorico, diversi altri studiosi hanno tentato di
costruire modelli di crescita con progresso tecnologico endogeno, ma senza effetti di scala. Young (1998),
Aghion e Howitt (1998a, cap.12), Dinopoulos e Thompson (1998) e Howitt (1999), per esempio, analizzano
una economia nella quale l'innovazione è di due tipi: migliora la qualità dei beni intermedi esistenti
(differenziazione verticale) ed espande il numero di varietà degli stessi beni (differenziazione orizzontale).
La crescita dipende dal numero di ricercatori allocati a ciascuna varietà. In quest'ultima classe di modelli
l'aumento della scala del sistema economico espande in proporzione diretta il numero di beni capitali
disponibili lasciando però inalterato il numero di ricercatori che lavorano in ciascuna linea di prodotto e, di
conseguenza, il saggio di crescita di equilibrio. In altri modelli (per esempio Segerstrom, 1998 e Kortum,
1997), come in Jones (1995a), un effetto di scala continua tuttavia a manifestarsi, ma solo nel livello del
reddito reale pro-capite, cosicchè è l'aumento del tasso di crescita della popolazione (e non semplicemente
del suo stock) a determinare un proporzionale incremento del saggio di crescita del prodotto per
lavoratore.42
In definitiva nulla di assolutamente conclusivo può dirsi attorno alla rilevanza (e allo specifico
modo) con cui nella realtà, e nell’ambito del processo di crescita di un Paese, si manifestano i cosiddetti
effetti di scala, come testimoniato dalla contrastante letteratura (anche teorica) esistente in materia.
41 Anche Bratti et al. (2001) trovano evidenza di assenza di effetti di scala in un modello che disaggrega il capitaleumano in capitale umano primario, secondario e terziario e che considera un vasto campione di Paesi tra lorodifferenziati a seconda del rispettivo stadio di sviluppo economico. Per completezza bisognerebbe notare che i primi amettere in dubbio la relazione tra la crescita del PIL pro capite e la scala dell’economia sono stati Backus et al. (1992).42 Altri lavori che eliminano l’effetto di scala sono anche Bucci (2001), Blackburn et al. (2000), Arnold (1998) ePeretto (1998). Eicher e Turnovsky (1999) presentano un modello generale di crescita e trovano le condizioni sotto lequali un “non-scale balanced growth path” può emergere. Queste condizioni attengono rispettivamente: a) alle formefunzionali impiegate; b) alla struttura produttiva dell’economia; c) ai rendimenti di scala con cui sono utilizzati gli inputnei diversi settori. Peretto e Smulders (1998) offrono un ulteriore esempio di come (questa volta almenoasintoticamente) l'effetto di scala in modelli di crescita e innovazione possa essere eliminato. Per recenti rassegne chetrattano esclusivamente di questa letteratura si vedano Aghion e Howitt (1998a), C. Jones (1999) e Dinopoulos eThompson (1999).
3030
6. Conclusioni.
I pionieristici contributi di Solow (1956; 1957) hanno permesso di dimostrare che la semplice
accumulazione di capitale fisico non è di per sé sufficiente a spiegare i continui incrementi di produttività
che hanno luogo nel tempo: il progresso tecnico, cioè, gioca un ruolo di primo piano nel processo di crescita
di lungo periodo di un sistema economico. Allo stesso tempo, e proprio per la sua funzione di fondamentale
motore della crescita, esso non può essere considerato semplicemente alla stregua di manna from heaven.
A partire da questa premessa, nelle pagine precedenti sono stati passati in rassegna i principali contributi
che hanno tentato di “spiegare” il cambiamento tecnologico, con particolare attenzione a quelli di P. Romer
(1990a), Grossman e Helpman (1991, Cap. 3) e Aghion e Howitt (1992). Questi lavori, conosciuti in
letteratura come la prima generazione di R&D-based growth models, rappresentano un autorevole tentativo
di legare la performance di crescita di una nazione alla quantità di risorse in essa consapevolmente investite
in attività di ricerca e sviluppo da parte di imprese che massimizzano i profitti. Essi, inoltre, partono
esplicitamente dall’assunto secondo il quale l’esistenza di un incentivo nella forma di potere di mercato ex-
post é essenziale per l'attività innovativa. I lavori passati in rassegna in questo articolo ci consentono di
raggiungere due importanti conclusioni. Innanzitutto, la relazione di lungo periodo tra concorrenza
imperfetta nel mercato del prodotto e crescita aggregata è robusta e assolutamente positiva nei modelli in
cui il progresso tecnico si manifesta attraverso un continuo miglioramento qualitativo apportato a beni
capitali già esistenti (vertical differentiation (quality ladder) growth models). L’intuizione che nelle pagine
precedenti è stata data di questo risultato è molto semplice: in presenza di differenziazione verticale le
rendite di monopolio acquisite con l’innovazione possono non durare per sempre, esistendo la possibilità
che siano erose da un successivo potenziale innovatore di successo. Questo rischio rappresenta per sua
stessa natura uno stimolo alla continua introduzione di nuove innovazioni e consente altresì di innescare un
circolo virtuoso tra desiderio di mantenere la leadership di mercato (monopolio), investimenti in ricerca e
sviluppo e crescita economica.
In secondo luogo, la stessa relazione tra concorrenza imperfetta e crescita aggregata di lungo periodo non
sembra affatto essere robusta allorché il progresso tecnico si manifesti attraverso la continua introduzione di
beni tecnologicamente avanzati (expanding variety growth models). Allo scopo di dimostrare quest’ultimo
risultato abbiamo introdotto un modello generalizzato di crescita con differenziazione orizzontale di
prodotto e attività di Ricerca e Sviluppo perfettamente deterministica. Ciò che notiamo è che in questo caso
la relazione tra potere di mercato e crescita è decisamente non monotona e la sua forma finale viene a
dipendere crucialmente dal modo con cui sono fatte le funzioni di produzione e dal tipo di inputs che
entrano in esse.
Nella seconda parte dell’articolo si sono passati in rassegna quei contributi che hanno cercato di
risolvere i due problemi più importanti che, secondo noi, emergono da questa generazione di modelli di
3131
crescita con progresso tecnologico endogeno, ovvero la presenza di mark-up esogeni e di effetti di scala
legati all’attività innovativa.
Ciononostante, tutta una serie di importanti questioni restano ancora aperte. In primo luogo vi è il
problema della diffusione della tecnologia che continua ad essere un argomento alquanto trascurato
nell’ambito della teoria della crescita basata sulle innovazioni. In questo ambito di ricerca, infatti, l’ipotesi
che in genere viene fatta è quella secondo la quale l’informazione tecnica presente in una nuova
innovazione (brevetto) si diffonda istantaneamente all’intero sistema economico, risultando anzi necessaria
per l’invenzione di tutti i successivi nuovi prodotti e/o processi produttivi. Sebbene in principio una delle
principali caratteristiche della conoscenza tecnica sia la sua cumulatività (il fatto cioè che essa avanza a
partire dalle conoscenze fino a quel momento raggiunte), esiste un ampio corpo di letteratura empirica che
suggerisce che nella realtà gli spillover tecnologici tra imprese (e tra paesi) non sono né così immediati né
così ampi (Keely, 2001).
Collegato a questo, esiste un altro punto sul quale converrebbe che la ricerca futura si soffermasse
maggiormente e che ha a che fare col ruolo del governo nelle politiche della crescita. Assumiamo pure per
un istante che il potere di mercato delle imprese (ottenuto ad esempio, come suggeriva Schumpeter (1942),
attraverso la concessione di un brevetto) abbia sempre effetti positivi per l’innovazione e dunque lo
sviluppo di lungo periodo. In queste condizioni esiste una durata ottimale del brevetto che consenta di
massimizzare il tasso di crescita del reddito pro-capite di un sistema economico? La questione non è affatto
irrilevante se si pensa che in tutti i modelli di crescita con attività di R&S l’ipotesi generalmente presente è
quella secondo la quale la durata del brevetto sia sempre infinita (expanding variety growth models) e al
limite cessi nello stesso istante in cui si manifesti un’innovazione superiore alla precedente (quality lader
growth models). Nella vita di tutti i giorni i brevetti non hanno vita infinita ed esistono delle agenzie
governative che hanno come loro compito istituzionale proprio quello di determinare la durata di un
brevetto in relazione agli specifici progressi della conoscenza in esso incorporati. Se tutto ciò è vero, sarà
dunque altrettanto vero che il governo può influenzare direttamente gli incentivi degli agenti privati ad
innovare utilizzando la durata del brevetto come strumento di politica economica. Per quanto ci è dato di
sapere, questo problema, sebbene ampiamente riconosciuto (O’Donoghue e Zweimüller, 1998) non è
ancora stato affrontato in maniera organica dalla moderna teoria della crescita.43
Nella misura in cui si crede nell’innovazione tecnologica come ad uno tra i più importanti motori dello
sviluppo di lungo periodo, allora la ricerca futura non può sottrarsi dal dare una risposta il più possibile
convincente ed adeguata anche a questi interrogativi.
43 Un’eccezione è rappresentata da due articoli rispettivamente di Michel e Nyssen, 1998 (per un modello di crescitacon differenziazione orizzontale di prodotto) e Bucci e Saglam, 2000 (nel caso di differenziazione verticale).
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