L'Anello d'oro

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Un romanzo di Cristina Bruno - Pubblicato da La Ponga Edizioni - Copertina di Roger Webber - Trama: Il trafugamento di un importante documento cifrato dalla banca dati di una misteriosa agenzia di Mosca potrebbe mettere in crisi l'equilibrio politico ed economico mondiale. Si scatena così una serrata caccia all’uomo nel tentativo di recuperare quanto sottratto e di far sparire eventuali testimoni. Per Peter Sullivan, esperto americano di sicurezza informatica, e la giovane collega russa Ksenija Fedorovna Bašmakova, è l'inizio di una fuga attraverso la Russia che li vedrà lottare fianco a fianco contro l'enigmatico Club dell’Anello d’Oro. Il viaggio che diventa una scoperta non solo di luoghi ma anche di anime, svela a poco a poco i contorni dell'intrigo internazionale che avvolge e sconvolge i destini dei due protagonisti. - http://anellodoro.cristinabruno.it - http://lapongaedizioni.it

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CollanaGialli e Noir

  

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L’anello d’oro © 2013 La Ponga Edizioni

ISBN 978-88-97823-17-9

Disegno di copertina di Roger Webber

La storia è frutto della fantasia dell'autore. Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale e non intenzionale. www.lapongaedizioni.it

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L’ANELLO D’ORO

Cristina Bruno

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La ragazza dai capelli

rossi

(Mosca, giugno 2002)

A Mosca nessuno ricordava un giugno così caldo. L’afa non lasciava tregua nemmeno di notte. Un’afa soffocante e appiccicosa che si attaccava alla pelle come un vestito bagna-to. L’insolita calura aveva dato inizio al rito del weekend con diverse ore di anticipo. Erano appena le otto di venerdì mattina e già colonne di auto solcavano come raggi gli anelli della capitale puntando in direzione della campagna. Anche la cittadella universitaria della MGU, la Moskovskij Gosu-darstvennyj Universitet, appariva deserta. L’edificio sede del dipartimento di informatica sembrava abbandonato. Le porte degli uffici erano chiuse, in giro non si incontrava ani-ma viva. Nei corridoi dagli alti soffitti si respirava una quie-te inusuale. Fasci di sibilante luce al neon brillavano sulle pareti bianche alternandosi agli sprazzi di sole che entravano da vecchie finestre dai vetri ingrigiti. Pioggia, smog, guano di uccelli avevano lasciato sulle lastre indelebili tracce di va-rio spessore, forma e datazione. Il gioco di chiaroscuri, filtra-to attraverso la rete di sedimentazioni, disegnava intricate fi-gure geometriche sui pavimenti di marmo. Peter Sullivan, puntuale come sempre, attraversò il lungo corridoio che portava al suo studio. L’accento americano e l’inconfondi-bile camminata oscillante gli erano valsi il soprannome di “cowboy” da parte dei suoi studenti russi. Negli USA lo avrebbero più banalmente etichettato come “bow legged”, gambe ad arco. Si apprestava ad aprire la porta quando dei passi in rapido avvicinamento rimbombarono sordi dietro le sue spalle. Il rumore cessò. Un’altra ombra si aggiunse a quella di Sullivan.

«Scusate, sapreste per cortesia indicarmi dov’è lo stu-dio del professor Alpatov?»

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La domanda, formulata con la tipica prolissa gentilezza russa, proveniva da una gradevole voce femminile. Sullivan, che stava mentalmente ripassando il tema della lezione odierna, le indicò senza nemmeno voltarsi l’ufficio alla sua sinistra, con gesto pigro e fluttuante della mano.

«È quello, ma non troverai nessuno. Il professor Alpa-tov non c’è.» le disse.

Si girò incuriosito, inarcando le sopracciglia dietro gli occhiali scuri, solo quando udì il rumore di una chiave che girava nella serratura. Valutò subito gli elementi essenziali: donna giovane e carina. Poi rilevò i capelli castani con bale-nanti riflessi rossicci, pettinati all’indietro e raccolti in una piccola coda. Considerò che si trattava di un colore insolito per una russa.

La donna gli sorrise e gli tese la mano.«Mi chiamo Ksenija Fedorovna Bašmakova, sostituisco

temporaneamente il professor Alpatov.»«Scusami, pensavo fossi una studente…» si giustificò

ricambiando il sorriso «Sono Peter Sullivan.» aggiunse stringendole la mano.

«Davvero voi siete il professor Sullivan? L’esperto di si-curezza informatica?»

«Yeah.» rispose con il classico verso di assenso degli americani «Perché?».

«Ma è incredibile, sapete che ho preparato la mia tesi per il dottorato sui vostri libri? Ho letto tutte le vostre pub-blicazioni.»

«Non pensavo di essere così famoso in Russia…»«Eppure, per chi si occupa di certi temi i vostri lavori

sono un must, si dice così vero?»«Credo di sì.» convenne passandosi una mano tra i

corti e ricci capelli brizzolati «Ma tu di cosa ti occupi esatta-mente?»

«Sistemi informativi e database, infatti sostituisco Al-patov. Ma la mia passione è la crittografia e la ricerca dell’al-goritmo perfetto.» affermò in tono scherzoso.

La frase lo colpì ed iniziò ad osservarla con maggiore at-tenzione. Era un tipo interessante, longilinea, alta circa un

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metro e settanta, curve quasi ideali, abbigliamento sportivo ma curato, modi spontanei. Di una bellezza fresca e radiosa, tuttavia non appariscente. E soprattutto non era carica di trucco secondo quell’usanza russa che fa somigliare tutte le donne a delle improbabili matrioske. Non vi era traccia visi-bile di rossetto o fondotinta. Sopra gli occhi dalle ciglia lun-ghe si notava appena uno sfumato accenno di matita verde che si intonava alla perfezione con il colore delle pupille.

«Potremmo cercarlo assieme quell’algoritmo. È una ri-cerca che affascina anche me. Sei libera a pranzo?» propose togliendosi gli occhiali scuri e rivelando così due attenti e vi-vaci occhi di un blu intenso.

«No, mi dispiace.» rispose scuotendo la testa per raf-forzare la negazione.

Sullivan assunse un’espressione delusa. Ripose gli oc-chiali nel taschino della giacca e alzò le spalle.

«Pazienza, io ci ho provato… Spero comunque che avremo occasione di approfondire l’argomento.»

«Ci rivedremo sicuramente.» gli disse e scomparve die-tro la porta dello studio di Alpatov.

Sullivan varcò la soglia del proprio ufficio e sbirciò l’o-rologio. Aveva appena il tempo di raccogliere gli appunti cartacei e digitali e correre in classe. Tenendo in mano i fo-glietti svolazzanti, percorse veloce il corridoio, salì due piani di scale ed entrò nell’aula. C’era la solita quindicina di stu-denti, quasi tutti figli di papà desiderosi di apprendere nuo-ve tecniche, legali e non, per fare soldi. Sapeva che il suo in-segnamento avrebbe potuto avere un risultato ambivalente: preparare i nuovi tecnici della sicurezza dei sistemi informa-tivi, ma anche creare nuovi hacker capaci di violarli. Franca-mente non sapeva se i suoi studenti sarebbero appartenuti all’una o all’altra categoria. E francamente non gliene im-portava un granché.

L’aula era orientata con un’angolazione tale che fino alle 11 del mattino il sole picchiava inesorabile sui suoi vetri, con un riverbero accecante. Dopo la prima ora tirò le pesan-ti tende alle finestre, abbassò le luci ed iniziò la proiezione di alcune schermate. Si schiarì la voce, si inumidì con la lingua

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le labbra secche e cominciò ad illustrare il contenuto dei lu-cidi. Poi anche la seconda ora giunse a conclusione. Aprì le tende, spense computer e proiettore e sgattaiolò fuori dal-l’aula prima che qualcuno si sognasse di porgli domande. Di solito si tratteneva qualche minuto per rispondere ai quesiti degli studenti. Quella mattina invece essi non fecero in tem-po ad accorgersi che la lezione era finita che già Peter si era messo a distanza di sicurezza. Ridiscese lesto i due piani di scale e si avviò allo studio. Si fermò davanti all’uscio e posò la mano sulla maniglia. Ebbe solo un istante di indecisione poi lasciò la presa, si volse alla sua sinistra e puntò verso l’uf-ficio della nuova collega. Bussò e aprì senza attendere rispo-sta. Ksenija era seduta dietro la scrivania, di fronte al com-puter, con gli occhi intenti sul monitor, una mano sulla ta-stiera e una sul mouse, visibilmente concentrata tanto che quasi non diede segno di accorgersi dell’intrusione. Nei suoi occhi si rifletteva lampeggiando la luce biancastra del video.

«Ciao… se… se non sei libera a pranzo, forse lo sei per la cena?» azzardò speranzoso.

Ksenija trasalì e lo fissò, sorpresa, per qualche secondo. Sembrava non realizzasse con piena chiarezza chi lui fosse e cosa volesse. Gli rispose in fretta e con scarsa attenzione, sembrando quanto mai desiderosa di toglierselo al più pre-sto di torno.

«Sì, sì, ok… la cena…»«Dove ci vediamo?» chiese con una punta di soddisfa-

zione nella voce.«Passate pure a prendermi qui alle sette.»«Scusami se ti ho disturbato. A cosa stai lavorando di

bello?».«Sto finendo un articolo. O meglio, sto tentando di fi-

nire un articolo…» rimarcò guardandolo con un’espressio-ne infastidita. Era chiaro che non lo voleva tra i piedi.

Peter recepì il messaggio al volo.«Bene, a stasera allora!»Sullivan uscì quasi in punta di piedi, chiudendo piano

la porta. Tornò in studio ed accese il computer per control-lare la posta elettronica. Lo studio era una stanzetta disador-

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na: pareti bianche, arredamento sobrio costituito da una consunta scrivania di altri tempi rosicchiata qua e là dai tar-li, una poltrona in finta pelle, due sedie in legno, un mobi-letto basso con tre scaffali ingombri di libri, dispense spie-gazzate e almeno due dita di polvere. Alle sue spalle c’era un’ampia finestra senza tende che si affacciava sul Lomono-sovsky Prospekt. Dopo aver risposto ai messaggi di amici e colleghi di oltreoceano, iniziò il rito quotidiano della rasse-gna stampa che si svolgeva attraverso Internet: un vagabon-daggio nei siti di attualità per sapere cosa accadeva nel mon-do. Di norma preferiva trascurare i grandi network, in cui non riponeva troppa fiducia, e optava per siti di informazio-ne indipendente. Certo le notizie andavano comunque va-gliate, ma almeno si ascoltava qualche voce fuori dal coro. Quel mattino non c’era nulla di interessante. Solo un fatto attirò la sua attenzione. Riguardava un attacco di hacker av-venuto ai danni di una importante società russa della capita-le. Si chiese se, per pura fatalità, potesse avere a che fare con una consulenza che gli era stata richiesta il giorno prima da un collega. Passò quindi a dare un’occhiata al suo sito prefe-rito dedicato all’Open Source ed eseguì il download di alcu-ni programmi di utilità. Infine fece una sosta su un paio di indirizzi di hacker, tanto per vedere cosa combinava la con-correnza.

Placata la sua sete di novità e aggiornamenti, spense il computer desktop, tirò fuori dalla borsa il CD-ROM con tutti i suoi dati di lavoro e lo inserì nel PC portatile Dell che portava sempre con sé. Riprese a controllare per l’ennesima volta la programmazione del suo ultimo software. Un male-detto baco non lo faceva funzionare come avrebbe dovuto. Eppure più Peter lo ricontrollava più gli sembrava che il co-dice fosse corretto. Non riusciva a capire quale potesse esse-re l’errore su cui si inchiodava. Con la testardaggine che lo contraddistingueva ricominciò di nuovo il debug per cerca-re di andarne fuori. Scorse il listato una, due, tre volte. Bat-teva con un ritmo ora uniforme ora sincopato sulla tastiera i tasti “freccia in su” e “freccia in giù” per spostarsi avanti e indietro nelle righe di comandi.

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All’una le sue ricerche non avevano ancora dato frutto. Aveva gli occhi stanchi e la mente affaticata. Capì che conti-nuare così sarebbe stato inutile. Era meglio fare una pausa e mangiare qualcosa per ricaricarsi. Spense il computer e la-sciò lo studio. Passando davanti alla stanza della collega istintivamente si girò e ne intravide l’ombra dietro la porta dai vetri azzurri smerigliati.

Si incamminò verso la mensa ma, giunto di fronte al-l’ingresso, un’ondata di cavoli, carne impanata bruciata e olio rifritto troppe volte lo colpì come un pugno allo stoma-co. Pensò in fretta a una soluzione alternativa. I bar interni in stile occidentale li scartò subito e per un attimo prese in considerazione l’idea di uscire dalla MGU. Peccato che nei dintorni non ci fossero locali di suo gradimento e non aves-se voglia di allontanarsi e perdere troppo tempo. Conti-nuando a riflettere si voltò di lato e scorse un distributore automatico di lattine e merendine preconfezionate. Il suo sguardo si illuminò e si inumidì le labbra con la lingua. Ra-cimolò qualche spicciolo frugando prima nelle tasche della giacca e poi dei pantaloni e si avviò verso la macchinetta. In-serì le monete, schiacciò un paio di pulsanti e ottenne una ciambellina e una lattina di coca-cola.

Soddisfatto uscì dall’edificio e percorse l’ampio spiazzo davanti al severo e maestoso palazzo di trentasei piani in sti-le staliniano. Osservò distratto la fontana e non degnò nep-pure di uno sguardo i monumenti agli scienziati famosi. Ini-zialmente aveva pensato di sedersi su una delle panchine del lungo viale alberato attraversato da frotte di studenti. Ma giunto a metà dello stradone decise di proseguire verso il belvedere e andò a sedersi, o meglio appollaiarsi, sopra il muretto della terrazza che si affacciava sulla Moscova. Que-sto è il punto più alto della città… le Colline dei Passeri le chiamano oggi, ma in un tempo che ora sembra così lonta-no erano le Colline Lenin. Da qui si gode la vista di tutta la città. Posto ideale per passeggiate romantiche e foto ricordo per gli sposi, ora troppo spesso invaso da mercatini affollati di turisti che cercano souvenir a basso prezzo e che contrat-tano improbabili affari in tutte le lingue del globo. Girando

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le spalle al panorama consumò lo snack. Pensò con una punta di malinconia al Berkeley, agli hamburger doppi, al baseball. Si alzò per gettare i rifiuti in un cestino e prese a bi-ghellonare, con le mani in tasca, curiosando tra i banchetti e ascoltando senza ascoltare il vociare di Babele degli stranieri e dei mercanti.

Si fermò davanti ad una bancarella con una serie di pic-cole scatolette nere di dimensioni e fogge diverse, dipinte con colori vivaci e su cui erano rappresentate scene di vita popolare. Lo colpirono per l’accuratezza delle figure e dei paesaggi e per i colori simili a quelli delle icone di cui era ap-passionato.

«Belle…» commentò quasi tra sé in inglese.Ne prese in mano una per studiarne da vicino il disegno

i cui contorni erano crisografati con minuziosa precisione. Notò che sul coperchio era rappresentata la favola del pe-sciolino d’oro. L’aprì. L’interno era rosso vivo e contrastava con il nero assoluto dell’esterno. La richiuse e osservò con attenzione la miniatura sul coperchio. Si stupì dell’uso della prospettiva inversa, tipico della pittura sacra russa. Era sem-pre stato affascinato da quella tecnica che stravolgeva la pro-spettiva inglobando l’osservatore nella scena, attirandolo al suo interno per renderlo partecipe anziché semplice spetta-tore. In primo piano si vedeva il vecchio pescatore, con la lunga barba bianca, che parlava dalla riva del mare al magico pesciolino, avvolto in un alone dorato. I riccioli blu delle onde erano contornati del bianco della schiuma che l’acqua produceva infrangendosi sulle appuntite rocce stilizzate. Sullo sfondo: verdi alberi e ancora rocce di diverse tonalità di marrone chiaro. Un sole rosso brillava alto nel cielo. Ros-so come la casacca del vecchio e come parte dello spigoloso terreno. Considerò che in fondo quella favola presentava vaghe ma significative analogie con la storia del popolo rus-so sempre in attesa di una magia capace di regalare fortuna e benessere a tutti, dell’ennesimo padre-padrone in grado di risolvere con un prodigio i millenari problemi che assillava-no la nazione.

«Sono di Paleh, sono realizzate a mano in cartapesta e

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decorate con colori naturali da maestri…» iniziò il vendito-re cercando di esprimersi nella lingua nativa del probabile acquirente.

«Paleh? E dove si trova?» chiese in russo mentre depo-neva la scatola nuovamente sul banco.

«È una città a nord est di Mosca nel distretto di Ivano-vo. Ma voi parlate russo?» rispose meravigliato.

«Čut’ ut’» confermò e salutandolo passò oltre.Si incamminò lungo la ripida scarpata. Immerso nei

suoi pensieri si fermò per un attimo a guardare il panorama. L’agglomerato urbano spuntava dai folti alberi. Avviluppa-to in una perlacea foschia si intravedeva il Cremlino cuore della nuova e della vecchia Russia, simbolo di una terra di confine che non è più Occidente e non è ancora Oriente. Si allontanò riflettendo su come cominciano di solito le fiabe russe: “In un certo reame, in un certo stato, viveva una volta uno zar… “.