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DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE AZIENDALI E STATISTICHE Via Conservatorio 7 20122 Milano tel. ++39 02 503 21501 (21522) - fax ++39 02 503 21450 (21505) http://www.economia.unimi.it E Mail: [email protected] Pubblicazione depositata ai sensi della L. 106/15.4.2004 e del DPR 252/3.5.2006 TASSONOMIA, TOPOLOGIA E TIPOLOGIA DEI SISTEMI PRODUTTIVI LOCALI IN ITALIA: UN TENTATIVO DI SINTESI LUCIANO PILOTTI MARIA VERNUCCIO ANDREA GANZAROLI Working Paper n. 2011-22 OTTOBRE 2011

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE AZIENDALI E STATISTICHE

Via Conservatorio 7 20122 Milano

tel. ++39 02 503 21501 (21522) - fax ++39 02 503 21450 (21505) http://www.economia.unimi.it

E Mail: [email protected]

Pubblicazione depositata ai sensi della L. 106/15.4.2004 e del DPR 252/3.5.2006

TASSONOMIA, TOPOLOGIA E TIPOLOGIA DEI SISTEMI PRODUTTIVI LOCALI IN ITALIA:

UN TENTATIVO DI SINTESI

LUCIANO PILOTTI MARIA VERNUCCIO ANDREA GANZAROLI

Working Paper n. 2011-22

OTTOBRE 2011

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Tassonomia, topologia e tipologia dei sistemi produttivi locali in Italia: un tentativo di sintesi1

di Luciano Pilotti, Maria Vernuccio , Andrea Ganzaroli

Università di Milano e Università di Roma La Sapienza

INDICE

Introduzione

1 – Peso e consistenza dell’economia distrettuale in Italia: alcuni dati descrittivi

2 – L’evoluzione teorica nelle rappresentazioni dei sistemi produttivi locali: un quadro di sintesi

2.1 – Competitività e sistemi di imprese 2.2 – Competitività, tecnologie e ruolo della conoscenza 2.3 – Competitività e communities nell’integrazione cognitivista

3 – La prospettiva ecologica: i Sistemi produttivi locali d’impresa verso “Sistemi Territoriali Vitali” ed “Ecologie del valore”

3.1 – Quali sistemi tra “vitalismi ed ecologie”: oltre la requisite variety di Ashby? 3.2 – Formiche, formicai e stormi di storni: quasi una biforcazione non adattativa e

implicazioni manageriali 4 – Un tentativo di tassonomia: tra saperi, cooperazione e leadership partecipativa, tra storia,

cultura e azione

5 – Una possibile topologia: alcuni casi rappresentativi tra semplice e complesso, tra locale e globale

6 – Le politiche industriali tra best practice e sistemi ecologici emergenti: dalla centralizzazione alla governance partecipativa

7 – Bibliografia

                                                            1 Paper presentato al Convegno nazionale AIDEA – Accademia Italiana di Economia aziendale , Perugia, 11‐13 ottobre 

2011. Questo lavoro ha parzialmente usufruito del finanziamento PRIN 2008‐2010 dal titolo Varietà Imprenditoriale, 

cross‐culture management e governante nei sistemi produttivi locali e metropolitani (di cui è responsabile nazionale il 

prof. Luciano Pilotti del DEAS dell’Università di Milano) e di un cortese contributo di ricerca della Fondazione CRT‐

CUEIM‐Sinergie (2011). 

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Introduzione

Secondo autorevoli fonti nazionali l’economia distrettuale si è dimostrata ancora una volta fondamentale per la crescita e lo sviluppo del nostro Paese, segnalando una sostanziale “tenuta” dopo la crisi iniziata nel 2007, della quale non si vede ancora un’uscita certa. Le regioni a maggior “peso di distrettualizzazione” hanno registrato tassi di de-crescita inferiori rispetto alla media e nel 2010 i primi segnali di crescita2. Non tutte queste aree tuttavia, sono cresciute nel tempo allo stesso modo. Alcune hanno registrato performance anche molto negative rispetto al trend nazionale a testimonianza di difficoltà che non sono ascrivibili alle sole contingenze, se pur eccezionali, del momento. Le crisi - come noto - costituiscono un’eccezionale opportunità di apprendimento ed è in queste condizioni, infatti, che emergono con maggior chiarezza i punti di forza e di debolezza che sono alla base del successo (o dell’insuccesso) di un’impresa e/o di un sistema produttivo locale nel caso italiano. Questo contributo costituisce, quindi, un iniziale tentativo di sistematizzare alcune prime evidenze sulla sostenibilità e resilienza dell’economia dei distretti industriali e, più in generale, dei sistemi produttivi locali in un orizzonte temporale che abbraccia quasi l’intero secondo dopoguerra. A questo scopo, formuleremo una ricostruzione tassonomica delle varie forme evolutive che si sono succedute nel tempo e a conclusione di questo lavoro, sarà proposta una “topologizzazione” utile a identificare casi rappresentativi dai quali fare derivare specifiche tipologie di local industrial policy atte a sostenere la competitività di questi sistemi.

La variabile chiave, che qui si è scelta al fine di rileggere l’evoluzione competitiva dei sistemi produttivi locali, è la complessità dei sistemi concorrenziali letta nel caleidoscopio delle relazioni duplici, da una parte, tra locale e globale e, dall’altra, tra materiale e immateriale. L’ipotesi, in altre parole, è che la traiettoria che ha caratterizzato l’evoluzione dei sistemi territoriali locali italiani, in particolare a partire dalla forma più semplice - il distretto marshalliano - sino ad arrivare alle forme più complesse - le ecologie del valore – sia ricostruibile a partire da un progressivo aumento della complessità assegnato alle diverse forme distrettuali. Queste si sono via via evolute come modalità di aggregazione di imprese in un sistema territoriale circoscritto, ma non chiuso, sviluppando forza, robustezza e persistenza adattativa ben oltre le contingenze che si sono affollate nella storia economica recente del dopoguerra: dimensione contenuta, frammentazione, flessibilità, bassi costi del lavoro, sottocapitalizzazione, debolezza o assenza della rappresentanza sindacale, ecc. Una complessità che, come vedremo, è definibile lungo tre variabili principali:

1. forme tecnologiche, legate all’ampiezza e alla varietà degli ambiti tecnologici coinvolti, seppure in contesti di medio contenuto tecnologico, che hanno alimentato la divisione tecnica del lavoro prima e cognitiva poi;

2. forme di apprendimento, legate ai modi di apprendere delle imprese e del sistema nel suo complesso passando da forme puramente istruttive a forme che prevedono crescente interazione e co-evoluzione emergente tra le parti, tra agenti, network e istituzioni;

3. forme di governance, come meta-strutture capaci di creare compatibilità tra complessità interna ed esterna di interi territori, attraverso interazioni inter-impresa: di network, di filiera, di area settoriale e territoriale, generando esternalità via via internalizzate a vantaggio di intere popolazioni d’impresa localizzate.

Alla luce di queste tre variabili “endogene” evidenzieremo come, anche al variare delle condizioni esterne, molti sistemi territoriali locali siano evoluti divenendo essi stessi più complessi sia a livello di rete – varietà, ridondanza dei e interdipendenza non lineare tra i nodi –, sia a livello tecnologico, sviluppando piattaforme sempre più inter-settoriali e multi-tecnologiche, sia di governance, sviluppando forme di auto-organizzazione emergenti basate su reticoli di feedback interno-esterno: alla rete di appartenenza, alla filiera di adozione o alla stessa area territoriale di origine. Nello specifico mostreremo che il continuo aumento della complessità esterna si è tradotto in una progressiva espansione del contesto spaziale di riferimento verso legami inter-distrettuali e inter-regionali, tra network e tra filiere o piattaforme tecnologiche. Il sistema industriale distrettuale da unità mono-locale/mono-specializzato e chiuso su se stesso nella “fabbrica

                                                            2 Varie fonti: Banca d’Italia (2010); ISTAT (2010); Club dei Distretti (2010).

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marshalliana diffusa” si trasforma in molti casi sempre più in una struttura multi-locale e multi-specializzata aperta, socialmente condivisa, con una (o più) comunità di valori e con una rete estesa di istituzioni locali e multi-locali. Un’evoluzione nel senso descritto dagli studi di Giacomo Becattini già negli anni ’70 che ne corroborano le trasformazioni e le evoluzioni, raggiungendo in alcuni casi la scala interdistrettuale, quella metropolitana e anche la scala regionale di innovazione. Contesti di innovazione allargata, dunque, dove le originarie forme distrettuali tecno-sociali hanno svolto una funzione replicativa, prima, connettiva e riflessiva, poi, mutando le proprie configurazioni e modalità di adattamento.

In questo senso, la competitività di un territorio non è più leggibile entro i ristretti ambiti della contiguità spaziale in funzione di una divisione tecnica del lavoro tra imprese alimentata da shock esogeni della domanda, ma assume sempre più forma trans-regionale e trans-nazionale spingendo, quindi, anche il contesto istituzionale di riferimento verso questa dimensione. Dall’altra parte, anche le strutture di governance diventano sempre più complesse. Si passa, infatti, da una fase sorgente dove il controllo è prevalentemente esterno al distretto ad una fase successiva dove questo viene sempre più “baricentrato” all’interno del sistema e orientato spesso da imprese guida che fanno da interfaccia tra i mercati e le popolazioni di sub-fornitori locali. Nell’ultima fase, però, assistiamo ad un fenomeno nuovo ovvero la governance territoriale assume sempre più i caratteri di un processo emergente e auto-organizzato. Questo significa che non è più possibile identificare un soggetto o una coalizione di soggetti interni o esterni al sistema che si occupa di strutturare ed ordinare i comportamenti a priori. La governance emerge direttamente dall’interazione tra le sue parti, che godono di ampia autonomia strategica e decisionale e si coordinano in modo spontaneo mediante la condivisione di esternalità di rete, che li unisce e li rende parte di uno stesso sistema semi-aperto o semi-chiuso a seconda delle circostanze e dei contesti storico-istituzionali.

La struttura del lavoro è la seguente. Il prossimo paragrafo è dedicato in primo luogo a fornire alcuni dati sintetici sul peso e sul rilievo nazionale dell’economia distrettuale nel contesto italiano alla quale seguirà, in secondo luogo, una review della letteratura sui sistemi produttivi locali a partire dalle proposizioni originarie di stampo Marshalliano sino ad arrivare alla letteratura più recente sui Regional Innovation System e passando per le molteplici configurazioni di sistemi produttivi locali e dunque alle forme ecologiche. L’obiettivo è quello di perimetrare, seppure in via sintetica, le basi teoriche su cui ricostruire la traiettoria co-evolutiva articolata e complessa che ha dato forma ai sistemi territoriali di riferimento e a cui queste teorie si riferiscono. In questo quadro, alla fine sarà assegnata più attenzione alle famiglie teoriche rappresentative del dibattito più recente. La prima è quella dei sistemi territoriali vitali. La seconda, più recente, è quella delle ecologie del valore. La scelta di dedicare maggior spazio a queste due teorie è legata al fatto che entrambe, anche se in modo diverso, in parte integrano e completano approcci precedenti e, tuttavia, si caratterizzano per una visione complessa di questi sistemi o, come meglio diremo, eco-sistemi. Completata questa fase di ricostruzione teorica pur sintetica e certo non esaustiva, nelle due sezioni successive saranno sviluppati rispettivamente una tassonomia e una topologia delle forme distrettuali o dei SPL emergenti nei diversi contesti territoriali italiani per poi concludere con una “tipologizzazione” delle local industrial policy adatte a sostenere il modello endogeno dello sviluppo locale. L’obiettivo non è solo fornire strumenti di sintesi utili a classificare le forme dei SPL e i processi evolutivi che le hanno generate, ma indicare anche guidelines ai fini di una governance partecipativa, che definisca un corpo di azioni (mission) da implementare per sostenere al meglio la competitività di questi eco-sistemi complessi nel medio-lungo termine, integrate alla loro cultura (riconoscibilità) e storia (identità) più recente.

1 - Peso e consistenza dell’economia distrettuale in Italia: alcuni dati descrittivi

In un recente contributo di analisi empirica pubblicato su Regional Studies a cura di un gruppo di economisti regionali italiani, è stato dimostrato che, guardando alle dinamiche esportative italiane del periodo 1995-20053, le province dove è presente almeno un distretto riconosciuto dall’ISTAT (sono circa 60) hanno segnalato un vantaggio comparato di settore superiore rispetto alle province dove non sono presenti o

                                                            3 Si utilizza la classificazione delle Attività Produttive dell’ISTAT (CPAteco). 

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rilevati distretti. Ciò significa che le province “distrettuali” evidenziano un pattern esportativo nella specializzazione del commercio internazionale superiore rispetto alle province che, pur in presenza di imprese esportatrici, non hanno alcun distretto specifico nel proprio territorio in quel settore. Si conferma, inoltre, che le province distrettuali del Nord e del Centro rispetto alle province “distrettuali” del Sud sono più specializzate in termini di vantaggio comparato calcolato attraverso il modello proposto da Balassa nel 19654.

Il lavoro sopra citato già anticipa elementi analitici di rilievo circa la consistenza dinamica dell’economia distrettuale e, tuttavia, si limita a segnalare il “peso” esportativo e specializzativo delle province “distrettuali” rispetto alle “non-distrettuali”. In questo senso si riveleranno utili - seppure in modo non conclusivo - alcuni dati aggiuntivi relativi all’andamento della consistenza economica e industriale differenziale complessiva per le due tipologie di struttura industriale a livello territoriale-provinciale al fine di pesare opportunamente il valore prodotto nei due contesti circa il contributo alla produzione di ricchezza nazionale aggregata e come questo è evoluto nel tempo in dati di occupazione e/o di valore aggiunto.

Va ricordato che l’economia italiana, come noto, è caratterizzata quasi esclusivamente da PMI. Infatti, come ci segnalano i dati dell’ISTAT nel 2009, del tutto confermati dalle indagini annuali della Banca d’Italia, il sistema industriale italiano è fondato su un numero di imprese ridottissimo nella classe con più di 250 dipendenti (3.418 imprese pari all’0,08% del totale), mentre ben 4,38 milioni di imprese mostrano una dimensione inferiore ai 50 dipendenti e dunque a rappresentare il 99,4%. Conseguentemente, il residuo 0,52% (circa 21.000 imprese) mostra appunto una dimensione tra 50 e 250 dipendenti. La distribuzione intersettoriale è nota e non la riprenderemo, confermandosi la centralità di un portafoglio industriale concentrato in settori a basso contenuto di valore aggiunto anche se ad alto potenziale esportativo.

La dimensione media si era via via accresciuta fino alla seconda metà degli anni ‘60 per ridursi progressivamente nei decenni successivi, funzione di una contrazione dell’occupazione nelle grandi imprese manifatturiere. Una contrazione di lungo periodo, dovuta prevalentemente all’auto-alimentazione tra crisi energetiche, maggiori prezzi delle materie prime, trasferimento di questi maggiori costi sui prezzi dei prodotti intermedi e finiti, accresciuti costi del lavoro e tassi inflazionistici, che nel complesso hanno portato ad una riduzione dei margini di profitto delle grandi imprese e, dunque, dei loro tassi di crescita. In assenza di politiche industriali selettive e di liberalizzazioni competitive il sistema industriale italiano ha seguito l’unica strada possibile per competere sui mercati internazionali, quella di una de-verticalizzazione sostenuta da una caduta del cambio per assecondare le politiche esportative delle PMI sui mercati esteri. Alle imprese minori era, infatti, consentita quella flessibilità nell’uso della capacità produttiva e un livello specializzativo tale da compensare la caduta nelle economie di scala, consentendo peraltro la trasformazione e il consolidamento imprenditoriale di un Paese agricolo e senza istruzione, che usciva dal conflitto post-bellico altamente provato e con ridotte risorse infrastrutturali.

Con gli anni ’70 assistiamo al consolidarsi della transizione di un modello industriale del Paese, che si concentrava prevalentemente nel Nord-Ovest con imprese medio-grandi (Piemonte, Lombardia e Liguria), ad un modello di industrializzazione diffusa territorialmente, che transitava lungo la pedemontana sub-alpina in direzione Nord-Est (Veneto e Friuli Venezia Giulia) e – nei primi anni ’80 – contemporaneamente verso la dorsale adriatica e quella tirrenica con il rafforzamento di aree distrettuali toscane. All’inizio degli anni ’90 vedremo l’emergere di segnali di distrettualizzazione in alcune regioni del Centro (Marche e Lazio) e del Sud (Puglia e Campania), seguite successivamente da alcune isolate aree siciliane e sarde.

Il modello di distrettualizzazione diffusa emergente dunque - come ampiamente noto - si concentra su alcune aree settoriali e portafogli produttivi con contenuto medio-basso di valore e di tecnologia (ad esempio, tessile-abbigliamento, arredo, calzature, alimentare, sistema moda, componentistica meccanica, sport system), tipici del Made in Italy, ma capaci di offrire varietà e flessibilità adattativa in linea con il variare rapido della domanda nazionale e internazionale, associando buoni prezzi ad un buon livello

                                                            4 Cfr. Amighini, Leone, Rabellotti (2010).

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qualitativo e accoppiando ampia gamma produttiva e/o iper-specializzazione della componentistica con alto contenuto di design.

Un processo di diffusione localizzata delle PMI orientato alla varietà che procedeva cambiando radicalmente l’organizzazione della produzione, ricercando attraverso la specializzazione flessibile e le diffuse economie esterne di compensare gli svantaggi di minori economie di scala dimensionali e che, tra gli anni ’60 e ’80, ha generato anche lo sviluppo e il consolidamento di un modello incentrato appunto sui cosiddetti distretti industriali. Questi ultimi, negli anni ’90 hanno superato le 200 unità, dividendosi tra mono-settoriali e multi-settoriali5, fino ad anni più recenti dove assistiamo alla loro selezione e diversificazione interna6 verso la “sostenibilità” per uscire dalla crisi in corso7, che è seguita alla de-industrializzazione avviatasi a metà degli anni ’90 a partire dalla Lombardia e dal Nord-Ovest8.

Di questa ricca messe di distretti via via cresciuti negli ultimi 40 anni, l’ISTAT ne censisce 199, che concentrano il 40% delle aziende manifatturiere, realizzando circa il 27% del PIL e ben il 46% dell’export. Le cinque maggiori regioni che vedono risiedere sul proprio territorio il maggior numero di sistemi territoriali locali (distrettuali e/o multi distrettuali) sono anche quelle che contribuiscono maggiormente alla ricchezza nazionale, come si evince dalla tabella 19, ossia a ridistribuire la stessa verso regioni meno ricche, come si mostra nel saldo entrate-spese derivate dalla Banca Dati Conti territoriali del Ministero dello Sviluppo Economico 10.

                                                            5 Cfr. Ferrero (1992); Amatori, Colli (2001); Quadrio Curzio, Fortis M. (2002); Ricciardi (2003). 6 Cfr. Becattini (2007). 7 Cfr. Rullani (2010a). 8 Cfr. Pilotti, Rullani et al. (2002). 9 Cfr. CNEL (2010). 10  Va inoltre segnalato che secondo la Banca dati Conti Pubblici del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Ministero dello Sviluppo Economico (2010), nove regioni presentano un residuo fiscale attivo tra 2002 e 2007, ovvero restituiscono più di quanto ricevono e sono in ordine decrescente (Saldo entrate-spese 2007 - valori in euro procapite a prezzi costanti): Lombardia (6.068), Lazio (4.121), Veneto (3.908), Emilia Romagna (3.851), Piemonte (2.408), Toscana (2.165) e Marche (1.540). Queste sono anche le Regioni più distrettualizzate. Il Trentino Alto Adige passa da un saldo negativo ad uno positivo e il Friuli VG ridimensiona fortemente il proprio saldo negativo, così come l’Umbria. Tutto il Mezzogiorno evidenzia, invece, un saldo negativo ma le due regioni più distrettualizzate come la Puglia e la Campania evidenziano il saldo negativo minore e in via di ridimensionamento rispetto al 2002. La Valle D’Aosta mostra il saldo negativo più rilevante in assoluto nel 2002 (-3.508) e tuttavia anche questo in via di ridimensionamento a - 2.556 nel 2007, pur rimanendo il più alto in assoluto, seguito da quello di Sicilia, Calabria e Basilicata. Ciò mostra che le distanze relative tra Nord e Sud si mantengono rilevanti guardando a prossimi assetti federalisti dello Stato, ma è significativo rilevare come questa dinamica positiva si accompagni al consolidamento della presenza a livello regionale di aree distrettuali dinamiche. Essendo, infatti, il residuo fiscale dato dalla differenza tra tutte le entrate (fiscali e di altra natura che intervengono nel periodo di riferimento) che le AP (Stato centrale, Regioni ed Enti Locali) prelevano da un certo territorio e le risorse che nello stesso territorio vengono spese, se ne ha lo stato dell’avanzo o disavanzo finanziario.

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Tabella 1 - Regioni a più elevato tasso di distrettualizzazione rispetto alla ricchezza prodotta e all’occupazionea

Regioni PIL p.m.

(Euro, media 2008-09)

PIL procapite

(Euro, 2007)

Δ% PIL

(1995-2007)

Occupati Tot.

(media 2008-09)

Δ% Occupati

(1995-2007)

Numero

Comuni b

2001

Numero

Distretti c

2009

Numero

Settorid

2009

Lombardia 21% 33.300 18,5% 19% 16,5% 845 44 6

Lazio 11% 30.162 21% 10% 22,2% 26 5 3

Veneto 9,5% 30.038 23,5% 9,3% 19,1% 359 26 5

Emilia R. 8,9% 31.746 21,5% 8,7% 18,6% 114 22 5

Toscana 6,7% 28.181 19,3% 7% 14,1% 85 23 7

Sub-totale 57,1% 54% 1.429 120

Piemonte 8,1% 28.366 13% 8,1% 14% 336 16 5

Friuli VG 2,3% 29.065 20,4% 2,3% 15,2% 54 7 3

Marche 2,7% 26.166 27,4% 2,9% 20,4% 200 33 6

Sub-totale 70,2% 67,3% 590 56

Campania 6,1% 16.687 17% 7,1% 9,7% 32 17 4

Sicilia 5,6% 17.023 17% 6% 11% 5 5 3

Puglia 4,5% 17.264 17,2% 5,3% 8,5% 34 15 5

Totale 86,4% 25.862 19% 85,7% 15,3% 2.090 213 8

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT e Ministero dell’Interno 2010.

Legenda:

a La ricchezza viene misurata attraverso il PIL ai prezzi di mercato (media 2008-2009), il PIL procapite (2007) e la variazione del PIL (dal 1995 al

2007). Con riferimento all’occupazione, si riportano i dati relativi all’occupazione totale (2007) e alla variazione di occupati totali (1995-2007).

b Dati riferiti ai Comuni coinvolti nei 156 distretti italiani censiti nel 2001 dall’ISTAT.

c Dati riferiti agli associati al Club dei Distretti e alle aree distrettuali a questi collegate.

d Vengono considerati otto macro-settori: meccanica, tessile-abbigliamento, plastica-gomma, pelli-calzature, oreficeria, prodotti per la casa-arredo,

carto-tecnica e alimentari. Si tratta di un paniere di settori che sottodimensiona l’effettivo portafoglio industriale, soprattutto nelle componenti innovative ed emergenti a base intersettoriale. Si pensi ad aree distrettuali nate negli ultimi 20 anni come il biotech emiliano romagnoli. L’agro-industria veneta, l’ortottica toscana, l’aero industria campana, la ceramica avanzata romagnola o l’industria delle barche da diporto toscane (Lucca) ed emiliano romagnolo, ecc.

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Figura 1 – I distretti industriali in Italia

Fonte: Club dei Distretti (2010), dati tratti da ISTAT su 157 distretti italiani.

Nel loro insieme le prime 5 regioni contribuiscono per oltre il 58% del PIL nazionale (54% dell’occupazione), che diventa il 71% (e 68% dell’occupazione) se aggiungiamo altre tre regioni “distrettuali” come il Piemonte il Friuli Venezia Giulia e le Marche. Inoltre, se aggiungiamo il contributo della Puglia - che sembra completare lo sviluppo delle PMI lungo la dorsale adriatica - e della Campania, e Sicilia (per la dorsale tirrenica), dove aree distrettuali sono presenti in modo significativo dagli anni ’80 e ’90, raggiungiamo una quota di PIL Nazionale di oltre l’86% con un’occupazione complessiva (indipendente e dipendente) pari all’87% a livello nazionale.

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Un divario territoriale che, seppure con qualche cambiamento positivo, viene confermato anche da dati EU-15:

- capacità di attrazione di investimenti esteri (investimenti netti dall’estero in Italia su investimenti diretti netti EU-15): 2,4% attribuito al Mezzogiorno e 35,4% al Centro-Nord.

- Grado di indipendenza economica (importazioni nette sul Pil): al 2006 è nel Mezzogiorno del 22,4% e nel Centro Nord del – 4,4% con al centro l’“effetto trainamento” della regione Lombardia.

- Capacità innovativa (spesa sostenuta per attività di R&S intra-muros della PA, dell’Università e delle imprese pubbliche e private come quota sul Pil): nel quadro di un sistema nazionale in ritardo rispetto alla media europea, nel 2006 il ranking delle regioni è Piemonte e Lazio, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, seguite da Campania, Toscana e Abruzzo, allo stesso livello delle regioni a statuto speciale come il Friuli V.G. e la Sicilia, mentre il Veneto insegue al pari di regioni come la Puglia e la Basilicata11. La Valle d’Aosta è la regione fanalino di coda.

- Capacità di esportare (valore export merci sul Pil): emerge il ruolo trainante del Nord-Est e in particolare in ordine Friuli V.G., Veneto, Emilia Romagna, seguite da Lombardia e Piemonte, mentre nel Mezzogiorno emergono la Basilicata e la Sardegna seguite dal Lazio. Nel primo caso certo il ruolo di Melfi nei mezzi di trasporto contribuisce ad elevare la capacità di esportare prodotti ad elevata o crescente produttività o ad elevata crescita della domanda mondiale.

Il ruolo delle regioni cosiddette a elevato tasso di distrettualizzazione risulta evidente. Tuttavia, in un lavoro di Barca del 200612 si dimostra che grazie alla crescita delle esportazioni - che raddoppiano tra il 1999 e il 2005 – del turismo e, almeno fino al 2001, degli investimenti privati, il Mezzogiorno presenta in termini differenziali una crescita della produttività maggiore del Centro-Nord in forma virtuosa: dunque funzione della maggiore competitività piuttosto che della maggiore spesa pubblica, come invece avvenuto nei decenni precedenti. Qualcosa nel Sud è cambiato, ma non abbastanza per segnalare una “convergenza della crescita regionale”, tanto che il tasso di disoccupazione è nel Mezzogiorno triplo che nel Centro Nord (2007).

Esplorare in profondità la natura del contributo distrettuale a questa dinamica economico-industriale diventa essenziale. Anche se in questa sede non possiamo svolgere questo compito in modo compiuto, ci proponiamo di presentare alcuni dati di sintesi a partire dai dati provinciali dopo avere considerato sopra quelli a livello regionale. Nel complesso, la sintetica esplorazione statistica che abbiamo condotto evidenzia una correlazione positiva (pur contenuta) tra accrescimento delle aree distrettuali (misurate dal peso dell’occupazione distrettuale sul totale dell’occupazione provinciale) e l’andamento della crescita occupazionale come evidenziato nelle Figure 2 e 3, sia questa misurata come valore assoluto sia come variazione. Anche se tale correlazione è discontinua e non lineare nel periodo considerato (1995-2007) rispetto al peso occupazionale distrettuale 2001, la struttura delle province sembra disporsi in una tripartizione di famiglie di province guidate da quelle più distrettualizzate (che appartengono sia al Nord in modo prevalente e sia al Centro) verso quelle mediamente distrettualizzate (sempre appartenenti a Centro-Nord e in parte anche al Sud) e quelle non distrettualizzate (appartenenti prevalentemente al Sud).

                                                            11 In questo caso si “sottovaluta” il contributo delle PMI del Nord-Est. 12 Barca (2006); si vedano, inoltre, i commenti di Gelli, Grasse (2010, p. 12).

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Figura 2 – Correlazione tra variazioni di VA e occupazione rispetto al peso dell’occupazione distrettuale sull’occupazione totale provinciale

Fonte: Pilotti, Vernuccio, Ganzaroli, De Noni (2010), WP DEAS, Università di Milano, mimeo.

Figura 3 – Correlazione tra variazioni di VA e occupazione rispetto al peso dell’occupazione distrettuale sull’occupazione totale provinciale riferito alla sola industria in senso lato

Fonte: Pilotti, Vernuccio, Ganzaroli, De Noni (2010), WP DEAS, Università di Milano, mimeo.

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Un approfondimento analitico dei dati ora descritti porta alla seguente matrice che è stata costruita ponendo in ordinata il ranking delle province ottenuto sulla base della capacità distrettuale della provincia, misurata come rapporto tra occupati nei distretti e totale dell’occupazione (entrambi calcolati su base provinciale) e in ascissa il ranking per variazione del valore aggiunto (dal 1995 al 2007). Punteggi superiori a 70 in ordinata rappresentano dunque le province con un’elevata capacità distrettuale (con una percentuale di addetti del distretto rispetto al totale dell’occupazione superiore o uguale al 30%). Di queste, quelle con punteggio superiore a 50 anche in ascissa sono le province che hanno registrato i maggiori incrementi percentuali in termini di valore aggiunto complessivo del sistema. Un ranking distrettuale tra 30 e 70 identifica il cluster delle province con una bassa distrettualizzazione (con una percentuale di addetti del distretto rispetto al totale dell’occupazione inferiore al 30%). Infine, un ranking distrettuale inferiore a 30 rappresenta le province non distrettualizzate.

Figura 4 – Mappa di posizionamento delle province italiane rispetto alla capacità distrettuale e al tasso di variazione del valore aggiunto

Di seguito, la tabella 2 riporta le province suddivise nei sei quadranti individuati nella figura precedente.

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Tabella 2 - Regioni italiane suddivise in base ai livelli di capacità distrettuale e di tasso di variazione del valore aggiunto

Alto distr e scarso VA Alto distr e VA Scarso distr e alto VA Scarso distr e scarso VA No distr e alto VA No distr e scarso VA

AREZZO ANCONA CAMPOBASSO CHIETI GROSSETO L'AQUILA

PRATO ASCOLI PICENO ASTI FIRENZE ISERNIA LIVORNO

TERAMO LUCCA GENOVA FROSINONE LATINA PESCARA

BELLUNO MACERATA PADOVA PERUGIA MASSA-CARRARA ROMA

BERGAMO PESARO E URBINO SAVONA PISA RIETI TERNI

BIELLA PISTOIA VARESE SIENA IMPERIA BOLZANO/BOZEN

BRESCIA ALESSANDRIA VENEZIA VITERBO TRIESTE GORIZIA

COMO FORLI-CESENA AVELLINO AOSTA AGRIGENTO LA SPEZIA

MANTOVA RAVENNA LECCE BOLOGNA CALTANISSETTA CAGLIARI

MODENA RIMINI MATERA CREMONA CARBONIA-IGLESIAS CATANIA

NOVARA ROVIGO SALERNO CUNEO CASERTA NAPOLI

PORDENONE SONDRIO FERRARA CATANZARO REGGIO DI CALABRIA

REGGIO NELL' EMILIA UDINE LECCO COSENZA

TREVISO VERCELLI LODI CROTONE

VERONA MILANO ENNA

VICENZA PARMA MEDIO-CAMPIDANO

PAVIA NUORO

PIACENZA OGLIASTRA

TORINO ORISTANO

TRENTO PALERMO

VERBANO-CUSIO-OSSOLA POTENZA

BARI RAGUSA

BENEVENTO SASSARI

BRINDISI TARANTO

FOGGIA VIBO VALENTIA

MESSINA

OLBIA-TEMPIO

SIRACUSA

TRAPANI

Un’analisi approfondita rispetto alla variazione provinciale dell’occupazione totale e industriale sulla base dei sei cluster individuati, porta ad alcune prime considerazioni.

Le province caratterizzate da un’elevata distrettualizzazione (principalmente appartenenti al Nord e in parte anche al Centro) e da alti incrementi del valore aggiunto, presentano un incremento dell’occupazione totale significativamente diverso rispetto agli altri cluster, come evidenziato dal test statistico ANOVA riportato in tabella 3, e superiore a tutti gli altri cluster (figure 4 e 5) oltre ad un marcato incremento dell’occupazione del reparto industriale, come mostra la figura 6. Questo suggerisce che la presenza di distretti ha effetti positivi su tutto l’eco-sistema territoriale di riferimento (provinciale) in termini occupazionali; nella maggior parte dei casi ciò si traduce in una maggiore capacità del sistema locale di generare valore aggiunto. Una dinamica che mostra di crescere in aree dove la distrettualizzazione è accompagnata da ibridazione intersettoriale come nel caso di molte province dell’Emilia Romagna, delle Marche e, in parte, della Toscana. La mono-settorialità sembra, invece, accompagnare province altamente distrettualizzate ma con variazioni del VA medio-basso, come quelle della Lombardia, del Veneto e alcune della media Toscana. Lombardia e Nord-Est hanno tuttavia evidenziato i maggiori processi di de-industrializzazione degli ultimi 20 anni a favore di un’economia fondata su servizi knowledge based13 e di delocalizzazioni delle attività industriali sia in regioni del Centro e del Sud sia nei Paesi di “nuova europeizzazione” (in Cina e/o altri BRIC). Nel complesso, l’economia distrettuale si è diffusa estendendosi attraverso

                                                            13 Cfr. Pilotti, Rullani et al. (2003).

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reti lunghe, ibridando i confini settoriali (oltre che geografici14) verso nuovi infant sector dinamici e innovativi. Tra questi ultimi, troviamo ad esempio le energie alternative, i nuovi materiali, l’ortottica, il biomedicale, la domotica, la meccatronica, la bio-agro-industria e la nautica da diporto di alta gamma, trascinando anche le trasformazioni di molti settori tradizionali, come i tessuti e l’abbigliamento, l’arredo casa, le piastrelle in ceramica per arredo, la meccanica, ecc. In tal modo, vanno riqualificandosi e ridisegnandosi gli stessi confini del Made in Italy.

Figura 4 - Boxplot cluster rispetto al tasso di variazione dell’occupazione totale

 

La figura 5 mostra i valori medi in termini di tasso di variazione dell’occupazione totale tra il 1995 e il 2007.

Figura 5 - Valori medi del tasso di variazione dell’occupazione totale

 

La tabella 3 mostra, invece, le differenze delle medie rispetto al primo gruppo (Estimate) e ne valuta la significatività statistica attraverso il test ANOVA (come riportato nella colonna Pr(>|t|).

                                                            1414 Fuoriuscendo dai tradizionali confini comunali delle origini per allargare le proprie esternalità positive a macchia d’olio in molti altri comuni provinciali limitrofi, per uscire poi anche da questi lungo una crescita prima inter-provinciale e poi inter-regionale oltre che – per molti di questi - verso una più robusta internazionalizzazione. Si veda a questo proposito in questo lavoro complessivo il contributo di Zucchella – Onetti (2010) che corrobora alcune di queste prime osservazioni statistiche.

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Tabella 3 - Test ANOVA rispetto al tasso di variazione dell’occupazione totale

Le province che, pur non essendo caratterizzate da un’elevata distrettualizzazione (principalmente appartenenti alle regioni del Sud) hanno registrato alti incrementi del valore aggiunto, presentano di fatto anche un marcato incremento dell’occupazione industriale (significativamente diverso rispetto agli altri cluster come evidenziato dal test statistico ANOVA riportato in tabella 3). Sono probabilmente le province che, partendo da livelli di VA inferiori rispetto al resto d’Italia, hanno potuto sfruttare più efficacemente le esternalità positive dei processi di de-localizzazione e de-industrializzazione del Nord, oltre che di alcune dinamiche delle traiettorie di globalizzazione. Per tale via, questi territori sono riusciti ad acquisire competenze e conoscenze (all’esterno) non auto-producibili localmente, certo beneficiando anche dei finanziamenti europei e degli appalti di interesse pubblico e riuscendo a stimolare maggiormente la crescita industriale in chiave eco-sistemica.

Figura 6 - Boxplot cluster rispetto al tasso di variazione dell’occupazione industriale

La figura 7 mostra i valori medi in termini di tasso di variazione dell’occupazione industriale tra il 1995 e il 2007.

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Figura 7 - Valori medi del tasso di variazione dell’occupazione industriale

Come nel caso dell’occupazione totale, di seguito è riportata la tabella coi risultati del test ANOVA.

Tabella 4 - Test ANOVA rispetto al tasso di variazione dell’occupazione industriale

2 - L’evoluzione teorica nelle rappresentazioni dei sistemi produttivi locali: un quadro di sintesi

Come ormai ampiamente noto, il primo ad occuparsi dei vantaggi che derivano dalla concentrazione geografica di un elevato numero di piccole imprese appartenenti ad uno stesso settore manifatturiero è stato Alfred Marshall (1891). Ma i contenuti di questo contributo seminale sono stati per molti anni “dimenticati” dagli economisti anche alla luce dell’emergente successo dei modelli dell’equilibrio economico generale e delle ipotesi sottese di perfezione dei mercati e di informazione completa detenuta dagli agenti, ipotesi confliggenti con l’eterogeneità degli agenti e la produzione di esternalità (negative e positive) che in un certo contesto spaziale si producevano. Il recupero di questo contributo è da attribuire, come noto, al lavoro seminale di Giacomo Becattini, che per primo, a partire dagli anni ‘60 lo ha utilizzato per spiegare la realtà, allora ancora poco conosciuta, della piccola media impresa italiana e, appunto, delle peculiari forme di aggregazione territoriale in particolari aree geografiche di specializzazione, che risultavano spesso omogenee dal punto di vista manifatturiero, ma anche sociale, culturale ed istituzionale. In questi primi lavori grande attenzione è stata posta ad uno dei temi più cari a Marshall ovvero al concetto – allora nebuloso - di atmosfera industriale. Questo termine è utilizzato per caratterizzare il particolare intreccio che si viene a

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creare tra comunità e industria all’interno di uno specifico territorio e delle sue forme istituzionali. Questi tre elementi non sono definibili indipendentemente l’uno dall’altro e formano quindi un complesso, che Becattini successivamente definirà di tipo auto-poietico, dove comunità-territorio e industria si definiscono reciprocamente e si sviluppano organicamente frutto di specifiche esternalità. In questa fase, perciò, il distretto è definito come una struttura organica che risulta sostanzialmente omogenea sia dal punto di vista tecnologico sia da quello culturale e istituzionale. Le competenze tecnologiche e di mercato, che sono alla base dell’industria localizzata in un territorio, hanno, solitamente, una radice storica e culturale. Queste sono state tramandate e sviluppate nel tempo attraverso meccanismi interni di imitazione e apprendimento replicativo. Hanno cioè trovato nello specifico di quel contesto socio-culturale una nicchia ecologica capace di riprodurre quelle competenze che, altrimenti, si sarebbero perse con l’evoluzione tecnologica associata alle trasformazioni dimensionali imposte dai vantaggi di scala. La “chiusura” del sistema, il suo essere periferico sia ai grandi centri urbani sia alle principali vie di trasporto, ha rappresentato, perciò, un vantaggio nella fase sorgente. Ha garantito, infatti, la sopravvivenza e la differenziazione di quella economia locale da specializzazione diffusa, che è alla base della competitività dell’intero sistema così contestualizzato. Inoltre, ha consentito la diffusione di fiducia e reciprocità distribuite tra gli agenti all’interno dell’intero sistema stesso. Una crescita alimentata da una domanda omogenea e costantemente crescente oltre che dalla quasi totale mancanza di immigrazione in entrata, se non di ritorno, quali basi strutturali su cui si genererà una più estesa divisione del lavoro tra imprese mediata dalla contiguità spaziale e dai legami relazionali riprodotti in un comune contesto territoriale caratterizzato da un trasferimento informale e spesso tacito di conoscenze e di esperienze fatto da reti corte di fornitura e sub-fornitura15.

Dopo questa prima fase di incubazione, dove la maggioranza degli sforzi sono dedicati a caratterizzare e difendere la significatività di questo modello di sviluppo, successivamente l’interesse si è spostato verso l’analisi dei fattori di vantaggio. Qui si possono individuare due principali direttrici di studio che, in una seconda fase, tenderanno a convergere nuovamente alla luce della centralità acquista dalla conoscenza quale fattore competitivo.

2.1. - Competitività e sistemi di imprese

La prima direttrice focalizza il proprio interesse nei confronti della flessibilità. Un contributo seminale, in questa direzione, è quello di Piore e Sabel (1984). Il concetto di specializzazione flessibile, originariamente proposto da questi due autori, si basa su una prospettiva sociale in cui le relazioni hanno un ruolo fondamentale e che trova corrispondenza in altri contesti culturali come quello giapponese. Questa intuizione iniziale ha trovato ulteriore sviluppo, anche se con particolare enfasi sulla divisione “tecnica” del lavoro (Lagendijk, 1997, p. 12), nei lavori riconducibili alla prospettiva denominata New Industrial Space. Questa affonda le proprie radici teoriche nella versione di Williamson (1975) della teoria dei costi di transazione. Si afferma, infatti, che il sistema produttivo locale presenta caratteristiche, quali l’inspessimento relazionale tra fornitori e clienti e la condivisione di infrastrutture, idonee alla riduzione dei costi di transazione per le imprese che partecipano ai processi di scambio locale (Calvosa, 2008). Su questa base, nel 1988, Storper e Scott lanciano il concetto di New Industrial Space, combinando spunti tratti dalla letteratura sui distretti industriali (Brusco, 1986), i sistemi di produzione flessibile (Piore e Sabel, 1984), la “social regulation” (Boyer, 1986; Lipietz, 1986) e le dinamiche delle comunità locali (Storper e Walker, 1993). I due Autori legano il concetto di “flexible production system” (forma di produzione che consente di passare da una configurazione di processo/prodotto ad un’altra senza effetti negativi sull’efficienza) alle dinamiche di agglomerazione locale. Infatti, ciò avviene poiché: “This locational strategy enables them to reduce the spatially-dependent costs of external transactions. In flexible production systems, the tendency to agglomeration is reinforced not only by externalization but also by intensified re-transacting, just-in-time

                                                            15 È evidente che in questa fase ha contribuito in modo sostanziale un minor costo del lavoro, quale elemento essenziale alla possibilità di sostituire capitale con lavoro.

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processing, idiosyncratic and variable forms of inter-unit transacting, and the proliferation of many small-scale linkages with high unit costs” (1988, p. 26). Inoltre, viene introdotta la dimensione sociale (“social regulation system”), ad esempio, in termini di coordinamento inter-aziendale, di organizzazione del mercato del lavoro, di formazione di comunità e riproduzione sociale di comportamenti condivisi.

Nella seconda direttrice, diversamente, l’interesse è stato orientato nei confronti dell’evoluzione e verso la conoscenza quale principale driver del processo di crescita. In questo quadro, si inseriscono diverse prospettive che mettono in luce particolari aspetti di questo processo.

Una prima prospettiva, detta dei Sistemi Produttivi Locali (SPL), estende l’originale teoria dei distretti industriale ad una più ampia categoria di sistemi produttivi locali che comprende aree distrettuali multi-settoriali, sistemi locali governati da imprese leader, come pure cluster territoriali16. Questa prospettiva affonda le proprie radici in due teorie complementari:

la teoria dei network, dove la competitività dell’impresa è spiegata a partire dalla sua appartenenza ad una rete (non necessariamente territorializzata) di imprese che collaborano flessibilmente a progetti specifici, sulla base di fiducia reciproca.

La teoria delle knowledge creating companies, che spiega la competitività dell’impresa a partire dalla complementarità tra tacito e codificato e la superiore capacità delle stesse di combinare queste due basi di conoscenza in un processo continuo di creazione di nuova conoscenza à la Nonaka (1993).

L’industrializzazione è interpretata come un processo che ha luogo in aree urbane o rurali dotate di una forte tradizione artigianale, seguendo una continua evoluzione di sperimentazioni e innovazioni “a grappolo”. La logica sottesa al modello dei SPL concepisce fin dall’inizio lo sviluppo come il risultato della tensione dialettica tra l’industrializzazione diffusa e contestualizzata in una comunità locale e le pressioni economiche e tecnologiche provenienti dall’esterno (livello nazionale ed internazionale). Nel contesto locale si realizza sia la conversione di conoscenza tacita in esplicita tramite meccanismi di “socializzazione” sia l’assorbimento di conoscenze esplicite, mettendo così in relazione circuiti globali con luoghi specifici. Il processo di produzione di nuova conoscenza non potrebbe, infatti, “riprodursi a livello locale se non esistesse un meccanismo che consentisse di sposare la conoscenza esplicita, codificata, che circola nella rete globale, con la conoscenza tacita, contestuale, del singolo sistema locale” (Becattini, Rullani, 1993, p. 37). Il sistema produttivo locale è “un contenitore attivo di conoscenza specializzata” (Belussi, Pilotti, 2008), un “laboratorio collettivo” che conosce due “ideal-tipi”: il polo industriale (grande impresa territorializzata) e il distretto industriale (PMI territorialmente inter-connesse). E tuttavia possiamo sottolineare che “un luogo non è un sistema produttivo locale se non ha propaggini che lo collegano con il circuito globale” (ibidem, p. 40).

Una seconda prospettiva che si muove in questa direzione è quella sviluppata dal Groupe de Recherche Européenne sur les Milieux Innovateurs (GREMI e che vede tra i principali autori Aydalot, Camagni e Maillat). Qui l’impresa non è vista come un agente isolato, bensì come una componente di un milieu articolato di attività e soggetti, ossia un contesto spaziale dotato di una propria capacità innovativa, un “incubatore di innovazione e di imprese innovative” (Maillat, 1995). In buona sostanza, seguendo una prospettiva socio-istituzionale, “sono i luoghi che agiscono e innovano”. Viene esplorato il rapporto tra innovazione, settori altamente tecnologici e sviluppo territoriale. Le relazioni tra innovazione d’impresa e sviluppo locale sono determinate dal cosiddetto “spazio di supporto”, elemento qualificante del milieu innovateur (Ratti, 1992). Esso è dato:

i) dalle relazioni produttive riguardanti l’organizzazione dei fattori;

ii) dalle relazioni di partnership tra imprese;

                                                            16 Cfr. ricostruzione in Belussi, Pilotti (2008).

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iii) da tutte le relazioni strategiche con gli agenti appartenenti al territorio.

L’agenda di ricerca del GREMI pone l’accento sul processo di apprendimento quale processo fondamentale affinché i diversi membri del milieu sviluppino capacità innovativa, percepiscano i cambiamenti ambientali e ricerchino un adattamento. Le dinamiche di apprendimento – soprattutto il collective learning e l’interactive learning – e l’organizzazione cooperativa basata sull’interazione costituiscono il nodo centrale della teoria in parola, che, in questo senso, converge verso quella più recente della “learning region” (Camagni, 1991).

Queste due prospettive iniziali trovano un punto di sintesi nel modello degli Innovation Systems (National Innovation System, Regional Innovation System, Learning region) che viene proposto da Lundvall nel 1985, derivandolo dalla teoria evoluzionista dell’innovazione tecnologica e dalla teoria istituzionalista. Tale concetto, in una prima fase legato alla dimensione nazionale con la nozione di National Innovation System (Freeman, 1987; Lundvall, 1992; Nelson, 1993), dalla metà degli anni Novanta viene sempre più riferito al livello regionale (Cooke, 1996; Braczyk, Cooke e Heidenreich, 1998; Cooke, 2001b). Il Regional Innovation System (RIS) è definito in letteratura come un insieme geograficamente definito di organizzazioni fortemente interconnesse. Il RIS è finalizzato al supporto dei processi locali di apprendimento (collective learning e interactive learning) e di innovazione, collegandosi ad altri sistemi regionali, nazionali o globali (Cooke, 1996, 2004). Questo approccio tenta di interpretare l’innovazione come accumulazione di flussi di conoscenza che seguono traiettorie guidate da un set di istituzioni formali e informali (Izzo, 2009). Un RIS si compone di due “building blocks” tra loro interagenti (Autio, 1998):

i) il sub-sistema di applicazione ed exploitation di conoscenza, composto da imprese, concorrenti, fornitori, partner e clienti;

ii) il sub-sistema di generazione e diffusione di conoscenza, che comprende istituzioni quali le organizzazioni di ricerca e formazione, le agenzie di trasferimento tecnologico e gli incubatori.

Dunque, appare centrale il ruolo dell’interazione tra imprese e tra imprese ed istituzioni (Lundvall, 1992, 1994). Negli anni, gli studiosi di economia regionale hanno via via evidenziato le differenze tra RIS, soprattutto in termini di modelli di governance a sostegno dell’innovazione delle imprese (Asheim e Coenen, 2005). Sulla base degli studi dedicati agli innovation systems e ai processi di apprendimento (learning economy), viene poi sviluppata la nozione di “learning region”, grazie ai lavori di Cooke, Morgan, Asheim e altri. Si tratta di una sorta di sintesi concettuale nel dibattito scientifico sui modelli di innovazione regionale, che nell’ambito del capitalismo moderno pone particolare enfasi sulla rilevanza della risorsa conoscenza e sul processo di apprendimento (Lundvall e Johnson, 1994), come pure sul ruolo delle istituzioni e sui percorsi di co-evoluzione di tecnologia ed istituzioni a sostegno di un modello di crescita endogeno.

L’evoluzione dell’originale concetto di distretto industriale verso Sistemi Produttivi Locali, prima, e Sistemi Innovativi Regionali, poi, è caratterizzata anche da un’evoluzione dei driver della competitività locale. Secondo Marshall, il Distretto Industriale risulta, ceteris paribus, tanto efficace quanto le grandi imprese. La competitività di tale sistema è legata alle economie esterne positive: (a) le economie di specializzazione dovute alla presenza di fornitori locali competenti; (b) le economie legate alla presenza di un mercato del lavoro in cui è possibile trovare manodopera qualificata; (c) le economie dovute a knowledge spillovers derivanti dalla diffusione di conoscenze e di informazioni tra agenti locali. Nella prospettiva della specializzazione flessibile la competitività dei sistemi produttivi locali è spiegata a partire da una crescente domanda di flessibilità nei mercati come risposta all’impossibilità, da parte della grande impresa, di prevederne e controllarne l’andamento. Secondo questa prospettiva, perciò, le esternalità Marshalliane tipiche dei sistemi produttivi locali si riflettono in una minore incidenza dei costi di transazione e un processo produttivo che si caratterizza per essere sempre più distribuito e variabile nel tempo. Nella prospettiva evoluzionista assumono crescente centralità i processi di apprendimento e creazione di nuova conoscenza, anche attraverso quei “reciprocatori complessi” ( meta-organizzatori evoluti) che ritroviamo in contributi recenti17. Grande importanza è anche assegnata alla storia e quindi ai fenomeni di path dependency                                                             17 Cfr. in questo lavoro il contributo ricostruttivo di Schillaci e Gatti (2010) 

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e lock-in. L’Innovative Milieu è ritenuto una fonte di vantaggio competitivo assoluto nell’economia globale perché fornisce, similmente a quanto sostenuto dallo stesso Marshall, uno spazio per il coordinamento tra gli agenti economici, per l’integrazione delle risorse esterne e la ricombinazione creativa di idee, fattori e risorse (Camagni, 2002). Il suo ruolo, però, non è solo limitato all’abbattimento dei costi di transazione, ma è critico soprattutto per sostenere la condivisione di conoscenze in processi di apprendimento e innovazione che risultano fortemente interattivi e largamente distribuiti. Le istituzioni hanno anch’esse un ruolo fondamentale, sia come fornitori del framework di base necessario per l’innovazione sia come responsabili per la creazione di condizioni che favoriscano la nascita e lo sviluppo di un Innovative Milieu.

Infine, l’approccio Innovation System pone al centro l’analisi di due dimensioni (o livelli) considerate fondamentali a che un sistema innovativo locale si sviluppi: infra-structural e super-structural (Cooke, 2001b; 2002a). Il primo livello (infra-structural) comprende la competenza locale a livello finanziario e le infrastrutture materiali e immateriali. Il secondo livello (super-structural) comprende vari aspetti riguardanti il grado di embeddeness del territorio e può essere diviso in tre dimensioni diverse: istituzionale, organizzativa per le imprese e organizzativa per la governance. I casi di studio condotti su cluster (Cooke, 2001a, 2002a, 2002b) e regioni (Braczyk, Cooke e Heidenreich, 1998; Cooke e Schienstock, 2000) mostrano che le fonti di vantaggio competitivo sono più legate alla dimensione super-structural che infra-structural. Recentemente, alcuni autori (Asheim e Coenen, 2006; Bercovitz e Feldman, 2006; Cooke e Leydesdorff, 2006; Harmaakorpi, 2006; Cooke, 2007) hanno utilizzato, anche se diversamente, il concetto di “vantaggio costruito” per esaminare le capacità competitive degli Innovation System. Tale approccio si pone molto vicino a quello del Milieu Innovateur nell’individuazione delle fonti di competitività. Tuttavia, esso considera il concetto di path-dependency come fonte di persistenti asimmetrie (Cooke e Morgan, 1998); inoltre, sono ampiamente esplorati gli aspetti inerenti alle politiche economiche.

2.2 - Competitività, tecnologie e ruolo della conoscenza

Il ruolo della conoscenza (processo creativo e diffusivo) è esplorato sul finire degli anni ’90 e diviene rilevante nel riconsiderare la categoria della competitività e dell’innovazione in chiave eco-sistemica e di beni-pubblici. Una risorsa che risulta ostica per il suo carattere duale di risorsa/bene, per la natura cumulativa che la contraddistingue e per il suo essere un bene essenzialmente pubblico. Questi elementi di complessità sono stati sino ad ora forzatamente collassati in una struttura nota - il mercato – paragonando la conoscenza, per quanto possibile, a un qualsiasi altro bene materiale, su cui è possibile definire dei confini di proprietà chiari ed univoci (Foray, 2004). I limiti di questa separazione stanno, però, sempre più riemergendo nella relazione co-evolutiva che lega conoscenza tacita e codificata. Le due non sono antitetiche. La produzione di un’unità di conoscenza codificata non implica una riduzione di pari entità di conoscenza tacita. Al contrario, la produzione di conoscenza codificata comporta anche una produzione di conoscenza tacita che è legata, da un parte, all’esperienza accumulata nella produzione di quella stessa conoscenza e, dall’altra, nell’applicazione di quella stessa conoscenza. Dai caratteri peculiari della conoscenza discende che il mercato sarà sempre un sistema imperfetto attraverso cui negoziare il “prezzo” di una conoscenza. La parte tacita, infatti, per sua stessa natura non è negoziabile, ma solo condivisibile entro reti sociali e comunità che condividono comuni significati e codici deontologici. L’impresa, per molto tempo, ha rappresentato il luogo entro cui queste norme e valori erano socializzati, fornendo la base costitutiva di una comunità epistemica e di pratica a sé stante. La rapidità del cambiamento, unitamente alla sua imprevedibilità, spinge l’impresa ad aprirsi a comunità trasversali, che dissolvono la gerarchia interna, dando luogo appunto al formarsi di ecologie del valore.

Non tutta la conoscenza, infatti, ha la stessa forma né può essere facilmente trasferita. Infatti, la conoscenza personale o tacita si riferisce alle competenze, alle routines, al know-how o a specifiche abilità tecnico/pratiche, e derivando dall’esperienza non può essere né semplicemente codificata né facilmente trasferita. La conoscenza “pratica” tende ad avere una natura altamente tacita, mentre la conoscenza astratta (scientific knowledge), che si riferisce alla comprensione teorica e a principi scientifici, ha la caratteristica di essere prevalentemente codificata (Belussi, Pilotti, 2007).

Questa distinzione può risultare più chiara se richiamiamo la metafora adottata da Lundvall e Johnson (1994). Il primo tipo di conoscenza ha a che fare con il knowing how, che richiede l’attiva partecipazione

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(knowing in action) da parte degli agenti economici, e il know-who, che ne richiede la capacità relazionale. Il secondo tipo di conoscenza si riferisce al “knowing-what” e al “knowing-why”, ovvero più semplicemente alla comprensione passiva e astratta dei principi teorici e alla speculativa conoscenza dello stato dell’arte in ogni ben definita area disciplinare. L’analisi di Mokyr - nello splendido Il dono di Atena - che parla, invece, di techne’ (ricette sul “come fare le cose”) ed episteme (le conoscenze che giustificano le ricette), è affascinante e consente di risolvere o superare alcuni dei problemi insiti nella distinzione tacito/esplicito18.

Queste due forme di conoscenza non coincidono, ma vedremo sono strettamente connesse tra loro. Per esempio, attività routinarie e abilità pratiche possono essere imparate e riprodotte senza essere a conoscenza della sottostante razionalità scientifica19. Inoltre, è altrettanto vero che per utilizzare la conoscenza codificata necessitiamo di un certo ammontare di abilità e di conoscenza tacita, come ben descritto, per esempio, da Knorr-Cetina (2000). Analizzando lo sviluppo storico della tecnologia, è possibile osservare un percorso di evoluzione durante il quale differenti e molteplici pezzi di conoscenza sono stati totalmente codificati. Un processo nel quale è stato possibile includere molti prodotti e attività artigianali, che sono state industrializzate sotto i vincoli del progresso tecnico20. Tuttavia, generalizzando, è possibile affermare che differenti gradi di tacitness sono incorporati nella conoscenza in relazione a vari livelli di attività scientifiche e tecnologiche. Nella scienza pura la conoscenza è tipicamente articolata, misurata e misurabile attraverso avanzate apparecchiature tecnologiche, formalizzata attraverso scritti teorici, modelli e formule e, infine, testata per confermarne la validità. Si ritiene comunemente che circa l’1 o forse il 2% di tutta questa conoscenza sia codificata. Più ci allontaniamo dalla scienza pura, più la percentuale di conoscenza codificata diminuisce e cresce l’importanza e l’intensità della conoscenza tacita, anche se una netta separazione non è mai possibile fino in fondo. Le innovazioni tecnologiche incrementali e la ricerca applicata hanno, normalmente, alti livelli di conoscenza tacita soprattutto nelle loro componenti non-adattative. Dal momento che le attività relazionate con la ricerca applicata e la produzione diretta hanno una grande influenza sulla struttura economica, tenendo in considerazione quanto osservato, è possibile asserire che la conoscenza tacita ricopre un ruolo non marginale in queste attività. Data l’ovvia difficoltà a misurare la quantità di conoscenza esistente, sia codifica sia tacita, queste osservazioni mantengono necessariamente un certo grado di astrazione e non accuratezza (è possibile avere a che fare con affermazioni che non hanno alcuna possibilità di dimostrazione pratica e che tuttavia hanno forti implicazioni, sia teoriche sia pratiche, in termini di policies) (Belussi, Pilotti, 2005).

L’apparente contrapposizione tra processo di codificazione e tacitness permette, tuttavia, di individuare alcuni importanti aspetti.

Recentemente, la natura della tecnologia è stata attentamente studiata e osservata. In particolare, si è sviluppato un ampio dibattito riguardo alla natura del cambiamento tecnologico. Alcune tesi, per esempio, prevedono che in un prossimo futuro vi sarà un’intensificazione dei processi di cambiamento tecnico all’interno delle imprese sia un aumento nel grado di codificazione della conoscenza. Si prevederebbe, quindi, un’era di transizione verso un sistema tecnologico universale caratterizzato da strutture e categorie basate su forme di conoscenza generale, astratta e altamente trasferibile dove diverrà essenziale l’accesso, come sottolineato più volte negli ultimi lavori di Jeremy Rifkin. Altri studiosi hanno argomentato che l’attuale paradigma tecnologico dominante, ovvero quello dell’information technology, ha drammaticamente aumentato l’importanza della conoscenza codificata a spese di quella tacita. Questo mutamento deriva dalla

                                                            18 Tali argomentazioni scaturiscono da un lungo scambio con Pierpaolo Andriani della Durham Business School (maggio 2008). 19 A questo riguardo, alcuni esempi sono riportati da Nelson e Winter (1982). In particolare, basti pensare che il livello delle prestazioni di un atleta non è influenzato dalla sua conoscenza della fisiologia muscolare. 20 La storia è piena di contraddittori aneddoti. I sistemi esperti con funzioni di supporto decisionale si sono dimostrati totalmente inadeguati nel gestire le attività finanziarie, e durante il “lunedì nero” dell’Ottobre 1987 quasi provocarono una catastrofe, allo stesso modo il pilota automatico è comunemente utilizzato a supporto e sostegno delle capacità e dei sensi umani durante i voli. Nell’industria della Ceramica di Sassuolo, la conoscenza e l’abilita dei piastrellisti è ancora nettamente superiore a quella di qualsiasi programma automatico. A tutt’oggi, alla fine di qualsiasi ciclo di produzione automatizzato, l’uomo con le sue abilità e competenze controlla i tempi di cottura, la quantità e gli specifici ingredienti utilizzati. Altrettanto contrastante è la scarsa efficienza ed efficacia dei programmi di traduzione automatica rispetto l’evoluta sofisticazione di software per il disegno tecnico.

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natura dell’information technology, la quale favorisce e facilita l’elaborazione, la conservazione, la trasmissione e la codificazione della conoscenza. Questa tesi è supportata, tra gli altri, da Arora e Gambardella (1995) e Cowan e Foray (1997). Tesi e argomentazioni più caute sono, invece, sostenute da autori come Dosi et al. (1988), Lundvall (1992 e 1996), Senker (1995) e Breschi e Malerba (1996). A tal proposito Lundvall (1996, p. 7) afferma che: [...] while the codification can go very far in the field of «know-what» there are important limitations for the codification in other fields of knowledge. Know-why can be fully codified only in areas where little new knowledge is currently produced or the new knowledge is purely incremental. When scientific principles are in a state of flux or when they are disputed within the scientific community they cannot easily be communicated outside a narrow group of scientists […]. The work on expert system is far from innocent. There are skills of an intuitive kind which remain hidden and tacit and which cannot be incorporated when the codification takes place. Finally it is obvious that a register of names cannot integrate the social network of relationships which are included in the know-who category.

Le argomentazioni che sono generalmente sostenute da coloro che si oppongono alla supremazia del processo di codificazione che meglio definiscono la prospettiva qui adottata nell’analisi del comportamento competitivo vengono sintetizzate di seguito.

1. L’introduzione del “paradigma dell’information technology” non ha aumentato l’insieme di conoscenza a nostra disposizione. Esso ha aumentato significativamente (soprattutto) la disponibilità di dati con la conseguenza di vedere aumentata anche la circolazione di informazioni inutili, da cui derivano anche i sempre più rilevanti costi di overload. Questo fenomeno obbliga le persone a compiere un maggiore sforzo per selezionare ed individuare le informazioni più rilevanti prevalentemente sulla base della loro conoscenza tacita o delle loro capacità di interazione selettiva con molteplici utilizzatori in un accesso condiviso, come avviene nel caso emblematico della web economy.

2. Vi è una spirale nel processo di conversione della conoscenza da tacita a codificata; infatti, la quantità di conoscenza tacita necessaria per gestire e controllare nuova conoscenza codificata è sempre superiore21.

3. L’attuale transizione verso una società post-fordista, basata su lavoratori qualificati e/o knowledge workers, delinea un mercato del lavoro in cui attività, impieghi e compiti richiedono una sempre maggiore capacità di apprendimento e conoscenza tacita. Questo implica che il capitale umano, serbatoio della conoscenza, continuerà ad avere, unitamente alla conoscenza tacita, un ruolo centrale nell’economia.

4. Lundvall (1997) ha parlato di nascita della learning economy. Oggi, noi stessi ci troviamo in un sistema economico in cui la competitività di individui, imprese e interi sistemi dell’innovazione dipende dalla loro capacità di “apprendere ad apprendere”. La learning economy mette enfasi sulle interazioni (user-producer relationships) e sulla condivisione e messa in rete della conoscenza. Entrambi questi aspetti, tuttavia, non determinano un declino delle abilità tacite, ma ne enfatizzano il rilievo a ridosso di fattori emotivi, empatici di trasferimento e ritrasferimento entro community di utilizzatori sempre più allargate e che pongono al centro del loro lavoro un comune sistema di valori condivisi, come nel caso dell’open source (Pilotti, Ganzaroli, 2009).

5. La dimensione sociale e interattiva dell’apprendimento è, dunque, di strabiliante importanza. Il processo di conoscenze utilizzato dall’uomo richiede l’elaborazione di modelli mentali22 e di meccanismi di feedback finalizzati alla verifica e al testing (basato su esperienza individuale e/o collettiva). Inoltre, il trasferimento e la diffusione dell’informazione richiedono un linguaggio comune oltre a significati, metafore,

                                                            21 Si consideri a tal proposito il caso della medicina. Sebbene attualmente vi siano sempre più centri ricerca, pubblicazioni scientifiche, scoperte, strumentazioni e cure, il valore delle abilità specifiche degli esperti non è stato eroso né minacciato. L’aumento esponenziale della conoscenza codificata è stato accompagnato da un pari o superiore aumento della conoscenza tacita necessaria (anche tra gli specialisti). 22 Come dimostrato da Denzau and North (1994), le persone agiscono in parte sulla base di miti, dogmi, ideologie e solo in parte sulla base di teorie. In condizioni di incertezza, l’interpretazione individuale dell’ambiente riflette la propria conoscenza. Gli individui con background culturali ed esperienze comuni condivideranno la loro conoscenza. La condivisione di modelli mentali guida le scelte e l’evoluzione politica/economica. Modelli mentali, istituzioni e ideologie contribuiscono tutte assieme al processo di interpretazione e ordinamento dell’ambiente.

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visioni23, credenze e convenzioni condivise tra gli attori. Pertanto, come sostenuto da Lundvall, si stabilisce una relazione simbiotica tra le due forme di conoscenza. La conoscenza codificata può essere utilizzata solo ricorrendo alla conoscenza tacita. La soggettività e la conoscenza parziale dell’individuo giocano un ruolo primario, dal momento che l’uomo apprende solo quando la conoscenza tacita è incorporata e compresa nell’esperienza pratica24. Gli individui sono i costruttori della conoscenza empirica dell’uomo. La conoscenza tacita determina la percezione della realtà (Schön, 1979) e i comportamenti, sostiene i processi di selezione, rielaborazione e codifica delle informazioni rilevanti, filtra e riassembla la conoscenza (sia tacita sia astratta). All’interno di qualsiasi organizzazione economica gli individui sono esposti, dunque, ad un continuo scambio ed elaborazione di conoscenza codificata e tacita (Belussi, Pilotti, 2005).

Gli agenti economici, quindi, si contraddistinguono, non solo per l’agire, ma anche perché interagiscono e condividono le loro esperienze. Questo si traduce nella capacità sia di assorbire conoscenza codificata sia di creare nuova conoscenza (basata su una struttura collettiva di intelligence condivisa, oltre che di saperi taciti ed espliciti) in senso generativo. Le relazioni generative sono promotrici di processi di apprendimento e attività innovative, favorendo l’instaurazione di nuove routines all’interno delle imprese (Lane et al., 1996). Le reti d’impresa (Powel et al., 1996) e le emergenti imprese knowledge-based, devono essere considerate come i luoghi classici in cui questa generatività avviene e dà luogo a nuovi flussi di cambiamento tecnologico a base locale. Le interazioni generative utilizzano entrambi i tipi di conoscenza (tacita e codificata). Le innovazioni, ovvero la produzione di nuovi pezzi di conoscenza, che ne derivano si caratterizzano per sorgere da circuiti o catene multilivello in cui sia gli input sia gli output sono la somma di conoscenza tacita e codificata.

Contributi più recenti come quelli di Amin e Cohendet (2004), di Dolfsma e Soete (2006), oltre a quello più eterodosso di Tsoukas (2005), che devono molto al noto lavoro di Cook e Brown (1999), mostrano di confermare questa prospettiva.

2.3 - Competitività e communities nell’integrazione cognitivista

I primi fra questi (Amin e Cohendet, 2004), per esempio, sottolineano la dinamica di relazione tra knowledge e knowing, in una prospettiva di riconsiderazione della dimensione spaziale dell’apprendimento, dove la conoscenza è, tuttavia, considerata molto prossima all’informazione pura, che transita - anche se in forme non lineari - dal dato all’informazione alla conoscenza e ritorno. L’aspetto di rilievo da sottolineare di questa analisi riporta ad una riconcettualizzazione della conoscenza all’interno di contesti organizzati che dalle imprese si allarga alle communities, ai sistemi territoriali fino alle regioni-sistema. La società della conoscenza, che rimane sullo sfondo concreto e attivo di questa analisi, fa emergere una categoria di conoscenza - condivisa da molti altri approcci recenti – intesa come risultato di un processo cumulativo e collettivo che coinvolge sia i singoli individui che i gruppi sociali e intere comunità umane in un complesso processo euristico e di sense making. Il lavoro evidenzia la dinamica generativa - “quasi una danza” - tra knowledge posseduta dalle imprese (all’interno dell’organizzazione) e una conoscenza che, invece, è practiced, identificando il knowing appunto. Da qui si enfatizza la natura cognitiva della conoscenza e l’impatto sulle organizzazioni e sui sistemi territoriali attraverso la sua natura collettiva che è, potremmo dire, superindividuale e pre-organizzativa, segnalando che “the proper unit of analysis for knowledge formation in terms of knowing found in practice should be neither individuals nor organizations, but socially distributed activity systems, such as communities” (Amin, Cohendet, cit., pp. 29-31).

Le communities sono concepite nella loro duplice dimensione, individuale e organizzativa, come “active entities of knowing that makes specific forms of knowledge through their daily practices” (pp. 112-113).

                                                            23 Fransman (1994) nel suo contributo sulle differenti teorie dell’impresa descrive l’influenza esercitata dalle visions aziendali sull’elaborazione interna della conoscenza e dell’informazione. In questo articolo viene anche presentato il paradossale caso dell’IBM. L’azienda ha continuato a credere che l’abilità e la competenza nell’assemblaggio dei mega-computer negli anni ’70 potesse assicurare la profittabilità e sostenibilità del business, nonostante le informazioni processate e possedute portassero a concludere il contrario. 24 Un contributo classico a tal proposito è quello di Argyris e Schon (1974). Per un’interessante survey sul tema si veda Tsoukas (1996).

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Infatti, si procede enfatizzando la dimensione cognitiva e condivisa della conoscenza, anche di quella organizzativa in senso proprio, capace di includere appropriate considerazioni sul grado o livello di conoscenza intenzionale e le forme organizzative adatte ad essa, sul grado di varietà e spontaneità nelle communities, sugli incentivi in grado di supportare l’apprendimento sperimentale o procedurale e l’accumulazione di esperienza (pp. 84-87). Analizzando poi i meccanismi di bilanciamento tra management of knowledge attraverso il design e attraverso le communities esplorano una terza tipologia architetturale che sembra mixare i vantaggi di una e dell’altra.

Coerentemente con quanto finora rilevato, va sottolineato il ruolo delle communities come processo per generare conoscenza practised e, come tale, informata da una diffusa dimensione tacita e certo non riducibile all’informazione. Se tale conoscenza è individuale, risulta caratterizzata da una dimensione esplicita o, anche, semi-codificata, mentre se è organizzativa la dimensione codificata tende ad accrescersi, senza tuttavia disperdere completamente le dimensioni di taciteness, se è vero come è vero che oltre l’80% della conoscenza è riconducibile a una qualche condizione di tacitness25. Da qui emerge la forza della distinzione di Cook e Brown (1999) tra un’epistemologia del “possesso di conoscenza” - a volte detenuta dagli individui - e un’epistemologia della “pratica della conoscenza”, che mobilita una dimensione della stessa come “tool of knowing”, quale dimensione dell’interazione con il mondo fisico e, soprattutto, sociale. È proprio dal gioco d’interazione tra knowledge e knowing che si co-generano nuove conoscenze e nuove modalità di knowing. Un processo acceso da una continua circolarità tra tacito ed esplicito, semi-codificato e codificato (Cook, Brown, pp. 380-382), che conduce verso una prima condizione di configurazione ecologica per l’interdipendenza tra queste diverse dimensioni della conoscenza collassate dalle community, le quali agiscono su più piani integrati: individuale, collettivo, sistemico o eco-sistemico.

L’impresa possiede conoscenza che è poi portata a memorizzare, codificare e trasferire o ritrasferire al proprio interno e/o in parte all’esterno attraverso specifici contratti formali o semi-formalizzati, ma attraverso le communities il processo generativo-accumulativo-distributivo di conoscenza spesso si produce attraverso gruppi informali che agiscono in forme volontarie e seguendo specifiche norme sociali o consuetudini, anche fuori da una regolazione contrattuale consapevole. Ciò porta Amin e Cohendet a rilevare l’interazione dinamica tra gerarchie e communities, come proiezione esterna tra mercati e non mercati, definendo come non mercati quei tessuti relazionali di norme e valori che formano il contesto istituzionale entro cui quello scambio ha significato e diventa possibile.

Dunque la dinamica d’interazione tra formazione delle communities ed estensione-cambiamento-penetrazione della tacitness va a configurare un bridge strategico (deliberato) ed ecologico (emergente) tra esternalità d’impresa (interne), rendimenti crescenti di rete (esterni) e di un valore di sistema territoriale (nello spazio istituzionale e/o virtuale esteso). Una dimensione tacita della conoscenza non residuale, all’interno di un eterogeneo concetto di conoscenza che richiede allora all’impresa di agire processi di codifica e decodifica sistematici (Dolfsma, Soete, 2006) e, tuttavia, “filtrati” da articolate membrane di norme e comportamenti o consuetudini, guidate o canalizzate dalla co-azione tra codified knowledge, explicit knowledge e taciteness. Un agire in continuo dell’impresa o della rete di appartenenza dentro e fuori da sistemi semi-chiusi e semi-aperti, ma mai sempre solo chiusi o solo aperti, come avviene per sistemi ecologici dinamici che co-evolvono con le continue esternalità e il loro consumo diffuso nella generazione condivisa di valore.

Le ecologie del valore divengono allora contenitori fluttuanti e dinamici capaci di assegnare una governance sostenibile alla complessità delle interdipendenze tra gli attori e tra institutions e in grado di fare co-evolvere risorse codificate e tacite verso una diffusa creatività per rendimenti crescenti e feedback chains che rigenerano in continuo esternalità verso una modernità umanizzata, o per dirla con Toulmin (1995), verso una “ecological cosmopolis”. Le ecologie del valore si offrono, dunque, come una naturale fonte di competitività assicurando al locus che le contiene una serie di vantaggi in termini di capacità innovativa e creatività condivise.

                                                            25 Lakoff e Johnson (1999), nel loro lavoro Philosophy in the flesh sottolineano che il 95% del pensiero è inconsapevole, sostenendo che: “all of our knowledge and beliefs are framed in terms of a conceptual system that resides mostly in the cognitive unconscious “ (p. 13, citazione da Amin, Cohendet, 2004, p. 65).

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Di un’emergente cosmopolis fanno parte ad evidenza strutture come i network e i network di network o anche hyper-network, pubblici e privati, quali sostituti dinamici di vecchie forme di organizzazioni competitive basate sul coordinamento gerarchico e sul controllo top-down a favore di uno schema che mette all’opera dal basso processi auto-organizzativi e che ridisegna le stesse funzioni dei mercati e la configurazione delle strategie per governarli come nel caso di Complex Adaptive Systems (CAS).

In letteratura, normalmente i Network o le Reti di network - anche nella forma di supply chain - vengono riconosciuti come sistemi, intesi in una forma standard di coordinamento e controllo (minore o maggiore grado di monadismo e centratura), mentre è di rilievo riconoscerli nella loro differenziazione e, in alcuni casi sempre più diffusi, anche come Complex Adaptive Systems (CAS)26. In quest’ultima prospettiva, infatti, alcune strutture a network evidenziano feedback positivi o un grado di apertura che lascia gli agenti “autonomi” di agire ben oltre le regole e le routine o gli standard imposti dall’agente (o agency) centrale, allontanandosi in questo modo da tradizionali schemi di controllo a favore di fenomeni di emergence. In questo caso, il grado di competitività dato dall’innovazione e dalla creatività mostra di aumentare in forma diffusa e profonda, favorendo logiche ecologiche di auto-coordinamento e di auto-organizzazione con cicli virtuosi di intenzionalità e non-intenzionalità dei comportamenti, ma non per questo completamente random, perché spinti verso attrattori “strani” che ne forniscono una qualche luce predittiva. E tuttavia una predittività “debole”, ossia non tanto inerente al punto preciso in cui quell’evento avverrà, ma come e con quale configurazione avverrà, quando avverrà. Se i sistemi territoriali locali a network tendono a differenziarsi non lungo una variabile mono-dimensionale, come quella di controllo, ma lungo una variabile multidimensionale e polisemica, come quella di emergence, allora le organizzazioni e i network necessitano di criteri alternativi di regolazione e di governance, attivando appunto le “lenti della complessità” verso una visione plurale dei fenomeni e di quelli emergenti in particolare. Ma qualcuno aveva previsto quando Internet sarebbe precipitato sulla terra e cosa sarebbe diventato? E qualcuno aveva previsto la catastrofe che sarebbe derivata dal collasso dei mutui sub-prime in USA sul piano planetario e le forme statuali dell’intervento di sostegno in quasi tutti i paesi industrializzati?27

Fenomeni come il cambiamento organizzativo e le trasformazioni dinamiche, associati all’innovazione diffusa, sono stati studiati negli ultimi 20 anni nella prospettiva dei CAS e, in questo ambito, il lavoro di Bill McKelvey è tra i più interessanti e preziosi28. Modelli e teorie moderne relativi ai CAS (che noi limitiamo al caso di ambienti naturali o di living systems) tendono a focalizzarsi lungo alcune linee di riflessione e ricerca e, in particolare, attorno a tre punti focali (Choi et al., 2001):

1. l’inter-penetrazione dinamica tra sistema e ambiente di riferimento (dinamismo, scenari molteplici di azione e landscape irregolari e ruvidi);

2. la co-evoluzione tra sistema e ambiente (quasi-equilibrio, cambiamenti non lineari, non-random future);

3. un meccanismo interno che rivela l’interdipendenza tra una molteplicità di agenti, processi di auto-organizzazione ed emergence, connettività e autonomia come libertà di agire entro un grado non banale; gli agenti possono essere individui o team oppure intere organizzazioni, connessi tra loro da risorse informative e/o di conoscenza oltre che da pratiche più o meno condivise e dunque da mental models con i relativi insiemi di valori, norme, credenze, assunzioni, collettivamente condivisi.

Configurazioni con le quali approssimare utilmente alcuni sistemi produttivi locali particolarmente dinamici e innovativi, come emergente nel caso Veneto (per esempio con lo sport system di Montebelluna), Emiliano-Romagnolo (bio-medicale) e Toscano (ortottica), ma anche in esperienze di ibridazione

                                                            26 I CAS sono derivati come noto dalla biologia evoluzionista, dalla dinamica dei sistemi non-lineari, dall’intelligenza artificiale e successivamente trasferiti in ambito economico e organizzativo. Holland (1995) è tra i primi a svilupparne il disegno teorico e metodologico. 27 Tali quesiti sono nati dalle molteplici conversazioni con Pierpaolo Andriani (tra febbraio e giugno 2008). 28 Noti sono i contributi di McKelvey e Poole et al. (1999), sulle Firm Foundations di Maguire e McKelvey (1999) o ancora su innovazione e strategia di Brown e Eisenhard (1998), Stacey (1992) e ancora di Andriani, McKelvey (2006, 2007) sui fenomeni emergenti.

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specializzata come l’impiantistica di imbottigliamento sempre in Emilia Romagna o la componentistica degli strumenti musicali e delle cucine nelle Marche, oppure l’avio-industria campana e così via.

3 – La prospettiva ecologica: i Sistemi produttivi locali d’impresa verso “Sistemi Territoriali Vitali” ed “Ecologie del valore”

L’interesse nei confronti del territorio quale variabile costitutiva di nuove forme di competitività si sviluppa a partire da una transizione più ampia, che riguarda la teoria dell’impresa, da modelli meccanici a modelli organici29. In questo senso si ha il passaggio da una prospettiva razionalista dell’impresa, che presuppone una quasi perfetta conoscenza dei propri obiettivi, prevedibilità/controllo dell’ambiente esterno, scomponibilità e mobilità dei fattori, ad una visione organica, che attribuisce, invece, crescente importanza al ruolo giocato dal caso, dalla complessità, e, come vedremo, più di recente dalle esternalità nel dare forma all’impresa. L’impresa, perciò, diviene sempre meno rappresentabile come una struttura a sé stante. Un sistema chiuso di creazione di valore. Una sorta di tautologia che spiega se stessa a partire dal soddisfacimento ottimizzante dei propri obiettivi. L’impresa esiste ed è definibile nel suo contesto ambientale di riferimento: risultato di un processo storico-culturale che la lega interattivamente e irreversibilmente al proprio spazio di radicamento. Lo stesso sembra valere per i sistemi produttivi locali ed i sistemi regionali. Sono strutture organiche emergenti, che si generano per interazione complessa tra i suoi elementi interni e tra questi e l’“ambiente” esterno in una relazione di co-determinazione. Una prospettiva organica, che, come vedremo, assume crescenti caratteri ecologici e ci fornisce un nuovo quadro interpretativo utile a leggere, anche con finalità prospettiche e di governance, le dinamiche che sono alla base dello sviluppo locale. In questo quadro di riferimento si inseriscono due prospettive più recenti e tra loro collegate. La prima, detta dei sistemi vitali, è riconducibile ai lavori del gruppo di ricerca dell’Università La Sapienza di Gaetano Golinelli e alle ricerche del C.U.E.I.M.-Sinergie, come adattamento dei modelli sistemici. La seconda, detta delle ecologie del valore, come una delle linee di mutamento dei modelli evoluzionisti aperti dagli studi di Becattini e di Rullani e dello IEFE di Sergio Vaccà poi. Entrambe, come vedremo, tentano di confrontarsi, con mezzi diversi, con il problema della complessità e della crescente imprevedibilità degli stati futuri del mondo. Differiscono, però, nei modi in cui la categoria della complessità è concepita e trattata.

Nella prospettiva dei sistemi vitali l’ambiente o il mondo esterno è concepito - per semplificare – come complicato per cui, in una qualche misura, sempre gestibile e controllabile dall’organo di governo interno. Così facendo, però, assume un atteggiamento riduzionista nei confronti della complessità. L’obiettivo, infatti, è costruire strutture e sistemi capaci di crescente consonanza e risonanza con il contesto esterno rimanendo tuttavia rispetto a questo distinte. La complessità, in questa prospettiva, è paradossalmente data e resta perciò una variabile che deve essere gestita e ricondotta, per quanto possibile, ad una sostanziale invarianza adattativa nei confronti dell’ambiente esterno. Nella prospettiva delle ecologie del valore, diversamente, la complessità quale input e output di varietà diventa l’essenza stessa della vita e del valore come parte di quell’ambiente che contribuisce a formare e cambiare. È nella complessità, infatti, che nuove opportunità di crescita e di sviluppo si realizzano. L’impresa e/o il sistema produttivo locale non possono più essere concepiti come un riduttore della complessità. Un mezzo, come definito dai neo-istituzionalisti, attraverso cui internalizzare le esternalità, ossia riducendo i costi di transazione. L’impresa e/o il sistema produttivo locale diventano, invece, attori della complessità attraverso il gioco delle interdipendenze tra agenti, ambiente e contesto sociale e istituzionale di riferimento. Infatti, in questo modo possono contribuire alla produzione di valore attraverso la generazione di nuova complessità e quindi di esternalità positive, utili a ridurre i costi diretti di conoscenza e dunque di innovazione. Solo in questo modo, infatti, l’impresa e/o il sistema produttivo locale possono porsi in grado di sostenere se stessi e alimentare la propria crescita. Sfruttando, cioè, il potenziale espansivo, di aggregazione e di auto-organizzazione che è insito nelle esternalità positive prodotte da diffusi stati di fiducia e alle reciprocità. Vivendo, come direbbe Kauffman, sull’orlo del caos.

                                                            29 Si consenta di rinviare per questo dibattito a Golinelli (2000) e a Pilotti (1992), oltre che a Pilotti, Ganzaroli (2009). 

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Allora, il contesto spaziale di radicamento delle PMI consente la transizione delle rappresentazioni dell’impresa da un sistema meccanico verso un sistema organico per allargamento dei propri confini funzionali e anatomici dei rapporti impresa-ambiente, che si vestono di maggiori interdipendenze contestualizzate spesso anche fuori dai tradizionali confini sia territoriali sia settoriali, alimentando nuove inter-distrettualità e inter-settorialità come nelle forme dinamiche più recenti in Italia e in Europa o anche negli USA. La competitività non appartiene più allo spazio dell’agire della singola impresa ma di un intero sistema contestualizzato: il distretto industriale prima, il sistema produttivo locale poi e le ecologie del valore oggi. A qualificare i fattori di competitività spaziale entrano anche le categorie fondamentali della cooperazione e della fiducia. Questi sono, infatti, fattori contestuali di esternalità positiva che spingono verso alleanze e partnership (commerciali, industriali, finanziarie, di ricerca) tra imprese nello sviluppo delle capacità relazionali di apprendere ad apprendere in forme congiunte lungo network e filiere sempre più allungate di una divisione tecnico-produttiva del lavoro che via via assume forme sociali e contorni cognitivi di intelligence collettiva. Processi che consentono ai territori di internalizzare le esternalità che via via alimentano la crescita industriale in contesti di accresciuta apertura internazionale dei mercati e in presenza di una diffusa domanda di varietà nell’attivazione della circolarità tra conoscenze tacite e formalizzate o codificate e nell’allargamento a contesti spaziali più estesi e infrastrutturali di reti di conoscenza (per esempio, aree metropolitane e innovation region).

Il territorio diviene a tutti gli effetti un fattore diffuso di competitività, quale contenitore dinamico di esternalità positive che si estendono da una divisione tecnica del lavoro tra imprese verso una divisione sociale e cognitiva di popolazioni di imprese interconnesse oltre i confini settoriali e territoriali originari.

Da una parte, la categoria di sistema si espande fino ad incorporare pezzi di quell’ambiente che prima ne erano esclusi per linee di integrazione successive e, dall’altra, riassumono forza i soggetti che di quell’ambiente emergente sono costitutivi assieme agli altri enti e istituzioni (pubblici e privati), i quali popolano tale spazio e lo rendono vivo, favorendo:

1. trasferimento tecnologico;

2. transizione di risorse;

3. messa in comune di conoscenze formali e informali o tacite per l’apprendimento evolutivo;

4. co-determinazione di identità congiunte.

3.1. – Quali sistemi tra “vitalismi ed ecologie”: oltre la requisite varity di Ashby?

Un primo modo di approcciare e confrontarsi con la complessità è, come abbiamo appena finito di dire, quello dei sistemi vitali. Un sistema vitale è definito come un sistema che sopravvive, rimane unito ed è integrale; è omeostaticamente equilibrato sia internamente che esternamente e possiede dei meccanismi per crescere ed apprendere, per svilupparsi ed adattarsi, ossia per diventare sempre più efficace nel suo ambiente. La dinamicità del sistema è, quindi, legata all’omeostasi ovvero alla capacità di adattarsi a cambiamenti esterni attraverso una rete di feedback ed auto-regolazioni che connettono stati interni del sistema a stati esterni dell’ambiente. È evidente che, diversamente dai sistemi viventi, nei sistemi vitali la regolazione, l’apprendimento, l’adattamento e la replicazione non sono riconducibili a processi di natura prettamente biologica, ma artificiale. È in questa prospettiva, perciò, che assume un ruolo centrale, nella definizione di impresa come sistema vitale, l’organo di governo. Quest’ultimo è una entità che ha, come suo compito primario, la funzione di raccordare la struttura interna al contesto ambientale di riferimento.

Nello specifico un sistema vitale, essendo isotropo, è rappresentabile come uno schema che evidenzia due aree: l’area della decisione e l’area dell’azione. Questa scomposizione ha senso solo a fini analitici e di studio dell’identità del sistema. Entrambe, infatti, non possono esistere in autonomia e indipendentemente dal sistema stesso. Le due si devono raccordare tra loro attraverso un continuo adeguamento delle conoscenze disponibili e riconducibili alle singole aree al fine di consentire un adeguato flusso comunicativo tra le stesse. L’attività svolta da un sistema vitale deve soddisfare esigenze di un sovra-sistema a cui appartiene anche attraverso la qualificazione delle attività dei sub-sistemi di cui è composto. Questo sistema,

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così individuato, può essere ridefinito sulla base dell’esigenza di fornire una chiave di lettura coerente con i percorsi storico-evolutivi dell’impresa. In questa prospettiva, è possibile ridefinire l’impresa come il risultato emergente dall’interazione tra due aree: del governo e della gestione. La prima, come si è detto in precedenza, raccoglie le decisioni e le azioni che hanno a che fare con la gestione strategica del rapporto tra ambiente interno ed ambiente esterno. La seconda, invece, si riferisce all’insieme delle decisioni tecnico-tattiche e all’operatività vera e propria dell’impresa.

La vitalità di un’impresa, come dovrebbe essere ormai chiaro, dipende dalla sua capacità di relazionarsi con l’esterno scambiando l’energia necessaria, appunto, alla sua sopravvivenza. Per fare ciò, l’impresa, e quindi l’organo di governo, deve essere in grado di mappare e monitorare i mutamenti dell’ambiente esterno e, successivamente, costruire quelle strategie che, almeno in potenza, migliorino le possibilità di sopravvivenza per l’impresa. Un fondamentale risultato, quindi, è la connessione tra la capacità di mappare l’ambiente esterno con la capacità e il grado di apertura. L’attività di mappatura ha il fine di definire le entità rilevanti nel condizionare i percorsi di sviluppo e di sopravvivenza del sistema vitale. Questa dipende dalla capacità di esercitare pressione (influenza) e controllo su risorse critiche (criticità). In questo quadro, di riferimento è bene ricordare che esistono degli enti esterni che devono la loro rilevanza alla propria capacità di imporre vincoli e definire regole. Una volta definita la mappa delle entità rilevanti, la possibilità di aprirsi con l’esterno dipende dalla capacità di apertura. Questa è una caratteristica strutturale del sistema e definisce quanto il sistema è capace, sulla base delle dotazioni disponibili, di gestire relazioni con specifiche entità esterne. Diverso è il grado di apertura, che è il riflesso, invece, del come l’organo di governo ha deciso di sfruttare il potenziale a disposizione. Le relazioni con l’esterno sono descrivibili, infine, in termini di consonanza e risonanza. Questi due termini indicano gradi diversi di apertura e compatibilità tra due sistemi. La consonanza indica la capacità di due o più imprese di rapportarsi raccordandosi. Usando una metafora musicale, le imprese sono capaci di suonare assieme all’interno di un comune spartito, ma per fare ciò devono rinunciare a parte del proprio potenziale affinché il risultato nel suo complesso risulti accettabile: lo spartito è dato e gli strumenti seguiranno. La consonanza, perciò, implica un certo grado di ottimizzazione tra le imprese al fine di garantire la prestazione del sistema complessivo/allargato. La risonanza implica, diversamente, uno sviluppo ideale della consonanza. I sistemi entrano talmente in sintonia tra loro da dare luogo al formarsi o meglio all’emergere di una nuova realtà sistemica inclusiva, che comprende e riassume i sistemi di appartenenza, spesso per sussunzione di uno nell’altro ma non necessariamente coerente con le forme ambientali esistenti o dominanti e dunque suscettibili di conflitti non adattativi.

Secondo la teoria dei sistemi vitali i distretti e/o i sistemi produttivi locali sono dei sistemi vitali allo stato embrionale. Questo perché non è individuabile un organo di governo più o meno evoluto capace di indirizzare il comportamento dei sub-sistemi che lo compongono. Lo stato embrionale di questi sistemi è definibile entro due percorsi di formazione. Il primo, bottom-up, si riferisce a sistemi che si vanno formando e consolidando a partire da uno stato fluido o di mercato. Questo è tipico in ambiti ad alta intensità tecnologica, dove la continua innovazione e la rapida obsolescenza, fanno sì che emergano organi di governo atipici, poiché hanno durata limitata nel tempo rispetto al potenziale tecnologico disponibile. Il secondo, top-down, si caratterizza per la presenza di un organo di governo forte che assume un ruolo di sponsor capace di stabilire standard tecnici e comportamentali di compatibilità a cui le imprese devono uniformarsi se vogliono entrare a far parte della rete. In questo senso, l’organo di governo può qualificare e rafforzare ulteriormente la propria azione rendendo la struttura risonante e sviluppando un’identità d’insieme. L’organo di governo, al contrario, può perdere la propria capacità di dare direzione alle altre componenti del sistema e il sistema involvere verso uno stato di mercato.

La teoria dei sistemi vitali si dimostra, quindi, utile ad accogliere alcuni elementi di complessità tipici di sistemi compositi e multi-dimensionali, dove il comportamento di ciascun sistema è condizionato dai sovra-sistemi a cui appartiene ed emerge dall’interazione dei sub-sistemi di cui è composto. Permette, quindi, di sviluppare una buona fotografia in movimento di molteplici dimensioni dello spazio, orientate a sostenere diversi soggetti, enti e strutture interagenti nella co-produzione di fattori congiunti di competitività e di innovazione, ma sempre in un certo momento dato o in una sequenza definita di azioni e reazioni spesso guidate dall’alto e/o da un corpo istituzionale centrale che arbitra gli scambi, negozia gli stati di equilibrio e impone le sanzioni. Una buona fotografia, appunto di un movimento che sia sostanzialmente contenuto e non distorsivo dei vari componenti sistemici, soggettivi e strutturali. In altre parole, la “bontà della fotografia”

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ammessa da questi approcci dipende dal basso livello di interdipendenze tra livelli, tra funzioni organiche e tra soggetti, ossia da una contenuta soglia di interazioni compatibili con la requisite variety di Ashby (1956), che tra i padri della Cibernetica ha disvelato tra i primi queste condizioni specifiche tra equilibrio e varietà condizionati. Queste devono rimanere poche, ben delineate e sempre riconducibili ad un unico ente di coordinamento o di governance, ad un qualche Organo di governo (OdG). Un OdG che sia in grado di mantenere attiva la legge di Ashby della requisite variety, ossia facendo corrispondere il numero delle minacce e opportunità esterne (ambientali) con il numero delle risposte interne e un valore del loro rapporto pari a 1. Qualora ciò non avvenisse perché il numeratore è superiore al denominatore, l’organizzazione rischia la sub-ottimalità o l’inefficienza e nel medio termine la crisi.

Ma venendo meno queste condizioni per accrescimento entropico e complessità del sistema sotto osservazione il “sistema vitale” diviene solo uno e uno solo dei possibili casi di coordinamento in un range di possibilità non infinito, ma nemmeno riconducibile a poche varianti, e destinato alla sopravvivenza, come per il caso delle nicchie. Nella nicchia, infatti, la struttura, il soggetto, la sua famiglia di consociati/affiliati e l’ambiente ipostatizzano le loro relazioni fino al successivo “salto” generazionale, genotipico (popolazione) e/o ambientale. Il “sistema territoriale vitale” allora segnala attraverso l’apprendimento evolutivo le capacità di adattamento come capacità di sollecitare tanti piccoli miglioramenti da parte di molti dei soggetti nello spazio per diffuse e micro-varianti. Micro-innovazioni che vengono guidate e sommate dal/dai leader territoriale/i (spesso unici o comunque pochi) nei rapporti con i mercati finali e di fornitura, come ripristino della legge della requisite variety. Un lavoro di saldatura che si realizza normalmente in contesti di sponsor technology, a cui il sistema idealmente dovrebbe tendere rappresentando il benchmark di riferimento, utile a diffondere o replicarne le varianti nella specie. Ma in questo caso è l’organizzazione del sistema vitale nel suo complesso ad imparare e non necessariamente i suoi singoli e molecolari soggetti nelle reti spaziali (contesto), come popolazioni di imitatori-esecutori, che in questo modo, come nei formicai, possono divenire ostaggi del contesto nel quale operano. Infatti, le loro pratiche sono canalizzate lungo routines consolidate, quali soluzioni lineari ai tanti problemi attraverso la selezione delle ordinate procedure maggiormente funzionanti e che per questo vengono stabilizzate e diffuse anche se non sempre coincidenti con le più efficienti, ma semplicemente più note e consuetudinarie o convenzionali.

La conoscenza delle pratiche diffuse viene raccolta, ordinata e distribuita come sapere di tutti gli agenti. Sapere che non è più semplicemente ripetitivo ma migliorativo, non standardizzato ma omologante, non rigido ma capace di flessibilizzarsi negli adattamenti alle micro-varietà, e tuttavia compatibile con l’organizzazione diffusa e la sua autorità centrale. Il “sistema territoriale vitale” in queste condizioni evolve e migliora rispetto a qualsiasi altro sistema rigido e meccanico di coordinamento, consolidando organizzazione e autorità centrate e accogliendo flessibilmente le micro-varietà emergenti. Ciò, tuttavia, avviene mantenendo la propria auto-referenzialità senza produrre sostanziali esternalità (anzi con ridottissime ridondanze o eccedenze nulle), ma con singole attribuzioni lineari di valori rispetto ad ogni contributo conferito dal network entrepreneur/manager o nodo e con rendimenti decrescenti dipendenti dal piano (più o meno centralizzato) che il network adotterà quale sistema regolativo, come in un tradizionale rapporto principal-agent aggiornato e nel rispetto della legge di Ashby.

La prospettiva delle ecologie del valore, come detto sopra, rappresenta il tentativo di incorporare - piuttosto che continuare a contenere - la complessità ed il pensiero complesso nel discorso economico, secondo un modo di intendere e comprendere l’impresa in un quadro dinamico più ampio. Questo non tanto perché, come si sente spesso dire, il mondo stia diventando sempre più complesso, ma perché lo è in modo intrinseco. Questo significa che l’ipotesi, che è poi alla base del pensiero razionale, secondo la quale è sempre possibile raggiungere un punto (uno e uno solo) di osservazione da cui la complessità del mondo svanisce in una certezza completa supportata da una visione ordinata dell’insieme è semplicemente falsa. Come ha ben argomentato Thomas Khun attraverso la sua teoria delle rivoluzioni scientifiche e ribadito molti anni dopo Edgar Morin, l’enorme conoscenza che abbiamo accumulato sulle cose del mondo non ha contribuito in alcuno modo ad aumentare le nostre certezze su come esso funzioni, anzi le ha complessificate. Questo perché la conoscenza non è un costrutto adattivo. Le conoscenze non sempre si sommano tra loro come i pezzi di un lego e/o le forme cui quei pezzi possono dare luogo sono sempre diversi e mai finiti. Ciascun pezzo di conoscenza contiene un potenziale rivoluzionario che, quando le condizioni sono giuste (e quasi mai perfettamente predeterminabili), si mette in moto dando luogo ad un moto

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rivoluzionario che cambia una volta per sempre, come una frana cambia la morfologia del territorio e lo spazio del possibile e dei suoi confini con l’impossibile. Paradossalmente, il conoscere ci rende, allo stesso tempo, più intelligenti e più ignoranti. Più intelligenti perché ci fornisce una base interpretativa e una riserva di flessibilità più ampia purché l’ambiente non “scappi” troppo in avanti. Più ignoranti perché quella conoscenza interagendo con il mondo contribuisce attivamente a cambiarlo rendendoci appunto più ignoranti su ciò che potrà succedere e su larga parte delle conseguenze delle nostre azioni.

Come la teoria delle ecologie del valore si propone di incorporare la complessità nel discorso economico?

In primo luogo, focalizzando la propria analisi nei confronti dei processi di creazione e diffusione della conoscenza. In questo senso, la conoscenza non è solo la principale risorsa che le imprese utilizzano per competere nel mercato globale. La conoscenza è anzitutto il principale generatore di complessità. La complessità del mondo discende dal carattere riflessivo del conoscere. Il conoscere non è un atto passivo ma costitutivo del mondo. Il conoscere altera lo stesso contesto che si propone di rappresentare e gestire dando luogo a catene di azioni e retroazioni che non sono in alcun modo riconducibili ad un gioco strategico dove ciascun attore muove le proprie pedine nella scacchiera prevedendo il comportamento dell’altro. Infatti, in questo modo tutta la ruota della vita si fermerebbe e con essa l’incessante cambiamento che irreversibilmente la accompagna nel senso indicato per la biologia da Gould. La conoscenza, dunque, dilata e cambia la scacchiera ponendo le basi per un nuovo gioco di cui nessuno conosce a priori né le regole né le dimensioni né la posizione delle eventuali trappole. Come tale, essa necessita del massimo di libertà e di democrazia nei limiti del rispetto e compensazione continua delle eguali condizioni di partenza e di una giustizia sociale sostantiva come ri-disegnata recentemente da Amartia Sen oltre i vincoli à la Rawls. È per questa ragione, come avremo modo di approfondire successivamente, che la conoscenza risulta una “risorsa” tanto ostica agli economisti neo-classici e non. Infatti, è, allo stesso tempo, risorsa e risultato, un bene non rivale e non escludibile, un mezzo costoso da produrre (almeno nel prototipo iniziale) e tuttavia spesso caratterizzata da “gratuità” nella riproduzione. Ne discende il dilemma per cui la conoscenza genera un potenziale di crescita enorme se condivisa, ma su cui nessuno è disposto ad investire in assenza di barriere protettive (brevetti, licenze, diritti di proprietà intellettuale). Un dilemma dei “beni pubblici” che sino ad ora ha trovato soluzioni parziali nell’estensione del diritto proprietario alle conoscenze applicative, ma che oggi trova nuova composizione nelle prassi di condivisione tipiche delle comunità open source, nel mondo dell’informatica ma non solo30.

In secondo luogo, la complessità si incorpora nel discorso economico secondo la prospettiva ecologica focalizzando il proprio interesse nei confronti della creatività, quale principale capacità attivata nella generazione di nuova conoscenza da parte di soggetti attivi e consapevoli, che mettono in comune le capacità (isolate e distribuite) delle loro menti sulla base di progetti condivisi. La creatività è stata storicamente considerata un carattere innato e solo di recente si sono cominciate ad esplorare le basi cognitive e sociali della creatività. Queste analisi hanno messo in evidenza due aspetti complementari della creatività. In primo luogo, la creatività, essendo un atto strettamente individuale, è presente in individui che sono capaci, da una parte, di porre in relazione contesti del sapere anche molto distanti e, dall’altra, sono intrinsecamente motivati. Le loro motivazioni, in altre parole, non sono strettamente economiche, ma sono legate al desiderio di conoscere e migliorare se stessi e le relazioni con l’altro da sé. Sempre in questa prospettiva, la libertà e l’autonomia sono condizioni necessarie – ancorché non sufficienti - a che un individuo possa esprimere e sviluppare la propria creatività. D’altra parte, la creatività, da un punto di vista sociologico, emerge con maggiore frequenza in contesti multi-culturali, capaci di mettere in rete una molteplicità e varietà di risorse cognitive, poco o non gerarchici, aperti ed inclusivi, capaci di promuovere la partecipazione, la circolazione e la condivisione delle idee. In questa prospettiva, perciò, la creatività è poco compatibile con contesti caratterizzanti da leadership forti, gerarchiche, carismatiche e consolidate. Al contrario, emerge con più facilità in contesti dove la leadership promuove le connettività, la produzione continua di nuova varietà e favorisce lo sviluppo di relazioni dirette tra gli attori sia all’interno del sistema che all’esterno di esso. In questo senso, la prospettiva delle ecologie del valore arriva a conclusioni spesso difformi o distanti rispetto a

                                                            30 Per una ricostruzione del dibattito cfr. Pilotti, Ganzaroli (2010).

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quella dei sistemi vitali. Per esempio, l’esistenza di un organo di governo forte e gerarchicamente consolidato è, infatti, visto più come una barriera alla creatività e quindi allo sviluppo dell’ecosistema di riferimento ogniqualvolta limita le autonomie e le libertà dal basso dei singoli soggetti o comunità partecipanti, delimitando in questo modo le risorse di auto-organizzazione e le funzioni del potenziale relativo a ridondanze e varietà.

Infatti, in terzo luogo, la complessità si riconosce nei potenziali auto-organizzativi inespressi contenuti in reti connettive non lineari dominate da esternalità e positive feedback, nel senso proposto da Brian Artur (2004, 2010). La teoria economica ha sempre avuto – come noto - un atteggiamento “riduzionista” nei confronti delle esternalità. Questo per due ragioni di fondo. La prima è che questo termine è spesso associato a fenomeni di rilievo economico difficilmente misurabili e ai quali risulta difficile attribuire un prezzo se non in termini di impatto ambientale. Secondo, l’interesse degli economisti, sino a poco tempo fa, è stato quasi esclusivamente rivolto al problema delle esternalità negative. Quindi, gran parte del dibattito si è esaurito in una contrapposizione tra regolamentazione e mercato ovvero tra controllo de jure o attraverso l’istituzione di diritti di proprietà negoziabili nel mercato come nel caso di danni ambientali. Nell’economia della conoscenza, però, grande rilievo assumono le esternalità positive. La diffusione di un’innovazione, per esempio, è raramente riconducibile alla sua semplice utilità intrinseca, ma soprattutto all’estensione della rete delle relazioni di compatibilità che riesce ad attivare e da cui riceve e fornisce valore. Le esternalità, in questa prospettiva, rappresentano un elemento di vitalità di un sistema. Un potenziale liberamente disponibile capace di mobilitare la rete delle relazioni esistenti e potenziali nella ricerca di nuovi stati evolutivi.

In quarto luogo, la complessità comporta una focalizzazione verso l’auto-organizzazione come fenomeno emergente dall’interazione tra le parti di un sistema complesso adattivo. Il prefisso auto ha per questo un duplice significato. Da una parte, evidenzia il fatto che l’organizzazione non è determinata in modo esclusivo da un fattore esterno. Non esiste, in altre parole, un’entità esterna capace di determinare la struttura ed il comportamento futuro del sistema. Dall’altra, evidenzia anche che nessuno degli elementi costituenti il sistema è consapevole della struttura organizzativa emergente. Perciò, non esiste alcuna entità e/o progetto organizzativo interna/o al sistema capace di determinare la struttura e i comportamenti futuri del sistema. L’organizzazione emerge dall’interazione tra le sue parti, che agiscono sulla base di principi individualistici, ma anche storicamente affondati ovvero con l’obiettivo di ottenere la compatibilità tra un certo livello di beneficio e un definito livello di sforzo, non necessariamente massimizzante. Infatti, le ecologie, diversamente dai mercati, sono dominate da reti non-lineari di positive feedback. Per cui, a causa delle amplificazioni determinate da queste reti, diventa impossibile, per ciascun elemento del sistema, prevedere in modo compiuto tutte le conseguenze delle proprie azioni. Si deve quindi navigare a vista, empiricamente, spesso attraverso esperimenti, esplorazioni o eurismi. Gli attori agiscono sulla base di tentativi di ottimizzazione del proprio interesse (anche per quasi self-interested agents), ma essendo disponibili a ridefinire la propria azione sulla base dei segnali che ricevono dalla rete di feedback e dove possono emergere attori solidali non self-interested, più compatibili, per esempio, con condizioni di beni pubblici. Ne deriva un processo di negoziazione collettiva, dove ogni attore rivede continuamente e reciprocamente la propria azione sulla base delle azioni e delle reazioni delle altre parti e dove la strategia individuale è mediata da un filtro di relazioni collettive, che non sono semplice espressione di comportamenti di attori sempre auto-interessati ed egoisti. Si ammette l’emersione di individualismi non egoistici à la Simmel.

Questo processo di negoziazione modifica progressivamente l’organizzazione sino a che non raggiunge un punto di equilibrio (instabile) soddisfacente per tutti gli attori che vi partecipano. Con il tempo lo stato di equilibrio raggiunto sarà perturbato sia da fenomeni esterni sia da fenomeni interni, dando luogo a un nuovo processo di negoziazione collettiva che riconfigurerà le forme del sistema originario verso nuove forme sostenibili anche se instabili. L’aspetto più importante, comunque, è che l’organizzazione del sistema è decisa consapevolmente da tutti i soggetti appartenenti al sistema, i quali tuttavia non sono in grado di determinarne sempre gli esiti futuri e far sì che questi siano condivisi. Il sistema in oggetto, quando raggiunge un punto di biforcazione, sceglie, sulla base delle azioni dei suoi attori dominanti o in grado di sollecitare il consenso della maggioranza attorno ad una direzione da intraprendere, ma escludendone altre possibili e non necessariamente inefficienti. La scelta, in questo senso, può essere assolutamente casuale, in

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quanto è contingente alle scelte di ciascun attore, e non vi è alcuna certezza circa il fatto che sia la migliore possibile e ciò fa luce sulle dimensioni della co-evoluzione.

Infatti, l’ultimo aspetto che specifica la dimensione della complessità nella prospettiva delle ecologie del valore è la co-evoluzione. L’evoluzione, in senso Darwiniano, è il risultato di un processo di variazione-selezione e ritenzione. In questo senso, l’evoluzione è il risultato della sedimentazione storica di tratti che si sono dimostrati vincenti in un dato ambiente. L’idea Darwiniana di evoluzione, da questo punto di vista, presenta due principali limiti. Il primo assegna un eccessivo peso alla selezione nel discriminare i caratteri favorevoli da quelli sfavorevoli. In questo senso, la biologia ha evidenziato che l’evoluzione è influenzata anche da fattori interni. Questo perché non tutte le varianti possibili sono generate, ma solo quelle compatibili con una serie di vincoli interni. In secondo luogo, non tutte le varianti sono selezionate, ma molte risultano semplicemente invisibili alla selezione andando a formare una riserva di varietà che può essere sfruttata nel momento della necessità o anche mai più. Il secondo limite è legato all’idea che l’ambiente sia definibile indipendentemente da chi è selezionato, ricuperando in questo modo una parte del lamarchismo. Questa, in realtà, è una semplificazione logica. È evidente, infatti, che la selezione di gazzelle sempre più veloci non è indipendente dalla selezione di leoni sempre più veloci e viceversa. Ne consegue che l’evoluzione non può essere letta nella semplice contrapposizione tra specie ed ambiente, ma nella più ampia ecologia di relazioni che contribuisce a co-specificare le specie e gli individui che vi appartengono. Lo stesso vale per le imprese e i sistemi d’impresa. La loro evoluzione non è definibile nella semplice contrapposizione tra impresa e mercato, ma deve essere letta nella più ampia ecologia del valore che contribuisce a co-specificarne valore e significato.

L’attivazione di ecologie del valore, dunque, richiede normativamente nuove rappresentazioni d’impresa e di sistemi d’impresa, nuovi saperi condivisi e nuove istituzioni connettive accompagnate da un diverso management, oltre a quelle che finora abbiamo conosciuto nei sistemi produttivi locali italiani in grado di valorizzare le esternalità emergenti in termini di rendimenti crescenti e feedback positivi, appunto internalizzandole, da una parte, ma anche diffondendole e riproducendole, dall’altra.

Il sistema produttivo locale di produzione come ecologia del valore è un sistema neuronale multilivello che operativamente sviluppa la condivisione di risorse interne ed esterne, ossia capace, da una parte, di internalizzare risorse innovative e creative oltre che finanziarie, attraverso tradizionali meccanismi di mercato, ma dall’altra di diffondere le risorse comuni e meno appropriabili, esternalizzandole nel sistema e tra sistemi, promuovendo la sua natura sociale e comunitaria attraverso non-market mechanism. Un contesto dove la stessa categoria di strategia perde di forza esplicativa e di valore proiettivo e predittivo di fronte al rilievo assunto dai potenziali emergenti e ai comportamenti utili a valorizzarli all’interno di eco-sistemi di business sempre più estesi, articolati e interdipendenti.

Una traiettoria ecologica che vede la convergenza tra costruzione “sociale” del sistema produttivo locale e la sua costruzione “naturale” guidata da diffuse capacità auto-organizzative emergenti, che la inserisca adeguatamente nelle sue dimensioni politico-istituzionali oltre che etico-morali nella configurazione di eco-sistemi ecologici.

Ecologia, dunque, come scienza delle ecologie che si configurano come eco-sistemi della totalità degli agenti organizzati, e di questi entro organismi auto-organizzati, di soggetti relazionalmente integrati e delle loro institutions, che interagiscono con un ambiente ampio e strutturato a sua volta da fattori naturali disposti nell’antroposfera. Un nuovo campo interdisciplinare dunque che studia, in particolare, le interrelazioni e le interdipendenze complesse tra eco-sistemi socio-economici ed eco-sistemi naturali guardando ad entrambi come ecologie del valore.

Sistemi imperfetti e incompiuti, ma che nella loro incompletezza trovano le strade per trasformazioni non adattative nella forma di serendipity e/o exaptation e che esercitano pressioni sul sistema perché co-evolva e sia co-generatore di nuove strade per l’innovazione allargandone o espandendone le opzioni. I principali attori divengono corpi di imprese interrelati in filiere e network o piattaforme integrate di conoscenze locali (Nohria, Ghoshal, 1997), esplicite e implicite, che generano focus comuni d’interesse e identificano gli spazi di trust e di rischio condivisi quale risposta dinamica alla complessità crescente dell’ambiente.

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Le relazioni personali mantengono una loro centralità ben descritta da Nahapiet and Ghoshal (1997) nella ridefinizione del social capital, che qui riconfiguriamo come eco-social capital (ESC), nelle tre componenti fondamentali:

1. personal relationships;

2. trusting relationships;

3. shared goals and mutual interests.

3.2 – Formiche nei formicai e stormi di storni: quasi una biforcazione non-adattativa e implicazioni manageriali

Ritornando ad una metafora biologica, il Sistema Territoriale Vitale (STV) è rappresentabile allora come un formicaio, un sistema perfetto dotato di auto-controllo, ossia caratterizzato da sostanziale auto-referenzialità: difatti, la formica è il formicaio e senza di esso non può esistere, senza nessuna ridondanza o eccedenza.

Nelle ecologie, potremmo ammettere, per esempio, “formiche intelligenti” dotate di capacità di auto-organizzazione e auto-rappresentazione, in grado di captare e anticipare il nuovo, il possibile, realizzando il potenziale emergente tra molteplici opzioni. Il formicaio come ecologia mette al lavoro le menti singole e connesse di tutte le formiche generando eccedenze cognitive di cui il sistema territoriale vitale è incapace, essendo prigioniero di utilità immediate e di efficienze estraibili nel presente, ma cieche sul futuro e sui potenziali, perché sostanzialmente chiuso sul proprio interno e con filtri sperimentati sull’esterno sulla base delle compatibilità “interne”. Le ecologie del valore si formano in quanto capaci di mettere in connessione i patrimoni interni con l’esterno e con differenziate fonti di immaginazione e creatività individuali e collettive, frequentando le discontinuità piuttosto che le derive della continuità di convenienze presenti o attese. Queste ultime, possono funzionare solo entro certi limiti, finché ritroviamo le specifiche coincidenze o convergenze tra consonanza e risonanza, ma non oltre, ossia dentro i confini dell’ordine prestabilito o selezionato come funzionante e coerente, e per questo probabili e a valore decrescente o nullo dentro un sostanziale determinismo.

I sistemi ecologici camminano ed evolvono, invece, lungo la frontiera del cambiamento e come dice Kaufman sull’“orlo del caos”, lavorando sulle imperfezioni, sulle contraddizioni interne e sulle aree di indeterminazione. Nelle ecologie, le reti si fanno porose e asimmetriche, proprio perché vi è spazio per le intelligenze individuali e soggettive; si aprono spazi al caso, dalla serendipity alla exaptation, espressioni di varianti improbabili e per questo a valore positivo e crescente.

Ecco allora anche le grandi opportunità per i tanti sistemi territoriali locali italiani come ricche ecologie del valore emergenti, sistemi incompiuti da mettere al lavoro normativamente, valorizzando la presenza di imprese troppo piccole per controllare il proprio ambiente e troppo mobili per presidiare il cambiamento in specifici settori o piattaforme tecnologiche e, tuttavia, veloci nel plasmare nuovi legami, scolpire significati alternativi da assegnare alle proprie competenze, accedere a nuovi valori condivisi del proprio circuito tecnico-produttivo e, in questo modo, esplorando sperimentalmente il potenziale individuale e collettivo.

Ritornando alla metafora biologica e al formicaio, che meglio rappresenta il sistema territoriale vitale con una ben definita leadership e strati di autorità connesse, le ecologie sono meglio descritte dal comportamento degli stormi, soprattutto quelli di grandi dimensioni che hanno la velocità di adattamento direzionale indipendentemente dal ruolo del leader che spesso manca oppure cambia dopo ogni “gioco”. Il movimento continuamente cangiante nei grandi stormi è tale da disegnare figure sempre complesse e differenziate, ma non guidate da un leader quanto da micro-spostamenti trasmessi da un uccello all’altro fino a centinaia o anche migliaia. Qui risiede la grande differenza tra formicai e stormi: i primi sono guidati da un design procedurale sempre ordinato e lineare, dove non c’è spazio per il caso (sistemi perfetti senza derive o frizioni e indipendenti dalle condizioni iniziali), mentre i secondi sono auto-organizzati da micro-creatività locali e dal caso, alimentati proprio dalle imperfezioni e da continui movimenti frizionali che mutano continuamente

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il disegno finale. In questo senso, i distretti industriali italiani sono alla ricerca di reti inter-imprenditoriali che “superino” i limiti spaziali del formicaio-sistema locale incrociando:

a – il lavoro di molteplici e numerose intelligenze autonome e disperse;

b – un frame collaborativo che mobilita comunicazioni locali e globali contemporaneamente;

c – stati di fiducia reciproca che si auto-alimentino dentro progetti condivisi a rischio;

d – radar e monitoraggio di capacità di leadership a volte concentrate e a volte disperse o acquisibili all’esterno.

Saremmo allora in presenza di una nuova filosofia di management ecologico - o di uno “stormo post-fordista” - che modula apertura e chiusura dell’ecologia emergente nella valorizzazione dei potenziali di conoscenza non dati (emergenti) attraverso:

I – creatività ecologica;

II – produzione a rete e/o a rete-di-reti;

III – intelligenza esplorativa e sperimentale.

Più nell’ecologia scopriremo ridondanze e imperfezioni e più saremo in grado di rispondere all’ignoto non con previsioni, ma con anticipazioni simulate del futuro emergente o solo potenziale.

Ma la categoria di ecologia del valore mette alla prova la stessa consistenza del concetto alla base del management: la strategia (Iansiti, Levien, 2004). Infatti, la strategia di un agente richiede delle invarianti rispetto ad una struttura o ad una sua componente che si muove, al fine di misurarne le variazioni per potersi “posizionare” a sua volta sia adottando logiche collaborative sia esplorando le proprie possibilità tra azioni competitive, imitative o di inseguimento, secondo logiche perfettamente razionalistiche che presuppongono l’onniscienza. Ma se siamo di fronte ad un’ecologia - imperfetta e incompiuta per definizione – e, dunque, ad un corpo in movimento dinamico e irreversibile, del quale siamo parte essenziale: come procedere, quali decisioni prendere e come ?

Il “Grande Enigma” dei sistemi ecologici del valore, al quale cercheremo più avanti di dare qualche risposta avendone anticipato sopra alcuni frammenti post-razionalisti, confrontandoli con il management standard che abbiamo conosciuto finora!

Box 1 - Natura delle ecologie

1. Il mondo “mappato” da ecologie del valore segnala forme di connettività caratterizzate da stringhe di compatibilità e di reciprocità di tipo soggettivo-sistemico e sistemico-funzionale (e non) a base relazionale per risorse non date.

2. Le catene connettive sono multilivello, ossia orizzontali e verticali, e sono generalmente eterodirette, operando i suoi nodi e soggetti in direzioni differenziate di evoluzione e di produzione del valore.

3. Il valore si produce per catene connettive multi-orientate da sistemi non auto-referenti e continuamente aperti alla condivisione tra mondi strutturalmente e soggettivamente differenziati in assenza spesso di un progettista/costruttore unico.

4. La propagazione del valore ammette azioni di corpi intermedi di comunità, di sub-popolazioni o di popolazioni di attori che mettono in comune le loro menti per emersione localizzata di complementarità multiple – tecniche e funzionali - e di convenzioni comunicative e di senso.

5. L’obiettivo è l’esplorazione, sperimentazione, produzione di standard e meta-standard e di accordi per convenzione che orientano le azioni dei soggetti, le attività dei nodi-network e gli orientamenti delle comunità.

6. Le ecologie diffondono i propri effetti in assenza di ordinatori unici e univoci attraverso pluralità di forme organizzate e di comportamenti adattativi ed evolutivi a partire da relazioni

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dinamiche soggettivo-sistemiche di tipo (almeno bidimensionale) orizzontale (per esempio, mercato, distretto mono-produttivo, multinazionale non knowledge oriented, ecc.) e di tipo verticale (per esempio, sistema locale dinamico monoproduttivo-multiproduttivo, Internet, una rete commerciale multicanale, rete di fornitura multi-tecnologica e multi-canale).

7. Gli esiti della “selezione ecologica” interna-esterna segnalano un aumento della varietà soggettivo-sistemica effettiva e potenziale, come espansione del portafoglio di opzioni reali di scelta dei soggetti.

Nei sistemi ecologici i singoli soggetti (individui, istituzioni, comunità) si muovono con opzioni strategiche diverse, di tipo passivo (A) o attivo (B), e pongono differenti basi alla co-generazione di valore per la governance dell’interdipendenza.

A. Le strategie passive guardano al mantenimento delle rendite di posizione riducendo gli spazi di azione ai concorrenti e sostanzialmente riducendo i costi di transazione (o meglio i costi di non conoscenza), ossia approssimando la soglia tecnica “migliore” in un mondo statico dominato dagli incumbent, per effetti di locked-in e scarsi positive feedback, dove si presume che la conoscenza sia data e accessibile in forme discriminate e discriminabili per regolare la dematurity31;

B. Le strategie attive, invece, governano l’interdipendenza, sviluppando linking e leveraging, in grado di ridurre i costi di conoscenza per condivisione e interazione in un mondo dinamico e basato sulla conoscenza, ponendosi anche in condizione di repositioning. Amplificando i feedback positivi nella base tecnologica e di servizi erogati, nelle forme di interazione con gli utilizzatori e nella base fiduciaria verso i clienti: veri e propri strumenti di sostegno di medio-lungo termine di increasing returns market (Arthur, 1996, 2000).

I soggetti che agiscono con strategie attive stimolano ecologie emergenti, estendendo i legami e le relazioni, rinnovando le loro attività attraverso forme di co-generazione del valore che sono realizzate per condivisione e interazione di molteplici piani di azione e livelli di decisione, tra pluralità soggettive e relazionali che si allargano per costruzione connettiva di nodi che consentono il transito di soggetti, agenti e istituzioni (dall’appropriazione del valore alla creazione dei valori). La co-creazione dei valori ammette molteplici strade e soluzioni processuali possibili e sostenibili.

Quale scegliere? Quale strategia adottare? In un mondo incerto e complesso, dove non tutto è calcolabile o dove la calcolabilità dei comportamenti di scelta diviene a sua volta incerta, si aprono prospettive di impredicibilità e qui il management segnala tutta la sua debolezza, ma anche la sua forza evolutiva ed esplorativa. Una forza che deriva dalle azioni e dalla capacità ad apprendere dall’esperienza e dai contesti come risorsa chiave, per inseguire (con descrizioni e prescrizioni più accurate) e, contemporaneamente, per costruire “anticipazioni” (con azioni e rappresentazioni) di mondi nuovi con esplorazioni continue e sperimentali del futuro. Alla ricerca di strategie come percorsi per indagare la sostenibilità dei portafogli di opzioni del futuro32.

Nel mondo dell’efficienza statica di Porter e Williamson prevalgono strategie passive, mentre nel mondo dinamico di Brian Arthur le strategie d’impresa sono essenzialmente attive come nella next economy33. Nel primo caso, il valore è già residente nel quasi-equilibrio dei mercati e va semplicemente “appropriato” prevalentemente attraverso economie dimensionali e di posizionamento specifico nell’area di business. Si mantengano le posizioni relative sostanzialmente stabili e comunque entro bassi tassi di innovazione complessivi. Nel secondo caso, sono le imprese che creano valore dal potenziale connettivo delle competenze utili e delle capacità relazionali per sostenere processi di “apprendimento ad apprendere”:                                                             31 Vale a dire spostare a destra il punto di decreasing returns dei propri prodotti e servizi, dunque, con azioni di government competitivo degli effetti di locking-in, che sono anche di protezione di confini settoriali più o meno allargati. 32 Cfr. Mintzberg, Lampel (2001). 33 Cfr. Cusumano, Markides (2001).

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l’efficienza è di tipo dinamico e l’impresa nasce proprio a partire dalle opportunità potenziali create dalle sue stesse azioni in condizioni di innovazione continua34.

Il management in un tale contesto organizzativo e territoriale-ambientale non rappresenta più una mera funzione, per quanto ricca, di coordinamento, atta tradizionalmente all’appropriazione del valore tramite incentivi alla produttività, monitoraggio e controllo delle performance, ma diviene un architetto di catene di innovazione e un costruttore di mappe di conoscenza. In tal modo, si ampliano le traiettorie strategiche come opzioni reali a base ecologica, non riducibili a pure scelte di mercato (come in un mondo zero-sum-based dove prevalgono appropriazione e controllo del valore), perché la creazione di valore avviene in un mondo non-zero-sum-based, dominato da innovazione e crescita continue. In questo contesto, il manager non è più un semplice edificatore di sistemi coerenti o un regolatore-verificatore di equilibri predeterminati, ma:

- uno sviluppatore di attori comunitari;

- un sollecitatore di capacità auto-organizzative;

- un motivatore di squadre di agenti simili ma non uguali35;

- un co-generatore di regole condivise e derivanti da valori costitutivi.

Nelle ecologie del nuovo mondo ai manager e agli imprenditori così come agli attori si richiedono una superiore responsabilità (anche etica) e un più forte commitment, perché si richiede loro di rilevare e riconoscere differenti tipologie di economie che operano tra loro, a volte anche in conflitto. A partire dalla discriminazione degli effetti di feedback positivi e negativi e, in particolare, quelli che giocano nei fenomeni di emergenti ecologie derivanti da subjective interlocking e systemic interplay tra forze e azioni di mercato e non, tra istituzioni e comunità sociale. I sistemi ecologici introducono ulteriori dimensioni verticali rispetto alla pura dimensione orizzontale del mercato nella generazione del valore come semplice riduzione dei costi di non conoscenza. Le ecologie sostengono, infatti, un tessuto di valori che non possono essere ricondotti a puri meccanismi di accoppiamento tra competizione ed efficienza degli scambi, perché introducono il valore delle relazioni, della cooperazione, delle istituzioni, di soggetti non-self-interested, che attraverso la produzione di fiducia e di condivisione cognitiva della conoscenza “sostituiscono” rilevanti risorse di scambio, senza le quali lo stesso non potrebbe avvenire se non a costi rilevanti e spesso insuperabili perché affondati. Un insieme di valori che definisce e richiama, peraltro, un nuovo tessuto morale (moral contract) per l’impresa e costruisce una nuova qualità delle relazioni tra stakeholders (contestualizzati o inter-contestualizzati), in quanto vincolo nell’assunzione consapevole di responsabilità degli obiettivi di competitività dell’impresa con quelli collettivi e di community per la creazione di valore36 attraverso reti, filiere e piattaforme: dal meta-distretto al meta-management fino alla meta-corporation37.

                                                            34 Cfr. Ghoshal, Bartlett, Moran (2001). 35 La nuova filosofia manageriale, per dirla con una formula sintetica, mostra di lasciare i tranquilli e protettivi porti delle “tre S” (Strategy, Structure, Systems). Tre macro-categorie che vanno lette nelle forme forti adottate fino agli anni ‘80 per la gestione/controllo/government del valore (da appropriazione di una rendita o da lock in) in mercati dominati da decreasing returns e nei quali la dominanza competitiva era appoggiata ad una qualche (“una e una sola”) efficiente dimensione tecnica ottima minima, e che avviano l’impresa degli anni ‘90 verso i mari aperti della governance della complessità nella knowledge society delle “tre P” (Purpose, Process, People) (Ghoshal, Bartlett, Moran, 2001). 36 “[…] Value creation demands something much more inspiring than individual self-interest: a community of purpose in which individuals can share resources, including knowledge, without knowing precisely how they will benefit, but confident of collective gain. In other words, innovation depends on a company acting as a social and an economic institution, in which individuals can behave accordingly. These requirements are embodied in a new moral contract with employees to anchor the similar contract with society. In the new contract, employees take responsibility for the competitiveness of both themselves and the part of the company to which they belong. In return, the company offers not the dependence of employment security but the independence of employability – a guarantee that they fulfil through continuous education and development” (Cusumano, Markides, op.cit, p. 22). È dell’ottobre 1989 questa frase di Jack Welch, CEO della General Electric: “[…] The new psycological contract […] is that jobs at GE are the best in the world for people who are willing to compete. We have the best in training and development resources and an environment committed to providing opportunities for personal and professional growth” (Tichy, Charan, 1989). 37 Cfr. Pilotti, Ganzaroli (2010).

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4 - Un tentativo di tassonomia: tra saperi, cooperazione e leadership partecipativa, tra storia, cultura e azione

Sulla base di quanto fin qui svolto è possibile individuare tre equilibri lungo cui sono classificabili le diverse forme di sistemi produttivi locali dal semplice al complesso, guardando alla natura dei saperi e alle forme della conoscenza:

1. equilibrio tra saperi personali e sapere collettivo, che sostiene le traiettorie di innovazione, la distribuzione condivisa del valore e le componenti relative del vantaggio competitivo (con un ricorso alla natura storica del processo - STORIA);

2. equilibrio tra competizione e cooperazione, su cui si basa la costruzione sociale del mercato (che fa riferimento alla valenza culturale di valori condivisi - CULTURA);

3. equilibrio tra conflitto, partecipazione e leadership, che delimita i confini entro i quali emergono le componenti assolute del vantaggio competitivo (che sottolinea la natura delle azioni individuali e collettive e la loro sostenibilità - AZIONE).

Nella prima fase, che potremmo definire originaria, come abbiamo già delineato sopra, il distretto industriale è caratterizzato dal prevalere di conoscenze tacite radicate su una comune base tecnologico-produttiva e di pratiche condivise prevalentemente di tipo imitativo. Il motore dello sviluppo è prevalentemente esterno o esogeno. È la crescita della domanda, infatti, a trainare il progressivo espandersi della divisione tecnica del lavoro su base territoriale in senso smithiano. Più la prima cresce e più la seconda potrà espandersi lungo le linee di una divisione tecnica per crescenti livelli di produttività fisica. Diverrà in questo modo conveniente scomporre territorialmente il lavoro tra imprese in un numero sempre maggiore di attori specializzati ed indipendenti alimentato dalla crescita di una domanda omogenea e a basso tasso di varietà tendenzialmente inferiore alla crescita della produttività e dunque per costi decrescenti per unità di prodotto.

La competizione, in questa fase sorgente dal dopoguerra alla fine degli anni ‘60, è prevalentemente basata sul prezzo. Non esistono, infatti, differenze in termini di qualità del servizio offerto tra gli attori appartenenti al sistema. Gli effetti degenerativi che possono derivare da una competizione di prezzo sono limitati, da una parte, da una domanda crescente, e, dall’altra, dal prevalere di un clima di reciproca fiducia, che ha nella chiusura del sistema una delle sue ragioni principali. La chiusura del sistema ha, quindi, un ruolo centrale nello sviluppo di questo modello imprenditoriale. Contiene il diffondersi degli effetti più negativi che derivano da una competizione serrata sul prezzo. Ma, soprattutto, svolge un’importante funzione di incubazione. Facilita la socializzazione dei comportamenti e delle conoscenze sviluppate su base adattiva e per learning-by-doing da prossimità e contiguità spaziale attraverso il lavoro in rete, favorendo il continuo replicarsi e allargarsi della base imprenditoriale e di divisione del lavoro su base territoriale, che è all’origine della competitività del sistema così configurato. L’esternalizzazione di parte della produttività delle singole imprese è internalizzata dal distretto nel suo insieme, che per questo può espandersi per numero di imprese, dove le reti apprendono per contiguità in uno spazio delimitato e osmotico.

In una seconda fase, che si colloca appena dopo le crisi energetiche degli anni ’70, l’originale concetto di distretto conosce una prima mutazione e diviene flessibile. Il vantaggio di questo modello non è più da ricercarsi solo nei minori costi legati ad una maggiore divisione tecnica del lavoro su base territoriale in condizione di domanda crescente, ma nella capacità di adattarsi ad un mercato che comincia a differenziarsi sempre più divenendo, così, sempre meno prevedibile e disomogeneo. La base di integrazione del sistema mantiene il suo carattere prevalentemente sociale. I minori costi di adattamento in questi sistemi sono spiegati dal prevalere di un clima di reciproca fiducia che affonda, come per il distretto marshalliano, nell’appartenenza ad una stessa comunità e la forte identificazione con il suo sistema di norme e valori di riferimento e con le proprie radici. La chiusura è ancora un tratto prevalente e strategico per la competitività di questo modello produttivo. Lo stesso vale per la base di conoscenza, che mantiene il suo carattere tacito e

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tuttavia contaminandosi con gradi crescenti di codificazione delle conoscenze “interne” (anche in relazione al grado di internazionalizzazione delle economie) viene poi diffusa e condivisa attraverso processi di socializzazione all’interno del sistema ma sempre lungo reti corte.

Nella terza fase, a partire dagli anni’90, la funzione di traino svolto dalla domanda esterna viene meno perché questa si differenzia e perché emerge il ruolo competitivo di nuovi Paesi e in generale del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina).

I sistemi produttivi locali sono chiamati a compiere una metamorfosi profonda. Non è più sufficiente saper produrre e/o essere flessibili per essere competitivi nei mercati globali. Bisogna innovare, non solo nei processi e nei prodotti, ma contemporaneamente nei mercati e nelle conoscenze via via incorporate attraverso relazioni con centri di ricerca e laboratori oltre che con aree metropolitane per l’accesso ai talenti e alla creatività di comunità allargate e territorialmente estese. L’evoluzione del distretto e la sua sopravvivenza richiedono un salto nell’espansione dell’apertura verso nuovi mercati e nuove fonti di competenza, “oltre” la tradizionale divisione tecnica del lavoro tra imprese verso componenti sempre più cognitive e knowledge based con reti non più contigue e corte ma reti lunghe e focalizzate.

Questa è una condizione sine qua non per sostenere la domanda di prodotti e servizi nel territorio. In questa fase, che potremmo delineare come emergente dopo il simbolico 1989, si comincia a porre grande attenzione nei confronti della conoscenza quale driver del processo innovativo.

Dal distretto marshalliano delle origini, con le caratteristiche del sistema chiuso che cresce al suo interno sulla spinta di una domanda omogenea e continua, alimentata da economie esterne d’impresa ed interne di distretto sulla base di conoscenze mobilitate dalla divisione tecnica tra imprese di tipo tacito e solo in parte codificate in consolidate pratiche professionali di tipo artigianale, si transita verso altri due approcci o configurazioni, ben noti in letteratura.

Il primo, il milieu innovateur, pone l’accento sul territorio come spazio di supporto nel quale la divisione del lavoro tra le imprese è mediata da soggetti terzi rispetto alle imprese a base istituzionale che fanno da facilitatori del trasferimento di conoscenza interimpresa. Il secondo, dei sistemi produttivi locali (SPL), focalizza, diversamente, la propria attenzione sui processi di traduzione/creazione della conoscenza e in particolare tra conoscenze tacite, prevalenti nei contesti locali, e conoscenze codificate, prevalenti nei contesti cosiddetti aperti, frutto di internazionalizzazione e/o in parte anche globali. In entrambe queste prospettive, però, si sottolinea l’importanza di gestire i confini sempre più porosi del sistema, che come un magma fluido si allarga sulla spinta di un cambiamento delle risorse e competenze interne. Infatti, l’eccessiva chiusura del sistema, in questa fase, diventa un limite per due ragioni principali.

In primo luogo, impedisce alla maggioranza degli attori di comprendere le dinamiche competitive che caratterizzano lo sviluppo dei mercati globali pure in presenza di diffusa internazionalizzazione dei loro prodotti sulla base di prevalenti dinamiche esportative. La mediazione delle grandi imprese o delle “imprese guida” e la fragile presenza sui mercati internazionali, pur definita da una buona propensione esportativa, finisce per limitare la capacità di molti imprenditori locali di intravvedere i rischi, ma soprattutto le opportunità, di una competizione globale ormai alle porte o in fase di consolidamento. Questa mancanza di consapevolezza ha determinato, in molti casi, un ritardo, a volte irrecuperabile, sul piano degli investimenti da parte delle piccole imprese locali, che porterà alla crisi di segmenti o nicchie di mercato distrettuali. In molti casi ciò avviene perché il tasso di innovazione è rimasto modesto, ostaggio di una competizione sul prezzo e/o di un blocco nella divisione tecnica del lavoro tra le imprese a livello intra-distrettuale. Tale condizione ha ridotto il trasferimento di conoscenze sia tacite sia codificate per un eccesso di chiusura, che non si è tradotto anche in affermazione identitaria e riconoscibilità dei prodotti. In generale, la manovra del prezzo non era più sufficiente né alla differenziazione né a sostenere finanziariamente un qualche percorso di diversificazione innovativa. Infatti, la chiusura del corpo sistemico del vecchio distretto a volte anche mediato da “imprese guida miopi” impedisce allo stesso di evolvere in modo consonante e coerente con l’evoluzione del contesto globale. L’apprendimento adattivo, in altre parole, non basta più perché troppo lento e lineare. Non è più sufficiente una rete di micro-mutazioni o adattamenti locali per sostenere la competitività del sistema spaziale di competitività, che non coincide con la somma di singole imprese seppure collegate tra loro e che necessita di un salto in altri basket - portafogli di competenze e risorse acquisibili aprendo le dinamiche interdistrettuali e accedendo ad un networking più consapevole del proprio

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posizionamento in catene del valore ormai evolute e globalizzate. Il sistema che va emergendo, può sopravvivere in primo luogo imparando a cambiare rapidamente e scambiando reciprocamente risorse con altri sistemi esterni e/o iniettando nuove risorse combinate attraverso l’accesso ai servizi di nuove aree produttive e, in primo luogo, con quelle aree metropolitane con le quali sembrano innervarsi i distretti più dinamici. Ciò avviene sia lungo la pedemontana lombarda e veneta sia lungo la dorsale adriatica o in Toscana, ma anche in Campania. In secondo luogo, imparando a rileggere continuamente la propria identità alla luce dei continui cambiamenti tecnologici, sociali e di mercato con cui si confronta e si raffronta in un orizzonte temporale che non può più essere di breve termine trasformando le relazioni di fornitura e commerciali in una spessa e connessa intelligenza condivisa.

Per fare ciò il sistema spaziale che va ri-configurandosi ha bisogno di aumentare non solo il grado, ma soprattutto la qualità dell’intelligenza disponibile. Come? Non certo o almeno non solo concentrandola in alcuni nodi costruiti ad-hoc al fine di favorire la diffusione di conoscenza, ma collettivamente. Investendo cioè sulle qualità di intelligence e relazioni di tutti i nodi di una rete di reti, ossia di una rete iper-connessa. Per fare ciò il distretto tradizionale è portato ad estendere i propri confini e lo fa in due direzioni principali.

A – Per astrazione dalle specificità del prodotto e del settore di appartenenza per concentrarsi sulle proprie competenze core e identificare i diversi ambiti in cui le stesse possono essere riapplicate con successo. Le imprese del SPL, così facendo, cominciano a tessere relazioni che vanno al di là dello stretto ambito tecnologico-territoriale di appartenenza, per aprirsi a settori e/o mercati tecnologicamente adiacenti o solo contigui.

B – Per ampliamento della base di conoscenze tradizionalmente utilizzate, valorizzando estensivamente la propria rete di relazioni oltre gli ambiti dove queste conoscenze sono effettivamente prodotte. In questa fase, perciò, il distretto diviene una meta-struttura, che collega ambiti geografici anche non contigui. Da una parte, altri sistemi territoriali dove le proprie conoscenze e competenze possono essere applicate e replicate con successo ibridandosi. Dall’altra, con le grandi città e/o aree metropolitane, dove le attività di produzione della conoscenza e capitale umano tendono a concentrarsi in ragione di maggiori economie di scala e di una maggiore accessibilità a infrastrutture globali materiali ed immateriali, come i centri di ricerca e le università quali fonti di varietà allargata per il trasferimento di innovazione applicata.

La teoria sui Regional Innovation Systems - RIS segnala un ulteriore salto di scala e di apertura dinamica dei tradizionali contesti distrettuali. La dimensione competitiva minima per un sistema territoriale diviene – per molti settori industriali - il livello regionale o anche macro-regionale38. Solo a livello regionale, infatti, esiste la scala economica minima a giustificare investimenti in infrastrutture e servizi materiali, ma soprattutto immateriali, necessari a sostenere la competitività delle imprese di un territorio. Il distretto, perciò, diventa parte integrante di un sistema produttivo o meglio innovativo più ampio. Un nodo di una rete che si caratterizza per una forte sedimentazione regionale, ma che si apre sempre più verso l’esterno alla continua ricerca di nuove basi di conoscenza e ambiti di applicazione su cui ricostruire il proprio vantaggio locale e regionale. Questo ulteriore processo di apertura spinge verso un’altra astrazione dagli specifici ambiti settoriali e di prodotto entro cui i singoli distretti/sistemi produttivi si sono formati. In questa prospettiva, ad esempio, l’Emilia Romagna rappresenta un sistema regionale che integra diverse specializzazioni, tra cui la meccanica di precisione, l’alimentare, la casa, ecc. Esistono forti sovrapposizioni tra questi ambiti. La costruzione di macchine per la lavorazione ed il packaging alimentare, ad esempio, integra conoscenze e competenze che sono sia della meccanica sia dell’alimentare. Non solo. Applicazioni sviluppate per alcuni ambiti possono essere riapplicate, exapted, in altri ambiti, come nello sport system veneto o nel biomedicale romagnolo. La varietà di contesti che compongono il sistema regionale e con cui il sistema regionale si confronta rappresenta un input fondamentale per la creatività del sistema nel suo complesso e per il suo tasso di innovazione. La base di apprendimento e condivisione della conoscenza diventa sempre più interattiva, a due o più vie. Questo implica un’ulteriore spinta verso l’adozione di linguaggi codificati, che permettono di interagire e dialogare in contesti extra-territoriali. La base fiduciaria è sempre meno legata alla conoscenza personale e reciproca e sempre più legata a fattori di reputazione veicolati entro reti di dimensione globale.

                                                            38 È il caso del tessile-abbigliamento lombardo-veneto-romagnolo, dello sport system veneto oppure dell’agro-industria emiliano-lombarda.

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In questo quadro di riferimento una domanda sorge spontanea.

Ha ancora senso parlare di territorio e competitività territoriale? La nostra risposta è affermativa. I modelli di business emergenti, come ad esempio l’open source, benché abbiano perso la propria dimensione territoriale, mantengono sempre una dimensione comunitaria. L’essere parte, l’identificarsi con un sistema di valori di riferimento sono elementi fondamentali per la capacità di una comunità di attrarre risorse e sostenere la propria competitività. In questa prospettiva, a nostro parere, il territorio mantiene un ruolo importante. Nel dare significato e valore a prodotti, risorse e competenze che sono proprie di un territorio esteso, un contenitore dinamico di intelligenze collettive e identitarie tra storia, cultura ed azione.

Nella quarta fase, infine, i sistemi produttivi locali sono chiamati a confrontarsi con la complessità. Una complessità che ha molte facce – tecnologica e di mercato, ma anche istituzionale e culturale, ecc. -, e tuttavia con una comune origine: l’accresciuta interdipendenza tra le parti di reti lunghe ormai divenute globali. Questo significa non solo l’impossibilità di prevedere il futuro e, quindi, governare il cambiamento, ma imparare a vivere in un mondo di eventi estremi. In un mondo, cioè, dove l’impossibile, l’inimmaginabile e il catastrofico sono sempre dietro l’angolo. I territori, le imprese, le persone sono ormai parte di una rete complessa dove anche piccoli eventi possono innescare effetti a catena capaci di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’intero sistema. Ne è prova l’ultima crisi finanziaria che nasce come evento relativamente isolato, ma si riproduce su vie molteplici, non prevedibili a priori, come conseguenza di prodotti finanziari che sono derivati, di derivati, di derivati, che perdendo il rapporto con le basi di rischio reali innescano un moltiplicatore di scala dell’incertezza senza fine fino a raggiungere proporzioni di sistema. Lo stesso vale, però, per le tecnologie, dove innovazioni ritenute a priori marginali, hanno l’effetto di mutare la struttura di interi settori. Chi avrebbe mai detto che l’invenzione da parte di uno studente tedesco di un algoritmo di compressione come l’Mp

3 avrebbe finito per cambiare non solo il modo in cui la musica è prodotta, distribuita e consumata, ma anche quello strumento che insistiamo a chiamare tele-fono, ma che ha in questo forse una delle sue funzioni residuali mentre sono valorizzati i servizi che veicola ben oltre la “voce”.

Come si sopravvive, perciò, in un mondo tanto mutevole? Un mondo non normale: dove media e varianza non sono più due parametri utili a stimare la probabilità di realizzarsi di un dato evento. La nostra analisi, a questo proposito, ha evidenziato due direttrici di sviluppo che sono solo ad uno stato seminale o emergente.

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La prima direttrice si muove nella direzione dei sistemi vitali. In questi sistemi l’aumentata complessità è in parte assorbita estendendo ulteriormente le relazioni di consonanza e risonanza con l’ambiente esterno. Questo significa che il sistema tende ad aprirsi ulteriormente verso l’esterno, condividendo informazione, negoziando e coordinando le propri decisioni ed azioni, al fine di migliorare la propria capacità di evolvere con esso. In questo processo di apertura verso l’esterno un ruolo critico è giocato dall’organo di governo, che ha il compito di mappare l’insieme degli attori rilevanti al fine della sopravvivenza dell’intero sistema, con i quali è necessario sviluppare relazioni di consonanza e, per quando possibile, di risonanza.

Una seconda direzione è quella dei sistemi adattivi complessi. In questo caso, abbiamo una mutazione radicale della natura, delle finalità e delle funzioni di governance. Innanzitutto, la governance diventa un processo emergente. È il prodotto dell’interazione tra le parti. Viene meno, perciò, la figura dell’organo di governo come soggetto o coalizione di potere capace di definire ed organizzare univocamente lo spazio esterno e definire come relazionarsi ad esso. Questa funzione è svolta a livello di dimensione pluri-organica, dove tutti gli attori del sistema attraverso leve di auto-organizzazione, e disponendo di ampi margini di autonomia – conoscitiva, decisionale e di azione –, sono chiamati individualmente e collettivamente a costruire il proprio ambiente modulando continuamente il sistema delle relazioni che li lega sia al resto del sistema sia all’esterno di esso. Il coordinamento tra gli attori non avviene più tanto sulla base di regole condivise ed ammesse dal sistema una volta per tutte, ma è emergente esso stesso entro una rete estesa di feedback attraverso cui ciascun attore esplora il proprio potenziale misurandosi e raccordandosi con le azioni e le reazioni degli altri. A mutare è anche la finalità stessa del processo di governance. L’obiettivo principale, infatti, non è più di controllare l’impiego efficiente e la produttività delle proprie risorse, ma di condividerle entro un contesto di norme e valori condiviso, al fine di stimolare la creatività d’insieme attorno a specifici progetti a rischio. A cambiare, infine, sono anche le modalità di appropriazione del valore. Il valore non è appropriato ex-post, attraverso il controllo esclusivo sulle risorse e il residuo. Il valore è appropriato ex-ante, potremmo dire attraverso la propria capacità di tradurre in prodotti e servizi il potenziale generato dall’interazione entro e fuori il sistema spaziale sulla base di progetti capaci di mobilitare le risorse complessive. Cambia, infine, la funzione primaria svolta dalla governance. Questa non è più quella di pianificare e guidare, ma supportare e canalizzare le risorse verso i potenziali.

La capacità del sistema di sopravvivere risiede, infatti, soprattutto nell’autonomia dei suoi membri di esplorare i potenziali insiti nella diversità producibile moltiplicando e condividendo continuamente i percorsi di sviluppo possibile. Per fare ciò il sistema, nel suo complesso, è chiamato a garantire l’autonomia di ciascuno nell’esplorare il proprio potenziale a patto che questo poi sia condiviso, almeno in parte, con gli altri attori del sistema. Garantire l’autonomia non significa solo eliminare i vincoli di potere che non permettono agli altri di esplorare il proprio potenziale, che significherebbe semplicemente ridurre i costi di transazione, ma mettere nelle condizioni gli altri di esplorare il “possibile”. Quindi, assumendo la logica proposta da Isahia Berlin delle libertà positive (libertà di) piuttosto che solo negative (libertà da).

La governance nei sistemi ecologici, perciò, ha la principale funzione di agire sulle condizioni di contesto, fornendo le risorse che abilitano all’azione e alla condivisione, agendo sul potenziale moltiplicativo della rete senza voler determinare e controllare il risultato finale. Questo è cercato ed esplorato in modo emergente dall’intero sistema in autonomia dagli agenti nel loro agire collettivo.

Figura 8 – Un tentativo di tassonomia

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5 – Una possibile topologia: alcuni casi rappresentativi tra semplice e complesso, tra locale e globale

Nel precedente paragrafo si è tentato di sistematizzare il motore generativo che spiega l’evoluzione delle forme distrettuali e dei sistemi territoriali secondo una logica che si muove dal semplice al complesso a partire da tre variabili principali: la tecnologia e le forme di networking, le modalità di apprendimento e di leadership e, infine, il modello di governance. In questo paragrafo il significato della tassonomia proposta è ulteriormente approfondito ed esplorato andando a definire alcune topologizzazioni di questi sistemi nella loro concretezza. Lo scopo non è tanto fornire dei casi esemplificativi, ma mettere in luce le dinamiche evolutive che contraddistinguono questi sistemi nel loro divenire e nelle loro trasformazioni al fine di individuare alcune indicazioni di policy utili a favorire la trasformazione di questi sistemi in ragione dello stadio evolutivo in cui si trovano.

Distretti e specializzazione flessibile Esiste un’ampia moltitudine di esempi di sistemi territoriali e distretti produttivi che hanno nella

specializzazione flessibile la loro principale caratteristica. Tra questi possiamo inserire i distretti delle

Semplice                    F U N Z I O N I – P R O C E S S I (Tecnologia + Network)         Complesso 

Aperto 

E  

 

Chiuso 

Distretto 

Fms 

Milieu Innovateur

SPL

Sistemi Territoriali vitali

Ecologie del valore

Innovation Region

Metropolitan area 

L

e

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calzatura di Barletta e Fusignano, il distretto del vetro artistico di Murano, il distretto dell’imbottito di Matera, del tessile-abbigliamento di Carpi e della coltelleria di Magnago, ecc. In tutti questi distretti prevale tutt’ora la cultura del prodotto e di una tecnologia ben definita. Questo significa che la maggioranza delle imprese detiene elevate competenze produttive e di design, ma il valore è spesso poco trasferibile ed appropriabile. Il tasso di innovazione è medio-basso e si limita al miglioramento incrementale del processo-prodotto. Lo sviluppo del distretto è fortemente condizionato da fattori esterni e dall’evoluzione della domanda. Questi distretti non hanno saputo aprirsi né ad altri settori, dove le proprie conoscenze e competenze potevano trovare impiego, né ad altri mercati. Anche se la maggioranza delle imprese di questi distretti realizza anche la maggioranza del proprio fatturato all’estero, questo è spesso frutto di rapporti “fragili” con i mercati internazionali o comunque in cui l’impresa non ha una posizione strategica forte. Sistemi che hanno conservato il proprio “isolamento” territoriale. Questo significa che non esiste un rapporto organico che li lega al sistema metropolitano e regionale di appartenenza in termini di domanda di servizi ad elevato valore aggiunto, accesso al capitale umano e alle fonti di conoscenza.

Milieu innovateur Un esempio di sistema produttivo locale dove sono rintracciabili i carattere tipici del milieu innovateur è

il sistema dell’Etna Valley in Sicilia. Questo è il risultato di successo di una scommessa che ha visto l’impegno congiunto di pubblico e privato al fine di favorire lo sviluppo di un contesto di supporto capace di stimolare la localizzazione e la creazione di imprese innovative. La nascita di questo sistema coincide originariamente con la decisione di ST Microelectronics di localizzare impianti produttivi nell’area. Questa scelta rientra in un piano più ampio, che vede coinvolti i diversi livelli della PA, dell’associazionismo industriale locale e dell’Università (in particolare nelle facoltà scientifiche), di rilancio dell’area mediante la realizzazione di centri di ricerca e laboratori sperimentali in collaborazione con enti pubblici e privati. La localizzazione di un ampio numero di centri di ricerca ha alimentato un processo di spill-over, che ha favorito la nascita di grappoli di imprese innovative legate tra loro sia nei rapporti di fornitura sia nello sviluppo di progetti di ricerca comuni. La zona dell’Etna valley oggi conta quasi un centinaio di imprese innovative che operano nei settori dell’informatica e delle telecomunicazioni, della microelettronica e dei servizi. Il successo dell’Etna Valley è dunque riconducibile al forte impegno e alla collaborazione iniziale tra gli attori che per primi si sono localizzati nel territorio e alle alleanze tra pubblico e privato. Nello specifico la forte collaborazione iniziale tra ST e Università ha contribuito a generare le esternalità necessarie a favorire lo sviluppo di nuove imprese innovative che sfruttano le conoscenze co-prodotte in comuni progetti di ricerca nazionali e internazionali.

Sistema vitale Un esempio di Sistema Territoriale Vitale come sopra definito è, invece il distretto dell’occhialeria del

Cadore. Questo distretto nasce alla fine del XIX secolo per effetto della delocalizzazione di attività produttive e di assemblaggio dalla Germania. L’evoluzione del distretto nelle prime sue fasi segue il percorso tradizionale. In una prima fase sfrutta il vantaggio che deriva da un minore costo del lavoro attraverso una progressiva estensione della divisione tecnica del lavoro su base territoriale. In una seconda fase sfrutta la ridondanza tecnica accumulata nel sistema per offrire una maggiore flessibilità produttiva nel mercato. A partire dagli anni ‘60 l’evoluzione del distretto è caratterizzata dal consolidarsi di una leadership forte inizialmente formata da due imprese (Safilo e Luxottica) e che oggi conta cinque imprese (Safilo, Luxottica, De Rigo, Marcolin e Machon) con tassi di successo differenziati nel tempo. Il modello di business di queste imprese è molto simile, con la sola eccezione, forse, di De Rigo. Questo consiste nell’acquisire licenze d’uso per i principali marchi della moda attraverso cui vendere i propri prodotti nel mercato. Il design e la progettazione dell’occhiale, quindi, è assunto internamente dall’impresa. Il proprietario del marchio ne verifica solo la coerenza con l’ecosistema di prodotti che identifica e qualifica quello specifico brand. Nell’ultimo decennio la maggioranza degli sforzi di queste imprese è stato dedicato ad espandere la propria presenza nei mercati internazionali e nei mercati di vendita. Luxottica, per esempio, ha acquisito, nei mercati

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ritenuti strategici, il controllo su alcune importanti catene di vendita. Queste cinque imprese, perciò, hanno internalizzato le principali funzioni critiche per essere competitive nel mercato internazionale: progettazione, marketing, vendita e gestione della supply chain. Delegano tuttora al territorio, con l’eccezione di Luxottica, buona parte della propria produzione di qualità. I processi delocalizzativi, perciò, hanno riguardato solo le produzioni più povere e replicative. Questo mantiene vivo un secondo sistema di imprese, di media e piccola dimensione, specializzata nella produzione ed assemblaggio di occhiali o parti di occhiali. Queste imprese si caratterizzano anch’esse per un forte orientamento alle esportazioni. Ma la loro presenza è per lo più mediata da esportatori o produttori esteri che vendono con marchio proprio.

L’evoluzione del distretto dell’occhialeria Bellunese mostra le caratteristiche tipiche di un sistema

territoriale vitale. Ha reagito all’accresciuta complessità, da una parte, accentrando le principali funzioni vitali all’interno di un gruppo di governo forte di imprese rappresentative e, dall’altra, ampliando il proprio sistema di relazioni con l’esterno al fine di migliorare la propria capacità di consonanza e risonanza. Ne sono esempio il legame forte con il sistema della moda, il tentativo di ampliare la propria presenza diretta nei mercati internazionali e nei mercati di vendita. Il sistema è sin’ora sopravissuto perché il suo organo di governo si è dimostrato efficace nella gestione delle complessità interne ed esterne. Ma in questo risiede anche il maggior limite del sistema. La presenza di una leadership forte, capace di guidare il sistema senza generare forti strappi, ha ridotto il livello di imprenditorializzazione e, quindi, le capacità innovative dell’insieme degli attori del sistema. Questi si limitano a condividere parte del rischio imprenditoriale collettivo delegandone completamente l’esercizio all’organo di governo che interfaccia i mercati nazionali e internazionali. La scarsità di un’imprenditorialità che si possa chiamare realmente collettiva e diffusa è dimostrata dalla ridotta offerta di varietà. Nel distretto sono difficilmente identificabili imprese o gruppi di imprese che abbiano intrapreso strade di forte differenziazione riutilizzando le proprie competenze in altri ambiti o ripensando totalmente il concetto di occhiale. Non è un caso che l’unica iniziativa che si discosta – almeno parzialmente – dalla cultura originale – la produzione di occhiali tecnici ad uso sportivo – sia frutto dell’incontro con le imprese dello sport system che, come vedremo, hanno dimostrato, al contrario, di saper continuamente ripensare se stesse ibridandosi con contesti diversi a monte e a valle della originaria catena del valore.

Un altro sistema che mostra le caratteristiche tipiche del sistema vitale è quello della calzatura d’alta

moda del Brenta. Anche in questo caso la competitività del sistema è legata alla capacità di alcune grandi imprese cresciute nel territorio di sviluppare relazioni con i grandi marchi della moda, per i quali svolgono attività di stile, progettazione e produzione. Attorno a queste grandi imprese cresce un sistema di piccole e medie imprese specializzate nella produzione e assemblaggio di scarpe o parti di scarpe, che vendono i loro prodotti anche all’esterno attraverso esportatori e imprese commerciali. Anche nel caso del Brenta la presenza di una leadership forte e la forte dipendenza dall’esterno sembra aver ridotto enormemente le capacità imprenditoriali di queste imprese e gli animal spirits originari, che si limitano a percorre strade conosciute. Interessante, da questo punto di vista, è il paragone con il distretto dello Sport System di Montebelluna, di cui sotto, perché evidenzia come, a partire da una comune tradizione, il sistema possa evolvere in modo completamente diverso attraverso la riconfigurazione delle proprie competenze e un riuso delle conoscenze originarie.

La politica industriale in questi sistemi deve essere orientata a stimolare l’imprenditorialità come forza

autonoma – individuale e collettiva – ed innovativa capace di ri-innescare nuovamente processi di auto-organizzazione fondati sulla produzione di esternalità di rete e positive feedback.

Ecologie creative Un primo esempio di sistema produttivo locale dove sono rintracciabili delle dinamiche creative di tipo

ecologico è quello dello sport system di Montebelluna. Nella storia di questo distretto sono identificabili diversi momenti di rottura entro cui si sono attivate delle dinamiche generative che hanno dato luogo all’emergere di nuove nicchie ecologiche. Queste ultime sono a loro volta cresciute diversificandosi in nuove nicchie e nicchie di nicchie secondo una logica emergente finalizzata ad esplorare il proprio potenziale - individuale e collettivo, tecnologico e di mercato – entro nuovi ambiti applicativi non necessariamente

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contigui. Questo processo di diversificazione continua attiva internamente dei flussi dinamici complessi, finalizzati a sfruttare le interdipendenze che derivano dalla condivisione di mercati e tecnologie comuni. In tal modo, vengono favoriti processi di contaminazione diffusa che tendono ad allargare ulteriormente la base tecnologica e di mercato a cui l’ecologia si riferisce e su cui cresce e si sviluppa. Il distretto dello Sport System di Montebelluna nasce come distretto marshalliano classico specializzato nella produzione di scarpe. In questo senso, condivide una comune origine con il vicino distretto delle scarpe della Riviera del Brenta. La sua particolare posizione geografica, nella zona della pedemontana, svolge un ruolo critico nel dare forma alla propria specializzazione distintiva e ad incanalarne il percorso evolutivo. Il distretto, in corrispondenza al nascere del turismo montano, si specializza, diversamente da quello della Riviera del Brenta, nella produzione di scarpe da montagna. Questo originale posizionamento rappresenta la base culturale e cognitiva entro cui si sviluppa la prima diversificazione da scarpe da montagna a scarponi da sci. Le due, essendo tecnologicamente omogenee, non si sostituiscono, ma si complementano. Alla fine degli anni ‘60 il distretto si confronta, per la prima volta, con un’innovazione radicale: l’introduzione della tecnologia della plastica nella produzione degli scarponi da sci. L’introduzione di questa tecnologia rompe la contiguità tecnologica che aveva sino ad ora unito la produzione di scarpe da montagna con quella degli scarponi. È nella reazione del distretto originario di fronte a questo possibile punto di rottura che è già rintracciabile la natura ecologica che lo contraddistingue. Intraprende, infatti, un percorso esplorativo duplice. Da una parte, alcune imprese si convertono alla tecnologia della plastica e la migliorano, introducendo il metodo dell’iniezione piuttosto che dello stampaggio. Dall’altra, chi inizialmente non crede nel potenziale della plastica comincia a perseguire percorsi specializzativi alternativi sfruttando, tuttavia, le linee di competenza tradizionali che vengono via via aggiornate con la produzione di scarpe da calcio, da tennis, pattini da ghiaccio, scarpe da bici e da danza ecc. Il potenziale di rottura, perciò, si trasforma in un’ottima opportunità di crescita con un progressivo aumento della varietà delle conoscenze e competenze disponibili e messe in rete. Il processo non produce frammentazione competitiva ma, al contrario, è generativo di nuova varietà. Ne è un esempio l’innovazione dei pattini in linea, che unisce, da una parte, la tecnologia dello scarpone e, dall’altra, il concept del pattino da ghiaccio. La vicinanza al distretto del tessile-abbigliamento ha offerto la possibilità di integrare l’offerta originale, limitata alla sola produzione di scarpe, a tutto ciò che concerne l’abbigliamento sportivo e dunque aprendosi a valle della filiera con innovazioni comunicative e di marketing. In questo, il distretto montebellunese si distingue nei diversi ambiti, ma soprattutto innovando in nuovi tessuti tecnici che vanno diffondendosi per la produzione di abbigliamento tecnico all’avanguardia basato su filati e tessuti sintetici. Lo stesso vale per i complementi. Il distretto montebellunese, da questo punto di vista, per esempio, si è ibridato con il vicino distretto dell’occhialeria sviluppando delle competenze comuni nella produzione e distribuzione di occhiali sportivi tecnici. La filiera legata al trattamento della plastica ha trovato anch’essa diversi sbocchi. Oltre a quelli più tradizionali, legati alla produzione di componenti per altri settori quali gli elettrodomestici e l’auto, da segnalare la produzione di caschi da moto, da sci e da bicicletta. Questa diversificazione a grappolo ha fornito la base su cui si sono andate formando nuove nicchie o super-nicchie di mercato emergenti come, per esempio, la produzione di abbigliamento per la moto – dove la Dainese è azienda leader. La stessa Dainese sta diversificando nell’ambito dell’abbigliamento e degli accessori per lo sci, ma è soprattutto leader nella progettazione di sistemi di sicurezza per la moto basati su sistemi GPS capaci di attivare airbag contenuti nella tuta in caso di caduta. L’originale distretto, perciò, apre un nuovo ramo che unisce abbigliamento, sport e comunicazione satellitare.

Dove condurranno queste diversificate specializzazioni integrate? Dove le connessioni emergenti guideranno alla ricerca di sempre nuovi impieghi per tecnologie e conoscenze che nascono, all’origine, da una semplice scarpa da montagna che 200 anni fa veniva prodotta da specialisti di “scarponi di legno” in particolare del Montello. Da questo punto di vista, è utile evidenziare come nel distretto montebellunese sia riscontrabile anche un ritorno alle origini, con la produzione di scarpe da passeggio. Un ritorno che non poteva non avere una componente tecnologica innovativa: la “suola che respira”, che usa una tecnologia di base spaziale per aumentare la traspirabilità delle scarpe. Questa innovazione originale si è ovviamente ibridata nuovamente con il distretto dell’abbigliamento lanciando negozi monomarca come nel caso della Geox. Oppure con un’altra super-nicchia di scarpe tecniche “rivoluzionarie” come le five-fingers della Vibram per camminatori o free climbers. Un’azienda che rimane una super-specialista di suole in gomma per scarponi per decenni per poi integrarsi a monte nella produzione di impianti per la stampa di pannelli in plastica per la produzione di suole sino ad entrare nel mercato cinese con questa tecnologia. Un fornitore superspecialista in suole che entra per la prima volta direttamente nella produzione di un rivoluzionario tipo

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di scarpa tecnica: anatomica avendo lo spazio indipendente per le cinque dita e sviluppata con materiali avanzati e traspiranti, leggeri, resistenti e “aderenti” al piede e al terreno. Un prodotto sviluppato in collaborazione con laboratori medico-ortopedici e con le Università venete.

Quali dunque le ragioni del successo di questo distretto che pure ha attraversato diverse crisi nel secondo dopoguerra? Queste, a nostro modo di vedere, sono da ricercare in molteplici fattori. Il primo è la qualità del tessuto imprenditoriale. Non è sufficiente avere un tessuto imprenditoriale diffuso se le qualità tecniche, sociali e umane non sono in grado di rinnovarsi di fronte alle sfide del cambiamento dei mercati e della comunità di riferimento. Questo fattore qualitativo dell’imprenditorialità non è comune a tutti i distretti. Qui si è rivelato un fattore ecologico forte con la presenza di un’imprenditorialità aperta al cambiamento e orientata alla sperimentazione a rischio di nuovi campi di innovazione, certo sostenuta da un tessuto diffuso di valori condivisi e di relazioni connettive di tipo identitario. Gli imprenditori montebellunesi di fronte ad un’innovazione radicale come la plastica non si sono fermati, ma l’hanno attivamente adottata, adattata e migliorata. Ma anche coloro che non hanno seguito questa strada hanno esplorato nuovi campi applicativi e d’uso a partire dalle stesse conoscenze originarie nell’arco di sole due-tre generazioni imprenditoriali. È questo moltiplicarsi delle esperienze e delle opzioni che è alla base del successo del sistema distrettuale montebellunese. Un’apertura alla varietà, però, che non ha diviso, ma unito ulteriormente e fatto emergere l’enorme potenziale di distretti isolati che ora sono diventati una Innovation Region in segmenti settoriali differenziati, di mercati di massa o specializzati e di nicchia. Nicchie apparentemente separate, ma aperte alla collaborazione e alla condivisione delle molteplici esperienze e alla continua ricerca di nuovo potenziale comune da esplorare.

Un processo che si è rivelato largamente spontaneo e non guidato. Nel distretto di Montebelluna non è mai esistita una leadership forte capace di determinare la strategia evolutiva e le direzioni di sviluppo da sperimentare. Queste opportunità si sono formate nell’interazione, molto spesso nel conflitto e nella necessità. L’emersione di questo sistema complesso, che ormai combina una moltitudine di tecnologie, luoghi e mercati, espandendosi per tutta l’area pedemontana, contiene forti elementi di casualità e anarchia; malgrado ciò mostra di configurare oggi una Innovation Region. La complessità del sistema di innovazione regionale veneto riunisce geograficamente settori che nascono oltre cento anni fa nettamente distinti, ma che oggi sembrano “convergere” tra manifattura e servizi, tra engineering e design, tra ricerca e innovazione come l’abbigliamento e gli occhiali con le calzature sportive e non, il mobile e i complementi di arredo con la domotica e con la nautica da diporto, l’agro-alimentare con l’elettro-meccanica e l’elettronica, ecc. Un processo complesso, dunque, che non è stato realizzato a tavolino, ma è stato anche il frutto di incidenti storici in presenza di una continua “ebollizione imprenditoriale”, saldata in anni recenti da molteplici connessioni tra pubblico e privato, tra imprese e sistema universitario della ricerca.

La capacità sta nel fare leva su questi incidenti e, quindi, sulla varietà disponibile per costruire connessioni nuove capaci di generare sempre nuove opportunità e potenziale da esplorare. La natura largamente spontanea di questo processo pone, ovviamente, delle domande su quale sia il ruolo delle istituzioni nel favorire e possibilmente accelerare questo processo. Le istituzioni, a nostro modo di vedere, devono lavorare sulle condizioni di contesto ovvero sullo sviluppo di capitale umano, di infrastrutture tecnologiche e reali, sulla nascita e sviluppo di nuove imprese (start-up), sullo sviluppo di nuove business idea e spin-off derivati dal mondo della ricerca. Il tentativo di dare “una guida” a questo modello di sviluppo, definendo piattaforme specifiche di ricerca infrastrutturali e comunicative, potrà funzionare se si accompagnerà alla stimolazione continua di nuova qualità imprenditoriale capace di creare link virtuosi tra contesti metropolitani-regionali e nazionali-internazionali affermando unicità e riconoscibilità identitaria ai prodotti di questa innovation region.

Un altro eco-sistema dislocato su macro-aree connesse tra loro e dove sono rintracciabili dinamiche evolutive di tipo ecologico è quello multi-locale della Nautica. Questo si sviluppa su tre/quattro aree principali: l’area compresa tra Viareggio, Livorno e Lucca; Ravenna, Venezia, con alcune pendici nell’area bergamasca compresa tra i grandi laghi. Questo sistema multi-locale nasce dall’incrocio di due grandi tradizioni. La prima è la tradizione navale, che ha nella Fincantieri un leader mondiale ancora ineguagliato nella produzione di grandi e grandissime navi da crociera. La seconda è la piccola cantieristica da diporto. La convergenza delle due ha prodotto un sistema che è leader mondiale nella produzione di grandi e grandissimi yacht. La produzione di grandi navi da crociera, da questo punto di vista, ha avuto un effetto volano perché ha sviluppato e successivamente distribuito nel territorio le conoscenze e le competenze tecnico-produttive necessarie a produrre dei prodotti altamente complessi, quali sono le navi da crociera. Non è un caso che

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gran parte delle imprese che sono coinvolte nella progettazione dei grandi Yacht si siano sviluppate a partire dalle strategie di esternalizzazione delle attività progettuali implementate da Fincantieri a partire dalla fine degli anni ‘80 e nei primi anni ‘90. Questo input iniziale ha trovato, però, un retroterra fertile su cui svilupparsi e crescere. Si è ibridato, da una parte, con tutto il sistema della cantieristica di lusso. Dall’altra, si è connesso con tutta l’area della progettazione ed arredamento di interni. Infine, ha incrociato la grande tradizione meccanica e meccatronica italiana, con cui ha sviluppato macchine sofisticatissime e a forte personalizzazione di applicazioni industriali anche in attività di artigianato di pregio. Anche in questo caso l’eco-sistema è largamente emergente. Non esiste un attore unico capace di guidare il sistema, ma una molteplicità di attori che sperimentano soluzioni sempre nuove combinando pezzi di conoscenze e competenze disponibili sul territorio. La filiera della nautica è generatrice di nuove opportunità, come nel caso della meccanica e della meccatronica, dove le soluzioni - o parte di soluzioni - progettano, trovano o sperimentano applicazioni in altri ambiti.

Figura 9 – Una possibile topologia

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6 – Le politiche industriali tra best practice e sistemi ecologici emergenti: dalla centralizzazione

alla governance partecipativa

Di fronte a forte incertezza e ridondanza di contesti complessi di globalizzazione, i sistemi territoriali più dinamici fanno emergere le esigenze di gestione del cambiamento e la rilevanza del comportamento degli agenti che devono sempre più adattarsi a condizioni di mobilità dei bersagli. Si accresce ulteriormente la dimensione entropica, considerando che la mobilità del bersaglio è endogena al comportamento degli agenti stessi (Dosi, 1990). Distretti, milieux, reti, reti di reti, sistemi territoriali vitali ed ecologie rappresentano già una prima risposta a questa crescente complessità emergente rendendone sopportabili le conseguenze. Di fatto, si configurano come interfacce tra i tempi di trasformazione dei mercati globali e quelli del coordinamento di molteplici soggetti sempre più multi-localizzati e con aspettative anche confliggenti. Ciò nonostante, le loro interdipendenze richiedono di essere governate a partire dalla “grande convergenza” tra cooperazione e competizione, tra località e globalità, in modo tale da rendere sostenibile lo sviluppo locale endogeno, traguardando congiuntamente a due transizioni di politica industriale:

I – da una competitività individuale verso una competitività di sistema; II – dai settori verso piattaforme, filiere e territori. La natura eco-sistemica di sistemi territoriali dinamici o ecologici, che abbiamo cercato di descrivere

sopra, richiede di connettere meglio la sistematicità dell’intervento con la salvaguardia dell’identità che alimenta la riconoscibilità di prodotti/servizi e con le proiezioni all’apertura globale. Si tratta, anche in chiave europea e non solo nazionale, di dislocare i territori nella loro complementarità tra regioni attraverso le reti e reti-di-reti, supportando:

a – identificazione interna; b – riconoscimento esterno.

Settoriale/semplice                   I N N O V A Z I O N E                  Multi‐piattaforma/complessa    

Multi‐settoriale 

Globale 

Locale 

Montebelluna 

calzaturiero 

Riviera del Brenta – 

scarpe donna lussoLumezzane  

meccanica

Sassuolo ‐ ceramica

Occhialeria Cadore

Arredo‐design Brianza 

Nautica diporto 

Mirandola  

biomedicale 

Oreficeria Vicenza

Vigevano 

Multi‐

locale 

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Si ponga in questo modo il policy maker locale-nazionale in grado di cogliere i nuovi bisogni evolutivi di organizzazioni a rete localizzate ed aperte con le loro relazionalità e connettività eco-sistemiche quali principi di interazioni spaziali complesse, che generano economie esterne di sistema (Ratti, Reichman, 1993; Rullani 2010). La sottovalutazione di questi elementi di interazione e di esternalità si è rivelata negli ultimi 20 anni un forte elemento di perdita di competitività di molti nostri Sistemi Produttivi Locali rispetto ai tradizionali competitor europei come la Francia o la Germania (ma per alcuni aspetti anche il Giappone), gap non più recuperabile attraverso la manovra del cambio. Politiche che chiaramente non devono perseguire richieste di assistenzialismo finanziario, ma guardare al mutato orizzonte competitivo mondiale e al consolidamento di quei Paesi a basso costo del lavoro, che si sono dotati anche di robuste capacità tecnologiche e di formazione del capitale umano nella media e alta formazione.

Politiche che partendo da un disegno eco-sistemico assegnino: a - un nuovo ruolo attivo alla PA locale – nazionale come facilitatore e connettore di entrata di nuove

imprese (sburocratizzazione, de-fiscalizzazione investimenti formativi e innovativi, accesso infrastrutturale alle grandi reti telematiche ed energetiche, ecc.);

b – una priorità fondamentale alla qualità delle risorse umane dedicate al sostegno e alla gestione di risorse sistemiche, reticolari e connettive in particolare per l’implementazione di più avanzati rapporti tra pubblico e privato;

c – una capacità di selezionare e gestire “beni pubblici” utili allo start-up e alla crescita di sistemi di imprese territorialmente localizzate anche attraverso nuovi strumenti di coordinamento contrattuale (accordi di rete, contratti di filiera, ecc.).

Politiche industriali che siano meglio in grado di attivare azioni di sistema che facciano leva sulle compatibilità e interdipendenze che si sono fatte negli ultimi 20 anni più forti e profonde, ma che per questo vanno riconosciute ai diversi livelli tra dimensione sub-regionale, regionale, multi regionale e nazionale, coniugando tre livelli di complessità:

- eco-sistemica; - decisionale per la numerosità dei livelli istituzionali coinvolti; - sociale, per le molteplici schede di preferenza collettiva.

L’accresciuta interdipendenza tra sviluppo economico e territoriale richiede allora nuovi approcci di

programmazione strategica in senso ecologico lungo una governance che “politicamente” conduca alla canalizzazione di una “programmazione collaborativa e condivisa di medio-lungo termine”:

- all’emersione selettiva di un insieme di obiettivi comuni e condivisi (cfr. caso dell’Alta Velocità, della FIAT di Pomigliano o delle imprese cinesi di Prato), verso i quali collassare abilità progettuali, capacità umane e finanziarie e risorse etico-morali adatte ai compromessi e ai necessari sacrifici nella ricerca del migliore equilibrio di lungo termine tra preferenze individuali e collettive, locali e nazionali;

- all’identificazione della regia o del regista più adatto, con chiare capacità di leadership e di mobilitazione sociale ed economica per la realizzazione degli obiettivi comuni pre-definiti;

- alla mobilitazione del consenso attorno a regole coerenti con comportamenti organici di sistema per realizzare linee di sviluppo definite attraverso adeguate azioni di comunicazione, promozione e formazione “localizzate” che ammettano la partecipazione attiva delle comunità territoriali alla realizzazione del progetto e dei suoi obiettivi. Alla base vi deve essere trasparenza procedurale e un’esplicita analisi costi-benefici dell’impatto dei diversi progetti locali oltre che ben definite sanzioni in caso di evasione o rottura dell’accordo costitutivo sul progetto;

- alla generazione di un metodo di programmazione condivisa e collaborativa che si fondi su legami stabili e sulla fiducia con un confronto continuo e permanente sulle linee di realizzazione dei diversi progetti locali costituendo una “sala di regia” forte e consapevole dove fare convergere le analisi dei processi e delle funzioni attivate e dove negoziare eventuali aggiustamenti (Bianchi, 2009).

Il modello di controllo da centralistico e incentrato sul Government diviene crescentemente modellato da

una Governance che si fonda sul “grado di partecipazione” degli individui, delle comunità e dei gruppi ad uno spazio ecologico che sia condiviso e oggetto di trasparente co-progettazione (Blackely, 1989; Samek

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Lodovici, Bernareggi, 1990; Bramanti, 1995), interfacciandosi con i livelli intermedi di azione collettiva, come quella professionale e di associazionismo imprenditoriale o come quella dei meta-organizzatori quali le Camere di Commercio, le Università e i Centri di Ricerca Tecnologica o i Parchi Scientifici.

Una modalità di co-progettazione spaziale ecologicamente sostenibile da un significativo numero di attori che affonda, per dirla con Robert Putman (1993), su una civicness, intesa come qualità sostantiva del tessuto sociale e regole civili che con esso si accompagnano, portando al circolo virtuoso tra rendimento politico e rendimento economico delle istituzioni regionali.

Ecco allora come elencare sinteticamente l’incrocio tra tipologie di soggetti (pubblici, imprenditoriali, intermedi, comunitari) e aree di intervento possibili di fronte alla varietà dei contesti ammessa dai Sistemi Produttivi Locali italiani negli ultimi due decenni. Uno schema sintetico (tabella 5), seppure non esaustivo, e che tuttavia consente di accoppiare apertura-identità e locale-globale, che sono le variabili chiave che abbiamo adottato per descrivere le trasformazioni competitive che i SPL hanno subito soprattutto dopo il “grande spartiacque” rappresentato simbolicamente dal 1989.

Quale elemento centrale di una politica economica a scala regionale, si tratta allora di segnalare il “superamento dell’esclusività” delle politiche economiche dei grandi settori (in crisi, in sviluppo o strategici) o delle politiche dei fattori (ricerca dell’omogenea disponibilità), attraverso l’individuazione di politiche di sviluppo integrate su scala locale orientate a rendere queste realtà più riconoscibili, identificate e competitive nei confronti dei mercati globali. Significa, innanzitutto, riconoscere la complessità dei soggetti e l’articolazione delle aree di intervento che estendono il valore dell’impresa al network, alla filiera e al territorio di appartenenza, così come il prodotto ad un insieme di fattori relazionali, di competenza, di servizio e di conoscenza. Si tratta di dimensioni spazialmente rilevanti nelle loro forme combinatoriali complesse, che vanno comprese per essere promosse, governate e canalizzate dentro una competitività multidimensionale di tipo eco-sistemico, tanto più se la dimensione di riferimento diventa di “area vasta” ossia sovra-comunale39.

La Tabella 5 rappresenta una descrizione sintetica di attori, obiettivi e contenuti delle politiche di sviluppo endogeno locale che supportano la formazione e la governance di eco-sistemi territoriali a base ecologica. In particolare, si evidenziano:

- i soggetti: pubblici, imprenditoriali, intermedi e comunitari; - le aree di intervento: accessibilità e connettività, qualità e formazione del capitale umano,

produzione-piattaforme tecnologiche-filiere, reti, innovazione, creatività, nuove funzioni spaziali e associazionismo;

- la governance gestionale-partecipativa del territorio40.

                                                            39 Un interessante contributo di analisi empirica di Gigliarano e Percoco (2010) è stato condotto recentemente sull’adozione dei piani strategici a livello territoriale in Italia esplorando le determinanti dell’azione collettiva (seguendo un contributo di Kwon et al., 2005). Le ipotesi di fondo qui assunte partono dalla considerazione realistica che l’adozione di un piano strategico (Psi) sia funzione del grado di sviluppo economico (Se), delle reti di relazioni istituzionali (Rif = innovazione e fiducia) e delle qualità intrinseche della società civile (Ac= apertura e controllo): (Psi= f(Se)+ (Rif)+Ac). Lo studio dimostra tra l’altro che il numero di distretti industriali (presenza di reti e relazioni istituzionali) presenta un coefficiente positivo e significativo a dimostrazione che l’adozione di piani strategici territoriali nasce con maggiore probabilità dove l’attività economica privata è ben distribuita e organizzata in reti relazionali diffuse e in cluster specializzati e radicati nel sistema territoriale. Così come positiva e significativa si è dimostrata la variabile relativa al capitale sociale, dimostrando che dove le relazioni sociali sono più consolidate e distribuite, oltre che radicate, la probabilità di adozione di piani strategici aumenta. 40 Cfr. Bramanti, Oddifreddi (1995) e, più in generale, i lavori del Gruppo CLAS su specifiche aree della Lombardia; inoltre, Cavalieri, Grassi (1996) e i lavori dell’IRPET, Ciapetti L., Lizzi R. (2010); Mazzara L. (2010).

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Tabella 5 - Attori, obiettivi e contenuti delle politiche di sviluppo endogeno locale

ATTORI PUBBLICI

SOGGETTI IMPRENDITORIALI

CORPI E FUNZIONI INTERMEDIE

COMMUNITIES E ASSOCIAZIONISMO

“BOTTOM-UP”

DENOMINA- ZIONE

Regione, Enti locali territoriali e servizi di pubblica utilità a domanda orizzontale.

Attori del sistema economico-produttivo (profit), sistemi professionali e imprenditoriali.

Camere di Commercio, Enti locali funzionali, Reti infrastrutturali e di pubblica utilità a domanda verticale.

Attori sociali del mondo non-profit e open source.

OBIETTIVI

- Attivazione degli eco-sistemi e facilitazione delle attività e dei processi economico-sociali e civili per una competitività di sistema delle Regioni e dei territori; - Attivazione di architetture spaziali hub & spoke delle connettività di rete (Poli reticolari di attrazione, connessione, utilizzazione); - Raggiungimento per la PA locale e centrale di un time-to-market adeguato ai tempi della competitività globale.

- Orientare, supportare e guidare le imprese ad una superiore competitività, individuale, di rete, di filiera e territoriale; - Incentivazione identità produttive; - Facilitare produzione reticolare snella e co-makership con accordi di filiera e/o di piattaforma; - Favorire la cultura d’impresa e di progetto nella formazione scolastica secondaria (diffusione di stage e internazionalizzazione formativa).

- Co-rafforzamento delle polarità emergenti; - Connettività tra soggetti; - Esplorazione delle interdipendenze e attivazione progettuale intra/inter territoriali; - Implementazione e articolazione delle azioni locali, regionali, multi-locali e linearizzazione globale; - Verifica e analisi costi-benefici dei progetti congiunti tra più soggetti e tra pubblico e privato.

- Mobilitazione degli attori individuali locali e territoriali e dei comitati di progetto; - Aggregare e promuovere reti di conoscenza tacita quale collante di co-progettazione dal basso.

CONTENUTI

- Infrastrutture di reti di servizi regionali; - Politiche localizzazione e ri-localizzazione; - Qualità servizi PA; - Formazione attività & operatori dello sviluppo locale attraverso intelligence units per piani partecipati; - Reti di formazione di base territorialmente dedicate; - Sviluppo delle risorse comuni per reti di mobilità regionale interregionale.

- Analisi e diagnostica aziendale; - Azioni su aree strategiche aziendali: produzione, mercati, tecnologia, finanza, innovazione internazionalizzazione; - Azioni su filiere e piattaforme tecnologiche; - Azioni su aree territoriali-settoriali.

-Mercati del lavoro, immigrazione, start-up; - Enterprise creation; -Sostenibilità e ambiente; - Marketing territoriale e town center management; - Ricerca & Sviluppo, creatività; -Selezione portafogli produttivi; - Accordi territoriali gestione risorse ambientali.

- Partecipazione a progetti bottom-up; - Promozione territoriale; - Scouting new idea; - Sviluppo relazionalità orizzontale; - Azioni cultura di sistema; - Promozione della creatività individuale e collettiva; - Promozione identità e “beni collettivi”.

Legenda:

Sembra condiviso da molteplici studiosi, dagli operatori più sensibili e dalle istituzioni locali più

coinvolte che si debba lavorare sui nodi sistemici e sulle interdipendenze: - favorendo le vocazioni, la creatività, l’innovazione e i punti di eccellenza; - modulando opportunamente apertura e connettività; - integrando il livello regionale, nazionale e internazionale nella costruzione di portafogli articolati di

un vantaggio competitivo multidimensionale e plurimo. La disciplina degli eco-sistemi territoriali a base ecologica connessi ad intere regioni deve potere

assumere quel rilievo compatibile con l’evoluzione delle complessità molteplici che si sono affollate negli ultimi 20 anni e dove le interconnessioni tra dimensione economica ed extra-economica, tra market e non-

Politiche funzionali  Politiche sistemiche Politiche ecologiche

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market mechanisms e tra competitività e cooperazione vengano riconosciute nella loro rilevanza generatrice di valore congiunto quali esternalità positive.

È questo forse l’insegnamento maggiore che ci proviene dalla profonda lezione di Giorgio Becattini (1986, 1987, 1989) con pratiche di ricerca senza confini nell’esplorazione e costruzione di nuovi tessuti di scambio che riannodino i legami inestricabili tra impresa, mercato e società, tra cultura, storia e azione “oltre i limiti” della meccanica idraulica contenuti nella pura “transazione economica”!

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