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L’analisi razionale delle politiche Capitolo 3 1. Prime definizioni L’approcci o presentato in questo capitolo stabilisce una forte rela- zione tra analisi delle politiche e razionalità: «Al livello più elementare, la policy analysis procede in base all’assunzione che l’adozion e delle decisioni debba essere un processo più razionale: i metodi di analisi sono considerati capaci di rafforzare la razionalità nel processo di pol- icy» [Heineman et al. 1990, 56]. Talvolta, questo rapporto è conside- rato talmente scontato che l’aggettivo «razionale» è dato per scontato, come nella citazione che abbiamo appena riportato. Questa ambiguità può essere fonte di malintesi per il lettore fretto- loso 1 . L’unico modo per sciogliere i dubbi è verificare da quali presup- posti muove l’analista e quali domande si pone. Infatti questo blocco di ricerche si basa sulla scelta di metodi «scientifici», «razionali», «economici» per la progettazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche pubbliche. La domanda «che cosa ha senso fare davanti a un problema di policy?» è riformulata in questi termini: «quali pro- cedure logiche occorre adottare per massimizzare le probabilità di suc- cesso e minimizzare i rischi di fallimento?». In altre parole, all’origine di questa impostazione sta l’idea che la selezione della politica pubbli- ca migliore sia il risultato di una serie di operazioni razionalmente fon- date e correttamente eseguite [Backoff e Mitnick 1986; Dunn 1981]. Come una persona che deve accendere un mutuo si informa, valuta le diverse proposte, le confronta con le sue esigenze e decide, dopo ave- re considerato le conseguenze a cinque o a dieci anni in termini di co- 1 Può succedere infatti che due autori della statura di Lindblom [1980] e di Wil- davsky [1992], pur convergendo sulla sostanza del giudizio, diano significati opposti al termine policy analysis, che per il primo si identifica con l’approccio razionale, men- tre per il secondo se ne distacca nettamente.

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L’analisi razionale delle politiche Capitolo 3

1. Prime definizioni

L’approccio presentato in questo capitolo stabilisce una forte rela-zione tra analisi delle politiche e razionalità: «Al livello più elementare,la policy analysis procede in base all’assunzione che l’adozione delledecisioni debba essere un processo più razionale: i metodi di analisisono considerati capaci di rafforzare la razionalità nel processo di pol-icy» [Heineman et al. 1990, 56]. Talvolta, questo rapporto è conside-rato talmente scontato che l’aggettivo «razionale» è dato per scontato,come nella citazione che abbiamo appena riportato.

Questa ambiguità può essere fonte di malintesi per il lettore fretto-loso1. L’unico modo per sciogliere i dubbi è verificare da quali presup-posti muove l’analista e quali domande si pone. Infatti questo bloccodi ricerche si basa sulla scelta di metodi «scientifici», «razionali»,«economici» per la progettazione, il monitoraggio e la valutazionedelle politiche pubbliche. La domanda «che cosa ha senso fare davantia un problema di policy?» è riformulata in questi termini: «quali pro-cedure logiche occorre adottare per massimizzare le probabilità di suc-cesso e minimizzare i rischi di fallimento?». In altre parole, all’originedi questa impostazione sta l’idea che la selezione della politica pubbli-ca migliore sia il risultato di una serie di operazioni razionalmente fon-date e correttamente eseguite [Backoff e Mitnick 1986; Dunn 1981].Come una persona che deve accendere un mutuo si informa, valuta lediverse proposte, le confronta con le sue esigenze e decide, dopo ave-re considerato le conseguenze a cinque o a dieci anni in termini di co-

1 Può succedere infatti che due autori della statura di Lindblom [1980] e di Wil-davsky [1992], pur convergendo sulla sostanza del giudizio, diano significati oppostial termine policy analysis, che per il primo si identifica con l’approccio razionale, men-tre per il secondo se ne distacca nettamente.

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sti e benefici, così deve procedere un’istituzione per far fronte a unproblema di rilevanza collettiva2.

Come è evidente, questioni di questo genere hanno una chiaravalenza prescrittiva. Se un governo deve decidere dove localizzare unnuovo aeroporto, o come aumentare la mobilità dei dipendenti pub-blici, o come ridurre il numero degli abbandoni scolastici, compitodell’analista è individuare e valutare le probabili conseguenze dellevarie opzioni, per rendere più documentato e razionale il processo discelta, con l’individuazione del risultato migliore, date le risorse dispo-nibili e i vincoli esistenti.

Questo approccio merita di figurare alla base del nostro percorsoperché tra i non specialisti, e qualche volta anche tra gli esperti, è con-siderato il paradigma per eccellenza dei policy studies. Quando nelnostro paese un’amministrazione commissiona uno studio, si trattidella valorizzazione dei suoi beni culturali o del miglioramento deiservizi sanitari, in genere si aspetta un prodotto con le caratteristichedella rational policy analysis (d’ora in poi ARP). Quando uno studentepensa a una specializzazione nel campo delle politiche pubbliche, hain mente gli autorevoli rapporti fitti di dati, diagrammi e proiezionistilati dalle organizzazioni internazionali sulle politiche energetiche osulla crisi dei sistemi previdenziali.

Ma per collocare in una prospettiva più equilibrata i contributiche esamineremo in questo capitolo, occorre anticipare due osserva-zioni. In primo luogo, questo approccio non esaurisce lo spazio delleteorie razionali sul policy making. Infatti il concetto di ragione non hasolo implicazioni prescrittive, ma anche potenzialità descrittive3. Se sivuole arrivare il più presto possibile a un appuntamento, è razionalescegliere il percorso più breve e camminare di buona lena. Pertanto,se un amico mi vede andare di corsa, attribuendomi una qualche ra-zionalità e conoscendo le mie preferenze – ad esempio la mia avversio-ne per il jogging – senza bisogno di altre osservazioni può concludereche sto cercando di evitare un ritardo. Delle implicazioni descrittiveed esplicative delle teorie razionali ci occuperemo nel sesto capitolo,quando presenteremo il contributo della scuola di Public Choice.

In secondo luogo, l’ARP, nonostante la popolarità di cui gode, nonè certo l’unico modo per analizzare il policy making in termini pre-scrittivi. Anzi, per certi versi si può sostenere che la critica a questaimpostazione ha generato la spinta più forte verso lo sviluppo di unaseconda generazione di ricerche con finalità prescrittive o, almeno,propositive. Di esse torneremo a parlare nel prossimo capitolo.

2 Per queste sue caratteristiche, la policy analysis razionale è identificata dai suoicritici anche con termini quali sinottica, onnicomprensiva, ingegneristica, illuminista.

3 V. citazione di Harsanyi a p. 85.

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2. L’affermazione del paradigma

2.1. Stati Uniti

2.1.1. Una storia lunga un secolo

Come abbiamo visto nel primo capitolo, la scienza politica ameri-cana nasce con una forte impronta prescrittiva. Easton ci ricorda chenel 1800 i Federalist Papers, i famosi documenti che raccolgono il di-battito tra i padri fondatori della Repubblica americana, erano consi-derati nelle università come un vero e proprio testo di scienza politicaapplicata [1953, 183 trad. it.]. All’inizio del XX secolo, il decollo delProgressive Movement aveva tra i suoi principi ispiratori la fiducia nel-la possibilità di un approccio scientifico ai problemi sociali: la profes-sionalità di amministratori appositamente addestrati doveva infatti so-stituirsi ad un metodo di gestione della cosa pubblica basato sulla pre-tesa dei politici di controllare la macchina statale attraverso il mecca-nismo dello spoil system. Grandi protagonisti della vita scientifica epolitica americana, quali Woodrow Wilson e Frank Goodnow, pro-mossero il rafforzamento di una figura di dirigente pubblico qualifica-ta dall’autonomia di giudizio e dalla competenza tecnica.

Tra gli anni ’20 e ’30, questo programma s’interseca con quello delmovimento per gli indicatori sociali, che persegue un importante risul-tato quando, grazie a un sostanzioso contributo della RockefellerFoundation, il presidente Herbert Hoover istituisce il Research Com-mittee on Social Trends. Grazie all’impegno di Charles Merriam eWesley Mitchell4 [Smith 1991], fu avviata un’imponente raccolta didati sulla mortalità infantile, sul tasso di criminalità o sul numero dimorti per alcolismo, e furono rielaborate le complesse serie storichegià in possesso dell’amministrazione . Benché i critici rilevino cometanta attività di ricerca non sia riuscita a prevedere l’arrivo della Gran-de Depressione, tuttavia non c’è dubbio che l’apparato statistico deglienti locali e federali compì un grande passo avanti.

Negli anni immediatamente successivi, e precisamente nel 1936, ilparlamento americano approvò una legge che rappresenta il primoformale riconoscimento dell’analisi costi-benefici come criterio per ledecisioni di policy: il Flood Control Act prevedeva infatti che gli inter-venti a modifica del corso dei fiumi per ridurre i danni delle esonda-zioni si basassero su una sistematica ponderazione degli effetti positivie negativi [Dorfman 1978].

Nel 1939, in seguito al grande fermento culturale suscitato dai la-vori del Comitato composto da Brownlow, Merriam e Gulick (v. pri-mo capitolo), nacque l’American Society for Public Administration

4 Economista alla Columbia University.

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(ASPA), con l’obiettivo di facilitare lo scambio di conoscenze tra glistudiosi e i funzionari, in modo da consentire l’effettiva sperimentazio-ne di tecniche manageriali nella gestione della cosa pubblica.

Negli anni della seconda guerra mondiale, l’idea che le istituzionidemocratiche potessero solo trarre benefici da una più stretta collabo-razione tra politici, funzionari e scienziati sociali fu rafforzata dal con-tributo dato da molti studiosi all’attività di intelligence del governoamericano [Dallmayr 1986]5. Le ricerche degli psicologi sui modi piùefficaci per contrastare la propaganda dei governi nemici, o i pianidegli economisti per l’allocazione ottimale di risorse che tendevano adiventare sempre più scarse, divennero talmente rilevanti da suscitarela perplessità di alcuni ricercatori6.

Nel 1946, è ancora il settore militare il campo di applicazione diun progetto RAND – acronimo di Research ANd Development – intor-no al quale si costituirà la RAND Corporation, una delle prime e piùimportanti think tanks americane [Williams e Palmatier 1992].

L’anno successivo è istituito il Council for Economic Advisers(CEA), composto di soli tre membri, con l’immane compito di assistereil presidente in tutte le questioni di politica economica, e di spiegare alCongresso e all’opinione pubblica le strategie economiche dell’ammi-nistrazione [Heller 1966].

Il ruolo della ricerca applicata si rafforza durante gli anni ’50,quando la tensione sociale intorno al tema dell’uguaglianza razzialediviene più acuta. La stessa Corte Suprema, prima di stabilire l’incosti-tuzionalità della segregazione a livello scolastico, ricorse ad alcune ri-cerche per verificare se la discriminazione produceva di per sé effettinegativi, indipendentemente dalla qualità dell’insegnamento impartito.

Gli anni delle presidenze Kennedy e Johnson, con le parole d’ordi-ne della «Nuova Frontiera» e della «Guerra alla Povertà», videro unagrande espansione delle ricerche longitudinali su specifici indicatori didisagio sociale, dagli abbandoni scolastici ai tassi di criminalità, dallaqualità delle abitazioni alla diffusione delle malattie infettive. I provve-dimenti legislativi di ampio respiro sociale adottati durante quel perio-do prevedevano di norma varie forme di monitoraggio per valutarnel’impatto.

In quello stesso periodo, il segretario della Difesa Robert McNa-mara sperimentava il Planning, Programming, Budgeting System(PPBS), un metodo di gestione delle risorse finanziarie che, nelle inten-

5 Stando ai dati di Smith [1991, 100], tra storici, geografi, linguisti, antropologi,economisti, sociologi e psicologi, nel 1942 oltre 15.000 scienziati sociali collaboravanocon il dipartimento di Stato e con le forze armate.

6 Secondo Easton, «durante l’ultima guerra, gli scienziati politici furono sottopo-sti a richieste abbastanza pesanti da sollevare in non poche università l’interrogativo sudove stesse la responsabilità immediata del docente di scienze politiche, se verso glistudenti o verso il governo» [Easton 1953, 64 trad. it.].

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zioni dei proponenti, doveva portare all’eliminazione di sprechi e inef-ficienze, trasformando il processo di bilancio «da un ripetitivo proces-so per finanziare burocrazie permanenti, a uno strumento per deciderele finalità e i programmi del governo» [Schick 1973, cit. in Caiden1990, 234].

Per effetto di queste iniziative, durante gli anni ’60 gli specialisti dipolitiche pubbliche aumentano del 163%, rivelandosi un gruppo pro-fessionale molto dinamico, una vera industria in crescita [Fischer1987]. La tendenza all’espansione proseguì durante gli anni ’70, anchegrazie a una legislazione propensa a estendere l’ambito della valutazio-ne d’impatto dei diversi provvedimenti, includendovi le conseguenzeindirette, sul piano sociale e ambientale.

Occorre attendere gli anni ’80 e la svolta neoliberista per assisterea una profonda ridiscussione non solo dell’effettiva efficienza dell’in-tervento pubblico, ma anche degli strumenti utilizzati per migliorarla.Nel 1978, in California viene approvato un referendum divenuto l’em-blema della rivolta fiscale, il famoso Proposition 13, che comportavauna riduzione del 50% delle imposte locali sui beni immobili. Nel1981, il presidente Ronald Reagan nel suo discorso d’insediamentosintetizzava il nuovo orientamento verso l’intervento pubblico in questitermini: «Il governo non è la soluzione, ma il problema». Questa di-chiarazione inaugura una stagione di forte scetticismo circa gli effettidi medio e lungo periodo di misure quali gli assegni assistenziali perchi vive di welfare pubblico, le norme per le pari opportunità a difesadelle categorie più deboli, la regolazione economica e ambientale.

E tuttavia, l’obiettivo di una contrazione della sfera pubblica avevacome effetto non previsto un immediato aumento della domanda dianalisi delle politiche pubbliche [Ricci 1993]. Da un lato, ai sostenitoridella svolta servivano dati che dimostrassero gli sprechi e le conse-guenze negative delle politiche condotte negli anni precedenti [Stone1991]. Furono pertanto fondate o rilanciate think tanks di orientamen-to conservatore quali The Heritage Foundation, Cato Institute, Hud-son Institute, American Enterprise Institute for Public Policy Resear-ch, The Hoover Institution, per contrastare le ricerche condotte daicentri più legati all’establishment democratico, quali Brookings Institu-tion. Risale a questi stessi anni il più controverso tentativo di applicarela cost-benefit analysis alle principali politiche regolative. Benché percerti versi l’amministrazione Reagan non facesse altro che continuarela via intrapresa dal suo predecessore, il democratico Jimmy Carter,grande fautore dell’applicazione delle tecniche razionali al policymaking [Tolchin 1987, 26], tuttavia lo stile conflittuale ostentato neiconfronti delle agenzie regolative suscitò profonda impressione7.

7 A difesa dei manager pubblici scese in campo la stessa National Academy ofPublic Administration, preoccupata per la loro delegittimazione e demoralizzazione.

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Dall’altro lato, le obiettive preoccupazioni per l’ammontare dellaspesa pubblica inducevano anche i sostenitori di nuovi interventi acercare di dimostrare, dati alla mano, che ogni dollaro speso in piùper il loro programma avrebbe prodotto risparmi altrove [C. Weiss1992].

Gli anni ’90, se da un lato vedono esaurirsi gli aspetti più vistosidell’ondata liberista, dall’altro confermano la profonda disillusione ver-so gli apparati pubblici. La sfiducia nella gestione burocratica e cen-tralistica dei problemi di rilevanza collettiva sembra aver contagiatotutte le forze politiche e tutti i livelli istituzionali. Nella relazione dellaPresidenza – democratica – degli Stati Uniti che accompagna il dise-gno di legge per la finanziaria 1996 si legge: «La maggior parte deiprogrammi, con norme e strutture amministrative tra loro in conflitto,confondono la gente che dovrebbero aiutare, aggiungono burocraziaad ogni livello e sprecano i soldi dei contribuenti. Non può quindidestare sorpresa che gli Stati e gli enti locali lamentino il problema dicome destreggiarsi fra tante norme federali e tante richieste di rendi-conti».

Eppure, anche in questo clima, l’analisi delle politiche pubblichesembra convivere molto bene con la crisi del suo oggetto, sia pure conqualche adattamento del proprio paradigma. Consideriamo ora alcuniindicatori di questa prosperità.

2.1.2. L’istituzionalizzazione della «policy analysis»

Secondo Dror [1994], le ragioni dello sviluppo della policy anal-ysis8 vanno ricercate in processi quali il rafforzamento delle thinktanks, la crescente professionalizzazione della scienza economica, ilsenso di inadeguatezza dei policy makers davanti a fallimenti quali lacrisi fiscale dello Stato sociale o le emergenze ambientali. In effetti,l’interesse per l’analisi delle politiche pubbliche si è consolidato in unfitto reticolo di istituzioni che costituiscono ormai un tratto fondamen-tale della vita politica e culturale americana.

Le «think tanks». Per Wildavsky, severo critico di questo approccio,

le origini della versione «macro-macho»9 della policy analysis, con l’idea chelarga parte dei problemi nazionali, dalla difesa al welfare, possano trovaresoluzione nelle applicazioni dell’analisi economica, affondano le loro radicinell’incontro che si è verificato nei primi anni ’60 tra le scienze economiche,statistiche, computazionali, e le think tanks specializzate nei problemi delladifesa [1992, xxvi].

8 Nel linguaggio di Dror, dei policy studies.9 Ovvero, l’approccio razionale di cui ci stiamo occupando.

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Il termine think tank, entrato nel lessico politico americano a par-tire dagli anni ’50, fa riferimento a centri di ricerca permanenti, dotatidi un proprio staff, con una speciale competenza nello studio dellepolitiche pubbliche; il loro principale prodotto è la consulenza perenti di governo, imprese, organizzazioni di interessi, testate giornalisti-che, per i quali possono progettare, monitorare e valutare singole po-litiche pubbliche, pur senza avere alcun diretto coinvolgimento nellafase della loro esecuzione [C. Weiss 1992]. Secondo James Smith,«Think tank è un’espressione abbastanza amorfa per descrivere la va-rietà di assetti che questa nazione di inventori e sperimentatori di isti-tuzioni ha escogitato nel corso del ventesimo secolo per far pesarenelle questioni pubbliche la competenza tecnica, l’intuizione informalee il giudizio politico» [1989, 178]. Sulla peculiarità tutta americana diqueste strutture convengono del resto quanti ne hanno ricostruito lastoria: «dato che questi istituti sono profondamente radicati in unaspecifica cultura politica, la loro recente crescita e il loro successo nonpossono essere capiti senza prendere in considerazione il modo in cuifunziona la democrazia americana» [Ricci 1993, 3].

Brookings Institution, fondata nel 1927, forte di una solida impo-stazione tecnocratica socialmente illuminata, attualmente si avvale dellavoro di circa 200 ricercatori. La RAND Corporation, l’istituto piùgrande, oggi può contare su oltre 1.100 addetti: nata, come abbiamovisto, da un progetto per l’analisi delle strategie più efficaci per garan-tire la sicurezza nazionale, mantiene tuttora un rapporto privilegiatocon le forze armate.

Questi due esempi non sono certo rappresentativi della media del-le oltre mille think tanks che lavorano intorno agli uffici federali e sta-tali10, e che in genere non hanno più di venti dipendenti. Ma grandi epiccole istituzioni costituiscono un settore molto dinamico, cui si devela produzione annua di centinaia di volumi e di migliaia di rapporti suogni aspetto dell’intervento pubblico: «Sono loro a riempire un vuotoche pochi altri meccanismi sanno colmare; e lo fanno con una filosofiabasata su “razionalità”, “logica”, “evidenza” e “competenza” che famolta presa sulla mentalità americana» [C. Weiss 1992, 8].

I centri interni alle istituzioni. Una grande rilevanza hanno acquisi-to anche le strutture di analisi interne all’amministrazione:

I presidenti possono oggi contare sui circa seicento esperti di policy especialisti di bilanci dell’Office of Management and Budget11. Due o tre doz-zine di economisti fanno in genere parte dello staff del Council of Economic

10 Da una rilevazione del 1997, risultavano attivi 114 istituti nell’area di Washing-ton [Weimer e Vining 1998, 38].

11 Organo dell’esecutivo, responsabile per conto del presidente dell’impostazionedel bilancio federale.

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Advisers e cinquanta o sessanta esperti siedono nel National Security Staff.Poi ci sono gli specialisti che lavorano sulle politiche ambientali e dello svi-luppo scientifico, dentro – o per – la Casa Bianca [Smith 1991, 13].

L’esecutivo ha inoltre a disposizione unità di valutazione specializ-zate in campi quali l’assistenza sociale, la sanità, i trasporti, costituiteall’interno dei rispettivi dipartimenti12.

Ma il quadro non sarebbe completo senza considerare la straordi-naria importanza assunta dalle tre strutture di documentazione e dianalisi che coadiuvano deputati e senatori nella valutazione delle varieproposte di legge all’interno del Congresso americano.

Il Congressional Research Service (CRS), istituito nel 1914, svolgeattività di ricerca e documentazione e occupa circa 850 addetti. Grazieall’enorme archivio di cui dispone13, in un anno è in grado di farefronte a oltre 500.000 richieste di approfondimento su singole questio-ni riguardanti la legislazione, fornendo nella maggior parte dei casi ri-sposte entro le 24 ore. Suo compito istituzionale non è indicare lepolitiche migliori, bensì fornire tutti gli elementi per permettere al par-lamentare la scelta più informata e ponderata14.

Il General Accounting Office (GAO), istituito nel 1921, ha un or-ganico di circa 5.000 unità, che gli permette di condurre scrupolosevalutazioni in tutti i principali settori di policy, con l’intento dichiaratodi individuare le soluzioni più convenienti, una volta definite certepriorità. Caratteristica di questa struttura è la cura nella verifica del-l’affidabilità dei dati sulla cui base sono svolte le ricerche, che rara-mente si affidano a fonti esterne15. L’imparzialità e la qualità delle ri-cerche sono certificate annualmente da una commissione esterna, conun’approfondita indagine a campione su alcuni degli studi prodotti.

Il Congressional Budget Office (CBO), creato nel 1974, ha il com-pito di assistere i parlamentari in tutte le questioni che riguardano ilbilancio, i provvedimenti che comportano spese, le questioni fiscali. Laspecializzazione di questa struttura consente di tenere il conto degli ef-fettivi costi dei vari provvedimenti, di avere proiezioni sul loro impatto

12 Per un’analisi del contributo delle diverse istituzioni e dei modelli da esse uti-lizzati, v. Rebba [1993].

13 È istituzionalmente collegato alla Libreria del Congresso.14 Dalla presentazione del sito web del CRS: «Noi forniamo approfondite analisi

sulle politiche e ricerche legali; scriviamo rapporti analitici e promemoria confidenzia-li; presentiamo seminari e convegni per la formazione; organizziamo incontri persona-lizzati e consultazioni telefoniche; diamo assistenza nella preparazione delle audizionidel Congresso e forniamo interpretazioni circa le norme delle procedure. Inoltre di-sponiamo di una vasta serie di banche dati e di servizi di informazione specializzati»http://www.loc.gov/crsinfo/whatscrs.html (maggio 2000).

15 «Quando il GAO diffonde un rapporto o quando i suoi funzionari sono chia-mati a un’audizione davanti a una commissione del Congresso, è il direttore generalee il GAO come istituzione che stanno dietro quel prodotto» [Havens 1992, 215].

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finanziario nel medio e lungo periodo, di condurre sofisticate analisicosti-benefici e di compiere una meticolosa verifica del progetto dilegge finanziaria elaborato ogni anno dalla presidenza. A capo dell’uf-ficio, in cui lavorano circa 200 persone, si sono succeduti analisti digrande prestigio16.

Un discorso a parte merita una quarta struttura del Congresso,l’Office of Technology Assessment (OTA). Istituito nel 1972 con ilcompito di approfondire l’impatto dello sviluppo tecnologico sulle po-litiche pubbliche e di indicare i settori di punta sui quali concentrarele risorse, questa istituzione non è riuscita a ritagliarsi un proprio ruo-lo nel law making federale. Infatti l’ufficio incarnava «il matrimoniotra un approccio visionario alla policy analysis – la valutazione delletecnologie – e la più pragmatica delle istituzioni americane, il Congres-so. Questo matrimonio ha prodotto una continua tensione tra la spe-ranza in un domani migliore e le esigenze di un oggi migliore; e la ten-sione si manifesta nella storia, nell’agenda e nelle funzioni dell’OTA»[Carson, 1992]. Pochi anni dopo la pubblicazione di queste osserva-zioni, nel 1995, l’Office of Technology Assessment veniva chiuso e ilsuo staff licenziato.

Le università. Questo flusso di competenze è alimentato dagli inve-stimenti compiuti nella ricerca e nella didattica a livello accademico.Nel 1919, l’Università di Berkeley in California istituisce un Ufficioper l’amministrazione pubblica, in seguito ribattezzato Institute of Go-vernmental Studies.

Nel 1936 l’Università di Harvard segue la stessa strada, fondandouna scuola, in seguito dedicata al presidente John F. Kennedy. I prin-cipali atenei hanno avviato corsi di public policy, in genere collegati aidipartimenti di scienza politica, di economia o di sociologia. Questoattivismo ha finito col provocare la reazione delle scuole che organiz-zavano i tradizionali corsi di scienza dell’amministrazione, in qualchemodo emarginati dall’espansione del nuovo paradigma: nel 1970, ilcontrasto è culminato nella loro secessione dall’American PoliticalScience Association e nella costituzione della National Association ofSchools of Public Affairs and Administration (NASPAA).

Le organizzazioni professionali. Le associazioni su base disciplinarehanno un ruolo importante nel facilitare la circolazione delle idee e nelrafforzare la figura dell’analista di politiche pubbliche. Nel 1971 nascela Policy Studies Organization (PSO), con l’obiettivo di «promuoverel’applicazione della scienza politica e sociale a importanti problemi di

16 Questi dati, oltre a chiarire le dimensioni del fenomeno di cui si parla quandosi fa riferimento all’analisi delle politiche pubbliche, hanno anche l’effetto di collocareil parlamentarismo dell’impianto istituzionale italiano in una prospettiva ben più mo-desta.

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policy»; sua è la responsabilità di due riviste, «Policy Studies Journal»e «Policy Studies Review». Nel 1979 è fondata l’Association of PublicPolicy Analysis and Management (APPAM), che cura la pubblicazionedel «Journal of Policy Analysis and Management»17. Negli stessi anniè costituita la sezione di Management Science and Policy Analysisdell’American Society for Public Administration. Intorno ai temi del-l’ARP è inoltre cresciuta una fitta popolazione di riviste, che costitui-scono sedi di dibattito scientifico, ma anche canali per la diffusione diesperienze pratiche18.

2.2. Altri contesti

La ricostruzione di come nei vari paesi le competenze sono incana-late verso il policy making fornisce straordinarie indicazioni per la ri-cerca comparata [Hall 1989; Haas 1992; Radaelli 1995; Jobert 1994].Questo settore è oggi in grande espansione, e non avrebbe senso rias-sumerne i risultati in poche righe. Qui ci limitiamo a sottolineare alcu-ne differenze d’impostazione rispetto al modello americano, rimandan-do a lavori più specifici per l’approfondimento di questo affascinantecampo di indagine.

Fuori dagli Stati Uniti, lo sviluppo dei metodi di analisi razionali,o economici, ha avuto una storia che si distingue da quella america-na per due ricorrenti caratteri distintivi. Innanzi tutto, il profilo èsenz’altro più basso per quanto riguarda l’ampiezza, la rilevanza po-litica e il grado di istituzionalizzazione. Inoltre, l’oggetto dell’analisiraramente è definito in termini di politica pubblica: si parla di pro-getti, investimenti, piani, mutuando di preferenza le categorie chiavedall’economia o dalla scienza dell’amministrazione , anziché dallapublic policy. Come abbiamo già notato, questa non è una differenzadi poco conto, perché rende più difficile incorporare nell’analisiaspetti quali l’importanza dell’implementazione e della collaborazio-ne da parte dei destinatari. Inoltre, nel concetto di politica pubblicaè implicita una tensione ideale verso il pubblico come referente ulti-mo dell’analisi, che altri paradigmi relegano nell’ombra o interpreta-no con categorie diverse.

Detto questo, occorre sottolineare l’impegno delle organizzazioniinternazionali per l’ampliamento e la diffusione delle tecniche di valu-tazione ispirate a metodi razionali. Alla fine degli anni ’60, l’OCSE

pubblicava un manuale per l’analisi dei progetti nei paesi in via di

17 In origine, il nome della rivista era «Public Policy».18 Ricordiamo tra le altre: «Evaluation»; «Evaluation and Program Planning»;

«Evaluation Quarterly»; «Applied Mathematical Modeling»; «Journal of Policy Model-ing»; «Journal of Public Economics»; «Journal of Public Policy and Management»;«Policy Analysis»; «Social Choice and Welfare».

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sviluppo [Little e Mirrlees 1968], destinato a divenire la «bibbia» dellavalutazione degli aiuti per promuovere la crescita economica. Il decen-nio successivo la vedeva impegnata nella raccomandazione agli Statimembri della valutazione di impatto ambientale per tutti gli interventiche andavano ad incidere sulle caratteristiche fisiche del territorio.

La Banca mondiale, che ha come compito il finanziamento di pro-getti per il decollo dei paesi non industrializzati, ha dato un massicciocontributo al perfezionamento di criteri di valutazione ex ante basatisu una particolare versione della cost-benefit analysis, integrata con lostudio degli effetti sociali e basata su una più articolata definizione delconcetto di povertà: la social benefit-cost analysis [Van Der Laar1981]19. Anche le agenzie dell’ONU – l’UNIDO per lo sviluppo indu-striale, la FAO per l’alimentazione e le politiche agricole – hanno mes-so a punto rilevanti metodologie per la valutazione degli investimentiin progetti di sviluppo [Dasgupta, Marglin e Sen 1972].

Nell’Unione europea, il principio della valutazione si è affermatoper l’esigenza di individuare procedure capaci di minimizzare i conflit-ti allocativi, rendendo espliciti i criteri di scelta e tecnicizzando i pro-cessi di aggiudicazione delle risorse [Riganti 2001, 309-344]. La svoltaavviene negli anni ’80, quando appare chiaro che l’espansione dell’in-tervento comunitario deve distaccarsi dallo stile negoziale seguito perle politiche agricole, che difficilmente avrebbe potuto reggere all’allar-gamento dei campi di azione.

Con i Programmi integrati mediterranei (PIM, 1986-93) prima, conla riforma dei Fondi strutturali del 1989, con il regolamento degli stes-si Fondi del 1993 e del 1999, la valutazione viene individuata come lametodologia su cui basare le relazioni tra Commissione e Stati membriin materia di finanziamenti: «l’azione comunitaria è oggetto di unavalutazione ex ante, di una valutazione intermedia e di una valutazioneex post, volte a determinarne l’impatto rispetto agli obiettivi [...] e adanalizzarne le incidenze su problemi strutturali specifici»20.

Negli stessi anni inizia a trasparire una maggiore sensibilità verso ilruolo che la valutazione può avere per la diffusione di un linguaggiocondiviso e il consolidamento di stili decisionali basati sulla trasparen-za: «Il controllo dei costi e dei benefici è un mezzo per instaurare undialogo tra i partner, tra gli Stati membri e la Commissione, tra i pro-ponenti, i funzionari e i consulenti: uno strumento per operare deci-sioni collettive»21.

Anche in questo contesto, comunque, il riferimento non è tantoalle politiche pubbliche, ma a singoli progetti di impiego dei Fondi

19 http://www.worldbank.org/html/oed/evaluation/ (2000).20 Art. 40 del regolamento (CE) n. 1260/1999 recante disposizioni generali sui

Fondi strutturali, 26 giugno 1999.21 Commissione delle Comunità europee, Guida all’analisi costi-benefici dei grandi

progetti (senza data), p. 2.

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strutturali [Florio e Robotti 1993]. La differenza si è manifestata nel-l’attenzione quasi esclusiva per il concetto di efficienza economica, ascapito dell’analisi delle concrete condizioni di fattibilità e dell’allesti-mento di precisi strumenti per la valutazione ex post: aspetti, questi,che vedono peraltro le istituzioni comunitarie dipendere ancora netta-mente dalle informazioni fornite in modo molto eterogeneo dagli Statinazionali.

Questa stessa impostazione caratterizza le analisi dell’interventopubblico compiute con finalità prescrittive in molti altri paesi euro-pei22, tra cui l’Italia [Florio 1991; Pennisi 1991]. Ma il nostro paesesi distingue dai suoi partner per il basso livello di istituzionalizzazio- nedi queste pratiche, alla cui diffusione fino ad anni recenti nonhanno contribuito né l’amministrazione pubblica centrale, né istitutidi ricerca indipendenti23. Così, nel momento in cui queste proceduredevono essere incorporate nel processo decisionale, si registraun’enorme difficoltà nel riconoscimento del loro ruolo rispetto aquello degli organismi politici. Emblematiche di questo disagio sonole vicende del Nucleo di valutazione del Fondo investimenti e occu-pazione (FIO) istituito nel 1982 presso il ministero del Bilancio, pervagliare le domande di accesso ai finanziamenti. Il primo quadrien-nio di attività registrò problemi tali da indurre alcuni dei componen-ti del Nucleo a presentare la loro esperienza in un volume dal titolosignificativo Spesa pubblica e bisogno di inefficienza [Pennisi e Peter-lini 1987].

La diffidenza verso una istituzionalizzazione del rapporto tra ana-lisi e deliberazione è del resto confermata dalla tendenza degli espertia far valere le proprie competenze individuali assumendo in primapersona ruoli politici nelle istituzioni rappresentative. Mentre nel go-verno e nel parlamento siedono molti professori universitari, e moltianimano il dibattito sui media, le associazioni professionali, le univer-sità, gli istituti di ricerca, le fondazioni hanno tuttora ruoli molto mar-ginali nel policy making [Regonini 1993].

Se questo è ancora il quadro generale, meritano tuttavia di esseresegnalati i casi che muovono nella direzione opposta, grazie ai quali è

22 Si veda ad esempio la produzione scientifica del Conseil Scientifique de l’Eva-luation francese.

23 Una delle tante dimostrazioni di questa difficoltà è la vicenda dei cosiddetti«portaborse». Nell’intervista al presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, alladomanda «Ma è davvero necessaria una tale moltiplicazione di assistenti, consulenti,collaboratori?» segue la risposta, ironica: «Ah no, certo, possiamo anche fare tutto dasoli: rispondere al telefono, sapere a memoria le 1.000 normative in vigore, discuterecon tutti, ma proprio tutti, quelli che hanno qualcosa da dirti, intendersene di ogniargomento in discussione come se non si fosse mai fatto altro nella vita, dal numerodelle palestre da istituire in una provincia a un progetto sull’energia solare, dalle col-tivazione del mais ai parametri per l’edilizia... Ma via! Non è per queste cose che sispreca il denaro pubblico» («Corriere della Sera», 6 agosto 2000).

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stata garantita la trasmissione del know how nel campo dell’analisi deiprogetti, se non delle politiche.

Nella storia meno recente, un ruolo importante è stato svolto dagliuffici studi delle aziende pubbliche, che hanno educato una generazio-ne di economisti a confrontarsi con la concreta applicazione dei loroparadigmi ai diversi settori dell’intervento pubblico. Ecco come unodei protagonisti, Giuseppe De Rita, descrive la nascita della ricercasociale applicata in Italia:

Proprio a cavallo fra gli anni ’40 e ’50 nascono i primi gruppi di ricercasocioeconomica che hanno contribuito non poco alla cultura collettiva diquesto paese e alla formazione della nostra classe dirigente: l’ufficio studidell’IRI con Saraceno, Marsan, Grassini, Carlo Livi; l’ufficio studi dell’ENI conRuffolo, Pirani, Giugni, Fuà, Sylos Labini; la SVIMEZ con Molinari, Napoleo-ni, Sebregondi, Novacco, Barucci, Graziosi e io stesso; l’ufficio studi dellaBanca d’Italia, con Baffi, e i tanti giovani che hanno poi occupato posti diresponsabilità (da Ciampi a Masera a Savona a Fazio). E dalle ricerche diquei gruppi nascono linee di lavoro e di azione pubblica che, quale che sia ilgiudizio che oggi se ne può dare, hanno cambiato l’Italia di quegli anni: na-scono lì la politica per le aree depresse, la Cassa per il Mezzogiorno, la poli-tica siderurgica, la strategia di approvvigionamento petrolifero, il Piano Vano-ni e i successivi documenti di programmazione, la nazionalizzazione dell’ener-gia elettrica, i primi piani e le leggi pluriennali per la scuola, i primi pianiregionali e territoriali24.

In anni più recenti, occorre ricordare l’impegno del FORMEZ nelpromuovere un approccio agli investimenti pubblici nel sud in terminidi analisi costi-benefici [FORMEZ 1976]25. Dagli anni ’90, l’istituto hal’incarico di formare analisti economici in grado di impostare la pro-gettazione e il monitoraggio dei programmi con finanziamento euro-peo: l’obiettivo è ridurre il gap che in questo settore ci separa daglialtri paesi europei e, soprattutto, aumentare la capacità di spesa delleregioni e degli enti locali meridionali. Il ritardo è certamente meno ri-levante nel centro-nord, dove le regioni si sono rapidamente dotate diuffici di valutazione, per adeguarsi alle procedure stabilite dai Pro-grammi integrati mediterranei prima, e dai Fondi strutturali poi [Pre-dieri 1996]. La partecipazione agli interventi di politica strutturalepromossi dall’Unione europea ha avuto infatti un ruolo molto impor-tante: innanzi tutto, ha promosso l’allestimento di strutture di proget-tazione, coordinamento e valutazione a livello centrale e regionale;inoltre ha finanziato la formazione di nuove figure di esperti con com-petenze nella gestione e nel monitoraggio dei fondi26.

24 «Corriere della Sera», 1o novembre 1998.25 Si veda anche la traduzione di Stokey e Zeckhauser [1978].26 Il riferimento è alle cabine di regia, istituite nel 1995 a livello nazionale e re-

gionale, e al Programma PASS (1994-1999).

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In campo ambientale, l’Italia si è adeguata alle normative interna-zionali istituendo il Nucleo per la valutazione di impatto ambientale(VIA) presso il ministero dei Lavori pubblici [Beato 1991]. Sempre nelsettore pubblico, L’ISFOL, istituito nel 1973, si occupa del potenzia-mento e della valutazione delle politiche per la formazione professio-nale, l’occupazione e l’innovazione tecnologica, e collabora con il mi-nistero del Lavoro, con le regioni e con gli organismi comunitari nellavalutazione dei sistemi di formazione [ISFOL-CEE 1993].

Sul fronte della ricerca, il CIRIEC, costituitosi nel 1962 come se-zione italiana del Centre International de Recherches et d’Informa-tion sur l’Économie Publique Sociale et Coopérative, cura una im-portante collana di studi e la rivista «Economia pubblica». Dal 1996,un nuovo titolo, la «Rassegna italiana di valutazione» ha allargato ilnumero delle testate orientate all’analisi dei progetti e delle politiche[Stame 1998].

Tra gli istituti privati, il cui numero è in costante aumento, alcunivantano ormai una lunga storia. Nomisma, fondata a Bologna nel1981, ha svolto numerose ricerche nel campo della politica industrialee nella valutazione di impatto ambientale. La Fondazione GiovanniAgnelli, fondata a Torino nel 1966, ha organizzato indagini e convegnisulle politiche dell’immigrazione e di bilancio. L’IRS, costituitosi ametà degli anni ’70 a Milano, con i suoi 50 ricercatori, la vasta gammadi competenze e l’intensa attività editoriale è probabilmente l’istitutoche più si avvicina al modello americano delle think tanks.

3. Riferimenti teorici e metodologici

L’analisi razionale delle politiche pubbliche fa sua una terminolo-gia – efficienza, input, output, miglioramento, preferenza... – che ricor-re con significati diversi in paradigmi di ricerca che, se da un lato han-no ampi margini di sovrapposizione, dall’altro non sono interamenteinterscambiabili. L’apparente omogeneità copre infatti discordanzenelle impostazioni di fondo, su cui conviene soffermarsi subito perridurre al minimo i rischi di confusione. Che l’obiettivo non sia sem-plice, traspare comunque da questa citazione di Raiffa:

Ricerca operativa, scienza del management, scienza della decisione, analisicosti-benefici, analisi costi-efficacia, pianificazione-programmazione-bilancio(PPBS), allocazione ottimale, decisione e controllo e, infine, analisi dei sistemi.Non voglio impantanarmi nel tentativo di delineare un ordine tra queste eti-chette [Raiffa 1968, 295].

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3.1. Il ruolo dell’economia

Il fatto di iniziare la nostra ricognizione dal contributo dato dal-l’economia è un riconoscimento del ruolo svolto da questa disciplinanel decollo della policy analysis. Questa è infatti la scienza sociale cheprima di ogni altra ha cercato di dare una risposta rigorosa a interro-gativi quali: quando lo Stato può intervenire sostituendosi al mercatonell’allocazione dei beni? In base a quali principi si può ritenere cheuna determinata distribuzione di risorse sia preferibile rispetto a un’al-tra? Esiste un modo per determinare il livello ottimale di redistribuzio-ne tra aree geografiche o gruppi sociali? Quali investimenti lo Statodeve finanziare? E con quale tipo di prelievo fiscale? A quali conse-guenze occorre guardare per formulare un giudizio? Quale arco tem-porale bisogna considerare per valutare i risultati?

L’ARP mutua dall’economia due concetti fondamentali: la scarsitàdelle risorse e la necessità della scelta. In una situazione in cui i mezzinon sono illimitati, si tratti del tempo, del denaro, dei beni ambientali,occorre selezionare le alternative, perché perseguire un obiettivo ingenere preclude la possibilità di raggiungerne un altro:

L’approccio analitico alla scelta è il marchio della professione. L’essenzadella disciplina è mettere a fuoco, e soprattutto quantificare, le dimensionidella scelta: i costi, i benefici e i modi alternativi di perseguire un determinatorisultato [...]. L’economista porta alla luce le opportunità sacrificate con laselezione di un’alternativa; è lui professionalmente qualificato ad applicareintegralmente e inflessibilmente due principi: non si può avere qualcosa perniente, e non si può conservare la torta e intanto mangiarla [Okun 1970, 39]27.

Il problema cui deve dare risposta la razionalità economica è per-tanto il criterio di scelta tra una molteplicità di alternative, ciascunacaratterizzata da specifici costi e specifici benefici, con impatti diffe-renziati sulle diverse categorie che costituiscono una società. Infatti, adifferenza di quel che avviene quando occorre calibrare gli effetti diuna terapia su un malato, le conseguenze negative e positive dellepolitiche pubbliche raramente sono concentrate su uno stesso gruppodi individui. Se per effetto delle decisioni pubbliche alcune persone«vanno a stare meglio», mentre altre «vanno a stare peggio», comevalutare questi risultati e come confrontarli con la situazione origina-ria?

27 La numerazione delle pagine si riferisce alla ristampa in Amacher, Tollison eWillett [1976].

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3.1.1. L’ottimo paretiano

L’economia affronta questa questione muovendo da un concettobasilare, il criterio dell’ottimo paretiano28:

Un cambiamento è definito come paretianamente ottimo se nella transi-zione da una situazione a un’altra 1) ogni individuo del gruppo va a staremeglio, oppure 2) almeno un individuo del gruppo va a stare meglio, e nes-suno va a stare peggio [...]. Se in una situazione risulta impossibile attuare uncambiamento senza che qualche individuo nel gruppo ne abbia un peggiora-mento, la situazione è definita ottima o efficiente in senso paretiano [Bucha-nan e Tullock 1962, 172].

Tale concetto di efficienza ha in sé evidenti implicazioni normati-ve: «Questa regola incorpora giudizi di valore, sia pure molto deboli.Fondamentalmente essa implica che gli individui sono i migliori giudi-ci del loro personale benessere e che non dovrebbero sorgere obiezio-ni alle azioni degli individui che riescono a migliorare il loro benesseresenza danneggiare alcuno» [Amacher, Tollison e Willett 1976, 32]. Ilconcetto di ottimo paretiano si basa infatti sull’individualismo comecriterio etico, perché assegna esclusivamente al singolo il diritto diesprimere preferenze tra le diverse situazioni, per indicare quella in cuisi trova meglio.

Come vedremo tra breve, questo criterio pone una barriera moltorigida alla possibilità di identificare le soluzioni migliori prescindendoda ciò che ne pensano gli interessati, cui è attribuito un totale potere diveto contro tutti i cambiamenti che comportino conseguenze da essigiudicate negative. Se in un’aula trenta studenti muoiono di caldo echiedono di aprire la finestra, ma uno si oppone dicendo di avere fred-do, lo status quo – la finestra chiusa – è paretianamente ottimo. Se peròun colpo di vento apre la finestra, è la nuova situazione a divenire effi-ciente, cioè a non poter essere modificata se non penalizzando alcuni.

È evidente che questo concetto lascia ben poco spazio per unavalutazione economica positiva dell’intervento pubblico. Benché inuno Stato molto inefficiente possano esistere margini per riforme chefacciano stare tutti un po’ meglio, o almeno nessuno peggio, non ap-pena queste opportunità sono esaurite, lo status quo torna a costituireuna barriera insormontabile.

Eppure Pareto non era certo inconsapevole dei paradossi generatidal suo criterio e del fatto che governare significa violare sistematica-mente questo principio, non foss’altro per il fatto di imprigionare gliassassini. Quello che a Pareto preme rimarcare è come questo tipo discelte non possa invocare a sostegno la scienza economica, ma debbacercare la sua giustificazione in altri ambiti di discorso:

28 Dal nome dell’autore che lo ha formulato, Vilfredo Pareto.

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Quando la collettività sta in un punto Q da cui può allontanarsi giovandoa tutti gli individui, procurando a tutti maggiori godimenti, è manifesto che,sotto l’aspetto economico, conviene non fermarsi in tal punto ma seguitare adallontanarsene sinché si giova a tutti. Quando poi si giunge ad un punto Pove ciò più non sia possibile, occorre, per fermarsi o per proseguire, ricorreread altre considerazioni, estranee all’economia, cioè occorre decidere, median-te considerazioni di utilità sociale, etiche, o altre qualsiasi, a quali individuiconviene giovare, sacrificando altri. Sotto l’aspetto esclusivamente economico,giunta che sia la collettività ad un punto P, conviene che si fermi [Pareto1916-1988, vol. IV, 2001].

3.1.2. L’efficienza del mercato

Un tratto di strada ulteriore è stato percorso dall’economia delbenessere29, che si propone come obiettivo la riappropriazione da par-te della scienza economica di un metro di giudizio per valutare la cor-rettezza delle numerosissime scelte che i decisori pubblici sono chia-mati a compiere, e rispetto alle quali il concetto di ottimo paretianosuona come paralizzante e rinunciatario.

I due teoremi fondamentali dell’economia del benessere legano inun intreccio indissolubile il concetto di ottimo paretiano a quello diequilibrio competitivo, cioè all’esito cui pervengono mercati perfetta-mente concorrenziali:

• Primo teorema: ogni equilibrio competitivo è paretianamenteottimo30.

• Secondo teorema: ogni allocazione paretianamente ottima puòessere il risultato di un equilibrio competitivo, una volta assegnata agliattori economici una dotazione iniziale di risorse.

L’intreccio tra ottimo paretiano ed equilibrio competitivo pone lebasi per un ulteriore passo avanti, verso l’analisi delle condizioni chealterano il funzionamento del mercato, allontanando i suoi esiti dall’ef-ficienza. Queste distorsioni , note come «fallimenti del mercato»[Mishan 1972], violano uno o più dei presupposti su cui si regge ilmercato competitivo, nel quale i prezzi rispecchiano i costi marginali,cioè l’aumento dei costi totali che deve essere affrontato per incremen-tare di una unità la produzione. Quando questa situazione non si ve-rifica, quello che il consumatore di un bene paga non è più il costo diproduzione di una sua unità aggiuntiva.

29 Termine coniato dall’economista Arthur Pigou, autore del volume The Econom-ics of Welfare [1912].

30 «Un equilibrio competitivo (di mercato) è paretianamente ottimo: ciòsignifica che un pianificatore sociale benevolo e pienamente informato non potrebberimpiaz- zare l’allocazione competitiva dei beni con un’altra, capace di aumentare ilbenesseredi ogni singolo consumatore» [Tirole 1988, 6].

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3.1.3. I fallimenti del mercato

Esternalità. Un’assunzione chiave del modello competitivo è chegli attori, siano essi consumatori o produttori, interagiscono solo attra-verso il meccanismo del mercato [Helms 1983, 41]. Nelle nostre socie-tà esistono tuttavia numerose situazioni che violano questo principio,perché può accadere che le scelte di un attore economico influenzinoil benessere di altri attori, senza che questi effetti passino attraversouna libera contrattazione di mercato.

Tali conseguenze, positive o negative, prendono il nome di ester-nalità. Sono casi di esternalità positiva le vie rese più sicure la seradalla luce delle vetrine, o l’ombra creata da un grande albero chesporge da un giardino privato. Il classico esempio di esternalità nega-tiva è la fabbrica che inquina, e che quindi costringe i vicini a soppor-tare i costi di un’attività produttiva, senza che questi lo abbiano sceltoall’interno di una transazione economica cui abbiano volontariamenteaderito.

Quando si verificano esternalità, il mercato si rivela incapace digarantire esiti efficienti. Se ascolto un disco perché l’ho comprato, sisuppone che abbia valutato i pro e i contro e il mio acquisto rappre-senti un punto di equilibrio liberamente scelto da me, che ho cedutosoldi in cambio del disco, e dal venditore, che ha fissato il prezzo alquale cedere il disco in cambio di soldi. Se quello stesso disco arrivaalle mie orecchie dalle radio dei giovani clienti del bar sotto casa, lacertezza che l’esito del mercato sia paretianamente ottimo svanisce,perché io non ho titolo per inserirmi nello scambio economico tra ilbarista e i suoi clienti, pur subendone le conseguenze.

In un testo dedicato alle politiche pubbliche, è importante notareche, se la scena si svolge in un piccolo paese, mi resta la possibilitàdi scendere e dire: «Sono disposta a pagare da bere a tutti se d’orain poi tenete le vostre radio più basse», con buone probabilità diraggiungere un equilibrio paretianamente superiore, soprattutto se iragazzi hanno pochi soldi e molta sete. Se lo stesso problema si pre-senta in una grande città, i costi dell’identificazione dei clienti, dellaloro attesa, della negoziazione e della verifica diventano proibitivi,anche se probabilmente ciascuno di loro accetterebbe di rinunciare aqualche decibel per una birra31. Questi costi, noti come costi di tran-sazione, consistono nelle risorse che devono essere impiegate per lavalutazione, la stipula e l’attuazione degli accordi stessi [Williamson1985; North 1990]. Nel caso delle normali transazioni di mercato, ilsistema dei prezzi riduce notevolmente questi costi, abolendo la ne-

31 L’idea che le esternalità cesserebbero di essere un problema se i costi di tran-sazione fossero riducibili a zero è stata formulata dall’economista Ronand Coase[1960] nella teoria che porta il suo nome (v. sesto capitolo).

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cessità di contrattazioni. Ma la loro rilevanza può diventare impor-tante quando gli scambi economici coinvolgono un largo numero diattori e si svolgono in un contesto di incertezza sull’effettivo rispettodegli impegni.

Beni pubblici. La violazione delle condizioni che garantiscono l’ef-ficienza competitiva è ancora più evidente quando sono in gioco benipubblici, cioè beni che sovvertono le clausole alla base dello scambiodi mercato [Samuelson 1954]. Infatti questi beni sono caratterizzati dauna – o da entrambe – queste caratteristiche:

• non rivalità: il fatto che un consumatore goda del bene non neriduce l’ammontare disponibile per altri;

• non escludibilità: l’esclusione di qualcuno dal loro consumo ètecnicamente impossibile o comunque enormemente costosa.

Consumo non rivale è l’osservazione di un’eclissi di sole; consumorivale è la visione di un film in una sala cinematografica.

Consumo non escludibile è l’ascolto delle trasmissioni radiofoni-che; consumo escludibile è un programma della televisione via cavo.

Sono esempi di non escludibilità e non rivalità la luce di un faro,la difesa nazionale.

Conviene notare che queste categorie non fanno riferimento aqualità assolute, intrinsecamente legate a un bene, ma riflettono ungiudizio pragmatico sull’effettiva disponibilità e sul costo delle tecno-logie necessarie a garantire l’esclusione o a imporre la rivalità.

Quando sono in gioco beni di questo tipo, il mercato si rivela in-capace di garantire la loro produzione ottimale. La disponibilità di ariapulita dipende dai costi pagati da milioni di cittadini che controllanola carburazione della loro auto, le emissioni delle loro caldaie o deiloro impianti industriali. In assenza di vincoli normativi, l’individuorazionale ha fondati motivi per non pagare questi costi, cioè per defe-zionare, per comportarsi da free rider [Olson 1965]. Infatti, se vivo inuna società in cui tutti si comportano scrupolosamente, potrò respirarearia pulita anche senza autoimpormi controlli. Se invece vivo in unasocietà di menefreghisti, il mio diligente comportamento non potràcerto migliorare da solo la qualità dell’aria che respiro. Poiché, in as-senza di altre motivazioni, tutti sono portati a fare questo ragionamen-to, i beni pubblici tendono a essere prodotti in misura inferiore aquella che ciascuno individualmente auspicherebbe [Musgrave e Mus-grave 1980]. Come purtroppo possiamo constatare, chi usa le toilettedi una stazione o di un’università tende in genere a trascurare quei cri-teri di pulizia che invece adotta nella sua abitazione, salvo poi lamen-tarsi della spiacevole situazione.

Monopoli. Nei casi in cui esiste un unico venditore di un bene(monopolio) o un unico acquirente (monopsonio), il loro potere dimercato può essere impiegato per influenzare i prezzi a cui avviene lo

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scambio. Pertanto, l’ammontare dei prezzi non rispecchia più i costimarginali, e l’esito che si determina è inefficiente.

In altre parole, quando uno dei due protagonisti dello scambio, ilvenditore o l’acquirente, è costituito da un unico soggetto economico,questi può sfruttare la condizione di vantaggio per estrarre più risorsedi quante potrebbe ricavare in condizioni di concorrenza perfetta. Seho un albergo nell’unico punto da cui si può vedere un incantevolegolfo, posso permettermi un lungo periodo di chiusura, nella sicurezzadi non subire quel calo della clientela che invece rischierei se gli alber-ghi fossero cinque. Se sono il produttore dei sistemi informatici chefanno funzionare il 90% dei computer del mondo, posso imporre alleditte produttrici dell’hardware condizioni vessatorie per l’installazionedel mio software. Se sono l’unica azienda presente sul mercato del la-voro in una data area, posso assumere personale a livelli salariali piùbassi di quelli che avrei dovuto concedere in una situazione caratteriz-zata da numerose opportunità di impiego.

Asimmetrie informative. L’equilibrio competitivo prodotto dalmercato presuppone uno stato di sufficiente informazione circa le con-seguenze dell’interazione, sia da parte di chi vende, sia da parte di chiacquista. Se vado bendata a scegliere una maglietta, non mi aspettocerto di fare l’acquisto migliore. In questo caso, la responsabilità èsolo mia. Esistono tuttavia dei beni, talvolta chiamati «beni-esperien-za», le cui caratteristiche risultano evidenti solo dopo l’acquisto, ancheper il cliente più attento. Quando è in gioco l’acquisto di una lavatriceo di una macchina fotografica, l’affidarsi a prodotti di marca è unmodo per minimizzare il rischio di sorprese.

Esistono tuttavia dei casi in cui le informazioni, più che esserecomplicate, sono asimmetriche, perché uno dei due protagonisti delloscambio possiede dati che l’altro non può procurarsi. Una banca nonconosce esattamente il grado di solvibilità di chi le chiede un mutuo.Il mercato delle assicurazioni sanitarie è caratterizzato dal fatto che chisottoscrive una polizza ha un livello di conoscenza delle proprie con-dizioni di salute che le normali procedure di accertamento non posso-no trasferire interamente all’altra parte contraente [Arrow 1963].Quando si verificano queste situazioni, l’insorgere di sospetti tra assi-curato e assicuratore può portare a esiti paretianamente inefficienti.

Akerlof [1970] ha illustrato questo concetto applicandolo al mer-cato delle auto usate. Ma esistono molti altri settori dalle conseguenzeben più gravi. Il paziente che si rivolge a un medico in un sistema disanità privata non è in grado di verificare se le informazioni che ilprofessionista gli fornisce sul suo proprio stato di salute e sulle terapiepiù adeguate siano effettivamente ciò di cui ha bisogno. Si pensi alladifficoltà di orientarsi nell’offerta di interventi chirurgici ad alto ri-schio, o nella scelta di farmaci dalle conseguenze indesiderate. Certo,nel lungo periodo anche in assenza di regolazione pubblica il cardiolo-

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go dal bisturi facile o il farmaco che promette miracoli sarebberoespulsi dal mercato: ma con costi troppo elevati per chi ha fatto dacavia.

Squilibri distributivi. Esiste poi una serie di situazioni che, pur sen-za rientrare tecnicamente nella categoria dei fallimenti del mercato, haconseguenze distributive tali da suscitare un allarme sociale.

Come è evidente dall’esempio della classe accaldata a p. 108, ilfatto che un equilibrio sia paretianamente ottimo ci dice ben pocosulla ripartizione del disagio tra i protagonisti di un’interazione . Inaltre parole, questa «frontiera del benessere» non ci dice quanti stannomale: ci dice solo che è impossibile far stare meglio qualcuno senza farstare peggio qualcun altro.

In una situazione di mercato, un equilibrio può essere paretiana-mente ottimo, ma comportare un tale squilibrio e una tale concentra-zione del disagio da risultare socialmente inaccettabile. Si pensi allasituazione dei bambini sopravvissuti alla morte di entrambi i genitori,oppure a chi nella lotteria della vita ha in sorte malattie invalidanti.Quando si generano situazioni di caduta del reddito non recuperabilicon un maggiore impegno individuale, se non intervengono reti diprotezione sociale, alcuni potrebbero essere costretti a negoziare lapropria dignità umana e l’integrità fisica per sopravvivere.

3.1.4. La funzione del benessere sociale

In tutti i casi che abbiamo presentato, sono violati alcuni presup-posti del mercato perfettamente concorrenziale e sono generati esitiinefficienti e/o palesemente iniqui. Ma in tutti i casi, le soluzioni com-porterebbero l’assegnazione a gruppi di cittadini di costi o di vincoliche i destinatari potrebbero non gradire: multe per chi inquina, normeantitrust, tasse per finanziare sussidi ai disabili...

Quando si determinano queste condizioni, può la scienza econo-mica convenire su alcuni criteri razionali per proporre correttivi?Come abbiamo visto, la risposta di Pareto è nettamente negativa: nonrispetto all’opportunità dei correttivi, ma rispetto alla loro legittimazio-ne in termini di efficienza economica: «In realtà, non ci sono che leazioni non logiche che in questi casi possono far sì che le classi gover-nate, dimenticando il massimo di utilità individuale, si avvicinino almassimo di utilità della collettività, oppure solamente della classe go-vernante» [Pareto 1916-1988, vol. IV, 2001].

Violare questo limite significa assegnare all’economista il compitodi confrontare tra loro le preferenze individuali, ergendosi a giudicedella loro maggiore o minore bontà [Robbins 1932]. Se esiste un cri-terio di efficienza economica in grado di stabilire che è meglio che lemie mille lire vadano a un fondo per gli orfani anziché nell’acquisto di

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cioccolatini, le stesse esigenze potrebbero essere invocate per proibirela circolazione di un film come Arancia meccanica, che certo non giovaall’educazione dei giovani, o per reprimere preferenze sessuali conside-rate socialmente sconvenienti.

Su questa linea minimalista sono attestati gli studiosi che, in basealla lezione di Pareto, valorizzano il consenso quale requisito fonda-mentale perché possano essere giustificati in termini economici sia lesingole scelte di policy, sia quei provvedimenti che sistematicamenterestringono i margini d’iniziativa dei singoli, quali il prelievo fiscale[Wicksell 1896] o l’approvazione di una costituzione [Buchanan eTullock 1962]. Questa posizione è condivisa dalle teorie accomunatedalla radice «liber»: liberiste, libertarie, liberali.

Per questi approcci, non c’è che un modo per affrontare il proble-ma dell’individuazione delle politiche migliori per una società: prende-re atto del fatto che nelle democrazie questa scelta è affidata all’arenapolitica. Pertanto, compito dell’economista interessato alle decisionicollettive è l’analisi dei concreti meccanismi che governano la selezionedelle alternative, per capirne i punti di forza, ma anche i trucchi, i li-miti, le distorsioni. Solo da questa ricognizione, di cui ci occuperemonel capitolo dedicato alle teorie della scelta pubblica (sesto capitolo),possono derivare proposte prescrittive, comunque basate su un altromodo di ragionare economicamente di politiche pubbliche.

Una direzione diversa è stata invece seguita dagli economisti chehanno lavorato intorno al concetto di benessere sociale [Mishan1972]. Tale parte normativa dell’economia muove dal presupposto chequesta scienza possa fornire elementi di giudizio indispensabili, anchese non esclusivi, per risolvere i problemi allocativi della società; indivi-duare una funzione del benessere sociale equivale infatti a trovare ilcriterio per ordinare le conseguenze di decisioni pubbliche che colpi-scono due o più persone: «Una funzione del benessere sociale rappre-senta il benessere dell’intera società come funzione delle utilità degliindividui, così come la funzione di utilità rappresenta il benessere diun individuo come funzione delle quantità di beni che consuma» [D.Friedman 1999, 6]32.

Ma parlare di benessere sociale rimanda al problema di come sta-bilire un sistema per fondere insieme le utilità individuali in un’unica,globale funzione, da assumere come parametro per giudicare tra duediversi stati della società. Se questo sistema esiste, possono trovarerisposta molte domande cruciali per il decisore pubblico. Ammettiamoche A sia molto ricco e B non abbia di che sfamarsi: quanto si puòtogliere ad A per migliorare le condizioni di B, in modo che la societàche ne risulta sia in una situazione di benessere superiore rispetto alla

32 Versione web: http://www.best.com/~ddfr/Academic/Price_Theory/PThy_Chapter_15/PThy_CHAP_15.html (1998).

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precedente? Lo stesso schema di analisi può essere esteso alla valuta-zione di due proposte di riforma sanitaria, o a due tracciati di una li-nea ferroviaria.

Parlare di benessere sociale significa riprendere il problema del-l’aggregazione delle preferenze individuali là dove lo avevano lasciatole teorie utilitariste del diciannovesimo secolo che, a partire da JeremyBentham, risolvevano il problema semplicemente sommando le utilitàindividuali e procedendo poi a un confronto dei risultati nelle diversesituazioni33.

Questo modo di impostare il problema ha il grande vantaggio del-la semplicità. Nelle intenzioni dei padri fondatori dell’economia delbenessere, questo metodo è anche intrinsecamente democratico, per-ché «non fa sconti a nessuno», in quanto assume che tutti abbiano lastessa capacità di godere dei beni prodotti da una società. Nel con-fronto tra due alternative di policy, risulta quindi economicamentepreferibile quella che garantisce il più elevato beneficio sociale, intesocome la somma dei benefici dei produttori e dei consumatori in tutti imercati di una data società.

Un ulteriore passo avanti verso la concreta utilizzazione di questecategorie nel policy making si verifica con la formulazione del concettodi miglioramento paretiano potenziale e con il ricorso al concetto dicompensazione. Intorno agli anni ’30, alcuni economisti legati allaLondon School of Economics hanno cercato di attenuare il vincolocostituito dal criterio paretiano, ammettendo la possibilità che sianotemporaneamente addossati dei costi ad alcuni membri della società,purché i vantaggi prodotti siano tali da consentire di compensarli peril danno ricevuto. Alla fine del processo, i penalizzati vedrebbero«reintegrato» il loro originario grado di benessere, mentre i beneficiatisi troverebbero comunque a stare meglio di prima, con una promozio-ne del welfare dell’intera società. Questo criterio, noto come principiodi Kaldor e Hicks, i due economisti che per primi l’hanno proposto34,permette di concludere che una politica è giustificata se coloro che netraggono vantaggio sono in grado di compensare coloro che ne sonodanneggiati e i primi continuano, nonostante il pagamento, a stare me-glio di prima.

Se una collettività intende costruire un ponte, probabilmente latassazione colpirà anche chi non utilizzerà mai quella struttura: perqueste persone, la nuova spesa rappresenta un arretramento rispettoallo status quo. La nuova situazione non può quindi essere definitaparetianamente ottima. E tuttavia, se gli utilizzatori del ponte nel giro

33 Come nota Soltan [1987], il concetto di ottimo paretiano è tutto quel che cirimane dell’utilitarismo, una volta abbandonata l’assunzione della comparabilità inter-personale delle utilità.

34 Nicholas Kaldor [1939] e John Hicks [1940].

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di qualche tempo sono in grado di restituire ai penalizzati il loro dena-ro, la realizzazione del ponte ha la potenzialità di trasformarsi in unasituazione paretianamente ottima, dove qualcuno ha guadagnato, enessuno ha perso.

Secondo questo nuovo concetto di efficienza35, una situazione ri-sponde a questo criterio se non si può passare ad un’altra che com-porti per la società un miglioramento, cioè un beneficio netto, cioèuna combinazione di costi sociali e benefici sociali in cui i secondisiano superiori ai primi.

Alla fine di questo tragitto, sta l’intersezione tra la nuova economiadel benessere e l’analisi razionale delle politiche o, più precisamente,l’analisi costi-benefici, che rappresenta «lo strumento per eccellenzadell’economia del benessere applicata. L’ACB (analisi costi-benefici)deve permettere infatti di valutare se una modificazione nell’allocazio-ne delle risorse è efficiente, se produce, cioè, detto in termini più ge-nerali, un aumento del benessere sociale» [Brosio 1986, 331]36.

Si noti che il criterio di Kaldor-Hicks non richiede l’effettivo paga-mento del risarcimento, ma solo l’esistenza di una convenienza ad ac-collarsi questo peso per coloro che traggono vantaggio dalla politicapubblica. Il fatto che la prova teorica possa sostituirsi al concreto ri-sarcimento trova fondamento in una visione pluralista, per la qualesarebbe altamente improbabile che a pagare i costi fossero sempre glistessi individui o gruppi sociali. Se considerate nel loro insieme, lemigliaia di politiche attuate in una società complessa avrebbero pocheprobabilità di discriminare sistematicamente alcuni.

Il concetto di miglioramento paretiano potenziale è stato criticatoin quanto entrambi gli aggettivi promettono più di quanto non possa-no mantenere. L’idea dell’indennizzo è apparsa a molti una scappatoiairrealistica: «Il principio che un cambiamento è positivo se coloro checi guadagnano possono più che compensare coloro che ci perdono, ilprecetto fondamentale della teoria dell’economia del benessere, è unadirettiva del tutto sterile, perché un tale indennizzo non potrà maiessere effettuato in pratica» [Heller 1966, 54 trad. it.].

Anche il richiamo a Pareto sembra garantire l’astensione dal con-fronto delle utilità individuali, come richiede la versione originaria delsuo concetto di efficienza. Eppure l’effettiva adeguatezza del compen-so ai perdenti non è rimessa all’esclusivo giudizio di questi ultimi, maè ricavata dalla constatazione che la politica in questione ha prodottoun surplus sociale [Posner 1983]. Pertanto, il calcolo «oggettivo» del-l’indennizzo può portare a sottostimare grandemente l’importanza sog-gettivamente attribuita a un determinato bene. Tutti noi siamo affezio-

35 Talvolta identificato con il termine di efficienza marshalliana, dal nome del-l’economista inglese Alfred Marshall.

36 La numerazione delle pagine si riferisce all’edizione del 1993.

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nati a cose che non cambieremmo per il loro equivalente monetario:un golf, una poltrona, un gatto.

3.2. Le scienze manageriali

Oltre ai contributi che abbiamo esaminato, importati dalla partenormativa dell’economia, confluiscono nella ARP le indicazioni meto-dologiche di una serie di approcci accomunati dal fatto di ragionarenon sull’efficienza allocativa, ma sull’efficienza tecnica (o produttiva, ostrumentale, o adattiva). Quest’ultima, a differenza della prima, nondeve giustificare in termini scientifici la scelta degli obiettivi finali, masi concentra sulla selezione dei mezzi più adeguati per raggiungerli.Mentre la prima ha come termine di confronto il criterio dell’efficien-za paretiana, pura o potenziale, «l’efficienza adattiva ha come criteriol’incentivazione degli sforzi per esplorare vie alternative per risolvere iproblemi» [North 1990, 81].

All’interno di tale schema di riferimento, il problema della decisio-ne razionale è impostato in questi termini: se voglio ottenere un deter-minato risultato (outcome), di quali variabili devo tenere conto? suquali posso influire? in che modo le devo modificare?

Da queste domande derivano una serie di indicazioni che delinea-no una comune strategia di ricerca, articolata nei seguenti passaggi:

• la netta delimitazione della questione che si intende affrontare,per isolare con precisione gli obiettivi che si vogliono perseguire;

• la costruzione di un modello che dia una corretta rappresenta-zione del sistema su cui si vuole intervenire, con l’individuazione dellevariabili più significative e delle relazioni che le connettono;

• la verifica del tipo e del volume di risorse disponibili;• il ricorso alle tecniche di ottimizzazione per selezionare le scelte

più adeguate, in modo da avere i migliori risultati con il minor dispen-dio di risorse.

Esaminiamo ora questi approcci più da vicino.

3.2.1. Ricerca operativa

L’operation research deve al contesto storico in cui è nata la scarsaenfasi sul problema della selezione dei fini. La sua origine è infatti le-gata alle operazioni militari condotte durante la seconda guerra mon-diale, quando l’obiettivo della vittoria sul nemico poteva essere datoper scontato e condiviso. In Gran Bretagna, unità operative composteda matematici, statistici, fisici, svilupparono un tipo di analisi, chiama-ta Operational Analysis37, per la dislocazione più razionale delle posta-

37 Gli americani preferiscono invece la denominazione Operation Analysis.

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zioni militari38. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti erano messi apunto schemi analoghi per tracciare le rotte delle navi da guerra chesolcavano l’oceano [deLeon 1988, 57].

Dopo la fine del conflitto, questa impostazione è proseguita con losviluppo delle tecniche di ottimizzazione e di programmazione linearepromosse in gran parte dalla RAND Corporation, in collaborazione conle forze armate. Attualmente la ricerca operativa si occupa di temimeno drammatici, ma di grande rilevanza per le organizzazioni, qualil’ottimizzazione del tempo, per predire e ridurre pause e tempi morti,o la risoluzione dei problemi di precedenza che si generano nelle code.

3.2.2. Analisi dei sistemi

L’analisi dei sistemi è l’applicazione della teoria dei sistemi ai pro-cessi decisionali.

La teoria dei sistemi è lo studio dell’organizzazione e dell’evoluzio-ne di entità complesse mediante il ricorso a modelli, in genere svilup-pabili in termini matematici39. Anche la sua origine risale agli anni ’40,quando il biologo Ludwig von Bertalanffy [1968] avviò una nuova ri-flessione sugli organismi complessi e sul loro interscambio con l’am-biente, ponendosi due obiettivi:

• reagire alle logiche riduzionistiche di impronta positivistica chetendevano a scindere lo studio degli organismi e delle organizzazioninelle loro singole componenti, isolate le une dalle altre: l’apparato lo-comotore, l’apparato digerente... oppure l’economia, la religione...L’approccio olistico sottolinea invece la necessità di considerare le in-terazioni tra le singole parti di un organismo o di un’organizzazione,sulla base della convinzione che in questi casi l’intero è più della som-ma delle parti [Laszlo 1972];

• ricondurre lo studio dei fenomeni complessi a un unico approc-cio, valido qualunque sia l’oggetto osservato – un’azienda, una cellula,un organismo vivente, la borsa – in modo da contrastare la tendenzaall’estrema specializzazione con un approccio basato sull’unitarietà o,almeno, la integrabilità delle scienze.

Benché l’analisi dei sistemi possa servire per descrivere anche siste-mi meccanici, tuttavia il suo contributo più importante è nello studiodi organismi complessi, capaci di adattamento e di autoregolazione,

38 «Come diretta conseguenza di questo primo impiego della ricerca operativa, laGran Bretagna si dotò di venti postazioni radar capaci di intercettare gli aeroplaninemici, e le installò nei luoghi e nei tempi giusti per la battaglia d’Inghilterra» [Rosen1987, 14].

39 F. Heylighen e C. Joslyn [1992], What is System Theory?, in F. Heylighen, C.Joslyn e V. Turchin (a cura di): Principia Cybernetica Web (Principia Cybernetica,Brussels), URL: http://pespmc1.vub.ac.be/SYSTHEOR.html (giugno 2001).

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sicché oggi questo approccio presenta un’ampia sovrapposizione conla cibernetica [Ashby 1956].

In questo progetto, un’importanza fondamentale ha la definizionedi sistema aperto, la cui principale caratteristica è l’incapacità di so-pravvivere senza un continuo processo di adattamento a un ambien-te in continua evoluzione. Questo interscambio è descritto in terminidi input – ciò che arriva all’organismo dall’ambiente – e di output –ciò che l’organismo cede all’ambiente, dopo un processo di trasfor-mazione.

Nell’analisi delle politiche pubbliche, il concetto di sistema permet-te di ricondurre a unità processi che altrimenti rimarrebbero dispersi inun informe susseguirsi di eventi e di informazioni. Grazie a questoponte, la confusione cessa di essere soltanto fonte di frustrazione, epuò aspirare ad essere trattata come una manifestazione di complessità:

Fondamentale per un approccio alla policy analysis in termini di scienzadel management è la nozione di sistema. Sono considerati rilevanti i fenomeniche permettono di scorgere un’organizzazione. Di essi sono identificate carat-teristiche, proprietà e quantità. Sono indagate le loro relazioni e sono operatele opportune aggregazioni. I confini sono esplicitamente considerati. Le sem-plificazioni sono introdotte consapevolmente. Sono postulati degli obiettivi esono esaminati i criteri per valutare le prestazioni. Solo all’interno di questeprocedure metodologiche i risultati e le prestazioni sono considerati comecaratteristiche suscettibili di miglioramento [White 1983b, 13; v. anche Qua-de e Boucher 1968]40.

Forse il contributo più rilevante delle scienze manageriali all’analisi dellepolitiche è la loro inclinazione verso un approccio sistemico ai problemi, cheillumina la complessità delle interazioni tra un ampio numero di condizionied eventi, e che sottolinea l’impossibilità del giudizio circa la desiderabilità diun singolo intervento senza un esame delle sue ramificazioni sul funziona-mento dell’intero sistema [McCall e Weber 1983, 205].

Il fatto che per questa via trovino una possibilità di controllo ana-litico alcuni dei tratti più opachi del policy making spiega perché, agliocchi di molti, la system analysis sia considerata un sinonimo della pol-icy analysis [Majone e Quade 1980, 5]41.

Il modo in cui l’analisi dei sistemi opera questo «riscatto dell’infor-me» prevede innanzi tutto la scomposizione di un problema comples-

40 Il significato originale del termine systems analysis fa invece riferimento al con-fronto tra sistemi: in origine, suo oggetto era la scelta tra sistemi di armamento alter-nativi [Marcon 1978].

41 Negli anni ’50, l’estensione di questo approccio all’analisi delle politiche pub-bliche era agevolata dal fatto che all’interno della scienza politica era il paradigma si-stemico a fornire la più organica teoria sul funzionamento delle istituzioni [Easton1953; Eulau 1978].

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so nelle sue parti elementari: «L’analisi razionale è l’applicazione dellarazionalità analitica a un particolare problema di policy; essa implica ladisintegrazione di un problema complesso nei suoi elementi più sem-plici» [Carley 1980, 1].

Procede poi con la costruzione di modelli capaci di fornire unamappa il più completa possibile delle relazioni tra le variabili che in-fluiscono sul funzionamento del sistema e sulla sua capacità di produr-re i risultati voluti. Infine, verifica l’effettiva capacità predittiva delmodello con una serie di simulazioni, oggi generalmente assistite dalcomputer42.

3.2.3. «Public management»

Questo settore di ricerca nasce invece da una più precisa consape-volezza delle specifiche caratteristiche di quel peculiare sistema che èl’amministrazione pubblica43. Questa tradizione americana inizia nel1937, quando Gulick e Urwick pubblicano un volume, Papers on theScience of Administration, in cui compare per la prima volta l’acroni-mo POSDCORB (Planning, Organizing, Staffing, Directing, Coordinating,Reporting, Budgeting), divenuto sinonimo dello scientific managementapplicato all’amministrazione . Le linee guida di questo approcciosono: unità di comando, attraverso una precisa piramide gerarchicache culmina nel vertice dell’amministrazione; delega di responsabilità,purché circoscritte; corto raggio di controllo, con un rapporto intornoa 1/6 tra controllori e controllati.

A partire dai lavori della commissione presieduta da Herbert Hoo-ver [1949], si è verificato uno stretto intreccio tra evoluzione teorica econcreti progetti di riforma. Fino alla svolta degli anni ’80 e al newpublic management, negli Stati Uniti, come in altri paesi, l’attenzione siconcentra sulle tre fondamentali risorse che alimentano la macchinaamministrativa:

• le risorse finanziarie;• l’organizzazione;• le risorse umane.

42 Per un esempio di queste procedure v. la pagina web curata dalla School ofBusiness Administration dell’Università di St. Louis: http://www.umsl.edu/~sauter/analysis/analysis_links.html (agosto 2001).

43 Nel lettore italiano può suscitare stupore la collocazione della scienza dell’am-ministrazione in un contesto analitico più vicino all’economia che al diritto. E può ri-sultare incomprensibile una frase come questa di Simon: «La maggior parte delle tec-niche formali che costituiscono la spina dorsale tecnica della scienza dell’amministra-zione e della ricerca operativa sono procedure per trovare la migliore di un insieme dialternative in termini di qualche criterio» [Simon 1972, 273 trad. it.].

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Le risorse finanziarie: il bilancio in base alle attività. Se il problemaè ricondurre l’impiego delle risorse finanziarie agli obiettivi che un’or-ganizzazione si dà, la soluzione è creare punti di intersezione tra unmodo di lavorare per progetti e il processo allocativo più importantedel settore pubblico, il processo di bilancio.

Le più sistematiche applicazioni di questo approccio sono identifi-cate con termini quali Planning, Programming, Budgeting System(PPBS), Zero-Based Budgeting (ZBB), Budgeting by Level of Activity(BLA).

Tratto comune a queste tecniche è la valorizzazione del bilanciocome strumento per introdurre la valutazione delle varie attività delleamministrazioni pubbliche. L’idea guida è non dare niente per sconta-to nella distribuzione del denaro pubblico, sì da costringere ogni unitàorganizzativa a interrogarsi sugli obiettivi della sua attività, sul lorogrado di realizzazione, sugli effettivi requisiti per il loro perseguimento[Enthoven e Smith 1972]44.

Negli Stati Uniti, questo tipo di tecniche ha conosciuto la massimadiffusione negli anni ’60 con l’introduzione del PPBS, dapprima speri-mentato al dipartimento della Difesa e poi, dal 1965, esteso a diversisettori dell’amministrazione. Nelle intenzioni dei proponenti, il proces-so di formazione del bilancio avrebbe dovuto coincidere con un’allo-cazione più efficiente dei fondi pubblici tra i vari uffici, sulla base diun’analisi costi-benefici dei diversi programmi, in competizione per ifinanziamenti [Backoff e Mitnick 1986]. Come vedremo tra breve, ilprogetto non diede i risultati attesi, e il suo fallimento suscitò un radi-cale ripensamento circa l’effettiva carica innovativa di queste tecniche[Wildavsky 1969].

L’orientamento ai risultati. Negli anni ’70, l’attenzione degli studio-si di management pubblico si sposta decisamente dal momento dellescelte di bilancio a quello della trasformazione delle risorse in beni eservizi. Il problema viene quindi riformulato in questi termini: qualicaratteristiche deve avere il buon prodotto in un dato settore dell’am-ministrazione? Quali forme di monitoraggio sono necessarie per garan-tire la sua realizzazione?

Sulla scorta del pionieristico lavoro di Drucker del 1954, il Man-agement by Objectives (MBO) si propone di forzare un’organizzazione adefinire la sua missione, specificare i suoi obiettivi, individuare le prio-rità. Questo processo è l’occasione per esplicitare le diversità di veduteinterne e formare il consenso intorno a strategie condivise. Pertanto, adifferenza del PPBS, l’MBO valorizza il decentramento e le valutazioni dicoloro che sono direttamente impiegati nella produzione di servizi.

Nei paesi europei, è invece il controllo di gestione la metodologia

44 Il loro libro è significativamente intitolato How Much is Enough.

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più diffusa per indurre un’amministrazione a confrontarsi con suoiobiettivi:

Il controllo di gestione nelle amministrazioni pubbliche può essere defi-nito come quello strumento che consente agli amministratori e ai funzionaridi conoscere i risultati dell’azione amministrativa al fine di riprogettare edeventualmente modificare gli interventi, per renderli più adeguati alle esigen-ze e alle domande provenienti dai cittadini [Matteucci 1991, 29].

La valutazione delle prestazioni lavorative. Questa terza linea di in-tervento mira a introdurre nella gestione del personale criteri di valu-tazione e di remunerazione delle attività lavorative, finalizzati a pro-muovere la loro cooperazione per il conseguimento degli obiettivi cheuna struttura amministrativa si pone. Rientrano in questo repertorio letecniche per la rilevazione della distribuzione dei carichi di lavoro, ladeterminazione di standard per le prestazioni dei dipendenti, l’indivi-duazione degli incentivi per promuovere la loro produttività.

I tentativi di trapianto del concetto di produttività dal settore pri-vato a quello pubblico si scontrano con una serie di difficoltà [Bus-chor e Schedler 1993]. Alcune sono legate al problema di identificarel’output, cioè le caratteristiche del prodotto cui fare riferimento: èchiaro che i livelli di competenza linguistica degli studenti di unascuola, o la puntualità dei tram non sono solo funzione dell’impegnodegli insegnanti o dei tranvieri. Inoltre, la struttura degli incentivi deveconciliare due esigenze che possono anche divergere: da un lato, lapromozione della cooperazione e dell’identificazione con gli obiettividell’organizzazione; dall’altra, la necessità della separazione e del pre-mio delle responsabilità individuali o di piccolo gruppo. Se queste ten-sioni non sono risolte, gli incentivi tendono a diffondere comporta-menti attenti alla massimizzazione dell’output del proprio specificosettore, trascurando quell’insieme di prestazioni indispensabili pergarantire il coordinamento con le altre unità organizzative.

Il «new public management» . In molti paesi, sull’esempio dellaGran Bretagna [Rhodes 1995], dall’inizio degli anni ’80 le risorse ana-litiche per infondere efficienza nelle scelte pubbliche non sono fornitedall’analisi razionale delle politiche, bensì da un modo di ripensare lefunzioni e l’organizzazione dell’amministrazione che viene spesso iden-tificato con il termine new public management.

Le linee guida di questo approccio, che non è solo una tecnologia,ma un movimento con implicazioni politiche ed etiche, possono essereriassunte in questi termini.

1. Un netto orientamento verso i cittadini. La tradizionale difficoltàcontro cui si scontra il public management è la definizione e il control-lo dell’output di un’amministrazione. La nuova filosofia amministrati-va, affermatasi all’inizio degli anni ’80, supera questo problema graziea un forte orientamento al consumatore. Il problema dell’efficienza

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viene quindi ridefinito come attribuzione di diritti agli utenti, perchépossano far pesare direttamente la loro valutazione sul prodotto delleamministrazioni.

Le linee guida del «governo alla luce del sole» [Light 1995, 35]sono:

• la contrattualizzazione del rapporto con gli utenti, che diventanopertanto clienti e sono investiti del diritto di scelta, ad esempio conl’attribuzione di vouchers, da spendere per acquisire un servizio dallastruttura che preferiscono, pubblica o privata che sia;

• la pubblicazione di carte dei servizi, che fissano i diritti degliutenti, individuano standard dettagliati sulle modalità delle prestazioni,indicano gli strumenti per monitorare la soddisfazione dei clienti.

2. La produzione di qualcosa che vale. Le amministrazioni impren-ditoriali accettano la competizione sia all’interno del settore pubblico,sia rispetto alle aziende private che operano nel loro stesso campo,dalla sanità all’istruzione, dai trasporti alla previdenza.

L’idea che chi paga, almeno in quanto contribuente, abbia dirittoa ricevere il miglior servizio possibile è in netta sintonia con lo spiritodel Total Quality Management [Peters e Waterman 1982], un approc-cio ai problemi gestionali divenuto popolare negli anni ’80 e basato sulconcetto che l’organizzazione interna debba assumere come parametrola qualità del prodotto finale. Tecnica d’elezione di questa impostazio-ne è il benchmarking, che richiede l’individuazione dei più alti stan-dard esistenti e dei casi migliori, nel proprio settore o in altri contigui,per imparare e trasferire l’esempio nel proprio contesto organizzativo.

3.3. L’analisi delle decisioni

L’analisi delle decisioni si distacca dalle management sciences e dalnucleo originario dell’economia del benessere per una più acuta consa-pevolezza della natura soggettiva degli elementi che stanno alla basedelle scelte, siano queste pubbliche o private [Raiffa 1968, 295]. Questoaspetto è molto importante, perché consente all’analisi delle decisioni difare confronti tra esiti che hanno aspetti positivi e aspetti negativi, affi-dandosi esplicitamente alla valutazione che di essi fanno gli attori. Sequesti sono in grado di delineare una mappa delle evenienze possibili,di associare ad esse le loro valutazioni e di attribuire ad esse delle pro-babilità, allora sono in grado di calcolare i benefici netti attesi. E datoche la decisione è essenzialmente un’allocazione di risorse, gli attori aquesto punto sono in grado di prendere una decisione razionale.

L’analisi delle decisioni basa la sua capacità di aderire alle valuta-zioni soggettive su un’acuta riflessione circa il fattore tempo nei pro-cessi decisionali. In altre parole, questo approccio insegna a trattare ilfuturo. E lo fa con un duplice contributo. Il primo ha a che vederecon la nostra capacità di scommettere su eventi che ancora non si

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sono verificati; il secondo, con la nostra capacità di rapportare all’oggiil loro valore.

3.3.1. La scommessa sugli eventi futuri

L’analisi delle decisioni muove da una distinzione fra tre tipi divalutazioni circa il futuro:

• la condizione di certezza, caratterizzata dal fatto che al ricorreredi determinate condizioni possiamo collegare con sicurezza il verificar-si di determinati eventi. Se apro la diga di un bacino, so per certo cheprovocherò un riversamento di acqua a valle;

• la condizione di rischio, nella quale si conosce la probabilità cheun evento si verifichi, in base a stime con parametri oggettivi, ma nonsi sa come e quando esso accadrà. Come è noto, le carte sismiche di-vidono un territorio in base alla probabilità che nelle diverse aree siverifichi un terremoto, tenendo conto di dati oggettivi sulla conforma-zione del sottosuolo;

• la condizione di incertezza, in cui la probabilità di determinatieventi non può essere stabilita con criteri oggettivi, perché non esisteconsenso sui fattori scatenanti o sulla probabilità con cui essi possonoconcretizzarsi. La tenuta nel tempo del nostro sistema previdenziale alegislazione invariata dipende in larga misura da dinamiche molto dif-ficili da prevedere, quali l’andamento del tasso di natalità, del tasso diimmigrazione, del tasso di crescita economica.

Come sottolinea Raiffa [1968, 278], la distinzione tra le ultime duecondizioni ricalca due diversi modi di considerare la statistica, intesain senso lato come riflessione su quali conclusioni trarre dai dati cheabbiamo: uno orientato all’inferenza, che è alla base della conoscenzascientifica, e uno orientato alla decisione. In questo secondo caso, l’in-ferenza statistica tende a essere di tipo bayesiano45, cioè rinuncia acercare un fondamento in proprietà oggettive – fisiche o logiche –degli eventi, per limitarsi a una valutazione soggettiva, a un creditoconcesso ai mondi possibili dall’osservatore, che in questo modo rivelala sua visione di una realtà di cui non ha esperienza diretta46.

L’analisi delle decisioni associa a questa definizione soggettiva diprobabilità il concetto – anch’esso dichiaratamente soggettivo – diutilità attesa (o di costo, di perdita, di guadagno, di vantaggio) [Sto-kely e Zeckhauser 1978]. La procedura comporta l’individuazionedelle alternative possibili, l’attribuzione a ciascuna di un valore, stabi-

45 Da Bayes, studioso che nel 1763 intuì questa differenza.46 «Le visioni soggettive ritengono che la probabilità misuri il grado di credenza

come risulta da una scommessa o un comportamento, e che non ci sia niente di “ne-cessario” quando sono in gioco le credenze. E tuttavia naturalmente si richiede coe-renza e consistenza nelle credenze soggettive» [Raiffa 1968, 284].

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lito dal decisore sulla base dei suoi interessi (il guadagno economico,ma anche la perdita di peso in una dieta, o il grado di divertimentoper una serata...), l’assegnazione a ciascuna di una probabilità. Molti-plicando il valore per la probabilità, ottengo un ordine delle alternati-ve basato sul loro valore atteso.

3.3.2. La riduzione all’oggi del valore degli eventi futuri

Non occorre essere acuti osservatori per notare che il valore di unbene immediatamente fruibile non è lo stesso di uno la cui disponibi-lità è rinviata nel tempo. Pochi prestano un milione oggi in cambio diun milione tra cinque anni. Nei saldi di fine stagione, per convincermia comprare un cappotto che non indosserò se non tra molti mesi, de-vono propormi una consistente riduzione del prezzo. Il criterio inversosi applica ai costi, perché è molto meglio pagare un milione tra unanno che oggi stesso.

Il concetto economico di valore attuale permette di ricondurre adun’unica unità di misura conseguenze che si verificano in tempi diver-si. In altre parole, ci dice a quante uova oggi corrispondono dieci uovadomani, o venti dopodomani.

Naturalmente l’impazienza e gli atteggiamenti individuali possonoindurre a dare risposte molto diverse a questa trasformazione dei valo-ri futuri in valori attuali [Thompson e Green 1998]. Su una spiaggia,un ombrellone affittabile di mese in mese ha un valore diverso a se-conda della durata residua della vacanza delle diverse famiglie.

Quando gli effetti di una decisione sono ampi, protratti e riducibilia grandezze economiche, l’applicazione del fattore di sconto serve astabilire con buona approssimazione il loro valore attuale netto.

3.3.3. L’albero decisionale

Lo strumento analitico più potente per l’analisi delle decisioniprende il nome di albero decisionale. La procedura per la sua costru-zione si articola in quattro fasi:

• Stadio n. 1: una situazione problematica è descritta in termini dialternative effettivamente percorribili. In altre parole, all’origine c’è undubbio sul che fare: pertanto occorre individuare le concrete possibi-lità di azione che sono in un rapporto di incompatibilità, perché nonattuabili simultaneamente. Come è ovvio, perché l’albero possa comin-ciare a mettere rami, occorre che esistano almeno due alternative inrapporto di mutua esclusione.

• Stadio n. 2: le conseguenze delle diverse alternative sono valuta-te quantificando le utilità associate a ciascuna delle evenienze che sipossono verificare. Nel caso di conseguenze protratte nel tempo, si

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 127

Una volta individuato un tasso di sconto di riferimento – cioè la pe-nalizzazione inflitta dal mercato ai valori monetari futuri per rapportarli alvalore presente – il fattore di sconto (FS) può essere calcolato in questomodo:

FS = 1/(1 + r)n

dove r è il tasso di sconto, e n è il numero degli anni che occorre attende-re perché si verifichino i costi o i benefici.

Il valore attuale (VA) della serie dei pagamenti (o dei ricavi) riferiti aivari anni (S0 per l’anno in corso, S1 per il primo anno, S2 per il secondoanno, S3 per il terzo anno...) potrà essere calcolato con la seguente formula:

S1 S2VA = S0 + + +S3

(1 + r) (1 + r)2 (1 + r)3

L’indicazione fornita dal manuale della Commissione delle Comunità eu-ropee per i grandi progetti fornisce una facile esemplificazione di questaprocedura:

1 ECU investito a un tasso di sconto annuale del 5%dopo un anno arriva a 1 + 5% = 1,05dopo due anni, arriva a (1,05) X (1,05) = 1,1025dopo tre anni, arriva a (1,05) X (1,05) X (1,05) = 1,157625Pertanto, il valore economico attualizzato di un ECU che viene speso

o guadagnato:un anno più tardi, è di 1/1,05 = 0,952381due anni più tardi, è 1/1,1025 = 0,907029tre anni più tardi, è 1/1,157625 = 0,863838Se un progetto costa 2.000 ECU all’anno, da ora e per i prossimi tre

anni, il suo costo attuale è pari a

2.000 + (2.000 X 0,952381) + (2.000 X 0,907029) + (2.000 X 0,863838) =6279,589783092784248

procede alla scelta del tasso di sconto e alla trasformazione dei valorifuturi in valori attuali.

• Stadio n. 3: sono assegnate le probabilità alle evenienze riportatesui rami dell’albero, in modo che la somma delle probabilità sia ugualea 1 (100%).

• Stadio n. 4: si moltiplicano i valori attuali associati a ciascunaevenienza per la probabilità ad essa attribuita. L’ordine risultante de-termina la scelta migliore [Raiffa 1968, 239].

Un esempio pratico molto semplice [Heineman et al. 1990, 49]può illustrare lo schema. Ammettiamo che io debba acquistare un’au-tomobile, e che debba decidere se comperarla nuova o usata.

La costruzione dell’albero inizia dal nodo della decisione, da cui si

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128 CAPITOLO 3

BIDONE (0,5) $ 1.000

AUTO USATA

BUONA (0,5) $ 200

BIDONE (0,1) $ 800

AUTO NUOVA

BUONA (0,9) $ 400

Decisione che deve essere analizzata

Punto di conseguenza

() Probabilità delle conseguenze

$ Valore attuale dei costi

FIGURA 3.1. Albero della decisione.

Fonte: Heineman et al. [1990, 50].

dipartono le alternative che ho davanti a me. Per ciascuna di esse,devo individuare i rami degli eventi possibili, e precisare il loro esito,in termini di costi o di benefici, per un determinato lasso di tempo. Inquesto caso, per semplificare il ragionamento, posso supporre chenelle due evenienze gli aspetti positivi siano sostanzialmente equivalen-ti, perché auto vecchie o nuove fanno comunque il loro lavoro, e pos-so quindi concentrarmi su quelli negativi, cioè sui costi, rapportati adesempio al mese. Fatto questo, devo assegnare a ogni esito la probabi-lità che mi sembra più plausibile.

A questo punto, dispongo di tutti gli elementi per tirare le somme.Innanzi tutto, moltiplicando le probabilità per il valore monetario at-tribuito ai diversi esiti, avrò un quadro dei payoff per ciascuna combi-nazione considerata. Per decidere, dovrò confrontare il valore moneta-rio atteso delle due alternative che ho davanti:

Nel caso dell’auto usata, questo è pari a 0,5(1.000) + 0,5(200) = 600.Nel caso dell’auto nuova, questo è pari a 0,1(800) + 0,9(400) = 440.Dato che stiamo parlando di costi, e dato che i benefici nei due

casi possono essere considerati equivalenti, la decisione migliore – datequeste valutazioni – è acquistare un’auto nuova, che promette di offri- remaggiori vantaggi47 (fig. 3.1).

Prima di chiudere questo paragrafo, è bene sottolineare che il con-cetto di buona decisione non implica un buon risultato, e viceversa:

47 I problemi di scelta spesso hanno una complessità che richiede la costruzionedi alberi con molti rami e molte biforcazioni. E tuttavia alcuni «trucchi» consentonodi passare da rappresentazioni in forma estesa a rappresentazioni più sintetiche, in for-ma normale, senza perdere i tratti essenziali delle alternative effettivamente in gioco.

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 129

quando diciamo «ti è andata bene» al bambino che traversa la stradacon il rosso, rimarchiamo il fatto che ha fatto una scelta sbagliata,anche se il risultato è stato buono.

3.4. «Problem solving» e Intelligenza Artificiale

Prima di chiudere questa rassegna sui debiti dell’ARP nei confrontidi altri paradigmi, occorre fare riferimento a un approccio che, per laverità, condivide solo alcuni degli assunti delle teorie deduttive, sicchéla sua collocazione in questo contesto può apparire forzata. Intendia-mo parlare dell’analisi dei processi decisionali in termini di problemsolving, un’impostazione che fa ruotare la ricerca intorno a una do-manda fondamentale: se ho un problema, come posso identificare laprocedura giusta per risolverlo? «In termini molto semplici, il problemsolving comporta l’individuazione di un percorso da uno stato inizialea uno stato auspicato, usando una qualunque forma di ricerca» [Gu-venir e Akmar 1992].

Da un certo punto di vista, questo approccio, che ha in Simon,Cyert e March alcuni dei più noti esponenti, segna una netta rotturarispetto alle tradizionali teorie deduttive di derivazione economica.

Innanzi tutto, per questi autori sono i problemi o, meglio, il modoin cui sono pensati e comunicati a condizionare l’intero processo deci-sionale, compresa la definizione delle alternative e la rassegna dellerisorse a disposizione.

Inoltre, a fare da molla all’elaborazione di una strategia di problemsolving non è necessariamente una situazione di scarsità, ma, più ingenerale, l’aspirazione a passare da uno stato giudicato insoddisfacentea uno più consono alla rappresentazione del mondo dell’attore [Cyerte Welsch 1970]. Anche l’idea che la quantificazione delle variabilipossa consentire una qualche presa diretta sul reale è sostituita dalconcetto che l’elaborazione delle informazioni è comunque un proces-so che coinvolge simboli. Il presupposto delle illimitate capacità com-putazionali dei soggetti, che di fatto fa da sfondo alle teorie deduttivedi derivazione economica, è denunciato come irrealistico, visto che talipotenzialità sono invece limitate e utilizzate con parsimonia [Ernst eNewell 1969; Simon 1982].

Infine, l’obiettivo della massimizzazione dell’utilità o dell’ottimizza-zione dell’impiego delle risorse appare megalomane rispetto a un’evi-denza quotidiana fatta di ricerche euristiche48 che si arrestano al con-seguimento del primo risultato soddisfacente:

48 James March definisce l’euristica come un modo di procedere «a spanne» percalcolare certi tipi di grandezze o per risolvere certi tipi di problemi [1994, 13].

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Il decisore può scegliere fra decisioni ottimali per un mondo immaginariosemplificato, e decisioni che siano «abbastanza buone», che «soddisfino», perun mondo che si avvicina maggiormente a quello reale, complesso. La tecnicadella ricerca euristica avanza richieste riguardanti la struttura del problemache sono molto più deboli di quelle avanzate dalla programmazione lineare odalle regole decisionali lineari, ma di solito può trovare soltanto soluzionisoddisfacenti, e non quella ottimale [Simon 1981, 345 trad. it.].

Come si vede, sulla base di queste premesse è possibile una com-pleta fuoriuscita dai paradigmi delle teorie razionali. Infatti torneremoa occuparci di questa impostazione nel prossimo capitolo.

Tuttavia essa ammette anche una lettura che per alcuni tratti si av-vicina al tradizionale approccio deduttivo di derivazione economica49.Intendiamo riferirci alla possibilità di descrivere i processi di soluzionedei problemi che ricadono entro uno stesso dominio sulla base di pro-cedure qualitativamente non diverse dal programma di un computer[Newell, Shaw e Simon 1959]. Come è noto, lo stesso Simon ha valoriz-zato ampiamente questo aspetto, dando un contributo fondamentale aquel campo di ricerca denominato Intelligenza Artificiale: «La gammadelle cose che un essere umano considera quando prende una decisionenon è enorme [...]. Non c’è ragione perché, pur con le attuali attrezza-ture informatiche, non dobbiamo aspirare a scrivere programmi chesimulano il processo decisionale di un elettore, di un parlamentare, o diun amministratore» [Simon 1966, 23]50. Per il programma di Intelligen-za Artificiale, non c’è contraddizione tra flessibilità e limitatezza degliorizzonti cognitivi da un lato e, dall’altro, programmabilità sulla base diprecisi algoritmi: «Quando cerchiamo di spiegare il comportamento deirisolutori dei problemi, siano esseri umani o computer [...], scopriamoche la loro flessibilità – cioè la loro programmabilità – è la chiave percomprenderli» [Newell e Simon 1972, 870].

Alla base di questa impostazione sta il principio di ripetibilità e ilsuo legame con il concetto di razionalità tecnica: «Tutte le norme dellarazionalità tecnica sono in fin dei conti governate dal principio del-l’esatta ripetibilità: è ammesso e riconosciuto come vero e reale solociò che può essere esattamente ripetuto quanto si vuole attraverso pro-cessi meccanici» [Redner 1982, cit. in Cook 1994].

In questo contesto, una strategia è una specie di libretto delle

49 Il rapporto di Simon con la razionalità economica è al centro di contrastantivalutazioni [Filippi 1985; Rizzello 1997] e di roventi polemiche accademiche, soprat-tutto dopo che gli è stato attribuito il premio Nobel per l’economia [Lowi 1993].

50 «Nella classica metodologia dell’Intelligenza Artificiale, un comportamento in-telligente da parte di un agente deriva dall’esecuzione di un piano interno, cioè di unaspecie di ricetta che guida passo dopo passo le azioni che l’individuo deve compiere.Questa ricetta è impostata dal programmatore sulla base di principi elementari deri-vanti dalla sua conoscenza delle capacità dell’agente e su un modello del mondo in cuil’agente opera» [Beer 1990, 163].

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 131

istruzioni capace di scomporre un problema complesso nelle sue partielementari, di definire le alternative possibili e le procedure per cavar-sela in modo soddisfacente: «Una strategia per risolvere un problemaè una soluzione generale per quel problema, cioè una soluzione pertutti i possibili stati iniziali» [Guvenir e Akmar 1992, 267].

Negli ultimi anni, il software per l’applicazione di questa imposta-zione alle decisioni umane è divenuto molto sofisticato, soprattutto neisettori delle diagnosi mediche51, della selezione del personale, dell’or-ganizzazione delle strategie processuali per gli studi legali.

Se applicato a quel particolare dominio costituito dai problemi dipolicy, questo programma ha diversi punti in comune con la ARP, cheaspira a stabilire procedure per dare una soluzione a svariate situazioniconsiderate insoddisfacenti a livello collettivo.

4. Linee di ricerca

Le teorie finora presentate non sono state pensate per le politichepubbliche. I loro campi applicativi d’elezione sono altri: progetti, am-ministrazioni, decisioni, programmi. Come abbiamo visto nel primocapitolo, tutti questi modi di classificare l’attività umana finalizzatapresentano qualche parziale sovrapposizione con il concetto di politicapubblica. Nessuno, però, coincide pienamente con questa prospettiva.L’opera di integrazione di questi diversi contributi in una nuova, unicadisciplina è oggi più facile, almeno in teoria, rispetto a qualche decen-nio fa. Oggi la teoria dei sistemi è decisamente orientata allo studiodei sistemi complessi, dinamici, densi di interazioni simultanee e capa-ci di apprendimento. La teoria delle decisioni ammette la compresenzadi obiettivi tra loro contraddittori e concede spazi all’indeterminatezza.La stessa economia si mostra interessata all’applicazione di logichefuzzy, in cui alla classica alternativa vero/falso è sostituita una gamma dipossibilità più ampia e meno definita52.

E tuttavia, rispetto alle tradizioni di ricerca che l’hanno ispirata, larational policy analysis si caratterizza per una costante tensione fra duetendenze contrapposte: da un lato, la necessità di fare ordine, di chia-rire i vari passaggi di processi decisionali che nella pratica sono spessoconfusi; dall’altro, il riconoscimento che una qualche contaminazionedella purezza originaria dei modelli è comunque indispensabile, perrenderli applicabili alle concrete situazioni decisionali.

A ben vedere, questo attrito è implicito nella stessa impostazionedi Dewey e di Lasswell, in cui si mischiano due aspetti potenzialmente

51 V. The Clinical Decision Making Group al laboratorio di Computer Science delMIT, http://medg.lcs.mit.edu/ e il modello di autodiagnosi utilizzato in http://onhealth.com/ch1/resource/symptomchecker/index.asp (giugno 2000).

52 V. http://www.austinlinks.com/Fuzzy/basics.html (giugno 2000).

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contraddittori. Da un lato, la centralità dei problemi e la riflessionesugli stadi attraverso cui sono affrontati sottintendono un’idea del pol-icy making come approssimazione successiva e come elaborazione col-lettiva faticosa e imperfetta. Dall’altro lato, l’importanza da entrambiattribuita all’applicazione razionale delle conoscenze ha indotto moltistudiosi [Kaufman-Osborn 1985; Dryzek 1990] a rimarcare i tratti tec-nocratici del loro programma.

A causa di questa originaria doppiezza, la ARP è comunque qual-cosa di diverso dalla mera applicazione delle teorie razionali al policymaking. Un qualche grado di pluralismo metodologico diventa inevita-bile: «La policy analysis è una disciplina applicata delle scienze socialiche usa una molteplicità di metodi di indagine e di argomenti per pro-durre e trasformare informazioni rilevanti per le politiche, informazio-ni che possono essere utilizzate in contesti politici per risolvere proble-mi di policy» [Dunn 1981, 35]. I vincoli metodologici diventano piùelastici, e la ARP è definita come

un approccio sistematico per aiutare coloro che hanno la responsabilità didecisioni a scegliere una certa politica investigando il loro problema nella suainterezza, evidenziando obiettivi e alternative e comparando queste e quellialla luce delle loro conseguenze, utilizzando uno schema adatto – per quantopossibile analitico – per far convergere sul problema, con risultati utili, il giu-dizio e l’intuizione di esperti [Quade e Boucher 1968, 16 trad. it.].

La riflessione sulle finalità di una buona analisi manifesta un cre-scente scetticismo verso l’obiettivo della selezione della soluzione mi-gliore [Carley 1980, 19], e sottolinea invece il contributo che dalla ARP

può venire a un arricchimento del dibattito e a un allargamento dellapartecipazione attraverso tre vie: una più precisa, obiettiva e responsa-bile definizione del problema che si intende affrontare [Dobel 1988];una chiarificazione delle premesse di valore che dividono i contendenti[Carley 1980, 32-33]; una sistematica raccolta di dati e informazionisulle alternative in gioco. Se non è possibile convergere sulle soluzioni,è almeno possibile «essere d’accordo sulla struttura qualitativa delproblema, o sulla valutazione delle conseguenze, o sulla definizionedelle probabilità. La speranza è che alla fine ci possa essere accordo suquali sono i punti di dissenso» [Raiffa 1968, 269].

Alla base di questa impostazione sta l’attribuzione di un valorequasi etico alla formalizzazione e alla quantificazione delle alternativein gioco. L’analisi razionale scommette sulla possibilità e sull’utilità diprovare a «prendere le misure» a variabili che incidono molto concre-tamente sulla qualità della vita dei cittadini, ma che di solito sono la-sciate nel vago e nel generico53: migliorare l’istruzione, diminuire il

53 Una società per la valutazione del rischio ambientale si presenta su Internetcon questo motto: «We quantify what others omit» (http://people.delphi.com/ke-nacks/index.html) (giugno 2000).

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 133

TAB. 3.1. Il processo dell’analisi delle politiche

Fase Interrogativi Risorse analitiche

Comprensione del Qual è il problema? Sociologiaproblema Come si manifesta il disagio? Psicologia

Chi lo manifesta? EconomiaProblem solving

Raccolta delle Che cosa succede se non si fa nulla? Statisticainformazioni Quali variabili possono influire sugli esiti? Analisi dei sistemi

Quanto tempo occorre aspettareper vedere i risultati?

Individuazione delle Quali sono le finalità generali? Economiafinalità, degli obiettivi e Quali sono gli obiettivi specifici? Analisi delle decisionidelle alternative Quali sono le realistiche alternative di Scienze del management

policy?

Valutazione ex ante Quali vantaggi e quali svantaggi Economiapresentano le varie alternative? Sociologia

Scienze del management

Monitoraggio e Le cose vanno realmente secondo le linee Management sciencesvalutazione in itinere approvate? Sociologia

Valutazione ex post Col «senno di poi» che cosa si può dire? EconomiaSociologiaAnalisi dei sistemiScienze del management

Chiusura del ciclo E adesso che si fa?

traffico, ridurre la distanza tra ricchi e poveri. Il secondo importantecontributo dell’analisi razionale delle politiche consiste nell’individua-zione delle fasi e delle procedure attraverso cui deve essere affrontatoun problema di policy. Su questa metodologia convergono sia la ricer-ca di Dewey [1910] sui processi mentali del problem solving e il suoschema per stadi successivi [Torgerson 1995, 232], sia il contributo diLasswell, che ritiene fondamentale procedere con ordine perché l’ana-lisi delle politiche si riveli fruttuosa [Lasswell 1951; 1963].

Gli approcci che abbiamo appena passato in rassegna fornisconopreziose istruzioni per articolare i vari stadi dell’analisi. Il problema ècome rendere compatibili procedure e criteri abbastanza chiari seconsiderati separatamente, ma non facili da armonizzare in un disegnounitario. Ogni autore ha il suo modo di assemblare insieme questispunti e di scandire le diverse fasi, pur all’interno di alcune linee guidalargamente accettate. La versione che forniremo nelle pagine seguenti,rappresentata nella tabella 3.1, è a sua volta una sintesi di molti contri-buti, costruita per essere logica e inclusiva insieme.

Per capire l’importanza di queste categorie, ma anche la loro am-biguità, occorre sottolineare due aspetti. Da un lato, esse marcano il

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passaggio da una scansione dei processi decisionali pubblici di tipoformale-giuridico a una basata sulla soluzione di problemi. Questo si-gnifica che possono essere studiati da una stessa prospettiva ancheprocessi su cui gravano vincoli normativi molto diversi. Così la defi-nizione del problema della raccolta differenziata dei rifiuti, condottatra l’azienda della nettezza urbana, l’assessore, i rappresentanti dellaproprietà edilizia, può essere accostata alla definizione del problemadella responsabilità civile dei magistrati, condotta tra ministro dellaGiustizia, commissione parlamentare, associazioni dei magistrati e de-gli avvocati: «L’idea di fasi distinte e ben identificabili nel ciclo dipolicy comporta che esistano approcci, concetti e metodologie chesono più appropriate e più applicabili a una fase piuttosto che aun’altra» [deLeon 1988, 30].

Inoltre, il legame che collega le fasi non è di mera successione. Nelgioco dell’oca della policy analysis, ogni mossa può mandare avanti diuna casella, ma anche indietro di una o di due, per riaggiustare i dati,per correggere le previsioni, per ridimensionare gli obiettivi. Le politi-che sono processi straordinariamente complessi, e ogni stadio dell’ana-lisi lascia sul campo aspetti trascurati, incongruenze, informazioni in-complete. Spesso, questi scheletri escono dall’armadio, costringendol’analista a ricominciare daccapo.

4.1. La comprensione del problema

La diversità rispetto agli approcci contigui è evidente fin dal primostadio della policy analysis: in principio è il problema, ma capire qualè il problema che sta al principio richiede già un impegno analitico.Nulla può essere dato per scontato quando si scava all’origine dellasfasatura tra la realtà com’è e la realtà come vorremmo che fosse: ilproblema degli incentivi ai professori è strutturato in un modo daipresidi, in un altro dai professori, in un altro ancora dalle famiglie, edè probabile che ciascuno abbia buone ragioni per difendere il suopunto di vista.

4.1.1. Obiettivi

In prima approssimazione, possiamo definire un problema di poli-cy come una situazione di rilevanza pubblica che nel giudizio degliattori non corrisponde a determinati standard [Anderson 1978, 19].La qualità dell’aria a Milano negli anni ’60 non era considerata unproblema, nonostante fosse di pessimo livello, perché non esisteva lapercezione dello scostamento da uno standard normale.

Obiettivo della ARP è dare maggiore precisione, concretezza echiarezza a un problema, scomponendolo nei suoi multiformi aspetti,

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 135

dandone una prima quantificazione e proteggendolo dall’influenza del-le mode, dei pregiudizi, della propaganda.

I problemi di policy presentano alcune caratteristiche che rendonomolto complicato il perseguimento di questo obiettivo, perché assu-mono spesso le caratteristiche da quelli che Simon chiama problemimal strutturati [Simon 1973]:

• le percezioni soggettive tendono a resistere alle definizioni sullabase di dati oggettivi;

• l’interdipendenza tra diverse questioni rende difficile stabilire dache parte cominciare;

• le situazioni e le categorie a disposizione per definirle si modifi-cano continuamente.

Compito dell’analista non è solo chiarire i problemi che hanno unastruttura confusa, ma anche isolare quelli francamente intrattabili[Nelson 1992; Sabatier e Mazmanian 1983], per i quali non esistono,allo stato attuale, né teorie né tecnologie capaci di introdurre elementidi certezza. Hanno questa caratteristica molte scelte tragiche, del gene-re «a chi dare la precedenza nell’assegnazione di risorse scarse, maessenziali per la vita, quali gli organi per i trapianti, o i letti dei repartidi rianimazione». In tali casi, l’analisi razionale non può promettererisultati migliori di quelli prodotti dalla morale, dalle consuetudini,dall’ipocrisia. Il principio «si fa ma non si dice», seguito ad esempioquando un primario stabilisce come utilizzare i pochi letti in un repar-to di terapia intensiva, può anche avere il vantaggio di non comporta-re investigazioni costose, laceranti e alla fine inconcludenti.

Ma consideriamo un problema meno drammatico: la grande lentez-za con cui gli studenti universitari italiani arrivano alla laurea. L’obiet-tivo della fase di comprensione è rispondere a domande del tipo:

• Chi ha segnalato questa situazione come un problema? Gli stu-denti? Le famiglie? Il ministro dell’Università? Le organizzazioni degliimprenditori? I professori universitari?

• Quali sono le evidenze citate a riprova della gravità del proble-ma? Confronti internazionali? Confronti tra le sedi universitarie o lediverse facoltà? La carenza di forza lavoro altamente qualificata?

• Coloro che segnalano il problema, a quali spiegazioni ricorrono?La cattiva organizzazione degli studi? La scarsità di borse di studio?La mancanza di sanzioni per i ritardatari? La disponibilità di occupa-zioni interessanti anche per chi ha solo il diploma superiore?

• Coloro che segnalano il problema, quali soluzioni indicano? Unalleggerimento dei piani di studio? Una migliore informazione sull’im-pegno richiesto dai corsi? Un aumento delle borse di studio e dei pre-stiti d’onore? Una penalizzazione per i fuori corso?

• Esistono nel dibattito spunti su aspetti meritevoli di approfondi-mento? La riluttanza dei giovani ad abbandonare la famiglia? Il caricodidattico fuori controllo? Il basso valore di mercato della laurea?

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136 CAPITOLO 3

4.1.2. Rilevanza

Si afferma spesso nei manuali di policy analysis che è più gravesbagliare problema che sbagliare soluzione. In effetti, questa primafase ha un’importanza fondamentale nell’incanalare l’analisi verso unesito anziché un altro. Benché sia preoccupazione comune a tutti glistadi il recupero di aspetti trascurati o di fenomeni non previsti, tutta-via ritornare sui propri passi e rivedere le assunzioni di partenza di-venta sempre più costoso, e l’impossibilità di condurre all’infinito ilriaggiustamento attribuisce un consistente vantaggio alle impostazioniiniziali [Bardach 1996].

Inoltre, in questa fase si gettano le basi del rapporto tra analista ecommittente: quest’ultimo infatti non sempre è disposto ad accettarela riformulazione che il primo gli propone. Da come viene gestita laquestione dipende la creazione di un clima di stima reciproca o, alcontrario, di incomprensione e di sfiducia. «Nella pratica, gli analistidi solito incontrano le difficoltà maggiori e spendono la maggior partedel tempo cercando di definire, spiegare e modellare il problema inmodo utile» [Weimer e Vining 1998, 256].

4.1.3. Strumenti

In questa prima fase, capire il problema significa innanzi tutto ve-rificare e comprendere i suoi sintomi. Per entrare nella logica di chipercepisce una situazione come insoddisfacente, è possibile utilizzarediverse risorse. Alcune sono, per così dire, rinnovabili, nel senso che,in caso di dubbi, è possibile tornare ad attingere ad esse. Appartengo-no a questa categoria le fonti scientifiche, le informazioni disponibilisu Internet, ma anche le notizie e le interviste comparse sulla stampa:«I quotidiani e le riviste raramente forniscono informazioni e analisidettagliate: ma spesso nominano o citano esperti, parti in causa, orga-nizzazioni, documenti e altre fonti di potenziale valore»54 [Weimer eVining 1998, 303].

Le fonti non rinnovabili possono essere invece consultate una voltasola: il ricorso ad esse va quindi pianificato con grande attenzione.Rientrano in questa categoria le interviste, i sondaggi d’opinione, e unaserie di tecniche qualitative utili per far emergere gli aspetti meno vi-stosi di un problema di policy.

Il brainstorming promuove la libera associazione di idee, suggestio-ni, reazioni; quando è applicato alle politiche pubbliche, ha lo scopo dispingere a immaginare le conseguenze di variazioni negli elementi che

54 La disponibilità di archivi digitalizzati per i maggiori quotidiani facilita enor-memente la ricerca.

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 137

costituiscono un problema55. I focus groups [Morgan 1988] sono inveceinterviste collettive che coinvolgono dalle sei alle otto persone, indottea confrontare le loro idee su un preciso problema. All’origine di questatecnica sta una constatazione, ricavata dalle indagini di mercato: le scel-te relative all’acquisto di un bene di uso personale sono il risultato diun confronto con le opinioni e le esperienze di chi appartiene alla no-stra cerchia. Se persino l’immagine di una merce risente di un processod’interazione sociale, a maggior ragione questa ipotesi è credibile nelcaso delle politiche pubbliche, il cui profilo è definito attraverso unafitta rete di comunicazione circa i disagi presenti e le aspettative sulfuturo [Patton 1990, 335]. Obiettivo dei focus groups è osservare inscala ridotta questo processo di costruzione sociale delle aspettative.

4.2. La raccolta delle informazioni sul presente e sul futuro

Risolvere un problema di policy significa cercare di condizionareun futuro più o meno prossimo. Per fare questo, l’analista deve averequanti più elementi possibili su ciò che è accaduto in passato e su ciòche potrebbe accadere in futuro, sia nell’ipotesi che non si faccia nul-la, sia nel caso che si adottino delle iniziative.

4.2.1. Obiettivi

Secondo l’economista Ely Devons [1961], tra l’esame delle visceredegli animali sacrificali, operato dai popoli primitivi, e le previsionitecnicamente fondate della policy analysis, non esiste una differenza digenere. Entrambi questi metodi cercano di ridurre l’incertezza associa-ta al futuro con i mezzi a disposizione [Parsons 1995, 403].

Obiettivo di questo stadio dell’analisi è tratteggiare una serie limi-tata di futuri possibili che possano costituire punti di riferimento perverificare la tenuta nel tempo delle varie soluzioni, in modo da re-stringere il loro numero. Le domande cui deve rispondere l’analista

55 Nel 1998, durante un’esercitazione con gli studenti, sono stati immaginati ivari aspetti di un’eventuale campagna del ministero dell’Agricoltura a favore del con-sumo di carne, caduto in seguito all’epidemia denominata «mucca pazza». Nel rappor-to fra questo prodotto e i giovani consumatori, sono emerse alcune specificità che ren-derebbero impraticabili i modelli utilizzati in analoghe campagne ministeriali a favoredel latte o del pesce azzurro. Per molti studenti, questa emergenza era solo la chiararivelazione di un rapporto già difficile con il consumo di carne, del resto evidente nel-l’evoluzione che hanno avuto le macellerie negli ultimi cinquant’anni, con la rimozionedi ogni riferimento al cadavere animale, un tempo esibito nella sua interezza comesinonimo di qualità. L’identificazione tra la mucca pazza e la mucca Clarabella, simpa-tico personaggio dei cartoni animati, per altro un po’ svitato, dava un ulteriore suggel-lo a questo atteggiamento.

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138 CAPITOLO 3

sono: come tende a evolvere il sistema in assenza di interventi? Suquali variabili occorre intervenire per riportarlo a equilibri accettabili?Quale influenza possono effettivamente esercitare le varie soluzioni sultappeto?

Se ritorniamo all’esempio della lentezza degli universitari italiani,questa fase potrebbe dare indicazioni su una serie di questioni:

• A quando risalgono i primi significativi scostamenti rispetto allemedie degli altri paesi?

• C’è qualche correlazione tra durata media degli studi e loro co-sto per le famiglie?

• C’è qualche correlazione con il livello dei servizi offerti: casedello studente, mense, trasporti?

• In assenza di correttivi, come evolverà il mercato delle professio-ni altamente qualificate nei prossimi cinque anni?

• Quale sarà l’impatto della riforma universitaria «triennio piùbiennio»?

• È ipotizzabile il ricorso all’importazione di laureati stranieri?• È ipotizzabile che Internet determini la fine dell’istruzione supe-

riore come l’abbiamo conosciuta?

4.2.2. Rilevanza

L’esito più compiuto di questo lavoro di elaborazione dei datiprende la forma di un modello. Secondo Quade, i modelli sono «qua-lunque procedura che intenda aiutare chi deve adottare una politica ouna decisione [...] a predire le conseguenze di future linee di azione»[Quade 1980, 31]. Costruire un modello significa dare per scontatoche la realtà è sempre più complessa e più disordinata, ma nel con-tempo scommettere sui vantaggi che si possono trarre rappresentando-la come un sistema.

L’obiettivo a cui tendere è la costruzione di un quadro abbastanzapreciso delle cause che hanno generato il disagio, delle variabili chepotrebbero attenuarne gli effetti, e del lasso di tempo intercorrente tral’intervento e il manifestarsi degli aspetti voluti.

Occorre comunque ricordare che, nel caso di decisioni socialicomplesse quali sono le politiche pubbliche, non sempre la maggioreinformazione sul futuro agevola il raggiungimento degli obiettivi volu-ti, per la rilevanza del fenomeno delle profezie che si autoavverano[Merton 1948]. Come è noto, nel campo delle politiche monetarie,una dichiarazione avventata di un’autorità pubblica può innescare unacrisi di sfiducia dalle conseguenze catastrofiche per la valuta di unpaese. Sottolineare le conseguenze finanziarie negative delle pensionidi anzianità può indurre i lavoratori in possesso dei requisiti a utilizza-re immediatamente tale opportunità, per timore di interventi restrittivi.

Anche trascurando questi casi limite, la disponibilità di dati che

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anticipano il futuro non sempre agevola la creazione del consenso in-torno a una politica pubblica: al contrario, può generare un allarmesproporzionato, o può indurre gli attori a nascondere le loro preferen-ze. La circolazione di queste informazioni ha pertanto un’importanzastrategica nel processo di selezione delle alternative.

4.2.3. Strumenti

L’utilizzazione dei dati può avere un potenziale informativo cre-scente con il passaggio dalla mera descrizione all’individuazione di ti-pologie, all’estrapolazione dei trend e delle correlazioni, alla dimostra-zione di effettivi nessi causali [Dunn 1981, 140].

Tra le diverse tecniche statistiche per l’elaborazione di previsioni,le proiezioni si basano sull’andamento passato di alcune variabili peridentificare dei trend, utili per strutturare le nostre aspettative circa ilfuturo. Questa operazione richiede evidentemente la disponibilità dibanche dati affidabili e consolidate [Hansen 1983, 222]. Come abbia-mo visto, il movimento degli indicatori sociali ha collocato gli StatiUniti in una posizione decisamente avanzata su questo terreno. Il limi-te implicito in questo strumento deriva dalla sua maggiore affinità condinamiche di sviluppo lineare, dove il futuro è molto influenzato dalpassato; questa caratteristica lo rende poco adatto a investigare situa-zioni caratterizzate da grosse discontinuità.

L’analisi di regressione indica la forza della relazione tra due o piùvariabili: la prima considerata indipendente, le altre dipendenti. Que-sto passaggio è cruciale, perché da esso dipende la possibilità di co-struire un vero e proprio modello, capace di spiegare che cosa provo-ca che cosa. Occorre tuttavia porre attenzione al fatto che l’esistenzadi una correlazione non equivale alla dimostrazione di un rapportocausale. Anche qualora fosse dimostrata una qualche correlazione trala durata media degli studi e il loro basso costo per le famiglie, primache questo dato possa diventare la base su cui costruire una propostadi policy, molti altri elementi devono essere verificati, compresa la di-rezione del rapporto causale.

In alcuni casi, le tecniche di regressione possono essere utilmenteintegrate da simulazioni assistite dal computer: «Come lo studio dicasi, i modelli di simulazione dinamica si basano su diverse fonti diinformazione. Questo metodo usa i dati numerici disponibili per l’ana-lisi di regressione, ma utilizza anche le interviste, i giudizi dei parteci-panti e altri dati non numerici, per costruire modelli che descrivano ilfunzionamento del sistema» [McCaffrey et al. 1987, 45].

Quando le relazioni tra le variabili non consentono comunque unasufficiente specificazione, l’analisi di sensibilità, o analisi delle soglie,può ridurre la gravità del problema, consentendo di definire gli inter-valli capaci di fare la differenza, cioè di far compiere il salto di qualità

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alla variabile dipendente [Florio 1991, 115; Nagel 1994, 36]. Questotipo di analisi è particolarmente importante nel caso di erogazioni disussidi o di incentivi, in cui occorre stabilire quali sono le cifre cheeffettivamente possono modificare le situazioni di partenza [Perkins1994].

Occorre comunque tenere presente che in molti problemi di policyi dati quantitativi non sono disponibili, non sono attendibili o nonsono significativi. Si pensi alla difficoltà di immaginare la futura pro-pensione a mettere al mondo dei figli. Che il tasso di natalità sia colle-gato a fattori diversi dal mero desiderio di avere una prole, è realistico.Quali siano questi altri fattori e come si combineranno in futuro, è dif-ficile da stabilire. Qualunque tecnica previsionale fosse stata utilizzatanegli anni ’60, difficilmente avrebbe potuto anticipare l’attuale crollo dinatalità in un paese come il nostro, storicamente caratterizzato dall’im-portanza attribuita ai legami familiari, dalla diffusione della religionecattolica, dalla scarsa informazione sui metodi anticoncezionali.

In questi casi, le congetture basate su proiezioni di tipo qualitativoformulate da esperti possono quanto meno far emergere aspetti tra-scurati e imprevedibili. È infatti opinione comune che i giudizi sogget-tivi e le valutazioni intuitive concedano più spazio all’eventualità dicrisi e di rotture profonde con il passato [Naisbitt 1982].

Le due tecniche più utilizzate per questi fini sono la costruzione discenari e l’indagine Delphi. Gli scenari sono narrazioni circa il futuroper come ce lo immaginiamo oggi [Weimer e Vining 1998, 402]. Que-sto metodo sollecita all’esperto un giudizio sulle possibili configurazio-ni di un determinato sistema, invitandolo a esplicitare le logiche che lohanno guidato nel delineare le diverse combinazioni delle variabili ingioco [Marcon 1978, 196]. Se riprendiamo le domande poste a p. 132,potrebbero essere raccolte per questa via previsioni circa l’impatto diInternet o l’importazione di laureati stranieri.

Con l’indagine Delphi, forse la tecnica più nota per la formulazio-ne di congetture, l’analista cerca di garantire un’interazione tra gliesperti, pur salvaguardando il loro anonimato. Le ipotesi di ciascunintervistato sono portate a conoscenza degli altri, ma in modo indiret-to: sulla base dei primi risultati, è avviato un secondo turno di consul-tazione, in modo che ciascuno possa confrontarsi con le intuizionidegli altri, senza rimanerne troppo coinvolto [Carley 1980, 77]. Graziea questo metodo potrebbero trovare risposta le domande relative al-l’evoluzione delle professioni qualificate e all’impatto della riformauniversitaria.

4.3. L’individuazione delle finalità, degli obiettivi e delle alternative

Se lo stadio precedente si è effettivamente concluso con l’elabora-zione di un modello più o meno formalizzato, ma comunque capace

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 141

di individuare le variabili cruciali e di descrivere il modo in cui intera-giscono, risulta molto agevolata la fase attuale, che è essenzialmente unprocesso di prima selezione degli elementi costitutivi di una politica:

• le sue finalità generali;• i suoi obiettivi specifici;• le possibili linee d’intervento per perseguirli.

4.3.1. Obiettivi

A mano a mano che l’analisi procede, deve divenire più selettiva efocalizzata. Superata la fase dell’indagine a tutto campo, le costosetecniche di valutazione delle alternative richiedono che la rosa delleopzioni cui applicarle sia piuttosto ristretta.

Il processo di selezione può essere complicato, controverso e pe-noso. I dati possono già evidenziare che soluzioni molto popolari han-no scarsissime probabilità di riuscita. Il committente può vedere rele-gata sullo sfondo un’opzione a cui era particolarmente affezionato. Sequesta è la situazione, vale la pena investire tempo ed energie nellaselezione dei criteri per la prima selezione. In particolare, quandol’analista lavora per un’istituzione politica, può risultare necessario unchiarimento circa il rapporto tra questa fase del suo contributo e laparallela ricognizione in genere già compiuta dalle assemblee elettive odagli organi di governo. Il confronto risulta agevolato se l’analista rie-sce a tenere distinti tre livelli di discorso:

• le finalità generali, che riguardano i valori ultimi che si voglionosalvaguardare o promuovere;

• gli obiettivi specifici, che devono essere espressi in termini chene consentano la verifica sul campo;

• le linee di intervento, le concrete politiche56.Per agevolare questo compito, e per preparare il terreno alla fase

della valutazione ex ante, può essere utile impostare una matrice del-le finalità, degli obiettivi, e delle opzioni, ricalcando l’esempio dellatabella 3.2.

Nelle celle potrebbe trovare posto una prima sommaria descrizio-ne degli effetti auspicati.

Tornando all’esempio della lunghezza degli studi universitari, pos-sono rientrare tra le finalità generali:

• una riduzione del gap rispetto agli altri paesi europei;• una concentrazione degli sforzi sulle aree geografiche o sui

gruppi sociali che mostrano maggiori difficoltà nel «tenere il passo»;• un’agevolazione del rapporto tra imprese e università.

56 Il termine policy si riferisce talvolta all’intero processo, talvolta alle specifichelinee di azione alternative per la soluzione di un problema: come dire talvolta al viag-gio, talvolta al percorso.

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TAB. 3.2. Matrice degli obiettivi, delle finalità e delle opzioni

Opzioni alternative di policyObiettivi Finalità

Politica 1(status quo)

Politica 2 Politica 3

Finalità A1

Finalità A2

Obiettivo A

Finalità A3

Finalità B1Obiettivo B

Finalità B2

Obiettivo C Finalità C1

Fonte: Rielaborazione da Weimer e Vining [1998, 275].

Possono costituire obiettivi specifici:• un aumento del rapporto laureati/iscritti del 5% su base annua;• una diminuzione della distanza tra i dieci corsi di laurea più ef-

ficienti e i dieci meno efficienti;• un aumento del 5% all’anno del numero di laureati che trovano

un’occupazione entro 12 mesi dalla laurea.Possono costituire alternative opzioni di policy:• un aumento del 10% delle risorse destinate a borse di studio;• l’imposizione di penalità ai corsi di laurea più inefficienti nella

distribuzione dei fondi;• una graduazione delle tasse universitarie che renda l’iscrizione

sempre più onerosa via via che ci si allontana dalla durata del corsolegale;

• la concessione di agevolazioni alle aziende per l’organizzazionedi stage.

4.3.2. Rilevanza

L’importanza di questa fase dipende da tre elementi:• dal filtro adottato nella selezione delle finalità, degli obiettivi e

delle opzioni: se il filtro è troppo severo, rischiano di essere prematu-ramente espulse dall’analisi scelte che invece meriterebbero più consi-derazione; nel caso opposto, il lavoro di valutazione rischia di essereappesantito da ipotesi prive di consistenza;

• dalla delicatezza del rapporto con il committente e con il lavoroistruttorio compiuto dalle istituzioni politiche;

• dalla difficoltà di portare gli interlocutori a convenire sull’utilitàdi formulare gli obiettivi in termini empiricamente verificabili.

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 143

4.3.3. Strumenti

Le risorse che l’analista mette in campo in questa fase hanno comeobiettivo il bilanciamento tra due qualità della selezione, che da unlato deve essere effettiva e consistente, dall’altro non deve produrreeccessivi rimpianti o tensioni.

Per quanto riguarda le finalità generali, per strutturare l’istruttoriaed evitare che diventi un mero esercizio retorico, con il richiamo a valorigenerici, conviene partire da due casi limite, e chiedersi se il problemaha origine da fallimenti del mercato, o da inefficienze interne all’appara-to pubblico. Utilizzando il paradigma dell’individualismo metodologico,ci si può interrogare su quali variazioni devono essere introdotte nell’at-tuale sistema di incentivi per modificare le logiche di scelta degli attori.

Passando agli obiettivi specifici, la loro caratteristica più importan-te è la possibilità di misurazione o, quanto meno, di registrazione. Gliobiettivi di oggi diventeranno gli indicatori del successo o del fallimen-to di domani: per questo devono essere chiari, precisi e il più possibileautonomi gli uni dagli altri. Contrariamente a quanto si ritiene, fareemergere questi aspetti non è certo un lavoro da ragioniere, ma richie-de fantasia e intuito, oltre a una rilevante dose di ragionevolezza: «Unabuona analisi si pone le domande giuste e risponde ad esse in modocreativo, ma anche logico» [Weimer e Vining 1998, 254].

L’identificazione delle concrete linee di intervento deve mirare ilpiù possibile alla fattibilità. Può la struttura pubblica sopportare que-ste iniziative? Esistono le competenze per tradurle in pratica? I tempidi realizzazione sono realistici?

È importante sottolineare che le diverse opzioni di policy non de-vono necessariamente essere in un rapporto di mutua esclusione, per-ché si possono seguire contemporaneamente più strategie, come dimo-stra l’esempio della pagina precedente: e tuttavia in questo caso vaanalizzato attentamente il problema delle risorse, per verificare se sonopossibili sinergie, o se, al contrario, è probabile una maggiore disper-sione degli investimenti economici e organizzativi.

4.4. La valutazione «ex ante»: la scelta tra politiche alternative

4.4.1. Obiettivi

Con questa fase dell’indagine, l’analista si propone di anticipare glieffetti positivi e negativi delle varie linee d’intervento proposte, e dipesarli gli uni contro gli altri, in modo da fornire al policy maker unordinamento sulla base di criteri definiti.

Se l’obiettivo è determinare qual è il limite di velocità più adegua-to a un certo tratto di strada, l’analista ordinerà le diverse alternativetenendo conto:

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• delle soglie oltre le quali diventano sensibili i vantaggi in terminidi risparmio di vite umane;

• dei disagi richiesti dal rallentamento, ad esempio per il maggioreinquinamento atmosferico e per l’aumento dei tempi di percorrenza;

• dei costi per imporre il rispetto delle norme [Tullock 1969].Più che la promessa di condurre alla scelta ottimale, il miglior ar-

gomento a favore di questo stadio dell’analisi è il fatto di consentire larilevazione degli errori e l’eliminazione delle conseguenze più sgradite:«Se il governo si appresta a varare un provvedimento che comportauna spesa di miliardi di dollari, non sembra insensato investire unasomma molto più piccola per determinare gli effetti e la fattibilità del-la politica in questione» [Williamson et al. 1977, 227].

La chiarificazione dei parametri di giudizio ha spesso l’effetto indi-retto di innalzare la qualità del dibattito, perché induce i fautori dellediverse proposte a ridurre gli equivoci, le indebite generalizzazioni, lepromesse infondate, di cui si alimentano i progetti più generici.

4.4.2. Rilevanza

Questo stadio è, tra tutti, il più critico e controverso. Benché ap-partenga alla retorica dell’ARP la continua riaffermazione di una divi-sione dei compiti che assegna al politico l’individuazione dei fini, eall’analista la selezione dei mezzi, non c’è dubbio che dall’esito di que-sta fase può risultare una sensibile riduzione dell’autonomia di chi èinvestito del potere di decidere. Infatti il vantaggio conferito a un’al-ternativa per il fatto di essere uscita vincente dalla selezione condottasulla base di criteri tecnici può essere annullato solo a caro prezzo.D’altra parte, se l’analista si autoimpone una interpretazione più di-screta del proprio ruolo, e si limita a fornire per ciascuna opzione unelenco di pro e di contro, rinunciando alla sintesi finale, le esigenze disemplificazione del dibattito politico rischiano di rendere del tuttoinutile il suo lavoro. È pertanto comprensibile che proprio su questopassaggio si concentrino le maggiori aspettative e le più roventi criti-che all’ARP.

4.4.3. Strumenti

È questo il momento in cui il contributo delle metodologie presen-tate nel paragrafo 3 diventa più prezioso. Ma la molteplicità delle tec-niche e dei criteri, oltre ad essere una risorsa, può trasformarsi in unproblema. La nostra presentazione è organizzata sulla base dei tre piùdiffusi criteri di valutazione: efficienza, efficacia, equità: «L’efficacia fariferimento ai benefici conseguiti dalle diverse alternative di policy.L’efficienza fa riferimento al controllo dei costi per il conseguimento

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 145

dei benefici [...]. L’equità fa riferimento alla garanzia di un minimolivello di benefici o di un tetto ai costi nella distribuzione tra persone,gruppi, o zone» [Nagel 1990, 429].

Fra questi tre criteri, quello di efficienza merita di essere conside-rato per primo, per le complesse implicazioni analitiche che sono stateillustrate nel paragrafo 3.

Misure di efficienza

La più nota tecnica di valutazione dell’efficienza è l’analisi costi-benefici (ACB), con la quale il ricercatore cerca di quantificare l’am-montare sia delle conseguenze negative, sia di quelle positive, e diesprimerne il valore in termini monetari, in modo da rendere diretta-mente confrontabili le due serie di grandezze [Boardman et al. 1996;Nuti 1989]. Le applicazioni sono tanto più convincenti quanto più lapolitica pubblica viene a coincidere con la realizzazione di un’operapubblica o di un progetto, come spesso avviene nel settore dei tra-sporti, delle risorse energetiche, delle grandi infrastrutture.

Come abbiamo visto, è l’economia del benessere a fondare la pos-sibilità e l’opportunità di confrontare costi e benefici di un program-ma prendendo come riferimento ideale l’intera società, con l’obiettivodi fornire un parametro oggettivo per la scelta.

L’analisi costi-benefici. In un mondo in cui non tutte le cose buonevanno insieme, è molto probabile che alle diverse opzioni di policy sia-no associati non solo benefici, ma anche costi. L’obiettivo dell’analisiè costruire, per ciascuna delle opzioni in gioco, una tabella simile aquella qui riportata (tab. 3.3), in modo da rendere confrontabili glieffetti complessivi.

1. Individuazione di tutte le conseguenze – negative e positive –derivanti dall’adozione di un’alternativa di policy. Evidentemente, ilproblema fondamentale in questa fase ha a che vedere con la delimita-zione degli effetti, la cui indagine teoricamente può essere allargataall’infinito. Occorre quindi stabilire criteri omogenei per l’imputazionedei costi e dei benefici. Entro quali confini – geografici, temporali, so-ciali... – deve essere applicata l’analisi? Quale soglia deve essere supe-rata perché le conseguenze siano ritenute degne di essere prese in con-siderazione?

Esempi di quantificazione dei benefici, nel caso di un piano deitrasporti, possono essere le risposte alla domanda: quante ore di attesarisparmiate, per quante persone, per quanti giorni l’anno? Esempi diquantificazione dei costi sono le eventuali nuove assunzioni di perso-nale, l’acquisto di nuovi autobus, il maggior consumo di carburante.

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146 CAPITOLO 3

conseguenze negative: 1. individuazione di conseguenze positive:a tutte le conseguenze yb ... derivanti z ...

dall’adozionedell’opzione«politica1»

costo di a = La1 il primo anno 2. quantificazione dei beneficio di y = Ly1 il primo anno

TAB. 3.3. Procedure per l’analisi costi-benefici

Costi Operazioni Benefici

La2 il secondo anno costi e dei benefici in Ly2 il secondo annocosto di b = Lb1 il primo anno termini monetari beneficio di z = Lz1 il primo anno

Lb2 il secondo anno (lire) e Lz2 il secondo annoindividuazione Lz3 il terzo annodell’orizzontetemporale

costo di a = (La1 X 0,952381) + 3. riduzione dei valori beneficio di y = (Ly1 X 0,952381) +(La2 X 0,907029) futuri al loro valore (Ly2 X 0,907029)

costo di b = (Lb1 X 0,952381) + attuale* beneficio di z = (Lz1 X 0,952381) +(Lb2 X 0,907029) (Lz2 X 0,907029) +

(Lz3 X 0,863838)

costo attuale di a X probabilità 4. stima delle beneficio attuale di y X probabilitàdi a (100%) probabilità e calcolo di y (60%)costo attuale di b X probabilità delle conseguenze beneficio attuale di z X probabilitàdi b (80%) attese di z (80%)

5. confronto

* Per il calcolo sono stati utilizzati gli stessi valori del fattore di sconto utilizzati nell’esem-pio a p. 126.

2. Quantificazione dei costi e dei benefici in termini monetari e in-dividuazione dell’orizzonte temporale. La grande risorsa dell’analisicosti-benefici e, al tempo stesso, il suo aspetto più vulnerabile, è lariduzione dell’impatto – positivo o negativo – a un’unica unità di mi-sura in genere (ma non necessariamente) identificata con il suo valoremonetario [Weimer e Vining 1998, 270]. Questa operazione è un pas-saggio cruciale per il confronto diretto tra conseguenze altrimenti de-stinate a rimanere tra loro non commensurabili. Le sue difficoltà van-no dirette al cuore dell’ACB e riguardano la possibilità stessa di com-piere questa conversione con un minimo di fondamento. E tuttaviaprovare a inventare sistemi di misurazione che ci diano una qualcheidea di come sono valutate le variabili in gioco è un’operazione che ri-chiede non solo realismo, ma anche immaginazione.

L’economia ha elaborato alcuni concetti che possono tornare mol-to utili in questa fase. In taluni casi, una valutazione indiretta dei costimonetari può essere fornita dal confronto con altri progetti, pubblici oprivati, di cui è possibile calcolare il rendimento. Il costo-opportunitàdi una politica equivale ai benefici prodotti dalle migliori alternative

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 147

cui si deve rinunciare, dato che il finanziamento di un intervento pre-clude quello di un altro, analogo per costo.

Nel caso dei benefici, è possibile dedurre il valore monetario cheuna società è disposta a pagare per un bene utilizzando lo strumentodei prezzi ombra, che sono stime costruite sulla base dell’analogia concurve della domanda in settori contigui, e che pertanto «riflettono in-direttamente la disponibilità da parte della collettività interessata apagare i beni e servizi, prodotti mediante l’esecuzione del progettoanalizzato» [Marcon 1978, 209; v. anche Brosio 1986].

Il ricorso a questi metodi ha il grande vantaggio di evitare la rile-vazione diretta delle opinioni degli interessati, che potrebbero avereforti motivi per mentire circa le loro reali preferenze, esagerando oriducendo la loro effettiva disponibilità a pagare per assicurarsi unbene o per evitarsi un male.

Come è evidente, il trasferimento di questo tipo di tecniche daspecifici progetti alle politiche pubbliche pone un’infinità di problemi.Infatti gran parte di questi complessi interventi è orientata alla produ-zione di beni non facilmente monetizzabili, quali la salute, le aspetta-tive di vita, l’istruzione, i diritti.

È pur vero che ogni volta che sottoscriviamo un’assicurazione,accettiamo che la vita umana nostra o dei danneggiati sia valutata conparametri monetari. È vero anche che le graduatorie per le assunzioninegli enti pubblici fissano quanti punti vale un figlio disabile o unmarito morto. E tuttavia in questi casi la decisione se accettare o noqueste regole del gioco è demandata, almeno in teoria, agli individui.A costituire problema, nel caso delle politiche pubbliche, è il fatto chela valutazione monetaria compiuta dagli esperti sia attribuita all’interasocietà.

Secondo alcuni autori, questa procedura diviene anche eticamentepiù accettabile se è colta la differenza che esiste tra una valutazionediretta di questi beni, alla quale ci costringerebbe una domanda delgenere: «Quanto sei disposto a pagare per salvare una vita umana?» e,invece, una valutazione indiretta, di tipo statistico o probabilistico.Tutti noi, pur attribuendo il massimo valore alla vita dei nostri cari,non esitiamo a mandare i figli a scuola, pur sapendo che traversare lastrada non è a rischio zero. Anche la psicologia sperimentale sembraconfermare questo dato: «In altre parole, quando ha a che fare conprobabilità anziché certezze, la gente sembra in effetti disposta a con-siderare i trade-off tra i dollari e le vite» [Weimer e Vining 1998, 373].

Un altro interessante aspetto di questa fase è la selezione dell’arcotemporale cui riferire i costi e i benefici. La scelta non può che dipen-dere dalla politica proposta, dai suoi obiettivi e dalle sue finalità. Pergli investimenti che riguardano le grandi infrastrutture, si consideraadeguato un periodo di circa vent’anni; per gli investimenti produttivi,gli economisti scendono in genere a dieci anni; per politiche pubbliche«di immediato consumo», o caratterizzate da grande incertezza, con-

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viene attenersi a un numero di anni inferiore, anche se è rara la possi-bilità di scendere sotto i cinque.

3. Riduzione dei valori futuri al loro valore attuale. I costi e i bene-fici relativi a qualsiasi progetto pubblico si manifestano in un arco ditempo anche assai esteso. Per di più, il flusso degli uni può avere unandamento temporale assai diverso da quello degli altri; può darsi adesempio che la maggior parte del costo si manifesti nel momento diavvio del progetto, e che i benefici, per converso, siano inizialmenteassai ridotti e tendano ad addensarsi in un momento successivo, maga-ri quando tutti i costi sono già stati sostenuti. Costi e benefici sonodunque valori non omogenei. Per renderli confrontabili, nell’ambito diun progetto e fra progetti diversi, è necessario renderli omogenei; e ciòsi può fare riportandoli tutti a una medesima scadenza – tipicamente ilmomento di avvio del progetto – mediante l’applicazione di un oppor-tuno fattore di attualizzazione [Marcon 1978, 210].

Abbiamo già fatto conoscenza con le procedure di conversione delvalore di eventi futuri al loro valore attualizzato nel paragrafo 3.3.Dato che le grandezze di cui ora parliamo sono già monetizzate, ilproblema diventa relativamente facile, e generalmente coincide con lascelta del tasso di sconto da assumere come base del calcolo.

4. Stima delle probabilità e calcolo delle conseguenze attese. Comeabbiamo visto, l’analisi delle decisioni fornisce una procedura per con-durre la comparazione tra effetti positivi ed effetti negativi anche neicasi in cui possiamo fare solo congetture sul loro effettivo verificarsi.Un passaggio chiave nel calcolo delle conseguenze attese consiste per-tanto nell’assegnazione delle probabilità da associare al verificarsi deidiversi costi e benefici. In questa fase rientrano dunque in gioco i ri-sultati delle previsioni formulate nello stadio precedente e il loro gradodi attendibilità. Una volta stabilita la probabilità di ogni singola«voce», si procede moltiplicandola per il rispettivo valore attuale, conun procedimento analogo a quello descritto per valutare la convenien-za dell’acquisto di un’auto usata (p. 127) [Mishan 1972; Carley 1980].

5. Confronto tra i risultati. Esistono vari criteri per mettere traloro in relazione i risultati delle due colonne:

• il valore attuale netto consiste nella differenza (benefici – costi):si può considerare efficiente una politica se la differenza è superioreallo zero, cioè se i benefici eccedono i costi. «Il calcolo del beneficionetto risponde alla domanda: questa politica genera benefici sufficientiper compensare almeno potenzialmente coloro che ne sopportano icosti?» [Weimer e Vining 1998, 378; v. anche Nagel 1990, 431];

• il rapporto benefici/costi consiste nel mettere al numeratore ibenefici e al denominatore i costi: si può considerare efficiente unapolitica il cui risultato è superiore a uno;

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 149

• il tasso interno di rendimento economico è il tasso di sconto inbase al quale il flusso dei costi e dei benefici assume un valore attualenetto uguale a zero. Si può considerare efficiente una politica se que-sto valore è superiore al tasso di sconto adottato: nel caso opposto,converrebbe investire le risorse in altri modi.

Quando il problema è definire se una opzione di policy, considera-ta isolatamente, è efficiente o no, i tre criteri sostanzialmente fornisco-no indicazioni convergenti [Marcon 1978].

Ma se il problema è stabilire una graduatoria tra diverse opzionirispetto al parametro dell’efficienza, allora l’ordine può variare al va-riare del criterio adottato. Si consideri ad esempio il confronto tradue progetti. Il primo prevede benefici 10 e costi 5, e il secondobenefici 15 e costi 8. In base al criterio B – C, il secondo è più effi-ciente del primo. In base al criterio B/C, il primo è più efficiente delsecondo.

In questi casi, il tasso interno di rendimento economico ha il van-taggio di fornire una valutazione non influenzata dall’importo dei ri-spettivi valori assoluti.

Analisi costi-benefici nel caso di obiettivi multipli. Difficilmente igoverni si propongono un unico obiettivo e sono disposti a concentra-re tutte le risorse disponibili su un’unica finalità per volta. Più realisti-camente, hanno obiettivi multipli: vogliono contemporaneamente stra-de più pulite e un costo del lavoro più contenuto per i servizi di net-tezza urbana, o meno bocciature e studenti più qualificati. Se questepreferenze possono essere espresse con l’attribuzione di un valore car-dinale, il problema sul piano teorico diventa risolubile, sia pure conprocedure di ottimizzazione non immediatamente intuitive. Ma difficil-mente i policy makers sono in grado di precisare quanto aumento delmonossido di carbonio nelle strade del centro deve essere tolleratoprima di accettare una flessione delle vendite dei negozi dell’1%.

Uno dei modi per risolvere questo problema consiste nel sollecita-re l’indicazione di pesi da attribuire ai diversi obiettivi che possonoessere perseguiti, in modo da ricavarne dei parametri da applicare allavalutazione delle alternative [Florio 1991, 137].

A differenza del giudizio secco su ciascuna delle opzioni sul tappe-to, l’attribuzione dei pesi ai criteri-obiettivi da applicare nella valuta-zione crea uno spazio di riflessione in cui l’intervistato è costretto aconfrontarsi non con l’alternativa da lui preferita, ma con i criteriastratti [Lorenzini 1995].

Una volta individuati gli attori legittimati a parlare a nome dellacollettività e raccolte le loro valutazioni sotto forma di pesi, o di pun-teggi, con la sintesi dei risultati l’analista cerca di avvicinarsi a unafunzione del benessere sociale, da utilizzare come criterio per stabilirei trade-off tra i vari obiettivi.

L’approssimazione e l’imprecisione di queste misure sono in gene-

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re tenute sotto controllo con il ricorso all’analisi di sensibilità, chepermette di capire se davvero esistono difformità di valutazione tantoforti da spostare il risultato finale.

Lo sviluppo del software per l’analisi MCDM (Multi-Criteria Deci-sion Making)57 ha enormemente aumentato le risorse computazionalilegate a questo tipo di tecniche: i programmi infatti guidano tutto ilprocesso dell’immissione dei dati e dell’attribuzione di un peso ai variobiettivi, rendendo relativamente poco costoso, anche in termini ditempo, vedere «che cosa salta fuori» al variare dell’importanza attribui-ta ai diversi parametri.

Misure di efficacia

Questo tipo di analisi si propone di definire in quale misura unadeterminata politica pubblica effettivamente può sperare di conseguirei risultati che si propone. Infatti l’efficacia ha a che vedere più con larazionalità tecnica che con quella economica, perché rapporta i mezziai fini, prescindendo dal problema dei costi. Se devo uccidere unamosca, posso ricorrere alla palettina o alla camera a gas. Il primo siste-ma è economicamente più efficiente. Il secondo probabilmente è piùefficace.

Le più note tecniche incentrate sulla valutazione dell’efficacia sonol’evaluation research e l’analisi dell’impatto. La differenza sostanziale èche la prima è focalizzata sugli obiettivi espliciti, primari, intenzionali,e cerca di verificare le probabilità che possano essere effettivamenteperseguiti con le azioni programmate; invece la seconda cerca di anti-cipare gli effetti indiretti, secondari, spesso non voluti, in modo daminimizzare le conseguenze perverse.

L’analisi dell’impatto è stata originariamente messa a punto perprevedere e valutare le conseguenze ambientali di interventi focalizzatiterritorialmente, quali insediamenti industriali o grandi opere pubbli-che. Che cosa succede all’equilibrio ecologico quando viene realizzataun’autostrada o una centrale idroelettrica? Quali effetti indiretti e nonvoluti dobbiamo attenderci? Come possiamo minimizzarne la portata?Nel 1970, con l’approvazione dell’Environmental Policy Act, negli StatiUniti questo tipo di tecnica è stata ufficialmente riconosciuta comeparte integrante della progettazione, anche per effetto delle pressionidei movimenti ecologisti. In seguito, queste metodiche sono state for-malmente adottate anche dai paesi dell’Unione europea.

Nello stesso arco di tempo, la loro impostazione originaria è stataampliata, fino a consentire una valutazione dell’impatto sociale deiprovvedimenti nel campo delle politiche industriali o sociali. Quale

57 Per una rassegna, v. http://publish.uwo.ca/~jmalczew/gimda/intres3.htm (giu-gno 2000).

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effetto sui livelli occupazionali possono avere gli incentivi all’innova-zione tecnologica delle aziende? O quali conseguenze sulla coesionedei nuclei familiari di origine hanno gli aiuti economici alle ragazzemadri?

Sia l’evaluation research sia l’analisi dell’impatto possono basarsitanto sul metodo sperimentale, quanto sull’analisi secondaria, o meta-analisi.

Valutazione sperimentale. Nella sua versione «pura», la ricerca divalutazione – o, più semplicemente, la valutazione – si ispira allo sche-ma tipico dell’indagine sperimentale, cioè procede confrontando traloro situazioni in cui è stato attuato un determinato intervento pubbli-co ed altre, del tutto analoghe, ma escluse dal programma sperimenta-

le, in modo da poterne isolare gli effetti.Gli elementi di un effettivo esperimento, del tipo di quelli allestiti

per verificare l’efficacia dei farmaci, sono:• la definizione della variabile considerata indipendente e di quel-

le dipendenti: l’ipotesi da verificare attribuisce alla prima un effettocausale rispetto alle seconde;

• l’individuazione di un gruppo esposto a modificazioni della va-riabile indipendente;

• l’individuazione di un gruppo di controllo con caratteristiche dibase il più possibile vicine a quelle del gruppo sottoposto all’esperi-mento, ma protetto da interventi sulla variabile indipendente;

• la definizione dei protocolli, cioè delle procedure che garanti-scono l’osservazione e la replicabilità dell’esperimento.

Come è evidente, l’avvio di una valutazione davvero sperimentaledegli effetti di una politica pubblica deve fare i conti con una serie didifficoltà [Grumm 1975, 453]. Alcune riguardano la possibilità o l’op-portunità di manipolare la variabile indipendente. Molto spesso, l’at-tuazione di politiche differenziate può entrare in conflitto con il dirittoall’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Potrebbe essere interes-sante scoprire se davvero – ceteris paribus – un innalzamento dellepene per la pedofilia riduce il numero dei reati accertati: ma difficil-mente l’opinione pubblica accetterebbe un diverso sistema di sanzioniper uno stesso crimine. Inoltre, è raro che il gruppo di controllo abbiadavvero le stesse caratteristiche del gruppo esposto alla politica. E poi,fare esperimenti richiede tempo: quando i risultati arrivano, rischianodi non destare più alcun interesse, perché il problema si è sgonfiato oè stato rimpiazzato da altri più urgenti.

Altre difficoltà riguardano il valore da attribuire alle osservazioni.Gli esperimenti di policy devono fare i conti con due tipiche deforma-zioni, ben note alle scienze sociali. La prima, chiamata effetto Hawthorne(dal nome della fabbrica oggetto dell’esperimento), afferma che gli in-dividui cambiano atteggiamento quando sanno di essere osservati: il fat-to di essere visitati periodicamente da un ricercatore che si informa de-

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gli effetti di una politica può suscitare la tendenza a drammatizzare innegativo o in positivo la situazione.

L’effetto Rosenthal evidenzia invece come lo stesso impianto dellaricerca tenda a essere sbilanciato a favore dei risultati più facilmentespiegabili all’interno del modello causale preferito dai ricercatori: lesorprese e i dati che non quadrano sono in genere sottorilevati, sicché«le aspettative che uno sperimentatore nutre circa l’esito dell’esperi-mento comunque condizionano l’esito dell’esperimento nel senso delleaspettative» [Martin 1977, 81].

Un’altra difficoltà riguarda l’effettiva replicabilità degli esperimenti.Come avremo modo di spiegare per esteso nei capitoli seguenti, l’ana-lisi dei sistemi complessi ha messo in evidenza come la loro dinamicapossa essere influenzata da variazioni anche minime nelle condizioniiniziali. In altre parole, piccole differenze possono generare grandidiscordanze negli esiti [Gleick 1987].

Nonostante queste difficoltà, talvolta le amministrazioni ricorronoa esperimenti di policy. Il più noto è quello avviato tra la metà deglianni ’60 e l’inizio degli anni ’70 dal governo degli Stati Uniti, per ve-rificare la validità di una proposta dell’economista Milton Friedman,che mirava a sostituire la lunga serie dei tradizionali sussidi assistenzia-li con l’accredito diretto e automatico di un’unica somma compensati-va, liquidata alla presentazione della denuncia dei redditi (negativeincome tax) [Williamson et al. 1977, 227]. Nel New Jersey, 1.400gruppi familiari a basso reddito godettero di assegni automaticamenteliquidati, mentre gli altri continuarono ad essere aiutati dai tradizionalibenefici della social security. L’obiettivo era verificare come nei duecampioni evolvevano gli stili di vita e la propensione a cercare lavoro.Dopo tre anni di rilevazioni, l’esito fu tutt’altro che univoco: né il tiponé l’entità del sussidio avevano rivelato una chiara influenza sulle va-riabili dipendenti. Benché questo risultato abbia provocato un profon-do ripensamento intorno alle tecniche della policy evaluation, tuttaviai margini per verifiche sperimentali sono spesso più ampi di quanto ingenere non si immagini.

Il problema dei loro costi in termini di denaro, di organizzazione edi tempo ha tuttavia indotto i valutatori a privilegiare altre tecniche,con disegni quasi o non sperimentali, che consentono di sfruttare tuttala gamma delle comparazioni disponibili, da quelle prima/dopo, aquelle tra gruppi non equivalenti [Mohr 1988].

Un promettente campo di ricerca è aperto dalla possibilità di com-piere simulazioni assistite dal computer. In particolare, i giochi di ruo-lo possono mettere in evidenza la capacità dei destinatari di seleziona-re strategie inizialmente non considerate, eppure capaci di ribaltare irisultati attesi.

Analisi secondaria. L’analisi secondaria utilizza i risultati di studiprecedenti come base per rielaborazioni, quantitative o qualitative.

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L’obiettivo è approfondire la relazione tra variabili, andando a recupe-rare tutte le ricerche in cui esse compaiono simultaneamente. In medi-cina è spesso utilizzata per trarre conclusioni sull’efficacia dei farmaci.Applicata alle politiche pubbliche può fornire risposte a domande delgenere: dove ci hanno provato, come è andata? Esistono delle soglie aldi sotto delle quali gli sforzi sono vani? Esistono effetti perversi?

Misure di costi/efficacia. Il criterio dei costi/efficacia costituisce unmetodo di valutazione per certi versi intermedio tra quello di efficien-za e quello di efficacia. Viene utilizzato soprattutto quando le risorsesono comunque prestabilite, o quando gli obiettivi sono del genere«tutto o niente». Nel caso in cui i costi non siano modificabili – adesempio perché il budget è rigido – risulterà più efficiente l’alternativache promette i più alti benefici. A parità di risultati conseguiti – adesempio, evitare l’inondazione di una determinata area – sono da con-siderare più efficienti le soluzioni che consentono di utilizzare risorsedi minor valore. Nel primo caso, l’analisi si concentra sul confrontodegli output legati alle varie alternative di policy, per selezionare la mi-gliore per qualità e quantità. Nel secondo caso si procede al confrontodelle risorse richieste dai vari progetti, per selezionare l’alternativa chene assorbe meno. Come è ovvio, in questi casi la valutazione è drasti-camente semplificata e i suoi costi sono notevolmente ridotti.

Misure di equità

Molte sono le ragioni per assegnare all’efficienza un posto centraletra i valori che l’analisi considera. Ma poche sono le situazioni in cuiquesto criterio può rappresentare l’unico punto di riferimento: «Peruna serie di problemi concettuali e pratici, la funzione del benesseresociale non riesce a evitare alla policy analysis l’ostacolo dei trade-offtra efficienza e altri valori» [Weimer e Vining 1998, 138].

Per definizione, l’analisi costi-benefici è basata sul concetto di ef-ficienza economica aggregata. La sua importanza sta nel fatto di rap-presentare una sintesi delle conseguenze per la società presa come ri-ferimento: una nazione, una città, il bacino degli utenti di un servizio.Di per sé, nulla vieta che questa impostazione sia replicata per speci-fici sottogruppi: i vecchi e i giovani rispetto all’approvazione di unariforma pensionistica; chi fa certi tragitti rispetto alla progettazione diuna linea metropolitana. Tuttavia è evidente che questa spaccaturadelle società di riferimento non può andare troppo per il sottile, penala lievitazione dei tempi e dei costi dell’analisi.

Soprattutto, l’analisi costi-benefici non ci dice quali, tra le possibiliasimmetrie nell’allocazione delle risorse, siano da preferire, perché ilcriterio dell’efficienza non indica a chi devono spettare i costi e a chii benefici [Haveman e Margolis 1977, 19]. Eppure, tutti avvertiamo

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che questi sono aspetti importanti nel disegnare il profilo di una poli-tica pubblica. All’interno dell’analisi razionale, almeno nella sua formaclassica, questo problema è trattato con il ricorso a due concetti: quel-lo di equità, e quello di trade-off.

Più precisamente, l’equità entra in gioco perché l’applicazione ri-gorosa ed esclusiva del criterio economico di efficienza è consideratacome una strada che può portare a risultati riprovevoli sul piano socia-le. Da questo esame tenderebbero infatti a uscire sistematicamente pe-nalizzate opzioni quali gli interventi sanitari rivolti a malati con basseprobabilità di guarigione, o i programmi scolastici destinati a studenticon problemi di apprendimento. Come abbiamo sottolineato nel para-grafo 3, il fatto che gli squilibri distributivi siano una delle evenienzeche il mercato non è in grado di escludere, per la nuova economia delbenessere costituisce un forte argomento a favore dell’intervento pub-blico. Secondo questa impostazione, sarebbe paradossale che le politi-che pubbliche avessero come effetto il rafforzamento di quelle stessedisparità già prodotte dal mercato [Musgrave 1959].

Una volta impostata in questi termini, la questione diventa l’indivi-duazione del migliore trade-off tra i due valori tendenzialmente alter-nativi dell’efficienza e dell’equità: «L’equità, o qualunque altro obiet-tivo, possono essere utilmente considerati in termini di trade-off conl’efficienza [...]. Alla fine, il cliente, l’analista e il processo politico de-vono decidere a quanta efficienza sono disposti a rinunciare per otte-nere un dato livello di redistribuzione o di qualunque altro obiettivo»[Weimer e Vining 1998, 267].

In altre parole, il problema diventa l’individuazione di parametricapaci di bilanciare la lucida coerenza del criterio di efficienza. Questaimpostazione, strettamente collegata al lavoro di ricerca condotto dallaBrookings Institution negli anni ’70, trova la migliore sintesi nel titolodi un testo famoso: Equality and Efficiency: The Big Tradeoff, scrittoda Arthur Okun nel 1975.

Quando si passa a stabilire quale ampiezza debba avere il criterioredistributivo, importanti indicazioni sono fornite dalla distinzione trauguaglianza delle opportunità e uguaglianza degli esiti. La prima ri-guarda le condizioni di partenza, e può essere definita come la paritàdavanti a quei beni, quali l’istruzione, che possono determinare vantag-gi irreversibili già alla linea di partenza nella corsa della vita (equità exante). La seconda riguarda le condizioni di arrivo, e comporta l’effetti-va redistribuzione dei costi e dei benefici, attraverso attivi interventi suilivelli di reddito o attraverso «tariffe sociali» per l’accesso a beni nonessenziali, quali i trasporti o i servizi telefonici (equità ex post).

Nelle società a tradizione liberaldemocratica, l’ampio consensointorno al primo criterio può essere considerato come un dato di fatto,mentre molti dubbi sorgono a proposito del secondo [Heineman et al.1990, 77].

Alla base della diffusa accettazione dell’equità ex ante sta il vasto

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riconoscimento del fatto che i meriti personali sono solo una dellecomponenti del successo di una persona. Altri due fattori, completa-mente al di fuori delle sue capacità di controllo, entrano in gioco. Ilprimo riguarda ciò che l’individuo riceve dal contesto sociale in cui gliè dato di nascere, sotto forma di motivazioni e di sostegni, morali emateriali. Il secondo riguarda l’intervento ineliminabile della sorte, chepuò ridurre all’impotenza anche il carattere più fermo. Tra le finalitàdelle politiche pubbliche deve pertanto rientrare la protezione deiperdenti, soprattutto quando questi non hanno voce, perché ancorabambini, o perché malati, o perché, come nel caso delle generazionifuture, privi di rappresentanza politica [Culyer 1980].

Quando tuttavia si passa dai criteri generali alla loro applicazione,il consenso si riduce notevolmente. In linea di principio, è comune-mente accettata la regola per cui nessun gruppo deve essere esclusodal godimento di un livello minimo di benefici, e nessuno deve esserecostretto a sopportare costi che eccedano una soglia massima. Ma suimodi per garantire tecnicamente il rispetto di queste condizioni, ilconfronto è molto vivace. Mentre alcuni ricercatori tendono a privile-giare la soddisfazione dei bisogni di base, quali l’istruzione, l’abitazio-ne, l’alimentazione, la salute, altri preferiscono puntare su programmiche garantiscano il godimento di un reddito minimo, o che assicurinouguali opportunità di lavoro.

Rispetto a questo dibattito, occorre notare che quello appena rias-sunto non è il solo approccio al problema della giustizia distributivaconsentito all’interno del paradigma razionale: lo dimostrano le riletturedel contratto sociale che utilizzano la teoria dei giochi [Axelrod 1984],o che ipotizzano la scelta razionale in una virtuale «posizione originaria»[Rawls 1972]. Ad esse faremo riferimento nel sesto capitolo.

Tirare le somme

Arrivati in fondo alla valutazione ex ante, si pone il problema diche cosa fare dei risultati: «Infatti questo è uno dei classici dilemmidell’analisi razionale: in quale misura, e su quali basi si devono aggre-gare i dati rilevanti per la decisione?» [Carley 1980, 51].

Il problema non è tanto computazionale, ma riguarda piuttosto lalegittimazione dell’analista a spingersi fino all’indicazione dell’alterna-tiva migliore, e a sostenere i risultati del suo lavoro anche davanti airappresentanti delle istituzioni politiche [Garson 1986, 19]. L’ARP sirivela piuttosto reticente su questo passaggio, limitandosi a registrareuna serie di possibili tensioni tra due logiche divergenti:

La razionalità economica e la razionalità politica sono spesso in conflitto,e la natura di questo conflitto influisce talmente sulla pratica della policyanalysis da non poter essere ignorata [Behn 1982, 85].

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L’analisi benefici-costi è la metodologia che persegue l’efficienza e che hal’effetto di limitare le stravaganze del processo politico [Stokey e Zeckhauser1978, 151].

Si consideri quel che abbiamo appena scritto sulla difficoltà dicogliere e di giustificare, attraverso il criterio di efficienza, gli effettidistributivi sulle diverse fasce della popolazione. Naturalmente la sen-sibilità del politico è molto reattiva rispetto alla questione: a parità diefficienza aggregata, chi paga i costi e chi gode dei benefici?

Per l’analista, sul piano deontologico, si pone l’interrogativo del-l’atteggiamento da tenere se il policy maker ribalta le sue indicazioni,scegliendo soluzioni vistosamente inadeguate. Per il policy maker, sipone la questione di come contestare conclusioni magari corrette sulpiano formale, ma ingestibili a livello politico.

Per ovviare a questo secondo problema, sono stati condotti alcunitentativi per introdurre il concetto di fattibilità politica accanto ai criteritradizionali della policy analysis. E tuttavia, all’interno del paradigmadella ARP, questa linea di ricerca è destinata a non portare molto lonta-no. Infatti separare ciò che è politicamente fattibile da ciò che non lo èrichiede l’esercizio di una discrezionalità molto difficile da giustificare intermini normativi, e ancor più difficile da sottrarre al politico sul pianopratico. Come vedremo alla fine del quarto capitolo, il tema del soste-gno dell’analista alle politiche trova una collocazione ben più significa-tiva in contesti analitici ormai lontani dai dilemmi che caratterizzano ilpiano a, e che per certi versi riportano la disciplina all’impostazione checinquant’anni fa le ha impresso Lasswell, con la sua originale riflessionesul rapporto tra sapere e potere [Lasswell 1951; Majone 1975].

4.5. Il monitoraggio e la valutazione «in itinere»

Il monitoraggio è la verifica continua dell’implementazione di unapolitica, con riferimento alle risorse assorbite, ai processi avviati, aiprodotti forniti, ai risultati ottenuti, al loro impatto sulla società ingenerale. Sulla base di questi dati, si può compiere una valutazione intempo reale di come stanno andando le cose, si può stabilire l’affida-bilità delle scelte e si possono individuare le responsabilità dei successie dei fallimenti58.

58 Operations Evaluation Department, World Bank, Designing Project Mon-itoring and Evaluation , in «Lessons and Practices» , n. 8, 1996; http://wbln0018.worldbank.org/oed/oeddoclib.ns f/812f643a83d93ba85256808006a0024/770fd50eae49c6cd852567f5005d80c7?OpenDocumen t (giugno 2000).

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 157

4.5.1. Obiettivi

Una volta che le politiche pubbliche sono state decise, compitodella ARP è accompagnare la loro traduzione in atti concreti, in mododa minimizzare il rischio di errori e di deviazioni dal modello origina-rio. Infatti è in questo passaggio che le ipotesi e i criteri che giustifica-no un programma sono sottoposti alla dura verifica dei fatti.

Per sottolineare l’autonoma rilevanza di questa fase, gli studiosi dipolitiche pubbliche hanno adottato un termine che distacca anche nellessico il loro approccio dal modo in cui la scienza politica o il dirittodefiniscono la messa in opera dei programmi, e preferiscono parlarenon di esecuzione, o attuazione, o amministrazione, ma piuttosto diimplementazione. Nell’accezione assunta da quest’ultimo vocabolonelle centinaia di studi pubblicati negli ultimi trent’anni, sono implici-te due idee, tra loro interdipendenti. Innanzi tutto, il termine di riferi-mento non è la lettera del testo vincolante, ma gli obiettivi rispetto allasituazione critica che ha determinato l’intervento, siano questi costitui-ti dalla riduzione degli abbandoni scolastici o dall’aumento dei visita-tori nei musei. In secondo luogo, la realizzazione di una politica pub-blica è vista come qualcosa di ben più complesso della meccanica se-quenza di una serie di atti dovuti: l’impegno e l’accordo richiesto agliimplementatori e ai destinatari costituiscono pertanto variabili decisiveper la realizzazione degli obiettivi. L’implementazione può essere dun-que definita come «il nesso cruciale tra la formulazione di una politicapubblica e gli effetti da essa generati» [Wittrock e De Leon 1986, 48].In termini più coloriti, «Se l’adozione di una politica è il corteggia-mento, l’implementazione è il matrimonio» [Weimer e Vining 1998,397].

In questa fase, l’intervento dell’analista ha un duplice obiettivo:da un lato, prevedere il più dettagliatamente possibile quali sono i re-quisiti per una corretta messa in opera, in modo da evitare che unprogetto sia avviato senza le risorse organizzative, umane, finanziarieindispensabili per la sua realizzazione; dall’altro, monitorare la con-creta attuazione della politica, in modo da rilevare immediatamenteeventuali carenze o errori di progettazione, per intervenire subito ecorreggerli.

Anticipazione dei problemi e monitoraggio sono due attività stret-tamente connesse. Un bravo analista può fare tesoro del suo personalebagaglio di casi per individuare gran parte delle difficoltà semplice-mente chiudendo gli occhi e procedendo per analogie. Infatti moltidegli errori che si verificano durante la messa in opera delle politichepubbliche hanno la caratteristica di essere facilmente prevedibili conun minimo sforzo intellettuale. Quando si approvano sanatorie per ipermessi di soggiorno dei cittadini extracomunitari, se non si organiz-zano centri di informazione e di prenotazione si assiste all’assalto allequesture. Quando si modifica il sistema di pagamento dei ticket sani-

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tari, occorre predisporre prima i moduli e istruire il personale aglisportelli. Quando si avvia la raccolta differenziata dei rifiuti, occorredare informazioni esaurienti alle famiglie e ai portinai. Eppure, questesemplici evidenze tendono a essere regolarmente ignorate. Compitodell’analista dell’implementazione è la compilazione di liste per il con-trollo delle cose da fare, in modo da evitare questi prevedibili errori.

Ma questo intervento di tipo preventivo deve essere integrato conla verifica sul campo dei problemi posti quotidianamente dalla concre-ta realizzazione di una politica pubblica. Monitorare è come distribui-re sensori capaci di captare le variazioni del livello della corrente lun-go il corso di un fiume. Innanzi tutto, un’attenta rilevazione delle di-namiche che si instaurano può dare risposta agli interrogativi rimastiaperti durante la fase di definizione del problema. Spesso solo la veri-fica sul campo permette di eliminare zone d’ombra e margini di incer-tezza, perché solo provando è possibile accertare se, ad esempio, nellescuole elementari i vantaggi del pluralismo didattico, con la rotazionedi più insegnanti in una classe, sono davvero superiori ai costi per illoro coordinamento.

Esistono inoltre casi in cui la realtà si incarica di sovvertire anchei modelli di intervento più documentati e meglio definiti. Per moltianni, gli acquedotti del milanese hanno dovuto fronteggiare quella chesembrava una tendenza irreversibile all’abbassamento della falda ac-quifera. Per una serie di circostanze che vanno dalla contrazione delnumero degli abitanti e delle attività produttive nelle aree urbane, allascomparsa di zone agricole irrigue nella cintura suburbana, ora il pro-blema si è capovolto, e molte stazioni della metropolitana rischianol’allagamento. Inoltre, la fantasia dei policy makers e dei policy takers èmolto abile nel trasformare in risorse quelli che dovrebbero essere vin-coli, come dimostra ad esempio il florido commercio delle quote latteimposte dall’Unione europea59.

Per tutti questi motivi, seguire in tempo reale l’evoluzione di unapolitica pubblica permette di disporre di una serie preziosa di dati, apatto che l’osservatore sia in grado di organizzarli correttamente.

4.5.2. Rilevanza

La precisa consapevolezza della distanza che separa il dire dal fare,soprattutto quando a essere in gioco sono le politiche pubbliche, ir-rompe nella scienza politica americana alla fine degli anni ’60, con la

59 Un esempio, ben noto al mondo accademico, è costituito dal «riciclaggio» diuna norma introdotta in circostanze eccezionali nell’immediato dopoguerra, che impo-neva il deposito in prefettura di una copia del materiale destinato alla stampa. Oggiquesto vincolo è sfruttato per conferire la dignità di «opera a stampa» anche a un dat-tiloscritto, mediante il timbro ottenuto dalla prefettura.

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compilazione dei primi fallimentari bilanci dei provvedimenti collegatialle grandi riforme del periodo Kennedy-Johnson. Concentrare l’atten-zione su quello che effettivamente succede, una volta che una propo-sta è stata approvata dagli organi competenti, ha avuto fin dall’inizioeffetti dirompenti sulle tradizionali interpretazioni del sistema politico,le quali, di norma, attribuiscono notevole importanza ai conflitti cheprecedono la fase di approvazione, e danno per scontato che poi «gliuffici» si facciano carico di tradurre fedelmente le parole in atti con-creti. Questo assunto è stato radicalmente demolito dagli studi pionie-ristici di Martha Derthick [1972] e di Pressman e Wildavsky [1973].Benché diverse per metodologia, queste due ricerche sono accomunatedalla constatazione dell’enorme forbice che tende ad aprirsi tra il man-dato che gli implementatori ricevono e i risultati effettivi del loro in-tervento.

Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, questo dato di fattoè divenuto il punto di partenza per una serie di riflessioni e di propo-ste diametralmente opposte. Infatti le diverse risposte alla questione dicome giudicare la sfasatura che si verifica tra quello che i programmipromettono e quello che effettivamente accade in seguito alla loroapprovazione, rappresentano uno degli snodi più importanti nell’attua-le articolazione dei policy studies.

Tra le diverse teorie sui processi di implementazione, è l’approcciotop-down, «dall’alto verso il basso» [Van Meter e Van Horn 1975;Mazmanian e Sabatier 1981] a fornire lo schema più coerente conl’approccio razionale. Infatti, come abbiamo notato all’inizio del para-grafo, la scansione in fasi che stiamo seguendo è sia una procedura lo-gica a guida dell’analisi, sia la rappresentazione di una precisa gerar-chia tra i vari stadi del policy making, il cui rispetto è fondamentaleper ottenere politiche corrette. Il modello top-down fa suo questo as-sunto e, in stretta continuità con le tradizionali teorie del public mana-gement, assegna un netto primato alla fase di selezione degli obiettivi,in genere compiuta nell’arena politica. All’interno della ARP, infatti, ilproblema fondamentale dell’implementazione è la fedeltà al progetto:essendo questo costruito sulla base di criteri scientifici che gli permet-tono di incorporare con precisione le variabili significative, lo scosta-mento è sinonimo di fallimento, come avviene per la costruzione di unponte che ignori il disegno dell’ingegnere.

Nel caso delle politiche pubbliche, una corretta implementazioneequivale alla diretta e scrupolosa traduzione sul piano pratico delmandato ricevuto dalle sedi istituzionali legittimamente dotate di pote-ri decisionali.

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4.5.3. Strumenti

Obiettivo dell’analisi dell’implementazione60 è anticipare il piùpossibile i problemi pratici che si presentano durante la fase dellamessa in opera e monitorare il suo andamento, per evitare che si aprauna forbice tra le intenzioni del decisore e le effettive realizzazionidell’amministrazione.

L’intervento prescrittivo di impronta razionale in questa fase si ar-ticola su tre diversi livelli: analisi dell’input, del processo, degli esiti.Questo schema si adatta a molte attività umane, ben più banali del pol-icy making. Se ad esempio decidiamo di fare una torta, per prima cosadobbiamo verificare se disponiamo di tutto quel che serve: ingredienti,utensili, forno. Poi, dobbiamo seguire le procedure più appropriate, ingenere descritte in una ricetta. Quando la torta è fatta, cerchiamo difarci un’idea di come è riuscita. Ma quando dalle torte si passa alle po-litiche pubbliche, i problemi metodologici si fanno più complessi.

L’analisi dell’input. Sulla base del contributo delle managementsciences, con questo strumento sono monitorate e valutate le risorseimmesse nel processo, cioè gli input forniti all’avvio dell’attuazione61:risorse normative, umane, organizzative, finanziarie. Se non si fanno lenozze con i fichi secchi, difficilmente si realizzano gli obiettivi dellepolitiche senza un’adeguata dotazione di risorse.

La più rilevante risorsa che le istituzioni pubbliche possono mette-re in campo è la potestà di emanare norme vincolanti per l’intera col-lettività attraverso leggi, accordi, regolamenti, sentenze. Indipendente-mente dalla validità dei contenuti, questa leva può essere utilizzata piùo meno bene. Se riconsiderati con l’attenzione rivolta alle probabilitàdi una corretta attuazione, molti provvedimenti che sulla carta si pre-sentano ben congegnati rivelano una sconcertante fragilità. L’approc-cio top-down sottolinea l’importanza di una chiara definizione degliobiettivi e delle tappe per realizzarli, per evitare ambiguità, fraintendi-menti, mercanteggiamenti [Van Meter e Van Horn 1975]. In altreparole, il mandato trasmesso agli implementatori deve delineare inmodo chiaro i contorni del disegno di policy e deve distribuire compitie incentivi per la sua realizzazione.

In questa prospettiva, anche gli aspetti formali acquistano moltarilevanza. Come è tristemente noto ai cittadini italiani [Ainis 1997],testi complicati, lunghi, fitti di rinvii ad altri testi, con termini di diffi-

60 Il termine implementation analysis è in genere associato a finalità prescrittive,in contrasto con l’implementation research, che si propone finalità descrittive e/o espli-cative.

61 Naturalmente questo tipo di input non deve essere confuso con quello delleteorie sistemiche del processo politico (political), costituito dalle varie domande di in-tervento rivolte alle istituzioni.

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cile interpretazione, hanno elevate probabilità di contenere normecontraddittorie, di ingenerare confusione e di paralizzare le iniziative.Ma anche l’estremo opposto del mandato-quadro, basato sulla defini-zione di pochi obiettivi essenziali, può suscitare tra gli implementatoriil timore di una responsabilità eccessiva e portare alla paralisi.

Tuttavia l’autorità legale da sola non è sufficiente: «Le politichenon si implementano da sole. Nel verificare le chances per un’imple-mentazione di successo, occorre considerare le motivazioni e le risorsedi coloro che gestiranno l’implementazione. Inoltre occorre cercare dimobilitare i potenziali sostenitori della policy, che possono avere lafunzione di fixer» [Weimer e Vining 1998, 401]. Il fixer interviene nelprocesso di assemblaggio dei vari pezzi di cui si compone l’implemen-tazione di una politica, per compensarne le carenze, controllarne ilfunzionamento, incastrare le diverse parti [Bardach 1979]. Per quantoriguarda le risorse umane, l’approccio top-down tende a evidenziarel’importanza della loro preparazione tecnica e della sintonia culturalecon gli obiettivi della politica pubblica [Van Meter e Van Horn 1975].Infatti la presenza di conflitti radicali circa l’opportunità di un proget-to è considerata un elemento che rende meno probabile la sua pun-tuale implementazione, dato che molti attori hanno il potere di blocca-re una politica semplicemente non facendo niente, non lanciando se-gnali, non reagendo alle difficoltà.

La riflessione sui requisiti organizzativi per una corretta implemen-tazione costituisce uno dei punti critici dell’approccio top-down. Diper sé, infatti, una rigida applicazione di questo schema porterebbe asottolineare l’importanza di elementi quali la precisa definizione deicompiti e la chiarezza della piramide gerarchica. La netta scansionedel processo in base alle categorie politica/amministrazione, o decisio-ne/esecuzione, o policy making/implementazione62, stabilisce un ordinee delimita precisi confini e competenze. Al primo livello spetta l’indi-viduazione dei fini, la loro esplicitazione in termini non ambigui, laloro formale approvazione attraverso le procedure legali, il reperimen-to di risorse adeguate, la designazione degli implementatori. Ma se siconcede che al secondo livello spetti la piena autonomia nella sceltadelle strategie organizzative più adatte, allora le teorie managerialicontemporanee inducono anche a valorizzare il punto di vista degliaddetti, la loro interpretazione degli obiettivi, il loro senso di respon-sabilità, la loro soddisfazione [Parsons 1995, 553]. Quando questi gra-di di libertà non sono incapsulati in contesti di mercato, come avvieneper gli uffici di un’azienda, ma sono riconosciuti agli implementatori dipolitiche pubbliche, le conseguenze sono molto serie.

In effetti, le prime ricerche empiriche condotte con il modello top-

62 Per gli autori che per primi hanno adottato questa prospettiva, l’implementa-zione inizia dove finisce il policy making.

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down [Mazmanian e Sabatier 1981; Hood 1976] hanno comunque rico-nosciuto l’irrealismo e l’inutilità di un approccio formalistico e gerarchi-co ai problemi dell’amministrazione [Mény e Thoenig 1989]. Questaammissione di fatto prelude a quel completo ribaltamento di prospettivaattuato dal modello bottom-up, di cui ci occuperemo nel prossimo capi-tolo. Ma anche all’interno della ARP il ruolo del manager pubblico nellafase dell’implementazione non è più definito con riferimento alla catenadel comando, bensì alla qualità delle risorse organizzative che riesce amobilitare, immettendo nella cultura della sua amministrazione la consa-pevolezza della missione che essa è chiamata a compiere.

L’analisi del processo. Quando una politica viene implementata, escedagli uffici e va per il mondo. In altre parole, viene processata in reti direlazioni molto complesse, in gran parte al di fuori delle possibilità dicontrollo di una singola amministrazione, sicché il contributo delle man-agement sciences richiede una sostanziale integrazione.

Un elemento importante per prevedere e valutare gli esiti dell’im-plementazione è fornito dall’analisi dei processi intrapresi per tradurrein beni, servizi, o controlli le decisioni degli organi politici. Anche lapolitica meno complessa richiede una serie di passaggi quali:

• l’attivazione degli implementatori, che sono tenuti a studiare lenorme, confrontare le diverse interpretazioni, stabilire un piano diazione;

• la creazione di strutture amministrative ad hoc, quali agenzie,task force, commissioni, o, quanto meno, l’attivazione e lo spostamento dipersonale;

• l’intreccio di una rete di comunicazione e di cooperazione tradiversi comparti dell’amministrazione, e tra quest’ultima e le organiz-zazioni private;

• l’informazione dei destinatari per quanto riguarda i loro nuovidiritti e doveri, con campagne d’opinione e appositi sportelli;

• l’effettivo «recapito» dei beni e dei servizi, o l’effettiva applica-zione delle norme ai casi singoli.

In questa complessa serie di modificazioni, i problemi più seri ri-guardano di norma il coordinamento e la comunicazione tra uffici diver-si, il consolidamento di nuove routines e la condivisione di un orienta-mento simpatetico con gli obiettivi della politica pubblica.

Per quanto riguarda il coordinamento, la conoscenza e la collabora-zione più o meno forzate tra persone provenienti da culture organizza-tive diverse, con diverse priorità e diverse esperienze dei problemi inquestione, costituiscono la più grave fonte di difficoltà. Per ritornareall’esempio della torta, chi ha provato a cucinarne una in tre, in generenon ripete l’esperienza. Ma nel caso delle politiche pubbliche, la divisio-ne del lavoro, e quindi l’esigenza di coordinamento, sono inevitabili.Come dimostrano Pressman e Wildavsky, molti programmi pubblici ri-chiedono il «concerto», il coordinamento o la decisione congiunta tra

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un numero molto elevato di attori: ministeri competenti, enti locali, as-sociazioni di categoria: «Con l’andare del tempo, [si ha] una crescitageometrica delle interdipendenze, dato che ogni negoziazione coinvolgeun certo numero di partecipanti in decisioni le cui conseguenze si rami-ficano nel tempo» [Pressman e Wildavsky 1973, 93]. Questo significache ogni dissenso è destinato a ripercuotersi sulle altre sedi decisionali,con un effetto a valanga che allontana indefinitamente la stipula di tuttigli accordi necessari per la puntuale implementazione. Pressman eWildavsky sottolineano più volte come non siano necessari profondicontrasti per generare risultati di questo tipo: per avviarsi sulla stradadelle paralisi incrociate possono bastare un basso numero di attori coin-volti e una modesta lista di questioni da mettere sul tavolo.

Anche la modifica delle routines va accuratamente monitorata,perché persino gli interventi più semplici comportano la familiarizza-zione con nuovi moduli, nuove etichette, nuovi numeri di telefononelle agende, nuovi programmi sui computer. La consapevolezza delledifficoltà implicite in questi microcambiamenti dovrebbe indurre l’ana-lista a sorvegliarli con attenzione [Mazmanian e Sabatier 1983].

Infine, la condivisione dei fini di una politica pubblica da parte delpersonale addetto alla sua implementazione è considerata da tutti iricercatori un fattore cruciale per il suo successo [Van Meter e VanHorn 1975]. Nessuno di noi va volentieri a lavorare per un obiettivoche considera sbagliato: e, rispetto ai destinatari, l’espressione sconso-lata dell’impiegato dietro lo sportello è più eloquente di mille dichia-razioni ufficiali.

L’analisi degli esiti. Una delle più importanti acquisizioni dell’ana-lisi dell’implementazione è la distinzione fra tre diversi modi di defini-re l’esito di una politica pubblica: come prodotto (output)63, come ri-sultato (outcome) e come impatto (impact).

Richiamiamo per un attimo l’esempio della torta. Per sapere comeè andata, possiamo usare criteri diversi:

• Considerarla come output, cioè come prodotto del processo: èlievitata bene? è cotta al punto giusto?

• Considerarla come risultato: se la si mangia, è buona? O, me-glio, ha incontrato il gusto di coloro a cui è destinata?

• Considerarla in relazione all’impatto: ha risolto il problema peril quale era stata pensata? Se doveva servire per la merenda dei bam-bini, può darsi che il protrarsi della partita di pallone abbia tolto ogniloro interesse per l’assaggio. Se doveva essere il coronamento di uninvito a cena per gli amici, i loro scrupoli dietetici possono condannar-la a giacere in un angolo della dispensa.

63 O realizzazioni, nella terminologia attualmente adottata dai documenti di lavo- rodella Commissione europea.

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Ciascuno di questi criteri di valutazione ha qualcosa da insegnaresull’esito dell’operazione torta.

Tornando alle politiche pubbliche, gli output sono i prodotti del-l’attività dell’amministrazione: i beni, i servizi, i pagamenti, i prelievifinanziari, le norme e le procedure che sono messi in campo per effet-to dell’approvazione di una politica pubblica: «Gli output di un pro-gramma sono il prodotto fornito dalle organizzazioni del settore pub-blico che mobilitano tre risorse principali: leggi, soldi e dipendentipubblici [...]. Gli output sono quel che la gente comune percepiscecome palpabile evidenza di quello che il governo sta facendo» [Rose1989, 13; v. anche Hogwood e Peters 1983; Dunn 1981, 280].

Gli outcome sono gli effettivi risultati sperimentati dai destinatariin diretta conseguenza delle politiche adottate. A fare la differenza ri-spetto agli output, è il fatto che qui entrano in gioco anche i contesti,le preferenze degli utenti, l’incastro con le altre politiche. Si pensi alfatto che alcuni destinatari possono disporre di risorse tali da renderefacile l’esercizio di un loro potere di veto, mentre altri, al contrario,possono mancare delle risorse minime per consentire «l’aggancio» daparte delle amministrazioni pubbliche, perché analfabeti o privi diresidenza stabile. Il giudizio sui risultati richiede di verificare se l’azio-ne dei policy makers riesce a incontrare le esigenze dei policy takers, astimolare la loro collaborazione, ad adattarsi alle loro reali condizionie alla diversità delle loro domande, perché solo in caso di risposte af-fermative il recapito della politica è davvero riuscito.

Quando invece parliamo di impatto, facciamo riferimento al pro-blema che sta alla base di una politica pubblica e alle finalità generaliche la caratterizzano: la riduzione di un disagio sociale, quale la tossi-codipendenza; il contenimento di un fenomeno fisico, quale l’abbassa-mento della falda acquifera; la promozione di un bene pubblico, qualela difesa del paesaggio. Rispetto ai concetti precedenti, quest’ultimo haun’ambizione maggiore, perché costringe a interrogarsi sul significatoultimo di ciò che si sta facendo. Per dare una risposta onesta, occorreallora tenere conto anche di dinamiche o di eventi che sono al di fuoridella portata di controllo dei singoli policy makers, per gli effetti im-ponderabili o non modificabili di tendenze storiche, per le conseguen-ze non previste e non prevedibili, per le esternalità positive e negativeprodotte dal mercato o da altre politiche pubbliche, per l’influenza difattori comunque esogeni rispetto alla politica in questione.

Un esempio può servire a chiarire la diversità tra questi tre diversimodi di valutare l’esito di una politica pubblica. Per prepararsi allenevicate invernali, tre amministrazioni comunali di uguali dimensioni –A, B e C – adottano la stessa politica pubblica, e mettono in campogli stessi output: stessi spazzaneve, stesso numero di spalatori, stessiturni di uscita. Ma nella prima città, A, i residenti sono abituati a po-steggiare le loro auto in strada senza restrizioni, mentre nelle altre duecittà un rigoroso sistema di rimozione forzata e una politica di agevo-

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lazione in parcheggi pubblici hanno ridotto il numero delle auto po-steggiate nelle strade. Così, nella prima città gli spazzaneve si muovo-no con maggiore fatica e i cumuli di neve sono più ingombranti. Inquesta città, l’outcome sarà meno soddisfacente che negli altri duecentri, con le strade sgombre. Infatti quel che i destinatari sperimenta-no per effetto dell’intervento pubblico non è solo la pulizia delle stra-de, ma anche la congestione del traffico e l’ammasso di neve sulle autoin sosta. Un giorno, nella seconda città, B, un’eccezionale nevicata pa-ralizza gli stessi spazzaneve, rendendo nullo l’impatto delle scelte, pureoculate, adottate dall’amministrazione. In questo caso, dunque, l’inter-vento pubblico non riesce ad incidere sul problema che l’ha originato.Nel nostro esempio, è un evento naturale imprevedibile a vanificarel’azione dell’amministrazione. Ma lo stesso esito potrebbe essere pro-dotto da comportamenti anomali degli stessi cittadini, ad esempio dauno sciopero che blocchi i rifornimenti di carburante per gli spazzane-ve. Tre provvedimenti identici, tre diversi criteri di analisi dei risultati,tre diversi gradi di successo.

La distinzione tra prodotto, risultato e impatto è molto importanteperché induce le amministrazioni a superare criteri autoreferenzialinella valutazione, obbligandole al confronto con gli obiettivi ultimi delloro intervento: «Le organizzazioni che misurano i risultati della pro-pria attività – anche se non vincolano finanziamenti o remunerazioni atali risultati – scoprono che i dati che ottengono sono in grado di tra-sformarle» [Osborne e Gaebler 1992, 193 trad. it.]. In assenza di que-sta pressione, i responsabili dell’implementazione tendono a presentarecome indicatori del successo delle loro iniziative dati che in realtà cispiegano semplicemente che cosa hanno fatto: «Le misure di outputservono come polizza per la valutazione. Quando non si conoscono néi valutatori né i criteri di valutazione, le misure di output sono usateper documentare le prestazioni» [Benveniste 1977, 159]64. Eppure,l’output di per sé per la collettività è un segnale che è stato immessoun input, cioè che sono state assorbite risorse.

Si consideri ad esempio il problema della repressione della mafia:le cifre sui posti di blocco effettuati, sui processi avviati, sulle casermedei carabinieri costruite, sul numero di accertamenti bancari eseguiti ciforniscono sì un quadro di quello che l’autorità pubblica ha fatto inquesto settore, cioè dell’output della politica contro la criminalità or-ganizzata: ma di per sé non ci dicono nulla sulla loro effettiva capacitàdi ridurre la virulenza delle organizzazioni mafiose, cioè sul loro im-patto concreto.

Due esempi illustrano la forte tendenza delle amministrazioni apresentare i dati sul prodotto come dati sui risultati:

64 La numerazione delle pagine si riferisce al brano pubblicato in McGrew eWilson [1982].

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Nel 1999, il sindaco di Milano, a due anni dall’elezione, ha inviato a tuttii cittadini milanesi una lettera, avente per titolo: «I risultati della nostra am-ministrazione».

«Sicurezza: ogni giorno sulle strade ci sono mediamente 1.250 vigili urba-ni (prima erano 650). In 61 realtà urbane è stato inoltre istituito il servizio divigile di quartiere per un totale di circa 200 vigili65. I taxi notturni sono statidotati di sistemi di sicurezza satellitare.

Servizi sociali, solidarietà e anziani: nel ’98 sono stati spesi 261 miliardi,di cui 141,7 per gli anziani, e oltre 48 per i minori. 46 miliardi sono statispesi per l’accoglienza di extracomunitari».

Il 13 marzo 1999, sulla posta del «Corriere della Sera», il direttore allacomunicazione delle Poste Italiane S.p.A., così rispondeva a un lettore chelamentava un disservizio:

«Colgo l’occasione per segnalare alcune delle numerose iniziative adottateper migliorare la qualità dei servizi postali: stiamo introducendo nuovi mezzidi lavoro e un nuovo sistema premiante legato ai risultati conseguiti; stiamoriorganizzando la logistica dei servizi postali e abbiamo già bandito la garaeuropea per dotare gli addetti al recapito di nuovi veicoli (circa 40.000 tramotomezzi e automezzi). Entro la fine dell’anno sarà completata l’informatiz-zazione di tutti gli uffici postali; già oggi 3.000 uffici sono stati informatizzatie collegati in rete».

Una volta rimarcate queste ambiguità, occorre tuttavia aggiungereuna considerazione importante:

Nessuna misura è perfetta. Dato che la capacità di governare non è unascienza esatta, è impossibile individuare misure che riflettano perfettamente irisultati dell’attività amministrativa. Tutto quello che possiamo fare è cercaredi avvicinarci il più possibile alla realtà per approssimazione [Osborne eGaebler 1992, 428 trad. it.].

Un’avvertenza da tenere presente nell’allestimento di un sistema dimonitoraggio è il fatto che gli indicatori si deformano nel tempo, epertanto vanno cambiati spesso, come lo spazzolino da denti. Anchel’indice più fedele può essere vanificato con il tempo e con la pratica:e in questa abilità le amministrazioni dimostrano grande capacità diapprendimento, cioè di aggiramento dei controlli. La decisione dimodificare gli indicatori deve tuttavia considerare i costi del cambia-mento, cioè i tempi di adattamento alle nuove rilevazioni e la perditadella possibilità di confronti su ampie serie storiche.

65 È interessante notare che le ricerche stabiliscono solo una tenue relazione trail livello della vigilanza e il tasso di criminalità [Sherman 1983].

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L’ANALISI RAZIONALE DELLE POLITICHE 167

4.6. La valutazione «ex post»

4.6.1. Obiettivi

La valutazione ex post si basa sul confronto tra gli obiettivi delprogramma e gli effetti realmente prodotti, al fine di rivedere e miglio-rare la sua impostazione [C. Weiss 1972].

Come è evidente, questa verifica rappresenta una specie di provadel fuoco per la legittimità di una politica pubblica e per le assunzionicirca i nessi causa-effetto che ne hanno sostenuto l’impostazione. Dav-vero prevedendo sconti sulle ammende per quanti regolarizzano laposizione previdenziale dei loro collaboratori domestici si riduce l’areadel lavoro irregolare? Davvero i bambini imparano meglio quando lemaestre che li seguono sono quattro anziché una? Davvero l’attualesistema di agevolazioni finanziarie per gli studenti a basso reddito fa-cilita l’accesso alla laurea degli svantaggiati e meritevoli?

La risposta a queste domande si basa sul sistematico approfondi-mento e sulla rielaborazione dei dati complessivi relativi ai risultati eall’impatto, e sul loro confronto con quelli attesi in base alla valutazio-ne ex ante. L’obiettivo è formulare una teoria delle cause dei successio dei fallimenti, sulla cui base proporre il riaggiustamento del pro-gramma o, nel caso in cui ciò non sia possibile, la sua soppressione.

4.6.2. Rilevanza

All’interno dell’ARP, la valutazione ex post rappresenta la parteanaliticamente più dinamica e più sensibile ai cambiamenti che sonointervenuti fuori e dentro la disciplina. Sul fronte esterno, occorresottolineare che le grandi svolte nel modo di intendere l’interventopubblico hanno finito con il coinvolgere la valutazione, i suoi criteri, isuoi risultati. Così è stato quando, alla fine degli anni ’60, sono emersii primi dubbi sui vasti programmi di riforma sociale dell’era Kennedy-Johnson: «I ricercatori di politiche hanno dovuto inghiottire due ama-re pillole: carenza della metodologia e fallimento dei risultati. Gli as-sunti teorici che parevano così convincenti nei convegni accademici sirivelavano come basi inadeguate per costruire programmi di interventosociale efficaci» [deLeon 1988, 62].

Anche la svolta neoliberista impressa dalla presidenza Reagan è sta-ta sostenuta dal continuo ricorso alla valutazione per dimostrare glisprechi, le iniquità e le contraddizioni dell’intervento pubblico. Oggi, ilsuo linguaggio e i suoi risultati sono ormai sistematicamente inglobatinel processo di formazione del consenso, e le stesse autorità non si sot-traggono alla durezza delle sue conclusioni, come dimostra questo bra-no, sottoscritto da un presidente democratico: «Gli studi di valutazionenazionali condotti da gruppi indipendenti e dal ministero dell’Istruzione

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dimostrano che il Capitolo Primo66 e altri programmi pubblici per lascuola elementare e secondaria hanno avuto uno scarso impatto suiprogressi in campo scolastico dei cinque milioni di bambini cui eranodestinati, nonostante la spesa di dieci miliardi di dollari»67.

Ma la policy evaluation si è rivelata anche molto sensibile agli slit-tamenti di paradigma che hanno coinvolto lo studio delle politiche nelsuo complesso [Radaelli e Dente 1995; Stame 1998]. È infatti proprioquesta la parte che si stacca per prima dall’ortodossia della ARP permetterne in discussione gli assunti fondamentali: l’idea di un giudiziotecnico tanto più autorevole quanto più esterno alle dinamiche tra idiversi interessi e le diverse visioni dei problemi; la rappresentazionedel processo di policy come sviluppo lineare dai problemi alle soluzio-ni; la netta separazione tra individuazione dei fini e selezione dei mez-zi; il ricorso privilegiato a tecniche quantitative.

L’ambito della valutazione è il più vulnerabile a una riflessionecritica sullo spessore scientifico e politico della ARP perché approfon-dire i limiti di una politica pubblica significa immergersi in una rete dinessi causa-effetto che tende a espandersi all’infinito. Tirare la riga adun certo punto, escludere alcune cause e includerne altre, è un’opera-zione con molte implicazioni teoriche, politiche, etiche. La policy eval-uation di seconda generazione nasce dalla constatazione che le premes-se analitiche della ARP tradizionale non forniscono elementi per con-frontarsi con l’indeterminatezza dei dati e l’arbitrarietà dei criteri, in-site in ogni verifica della sfasatura tra quello che una politica avrebbedovuto essere in teoria e quello che è stata realmente.

Anche rimanendo all’interno dell’impostazione ortodossa, il pro-blema della valutazione ex post è quello della generalizzabilità delleconclusioni, perché in un contesto non genuinamente sperimentale èdifficile attribuire alla variabile indipendente – la politica attuata – letrasformazioni verificatesi.

4.6.3. Strumenti

In linea di massima, questo tipo di analisi dovrebbe essere avviataverso la fine dell’arco temporale di riferimento, esplicitato al momentodell’analisi costi-benefici.

Nella maggior parte dei casi, tutti i criteri utilizzati per la valuta-zione ex ante – efficienza, efficacia, equità – possono essere impiegati,con i necessari adattamenti, anche per la valutazione ex post.

66 Il programma federale che prevedeva di concentrare consistenti aiuti economi-ci nei distretti scolastici con il maggiore numero di alunni con difficoltà di apprendi-mento.

67 Dalla presentazione del presidente che accompagna il disegno di legge per lafinanziaria 1995.

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Il grado di economicità. Nella fase di selezione delle alternative, ilgrado di efficienza di una politica pubblica costituisce il criterio digiudizio centrale. A questo punto del ciclo di vita di una politica pub-blica, è possibile valutare se davvero le grandezze sulla cui base è statacondotta l’ACB sono state quantificate in modo realistico. Nel caso incui una valutazione complessiva in termini monetari urtasse contro ledifficoltà che abbiamo appena esaminato, alcune tecniche per il calco-lo dei costi effettivi per unità di prodotto all’interno delle varie ammi-nistrazioni possono fornire utili indicazioni per individuare chi ha«splafonato», e di quanto.

Il grado di conformità al mandato ricevuto. Questa verifica ha unaqualche parentela con la valutazione delle prestazioni o della produt-tività dei funzionari pubblici, con la loro capacità di trasformarel’input in output, anche se, come abbiamo notato più volte, i giudiziche si ottengono quando si prende come riferimento una politica pub-blica possono divergere da quelli che hanno come riferimento le pra-tiche amministrative. A questo punto tornano preziosi i dati raccolticon il monitoraggio dei prodotti impostato nella fase precedente.

La tipica giustificazione, con cui l’analista deve fare i conti quandoverifica questo aspetto, rinvia all’inadeguatezza delle risorse, regolar-mente addotta dai responsabili per spiegare ritardi e inadempienze.Per valutare la fondatezza di questa motivazione, che a volte sconfinain considerazioni sull’imperfezione della condizione umana, per l’ana-lista è importante evidenziare anche il sollievo di cui possono avergoduto quegli stessi settori dell’amministrazione, o altri, per effetto diuna determinata politica pubblica.

La soddisfazione dei destinatari. A questo punto dell’analisi arrivafinalmente il momento di capire il giudizio espresso dai destinatari.L’accertamento può utilizzare parametri oggettivi (numero dei fre-quentatori di un servizio o ammontare delle loro richieste), oppurepuò affidarsi al grado di soddisfazione espresso dagli interessati, adesempio attraverso interviste. I dati raccolti via via, monitorandol’outcome, possono essere integrati da valutazioni più distanziate e piùcomplessive. Occorre comunque sottolineare che il profilo culturale esociale dei destinatari può avere un’influenza determinante nel condi-zionare la loro disponibilità a manifestare un giudizio. Come abbiamovisto, talvolta si tratta di gruppi sociali privi delle risorse minime peressere toccati dall’intervento pubblico, si tratti di una dimora fissa o diuna lingua condivisa. Talaltra, i destinatari evitano di farsi «aggancia-re» perché alla loro condizione è associato uno stigma sociale, comenel caso dei tossicodipendenti. I contesti culturali possono accentuareo neutralizzare certe sensibilità: in Gran Bretagna molti anziani rinun-ciano a chiedere sussidi, cui pure avrebbero diritto, per non apparire«poveri» agli occhi della comunità in cui vivono, mentre per molti ita-

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liani l’inserimento negli elenchi degli assistiti è considerato una con-quista, e persino la condizione di ex carcerato può diventare uno sta-tus sociale ambito e ostentato.

Osborne e Gaebler [1992, 229 trad. it.] riportano decine di metodiper «ascoltare la voce del cliente»: sondaggi; contatti diretti; comitati diutenti; focus groups; interviste; posta elettronica; test di marketing; ispe-zioni; ombudsman68; registrazione delle telefonate di protesta e dellerisposte fornite; numeri verdi; cassette e moduli per i suggerimenti...

L’accertamento dell’impatto. Come abbiamo già sottolineato, questotipo di giudizio è tanto più attendibile, quanto più riesce a isolare glieffetti attribuibili alla politica, rispetto a quelli prodotti da altri eventiconcomitanti. Così, ad esempio, una politica per il contenimento deiconsumi energetici deve essere giudicata alla luce delle condizioni cli-matiche che l’hanno accompagnata. Se in questo caso lo scorporo èrelativamente semplice, quando si tratta di valutare l’impatto di unprovvedimento per agevolare l’occupazione, depurandolo dagli effettidella congiuntura economica, il problema diventa più complicato e ri-chiede la costruzione di sofisticati modelli. Per rimanere al caso delleposte, un piano per tagliare i tempi di consegna della corrispondenza,oltre che produrre output, cioè installazione di nuove attrezzature eriorganizzazioni interne, potrebbe anche raggiungere risultati docu-mentabili, con tempi di recapito sensibilmente accorciati e grande sod-disfazione dei clienti. Ma se queste innovazioni avvengono in un perio-do in cui il fax prima, e la posta elettronica poi, sottraggono alle posteconsistenti flussi nella circolazione della corrispondenza, l’impatto delprogramma può essere complessivamente deludente.

4.7. La chiusura del ciclo

La valutazione ex post si colloca al punto di snodo fra tre possibiliscelte:

• la prosecuzione della politica intrapresa, giudicata tutto somma- tosoddisfacente e bisognosa solo di aggiustamenti tecnici;

• la sua consistente modifica, con il ritorno all’inizio dello stessopercorso che abbiamo seguito, a partire da una diversa strutturazionedel problema, capace di inglobare le difficoltà emerse nella fase diimplementazione;

• la sua conclusione, perché gli obiettivi hanno perduto rilevanza,oppure sono stati conseguiti, o, all’opposto, si sono rivelati irraggiun-gibili anche con una profonda revisione dell’intervento.

68 Questa figura, istituita la prima volta in Svezia, ha la funzione di farsi portavo-ce presso un’amministrazione delle esigenze e dei diritti degli utenti che si ritengonovittime di disservizi.

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La seconda scelta è la più probabile, per la necessità di riaggiusta-re continuamente politiche complesse nel settore della previdenza,dell’istruzione, della sanità.

La terza via, quella della soppressione della politica, è la piùimprobabile. Come vedremo a proposito dell’immortalità delle isti-tuzioni [Kaufman 1976], le politiche e le strutture ad esse dedicatetendono a sopravvivere ai problemi che le avevano giustificate: isti-tuti per gli orfani di guerra, consorzi per lo sviluppo di zone terre-motate o per la costruzione di canali navigabili continuano a pagaredipendenti e dirigenti ben oltre l’esaurimento della loro ragion d’es-sere.

E tuttavia la policy evaluation ha avuto negli ultimi anni un ruolofondamentale nel far emergere questi casi e nell’affinare le armi a di-sposizione dei tagliatori di «rami secchi»: come dimostra l’esperienzadei governi neoliberisti inglesi e americani degli anni ’80, chiudere unprogramma è possibile, anche nel settore pubblico, soprattutto quan-do si dispone di una rete di ricercatori capaci di valorizzare l’utilità ditale scelta [Thompson 1990].

Poiché le preoccupazioni occupazionali del personale adibito all’at-tuazione di una politica pubblica, e il suo attaccamento alle routinesche si sono venute consolidando, rappresentano potenti ostacoli al-l’abolizione, alcuni autori raccomandano il ricorso fin dall’inizio a taskforce e a sistemi di assegnazione del personale basati su incarichi a ter-mine e ad hoc [Bardach 1976].

In molti paesi si è diffusa la pratica di indicare una data di scaden-za per le politiche. Questa «clausola del tramonto» cerca di eliminarela tendenza incrementale alla sopravvivenza, predeterminando il tempodi vita di una politica, al cui scadere solo un’esplicita riconsiderazionedella sua originale utilità può dare chances di sopravvivenza. Il Colora-do ha approvato la prima legge a termine nel 1976. La Florida ha resoa termine tutti i regolamenti, i comitati e le commissioni consultive.Queste misure non sono tuttavia una panacea, dato che il livello suc-cessivo del problema – quali politiche riconfermare e quali effettiva-mente chiudere – può portare a nuovi costi decisionali e amministra-tivi [Osborne e Gaebler 1992, 160 trad. it.].

5. Questioni aperte

La versione più ortodossa dell’analisi razionale delle politiche hacostituito per molti anni il bersaglio obbligato di una serie di approcciche hanno trovato nella contrapposizione polemica ai suoi presuppostila strada per chiarire i propri assunti teorici. Dobbiamo del resto ri-cordare che il termine policy analysis fu coniato da Lindblom nel 1958per identificare l’oggetto della sua critica [Torgerson 1995, 251]. Pri-ma di iniziare l’esame delle contestazioni, è bene tuttavia sottolineare

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che oggi la ARP è una tecnologia accademicamente consolidata, e unacomponente fondamentale dell’intervento pubblico in tutti i paesi: «Isuoi [della policy analysis] elementi costitutivi, e cioè la quantificazio-ne, la costruzione di modelli, la prescrizione e la valutazione rappre-sentano la più duratura e significativa sociotecnologia ad aver fatto ilsuo ingresso nella pubblica amministrazione negli ultimi cinquant’an-ni» [Goodsell 1990, 500]. Grazie a questo apporto, il profilo profes-sionale dell’analista di politiche ha acquistato una sua specifica rilevan-za: «Quando parliamo di “analisti di politiche”, oggi abbiamo un’ideaabbastanza chiara del tipo di persone cui facciamo riferimento, deiruoli che giocano e dei particolari contributi che essi portano» [Jen-nings 1987, 132].

Riconosciuto questo dato, possiamo raggruppare le critiche allaARP secondo lo schema seguente.

5.1. L’inconsistenza scientifica

Critiche molto severe alla sostenibilità sul piano scientifico di untale progetto sono spesso venute dagli scienziati politici, che hannoevidenziato la natura ideologica di presupposti spacciati per scientifici[Tribe 1972]. Afferma ad esempio Sartori: «Dico subito che chi sostie- nela tesi della scienza valutante sostiene un principio insostenibile[...]. Una scienza valutante è una contraddizione in termini, un cono-scere che non nasce o che si auto-distrugge» [Sartori 1979, 46]69.

Panebianco muove tre tipi di rilievi al modello ingegneristico: «1)l’inesistenza della divisione del lavoro fra scienza pura e scienza ap-plicata; 2) l’impossibilità del ricorso alla clausola ceteris paribus insede operativa; 3) l’errata concezione della natura della previsione»[1989, 572]. L’ampiezza di questi rilievi va ben oltre la ARP, percoinvolgere in generale l’idea di una scienza sociale applicata. Inquesto contesto intendiamo dedicare maggiore attenzione alle osser-vazioni che muovono da una specifica competenza nel campo deipolicy studies.

Queste critiche sono in larga misura rielaborazioni di un argomen-to la cui paternità appartiene a due autori, Friedrich von Hayek eCharles Lindblom che, benché da punti di vista diversi, hanno messo

69 Spesso i politologi non sono poi molto coerenti nell’attenersi al rispetto diquesti principi. Secondo Woodrow Wilson, la scienza politica doveva limitarsi a «evi-denziare i fatti e le diagnosi, senza prescrivere rimedi» [1885, 315, cit. in Ball 1995].E tuttavia l’affermazione appare un po’ sospetta da parte di uno scienziato politicoche coronò la sua carriera pubblica da presidente degli Stati Uniti. Secondo Easton,Wilson «è più intento a riformare che a descrivere. Egli vuol dimostrare che solo untipo particolare di organizzazione politica corrisponde alle esigenze del sistema politi-co da lui preferito» [Easton 1953, 108].

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entrambi sotto accusa una concezione del governo come attore ester-no, unitario e benevolo, intento a massimizzare il benessere sociale deicittadini-sudditi. Questa radicale obiezione, in sintonia con le criticherivolte all’economia del benessere da una prospettiva individualista elibertaria, sottolinea i rischi di «collettivismo metodologico» [Hayek1952, 195 trad. it.] insiti in un approccio che ha come estrema conse-guenza l’invocazione di un pianificatore universale:

La maggior parte di queste affermazioni70 non ha alcun significato verifi-cabile [...]. In realtà, quanto si sostiene è semplicemente che se tutte le cono-scenze disperse fra molte persone potessero essere padroneggiate da una sin-gola mente, e se questa mente superiore potesse costringere tutti quanti adagire secondo i suoi desideri, si potrebbero ottenere certi risultati; ma natural-mente questi risultati potrebbero essere noti solo a una simile mente superio-re [Hayek 1952, 147 trad. it.].

Lindblom usa termini analoghi per rimarcare l’irrealismo e la po-tenziale antidemocraticità degli assunti su cui si basa la (rational) policyanalysis:

Molti analisti di politiche pubbliche, influenzati dai convenzionali canoniaccademici di ricerca e di addestramento, ritengono di avere il dovere di rag-giungere una visione dall’alto, come dall’Olimpo, del problema che studiano[...]. A chi dunque possono rivolgersi? Solo a un ipotetico o mitico decisionmaker che condivide la prospettiva olimpica dello scienziato sociale. Questianalisti di politiche pubbliche talvolta sembrano credere che, insieme, il ricer-catore professionista e il decision maker si possano avvicinare al re-filosofo diPlatone. Ma il mitico decision maker rimane un uomo di parte, non menodell’analista. Il monte Olimpo non è mai alto abbastanza, e il decision makerè un plurale. La soluzione dei problemi sociali raggiunge risultati attraversol’interazione tra una molteplicità di risolutori di problemi o decision makers,tutti uomini di parte [Lindblom 1990, 265].

Queste critiche radicali costituiranno la base degli approcci consi-derati nel prossimo capitolo.

5.2. L’inaffidabilità tecnica

Alcuni studiosi hanno concentrato la loro attenzione sui limiti tec-nici della ARP, limiti che la renderebbero incline ad alcune sistemati-che distorsioni dei risultati [Lindblom 1990, 276]. Nel loro complesso,le critiche tecniche tendono a concentrarsi su questi rilievi.

70 Riguardanti la «capacità produttiva» della società nel suo complesso.

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5.2.1. Estrema semplificazione

Backoff e Mitnick riassumono in questi termini i principali limitidi queste tecniche:

1) non considerazione degli aspetti qualitativi; 2) eccessiva enfasi sulquantitativo e sulle misure facili; 3) ricorso a simboli e modelli privi di consi-stenza; 4) sovraccarico di dati non interpretati; 5) dipendenza dai dati piùfacilmente disponibili o accessibili; 6) ignoranza degli elementi soggettivi; 7)

disattenzione per gli obiettivi molteplici; 8) scarso interesse per la formulazio- nedel problema; 9) fallimento nel considerare i fattori «soft», politici e sociali

[Backoff e Mitnick 1986, 33].

Se ogni rappresentazione analitica comporta comunque una perdi-ta di dettagli, quella prodotta dalla ARP appare troppo drastica peruna doppia serie di considerazioni. La prima riguarda la rozza sempli-ficazione dei fattori che entrano in un problema di policy: «La loroutilità in genere consiste in una sistematica etichettatura, piuttosto chenell’esame delle relazioni» [Heclo 1972, 105]. L’analisi diviene così unmero esercizio nominalistico di classificazione e di misurazione, in cuiva completamente perduta la complessità dell’intreccio tra fenomenisociali. La seconda riguarda il fatto che solo le variabili quantificabilisono adeguatamente considerate. La riduzione dei fattori ai loro termi-ni monetari rende plausibili comparazioni che nella realtà nessuno siazzarderebbe a fare [Self 1975].

La stessa idea di trade-off che fa da sfondo all’analisi costi-beneficiè ricondotta a una visione estremamente ingenua dell’incastro tra iproblemi sociali. Wildavsky sarcasticamente sintetizza in una legge – lalegge Wildavsky – questa sua critica: «L’andamento di qualunque in-dicatore può essere massimizzato, purché una società sia disposta aignorare tutti gli altri» [1992, 31]. Ancora una volta, in queste parolec’è l’eco della riflessione di Hayek: «Non c’è alcun merito specialenell’economizzare uno dei molti fattori che limitano il risultato possi-bile a spese di altri» [1952, 202 trad. it.].

Nelle decisioni complesse, gli obiettivi sono spesso multipli e inter-dipendenti: «La comunità degli studiosi di politiche ha imparato che piùuno studia un problema, più informazioni raccoglie, più analisi conduce,e più diventa chiara la complessità della situazione» [Rist 1987, 2].

Quando poi sono in gioco problemi quali le differenze di redditoo di rendimento scolastico, e l’impatto che su di esse può avere l’inter-vento pubblico, praticamente tutte le teorie che entrano come compo-nenti della cultura contemporanea dovrebbero essere testate: «Allabase di questi puzzle stanno tutte le varianti della personalità umana eil mistero del suo sviluppo [...]. Ogni particolare insieme di fatti ècompatibile con una tale varietà di teorie da rendere impossibile oeccessivamente costoso acquisire i dati che potrebbero permettere al-l’analista di confutare le false teorie» [Aaron 1978, 57]. Nello stesso

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spirito, Wildavsky [1992, 36] sottolinea l’enorme quantità di teoriapresupposta dalla ARP, ma destinata a rimanere inverificata.

5.2.2. Scarsa attenzione ai problemi di implementazione

Secondo Allison [1980] e Hargrove [1975], l’implementazione è ilcapitolo mancante della policy analysis, maldestramente rimpiazzatodalla banalità delle check lists, gli elenchi prescritti dall’approccio top-down per enumerare i requisiti necessari perché una politica sia imple-mentata correttamente. Molti autori hanno infatti notato come questeraccomandazioni sconfinino nell’ovvio e dimostrino una totale ignoran-za dei processi che effettivamente si sviluppano nelle amministrazioni,siano esse pubbliche o private. In effetti, le riflessioni sulle condizioniper una corretta applicazione spesso rasentano l’ovvietà, come dimo-stra questo brano: «È più probabile che la valutazione sia utilizzataquando è utile e adeguatamente comunicata; quando esiste poca oppo-sizione o, meglio, un elevato sostegno; quando la comunicazione è in-dirizzata ai veri decision makers, è orientata verso obiettivi condivisi esembra produrre più benefici che costi» [Nagel 1990, 447].

In questa prospettiva, il problema del rapporto politica-ammini-strazione è aggirato, affidando all’analista il compito di sorvegliare iconfini e di gestire la comunicazione tra le due sfere, mentre sonodestinate a rimanere senza risposta domande analoghe a questa:«Quando una proposta di programma è stata perfezionata con studipilota, viene il momento di trasferire il progetto in un ambiente opera-tivo più realistico [...]. Così si presenta il problema “può un NUA faretutto ciò? Può un Normale Ufficio Americano71 attuare il programmafedelmente?”» [Berk e Rossi 1990, 52].

Quando la ARP tenta di affrontare la questione, molto spesso la so-luzione prevede la creazione di nuove strutture ad hoc, che rischianodi aggravare, anziché risolvere, i problemi del coordinamento ammini-strativo e di avviare conflitti di competenze, non solo in senso giuridi-co, ma anche culturale, per la difficoltà di armonizzare le diverse spe-cializzazioni tecniche.

Un altro effetto della scarsa attenzione all’implementazione è lasistematica sottostima dei costi indiretti, dispersi fra tutti gli utenti, acausa dei disagi che essi devono sopportare per mettersi al passo conle nuove norme, informandosi, recandosi negli uffici, rivedendo le lorostrategie72. Più in generale, l’accento sui risultati tende a lasciare in

71 Nel testo, YOAA: Your Ordinary American Agency.72 In Italia, larga parte del terziario avanzato è costituito da società che si offrono

di sostituire i clienti nell’interazione con la pubblica amministrazione, particolarmentecostosa nel nostro paese nel campo delle pratiche fiscali, automobilistiche, delle licen-ze e delle autorizzazioni.

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secondo piano l’autonoma importanza delle modalità con cui questisono raggiunti.

La conclusione di Heclo è sconsolata: «Il maggior pericolo dell’ap-proccio programmatico deriva dal fatto che fa molta presa nell’influen-zare le persone influenti» [1972, 101].

5.2.3. I costi dell’analisi dei costi

La critica più corrosiva alla ARP consiste nel ribaltare contro diessa le sue stesse categorie, come fa Lindblom in questo brano:

L’analisi sinottica è intollerabilmente dispendiosa. Un funzionario pubbli-co semplicemente non ha il tempo di compiere un’analisi esauriente, non hail personale sufficiente per portarla a termine nemmeno se lo volesse. Di con-seguenza, gran parte del processo decisionale apparentemente sinottico vienedi fatto compiuto attraverso atti intuitivi di giudizio, la cui componente ana-litica non è stata ancora capita bene. Oppure, le decisioni vengono raggiuntecon l’applicazione di direttive ideologiche, spesso poco appropriate, se nondecisamente stupide. Oppure con appelli al buon senso, che chiamano incausa sia i vecchi pregiudizi sia le vecchie intuizioni. Oppure con l’invocazio-ne di principi morali che, a un esame più attento, apparirebbero insufficientiper il problema in questione. Oppure con riferimento a una serie di convin-zioni che rappresentano pregiudizi, miti, equivoci, conformismi ereditati, re-gole pratiche opinabili e così via, senza escludere alcune intuizioni utili alloscopo. In ogni caso, niente sinossi [Lindblom 1977, 343 trad. it.].

Per mettere in evidenza come la retorica della rational analysis spes-so serva solo a mascherare i pregiudizi politici e ideologici correnti, Ja-mes Wilson ha elaborato due caustiche «leggi» della policy evaluation:

• «tutti gli interventi di policy su problemi sociali producono l’ef-fetto voluto se la ricerca è condotta da coloro che implementano lepolitiche o da loro amici»;

• «nessun intervento di policy su problemi sociali produce l’effettovoluto se la ricerca è condotta da una terza parte indipendente, spe-cialmente se questa nutre scetticismo verso la policy» [Wilson 1973,132, cit. in Dye 1975, 332].

La stessa constatazione è condivisa da Wildavsky, quando scrive:«La valutazione, criticando alcuni programmi e proponendo di rim-piazzarli con altri, è chiaramente un’attività politica (political): politicanon nel senso dell’identificazione con un partito, ma nel senso dell’ap-poggio a una policy» [Wildavsky 1992, 229].

5.3. La vulnerabilità politica

Le citazioni precedenti pongono chiaramente il problema delleimplicazioni politiche insite nell’uso sistematico della ARP. Le critiche

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avanzate su questo fronte toccano tre serie di questioni: il tendenzialepericolo per l’autonomia decisionale delle istituzioni democratiche, ilrischio di una sistematica promozione di alcuni criteri di giudizio ascapito di altri e la sottovalutazione dei costi politici.

5.3.1. Il conflitto con i principi democratici

La giustificazione-tipo circa la legittimità democratica della ARP as-serisce che alle istituzioni politiche spetta la determinazione dei fini, eall’analisi la selezione dei mezzi per garantirne il perseguimento, pa-gando i costi più contenuti. Come abbiamo visto, quando entrano ingioco valutazioni comparate circa i costi-opportunità associati alle va-rie scelte, diventa sempre più difficile farsi schermo di questa distin-zione [Goldwin 1980; Jennings 1987].

Il concetto di democrazia liberale assegna un’importanza fonda-mentale alle procedure per la formazione del consenso, che protegge etutela con norme sulla libertà di pensiero e di associazione e ponendolimiti all’uso dei media e delle risorse finanziarie nelle campagne elet-torali: «L’unica ragione profonda di una democrazia consiste nell’equi-tà delle sue regole e delle norme per arrivare a decisioni pubbliche,non nei contenuti di quelle decisioni» [Self 1975, 120]. Può la demo-crazia svilupparsi e il dibattito politico crescere quando un gruppo ditecnici, unici depositari di tutte le informazioni necessarie, hannoemesso la loro sentenza pro o contro un provvedimento? «Per l’anali-sta, essere produttivo e tecnocratico significa divenire insensibile adeterminati patterns politici fondamentali, che la sua visione individua-lista e informale respinge lontano» [Lowi 1970, 319].

Queste preoccupazioni, che riecheggiano il noto dibattito intornoai pericoli di una deriva tecnocratica, hanno una chiara relazione conle conclusioni di Hayek e di Lindblom circa le implicazioni dispotiche– sia pure di un dispotismo illuminato e benevolo – insite nella razio-nalità sinottica.

5.3.2. La tendenza ai risultati negativi

Alcuni autori hanno messo in evidenza come la pretesa neutralitàdelle tecniche utilizzate nella ARP produca invece una sistematica di-storsione a favore dello status quo e delle politiche più conservatrici:

Benché la professione continui a vendere l’analisi delle politiche comeuna scienza applicata votata al perseguimento imparziale della conoscenzapratica, in realtà è chiaro che l’immagine pubblica della disciplina e i suoiapprocci metodologici sono plasmati in modo significativo dall’influenza po-litica esterna [Fischer 1987, 122; anche Aaron 1978].

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Schön e Rein parlano di un vero e proprio approccio killer, capacedi fare terra bruciata anche del più documentato progetto: «L’approc-cio dimostra quasi invariabilmente che i programmi non sono riusciti aprodurre nemmeno alcune delle conseguenze volute, oppure che han-no prodotto effetti collaterali indesiderabili» [1994, 12]. Come ebbe aricordare a una Commissione del Congresso americano un ammiraglio,preoccupato per gli effetti della ACB sui programmi militari, «Sullabase dell’efficienza dei costi, i popoli delle colonie non avrebbero maifatto la rivolta contro il re Giorgio III» [Raiffa 1968, 270].

Il fatto che gli economisti riescano a raggiungere più facilmentel’accordo su ciò che i governi non devono fare, anziché su ciò che de-vono fare [Okun 1970] sarebbe un’ulteriore prova che i loro criteri divalutazione tendono a smentire, più che a confermare, l’utilità dellepolitiche pubbliche. Più precisamente, il criterio dell’efficienza risultaestremamente sensibile alla rilevazione dei costi, in genere quantificabi-li meglio dei benefici. Questo è tanto più vero quanto più entrano ingioco variabili che per loro natura tendono a rifuggire da una rappre-sentazione in termini monetari, quali la vita umana, la salute, l’istruzio-ne, la dignità personale [Churchman 1975].

Questo tipo di critica divenne molto popolare quando, tra il 1981e 1983, l’amministrazione Reagan impose un’analisi costi-benefici ditutte le norme regolative in vigore, comprese quelle per la sicurezzanei luoghi di lavoro73, chiedendo alle varie agenzie di verificare, datialla mano, se i benefici per la società fossero davvero superiori ai costiche le venivano imposti, sotto forma di maggiori oneri e di perdita dicompetitività dei prodotti americani [Tolchin 1987]. All’agenzia inca-ricata di garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro (OccupationalSafety and Health Administration, OSHA) fu chiesto di calcolare qualera il costo sopportato dal sistema produttivo per salvare una vitaumana rispetto a ciascuno degli agenti potenzialmente pericolosi(amianto, carbone, polvere del cotone...). Le resistenze dell’agenzia e iltipo di calcoli con cui cercò di dimostrare l’economicità delle normedi tutela, ponendo dal lato dei benefici i risparmi per il settore sanita-rio, assicurativo, previdenziale, fornirono materiali per una controver-sia con interessanti aspetti giuridici, etici, politici, economici, sanitari,filosofici [Noble 1987]. La Corte Suprema legittimò le resistenze op-poste dall’agenzia, e stabilì che, quando il legislatore aveva dichiaratola salute dei lavoratori un bene la cui tutela è soggetta soltanto ai limitidelle tecnologie esistenti, aveva implicitamente sancito il superamentodel criterio dell’efficienza economica74.

73 La legge era decisamente perentoria nel richiedere che «in base alla miglioreevidenza ottenibile, nessun dipendente debba subire danni fisici alla salute o alle suecapacità funzionali» [Occupational Safety and Health Act 1970].

74 Successive sentenze hanno tuttavia limitato la portata di questa decisione.

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5.3.3. La sottovalutazione dei fallimenti del pubblico

Se le critiche che abbiamo appena riportato provengono in genereda autori favorevoli all’intervento pubblico, tutt’altro tipo di contesta-zioni sono mosse dagli economisti della Scuola di Chicago e dellaScuola della Virginia, i quali ritengono che la ARP condivida con l’esta-blishment progressista la stessa propensione all’intervento pubblico ela stessa sottostima dell’equità del mercato. Secondo questa imposta-zione, la ARP ha ereditato dalla new welfare economics il ricorso trop-po disinvolto al concetto di esternalità, cavallo di Troia che consentedi legittimare l’intervento pubblico, moltiplicando i casi di fallimentodel mercato. Secondo George Stigler [cit. in Olson e Clague 1976,81], dedurre dai fallimenti del mercato la maggiore efficienza dell’in-tervento pubblico è procedere come quel giudice che, dovendo asse-gnare un premio tra due cantanti, dopo aver sentito la prima esecuzio-ne stabilì senza indugi la vittoria del secondo, ancor prima di sentirlocantare.

Fuor di metafora, per gli economisti che si riconoscono in questeposizioni, l’esistenza dei fallimenti del mercato non può rimuovere ilfatto che i fallimenti della politica sono spesso più ampi, drammatici esocialmente iniqui. Dedurre dai primi la necessità di una politica pub-blica è una conclusione affrettata, se prima non si valutano le specifi-che distorsioni che possono essere generate dall’intervento pubblico,quali la deresponsabilizzazione dei singoli, l’alienazione della loro ca-pacità progettuale e la crescita delle burocrazie.

Anche se la ARP utilizza il linguaggio dell’economia per confronta-re tra loro i vari programmi, il confronto con i benefici prodotti dalledinamiche di mercato è ridotto a una pura formalità priva di conse-guenze concrete, mentre viene dato per scontato che siano i politici imigliori interpreti delle preferenze dei cittadini.

5.3.4. L’ignoranza dei costi politici

Benché le critiche finora considerate si dividano circa gli effettidella ARP, tuttavia esse sono concordi nel sottolineare l’incisività dellasua carica politica.

Prima di chiudere questo capitolo, occorre considerare la tesi op-posta: la ARP correrebbe il rischio di essere del tutto irrilevante neiconcreti processi di policy per la sua palese incomprensione delle logi-che e delle esigenze di chi si muove nell’arena politica. Secondo questaimpostazione, il problema dei costi politici di un provvedimento, e ilconseguente giudizio sulla sua reale fattibilità, possono essere affronta-ti solo ammettendo che i criteri di giudizio del politico siano radical-mente diversi da quelli dell’analista:

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TAB. 3.4. Logica economica e logica politica

Costo per % Trattamenti N. casitrattamento di successo finanziabili risolti

metodo A 100 90 100 90metodo B 40 50 250 125metodo C 20 10 500 50

Fonte: Rielaborato da Stokey e Zeckhauser [1978, 154-155].

Mentre la policy analysis fa attenzione ai costi e ai benefici delle politicheper la società come intero, pochi policy makers considerano il criterio del be-neficio sociale come rilevante rispetto ai loro obiettivi, che sono più limitati.Se il legislatore prende i costi di una decisione e li spalma su tutti i cittadini,o li camuffa in qualche altro modo, e concentra i benefici su uno specificogruppo di cui cerca il consenso, il fatto che i costi aggregati eccedano ampia-mente i benefici è per lui di scarso interesse. Insomma, l’analisi delle politichedà risposte a domande che pochi parlamentari sono interessati a porre o aporsi [Haveman 1976, 247].

Stokey e Zeckhauser [1978] fanno un divertente esempio. Immagi-niamo che in una città invasa dai topi venga stanziata una somma di10.000 dollari per risolvere il problema, e che sia istituita una commis-sione tecnica per la scelta del metodo da utilizzare per la derattizzazio-ne. I tre sistemi in competizione hanno le caratteristiche riportate nellatabella 3.4.

Gli analisti guardano all’ultima colonna e formulano un ordine dipreferenze B > A > C. Il politico, invece, guarda alla penultima, e for-mula una preferenza C > B > A, perché ritiene molto più remunerativosul piano del consenso coinvolgere il maggior numero possibile di cit-tadini nell’operazione, dimostrando che l’amministrazione si sta dandomolto da fare, anziché andare incontro a complicate selezioni per l’in-dividuazione delle case da ammettere alla derattizzazione, creandomugugni e contestazioni che possono tradursi in una perdita di voti[v. anche Behn 1982].

In termini più generali, si può affermare che:

In contrasto [con l’analista], il politico che si occupa di politiche spessoritiene che, per le sue finalità, le risorse immesse forniscano una misura appro-priata dei benefici di un programma. Per l’analista, ad esempio, i benefici deiprogrammi militari sono il loro prodotto (la sicurezza nazionale) e il problemadi policy è quanta difesa si può ottenere dai diversi tipi e livelli di spesa milita-re. Per il politico, invece, i benefici dei programmi militari sono l’input (dollarie posti di lavoro), e il problema di policy è quanto profitto e quanta occupazio-ne si può estrarre (da parte dei suoi elettori – non dimentichiamo la distribu-zione) dai diversi tipi e livelli di spesa militare [...]. Nel gioco delle politiche,l’interesse del politico per la distribuzione e l’input in genere prevale sulla pre-occupazione dell’analista per l’efficienza e l’output [Behn 1982, 90 e 95].

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Nelle misure di efficienza, i costi sono identificati con le risorsefatte confluire in un programma, mentre i benefici sono misurati intermini di risultati conseguiti. Ma per il politico spesso i benefici coin-cidono proprio con l’input, con le risorse finanziarie ed umane cheriesce a dirottare verso un certo settore dell’amministrazione, di prefe-renza operante nel suo collegio elettorale75. E in questo dà prova direalismo perché, più che per la conservazione effettiva del patrimonioboschivo, sarà apprezzato per i posti di guardia forestale che avràcreato e per il numero di jeep che avrà fatto acquistare.

Un altro punto di potenziale frizione sono i costi a fondo perdu-to. Qualunque testo di microeconomia insegna che, nella scelta trainvestimenti economici alternativi, è sbagliato farsi influenzare dalfatto che a un progetto sono collegati dei costi già affrontati, se talicosti non sono comunque recuperabili, convertibili in valori attuali.Il passato è passato. Sono invece i costi-opportunità, legati a poten-zialità future, che devono essere presi in considerazione. Per il poli-tico è diverso, perché la coerenza con le scelte passate è una compo-nente importante del suo prestigio: il timore di accuse per averecambiato idea lo porta comunque a preferire il completamento deiprogetti avviati, anche quando questi si rivelano diseconomici [Behn1982]76.

Ancora: come abbiamo sottolineato, uno dei risultati positivi ingenere riconosciuti all’applicazione della policy analysis è costituito dauna più chiara presentazione del problema, una più precisa individua-zione delle alternative in gioco, una più completa ricognizione delleloro conseguenze. Tuttavia anche quest’opera di chiarificazione non èpriva di controindicazioni: molto spesso, nell’adozione delle politichepubbliche, una certa dose di ambiguità, un qualche margine di equi-voco sugli obiettivi, una vaga genericità di linguaggio sono fattori es-senziali per la costruzione di coalizioni sufficientemente ampie da con-sentire l’adozione di una soluzione. Porre le alternative in modo nettoe portare allo scoperto i conflitti di valore rischia di favorire l’insorge-re di situazioni di stallo.

Queste osservazioni rinviano al più generale problema dello spazio

75 In un’inserzione a pagamento su «Il Sole-24 Ore» dal titolo Considerazioni delPresidente della Provincia di Crotone si può ad esempio leggere: «Le linee di interven-to dell’Amministrazione si sono caratterizzate, nonostante le limitatezze del personale,sui vari settori della Pubblica Amministrazione. Basti pensare ai circa 50 miliardi dimutui avviati presso la Cassa Depositi e Prestiti che rappresentano un volano non in-differente sul terreno dello sviluppo, al completamento del personale per cui sarannointeressati circa duecento unità lavorative, alla attivazione di alcuni strumenti in dire-zione dell’assistenza e del cofinanziamento per i Comuni della Provincia» (9 gennaio1998, 25).

76 Evidentemente il caso italiano dimostra che non vale il ragionamento recipro-co: la presenza di tante opere pubbliche incompiute non depone di per sé a favore diuna maggiore razionalità dei politici.

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inadeguato che la ARP concede alla costruzione e al mantenimento delconsenso nei processi di policy. In fondo, tutte le critiche che abbiamoriportato pongono l’accento su questo dato e sulla sua portata dirom-pente rispetto al modello originario: perché mai attori miopi, che in-corrono di continuo nei fallimenti del mercato comportandosi da freeriders, dovrebbero improvvisamente riconoscere le virtù del bene pub-blico e delle soluzioni razionalmente superiori? E quali garanzie esisto-no che la schiera eletta degli analisti non sia a sua volta contagiata damondane considerazioni sulla remunerazione dei suoi prodotti, maresista stoicamente ai vantaggi che le derivano dal compiacere il poten-te di turno?

Il lettore italiano può considerare troppo severe queste critiche, eguardare ad esse persino con un po’ d’invidia, così lontano com’è dalrischio di un’eccessiva tecnicizzazione del policy making. Chiunque siaentrato in un ufficio postale straniero per spedire dieci libri, e abbiaprovato a ripetere la stessa operazione in Italia, diventa molto prudentenel denunciare i limiti degli approcci razionali alle decisioni pubbliche.

Questa annotazione ci consente di precisare il significato della ras-segna critica che conclude ogni capitolo. Suo obiettivo non è certo ladefinizione di una pagella dei voti da cui ricavare una graduatoriadella validità dei vari approcci, un esercizio, questo, su cui le teoriesulla validazione della ricerca scientifica, da Kuhn in poi, hanno ad-densato molti interrogativi. Piuttosto, lo scopo è la ricostruzione di undibattito scientifico utile tanto agli esaminati, che sono indotti a rive-dere incongruenze e malintesi, quanto agli esaminatori, che dal con-fronto traggono una più precisa consapevolezza degli elementi chequalificano il loro proprio paradigma. La vivacità della discussioneintorno ai limiti della ARP ha certamente permesso di raggiungere en-trambi questi risultati.