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GIAMPIETRO FAVERO Lampi di memoria ROMA 1999

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GIAMPIETRO FAVERO

Lampi di memoria

ROMA 1999

ai miei figli

NOTA DELL’AUTORE Nel libro si parla di zia Ninnì come ancora viva e la si nomina come matriarca delle famiglia. In effetti la domenica delle Palme del 1999 zia Ninnì ci ha lasciati, alla bella età di 90 anni compiuti, ma, non ostante ciò, non ho voluto cambiare né l’impostazione né i giudizi in segno di affetto per lei, pari, se non maggiore, a quello che le riservavo in vita.

IL VASINO Una screpolatura nella vernice della porta, a non più di venti centimetri dal pavimento

era il mio mostro personale.

La porta era quella che dava nello studio, che veniva utilizzato, come quel giorno, dalle

donne di famiglia, le poche volte che erano a casa, anche come stanza da cucito. Lo

studio aveva una forma trapezoidale, o, come sarebbe piaciuto a papà chiamarla una

volta che fosse diventata la mia camera da letto, a cassa da morto. Era una fortuna che io

dormissi con la testa nella parte più stretta, forse per scaramanzia, anche se non me ne

sono mai fatto un problema.

La stanza era utilizzata come stanza da lavoro perché era una delle tre che affacciava

direttamente su strada, ma era l’unica non ancora utilizzata come camera da letto; era per

la prima ragione molto luminosa e per la seconda utilizzabile senza dover chiedere

permesso.

La casa, anche se immensa, era gremita: la abitavano papà e mamma, ancora freschi

sposi, zia Giannetta e zia Fernanda, le due sorelle nubili di mamma, dette zia Nenne e zia

Dadda; zia Renata sorella di secondo letto di mamma e delle zie con il marito Ugo, la mia

balia Venerina detta Baba, due donne di servizio Antonietta detta Tetta con compiti di

bambinaia e la sorella Maria Grazia con compiti di cuoca, mia sorella Paola, di pochi

mesi, la prima figlia di zia Renata, Anna di poco più grande ed io che avevo appena due

anni.

Mamma e le zie, normalmente non lavoravano in casa, ma passavano tutto il loro tempo

a negozio per cui questo mio ricordo di tutte queste donne radunate in quella camera

deve essere relativo ad un giorno di festa.

Non ostante la mia giovane età avevo nell’arco della giornata dei precisi compiti da

svolgere: dovevo ormai mangiare da solo, senza essere imboccato, neanche da Tetta;

giocare da solo perché nessuno poteva darmi retta essendo tutta la famiglia sempre al

lavoro e le donne di servizio affaccendate; fare i miei bisogni da solo in un vasino di

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porcellana e senza sporcare per terra. L’unica incombenza che ancora non mi competeva

era quella di pulirmi il sederino dopo il bisognone. Dovevo chiamare qualcuno dicendo

‘ho fatto!’ ed attendere la pulizia, fatta prima con l’ovatta e quindi con acqua e sapone.

Da sinistra: zio Arduino, zia Ninnì, il sig. F, zia Renata, zia Dadda, zio Alberto, zia Nenne, il Prof. Arrigo C.,

un’amica, mamma, il Comm. M., zia Nanda Favero, papà

Quel giorno appunto avevo provveduto a prendere il vasino, in bagno, a calarmi da solo

calzoncini e mutandine ed a procedere a tutta la faccenda, e già da qualche minuto avevo

ripetuto il fatidico ‘ho fatto’ più volte, senza però che qualcuno si interessasse a me.

Debbo dire che pur nell’abbandono, non mi persi d’animo, perché tirate su mutandine e

calzoncini sopra il ginocchio, e, chissà perché, preso in mano il vasino, andai girando per

il lungo corridoio di casa in cerca di qualcuno che capisse le mie esigenze.

Giunto davanti alla screpolatura della vernice, fui preso dal solito terrore, ed interruppi a

metà l’annuncio: ‘ho fa....’ . La porta, che non si è mai chiusa bene perché leggermente

svirgolata verso il basso, si aprì trascinando come di consueto il battente chiuso per

quanto lo consentisse il fermo che funzionava solo in alto, essendo a terra, a causa dello

svirgolamento, non in corrispondenza il catenaccio del fermo con il foro, e con il consueto

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rumore di vetri che sbattevano nella loro sede troppo larga, dando la consueta voce al

mio mostro personale.

Prima che il terrore mi invadesse, una donna della famiglia, non ricordo più chi, venne

in mio soccorso, e, preso il vasino con un braccio, e me con un altro, mi sollevò di nuovo

fino in bagno per le pulizie di rito.

Per quanto possa andare indietro nel tempo questo è il mio primo ricordo.

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GUERRA D’AFRICA

Palazzo Marignoli . Piazza San Silvestro, 92 . Piano quinto Interno 20

La casa dove abitavamo, in Piazza San Silvestro, 92 era molto grande essendo

un appartamento al quinto piano, con vista all’esterno verso nord, in posizione

dominante sulla maggior parte dei tetti che dal centro di Roma arrivano fino a

Porta Flaminia. Risaltavano la cupola di San Carlo da un lato ed il bianco

campanile della Chiesa Anglicana di Via del Babuino dall’altro; più a destra la

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gloria del Pincio con la Casina Valadier e l’Accademia di Francia in Villa

Medici. Guardando a tutta sinistra si poteva vedere parte della facciata

posteriore di Montecitorio, mentre guardando a tutta destra si coglieva il

campanile borrominiano di Sant’Andrea delle Fratte e la Villa dell’Ordine di

Malta a porta Pinciana. La sagoma di Monte Mario, ancora non occupata da

immensi alberghi ed antenne televisive, si stagliava a sinistra, e fra di essa ed il

Pincio, in giornate di vento, era visibile in lontananza il Soratte.

Si entrava nell’appartamento da un ingresso molto ampio con due finestre su

due diversi cortili, cui seguiva un corridoio lungo circa 7 metri con due

finestre sulla sinistra, con vista sul più piccolo dei cortili. In fondo al corridoio

una porta in legno, dava accesso ad un locale di servizio, inizialmente una

lavanderia, ma quasi subito trasformata in un bagnetto, detto ‘il bagnetto

laggiù’, anch’esso con finestra sul più piccolo dei cortili.

Di fronte alla seconda finestra del corridoio, voltando a destra si entrava in un

secondo corridoio, molto più lungo del primo, quasi 22 metri, con porte da

ambo i lati e praticamente senza luce naturale se non per la parte finale.

Le prime due porte, in legno, alla destra del corridoio davano su una grande

sala doppia che era la sala da pranzo con due finestre, poste di fronte alle

porte, con vista sul primo dei due cortili, quello più grande, visibili

dall’ingresso. Il tavolo, allungabile su due lati, era in noce massiccio con

intarsio in legno giallo, dello stesso stile del buffet con specchio e piano in

marmo rosso, uno sportello centrale a due ante e due sportelli laterali; e contro

buffet sempre dello stesso stile, con l’aggiunta di un pensile superiore con

sportelli a vetri nel quale veniva riposto il servizio di bicchieri di nonno Pietro,

mentre negli sportelli inferiori veniva riposto il servizio di piatti di nonno

Pietro come il primo, e maniglie in ottone lavorato che completavano con sei

sedie e qualche poltrona l’arredamento della sala; il lampadario, centrale, era

in vetro di Murano di colore rosa, a sei fiamme; nel lato delle poltrone, un

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basso tavolino in legno ed un lume a piantana con paralume in pergamena;

all’angolo vicino la finestra un mobile basso a due ante, nascondeva all’interno

un ricevitore radio. Alle pareti, qualche natura morta di cui due firmate

Kingborn che era il nome d’arte che si era scelto zia Renata al suo corso di

pittura.

Le due porte, in legno, a sinistra, poste di fronte alle porte della sala da

pranzo, davano accesso a due sale separate da un arco molto ampio tanto da

poter considerare l’ambiente come una sola sala, e questo era il salotto; in esso

le finestre, sempre in corrispondenza delle porte sulla parete di fronte, davano

su un altro cortile molto grande, sugli altri tre lati del quale gli ambienti

avevano accesso da Corso Umberto e non dalla Piazza. La luce era data da un

lampadario di Murano a gocce a 10 braccia posto al centro di una delle due

sale, integrato da quattro applique dello stesso stile a due braccia poste

simmetricamente sulle due pareti di fondo. Dopo la guerra un altro

lampadario in vetro di Murano a gocce sarebbe stato montato al centro della

seconda sala. L’arredamento era tutto coordinato in stile impero con sedie,

poltrone e divano con intelaiatura in legno di ciliegio ed imbottitura di

broccato. Con lo stesso tessuto erano fatte le due tende. L’arredamento era

completato da un tavolo ovale nello stesso stile con piano in marmo chiaro, da

una specchiera con piano nello stesso marmo e da una bacheca con vetro sui

quattro lati nello stesso stile, con sportello a chiave anteriore. Qualche anno

dopo si sarebbe aggiunto un pianoforte verticale, sostituito, una volta finito il

liceo, da un pianoforte a quarto di coda.

Seguivano, lungo il corridoio, due porte affacciate, in legno con mostra in

vetro operato in modo che potesse passare la luce dalle camere nel corridoio

ma non si potesse vedere all’interno. La camera sulla destra, seguente la sala

da pranzo, era la camera da letto di zia Giannetta, con finestra sullo stesso

primo cortile; non aveva un arredamento particolare almeno in quegli anni.

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Quella di fronte era la cucina con finestra sul cortile del salotto. L’arredamento

era rappresentato da vecchi armadi per il contenimento delle pentole, un

tavolo con piano in marmo, una cucina che oltre i fuochi a gas aveva due

fornelli a carbone con il cassetto di raccolta inferiore per la brace.

Immediatamente a lato della cucina c’era una porta in legno che dava accesso

al bagno principale, il quale aveva una finestra su un quarto cortile, anche

questo piccolo.

La casa era fornita da due acquedotti, almeno finché l’acquedotto del

Peschiera, postbellico, non avrebbe unificato tutto. Infatti nel bagnetto laggiù

c’era l’acqua di Trevi, mentre in cucina e nel bagno c’era l’acqua Marcia.

Questo fatto ci consentì di avere quasi sempre l’acqua in casa anche nei

periodi più disastrosi della guerra. Zia Fernanda che lavava normalmente

l’insalata due o tre volte, preferiva sempre farlo con l’acqua di Trevi, mentre

normalmente si adoperava l’acqua Marcia della cucina, anche se, stranamente

non utilizzando mai il rubinetto della presa diretta, da cui, le poche volte che

veniva azionato, usciva, spruzzando, acqua ferruginosa; ma quello dell’acqua

proveniente dai cassoni, che secondo le idee della famiglia, era più pura.

Dopo il bagno, il corridoio continuava, finalmente illuminato sul lato sinistro

da due finestre sul quarto cortile; invece sul lato destro c’era una finestra in

alto, che però non guardava verso l’esterno ma dava aria e luce ( poca ) ad una

stanza interna.

Dalla fine del secondo corridoio proprio di fronte all’ultima finestra, ne

partiva un terzo, verso destra, lungo circa 9 metri, con porte da ambo i lati.

La prima porta a destra, in legno con specchiatura in vetro, dava accesso alla

camera interna che era la stanza dove dormivano prima Baba, Tetta e Maria

Grazia, poi solo le ultime due.

La prima porta a sinistra, anch’essa con specchiatura in vetro, dava sulla

camera a cassa da morto che sarebbe diventata la mia; questa camera, come

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detto prima, era una delle tre che avevano vista all’esterno e dava su un

terrazzo posto su Via delle Convertite. Nella parete più piccola del trapezio

una porta in legno, dava accesso ad uno stanzino che avrebbe avuto una

rilevante importanza durante l’occupazione, e sarebbe in seguito diventato il

mio spogliatoio e la sede del mio tecnigrafo. L’arredamento era rappresentato

dai mobili del vecchio ufficio di mio nonno: in stile tardo ottocento, con

libreria a tre sportelli con lesene a triglifo, sportelli con specchi in vetro

veneziano color oro, e piedi a zampa di leone; tavolo, sedia con braccioli e due

sedie in stile. Una volta che fosse diventata la mia camera da letto,

l’arredamento sarebbe stato integrato da un divano letto e da due librerie

aperte, costruite dal Sor Umberto, che era il falegname di famiglia anche se

papà lo diceva pecione, nello stesso stile, con lesene a triglifo, ma senza le

zampe di leone, troppo complicate per le capacità dell’artigiano.

Le seguenti due porte, in legno, conducevano, quella a destra in una vasta

camera che inizialmente è stata la camera degli sposi Ugo e Renata, poi,

quando quella famiglia, abbastanza presto debbo dire, si trasferì, di noi pupi,

cioè di Paola e mia, per restare infine solo di Paola dopo la guerra; la finestra,

posta anche in questo caso di fronte alla porta si affacciava sul primo cortile e

risultava in esatta corrispondenza della finestra dell’ingresso. L’arredamento

iniziale non lo ricordo.

La stanza di sinistra, anche questa trapezoidale ma con effetto più mascherato

date le maggiori dimensioni, era la camera di zia Dadda, con finestra sul

terrazzo. C’era uno specchio meraviglioso girevole su un asse orizzontale e

sorretto da due colonnine: lo specchio era da ambedue i lati ed era largo circa

un metro ed alto un metro e mezzo, con asse a circa un metro da terra. Un letto

ed un comò nello stesso stile severo completavano l’arredamento.

In ultimo, alla fine del corridoio, una porta in legno a sinistra, successiva a

quella di zia Fernanda, dava accesso alla stanza di papà e mamma che si

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sviluppava oltre la fine del corridoio. Anche la finestra della loro stanza dava

sul terrazzo. Il mobilio, letti, armadio, toeletta, comodini e comò con

specchiera era in noce massiccio. I letti erano due ma uniti, anche se non a

formare letto unico. Sulla toeletta che aveva uno specchio più piccolo di quello

del comò, era un servizio completo in argento, con spazzole, specchio a mano,

pettine, scatola per cipria e tiralacci. Due seggiole ed una poltroncina con

braccioli con imbottitura in raso, completavano la stanza.

Il terrazzo non aveva vista su strada se si fa eccezione di un piccolo tratto di

Via del Gambero che si poteva vedere arrampicandosi sul gradino posto verso

l’esterno del terrazzo, sporgendosi sul parapetto e lanciando lo sguardo oltre

l’ampio cornicione che aggettava per circa un metro e mezzo. Il cornicione

impediva così la vista dell’immediato sottostante, ma in compenso, essendo

nella parte inferiore a volta, rifletteva verso il basso la maggior parte dei

rumori della città, che nel tempo sarebbero incrementati, consentendoci un

isolamento invidiabile al centro di Roma, esaltato da un ben curato giardino in

vasi, posti tutto intorno il terrazzo.

Nel corridoio in quel periodo, sempre prima dei miei tre anni avveniva un

altro fatto per me memorabile e che coinvolge in qualche modo zio Mario, uno

dei fratelli di papà. Egli era un tipo molto particolare ed avvolto da un’aura di

mistero e di avventura. Il vero nome era Giuseppe Maria, cui fra l’altro, teneva

molto, ma era detto Mario in famiglia; fin da ragazzo (era nato nel 1901)

aveva avuto la passione dei motori e per le corse e, forse dopo aver partecipato

a qualche corsa per il premio lotteria a Tripoli, un amore profondo per

l’Africa. Nei miei primi ricordi di lui aveva da poco superato la trentina, era

un uomo che si poteva definire bello, almeno secondo i canoni dell’epoca;

capelli castani lisci con scriminatura, occhi azzurri ridenti, baffi sottili, volto

sempre atteggiato al sorriso.

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Vivendo in un ambiente dove il possesso di un’automobile era privilegio di

pochi, e nobili, si era, forse per ischerzo, inventato un titolo nobiliare e si

faceva chiamare Conte; col tempo si sarebbe quasi convinto di essere

effettivamente nobile e, dopo la sua morte, vidi un attestato, chissà quanto

reale, in cui lo si riconosceva Conte di Gallarate e Marchese di Borgomagno e

Fottù.

In gioventù era scanzonato e, dagli aneddoti che in seguito raccontava, anche

portato a scherzi un po’ pesanti. Come quando durante una gara

automobilistica in cui si gareggiava in coppia, essendosi fermato con il suo

compagno per prendere un caffè in un bar di campagna, vide un signore che

sorbiva un cappuccino al banco, in piedi, a gambe leggermente divaricate, con

il cappotto sulle spalle; e lui, dato di gomito al suo navigatore, gli misurò un

calcio proprio fra le gambe. Lo sconosciuto tossì, sputando il cappuccino, e la

tazza cadde in terra, rompendosi, e si voltò subito, indignato, domandandosi

chi avesse osato tanto, e trovandosi la faccia compunta di zio Mario, il

monocolo sull’occhio destro, che diceva ‘Mi scusi tanto, signore, ma l’avevo

scambiata per il principe C.; mi permetta di presentarmi, sono il Conte

Giuseppe Maria Favero; se avessi supposto che Ella non era il Principe, non

avrei mai osato’. Il signore, perché doveva in effetti essere tale, rimase un

momento interdetto, ma si convinse di essere incappato in uno scherzo fra

nobili, e fece buon viso a cattivo gioco.

Forse nel suo spirito di avventura già pensava di seguire le truppe Italiane in

Etiopia, come in effetti fece, stabilendosi nella Colonia, prima ad Addis Abeba

e quindi a Mogadiscio dove aveva un’azienda di trasporti; perché in una delle

poche volte che lo vidi prima della guerra, e l’unica volta di quel periodo che

io ricordi, mi regalò una specie di manifesto di cartone rigido con intelaiatura

in legno e manico in modo da poterlo sostenere, che rappresentava il negus in

abito coloniale color cachi, con casco, ritagliato secondo i contorni del corpo.

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E ricordo che saltellavo per il corridoio con il mio negus ripetendo, come mi

aveva insegnato Tetta la quale forse ricordava le canzoni sfottò della Guerra

d’Abissinia di 40 anni prima, ‘La regina Taitù che dalla fame non ne può più’.

La guerra, che nel frattempo si svolgeva, anche se in Africa, nella mia totale

incoscienza, più dolorosa di quanto potessero immaginarla anche i grandi

della famiglia, mi appariva allora solo come una canzonetta: ‘Faccetta nera /

bell’abissina / aspetta e spera che già l’ora s’avvicina: / quando saremo / vicino a te /

noi canteremo Viva il Duce e Viva il Re.’.

In questa casa, fino al periodo scolare, si svolgeva la maggior parte del mio

tempo, e poi del tempo anche di Paola; almeno in inverno o nelle giornate di

tempo brutto; perché in estate si andava al mare, ad Ostia, per un lungo

periodo, mentre con la bella stagione con zia Fernanda e Tetta andavamo al

Pincio, fermandoci talvolta anche a mangiare ai giardinetti un pasto al cestino

sempre buono e mantenuto caldo nei thermos.

La via per andare al Pincio era sempre stancante per le mie piccole gambe,

perché bisognava raggiungere prima Piazza di Spagna passando generalmente

per Via del Gambero e Via Frattina, poi traversare tutta la Piazza per

imboccare la salita di San Sebastianello, ed era un sollievo fermarsi a pregare

all’Immagine della Madonna posta a circa tre quarti della salita. Qualche volta

il sollievo era quello di Tetta, che aveva ceduto al mio frignare per essere preso

in braccio, ma la maggior parte delle volte era mio. I giardinetti dove

normalmente ci si dirigeva erano quelli intorno alla Casina Valadier, ma io, e,

col crescere di Paola, noi preferivamo il Viale dei Bambini, a lato dell’orologio

ad acqua, dove girava un carretto addobbato a carrozza trainato da somarelli,

con al rimorchio altri due o tre somarelli sellati sui quali si poteva cavalcare, al

passo.

In fondo al viale c’era, quasi tutti i giorni, un teatrino di burattini con il

burattinaio che quando doveva imitare la voce di Pulcinella, si metteva un

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fischietto in bocca. Nel viale vicino, parallelo al primo, c’era il noleggio delle

automobiline a pedali, ma era, per me, un gioco troppo da grande.

Era raro che andassimo sul piazzale Napoleone III, perché era aperto al

traffico, ma, la domenica mattina, quando tutta la famiglia, anche papà, stava

insieme era probabile che ci si ritrovasse colà anche con la famiglia di Anco,

ma di ciò parlerò dopo.

Il ritorno a casa dal Pincio, qualche volta e se l’ora e la nostra stanchezza lo

permettevano, non avveniva per la stessa strada dell’andata, ma dal piazzale

Napoleone III si scendeva lungo i giardini a lato di Via Gabriele d’Annunzio

fino a Piazza del Popolo; di lì si proseguiva per il Corso fino al numero 90

dove c’era il negozio di famiglia e dove lavoravano mamma e le zie.

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SCUOLA IRLANDESE

A ottobre del 1939 venne per me il tempo della scuola.

Non ero mai stato all’asilo né alla scuola materna prima della mia età scolare, e

la mia vita fino allora era stata una perenne vacanza, coccolato non tanto da

mamma, che era una delle animatrici irrinunciabili ed insostituibili del

negozio, ma piuttosto da zia Fernanda e, principalmente da Tetta.

Ormai sua sorella, Maria Grazia, era andata via da casa, ma Tetta era sempre

più investita del ruolo di bambinaia, e un’altra donna di servizio, nel tempo,

veniva a sopperire agli altri bisogni della casa.

Anche Venerina era tornata al paese, zia Renata e zio Ugo, aumentata la

famiglia, si erano trasferiti, per cui in casa, almeno fuori del periodo natalizio,

eravamo rimasti i sei della famiglia, Tetta e la cuoca.

Nel periodo natalizio, invece, si trasferiva da noi l’altro ramo dei Benedettini.

Il fratello maggiore di mamma, Arduino, terzo dei sedici figli di primo letto

mentre mamma era l’ultima, con la moglie Ia Marziale. La loro figlia Giannina,

detta Ninnì, con il marito Alberto Crescenzi ed il figlio Gianfranco. Con loro

veniva anche la donna di servizio che in quegli anni si chiamava Natalia.

Zio Arduino, dopo la morte di nonno Pietro, era diventato il capo della

famiglia, anche se ne era mamma l’anima, il suo nume tutelare ed il punto di

riferimento. Ogni anno passava qualche mese all'estero: Vienna, Berlino,

Parigi, Londra; ed era un’abitudine che mantenne anche in età avanzata

quando l’esotismo o l’avventura non facevano più presa su di lui. Egli si

compiaceva di sedersi ad un caffè all’aperto, o in una sala da tè in Inghilterra,

e respirare la città come amava dire. Da giovane non riuscivo a capire come

potesse rinunciare a musei, teatri, avvenimenti sportivi e restarsene seduto per

ore all’angolo fra l’Opéra e Rue de la Paix, ma ora lo capisco e, quando posso,

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lo imito. Aveva sposato zia Ia, di origini tiburtine, o, come lui diceva, tivolesi,

la quale, contrariamente a tutte le donne della famiglia Benedettini, sapeva

cucinare bene.

Giannina aveva quasi la stessa età di zia Renata, ed avendo abitato a lungo

nella stessa famiglia Benedettini, era considerata da mamma e dalle zie più

una sorella minore che una nipote. Era sposata con Alberto Crescenzi che era

fratello di zio Ugo, lo sposo di Renata. Alberto, di due anni più piccolo di

papà, andava molto d’accordo con lui, e, contrariamente a papà, era

affettuosissimo con le zie, specialmente con Giannetta.

Gianfranco, il loro figlio, è nato quattro giorni prima di me ed il nostro

rapporto è sempre stato, ed è tuttora più un rapporto di fratelli che quello che

intercorre fra zio e nipote.

Già prima della scuola ci incontravamo nei nostri giochi al Pincio, dove egli

veniva accompagnato da Natalia, che era la sua bambinaia, poi, dalle

elementari al liceo, siamo stati sempre insieme.

Durante le feste natalizie, dunque, la famiglia Benedettini-Crescenzi si

trasferiva in San Silvestro per passare le feste fino all’Epifania.

Ma il tutto era preceduto da un’adeguata preparazione culinaria. A

sovrintendere era ovviamente delegata zia Ia. Nelle due case, venivano

preparate decine di sfoglie di pasta perché la tradizione imponeva, a seconda

dei giorni, ravioli, tortellini e cappelletti.

Si iniziava la sera della vigilia, sempre molto tardi perché la chiusura del

negozio avveniva tardi, con gli spaghetti al tonno, il capitone, i broccoli bolliti

con il limone; i tortellini in brodo il giorno di Natale, la gallina bollita, i dolci

di Natale; i cappelletti al sugo il giorno di Santo Stefano, anniversario delle

nozze dei miei genitori, con l’arrosto misto con le patate, i fritti di carciofi,

zucchine e cavolfiori; i ravioli con ricotta il giorno di Capodanno, con la

galantina di pollo e la spicca con un mare di piselli al prosciutto, ed il favoloso

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cotechino con le lenticchie. Forse per il fatto che si mangiavano solo in questa

occasione i tortellini erano allora più buoni di adesso.

Nei giorni festivi tutto il pomeriggio era dedicato ai giochi di famiglia: il

mercante in fiera, il sette e mezzo e, principalmente, la tombola nella quale, se

era papà a tenere il cartellone ed annunciare i numeri, l’1 era Ninetto bello del

corso, cioè zio Arduino; 2 i bacetti; 4 la barella; 6 quante volte ( ed il numero

successivo indicava quante volte uno era stupido); 7 i dolori; 9 che puzza

(nella smorfia sta ad indicare le deiezioni solide); 11 li zeppetti; 13 fortunello;

17 disgrazia; 18 sangue (chiedesti ed era sugo di pomodoro); 19 ‘mbriachella

(forse un leggero sfottò per Giannina che è nata il 19 ottobre); 21 la maggiore

età; 22 le carrozzelle; 23 fischia e puzza; 27 membro del senato; 33 l’anni de

Cristo; 44 tavola apparecchiata; 47 morto che parla; 58 Papa; 60 Madonnina; 66

(se santa sei) in cielo andrai; 77 le gambe delle donne; 88 l’occhiali de nonno;

90 la paura.

Dopo cena, le zie Giannetta e Fernanda dormivano nella stessa stanza,

lasciando la camera di Giannetta agli sposi Crescenzi, per Gianfranco si

trattava di dormire con me nel mio letto, mentre gli sposi Benedettini, almeno

finché noi ragazzi non siamo cresciuti, dormivano nello studio.

Con Gianfranco ci eravamo anche involontariamente inventati il nomignolo,

essendo per tutti e due difficile la pronuncia di due nomi così lunghi e doppi,

per cui lui riuscì a chiamarmi Pepo ed io Anco.

Fu quindi naturale che andassimo a scuola insieme.

Non avendo avuto l’esperienza della scuola materna o dell’asilo, c’era pericolo

che facessimo storie il primo giorno di scuola, ma non ricordo nulla di strano.

La scuola che era stata scelta era l’Istituto Mater Dei a Via San Sebastianello,

istituto eminentemente femminile ma con le elementari anche maschili.

L’Istituto era retto da un ordine di Suore Irlandesi, e nella cappella le scritte

che correvano sopra gli architravi e le colonne erano tutte in inglese. Il saluto

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che dovevamo alle suore era in inglese, anche se la suora che curava la mia

classe era italiana. La mia maestra si chiamava Signora Renata d’A. e mi

avrebbe seguito fino alla quinta elementare; la suora dei primi due anni di

corso era Sister Maria Immacolata, mentre nei successivi saremmo stati

soggetti a Sister Mary Margareth che a noi piccoli, che ancora non ne

conoscevamo la dolcezza, appariva tremenda.

Dopo il primo periodo di assuefazione, cominciammo a mangiare a scuola, e

qui cominciarono i miei problemi, perché, ogni giorno, dopo mangiato, e

qualsiasi cosa avessi mangiato, restituivo tutto. Mi si cambiarono tutti i tipi di

dieta, ma inutilmente, finché il mio pediatra, dott. Arrigo C. , non ne trovò la

causa: scoprì che la prima volta che avevo restituito, per cause naturali, lo

avevo fatto in concomitanza con il suono della campanella che richiamava gli

alunni in classe; per cui ogni volta che sentivo la campanella dopo mangiato

mi comportavo analogamente. La causa: i riflessi condizionati del Pavlov

relativi ad un essere umano, sembrava incredibile, ma doveva essere vero

perché la pubblicazione che fece sul mio caso contribuì alla sua nomina a

professore.

Avendo pregato le suore di sospendere il suono del campanello dopo

mangiato, risolse i miei problemi, e la nuova assuefazione mi tolse anche il

primo disturbo.

La vita della scuola non ebbe sussulti particolari se si eccettua il fatto della

ginnastica del sabato.

Il sabato mattina, era il sabato fascista, giorno in cui si svolgevano tutte le

attività del Partito; in cui i gerarchi, anche zio Alberto, si vestivano di orbace

con gli stivali e la camicia nera; i giovani si vestivano da avanguardista, con il

pugnale ed il moschetto, e noi bambini ci vestivamo da Balilla con la doppia

bandoliera bianca.

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Meglio, gli altri bambini si vestivano da Balilla, ma né io né Anco ne avevamo

la divisa.

Solo molto più tardi sapemmo che era stata scelta per noi una scuola straniera,

oltre che per imparare la lingua, anche e soprattutto perché in essa non era

obbligatorio andare in divisa.

I rapporti dei nostri familiari con il Fascismo erano vari.

Zio Alberto che aveva fatto l’ufficiale nella Compagnia in cui il Principe

Umberto era Capitano, aveva cominciato a lavorare a tredici anni come

fattorino, divenne ragioniere continuando a lavorare e, sempre lavorando si

laureò in Scienze economiche, era capo servizio alla Società Telefonica Tirrena

Te.Ti, ed aveva raggiunto il grado di Centurione della Milizia. Mentre a papà

interessava di più il calcio, zio Alberto aveva una non nascosta passione per la

boxe, ovvero, per il pugilato come occorreva dire allora, e, in occasione delle

riunioni, assieme a quello per Anco, prendeva il biglietto anche per me, e

generalmente nelle prime file. Agivano in quel periodo a Roma per lo più pesi

medi che, a detta di zio, erano più spettacolari perché abbastanza veloci anche

se non delle mitragliette come i mosca ed i gallo, ma anche abbastanza forti da

poter risolvere con il fuori combattimento l’incontro. Noi piccoli avevamo

un’infarinatura di regole fra le quali la più nominata, perché era in relazione

alla correttezza sportiva, era la proibizione dei colpi bassi, cioè di colpire al di

sotto della cintura. Eravamo così vincolati a questo concetto di correttezza che

in occasione di una riunione in quello che sarebbe poi diventato il teatro

Olimpico fui convinto di aver visto portare un colpo basso, e fu così che fra il

brusio, gli applausi, le grida di incitamento degli astanti si sentì distintamente

la mia voce ancora infantile strillare: ‘delinquente !…’ cui seguì un innaturale

silenzio. Zio Alberto si piegò verso di me abbastanza alterato a sussurrare:

‘Giampietro c’è il Segretario del Partito !….’ al che mi accorsi di arrossire fino alla

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cima dei capelli per il timore che la mia infelice uscita potesse in qualche modo

inficiare la posizione di zio.

Papà aveva fatto il soldato in cavalleria ed aveva raggiunto il grado di caporal

maggiore per meriti sportivi, essendo abile nel salto ad ostacoli; aveva una

certa frequentazione per ragioni sportive con i figli del Duce, Bruno e Vittorio,

e profittando di ciò non si era iscritto al Partito, finché avendo incontrato, per

il suo lavoro di elettrotecnico, il Duce che ne sapeva la conoscenza dei figli,

questi gli fece riferire da loro che era meglio che si iscrivesse. Ma l’unica sua

esibizione esterna che ricordo era il distintivo del PNF all’occhiello della

giacca.

Questo fatto gli consentì anche di acquisire dei lavori pubblici, e quelli a

servizio propagandistico del Partito; come gli impianti delle strutture

provvisorie del Circo Massimo dove un anno si svolsero le finali dei Littoriali.

Erano, questi, giochi come gli attuali giochi della gioventù, che prevedevano

manifestazioni a carattere regionale che sfociavano poi nelle finali nazionali.

L’impronta dei giochi privilegiava i giochi di squadra, e, ricordo la mia

meraviglia per la mancanza del portiere, quando assistetti, durante le finali dei

Littoriali, ad un incontro di palla canestro. Avevo trasferito nella mia

ignoranza, le regole del calcio ad un altro sport con la palla.

Le zie, per quel che le riguardava, se potevano di politica o di fascismo non

parlavano, ma non riuscivano a dare il Voi, come era la prassi dell’epoca, per

cui normalmente davano il Lei, e qualche volta il Tu.

Mamma invece portava con orgoglio la sua fede di ferro che aveva sostituito

quella di papà quando aveva dato l’oro alla patria e solo al cinquantesimo di

nozze accettò di sostituirla con una fede nuova.

A noi ragazzi, il fatto di non vestirsi da Balilla come tutti gli altri, che, anche

nella scuola straniera dove non era obbligatorio, il sabato venivano in divisa,

un po’ meravigliava ma non fummo mai tanto incuriositi da richiederlo ai

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genitori, e la vera ragione della scelta della scuola la sapemmo solo molto

tempo dopo la guerra.

Non ostante l’extraterritorialità della scuola, comunque, quando scrivevamo la

data dovevamo aggiungere all’anno, il numerale romano XVII E.F. fino al 28

ottobre, e XVIII E.F. dal 28 ottobre in poi, ad indicare l’Era Fascista.

Da sinistra: Il Comm. M. ; zio Arduino; papà; zio Alberto; il Prof. Arrigo C.; il Sig. F.

Sedute: Mamma; zia Renata; zia Ninnì

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LA RADIO

Scendendo da Piazza della Croce Rossa lungo Via del Policlinico, si incontra a

sinistra, un palazzo di scarso interesse artistico, con una lapide non troppo

grande con lettere incise e con la pittura nera interna ormai sbiadita che

celebra i XL anni dall’inaugurazione del primo trasporto di energia al mondo,

nel punto dove era la stazione ricevitrice.

Nonno Giovanni, che era stato capo montatore della Società Anglo Romana di

elettricità, aveva personalmente partecipato all’evento, nel senso che aveva

materialmente contribuito a costruire la linea.

Nonno Giovanni

Di origine veneta ma torinese di nascita e di eloquio, era un operaio stimato ed

esperto, che non si limitava alla materiale esecuzione del compito, ma

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conosceva la materia che trattava, l’elettricità, tanto che in tutti i nuovi lavori

era richiesta la sua presenza.

La maggior parte delle prime centrali di produzione dell’energia, molte delle

quali ancora esistenti pur se adeguate nelle apparecchiature, lo hanno visto

all’opera, con nonna Elvira che lo seguiva nelle sue peregrinazioni per i

paesini del centro Italia, ogni tanto allietando la famiglia con la nascita di un

figlio non necessariamente nato a Roma.

I nonni avevano avuto 11 figli che però, dopo la decimazione a causa della

spagnola degli anni ’19-20 erano rimasti solo 6: Giuseppe Maria detto Mario di

cui abbiamo già parlato, Fernanda che per distinguerla dalla omonima sorella

di mamma era da me chiamata zia Fernanda Favero, Felice, mio padre, che ne

aveva ereditato l’amore per l’elettricità, Antonio detto zio Tonino, Alessandro

detto zio Sandro e Giorgio (zio Giorgio).

La passione di nonno per il suo lavoro lo aveva portato ad inventare due

apparecchi che sarebbero diventati di impiego comune: il commutatore ed il

deviatore.

Per capirne il funzionamento occorre ricordare che a quel tempo l’interruttore

era costituito da una cassetta rotonda con un apparecchio interno in ceramica,

nel quale girava un dispositivo azionato da una chiavetta esterna.

Ad ogni quarto di giro l’interruttore si apriva o si chiudeva, spegnendo ed

accendendo la luce.

Con quell’apparecchio non era possibile, ad esempio, accendere un

lampadario prima a metà luce, poi a tutta luce, quindi alla seconda metà luce,

ed infine spegnerlo: questo compito sarebbe stato risolto dal commutatore.

Inoltre con l’interruttore non era possibile accendere la luce di un corridoio

entrando da un lato, e spegnerla uscendo dall’altro lato: questo compito

sarebbe stato risolto dal deviatore.

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L’idea avuta da nonno, e che tento di riprodurre in un disegno esplicativo, non

era tanto banale se la Società Anglo Romana lo premiò con 2 lire d’argento.

Naturalmente né lui né la Società richiesero brevetto.

Tornando ai tempi del racconto, nonno non veniva spesso a casa, abitando

abbastanza distante dal centro, a Via Tunisi, presso Piazzale delle Medaglie

d’oro; ma lo ricordo, io ancora molto piccolo, con il suo odore di sigaro

toscano che gli aveva ingiallito i baffi nel centro, quando mi spiegava perché i

treni non deragliavano in curva.

Nonna Elvira, faceva visite ancora più rare, ma la ricordo chiaramente quando

venne a trovarmi in occasione di una di quelle malattie esantematiche proprie

della fanciullezza.

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Mi sembrava imponente, camminava infatti molto eretta, con i capelli bianchi,

il cappello con la veletta ed il solino al collo. Non ne ricordo la voce pur se

talvolta ne risento il profumo.

Quando io, o Paola, eravamo malati, in specie se in stato febbrile, in casa c’era

molta agitazione. La maggiore era determinata dalla preparazione del

cataplasma, (da tutti chiamato impiastro) che consisteva nel riscaldare

portandola quasi a torrefazione una miscela di semi di lino ed acqua, che

emanava un tremendo odore che si spandeva per tutta la casa, e veniva

spalmata su un piano di garze e ricoperta di altre garze. Il tutto veniva poi

posato sul petto, dove, con il suo caldo umido, scioglieva la tosse.

Né a me né a Paola piaceva questo trattamento, e ci voleva sempre un grande

che ci consolasse; e ricordo appunto nonna, seduta sul mio letto che mi teneva

la mano, sotto le coperte per non raffreddarla.

Ero molto piccolo, perché nonna è morta prima che avessi cinque anni.

Dicevo che nonno, come anche gli zii Favero, non venivano frequentemente a

casa, ma quel giorno di giugno doveva esserci una ragione particolare, perché

a parte zio Mario che era in Africa, erano tutti da noi, in camera da pranzo,

insieme a papà, mamma e le zie, sulle seggiole poste in cerchio attorno

all’apparecchio radio, che eravamo fra le poche famiglie a possedere.

Per me, ormai già smaliziato dopo il primo anno di scuola, la guerra era come

una partita di pallone, nella quale l’Italia, naturalmente doveva vincere

essendo campione del mondo; e non riuscii a capire perché zia Fernanda

Favero piangesse, e nonno la seguisse da presso. Mamma e le zie si

raccomandavano invece di ‘non far capire al pupo, che già va a scuola’.

Io saltavo per casa la mia gioia, urlando i miei evviva all’Italia, al Re, al Duce,

a tutti.

Non avrei saltato altrettanto la notte, quando avemmo il primo allarme

antiaereo.

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Abitavamo al quinto piano, cui però si accedeva tramite sei rampe di scale,

poiché Palazzo Marignoli aveva un ammezzato senza la fermata

dell’ascensore, e il piano primo, il piano nobile, di altezza doppia. Non che gli

altri fossero di altezza limitata poiché ogni rampa di scale contava trenta tre

gradini, cioè una volta e mezzo le normali rampe attuali.

Nel Palazzo, alla scala di Piazza San Silvestro, abitavamo solo due famiglie,

oltre il portiere; gli altri locali erano tutti uffici, vuoti di notte, salvo la sala

stampa del primo piano che di notte era più frequentata che di giorno.

L’altra famiglia, di Claudio S., di origine spagnola, che possedeva un negozio

di articoli da regalo al Corso, abitava al nostro stesso pianerottolo.

Al suono dell’allarme, uscimmo tutti titubanti di casa, e, prese le scale ci

avviammo al sotterraneo.

All’altezza della sala stampa, papà si informò delle ultime notizie: ‘sembra che

stiano bombardando Bari’. Poi tutti in cantina.

A bombardamento finito, senza usare l’ascensore, per evitare ogni pericolo,

tutti ci incamminammo a piedi lungo i 198 gradini.

Come erano facili quelli tra l’ammezzato ed il primo piano, e come erano alti

quelli fra il piano primo ed il secondo. Percorrerli poi con la vestaglia, lunga

fino ai piedi, occorreva far attenzione per non cadere.

Papà portava in braccio Paoletta, che si era addormentata, ed io ero ben

stanco, anche se non volevo darlo a vedere.

Fu così, che quando mancavano ormai pochi gradini al pianerottolo del quinto

piano, inciampai nella vestaglia, con le mani in tasca, e caddi, faccia avanti,

lungo le scale, battendo il viso e rimediando una ferita vistosa sullo zigomo.

Mamma mi consolò rendendomi orgoglioso perché, a suo dire, ero il primo

ferito di guerra, ed io realizzai che in guerra ci si faceva male.

Comunque per tutta l’estate, tanto durò la cicatrice, andai fiero della mia

ferita.

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LA SPIAGGIA DI OSTIA

Un bambino conosce i propri genitori e gli altri parenti da grandi, e cresce man

mano mentre loro diventano anziani e poi vecchi, per cui se li ricorda più

facilmente con gli occhiali, gli acciacchi, i capelli bianchi, a meno che non

intervenga qualche evento straordinario a fissare il ricordo, indelebile, ad un

preciso momento della loro storia comune.

L’evento straordinario poi è tale soltanto per loro due, è sempre solo qualcosa

che accade nel loro rapporto, nel loro convivere, e può darsi che sia avvertito

solo da uno dei due.

Avere i capelli di mamma fra le mani, raccolti in tre ciocche, ad aiutarla a fare

la treccia presso la parte più alta del capo dove lei non arrivava facilmente;

sentire la loro consistenza di seta, tenere fra il pollice e l’indice delle due mani

i due settori esterni e giocare con i medi e gli anulari per intrecciare la ciocca

mediana ora con quella destra ora con quella sinistra; sono atti così presenti

ancora in me che posso ricordare la massa di capelli rossi di mamma, lunghi

fin oltre il punto di vita.

E questa loro lunghezza mi consentiva di passarle la treccia ormai quasi finita,

sul davanti della persona, perché ella provvedesse a fissarla con un nastro in

punta.

Era poi lei ad arrotolare la treccia sulla parte superiore del capo, per disporla

quasi sul retro, raccolta a spirale, con delle grosse forcine a due punte di color

biondo.

Questo ricordo così vivo dei capelli di mamma forse non l’avrei mantenuto se

un giorno mamma non se li fosse tagliati; questo fu l’evento straordinario che

mi permette di ricordare mamma ancora giovane; il dolore che ne provai, ben

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oltre le lacrime, me la facevano detestare, quasi mi avesse fatto un dispetto

personale.

Capivo, pur se piccolo, che a mamma i capelli non sarebbero mai più

ricresciuti così, come piacevano a me; che non avrei più potuto affondarvi le

piccole dita, né vantarmi con gli altri di aver fatto la treccia a mamma.

Debbo dire che per tutta la sua vita, mamma non sarebbe più stata pettinata

eccettuate le poche ore dopo il parrucchiere, sollevando ogni volta il

risentimento di papà, con rimproveri che divenivano sempre più affettuosi

con l’andare degli anni.

In effetti mamma che era stata sempre una donna energica, aveva dovuto

rinunciare ai capelli lunghi per il troppo tempo che richiedeva la loro cura, e

l’occasione furono le prossime vacanze al mare.

Per molti anni, dopo la fine della guerra, sia noi che la famiglia di Anco,

saremmo andati ad Ostia per l’estate; per i primi anni di guerra si prendeva in

affitto una casa, diversa per le due famiglie, e vi si risiedeva circa tre mesi.

Io e Paoletta affettuosi

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Al mare però, andavamo alla stessa cabina, ed il sabato sera, ci trovavamo tutti

alla stazione dove arrivavano i genitori e zia Giannetta. Con noi al mare

restavano Tetta e zia Fernanda, e con Anco Natalia e zia Giannina.

Giannina, data la differenza di età, l’ho sempre chiamata zia non ostante fosse

mia cugina, e solo ora quando lei è rimasta la matriarca della famiglia ed io ho

i capelli bianchi, mi rivolgo a lei senza il titolo di parentela.

Ad Ostia andavamo allo Stabilimento Lido, una bella struttura in stile Liberty

con un’ampia cupola, posta proprio di fronte alla chiesa parrocchiale Regina

Pacis, cupola che sarebbe stata distrutta, assieme allo stabilimento ed al

pontile durante l’occupazione; per impedire lo sbarco si disse.

Ai lati, strutture in cemento armato, lunghe e strette dalla strada al mare, con

copertura piana foggiata a tolda di nave, ospitavano, sui due lati, le cabine;

tutt’intorno girava un marciapiede, sempre in cemento, che si estendeva per

quanto si protendeva l’aggetto della terrazza superiore; questa era accessibile

da scale poste sui due lati brevi, ed era scarsamente utilizzata come solarium,

perché il pavimento in cemento non invitava a sdraiarvisi; mentre era il

trampolino di lancio di ragazzi più grandi di me che si cimentavano nel salto

sulla rena da quei tre metri di altezza, suscitando da un lato la mia invidia e

dall’altro le rimostranze del guarda spiaggia.

Verso il mare le strutture distavano da quello oltre venti metri, che si

sarebbero ridotti a niente negli anni successivi, mentre dal lato della strada lo

stabilimento era recintato con un muretto sormontato da una rete metallica

intelaiata, al centro della quale un fascio di rami di pungitopo appeso, era

impregnato di insetticida.

La battaglia contro le mosche impegnava veramente tutti, e, nelle case, appesa

ai lampadari centrali faceva bella mostra di sé la carta moschicida

rappresentata da un lungo rotolo di carta gialla che si srotolava a spirale,

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impregnato di sostanze collose e sempre più annerito di mosche che non

riuscivano, una volta toccatolo, a liberarsi.

Alle finestre, la rete anti zanzare era perennemente abbassata, mentre i vetri

erano dai due lati incrociati da nastro adesivo di carta che aveva lo scopo di

evitarne la rottura incontrollata in caso di spostamenti d’aria per il

bombardamento.

In casa non restavamo a lungo, solo qualche ora al primo mattino mentre le

donne la rassettavano ed io ero impegnato nei compiti delle vacanze; fra cui

un quaderno di Calligrafia regalatomi da nonno, che, per quanto lo

riguardava, sapeva scrivere come la calligrafia dettava, e che non immaginava

che già nella mia scuola non la si insegnasse più, il che mi obbliga attualmente

a scrivere solo al computer.

I nostri giochi sulla spiaggia non differivano dagli attuali, pallone, bocce,

tamburello; ma il principale era lo scambio delle figurine. Non erano figurine

di calciatori ma figurine di guerra.

Erano dei cartoncini rettangolari lunghi circa sette centimetri e larghi quattro,

con la figura messa prevalentemente in verticale, con un triangolo

rappresentante la bandiera del paese belligerante e la dicitura in basso. Una

bandiera bianca con croce azzurra sotto ad un paesaggio di neve e dei soldati

con gli sci ‘soldati finlandesi all’assalto dei russi’; una bandiera rossa con cerchio

bianco e croce uncinata sotto ad uno stormo di aerei in picchiata ‘gli Stukas in

picchiata su Londra’, un tricolore con al centro lo stemma sabaudo e dei

motoscafi nel mare in tempesta ‘M.A.S. in azione’; una bandiera blu con croci

bianco rosse di san Giorgio e di Sant’Andrea e soldati laceri con le mani alzate

‘Il presidio inglese si arrende ai soldati italiani’ .

Le figurine più comuni erano quelle di imprese italiane o tedesche, le più rare

le francesi perché la loro guerra era finita presto, le più ricercate quelle delle

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nazioni amiche quali Finlandia, Romania, Cecoslovacchia, Austria.

Ovviamente vincevamo sempre.

Baionette, fucili, cannoni, navi, aerei, bombe, tutto era fatto in prevalenza di

acciaio, e di ferro ce ne era poco, per cui lo si ricavava da tutto. Si cominciò

dalle cancellate degli stabilimenti balneari che vennero sostituite da tralicci di

legno per finire da tutto quanto potesse essere utile.

Anche la sabbia dell’arenile di Ostia dovette contribuire: Questo arenile,

infatti, invece che avana o bianco come tutti gli altri d’Italia, è di colore nero; è

caldissimo durante le giornate di sole, e non ci si può stare in piedi senza

bruciarsi le piante; ciò è dovuto ad un’alta percentuale di ematite nella sua

costituzione, e noi ragazzi ben lo sapevamo quando mettendo la sabbia su un

foglio di carta, muovevamo al di sotto, ma a contatto con il foglio, una

calamita e vedevamo la sabbia addensarsi in granuli filamentosi che si

disponevano verticalmente in corrispondenza del centro della calamita e la

seguivano nel suo movimento. Inclinando il foglio cadevano i granelli di

sabbia privi di ferro e restava man mano una sabbia sempre più nera e sempre

al seguito della calamita. Con il movimento i granelli non di ferro che

rimanevano intrappolati fra gli altri, si venivano man mano liberando, finché

rimaneva solo l’ematite.

Sfruttando lo stesso principio, anche l’Italia portò le sue grandi elettrocalamite

montate su camion sulla spiaggia di Ostia usandola come una cava di ferro,

ma questa non dovette assicurare una grande resa se le elettrocalamite

restarono sempre in numero limitato, ed in definitiva vennero abbandonate

ben prima che la guerra finisse.

Il fatto di stare da soli con Tetta e zia Fernanda, specialmente in casa, rendeva

me e Paola assolutamente soggetti a loro due, senza che il telefono potesse

soccorrerci in qualche modo con l’intervento dei genitori.

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In mancanza di telefono in casa, le notizie con la famiglia o non venivano

scambiate o si doveva fare ricorso al telefono di qualche negoziante vicino che

poi avrebbe riferito.

Così una domenica in cui a tavola c’era la trippa, che a me non piaceva e che

mi faceva senso, papà voleva obbligarmi a mangiarla, minacciando: ‘se non ti

va oggi ti andrà stasera, se non ti va stasera ti andrà domani’

Non so se fosse il fatto che io, ormai allo stremo, il giovedì mi convincessi a

mangiarla non riuscendovi per l’effetto emetico che immediatamente ne

conseguì, ovvero il fatto che il caldo di cinque giorni l’avesse ormai putrefatta;

ovvero una telefonata di zia Fernanda a Roma; certo che io non la mangiai, né

da allora l’ho mai mangiata.

Non ricordo però con che cosa ho interrotto il digiuno.

C’era, davanti alla stazione, quella vecchia che sarà distrutta durante

l’occupazione, una strada che portava direttamente al mare, con il primo

palazzo a sinistra che aveva dei portici al piano terra.

Giusto a metà del palazzo una pasticceria protendeva la vetrina fino al limite

esterno del portico. Sul muro del palazzo un foro permetteva il passaggio di

un modello di dirigibile dall’interno della pasticceria fino a sopra la vetrina,

con una fune di sostegno ed una fune traente.

Annunciato da una campanella il viaggio del dirigibile iniziava, dapprima era

solo rumore, poi lo si vedeva spuntare dal foro nel muro, viaggiare fin sopra la

vetrina, giungere al fine corsa proprio in corrispondenza di un prisma

verticale in vetro.

La punta del dirigibile andava ad urtare contro un contrasto e ciò determinava

la apertura della pancia del dirigibile, da cui cadeva un krapfen alla

marmellata ancora bollente di cottura.

La bomba, così è ancora chiamata a Roma, cadeva lungo il prisma verticale

entro il quale la corsa veniva attenuata per effetto di lamine a molla poste su

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due lati a fare contrasto, e terminava la sua caduta su una montagnola di

zucchero.

La commessa lo serviva subito al primo della fila che si era prenotato.

Perché la ressa davanti era tanta, noi bambini eravamo affascinati dal volo del

dirigibile e dalla voglia del dolce, e come noi tanti che restavano per diverso

tempo imbambolati dallo spettacolo.

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LA PARTITA

Papà era probabilmente il figlio maschio preferito di nonno Giovanni, che lo

chiamava Felicino e che rivedeva in lui se stesso, come amore e dedizione al

lavoro, serietà negli impegni, onestà nei rapporti. Ed, in effetti, aveva seguito le

scuole, da piccolo in seminario nel quale, secondo il costume dell’epoca

portava l’abito talare non ostante i suoi otto anni di età, quindi quelle tecniche

che avevano rivestito di un necessario abito culturale la sua indubbia capacità

imprenditoriale. Questa lo avrebbe portato ad essere eletto per ben due volte

Presidente dell’Associazione Internazionale delle Imprese di Installatori

Elettrici. L’elettrotecnica, al tempo non aveva assunto quell’aspetto di banalità

che attualmente la rende tanto pericolosa, e fonte di tanti incidenti domestici.

Allora era un mistero per pochi iniziati: e chi la praticava era considerato un

mago.

Papà era chiamato il mago della luce, e ciò gli conferiva un alone di fascino.

Cui peraltro era abituato, dapprima come cavallerizzo, in divisa, con il

colbacco di pelo come quello delle guardie della Regina, quindi come

fiumarolo uso a prendere il sole con un doppio triangolino di tela allacciato sui

fianchi.

Riccio di capelli, che però portava lisciati all’indietro anche se ondulati,

secondo la moda del tempo, alto un metro e settanta, era molto proporzionato

e decisamente un bell’uomo.

Nessuno avrebbe pensato che si sarebbe innamorato di Valentina, più grande

di lui di quattro anni, che frequentava in ragione di una lontana parentela che

univa le famiglie Benedettini e Ponti (il cognome di nonna Elvira), tanto che

rivolgendosi a nonno Pietro lo chiamava zio.

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Fu questa confidenza che gli permise di chiederla in moglie, perché nonno, con

il suo atteggiamento che incuteva timore ai possibili pretendenti, aveva già in

precedenza scoraggiato le nozze di zia Giannetta e di zia Fernanda. La

memoria familiare rappresenta nonno Pietro, che morì prima che io nascessi,

con la testa leggermente abbassata, a guardar di sopra gli occhiali

l’interlocutore senza profferir parola.

Papà, data la sua confidenza e la conclamata parentela, non ebbe difficoltà ad

essere accettato come genero, se non l’impegno di applicare anche il cognome

materno ai figli nati quando nonno era in vita, cosa che non avvenne per la

prematura morte di nonno Pietro.

In quel periodo papà aveva per le mani un lavoro importante, e, nelle attese,

remunerativo che voleva portare a termine prima del matrimonio.

L’elettrificazione della ferrovia Roma Nord, che univa Roma a Viterbo, in

partenza da Piazzale Flaminio e con il primo tratto in galleria, fino all’Acqua

Acetosa. Ma il lavoro non gli venne pagato secondo le attese, e, credo, secondo

gli accordi. Tante volte ho sentito il racconto, quando si avvicinavano le feste di

Natale, di papà e mamma che, la vigilia di Natale del 1932, insieme andarono a

richiedere il pagamento all’Ingegnere, dato che si dovevano sposare due giorni

dopo; e se lo sentirono negare.

Vuoi per avventura, vuoi per incoscienza, vuoi per fiducia in Dio e in se stessi,

si fecero il segno di croce e si sposarono ugualmente, trasferendo nel motto

della loro partecipazione questa fiducia nella vita : Soli, sub sole, ad solem.

Papà seppe, dopo la guerra, che chi gli aveva negato il dovuto, in occasione

della guerra partigiana, era stato prelevato a Milano dai partigiani assieme a

sua figlia, e con lei ucciso, anche in modo barbaro; e dichiarava che anche se a

suo tempo aveva invocato la giustizia divina, non riusciva a sentirsi ripagato,

ma solo impietosito. Quell’episodio di dolore della vigilia di Natale era ora

riguardato con occhio senza più livore.

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Con il suo lavoro, papà si era fatto tanti amici fra i suoi clienti, passati ed

attuali, e si frequentavano. Ricordo Renato F. detto l’avvocato Cipolletta che

aveva un immenso negozio di mobili in Via Nazionale con magazzino che

arrivava in via Genova, assieme al Conte Teodoro M.; i fratelli N. proprietari di

un negozio di ottica in via del Tritone e del cinema Moderno; l’architetto

Virgilio C. con una stupenda mano per il disegno; Ugo P. proprietario di alcuni

bar in Roma, di cui ricordo quelli a Via Nazionale ed a Piazza dell’Esquilino.

Allora no, ma ora mi sembra strano perché non succederebbe più, che tutti

questi amici trattassero mamma con il lei chiamandola signora Valentina,

mentre mamma, di rimando, usasse il lei chiamandoli per nome. A ben

ricordare l’unico fra gli amici di famiglia a chiamare mamma semplicemente

Valentina ed a darle il tu, sarebbe stato il Prof. Arrigo C. una volta tornato da

Modena per aver vinto la cattedra a Roma.

Molti di questi amici di papà avevano anche un’altra ragione di frequentazione,

oltre quella del lavoro, ed era la comune passione sportiva per la Roma.

Papà proveniva dagli ambienti di Piazza Adriana dove era ed è la sede della

Fortitudo, società polisportiva con annessa sezione calcio. Anzi zio Tonino era

giocatore della squadra, non so se della prima o di qualche formazione minore,

per cui fu naturale alla fusione tra Fortitudo, Alba, Roman e Pro Roma,

confluire nella Roma.

Papà aveva la tessera di socio vitalizio numero 47, e giusto in quel secondo

anno di guerra mi recò con sé ad una delle ultime partite del campionato.

Questo si effettuava allo Stadio Nazionale del Partito dove sette anni prima si

era svolta la finale dei campionati del mondo. Era uno stadio fatto ad U con

uno dei lati maggiori coperti da una struttura sostenuta da pilastri posti

pressoché al centro della scalinata che impedivano la completa vista a chi

sedeva dietro. Al centro della tribuna c’era il settore d’onore che ospitava un

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discreto numero di gerarchi in uniforme, ma quasi mai il Duce che sembra

avesse una maggiore propensione per la Lazio.

Sul lato non chiuso dello stadio c’era una piscina sopraelevata con trampolino

da 10 metri ed una tribuna di 4 o 5 gradini sul lato opposto al campo di calcio.

Come tutti gli stadi inglesi di società, che sono adibiti soltanto al calcio, anche

questo stadio era immediatamente a ridosso del campo, ma il pubblico era

molto più composto di quanto lo sia ora, con una notevole rappresentanza

femminile.

Alla partita si andava come alle corse, per cui in giacca e cravatta e cappello,

che d’estate era il panama; e questo non soltanto nella tribuna coperta. Non si

sentivano parolacce perché il turpiloquio era proibito e passibile di multa.

Dal centro della città, dove abitavamo, si andava allo stadio in autobus, e se ne

dovevano prendere due, uno fino al piazzale Flaminio, l’altro, il tram, che

percorreva la via Flaminia. Dopo la partita, generalmente si tornava a piedi,

almeno per il primo tratto fino a piazza del Popolo.

Via Flaminia, nel tratto compreso fra lo stadio e Piazzale delle Belle Arti, ha,

sulla destra un solo palazzo ed una chiesetta rotonda, poi tutti giardinetti, che

durante questo periodo di guerra, ospitavano degli orti di guerra. E ricordo la

canzone che cominciava: Caro Papà, ti scrivo e la mia mano / quasi mi trema, lo

comprendi tu? / Son tanti giorni che mi sei lontano / ma dove vivi, non lo dici tu!! .. e

terminava, commossa: Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra, / con fede con

amore e disciplina, / desidero che vinca la mia terra, / e annaffio l’orticello ogni

mattina. / L’orticello di guerra / e prego Iddio / che vegli su di te babbino mio.

E fu proprio in piazza del Popolo che colsi di sfuggita una considerazione fatta

da papà e dai suoi amici sul possibile andamento della guerra, con

pessimistiche previsioni che cozzavano con il mio personale entusiasmo, e con

l’effettivo andamento delle operazioni.

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Papà si accorse che avevo ascoltato, ma non mi disse niente; ma io ero abituato

a non riferire mai quello che si diceva in casa, anche se mi sentivo imbarazzato

passando davanti ai manifesti propagandistici in cui un uomo vestito da

soldato portava il dito indice teso in verticale davanti la bocca a toccare la

punta del naso, con la dicitura: ‘Zitto : il nemico ti ascolta’

Molti uomini, durante la guerra, portavano all’occhiello, oltre il distintivo del

P.N.F. anche qualche altro distintivo propagandistico per il periodo di guerra.

Quello che ricordo più vivamente era in lettere maiuscole dorate su fondo

azzurro e diceva: ‘Dio stramaledica gli inglesi’ in più righe con parole senza

soluzione di continuità fra loro, e segno di andata a capo; per cui era di difficile

interpretazione a prima vista. Ma una volta capito, sapevi che avevi Dio dalla

tua parte, e non ti potevi far ragione dello scetticismo di papà e dei suoi amici.

Ma avrebbero avuto ragione loro.

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I BOTTONI BIANCHI

Piazza San Silvestro era a quel tempo divisa da piazza San Claudio da Via San

Silvestro, animatissima di negozi e sfavillante di luci fino all’oscuramento.

Davanti l’Ufficio centrale delle poste, l’altro lato della piazza era in esatta

corrispondenza con lo stipite destro del portone del civico 92, quello di

Palazzo Marignoli.

In Via San Silvestro, e nelle vie circostanti c’erano negozi di vario genere ma

non alimentari; per trovare questi occorreva andare verso Piazzale Flaminio, e

si trovavano a via del Gambero il lattaio Ferretti con il bancone e tutti i tavoli

in marmo, le bottiglie in vetro con il tappo di stagnola e la data incisa, nel

tratto della via compreso fra via della Vite e via Frattina; la farmacia all’angolo

di via della Vite con tre gradini di accesso ed una porta in legno con vetro

centrale da cui si vedeva l’arredamento interno tutto in legno scuro; il negozio

di confetti Vagnozzi davanti al lattaio dal quale, quasi ogni volta che

passavamo davanti, ci veniva, a noi bambini, offerto un dolcetto; il bar Eleuteri

vicino via delle Convertite da cui usciva sempre odore di caffé. A via Frattina

c’era il fornaio Carlucci in un negozio presso l’angolo di Via Mario de’ Fiori; a

Via Belsiana non c’erano negozi fino a via delle Carrozze, poi prima di

arrivare a Via della Croce c’era il carbonaio dai capelli rossi sempre sporchi di

nero, per l’abitudine di caricare i sacchi di carbone aiutandosi con la testa, e

proprio all’angolo con Via della Croce il salumiere Scialanga. Su Via della

Croce, presso il salumiere c’era un altro fornaio, sempre Carlucci, e fratello di

quello di Via Frattina con due porte laterali ed una vetrina centrale, e di fronte

il macellaio con gli stipiti della porta e della vetrina in marmo verdognolo

sormontati da due teste di toro in bronzo, un bancone alto oltre un metro e

mezzo, cui arrivavano a stento gli occhi delle massaie, e, dietro, il macellaio, su

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una pedana altissima che gli consentiva di sporgersi dal bancone per

consegnare ai clienti il pacco della carne, con il grembiule sempre sporco di

sangue, e sempre in atto di affilare i coltelli. Lungo via della Croce andando in

su, cioè verso Piazza di Spagna, il fruttivendolo Delucchi che vendeva anche

coloniali, e poco oltre, presso l’incrocio con via Bocca di Leone, lo spaccio di

vini ed oli, nel quale il vino era conservato in botti, e ne veniva spillato con un

tubo in gomma che terminava con un tratto di canna tagliato ad ancia; per

spillarlo, occorreva succhiare dal tubo di gomma in modo da eliminarne

all’interno la pressione atmosferica; l’abilità nel succhiare era farlo senza bere,

e senza che il flusso si interrompesse. Fra via Bocca di Leone e Via Mario de’

Fiori c’era poi il negozio di abbacchi e polli che vendeva anche le uova.

In tutti questi negozi passava ogni mattina zia Giannetta che era deputata agli

approvvigionamenti, ma non ostante la bontà del materiale in casa si

mangiava male.

La pasta asciutta non era frequente a tavola, si preferiva il brodo, sempre di

gallina, sempre molto grasso, ovvero un qualsiasi tipo di zuppa, con fagioli,

ceci, lenticchie, broccoli, piselli e patate. Ancora odio nel ricordo il minestrone

che, chissà perché, aveva come principale ingrediente il sedano, che ancora

non riesco a mangiare. Il secondo era eminentemente di carne, salvo il venerdì

in cui mangiavamo pesce, generalmente merluzzo bollito, che piaceva soltanto

a papà; ma la mamma e le zie erano troppo buone cristiane per non fare

vigilia. Purtroppo la carne che girava per casa era del tipo che piaceva a zia

Giannetta, sempre piena di grasso e tenerume, e le poche volte in cui era una

bistecca, nessuno sapeva cuocerla e ne riusciva una suola dura e bruciacchiata.

Noi ragazzi eravamo felici quando c’erano le polpette od il polpettone, fatti

con gli avanzi macinati dei giorni prima con l’aggiunta di uovo, pan grattato e

noce moscata, perché era morbido, masticabile e saporito. Molto raramente, e

solo in ricorrenze, abbiamo avuto pollo, ma abbastanza spesso le uova cotte

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comunque, al piatto, in frittata, a la coque, sode. Le cose buone erano i

contorni, insalata cruda o verdure cotte, o bollite, come la bieta, o ripassate in

padella come spinaci e cicoria; una festa erano i piselli al prosciutto e una gioia

le patate.

Il frutto finale era di prammatica ma di nessuno sollevava l’entusiasmo.

Il pane era per lo più rappresentato da sfilatini, il vino riservato ai grandi,

l’acqua presa dal rubinetto della cucina e, per zia Fernanda, dal bagnetto

laggiù.

Il latte doveva venire bollito per almeno dieci minuti, e lo si faceva in un

pentolino dotato di coperchio ad imbuto rovesciato, con grande foro centrale

ed una serie di fori più piccoli laterali, il coperchio veniva fissato al bollitore

facendo corrispondere due incavi diametralmente opposti a due rilievi interni

alla pentola, e poi girandolo per togliere la corrispondenza, in modo che il

latte bollendo, non lo sollevasse.

Il latte, durante il riscaldamento, non dà segni di variazione, come fa l’acqua

che comincia a creare bollicine, ma all’improvviso si gonfia avendo formato

una pellicola superficiale che impedisce al vapore di fuoriuscire e, se non ci

fosse il particolare coperchio, non si farebbe mai in tempo a spegnere il fuoco o

ad abbassare la fiamma, che tutto il latte fuoriuscirebbe dalla pentola. Il

coperchio, disegnato nel modo descritto, rompendo la pellicola superficiale,

consente la fuoriuscita del vapore, ed allora il latte, che ha cominciato ad

uscire dal foro centrale, ricade per i fori laterali. A questo punto è bene

abbassare la fiamma e consentire al latte di bollire per dieci minuti senza

troppi sommovimenti. I dieci minuti, secondo la famiglia, dovevano essere il

tempo sufficiente ad uccidere non so quale sorta di pericolosi batteri, e

l’abitudine si è conservata in casa anche dopo l’introduzione del latte

pastorizzato.

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Un’altra bevanda peculiare era il cosiddetto caffè d’orzo, cui l’appellativo di

caffè derivava solo dal colore scuro. La preparazione dell’orzo procedeva in

casa fin dalla fase di torrefazione, infatti l’orzo veniva comprato in chicchi che

somigliano in tutto ai chicchi del grano. Questi venivano posti in una padella

larga munita di copertura fissa nella quale si apriva un vano, ed al centro della

quale era inserita una manovella che azionava una pala di miscelazione. Il

tutto veniva posto sul fuoco e si cominciava a girare mentre l’odore della

torrefazione invadeva la casa. Quando l’orzo era nero al punto giusto, lo si

tirava fuori dalla padella e lo si faceva raffreddare. Si macinava a mano con un

macinino munito di cassetto inferiore, destinato solo al caffè ed all’orzo. La

procedura per ricavarne l’infuso, prevedeva in casa nostra, l’impiego di un

bricco in alluminio tronco conico riempito d’acqua con entro qualche cucchiaio

d’orzo, ed una cottura a fuoco lento che poteva durare ore.

Questo orzo, unito al latte, era la colazione di tutti.

Procedendo la guerra, il cibo venne assoggettato a sempre maggiore

razionamento, sia come tipologia sia come quantità; e la nostra abitazione era

troppo centrale perché fosse meta di chi faceva borsa nera, per cui

scarseggiava veramente.

Non una volta sola le zie ed i genitori si trovarono in lacrime davanti ad una

zuppa di acqua e pane; ma noi bambini, non abbiamo mai sofferto la vera

fame, anche per nonno Giovanni.

Dopo la cucina ed il bagno era, a metà del corridoio, installato il telefono. Non

erano molti i telefoni privati in quegli anni; il nostro numero era 62.651 ed era

divertente, per me che avevo iniziato a leggere, ritrovarlo sui tre dei quattro

elenchi del telefono che la Te.Ti. dava agli abbonati.

Un elenco, stampato in carta bianca, era quello nominativo, identico al tipo

attuale; un elenco, stampato in carta gialla, antesignano delle pagine gialle, era

l’elenco categorico in cui, ovviamente compariva la ditta Benedettini ma non

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la famiglia Favero; un terzo elenco stampato in carta azzurra, era lo stradale in

cui la suddivisione veniva fatte per strade elencate in ordine alfabetico, per

numeri civici elencati in ordine crescente, e, all’interno del numero civico, per

abbonati elencati in ordine alfabetico; un quarto elenco, stampato in carta

bianca, con caratteri più piccoli del primo elenco, era il numerico in cui

l’ordine era rappresentato dal numero telefonico che veniva accoppiato al solo

nome dell’abbonato, senza l’indirizzo.

Quel giorno risposi io al telefono, e riconobbi la voce di nonno Giovanni che

mi diceva: ‘Di’ a Valentina che ho trovato 12 bottoni bianchi..... hai capito bene?

....12 bottoni bianchi’ Io naturalmente riferii, senza meravigliarmi perché, con

un negozio di abbigliamento maschile era normale che a mamma servissero i

bottoni bianchi, anche se 12 non mi sembravano granché, tanto da giustificare

una telefonata che nonno non aveva potuto fare da casa.

Solo molto dopo ho saputo che i dodici bottoni bianchi erano il codice per

significare una dozzina di uova, che nonno aveva acquistato a borsa nera per

noi bambini.

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I FAZZOLETTI

Il giorno dell’Epifania era restato un giorno di festa e di regali anche durante

la guerra, almeno nei primi anni. Per noi, il Natale non aveva il contorno di

doni e strenne che ha attualmente; ma più un carattere intimo e religioso; per i

doni c’era la Befana. In quel giorno era vietato svegliarsi prima, o, almeno,

andare in cucina. La sera si era preparata la colazione per la Befana, a base di

arance, e si erano lasciati dei calzini appesi alla cappa, sperando di ritrovarli

pieni di dolci, assieme a qualche regalo, accanto, una letterina di desideri.

Io avevo compiuto otto anni da meno di un mese, e nelle mie letterine avevo

chiesto la divisa da corazziere ed un fortino. Al mattino del 6 gennaio in

cucina, sul tavolo c’erano dei pacchi così grandi che le calze piene di dolci, e di

carbone, appese alla cappa scomparivano.

Il fortino, in cartapesta, una volta scartato, rivelava una struttura centrale con

ponte levatoio per l’accesso con ai lati due torri per l’alloggiamento dei

cecchini, ed un esercito di soldatini, nelle più varie posizioni: l’ufficiale, in

piedi, con la pistola puntata; il soldato che prende la mira in piedi, accosciato o

sdraiato in terra; l’incursore che taglia il filo spinato; il cavaliere con la lancia e

la bandierina in fondo; il ferito trasportato da due barellieri che recano al

braccio un bracciale bianco con la Croce Rossa.

Il regalo era così avvincente che mi accorsi appena della corazza da corazziere;

della mia disattenzione si accorse invece Paola, che, abbandonata per il

momento l’immensa bambola con gli occhi mobili, aveva indossato l’armatura,

inalberava l’elmo e minacciava con la sciabola.

Paola, che aveva orma sei anni e mezzo, era una bambina bellissima con il

naso all’insù, una cascata di boccoli castani che portava pettinati come Shirley

Temple, cui peraltro in qualche modo assomigliava, ed era capricciosa per

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quanto bella. Papà, un giorno, avrebbe punito i suoi capricci quando prima

aveva voluto l’uovo battuto con lo zucchero, poi non lo aveva più voluto

mangiare, versandole il contenuto della tazza proprio sui capelli ed

assicurando che lo shampoo all’uovo rendeva i capelli splendenti.

Quando mamma e le zie si accorsero che si era impadronita del mio regalo, mi

dissero: ‘guarda tua sorella che ti ha preso l’armatura’ ; ed io di rimando, nella

mia beata incoscienza ‘lasciala fare che è femmina’.

Comunque per fargliela rendere dovetti fingere di mettermi a giocare con la

sua bambola.

Quell’anno avrebbero cancellato Via San Silvestro, demolendo il palazzo

compreso fra Piazza San Silvestro e Piazza San Claudio, unendo in tal modo le

due piazze in una piazza sola. Poterono così trasferire in questa nuova piazza

tanti capolinea di filobus che prima erano in Piazza del Parlamento.

A Roma, in quel periodo, c’erano diversi tipi di mezzi di trasporto pubblico,

gli autobus, i filobus ed i tram.

Questi ultimi erano riservati alle due circolari: la circolare nera CD o CS

(destra o sinistra) che seguiva all’incirca il percorso delle mura Aureliane, la

circolare rossa ES o ED (esterna sinistra o destra) che seguiva un percorso più

esterno di circa 500 metri; ed ai trasporti radiali in partenza dal limite del

centro fino all’estrema periferia. Ricordo la linea 1 che in partenza dal piazzale

Flaminio percorreva, in doppio senso, tutta via Flaminia, fino al ponte Milvio,

dove la linea diventava unica, per poi avere, oltre il fiume, un anello per

l’inversione di marcia. Sullo stesso anello faceva capo la linea tranviaria 2 che

percorreva via Flaminia fino ai due Ponti. Ricordo la linea 23 che partendo da

Monte Savello arrivava fino alla Basilica di San Paolo, dove un anello fra le

siepi di mortella ne consentiva l’inversione di marcia; ed ancora la linea 35 che

univa piazza Cavour con l’Ospedale di Santa Maria della Pietà, sul cui

piazzale il consueto anello fra le siepi ne permetteva il ritorno. La particolare

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destinazione dell’ospedale che era un ospedale psichiatrico consentiva ai

romani, ( i veri romani sono maestri sia in quello che gli inglesi chiamano

understatement , sia nel suo contrario che si dovrebbe chiamare

overstatement) di significare a qualcuno le sue stranezze dicendogli di

prendere il 35; nello stesso modo auguravano di andare in carrozza per via

della Croce andando in su, sapendo che in quel senso, dal Corso a Piazza di

Spagna, potevano viaggiare solo le carrozze funebri.

Sempre a trazione elettrica erano i filobus, muniti di due trolleys a pattino

strisciante, che però, come d’altronde gli autobus, erano identificati da lettere

che erano funzione dei capolinea terminali. Così ST era la linea fra il salario e

trastevere, NT fra il nomentano e trastevere, M1P ed M2P, chiamati

rispettivamente emmepiuno ed emmepidue, quest’ultimo con le lettere

azzurre su fondo bianco, fra macao e prati, NB fra nomentano e borgo, EF fra

flaminio ed esquilino.

I filobus coprivano tutte le zone centrali fra i due capolinea, e non

disdegnavano di addentrarsi nelle viuzze del centro, come faceva l’M1P per

Via Condotti nei due sensi, l’EF per via del Babuino, l’NB per via dei

Portoghesi e via dei Pianellari, libere per l’assenza di traffico privato.

Traffico peraltro ce ne era, ed era traffico pedonale. Ricordo che al Corso, tra

via delle Convertite e Via Condotti c’erano dei cartelli azzurri rettangolari che

imponevano ai pedoni di tenere la mano sinistra, quella che risultava cioè

contraria al senso di marcia dei veicoli, e ciò per impedire che il flusso

pedonale e veicolare risultasse in qualche modo impedito. A non osservare il

divieto la multa era sicura e non un pericolo.

Gli autobus coprivano i percorsi che traversavano Piazza Venezia nella quale

non era possibile allestire la linea aerea, senza il ricorso a pali centrali di

sostegno, ed erano MB fra macao e borgo, cioè fra la stazione e San Pietro, FR

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fra piazzale Flaminio e Monte Savello (rione Regola) che in estate diventava

FL con scritte di colore azzurro ed era esteso fino alla stazione Roma-Lido.

Piazza Venezia, per suo conto, essendo il punto di ritrovo per le

manifestazioni, era priva di semafori, ed in essa il traffico era, come ancora è,

affidato ai pizzardoni. I semafori invece trionfavano in tutti gli altri incroci più

importanti: a via Nazionale c’erano quelli di nuovo tipo con tre luci, dall’alto:

rosso, giallo e verde, posti al centro dell’incrocio sospesi ad un cavo teso, ma

non erano diversi da quelli attuali; molto più comodi erano quelli di vecchio

tipo che avevano due riquadri formati da 15 lampade ciascuno, un riquadro

superiore rosso ed uno inferiore verde.

Le lampade dello stesso colore per lato, in occasione di traffico normale erano

tutte accese, ma per avvisare che il semaforo stava per cambiare indicazione,

cominciavano a spegnersi ad intervalli regolari le cinque lampade centrali del

riquadro illuminato, rosso in un senso e verde nell’altro, dando così a

chiunque non solo l’avviso della variazione di traffico, ma anche permettendo

di calcolarne il tempo. Questi semafori, montati al Corso, presso Palazzo

Marignoli, furono dapprima sostituiti da semafori analoghi che prevedevano

fra i riquadri rosso e verde, un riquadro giallo di una sola riga di lampade, e

qualche anno dopo la guerra da quelli di tipo moderno. I semafori, che erano

però limitati ai soli incroci del centro, erano in funzione nelle ore del giorno

tutti i giorni fuorché il giorno della Befana, nel quale lasciavano il posto ai

vigili urbani che tornavano a quegli incroci a regolare il traffico ed erano fatti

oggetto di regali da parte degli automobilisti per una tradizione gentile che

venne poi perduta.

Piazza San Silvestro con la nuova conformazione, permetteva di considerare

sulla stessa piazza ben tre chiese: San Silvestro stessa che, come anche ora, è

affidata a sacerdoti di lingua inglese; Santa Maria in Via con il santuario della

Madonna del Pozzo che era la nostra parrocchia affidata ai Servi di Maria, e

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San Claudio posta fra le due. Con l’allargamento avevano dovuto aggiornare

anche i numeri civici, e così il nostro portone assunse il numero 13.

San Claudio era ed è affidata ai sacerdoti Sacramentini seguaci del Beato

Pietro Giuliano Eymard, che in seguito sarebbe stato proclamato santo, ed era,

durante la guerra, una chiesa particolare perché all’altare centrale c’era sempre

esposto il Sacramento.

L’altare stesso, anzi, è costituito da un masso d’oro scolpito, a sostegno

dell’ostensorio, con dietro un immenso manto di ermellino partente dall’alto,

dall’interno di una corona reale. Sulla parete dietro l’ostensorio si apre uno

sportello per il quale è possibile accedere all’ostensorio stesso da una cappella

posteriore. Ogni pomeriggio, al vespro, si effettuava la benedizione

eucaristica, per cui, dopo il rosario, l’officiante si recava nella cappella

posteriore, toglieva l’ostensorio dalla sua posizione e lo portava in chiesa,

posandolo sull’altare. In ginocchio, intonava il Tantum ergo, e, giunto alla

seconda strofa, Genitori Genitoque, alzatosi per la breve bisogna, riempiva

d’incenso il turibolo rendendolo al turiferario. Al termine del canto, dopo la

giaculatoria ‘Panem de coelo..’ , incensava, sempre in ginocchio, l’ostensorio,

quindi, alzatosi in piedi, si avvicinava all’altare, prendeva in mano

l’ostensorio, coprendo le mani stesse con la stola che gli era stata posta sulle

spalle sopra il piviale, poi si volgeva coram populo e elargiva la benedizione

lentamente e ieraticamente ai quattro lati del cielo. ‘Dio sia benedetto,

benedetto il Suo santo nome, ..’ poneva termine al rito, dopo di che il

celebrante riconduceva l’ostensorio al suo posto, ripercorrendo a ritroso la

strada dell’andata.

In quei giorni, la chiesa era sempre piena per la benedizione, uomini e donne,

d’estate o d’inverno, con il caldo od il freddo, la pioggia od il bel tempo,

nessuno rinunciava alla preghiera, e la religione era un rifugio sicuro anche

per tanti miscredenti.

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Io avevo cominciato la mia carriera di chierichetto, ero stato accompagnato da

mamma da padre B. proprio a San Claudio, ed egli mi aveva dato un libricino

dove venivano riportate tutte le formule della messa in latino.

La parte del sacerdote era scritta in corsivo e si limitava alle prime ed alle

ultime parole nelle formule più lunghe, quella del ministrante era scritta in

grassetto, e riportava le parole con gli accenti tonici.

‘Introibo ad altare Dei’

‘Ad Dèum qui laetìficat iuventùtem mèam’

Il sacerdote stava in piedi in mezzo all’altare, mentre il chierichetto stava in

ginocchio in cornu Evangeli, perché doveva stare dalla parte opposta del libro,

e questo al principio della messa fino al Vangelo, stava in cornu Epistolae, cioè

alla destra dell’altare.

La messa si svolgeva a San Claudio ogni mezz’ora alternandosi ai due altari

laterali, poiché anche durante la messa non si interrompeva l’Adorazione

all’altare maggiore. Alle ore intere all’altare del Beato, alle mezze ore a quello

di fronte.

Gli altari non avevano una balaustra fissa, ma ognuno era separato dal popolo

solo da una transenna in ferro lavorato, posta a non più di mezzo metro dal

gradino, e solo dalla parte posteriore.

A parte i riti di introduzione, nei quali c’era una specie di tenzone fra

celebrante e ministrante, recitato a voce alta, almeno da parte del chierichetto,

cui generalmente si accompagnava la voce di qualche fedele presente che

conosceva il rito, il resto della funzione si svolgeva a voce bassa da parte del

sacerdote, sempre rivolto verso l’altare con le spalle al popolo.

Poiché in molte situazioni era previsto l’intervento in risposta del chierichetto,

il sacerdote a volte doveva alzare la voce per far intendere la fine della

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preghiera. Questo non era possibile con l’Epistola la cui lettura non terminava

come ora con le parole Parola di Dio , per cui il celebrante ricorreva ad un

segno particolare consistente o nell’alzare la mano sinistra, o nel volgere il

capo verso il chierichetto. Al che mi alzavo dopo aver detto ‘Deo gratias’ e mi

accingevo al cambio del libro portandomi alla destra dell’altare.

Quando il sacerdote si inchinava al centro dell’altare per il ‘Munda cor meum

...’ avevo il tempo di prendere il leggio con il messale, scendere dall’altare e

portarlo dall’altro lato, in cornu Evangeli.

‘Dominus vobiscum ‘

‘Et cum spìritu tuo’

‘Sequentia Sancti Evangeli secundum Lucam’

‘Gloria tibi Domine’

Il sacerdote continuava a bassa voce ed al termine baciava il libro, quello era il

segnale per proclamare ‘Laus tibi Christe’.

Non c’era mai l’omelia e, talvolta, non si diceva il credo.

A questo punto il sacerdote scopriva il calice, che fino ad allora era stato

coperto da un velo, a forma di piramide tronca, ed era in mezzo all’altare.

Questo era il segnale per la validità della messa, a questo si faceva riferimento

nei giorni festivi quando chi entrava in ritardo domandava ‘ E’ buona la

messa? Ha scoperto il calice?’.

Qui cominciava la mia attività perché per l’offerta del pane il sacerdote aveva

l’ostia pronta sulla patena sotto il velo, ma ero io che dovevo porgergli le

ampolle del vino e dell’acqua, per l’offerta del vino. Queste stazionavano alla

destra dell’altare e normalmente restavano colà per tutte le messe del giorno.

Dopo l’offertorio il sacerdote tornava verso il lato destro dell’altare, mentre io

tenevo il telo di lino per l’asciugatura sorreggendolo fra l’anulare ed il

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mignolo della mano sinistra, e con la stessa mano reggevo il porta ampolle;

nella destra avevo l’ampolla dell’acqua che versavo sulle mani del sacerdote

che recitava il salmo ‘Lavabo inter innocentes manus meas ...’

Normalmente il sacerdote recitava a memoria, comunque sull’altare c’erano

tre cartigli incorniciati, più grande quello centrale nel quale veniva riportato

tutto l’ordinario della messa, più piccoli i laterali, a destra quello del lavabo, a

sinistra quello dell’ultimo vangelo.

Lavate le mani al sacerdote, piegavo l’asciugatoio di lino seguendone le

pieghe, e rovesciavo in una bacinella posta vicino l’altare, l’acqua rimasta nel

porta ampolle.

Qualche volta facevo in tempo a tornare al mio posto, stavolta in cornu

Epistolae, prima che il celebrante si rivoltasse, per intonare l’orate fratres .

Questa era l’unica volta in cui il sacerdote si volgeva al popolo stando al

centro dell’altare fino alla benedizione, le altre volte che si rivoltava, dovendo

farlo con il Sacramento sull’altare, lo faceva senza voltare le spalle al centro,

per cui si volgeva da un lato e non completamente.

La breve preghiera della Secreta, recitata naturalmente in segreto, preludeva

alla seconda tenzone fra celebrante e ministrante.

‘Per omnia saecula saeculorum’

‘Amen’

‘Dominus vobiscum’

‘Et cum spiritu tuo’

‘Sursum corda’

‘Habemus ad Dominum’

‘Gratias agamus Domino Deo nostro’

‘Dignum et iustum est’

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‘Vere dignum et iustum est ....’ il celebrante continuava il prefazio a voce alta

fino al Sanctus.

Dopo continuava a voce bassa, e toccava a me, avvisare il popolo con il

campanello, delle varie fasi della messa.

Dicendo ‘Hanc igitur oblationem ..’ il sacerdote tendeva le mani aperte con il

palmo in basso sulle offerte, e qui dovevo suonare la prima volta, dopo di che

mi avvicinavo al sacerdote, inginocchiato sul gradino dove lui stava in piedi. Il

celebrante si era inchinato per la consacrazione del pane, quando si ergeva,

dovevo tenergli il bordo inferiore della pianeta per sollevarlo quando si

inginocchiava, quando elevava il pane e quando si inginocchiava di nuovo,

ogni volta accompagnando il gesto della sinistra con l’agitare il campanello

con la mano destra, in uno squillo discreto. Tre squilli erano anche il segnale

dovuto per l’elevazione del calice. L’ultimo di questi, però era uno squillo più

lungo per avvisare il popolo che l’elevazione era finita.

Il sacerdote continuava in segreto, fino al Pater noster, salvo un innalzamento

della voce in occasione del ‘Nobis quoque peccatoribus’ che era la preghiera

per i presenti.

Il pater era recitato solo dal sacerdote fino al ‘... et ne nos inducas in

temptationem’ ed io rispondevo ‘sed libera nos a malo’

Agli altari laterali che erano privi di tabernacolo, non veniva distribuita la

comunione, salvo che al chierichetto. La distribuzione al popolo avveniva per

mano di un altro sacerdote all’altare centrale in concomitanza con la

comunione all’altare laterale.

Dopo la comunione dovevo espletare molte attività, dapprima dovevo porgere

l’ampolla del vino al sacerdote per la purificazione del calice, poi, mentre il

sacerdote sorreggeva il calice con le ultime tre dita di ciascuna mano, tenendo

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unite sopra al calice il pollice e l’indice, dovevo versare dapprima il vino e poi

l’acqua per consentire al sacerdote di sciacquarsi i polpastrelli.

Egli li aveva tenuti uniti fra loro dalla consacrazione fino adesso, ed il messale

era fatto con delle appendici in stoffa laterali che consentivano di voltare le

pagine, prendendo le appendici fra l’anulare ed il medio.

Dopo il secondo lavaggio delle mani, riportavo il messale nella posizione

iniziale, alla destra dell’altare, ed il sacerdote recitava Communio e

Postcommunio, quindi portatosi al centro dell’altare, impartiva la benedizione

e intimava ‘Ite missa est’

Ma non era vero, perché mancava di leggere l’ultimo Vangelo, che era il

principio del Vangelo di Giovanni, preceduto dallo stesso rito introduttivo per

il Vangelo della messa; al termine, invece, dopo ‘plenum gratiae et veritatis’

rispondevo ‘Deo gratias’

A messa finita, il sacerdote si inginocchiava in mezzo all’altare e recitava tre

ave Maria ed una Salve Regina con una preghiera che non facevano

strettamente parte della messa, ma che allora ne erano la conclusione.

Nei periodi di vacanza, servivo messa tutti i giorni, talvolta anche per due

messe consecutive, e c’era, fra il popolo, sempre qualcuno della famiglia; e la

chiesa era sempre piena di gente, e non avevo ancora fatto la Prima

Comunione.

All’uscita, se non avevo qualche compito delle vacanze, non mi dispiaceva

andare fino al negozio di mamma.

Il negozio Benedettini, fondato da nonno Pietro, camiciaio, era in Corso

Umberto ai numeri 89 e 90, con una mostra esterna che li raccoglieva

ambedue, ed una insegna in lettere oro su fondo nero BENEDETTINI. La

finestra nella parte fra i due vani, non era più profonda di 10 centimetri, ma

era abbastanza per mettere in mostra le camicie ripiegate in verticale.

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Il negozio era un budello, largo quanto la vetrina del numero 90, che

terminava con 5 gradini, che davano accesso alla parte posteriore dello stesso,

dove era il laboratorio. Dal laboratorio si poteva uscire su di un cortile, da cui

si accedeva ad uno stretto corridoio che da un lato tornava su strada in

corrispondenza del numero civico 92, e dall’altro portava alle scale della

Pensione Suquet.

Nonno Pietro

Nonno aveva fondato la sua attività sulla bontà della merce e sulla serietà

commerciale; nonché sulla profonda collaborazione dei propri figli

nell’azienda, non in mansioni direttive, ma nello svolgimento della pratica

quotidiana che anche egli perseguiva. In gioventù era stato aitante ed anche

sportivo, praticante in quello sport pionieristico molto più faticoso di quello

attuale. Come membro della Società Velocipedistica partecipò alla corsa, se si

può chiamare così, tra Roma e Milano, terminando la gara in una posizione

che ignoro. Doveva anche essere molto forte se, per scommessa, riuscì a

spaccare il marmo di un tavolo di osteria picchiandoci sopra con le nocche

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della mano destra, ed ottenendo quindi il pugno proibito definizione che deriva

da una disposizione della questura volta ad impedire a chi è esperto di usare il

pugno nelle liti, equiparando il pugno ad un’arma.

Di natura era un risparmiatore, e lesinava su quanto non era indispensabile; e,

al suo tempo, di cose indispensabili non ce ne erano molte.

Però aveva investito e costruito un palazzo in Via Appia Nuova, al numero

226 che ancora porta in incuso il suo nome Pietro Benedettini; e si era costruita

una cappella al Verano, per il tempo futuro, anche essa con la scritta: Pietro

Benedettini e Suoi.

Non ostante la condizione di sottomissione che avevano nei confronti del

padre, i figli, alla sua morte avvenuta nel 1931, ne avevano ereditato l’amore

per il lavoro e l’onestà commerciale, tanto che in quel secondo anno di guerra,

nel quale l’inflazione già galoppava, i fazzoletti in vetrina avevano tre diversi

prezzi anche se della stessa qualità.

Ciò dipendeva dal fatto che facevano parte di tre assortimenti successivi,

ciascuno dei quali aveva mantenuto inalterato il prezzo di vendita

commisurato al prezzo di acquisto, che era nel frattempo aumentato.

Lo strano era che la clientela, non si accaparrava nel corso di un solo giorno i

fazzoletti a più basso costo, ma continuava a comprarli secondo il bisogno.

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Il negozio BENEDETTINI al Corso n. 90

58

PIO PEPE

Quell’estate del 1942 non sarebbe stato prudente andare al mare, almeno

secondo le idee della famiglia, e si preferì la campagna nei dintorni di Roma,

sulla Via Casilina, anzi sul raccordo che dalla Casilina porta a Zagarolo.

Lontano dal paese, ma all’interno del comune, nei pressi della stazione

ferroviaria della rete statale, trovammo alloggio in un casolare di proprietà del

Signor Pio Pepe.

Fatto strano che si verificò soltanto in questa occasione, andammo in vacanza

anche con i cugini Franco e Carlo, i figli di zio Tonino, il primo di un anno e

mezzo più grande di me, il secondo più piccolo di un mese e mezzo.

Il casolare era a due piani, e si ergeva su un poggio nei pressi della strada

provinciale, accessibile con una salita sterrata; oltre la stazione ferroviaria, che

distava circa 500 metri di un viale ombroso di castagni, c’era nei pressi la

fermata delle ferrovie vicinali laziali della linea Roma Fiuggi, che era quella

utilizzata per il collegamento con Roma.

Era un vero e proprio casolare di campagna, destinato ad abitazione per gli

agricoltori; al margine di campi coltivati a vigna.

Non ho molte memorie di questa villeggiatura di guerra, poiché noi bambini,

non avevamo varietà di giochi: il divertimento era fermarsi presso il viadotto

sovrastante la ferrovia laziale per vedere passare il treno, o spingersi fino alla

stazione delle FF.SS per vedere i treni merci.

Due cose però ricordo vivamente: l’aglio e la paletta, e nessuna delle due in

occasioni dignitose.

La casa, anzi il casolare, aveva una struttura spartana, senza acqua corrente e

senza locali di servizio, per cui si doveva tirare su con il secchio l’acqua del

pozzo che veniva bevuta con un mestolo di rame, o conservata per lavarsi e

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cucinare in apposite brocche. Era estate, per cui non era fastidioso lavarsi al

mattino con l’acqua fredda nel catino di ferro smaltato, sorretto da un

treppiede in ferro battuto, acqua versata dalla brocca facente parte dello stesso

servizio da bagno, che alloggiava sotto il catino.

Ovviamente l’igiene di tutta la bisogna non era al massimo grado, e ciascuno

di noi ne risentì allevando nel proprio intestino colonie di vermetti bianchi,

riscontrabili nelle feci. La cura che ci accomunava tutti, al mattino, al

mezzogiorno ed alla sera, era costituita da ostie medicinali inumidite riempite

di aglio sminuzzato, e avvolte a formare pillole da ingoiare con acqua bollita.

Quello infatti che doveva essere fatto preventivamente, bollire l’acqua per

renderla potabile, si fece a posteriori; ma, se non altro, con efficacia, dato che

con qualche giorno di trattamento i vermi scomparvero.

Ricordo vivamente zia Nenne intenta a porre l’aglio dentro uno straccio e

sbatterlo con il martello, poi porre l’ostia inumidita sul palmo della mano

sinistra, metterci dentro l’aglio, e piegare i lembi dell’ostia all’interno per

diminuirne il volume. Era un’operazione che zia avrebbe poi sempre fatto,

anche per ingoiare delle pillole di analgesico, perché deglutiva a fatica

qualsiasi cosa solida, per cui doveva sminuzzarla ed avvolgerla nell’ostia che

la faceva più facilmente scivolare in gola.

Ad accorgerci dei vermi, peraltro, non eravamo stati noi bambini, poiché la

mancanza di locali da bagno ci costringeva, quando avevamo bisogno, ad

armarci di zappetta, ed andare a concimare la vigna, ricoprendo poi la buca

con la terra rimossa; ed a ciò provvedevamo da soli senza andare di certo ad

investigare; ma qualcuno dei grandi che ci faceva compagnia: zia Fernanda,

Tetta o zia Maria, la moglie di zio Tonino, erano soggetti allo stesso

inconveniente, non solo ma anche i genitori e gli zii che erano i pendolari

settimanali.

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La cura dell’aglio era stata così efficace, che anche dopo la sparizione dei

vermi, continuò in modo preventivo, e fu ripetuta anche nelle altre occasioni

che ci portarono a Zagarolo.

61

L’OPERA

In famiglia era sempre piaciuto il bel canto, ed era sempre piaciuto il teatro.

Anzi un cugino di mamma e delle zie era stato nei primi anni del secolo capo

comico di una compagnia di operette e calcava le scene dei maggiori teatri sia

d’Europa che del sud America. Ricordo di avere visto tante vecchie fotografie

di zio Alfredo in elegantissimi abiti bianchi, condurre due levrieri al

guinzaglio sul transatlantico che lo portava a Buenos Aires. Come era normale

a quei tempi sarebbe morto in miseria, dopo la guerra, in un ricovero per

anziani dove mamma e le zie gli avevano trovato posto, e mi faceva sempre

impressione che, piangendo, baciasse loro le mani ogni volta che andavamo a

trovarlo.

Papà, in gioventù, aveva seguito quasi ogni sera le recite di Ettore Petrolini, e

doveva essere stato un appassionato di operette perché, benché non cantasse

spesso, quando gli capitava, intonava qualche motivo di operetta, in specie

quelli con innocenti doppi sensi.

Mamma era decisamente stonata e non riusciva neanche a cantare in chiesa,

ma non se ne faceva una malattia, diceva che lei voleva lodare il Signore e se

non riusciva a cantare meglio, il Signore sapeva bene il perché avendole dato

Lui la voce che aveva.

Le zie, invece, avevano l’abbonamento alle prime dell’Opera, quando per

andarci occorreva avere sempre l’abito da sera. Quello di zia Nenne era molto

bello, in broccato bianco, tanto che lo volle immortalato in un ritratto a tutta

figura eseguito nel 1941 dal pittore Bruno Croatto, ritratto che in famiglia

piaceva solo a me, e forse qualche difetto nell’incarnato ce lo ha, per cui alla

sua morte l’ho preso io.

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Sull’abito, poi, indossava una pelliccia di ermellino per cui, con i suoi capelli,

che erano chiarissimi, sembrava camminare in una nuvola.

Per contrasto, ovviamente, zia Dadda aveva sempre un abito scuro; ma ciò era

dovuto forse al fatto che era la più bassa della famiglia e ne soffriva, tanto che

il suo carattere timido la portava sempre a vergognarsi e quasi a nascondersi,

per cui rifuggiva da ogni abbigliamento vistoso. Era così ritrosa che parlando

al telefono teneva costantemente una mano avanti al microfono, quasi a voler

nascondere quanto andava dicendo, sempre a bassa voce.

Al contrario zia Nenne era alquanto testarda, e difendeva le sue idee, giuste o

sbagliate che fossero, a spada tratta.

Mamma, diversamente dalle sorelle, non aveva bisogno di evidenziarsi o di

nascondersi, la sua sicurezza nei propri convincimenti la poneva su un piano

superiore, ed era, per la famiglia, effettivamente un punto di riferimento in

ogni questione.

Generalmente la prima assoluta dell’Opera aveva luogo il 26 dicembre e

questo coincideva con l’anniversario di nozze dei miei genitori, sempre

ricordato con la funzione al mattino, il pranzo in casa di tutta la famiglia

allargata e la riunione familiare al pomeriggio per i giochi di Natale.

In quel tempo però, non c’erano automobili in famiglia, per cui era naturale

che quando le zie, pronte ed agghindate, uscivano per l’Opera, prendessero il

taxi, non disturbando le attività altrui per essere accompagnate.

A quei tempi, infatti, non c’era alcun pericolo, per due signorine, anche

anziane, di uscire la sera da sole.

Io, Paola ed anche Gianfranco, eravamo abbastanza piccoli per avere desideri

di teatro, pure la famiglia decise che saremmo dovuti andare all’Opera per

allenare il gusto.

In quei primi anni di guerra, recitavano all’Opera di Roma, molti rinomati

artisti: ricordo che direttori erano Victor de Sabata ed Oliviero de Fabritiis,

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tenore Beniamino Gigli, soprano Maria Caniglia e prima ballerina Attilia

Radice.

E proprio Gigli, la Caniglia e la Radice (non ricordo chi fosse il direttore )

erano gli interpreti della mia prima Opera: l’Aida.

Ricordo ancora bene che eravamo nel palco di primo ordine n. 9 a sinistra, per

cui alquanto laterali rispetto al palcoscenico; noi bambini seduti avanti, con il

mento sulla balaustra in velluto rosso, con le zie che ci bisbigliavano

all’orecchio l’evolversi dei fatti.

Non ostante l’effettiva lunghezza dell’opera non ci addormentammo.

L’intervallo, poi, era uno spettacolo nello spettacolo; anche se non si trattava

di una prima. Tutti vestiti in abito da sera, e molti militari in alta uniforme, e

molti dell’esercito tedesco.

Ricordo, qualche anno dopo, durante l’occupazione, zia Nenne domandarsi

come facessero i tedeschi ad amare tanto la musica ed essere tanto cattivi.

Anche se attualmente ho una preferenza per la musica sinfonica, pure ho un

abbonamento per due posti all’Opera, dove sono accompagnato da mia figlia

Caterina che ha per la musica la mia stessa passione.

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ZAGAROLO

La guerra andava sempre peggio, fuorché sulle figurine, che ospitavano da

tempo anche le bandiere giapponese ed americana, dove i nostri vincevano

sempre, erano sempre magnanimi con i vinti e se morivano, lo facevano da

eroi.

Non avevamo più notizie di zio Mario, dopo la resa in A.O.I. e zia Fernanda

Favero se ne faceva un cruccio, mentre nonno Giovanni si era ormai convinto

che sarebbe morto prima del suo ritorno.

La nostra istruzione a scuola procedeva regolarmente, e, debbo riconoscerlo, io

ero alquanto bravo.

Dopo le vacanze di Natale cominciammo i preparativi per la Prima

comunione, istruiti da Sister Maria Immacolata che ci insegnava come andare

in fila alla balaustra, inginocchiarci e come ingoiare la particola senza toccarla

con i denti. Quest’ultimo allenamento era fatto sui banchi di scuola, e proprio

la settimana prima del 2 maggio 1943; e doveva essere fatto con scrupolo

perché, masticando l’ostia qualche briciola poteva rimanere fra i denti.

A casa i preparativi comprendevano l’abito della prima comunione, che per

Paola era un vaporosissimo abito bianco con velo di tulle, per me e

Gianfranco, invece era il primo abito con pantaloni lunghi, di flanella grigia,

con giacca alla vita e bavero di velluto azzurro scuro.

Poiché sia noi che Gianfranco volevamo fare la festicciola a casa, fu stabilito

che facessimo la Comunione il 2 maggio e la Cresima il successivo 9.

Il giorno della Prima Comunione c’erano, vestiti a festa nella chiesa

dell’Istituto tutti i parenti, anche gli zii, e nonno Giovanni che, ricordo, non

ostante la clemenza del tempo, indossava un cappotto marrone.

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Il ricordo della Comunione

Dopo la cerimonia, le suore offrirono la colazione a tutti, perché allora per fare

la Comunione bisognava essere digiuni dalla mezzanotte e l’acqua rompeva il

digiuno. Fu la prima volta che mangiai il cioccolato in tazza.

Il pomeriggio, tutti i compagni, sia miei che di Paola, si ritrovarono da noi,

dove, in terrazza era stato allestito il teatrino di Pulcinella, quello del Pincio.

Il giorno della Cresima, fecero la Cresima con noi ed anche la loro prima

comunione, i figli di zio Tonino, Franco e Carlo. Quella fu l’ultima volta che

vidi nonno Giovanni.

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Il pomeriggio, in terrazza da Anco, che abitava in Via Flaminia, 21, nei pressi

di Piazzale Flaminio, fu ripetuta la festa, nello stesso stile, con gli stessi

burattini, ma non proprio gli stessi bambini, che furono sempre felicissimi e

vocianti per il teatrino.

Zagarolo era un paese che si sviluppava lungo il crinale di una collina, con

una strada che lo traversava in lunghezza, e case ai due lati che limitavano le

due vallate laterali.

Era unito alla strada provinciale da due strade che arrivavano ai due lati della

Chiesa Parrocchiale, la strada proveniente dalla sinistra, guardando la chiesa,

transitava per il piazzale della stazione delle Ferrovie laziali, sotto il viadotto

della stessa ferrovia che faceva un ampio arco prima di giungere in stazione,

davanti all’ingresso di Villa Pierina, e dopo circa due chilometri giungeva al

paese, alla cui periferia c’era un costruttore di botti sempre indaffarato.

Dalla piazza della Chiesa, che era accessibile tramite una scalinata laterale, si

dipartiva la strada principale che terminava con un arco, lasciando a destra il

giardino di Palazzo Rospigliosi, dalla balaustra del quale si vedeva a volte

spuntare il sedile di un’altalena che giungeva al suo punto morto superiore,

spinta da un ragazzo spericolato, e, dopo impercettibile sosta, cominciava la

discesa .

Il Palazzo principesco, era disassato rispetto alla prima strada, ed aveva dalla

parte opposta un piazzale abbastanza ampio, a vederlo senza un’automobile.

Da questo piazzale partiva un’altra strada, che divideva in due la parte più

antica del paese, dove era anche la casa di nonna Filotea, posta a sinistra,

accessibile per una scalinata che mi sembrava lunghissima, tutta con gradini

sbocconcellati ed altissimi, che continuavano anche all’interno

dell’appartamento per arrivare ad una finestrella che dava accesso al tetto sul

quale stavano a seccare vassoi di fichi e di altra frutta.

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Nonna Filotea, era stata la balia di mamma, che era rimasta con lei ben oltre il

periodo del baliatico, oltre i sette otto anni di età, tanto che ormai, come tutti i

grandi di casa, faceva colazione al mattino con pane casereccio e vino rosso.

Nonna Filotea era vedova di Remigio Fallani che era rimasto vittima, anni

prima, di uno degli scarsissimi incidenti stradali che pur avvenivano.

Mamma era rimasta molto affezionata sia alla balia sia alla sorella di latte

Maria Grazia sia, ancor di più, ai suoi fratelli di latte, Alessandro che faceva il

muratore, Antonio che faceva il contadino e coltivava due vigne di persona,

secondo il proverbio che piaceva tanto a nonno Pietro ‘Alla vigna vacce, a

negozio stacce’.

Il vino che ne traeva era indubbiamente genuino, ma, non essendo trattato, era

buono solo se bevuto in grotta, spillato dalla botte; una volta travasato in

damigiana o in fiaschi, assumeva una colorazione più intensa e cominciava a

sapere di spunto; che era un eufemismo per dire che si inacidiva.

Una cosa che restava invece gustosa, era l’acetato, sempre bevuto in grotta,

che consisteva in vino leggermente acidulo, allungato con l’acqua.

Le poche volte che si beveva l’acqua acetosa, o perché si comprava l’acqua San

Paolo imbottigliata, o perché la si andava ad attingere alla sorgente sotto i

Parioli, era un gioco per noi bambini versarla lentamente nel vino, e vedere

come questo cambiava colore, diventando da giallo, sempre più grigio.

Mamma, data la sua lunga frequentazione, sapeva anche parlare il dialetto del

posto, che, non ostante la estrema vicinanza a Roma, meno di 40 chilometri, è

completamente diverso dal romano. Non so se ci sia ancora qualcuno che a

Zagarolo lo parli, dato l’appiattimento culturale indotto dalla televisione,

comunque ricordo che per dire ‘Vieni su’ si diceva ‘Tocca poh’.

Zagarolo, che era stata marginalmente sede delle vacanze l’anno prima, la sarà

più da vicino quest’anno.

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Questa volta, soltanto noi e Gianfranco, senza Franco e Carlo, cominciammo

ad abitare da Mariettina, che aveva una casa vicino la Stazione delle laziali,

all’interno della lunga curva che faceva la ferrovia, in posizione elevata

rispetto alla strada con lo spiazzo anteriore accessibile dalla strada tramite una

scaletta laterale di una quindicina di gradini tagliata nel muro di sostegno.

Davanti la casa si stendeva il terreno di proprietà, per circa 60 metri, e quasi in

fondo c’era un grande albero di castagne.

La casa, a due piani, uno che ospitava noi ed era accessibile da una scala

esterna, l’altro, al piano terreno che ospitava sia Mariettina che sua figlia di un

tredici anni, era in vista della stazione, e stando all’esterno, ci si poteva

chiamare alla voce con il figlio del capo stazione che aveva qualche anno più

di me, ed una più consolidata amicizia con la figlia di Mariettina.

Le attività maggiori di quel periodo erano le lunghe passeggiate nei boschi per

la raccolta delle castagne, o ai margini dei rovi per la raccolta delle more.

C’erano compagni, talvolta, i figli di un avvocato che abitavano una villetta

posta lungo la seconda strada che conduceva a Zagarolo.

Era frequentissimo che cominciassimo la giornata con una passeggiata di 2

chilometri fino al paese per la messa delle sette, digiuni per poter fare la

comunione, ma con la colazione appresso.

Molte volte andavamo a giocare a Villa Pierina, talvolta restavamo con il figlio

del capo stazione, tal altra andavamo a cogliere l’uva in una delle due vigne di

Antonio, quella più vicino alla stazione, a Colle Palombara.

In questa estate talvolta i genitori non riuscivano a venire per il fine settimana,

perché il treno delle ferrovie laziali passava a Grotte Celoni dove c’era lo

spolettificio della Breda, che era un obiettivo militare, e, se c’era l’allarme il

treno si fermava a debita distanza.

Lo spolettificio sarebbe diventato, dopo la guerra un deposito degli autobus, e

sarebbe rimasto inalterato per qualche anno, fino alla fatiscenza, con il suo

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impianto elettrico eseguito con un solo conduttore, essendo il conduttore di

ritorno affidato alla struttura metallica dell’edificio; come l’impianto a bordo

macchina.

Altra zona di interesse militare, nei pressi, era l’aeroporto di Centocelle; per

cui le possibilità di arresto del treno erano molteplici.

In una di queste occasioni, i genitori e zia Giannetta dovettero tornare a Roma

a piedi. Era da poco passata la metà di luglio e Roma venne bombardata.

Le bombe che dovevano colpire lo scalo San Lorenzo, colpirono invece le case

circostanti, causando un elevato numero di vittime, ed anche il vicino cimitero

del Verano, danneggiando il quadriportico e la statua del Salvatore; né la

cappella Benedettini, né quella vicina dedicata ai Martiri Fascisti, (che dopo la

guerra sarebbe divenuta il sacrario delle vittime dell’incendio della Minerva

Film), riportarono danni, come invece avvenne per quella dietro le prime due.

Non so con quale mezzo, ma i miei e zio Alberto, quando anche il mito di

Roma città aperta e quindi immune dai bombardamenti si era dissolto, si

trasferirono tutti a Zagarolo. Tutti da Mariettina trasformandoci da

villeggianti in sfollati.

Appena qualche giorno dopo, una sera, tardi, sentimmo gridare di gioia il

capo stazione e suo figlio, che correva verso la casa di Mariettina per portarci

la notizia.

Era il 25 luglio e tramite l’unico collegamento con il mondo che avevamo, il

telegrafo della stazione, era venuto a sapere della caduta del fascismo;

dovemmo fidarci di quanto diceva il capostazione che era il solo in grado di

leggere l’alfabeto Morse che il tasto ricevitore del telegrafo continuava a

incidere sul nastro di carta giallastra.

Tutti noi, genitori e figli a gridare di gioia ‘La guerra è finita! La guerra è

finita!’ ma saremmo stati in breve disillusi.

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Qualche giorno dopo, passando per il piazzale della stazione si poteva vedere

il grande busto in bronzo di Mussolini, che campeggiava una volta nell’atrio

della stazione, rovesciato in terra, nel fango.

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LA CAPPELLINA

ÜAgiow ı yeÒw ÜAgiow fisxurÒw ÜAgiow éyãnato˚ ÉEl°hson ±mçw

Dover fare sempre due chilometri per andare a messa, oltre a stancare noi

ragazzi, non era neanche comodo per tanti grandi che orbitavano intorno alla

stazione, e che mascheravano con la distanza la loro pigrizia.

Molti altri, però, erano in effetti in difficoltà, e, da ultimo, mancava la

possibilità di partecipare a tutte quelle funzioni, in modo speciale quelle

impetrative che si succedevano in quei giorni di guerra.

Mamma aveva individuato, lungo una strada sterrata che saliva presso la casa

di Mariettina parallelamente alla strada della stazione, una cappellina in

disuso, ma che non aveva bisogno di molte opere per essere restaurata; e non

ci volle molto a convincere il fratello di latte Alessandro, che era capomastro a

prestare la sua opera ed i materiali occorrenti. Papà intervenne con qualche

lampadina, zia Dadda cucendo una bella tovaglia, e qualcuno fornì i cartigli di

prammatica, i candelabri e le candele.

Però non c’era il sacerdote, per cui la cappellina veniva buona per il rosario

del pomeriggio, per le preghiere per la pace, ma non per la messa.

Ma mamma non era tipo da darsi per vinta, se voleva che vi si celebrasse la

messa, la vi si doveva celebrare.

Mi ricordo di averla accompagnata, dal Vescovo di Palestrina, che sulla linea

Roma Fiuggi era la stazione successiva a Zagarolo; a metterlo in imbarazzo

con la richiesta di un prete la domenica, in una situazione in cui i preti non

c’erano.

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Sua Eccellenza, peraltro, si diede veramente da fare per risolvere il problema,

ed infatti, non molte domeniche dopo, vedemmo giungere due sacerdoti sulla

strada della cappellina, la barba lunga, il cappello a tubo senza visiera, un

valigia in mano.

La trentina di persone che era in attesa della messa, fuori della cappella, li

guardò un po’ interdetta, in specie quando vide che tutti e due, toltili dalla

valigia, indossavano i paramenti che non assomigliavano per niente a quelli

abituali.

Il celebrante, prima della messa, spiegò che erano di rito greco e che avrebbero

celebrato in quel rito, che il secondo sacerdote era il diacono, che la messa non

differiva sostanzialmente da quella in rito romano, salvo che per la lingua, per

la comunione che veniva fatta con il pane e con il vino e per il segno della

croce che era sostituito dal trisaghio, che poi è la formula riportata in capo a

questo capitolo che vuol dire ‘Santo Dio, Santo forte, Santo immortale, abbi

pietà di noi’ e che veniva accompagnata da una specie di segno della croce

fatto con la mano destra che tiene raccolti il pollice l’indice ed il medio, portata

alla fronte, sul petto, alla spalla destra per finire sul cuore, a sinistra del petto.

I presenti, che erano abituati a non capire il latino, si abituarono a non capire il

greco, salvo noi chierichetti, che non operavamo peraltro in rito greco, cui

furono date maggiori spiegazioni

Avrei imparato che la chiesetta mancava di iconostasi e del velo che la

chiudeva durante la consacrazione, e che a ciò il diacono sopperiva chiudendo

il cancello anteriore alla cappella.

Il celebrante dovette spiegare, in quella prima messa, che in rito greco si sta in

piedi o seduti e mai in ginocchio, ma credo che tutti, dopo la comunione, fatta

con un pezzo di pane intinto nel vino, facessero comunque la genuflessione. Il

pane che non era stato consacrato, veniva, dopo la comunione, distribuito a

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tutti, anche a chi non si era comunicato, ed alcuni lo assumevano con la stessa

devozione con cui avevano assunto la comunione.

Debbo dire che, vuoi per la fede, vuoi per la curiosità del nuovo rito, le messe

alla cappellina furono sempre molto frequentate, e riportarono alla chiesa

alcuni che se ne erano allontanati.

Ricordo che Via dei Greci a Roma, ebbe la targa stradale variata all’inizio della

guerra: doveva sembrare sconveniente avere nella capitale una via intitolata

ad un popolo con cui si era in guerra; per cui tutte le targhe vennero sostituite

da altre che portavano la dicitura inferiore che spiegava come il nome

derivasse dal collegio greco ivi presente. Ed in effetti all’angolo di Via dei

Greci con il Babuino c’è la chiesa di rito greco cattolico di Sant’Atanasio.

Alla sua sinistra c’è la statua del Babuino, sormontata da una grandissima

vetrata che era una volta la vetrata dello studio degli scultori romani Tadolini,

che avevo incontrato a negozio, di cui erano clienti e ne avevano firmato il

libretto dedicatorio.

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Su questo libretto anche Trilussa si era compiaciuto di eseguire un disegno

colorato accompagnato da una dedica in poesia:

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VILLA PIERINA

Raffaele Crescenzi, che Anco chiamava nonno Raffaele, abitava a Montebello

di Bertona non troppo distante dal mare di Pescara, ed era in mezzo ai monti,

o, meglio, come diceva zio Alberto ‘Da una parte vedi il mare e dall’altra il

monte appare’.

Nonno Raffaele

I due figli della prima moglie, Alberto ed Ubaldo, avevano preceduto Ugo,

Enrico e Cristina detta Tina.

La famiglia era imparentata due volte con la famiglia Benedettini: infatti

Alberto aveva sposato Giannina figlia di Arduino, mentre Ugo aveva sposato

Renata, sorella di secondo letto di Arduino.

Come abbiamo visto prima, avevamo molti contatti con la famiglia di Alberto,

dovuti al fatto che mamma e le zie lavoravano al negozio assieme ad Arduino

e Giannina; molte domeniche le passavamo insieme; insieme si stava a Natale

e Capo d’anno; insieme si andava in vacanza.

I contatti non erano più frequenti con Renata ed Ugo, dopo che erano andati

ad abitare in un’altra casa, lasciando San Silvestro. Oltre tutto zio Ugo soffriva

76

essere baciato in pubblico, e noi bambini, sapendolo, eravamo abbastanza

cattivi, da abbracciarlo e baciarlo incontrandolo in strada buttandogli le

braccia al collo, in modo che non potesse difendersi, e forse divertendoci al

vederlo diventare rosso.

Ubaldo ed Ugo avevano un laboratorio di oreficeria che lavorava

esclusivamente per Bulgari, ed era situato all’ultimo piano del numero 9 di Via

Condotti, praticamente fra casa e scuola, e non era difficile incontrarli.

Nominalmente non c’era per noi Favero, nessun grado di parentela con

Ubaldo e famiglia, ciò non toglie che Paola ed io li chiamassimo zio Ubaldo e

zia Pierina, mente i loro figli chiamassero zio Felicetto, zia Valentina i nostri

genitori, e zia Giannetta e zia Fernanda le zie.

Zio Ugo e zia Renata, dopo la figlia Anna che era già nata quando lasciarono

Palazzo Marignoli, ebbero altre due figlie: Sandra e Franca.

Zio Ubaldo e zia Pierina avevano un figlio maschio Raffaele, che sarebbe

morto in giovane età, Annunziata, Marina (ed in seguito Enrica), tutte più

piccole di Paola.

Zio Enrico era in quel periodo in Abruzzo, e sarebbe morto durante

l’occupazione per un’occlusione intestinale mal curata, insorta durante una

retata dei tedeschi.

Villa Pierina, come era scritto sui due pilastri del cancello di ingresso, era la

casa di villeggiatura che Ubaldo aveva costruito sulla strada per Zagarolo; non

distante dalla stazione delle laziali.

Alla casa, sopra la collina, si accedeva per un viale in salita, lasciando alla

destra una dependance, e più dietro le stalle ed il porcile; sulla sinistra della

casa, sulla collina leggermente digradante, si estendeva una vigna. Il numero

delle camere era adeguato alla numerosità della famiglia, e, posteriormente un

grande salone con camino, consentiva popolose riunioni.

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Dopo i fatti di fine luglio, a tutti i grandi sembrò che Villa Pierina fosse un

posto più sicuro della casa di Mariettina, e fu reso costante il trasferimento che

noi bambini effettuavamo ormai quasi ogni giorno per continuare le partite di

Monopoli con le cuginette.

Noi Favero, con le zie, ci installammo nella dependance, mentre i tre Crescenzi

trovarono posto in villa, dove, oltre la famiglia di Ubaldo, viveva anche quella

della sorella Cristina con la figlia Anna Maria (il marito, Felice, era prigioniero

in America). Per noi bambini la vita non era monotona, ed abbastanza

spensierata.

Nel tardo pomeriggio, nella sala del camino, tutti in ginocchio a recitare il

rosario, con noi piccoli che, a volte, non smettevamo di scherzare.

‘... Dominus tecum, .. piantala Gianfra’ .. , et benedictus fructus ventris tui,

Jesus. ... regazzini volete lascià perde ? ... mortis nostrae. Amen’

Il rimprovero da parte di Ninnì ci veniva in mezzo alla preghiera, mentre gli

altri continuavano la recita del rosario; solo zia Dadda ripeteva ogni tanto ‘

pupi ... essite boni ‘ dove essite è l’imperativo plurale del verbo essere.

La coabitazione durò circa un mese, perché zio Ubaldo, a fine Agosto tornò a

Roma e la Villa fu chiusa, mentre noi saremmo rimasti qualche altro giorno,

tornati da Mariettina.

Non deve meravigliare il ritorno nella casa che non era apparsa sicura perché

si conviveva, ormai sempre di più, con il pericolo, e si era diventati più

fatalisti.

Roma, in agosto, era stata bombardata la seconda volta; e, nei discorsi, si

affacciava sempre più probabile la possibilità della resa.

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IL CASTAGNO

Era una mattina di sole e sembrava che il mondo ti volesse bene e ti faceva

venir voglia di voler bene al mondo.

Il rumore sordo si faceva sempre più intenso e più preoccupante. Uscendo da

casa si vedevano in lontananza, fra le fronde dei platani, le sagome delle

fortezze volanti su cui si specchiava il sole. Non ne avevamo mai viste tante

insieme. Volavano in formazione, non ad una quota elevata, tre, quattro mila

metri era quanto consentito agli aerei ad elica, e non andavano veloce, o

sembrava che non andassero veloce.

Eravamo rimasti soli con zia Dadda, che ci raccolse tutti e tre, Paola, Anco e

me, e ci guidò lontano dalla casa, sotto il castagno che ne distava circa sessanta

metri, e che, con il suo fogliame più folto ci impediva la vista diretta degli

aerei, come fosse una difesa.

E cominciammo a sentire i colpi, boati sordi, ma intensi e continui. Non subito

capimmo che si trattava di bombe.

Zia Dadda estrasse dalla borsa un santino di San Francesco, che era fatto come

i libri delle favole quando, aprendo le pagine, si crea, con la carta attaccata alle

due pagine contrapposte, una specie di quadretto in rilievo.

Sotto l’immagine, la didascalia era rappresentata dalla benedizione di San

Francesco: ‘Il Signore ti benedica e ti custodisca, volga verso di te il suo volto e

ti dia pace, Il Signore ti benedica’ , zia Dadda la poggiò per terra, e noi tre,

stesi a terra, con la pancia, per evitare di essere colpiti da eventuali spezzoni.

La terra ci tremava sotto la pancia, e forse uno di noi cominciò a piangere,

mentre zia Dadda, che non sarebbe mai più stata altrettanto coraggiosa, ci

diceva di stare buoni, di avere fiducia, di pregare Dio e la Madonna, per noi e

per i nostri genitori che ‘non si sa dove stanno’ .

79

‘Zia ! perché non siamo rimasti in casa?’, chiese uno di noi, ‘Perché se cade una

bomba vicino la casa quella può crollarci in testa, mentre qui, per farci male, ci

deve cadere addosso. Ma stenditi di nuovo a terra,..... e prega.’

Il bombardamento di Frascati, che distava in linea d’aria una decina di

chilometri, durò quasi due ore, quell’otto settembre del 1943, e per due ore

vedemmo le fortezze volanti passare e ripassare, con il loro volo lento,

sganciare le bombe, che si vedevano cadere a grappoli, e, dopo qualche tempo,

sentire tremare la terra sotto di sé, temendo e pregando per tutti quelli che

venivano colpiti, e temendo per noi che ci sentivamo così vicino al pericolo.

Qualche giorno dopo, i nostri genitori, profittando della confusione

dell’armistizio, vennero a riprenderci e riportarci a Roma; ringraziando

Mariettina per l’ospitalità.

Nei mesi successivi, a causa dell’occupazione, i tedeschi si installarono a Villa

Pierina, eleggendola a comando della zona; probabilmente il fatto venne

riportato dalla Resistenza ed infatti un aereo, uno solo, venne a bombardarla.

Lanciò qualche spezzone, termine con cui venivano indicate le bombe di

minore peso, ma non colpì la villa.

Colpì invece la casa di Mariettina, in cui noi avevamo soggiornato,

demolendola. La figlia di Mariettina stava in quel momento sulle scale che

univano l’aia della casa alla strada sottostante, e fu investita dalle macerie, su

quelle scale, della sua casa abbattuta.

Morì, qualche giorno dopo, all’ospedale.

80

SAN MARTINO

Sul diario di scuola c’era scritto Genetliaco di S.M. il Re Imperatore - Vacanza ; ma

il Re e Imperatore era scappato da Roma e si doveva andare a scuola, anche

quel giorno di San Martino del 1943.

Non mi ricordo perché, ma Paola che frequentava la stessa scuola non venne,

per cui ci avviammo verso la scuola io e zia Nenne.

Poiché fra Piazza San Silvestro e Piazza di Spagna ci sono molte strade fra loro

perpendicolari: Via della Mercede, Via della Vite, Via Frattina, Via

Borgognona e Via Condotti, in un senso e Via del Gambero, Via del Moretto,

Via Bocca di Leone, Via Mario de’ Fiori e Via de’ Propaganda Fide nell’altro,

noi cambiavamo quasi ogni mattina, sembrandoci, con la variazione, di

rendere più corta la strada.

Il percorso da casa a scuola, con qualunque itinerario era di circa un

chilometro, per cui in una decina di minuti lo si percorreva tutto. Però, poiché

zia Nenne aveva l’incombenza della spesa da fare prima di andare a negozio,

uscivamo sempre qualche minuto prima; e così facemmo anche quella mattina.

Il percorso scelto quel giorno era il più tortuoso possibile: traversare Piazza

San Silvestro, percorrere un isolato di Via della Mercede, girare a sinistra per

via del Moretto, a destra per via della Vite, a sinistra per via Mario de’ Fiori ...

Girato l’angolo di Mario de’ Fiori ci accorgemmo che un camion militare era

fermo accostato verso destra, fra via della Vite e via Frattina.

Nei pressi del camion una pattuglia di tedeschi in armi, presto raggiunti da

loro compagni che uscendo da un portoncino a lato del camion, spingevano in

malo modo degli uomini e dei ragazzi all’interno del camion; alcuni di loro

erano ancora in maniche di camicia.

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La retata era iniziata proprio allora, perché due coppie di soldati si andavano

allora disponendo agli angoli di via Mario de’ Fiori con via della Vite e via

Frattina, pronti a caricare sul camion gli uomini che fossero transitati.

Zia Giannetta, cui io ero sotto braccio, mi strinse con il suo braccio la mia

mano, bisbigliandomi ‘Stammi vicino’ ed invece di voltare per Mario de’ Fiori,

rimanemmo su via della Vite, all’angolo, avvisando i giovani che transitavano,

a bassa voce: ‘ Ci sono i tedeschi che fanno una retata’.

Zia Nenne dopo che la voce si fu sparsa in quella strada mi disse: ‘Adesso

andiamo da Carlucci’ il fornaio all’angolo con Via Frattina, e poiché il camion

era alla nostra destra, mi fece cambiare braccio, portandomi alla sua sinistra,

dalla parte opposta del camion.

Non ci fermammo a vedere cosa succedeva, ma, in fretta, senza correre,

andammo dal negozio d’angolo, entrando dalla porta secondaria che dava su

via Mario de’ Fiori e che era utilizzata solo dai fornitori e dai fattorini. Zia

Nenne, entrando da Carlucci che non si era ancora accorto di quanto avveniva

proprio fuori il suo negozio, gli diede solo uno sguardo d’intesa, e,

immediatamente uscì dalla porta anteriore, sempre con me al braccio. Ed

anche per via Frattina cominciammo ad avvisare della retata chi passava, e la

voce corse presto, perché in breve non rimase nessuno.

Rientrata nel negozio, zia Nenne comprò il pane, e spiegò al fornaio quello che

avveniva.

Quando uscimmo dal negozio, il camion era ancora fermo dove era prima; e ci

impiegammo un secolo per fare l’ultimo tratto di via Frattina ed arrivare a

Piazza di Spagna, sperando di vedere il camion passare, dato che stavamo

lungo il suo senso di marcia.

Ed intanto continuavamo ad avvisare tutti quelli che passavano di cosa stava

avvenendo, fin ben entro Piazza di Spagna.

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Interrompemmo passando davanti all’Ambasciata di Spagna presso la Santa

Sede che era presidiata da militari, anche se zia Giannetta disse in seguito, che

forse di quelli ci potevamo fidare perché erano italiani, della P.A.I. ossia della

polizia dell’Africa Italiana.

Quel giorno arrivai tardi a scuola, ma, secondo il consiglio di zia Nenne, non

dissi a nessuno dell’avventura che ci era capitata.

Lo dicemmo invece a casa, la sera, a tavola, a mamma e zia Dadda, che ci

rimproverarono l’incoscienza, ma sotto sotto ci elogiarono per il coraggio.

Papà quella sera tornò molto tardi, con gli occhi rossi e la barba non fatta, e

non rispose quasi al saluto mio e di Paoletta.

Mamma ci disse che quel giorno era morto nonno Giovanni.

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VIA DEI MARONITI

Negli inverni precedenti non avevamo mai avuto freddo in casa, l’impianto di

riscaldamento centralizzato, infatti, non ce ne dava motivo.

Quell’inverno tra il 1943 ed il 1944 fu diverso perché molti servizi pubblici non

funzionavano più.

Talvolta mancava la luce, tal altra l’acqua, anche se questa mai del tutto

avendo noi il vantaggio della doppia fornitura di acqua Marcia ed acqua di

Trevi, e sempre mancava il riscaldamento.

Feci conoscenza, quell’inverno con diversi sistemi per scaldarsi che non avrei

altrimenti conosciuto, e con i succedanei della luce elettrica.

Dapprima era normale radunarci tutta la famiglia in cucina, dove si eseguiva

la cottura dei cibi con il carbone, e ciò contribuiva a riscaldare l’ambiente. La

cucina era normalmente illuminata da un lume a petrolio che noi bambini

avevamo la proibizione di toccare ma che eravamo molto più abili dei grandi

ad accendere, mentre alcune candele, spente, ma pronte alla bisogna, erano

disponibili se si doveva andare nelle altre stanze.

Sotto la finestra della cucina stazionava una bella stufa in ceramica che aveva

la forma dell’asso di coppe. In questa stufa tutta la parte inferiore fungeva da

braciere mentre la parte superiore aveva delle aperture che seguivano un

determinato disegno ma che servivano sia per l’ossigenazione del fuoco che

per l’uscita del flusso caldo. Un foro centrale al colmo del coperchio doveva

servire per riscaldare un qualche contenitore di cibi posto al di sopra.

Sia ai fornelli che nella stufa il fuoco bruciava senza fiamma, questa la si

attivava solo quando serviva mediante un ventaglio fatto di piume nerastre

con manico in legno, ed aggiungendo carbone alla brace.

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La mancanza di elettricità ci impediva anche di sentire la radio che ormai era

normalmente sintonizzata su Radio Londra, della quale eravamo abituati a

sentire i quattro colpi all’inizio di ogni trasmissione e come intervallo. Solo

successivamente avrei capito che quei quattro colpi erano in alfabeto Morse la

lettera V a significare la Vittoria, e che avevano anche assonanza con le prime

quattro note della quinta di Beethoven che molti chiamano sinfonia del

destino.

Anche quella sera di incipiente primavera, non ostante il calendario, faceva

freddo e stavamo tutti in cucina nell’attesa dell’ora di pranzo. Noi bambini

avremmo come al solito mangiato prima, poi saremmo restati in attesa del

pasto dei genitori prima di andare a letto fra le fredde lenzuola.

Mamma e le zie erano già tornate dal negozio ma papà tardava, mamma era

probabilmente preoccupata ma, come suo solito, non lo avrebbe dato a vedere.

Ed a noi bambini che chiedevamo dove fosse rispose ‘Avrà avuto da fare in

officina’.

L’officina era un locale di due stanze in Via dei Maroniti 15, nei pressi del

Largo Tritone, all’interno di un portone e di un cortile.

La prima stanza, destinata ad ufficio, aveva una scrivania in legno lucido e

diverse sedie, e prendeva luce dalla porta e da un lucernario superiore; la

seconda stanza più buia poiché prendeva luce soltanto da una porta, era il

vero e proprio laboratorio.

Qui c’era un pannello molto razionale con diversi tipi di allaccio, per avere a

disposizione diversi valore di tensione e di potenza, per la misura delle

grandezze elettriche e per la prova dei circuiti elettrici. Credo che sia ancora

parzialmente funzionante ed utilizzato dove poi la Ditta si è trasferita a guerra

finita.

In questo locale ricordo di aver visto montare dei quadri elettrici, nello stile

dell’epoca, e cioè con pannelli di marmo a sostegno delle apparecchiature.

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Ricordo di aver visto la lastra di marmo tenuta verticale in sito in un apposito

telaio, alla quale venivano praticati dei fori di estrema precisione. Tutte le

apparecchiature elettriche, fino gli strumenti, avevano forma rotonda, o

almeno, la parte che doveva essere accoppiata al quadro era rotonda, e ciò per

evitare inutili complicazioni con il fissaggio su marmo. La parte anteriore del

marmo era lucida, e, per così dire, impreziosita da borchie rotonde in ottone

fissate equidistanti dagli angoli, che erano arrotondati.

La parte posteriore del marmo era generalmente grezza o almeno non lucida,

ma anche qui l’apparato nel suo insieme manteneva una sua nobiltà. Era qui

infatti che veniva eseguito il cablaggio, in barra di rame per i maggiori valori

di corrente, e le barre erano successivamente verniciate nei colori nazionali

(bianco, rosso e verde); o in conduttore isolato per i valori di corrente minori.

Quest’ultimo tipo di cablaggio, chiamato pettine, era eseguito in conduttore

rigido con isolamento di colore nero, ad andamento rigorosamente verticale

od orizzontale, a conduttori rigorosamente accostati e tenuti assieme da

barrette deformabili aderenti.

Un esame per il passaggio di categoria per gli operai era la loro abilità a

confezionare il pettine.

Papà, peraltro, andava famoso non solo per questa precisione meccanica nel

lavoro, ma, e sopra tutto, per le innovazioni tecniche che introduceva negli

impianti.

Proprio in quegli anni aveva concepito il sistema di comando che avrebbe poi

applicato, a guerra finita ad almeno due grandi lavori ed ad altri lavori minori.

I due grandi lavori si svolsero tutti e due nello stesso edificio: il palazzo

I.N.P.S. sito in Corso Umberto angolo via della Frezza e Via dei Pontefici: la

pellicceria Balzani ed il nuovo negozio Benedettini.

In questi negozi esisteva un quadro elettrico di comando in cui erano

concentrati tutti i relè di comando di tutti i circuiti luce, sia del tipo ad

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interruttore (accensione - spegnimento) che del tipo a commutatore

(accensione1- accensione2 - spegnimento1 - spegnimento2 ), ed i comandi

eseguiti tramite pulsanti erano distribuiti ovunque: nei diversi accessi dei

saloni, nelle sale, ovunque servisse, e principalmente in quadri sinottici

generali e locali.

Questi sinottici erano la vera opera d’arte: erano realizzati da un pannello in

vetro nero su cui era incisa la planimetria dei locali; nei quadri locali era incisa

la sola planimetria del locale interessato; nel sinottico generale, era incisa la

planimetria completa di tutti i locali. Su questa planimetria erano riportate le

posizioni di tutti i punti luce ed in corrispondenza di ogni punto luce era

montata una piccolissima lampada spia ( non più di 8 mm di diametro) . Per

ogni circuito, e quindi per ogni relè di comando, una delle lampade spia era

sostituita da un pulsante luminoso anch’esso delle stesse ridottissime

dimensioni. In tal modo su ogni quadro sinottico si poteva riscontrare se un

circuito fosse acceso o spento e si poteva inoltre comandarne l’accensione. Il

sistema ha funzionato per i due negozi fin quasi gli anni ottanta, ( e gli unici

inconvenienti sono stati rappresentati dai relè, i quali essendo meccanici, con

contatti a strisciamento, si consumarono nel punto di contatto )

rappresentando per i clienti una costante curiosità unita ad ammirazione.

In quella fine marzo, peraltro, i lavori in officina non dovevano essere tanti, e

l’officina era più che altro un posto di ritrovo per tanti colleghi in attesa di

tempi migliori.

La presenza dell’officina in quel luogo comunque aveva portato papà ad

assumere la manutenzione del vicino palazzo dell’AGIP per cui la sua

presenza in zona era quasi costante.

Dal portone di ingresso su via dei Maroniti, seguiva un passaggio coperto che

dava accesso al cortile. Qui sul lato sinistro c’era l’officina, mentre sul lato

destro una scala consentiva la salita ai piani superiori del retro. In uno di

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questi abitava la Sora Gina che aveva un banco di frutta e verdura al mercato

di Via del Lavatore cui talvolta papà si rivolgeva per sopperire alle nostre

necessità alimentari. Seppi, durante questa guerra che la Sora Gina era

sposata ad un eroe di guerra, credo insignito della medaglia d’oro in vita,

comandante di una squadra di maiali di assalto della Regia Marina; ma non

ricordo bene i particolari perché non ho mai conosciuto il marito ed ella è stata

sempre restia a raccontarli.

Immediatamente accosto al portone del numero 15 c’era un laboratorio di

oreficeria di proprietà di Ugo L. che stava sempre seduto al suo banchetto a

lavorare illuminato da una lampada con un paralume in vetro esternamente

verde.

La porta successiva ospitava un barbiere cui seguiva una trattoria e la grande

cartoleria De Magistris; ma qui via dei Maroniti era già sfociata in Largo

Tritone; dall’altro lato del portone c’era un portoncino per l’accesso ai piani

superiori ed anteriori, poi la parete di una chiesa sconsacrata con ingresso da

uno slargo della strada, utilizzata dall’AGIP come ricovero automezzi, e sullo

slargo, a sinistra della porta della chiesa, un locale con l’insegna luminosa

‘Nirvanetta’ che all’epoca era per me misterioso non potendo capire cosa fosse

un locale notturno.

Sull’altro lato della via dei Maroniti insistevano le uscite posteriori dell’UPIM

ed il portone dell’AGIP.

In quei giorni di guerra, di scarso lavoro e di attesa, papà era visitato da alcuni

amici che restavano a chiacchierare in officina talvolta allontanandosene per

un caffè, come quel giorno, di primo pomeriggio e non doveva essere caldo

non ostante la fine di marzo, perché papà indossò il cappotto per andare al bar

in via del Traforo all’angolo di via Rasella.

Lo scoppio fu seguito da un subitaneo silenzio, poi urla, spari, rumori di vetri

infranti, tanti morti e tanto sangue. La curiosità ebbe la meglio sulla prudenza

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per papà ed i suoi occasionali visitatori, ma ebbero poco tempo per rendersi

conto della situazione, una strage di giovani corpi maciullati dallo scoppio e

dispersi per buona parte della strada, poi, guardando in alto, una donna,

colpita, sembra, da una raffica di mitra sparata per il terrore da qualche

soldato superstite riversa sul davanzale di una finestra; chissà perché l’ho

sempre immaginata anziana, grassa e vestita di nero, ma non ricordo che papà

me l’abbia mai descritta; ed un ragazzo, poco più grande di me vittima

innocente di una guerra assurda sono gli unici particolari che ricordava.

Poi l’essere tutti fermati e schierati con le mani dietro la testa a ridosso della

cancellata di Palazzo Barberini, per tanto tempo. E le braccia dolevano a

restare in quella scomoda posizione; ma ogni volta che facevano le viste di

abbassarle, un giovane avanguardista (avrà avuto 16 anni, ricordava papà)

sventagliava con il mitra proprio sopra le loro teste obbligandoli a rialzarle.

Dopo qualche ora, quando già l’imbrunire incominciava a nascondere le

fattezze, venne l’ordine di incamminarsi verso Via Tasso, lungo Via Quattro

Fontane.

Il gruppo notevole di persone che, come papà, era stato fermato, non marciava

schierato, ma ognuno avanzava secondo le proprie possibilità, età ed acciacchi.

Papà avrebbe compiuto di lì a tre giorni 41 anni ed era nel pieno della sua

maturità.

Sfruttando questa irregolarità della marcia, egli si andava man mano portando

sulla destra del gruppo e ed a metà circa fra il capo e la coda del corteo.

Superato l’incrocio con Via Nazionale nel tratto di strada fra questa ed il

Viminale tentò il tutto per tutto e si infilò in uno stretto portone. Nessuno dei

suoi compagni, che pure lo videro, fiatò. Un abitante del palazzo, però, forse il

portiere, preso dalla paura voleva cacciarlo via, e papà facendo le finte di

essere armato gli disse a voce bassa: ‘Zitto se no ti ammazzo...’ mettendogli

una mano sulla bocca e trascinandolo all’interno, fuori della vista dalla strada.

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Restarono in quella posizione ben oltre il passaggio di tutto il corteo, ma non

so quando papà sia tornato a casa; io andai a letto ignaro e senza incontrarlo.

A casa non se ne parlò per i giorni a seguire, e seppi solo per caso che papà

con il nostro vicino Claudio S. , dopo qualche giorno andarono in bicicletta

lungo la strada che porta al Divino Amore a constatare di persona la tragica

fine della sanguinosa rappresaglia.

Fra le vittime anche gli occasionali compagni di papà, quel giorno al caffè.

90

LO STANZINO

Per il suo lavoro, papà doveva tenersi aggiornato, e la maniera migliore per

farlo era andare ogni anno alla Fiera di Milano, da solo, senza mamma che

doveva mandare avanti il negozio.

Contro la necessità di ferie che avrebbe distinto gli anni successivi alla guerra,

debbo dire che i miei familiari avevano piuttosto la necessità di lavorare:

mentre il negozio infatti chiudeva per quindici giorni ( e successivamente per

tre settimane) solo dopo ferragosto, e ciò principalmente perché Roma era

vuota; papà aveva l’officina sempre aperta, anzi in agosto aveva un aumento

di lavoro dipendente anche dal fatto che interventi di manutenzione

programmata potevano effettuarsi solo allora.

Solo noi bambini andavamo effettivamente in vacanza, e zio Arduino che non

rinunciava al suo viaggio all’estero, ovviamente in Germania durante i primi

anni di guerra, gli altri no, lavoravano.

Per cui per papà, la visita alla Fiera, era un occasione di vacanza. Da questi

viaggi milanesi, riportava sempre qualcosa per noi, o per sé, essendo la Fiera

non limitata ad un solo settore come avviene adesso, ma coprendo quasi ogni

attività produttiva. E data l’alleanza con la Germania era facile che fossero

esposti e commercializzati prodotti tedeschi.

Tre li ricordo ancora, anzi due ne ho ancora.

Quello che non ho più era una specie di cote per affilare le lamette: a quel

tempo non c’erano né rasoi elettrici né rasoi monouso, ma si utilizzavano

lamette in acciaio che non erano inossidabili e con le quali era possibile fare

una decina di volte la barba dopo di che perdevano il filo. Per mantenere

questo il più a lungo possibile, la lametta, singola, veniva conservata in una

bustina di carta oleata inserita in una bustina di carta lucida, e, dopo ogni

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utilizzo, doveva essere accuratamente asciugata e quindi riposta nella sua

custodia. Ma una volta perduto il filo la lametta era da buttare. I barbieri, che

usavano il rasoio a lama libera lo affilavano con la coramella che era una

striscia di cuoio appesa ad un sostegno che si impugnava dalla parte opposta

tenendola tesa, e passandoci sopra più volte la lama del rasoio inclinandola a

circa un ottavo di giro nel senso contrario alla lama. Il barbiere, passando il

rasoio verso di sé, con la mano destra mentre con la sinistra tendeva la

coramella, lo teneva con la parte più spessa nel verso del moto, e leggermente

inclinato in modo che solo la lama fosse a contatto con il cuoio, e così affilava

un lato del rasoio; nel passaggio successivo, allontanandolo cioè dal proprio

corpo, la parte più spessa del rasoio era sempre nel verso del moto, per cui il

rasoio veniva affilato anche sul secondo lato. Il numero dei passaggi era

sempre una decina, che risultavano sufficienti per affilare il rasoio. L’attrezzo

che papà aveva comprato in Fiera, traduceva questa operazioni per le lamette.

Questa si inseriva in un porta lamette chiudibile a cerniera che teneva fissa la

lama e veniva montato su una slitta dell’apparecchio. L’attrezzo aveva nella

parte fissa un congegno a sezione triangolare montato a 45° rispetto all’asse,

su ogni faccia di questo congegno c’era uno strato di cuoio di concia diversa

(tenero di colore verde, medio di colore nero e duro di colore rosso). La slitta,

che portava la lametta, avanzando lungo una direzione, aveva la parte

anteriore sollevata e la parte posteriore spingeva la lametta verso il cuoio, il

quale, essendo inclinato di 45 gradi, aggrediva la lametta dal lato destro al

sinistro durante il moto della slitta. Al termine della corsa, un dispositivo

determinava l’inversione della inclinazione della slitta per cui, nel moto

contrario, questa aveva sempre la parte anteriore sollevata e la parte posteriore

che spingeva il secondo lato della lametta verso il cuoio. La slitta terminava in

un lato con una appiglio per la mano che agevolava l’operazione.

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Questa consisteva nel far passare per una decina di cicli, che dovevano essere

abbastanza veloci, la lama per ogni lato del cuoio, cominciando dal più tenero

per finire con il più duro. Ed il compito divenne il mio, ogni mattina salvo

quando si inaugurava una lametta nuova, mentre papà scaldava l’acqua nel

pentolino, (lo scaldabagno sarebbe venuto dopo la guerra e avrebbe

funzionato solo per scaldare l’acqua del bagno o della doccia). Papà voleva

continuare ad utilizzare l’attrezzo anche quando vennero in commercio le

lamette in acciaio inossidabile finché io, che avrei cominciato a farmi la barba a

13 anni, non lo convinsi a seguire le istruzioni che imponevano di sciacquare

la lametta ma vietavano di asciugarla pena la perdita del filo.

Dei prodotti della Fiera che ho ancora il primo è una macchina fotografica

Leica 1/3,5 che aveva diverse caratteristiche all’avanguardia per il periodo,

quali la messa a fuoco visiva tramite parallasse a distanza oculare incorporato,

e la velocità di scatto di 1/1000 di secondo; e questa papà l’aveva comperata

per sé; il secondo è una scatola di Meccano che aveva comperato per me.

Il Meccano è una scatola di costruzioni basata su elementi metallici dotati di

fori equidistanti ed aventi la forma più varia, rettilineo di diversa lunghezza,

curvo, a piastra, ad angolo; e poi ruote, ingranaggi, snodi, aste, raccordi, perni,

assi, manovelle, viti senza fine, tutto in acciaio e bronzo. Gli elementi si

potevano riunire tramite bullone e dado a formare strutture come indicava un

esauriente libro di esempi, sia statici che dinamici, ed il limite era dato soltanto

dalla quantità di pezzi da impiegare.

Questo dipendeva dal numero della scatola del Meccano, che iniziava dai

pochi elementi del numero zero in scatola di cartone per finire ai molti

elementi del numero 6 in cassetta di legno. Credo che la mia, in legno, fosse

del numero 5, per cui fornitissima di pezzi. Se non ricordo male la scatola

superiore aveva il motore, mancante nella mia.

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Io ci giocavo spesso, ed ero abbastanza bravo a costruire qualcosa di nuovo

anche esulando dagli esempi del libro; ma poiché a casa c’era l’abitudine di

non lasciare cose tra i piedi, le mie costruzioni potevano durare un giorno,

giusto per farle vedere a papà e mamma, poi dovevo smontarle, riponendo il

tutto nei propri scomparti della cassetta.

Un giorno di primavera inoltrata, tornando a casa da scuola, vedo zio Giorgio

e zio Sandro che avevano preso la cassetta e stavano costruendo un camion.

Si erano messi nel corridoio più lungo della casa, alla fine di questo vicino

dell’ultima finestra, dove il corridoio fa angolo, nei pressi dello studio.

Lì c’era un salottino di vimini con 2 poltrone, un divanetto ed un tavolino

tondo, e loro due, seduti in poltrona, avevano messo la scatola sul tavolino ed

avevano quasi finito di costruire il camion.

Non avevano molta esperienza con la grande varietà di pezzi del Meccano, per

cui quando sono arrivato da scuola mi sono messo ad aiutarli a completarlo

meglio.

Non molto tempo dopo, senza suonare il campanello ma aprendo la porta con

le sue chiavi, arriva papà che ci coglie a costruzione quasi finita.

‘Vedi papà che bel camion stiamo facendo !’

Non ho mai più visto papà tanto arrabbiato, e sì che negli anni successivi ne

avrebbe avuto occasione.

Incominciò, senza urlare, a maltrattare i fratelli chiamandoli incoscienti,

accusandoli di volergli rovinare la famiglia, che non si sarebbero salvati

neanche i figli .....

Era successo che gli zii, entrambi a cavallo dei trent’anni, dopo l’otto settembre

si erano dati alla macchia, e, dopo varie peripezie erano stati accolti in casa.

Nello stanzino, cui si accedeva solo dallo studio che ancora non era diventato

la mia camera da letto, era stato ricavato il loro nascondiglio: si era spostata la

libreria di nonno, quella con i piedi di leone e la vetrata dorata, dalla parete

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dove era alla parete opposta, a coprire la porta dello stanzino. La parete

superiormente e lateralmente alla porta era stata tamponata con un pannello

in legno compensato in modo che non si potessero vedere gli stipiti, e tutta la

camera era stata riverniciata, anche il pannello, con vernice a bugni. Il

pannello si estendeva anche a pavimento in modo che anche traguardando

sotto il mobile si avesse l’impressione della parete.

Per entrare nello stanzino si doveva spostare la libreria, piena di volumi,

penetrare nel foro lasciato nel pannello ed avere altre due persone all’esterno

che spingessero la libreria, una volta che fossero entrati, a contatto con il

pannello.

Le uscite degli zii erano rigorosamente regolate come orario, ed erano

esclusivamente limitate all’espletamento di bisogni personali, perché anche

per mangiare essi dovevano restare nello stanzino.

In ogni caso, al suono di campanello della porta di casa, essi dovevano

rientrare nel nascondiglio in modo che non fosse almeno immediato il loro

ritrovamento.

Per i tempi che correvano era sicuramente un rischio cui tutta la famiglia si era

esposta per solidarietà familiare, anche se avevamo il vantaggio di essere in un

palazzo destinato eminentemente ad uffici con solo due famiglie residenti, e

l’ulteriore vantaggio che il mascheramento dello stanzino era fatto proprio

bene.

Papà però non perdonò allora il loro comportamento, che aveva messo a

repentaglio tutta la famiglia, e credo che abbia trovato loro un altro

nascondiglio perché qualche giorno dopo il fatto, lasciarono casa.

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LA SIGARETTA

Era già caldo, la scuola stava per finire e sarebbe finita con gli esami, i miei

primi esami, per la licenza elementare.

Era qualche giorno che si sentivano più vicini dei colpi di artiglieria; uno era

passato sopra Palazzo Marignoli, già fischiando in discesa, per andare a finire

la sua corsa sulla parete del palazzo che fa da sfondo a via del Gambero, su via

Frattina, all’angolo con via Belsiana; e dal terrazzo si vedeva il pur piccolo

cratere che aveva lasciato sul muro e che sarebbe rimasto, ben oltre dopo la

fine della guerra, quasi a ricordarla. Il danno venne poi riparato quando il

palazzo ospitò la sede del Partito Liberale.

Per tutta la giornata continuò da basso il rumore, anche se attutito dal grande

cornicione, delle colonne militari.

C’era quasi la speranza che non fosse vero quanto il Comando Tedesco aveva

dichiarato: ‘Difenderemo Roma strada per strada!’ ma nessuno osava

esternarlo.

Verso sera giunse una telefonata da casa Crescenzi, in Via Flaminia, 21 proprio

oltre Porta del Popolo, annunciando titubante che i tedeschi probabilmente

stavano andando via. ‘ Son passati molti camion diretti verso Nord, ed alcuni,

scoperti, con sopra feriti tutto coperti di sangue, diretti al contrario verso il

centro della città forse all’Ospedale di San Giacomo.’

Il giorno era già più lungo della notte, ma, senza l’ora legale, verso le sette si

fece buio non interrotto dal coprifuoco.

Solo la Piazza San Silvestro era ancora animata, aperta la farmacia notturna

Garinei, aperta l’edicola di giornali di Pietro Censi, aperto il portoncino

ricavato sul portone principale del palazzo per consentire l’accesso anche

notturno alla Sala Stampa.

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In farmacia papà qualche volta si fermava la sera a parlare con il Dottor De A.

, con il dottor Paolo, titolare della farmacia e con Eugenio D. poi fondatore di

Tifone settimanale satirico sportivo. Passava poi davanti l’edicola per comprare

i giornali della sera particolarmente l’Osservatore Romano sulle cui pagine

qualche giorno prima erano state mostrate le foto delle am-lire, le lire

dell’esercito di occupazione che avevano corso nel Sud d’Italia; e veniva a casa

salendo, a piedi, i 198 gradini.

Data la stagione si mangiava in terrazza, e, nel silenzio della sera, le nostre

voci dovevano arrivare in istrada perché, a pranzo finito, cominciò ad urlare

una voce dal basso che dapprima non riuscivamo a capire: ‘ Felicettooooo !

Felicettoooooo! ‘ .

Papà riconobbe la voce di Pietro Censi che urlava da Via delle Convertite, e,

imponendo a noi il silenzio per capire cosa volesse, glielo domandò.

‘ Gli americani .... gli americani .... stanno a San Giovanni’

Mamma e le zie cominciarono a piangere silenziosamente, papà scese in

istrada per avere maggiori particolari, io e Paola, dopo un po’ andammo a

letto.

Quello che ricordo di più è l’odore del latte.

Ormai era tempo che le nostre abluzioni venivano fatte o con la sola acqua o

con un surrogato di sapone, e la cosa riguardava anche l’esercito sia fascista

che tedesco, tutti e due ancora in divisa invernale, e mi ero abituato all’odore

comune del sudore invecchiato sui vestiti, sudore dovuto piuttosto alla paura

che non al caldo.

Gli americani no: venivano, tutti motorizzati, in quattro per ogni jeep, in

divisa estiva, con la camicia pulita aperta al collo e odoravano di latte come se

se ne fossero fatti un bagno. Ed era quasi vero perché, in guerra, facevano la

doccia tutti i giorni con il sapone al latte; ed io che non sentivo da tempo

l’odore del latte ne rimasi esterrefatto.

97

Una folla ridente e piangente, ma di gioia, magra, anche emaciata, si accalcava

sui marciapiedi ai lati del Corso ed applaudiva, e si sbracciava, e qualcuno

osava avvicinarsi alle jeep, ai camion, ai carri armati ad urlare la propria gioia,

la propria soddisfazione; ad offrire fiori; a lanciare baci.

E loro, i soldati, sorridenti, mostravano l’indice ed il medio a formare una V ,

portando ogni tanto la mano alla bocca a togliere un immenso sigaro che

andavano fumando.

Ed al lancio di fiori rispondevano con il lancio di tutto; un tipo di pane

quadrato di un colore così bianco che non vedevamo da tempo, e cioccolato, e

sigarette.

Non pacchetti di sigarette interi, ma prendendone alcune dal pacchetto aperto

con le prime tre dita della mano, le lanciavano, così a gruppi, verso la folla.

Io ero da solo, della famiglia, ad assistere al loro arrivo, ed anche se più alto di

quanto non lo facessero pensare i miei dieci anni, pure non arrivavo a

competere con i giovanotti e con gli uomini che le sigarette le prendevano al

volo; ma, sapendo che a papà mancava ormai da tempo il fumo, seguii con lo

sguardo la traiettoria di un gruppo di sigarette che erano state lanciate con più

forza delle altre fino a colpire il portone chiuso di una banca al Corso vicino

palazzo Chigi.

Una di queste si infilò sotto il portone in uno spazio fra la base dello stesso e la

strada, la raccolsi e la portai a papà.

Papà infatti era rimasto in casa, non partecipava alla festa, ed appena vide la

sigaretta mi domandò :’L’hai raccolta per terra ?’ ‘No ‘ mentii accorgendomi

che non mi credeva. Non mi disse niente ma non la fumò.

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GLI ZOCCOLI

Si chiamava Mariella K. ed assomigliava in qualcosa a mamma: come lei aveva

capelli rossi e la pelle piena di efelidi, e come mamma era piena di energia ed

instancabile. Abitava in una casa di Via Mario de’ Fiori con i genitori ed il

fratello Franz.

Tutta la famiglia aveva il culto della musica, ed il padre era anche un bravo

suonatore al piano: il suo era un pianoforte verticale dotato di pianola e

consentiva il montaggio di un rullo nella parte anteriore. Il rullo si presentava

come una scheda perforata, e portato avanti da un motore eseguiva il pezzo di

musica predisposto. Agendo su di una leva posta sotto la tastiera, il

meccanismo oltre a trasmettere il moto ai martelletti lo trasmetteva anche ai

tasti in modo da poter seguire, sulla tastiera del pianoforte quale sarebbe stato

il movimento delle mani.

Era uno spettacolo sconvolgente.

Ora il padre di Mariella era stato così abile che aveva chiuso con carta adesiva

i fori sul rullo, relativi alla partitura o della mano destra o della mano sinistra,

e riusciva a suonare con l’altra mano, a tempo, e con buona interpretazione

assieme al meccanismo. Per la mia scarsa abilità con la tastiera ciò era

incredibile.

Mariella, come tutte le persone piene di iniziativa, aveva l’intenzione di

aiutare in qualche modo gli sfollati che a Roma erano tanti e bisognosi di tutto,

e si era resa conto che mentre era possibile riadattare vestiti in sovrannumero,

cucire degli abiti senza pretese di moda con qualsiasi pezzo di stoffa, non era

così facile fornirli di scarpe.

Ma di scarpe c’era bisogno, ed ella trovò il sistema di coinvolgere un grande

numero di persone nella costruzione di zoccoli.

99

Si compravano, o si facevano fare delle forme di zoccolo in legno, poi, con

pezzi di stoffa e chiodi si costruivano gli zoccoli, e si distribuivano, o

direttamente, o tramite qualche opera parrocchiale.

Casa nostra era tutto un fervore di opere, in quel periodo il lavoro a negozio

andava molto a rilento anche per mancanza di materia prima, ed allora le

donne della famiglia, noi ragazzi, Mirella ed il fratello, qualche amico

volenteroso riuscivamo a produrre decine di zoccoli al giorno.

Ricordo che partecipava alla fabbricazione degli zoccoli anche la famiglia P.

che abitava sul nostro pianerottolo alla porta accanto alla nostra.

L’appartamento, se così si poteva chiamare, consisteva in una sola stanza con

servizio, e lo abitavano padre madre e due figli, quivi sfollati da un paese

bombardato.

Ero troppo piccolo, e l’educazione del tempo mi avrebbe comunque impedito

di accorgermi della realtà, per rendermi conto se la famiglia P. fosse o no

indigente, ma certo, avendo dovuto subire uno sfollamento e probabilmente la

perdita della casa non erano benestanti; ebbene pur nella loro condizione

impiegavano la loro giornata nell’aiuto degli altri, forse più bisognosi di loro.

Prima che al Nord finisse l’occupazione tedesca, la ragazza P. morì e la ricordo

ancora vivamente, disposta sul letto matrimoniale, a lei riservato in quella

occasione, nel suo vestito bianco della Prima Comunione, sembrarmi ad un

tempo così vicina e così distante; a me che la guardavo sbirciando nella fessura

fra la porta semiaperta e lo stipite, senza il coraggio di entrare.

100

LE CAMIONETTE La guerra non aveva consentito di completare, dopo la demolizione dei

palazzi di Via San Silvestro, l’allestimento completo della piazza, in specie in

corrispondenza di Via del Pozzetto.

Infatti il palazzo, originariamente AGEA (Azienda governatoriale di elettricità

ed acque, poi divenuta ACEA), posto di fronte a Palazzo Marignoli era stato

costruito per la sola metà sinistra, ed il motto latino che lo percorreva si

interrompeva a metà di una lettera, in attesa di continuare sulla seconda metà

del palazzo ancora da costruire.

Al posto del cantiere, gli Alleati avevano allestito un deposito di materiale

vario, e fruivano di un gruppo elettrogeno per le loro esigenze non essendosi

allacciati alla rete urbana.

In effetti la fornitura di energia elettrica non era esemplare, e l’energia

mancava senza preavviso, frequentemente ed abbastanza a lungo.

Il fatto preoccupava i sacerdoti di San Claudio, che non era più così

frequentata come pochi mesi prima, che non gode di molta luce naturale. Per

loro conto, ed accompagnato da uno di loro, dovetti dar fondo al mio scarso

inglese per domandare al vicino deposito alleato la possibilità di usufruire di

un allaccio provvisorio al loro gruppo elettrogeno. Ma, poiché la burocrazia

non è una prerogativa italiana, il mio tentativo non sfociò in niente di positivo.

Andavo ancora a servire la messa in quella chiesa, anche se non con la stessa

frequenza dati i maggiori impegni scolastici, e ricordo che una volta venni

appositamente chiamato per servire messa ad un prete americano che aveva

ottenuto di celebrare colà.

Andai pertanto quel mattino presto, prima della scuola, ed aiutai ad

abbigliarsi in sacrestia un sacerdote negro, che parlava solo inglese ed un po’

101

di latino. Fu la prima volta per me che avessi contatto con un negro, prima di

allora infatti in Italia non ce ne erano molti, salvo gli Ascari che militavano

sotto le nostre bandiere ma non erano molto avvicinabili, da un bambino come

me.

Servii la messa, ed il prete dovette essere abbastanza soddisfatto se, dopo, mi

regalò un messalino anglo latino, che debbo avere ancora.

A Palazzo Marignoli, avevano installato, all’interno dell’ascensore, una

gettoniera ed il gettone costava due lire che, al momento valevano poco ma

che quaranta anni prima (d’argento) rappresentarono il premio per mio nonno

per avere inventato deviatore e commutatore.

Il costo della corsa fece sì ché, salvo zia Dadda che era la più anziana, si

utilizzasse l’ascensore solo in salita, e, possibilmente viaggiando in comune.

Noi ragazzi generalmente facevamo i 198 gradini a piedi a meno che non

fossimo accompagnati da qualche grande.

Il fatto è che né io né Paola girassimo con monete in tasca, perché i nostri

percorsi erano casa-scuola-negozio, ed in genere accompagnati, per cui non

avevamo bisogno di soldi.

centesimi 5, 10, 20, 50 - lire 1 e 2 del 1943 XXI

Non esistevano più i decimali, che erano stati emessi dalla Zecca solo fino al

1943 XXI poiché il 28 ottobre l’istituto di emissione, rimasto a Roma, non

poteva avere più l’incarico dal Re, che invece era oltre le linee a Salerno, di

battere moneta con la dicitura XXII E.F..

102

La moneta circolante era quella emessa dalla amministrazione alleata e l’unità

di conto si chiamava am-lira, e le monete di occupazione avevano forma quasi

quadrata, tutte delle stesse dimensioni ed i valori di 1, 2, 5 e 10 lire.

Papà aveva ricominciato il lavoro, e, nell’officina di Via dei Maroniti, era,

quasi ogni pomeriggio, visitato da un italo americano, figlio di un senatore in

America che peraltro aveva combattuto dalla parte Italiana come aviatore: il

dottor Franco P.

Fra lui e papà era nata molta simpatia, e la promessa dell’affidamento dei

lavori quando egli avesse ricevuto dagli Stati Uniti i finanziamenti per la

costruzione di uno stabilimento per la produzione di antibiotici.

Papà era inizialmente scettico sull’effettivo realizzarsi di tale promessa, ma di

lì a qualche anno tutto si sarebbe verificato; e la collaborazione fra i due andò

avanti per molti anni, con un rapporto che era una specie di amicizia senza che

smettessero mai di darsi del lei.

Benché le famiglie non si frequentassero, pure papà sapeva tutto dei suoi figli

e il dottor P. tutto di noi, e, debbo dire, per me aveva un particolare affetto.

Papà non perse mai l’abitudine presa durante la guerra di passare, sia al

mattino andando a lavoro, sia alla sera tornandone per la Chiesa di San

Claudio.

Solo le rare volte in cui veniva a casa anche a pranzo trovava la chiesa chiusa

per le ore meridiane.

Dovette avvenire uno di questi rari giorni il suo risolutivo intervento per

l’incendio domestico.

Fino all’arrivo degli Alleati la nostra fornitura di energia elettrica domestica

era limitata alla utenza luce a 127 V.: avevamo un contatore in ingresso e,

subito a valle il relativo interruttore.

Quando si passò dai ferri da stiro a carbonella a quelli elettrici, occorse

richiedere anche una utenza industriale a 220 V.

103

La presa per il ferro da stiro era stata disposta in fondo al corridoio centrale

proprio in corrispondenza dell’inizio del terzo corridoio, presso la finestra che

forniva luce naturale.

Il collegamento era stato eseguito in cavo esterno che, partendo dal contatore

posto nello stesso vano del contatore luce, saliva fin quasi a soffitto e

percorreva tutto il corridoio mascherato oltre la modanatura che rifiniva in

alto la carta da parati. Al termine del corridoio più lungo il cavo scendeva

presso la finestra ad alimentare una presa esterna.

Non so per quale ragione un giorno il ferro da stiro andò in corto circuito e,

non essendoci un interruttore di protezione, il cavo che lo alimentava

incominciò a prendere fuoco.

Non ci volle molto che le fiamme avvolgessero tutta la tratta verticale del cavo

presso la finestra, e cominciassero a propagarsi lungo la parte orizzontale,

non con la stessa velocità, ma con continuità.

Papà avvertito dalle urla di chi stava utilizzando il ferro da stiro, alzò una

scala circa dieci metri prima della testa dell’incendio, e, con un paio di forbici

da cucina, interruppe il cavo e con esso anche l’incendio.

Io e Paola, che avevamo assistito al veloce intervento restammo impauriti ed

ammirati, mentre papà fra sé e sé si incolpava per non aver pensato a montare

un interruttore.

Papà aveva assunto dei lavori anche fuori dell’ambito di Via del Tritone, e ciò

comportava la necessità di spostamenti, per i quali aveva acquistato una

bicicletta, tutta cromata e con il cambio della quale era gelosissimo e che

parcheggiava in officina, dalla quale continuava a venire a casa a piedi.

A Roma i mezzi pubblici, dopo l’occupazione Alleata, scarseggiavano. Eppure

ricordo che il giorno dopo la morte di nonno, ed era il dodici novembre del

’43, ci ritrovassimo sia la nostra famiglia, sia quella di zio Tonino, a piazza

Cavour, per prendere il tram n. 35 verso Via Tunisi dove era la casa di nonno

104

per l’ultimo saluto. Ricordo che fra noi ragazzi sorse la questione se ci avrebbe

fatto impressione baciare nonno morto il giorno prima, e non so chi di noi

quattro sdrammatizzò il fatto dicendo che avremmo solo provato una

sensazione di freddo come a baciare il mancorrente metallico del tram, cosa

che fece per esemplificare.

La mancanza di mezzi pubblici, che per me resta ancora un mistero, fu

sopperita dalle iniziative personali ed imprenditoriali di molti proprietari di

piccoli camion. Si trattava dei mezzi generalmente utilizzati per la

movimentazione di frutta e verdura ai mercati generali e che risultavano

molto maneggevoli.

Erano stati attrezzati con un tendone di copertura, due panche lungo i lati

maggiori, come avviene tuttora per i camion trasporto truppe, ed una

balaustra posteriore che terminava, al centro, con una scaletta di quattro o

cinque gradini con due corrimano laterali, che consentiva agli utenti anche se

con scarsa mobilità, di salire all’interno del mezzo. Uno pseudo bigliettaio

riscoteva l’importo della corsa all’interno, senza però dare il biglietto. Le

camionette avrebbero dovuto viaggiare con il carico umano solo all’interno,

ma, ricordo, che in occasione di alcune manifestazioni sportive allo stadio

Nazionale (ormai lo stadio Nazionale del Partito aveva assunto quel nome;

qualche anno dopo, in seguito alla tragedia del Torino si sarebbe chiamato

stadio Torino, finché, ristrutturato per le Olimpiadi, si sarebbe chiamato stadio

Flaminio) le camionette erano gremite oltre che all’interno anche lungo la

scaletta tanto che non mantenevano l’assetto e risultavano pericolosamente

piegate all’indietro.

Nel tempo, perché il fenomeno camionette durò abbastanza a lungo, vennero

utilizzati anche camion più grandi e con sedile centrale che consentivano la

salita ad un maggior numero di persone.

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Ma anche questi, durante i viaggi allo stadio, ospitavano sui gradini capannelli

di gente.

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IL VATICANO

In salotto, sotto una delle applique, quando ancora la tappezzeria era quella

verde con disegno a broccato, c’era, incorniciata una fotografia

dell’incoronazione di Papa Pio XII.

Il Papa appariva in trono, con il triregno, circondato da uno stuolo di prelati e

di altri personaggi vestiti in paludamenti vari e, sullo sfondo, si notavano,

sorretti da due di tali personaggi, anche essi in costume, due immensi ventagli

di piume di struzzo posti su dei bastoni che li facevano emergere ben al di

sopra delle teste dei presenti: erano i flabelli che, secondo quanto mi

raccontava papà, servivano per la ventilazione nelle giornate calde, e

risalivano ai tempi dell’antico Egitto come appare nei geroglifici e nel secondo

atto dell'Aida. La loro funzione ormai era solo decorativa, ma con tutto

l’insieme essi conferivano al Papa un senso di regalità superiore che tanto

compiaceva i Romani.

Il Papa, allora, era fuori del contatto con il mondo, non usciva dal Vaticano se

non per recarsi a Castello durante l’estate, manteneva una corte laica di

gentiluomini pontifici divisi in categorie ognuna con il proprio ordinamento, il

proprio cerimoniale, i propri abiti sia ordinari che di gala, alcune con voti

religiosi altre con armi di difesa ed anche di offesa, ciascuna derivante da

origini sia medievali che rinascimentali quando il cardinalato era solo un titolo

onorifico che veniva conferito anche a bambini.

Il Papa normalmente, nelle cerimonie pubbliche, che si svolgevano sempre

all’interno e poche volte all’esterno di San Pietro, non camminava mai a piedi

per traversare la chiesa o il sagrato e raggiungere l’altare , ma veniva sempre

portato in sedia gestatoria dai sediari che erano gentiluomini in abito rosso

con il copri maniche secondo il costume rinascimentale.

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Il Papa non indossava scarpe ma sempre pantofole, in tessuto ricamato a

fondo rosso.

Quando parlava all’omelia della messa, lo faceva in latino; al pontificale il

vangelo era sempre letto nelle due lingue canoniche: prima in latino e poi in

greco; quando assumeva la comunione non lo faceva come siamo abituati a

vederlo fare attualmente in diretta televisiva, bensì, giunto il momento,

lasciava l’altare, andava a sedere in trono, e la comunione gli veniva portata

sub utraque specie dal diacono: l’ostia non dissimile da quella attuale, mentre

il calice aveva un coperchio d’oro da cui usciva una cannuccia anche essa

d’oro ed il Papa beveva tramite questa cannuccia senza dover ripiegare la testa

all’indietro per sorbire tutto il liquido.

Il fatto di parlare latino conferiva, se possibile, ancora maggiore dignità a tutte

le cerimonie ed è un peccato che tale tradizione si sia perduta con il Concilio

Vaticano II. E pensare che fui presente il 25 gennaio del 1959 a San Paolo

durante l’omelia quando Giovanni XXIII annunciò l’indizione del Concilio

iniziando il discorso con un incipit latino di rara poesia: Veluti flos inexpectati

veris (quale fior d’inattesa primavera)

Il cerimoniale dei riti era così complesso che oltre al diacono e suddiacono

canonici occorreva che vicino al Papa ci fosse un cerimoniere che gli ricordasse

tutti gli adempimenti. Lo strano era che con tale dovizia di fasto che si

riscontrava anche nei vestiti, il cerimoniere non aveva un abito apposito per la

funzione ma si limitava ad indossare una veste violacea da monsignore con

sopra una semplice cotta bianca, come un qualsiasi corista.

L’odore penetrante dell’incenso contribuiva poi a rendere ogni cerimonia

sfarzosa, fastosa e regale e tale caratteristica era molto gradita ai romani degli

anni quaranta come lo era a quelli dei tempi del Belli.

Mio padre se ne compiaceva veramente e, anni dopo, non avrebbe perdonato i

successori per l’abolizione di tanta regalità.

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Io non ebbi molte occasioni di vedere il Papa, ma ricordo l’impressione che

fece a tutti i romani il fatto di trovarselo fra le macerie dopo il bombardamento

di Roma. Da una parte c’era lo straniero che opprimeva, dall’altra l’altro

straniero uccideva con i bombardamenti e sembrava che l’unico scampo si

potesse avere ricorrendo al Papa e così era.

Fu verso la fine dell’occupazione quando mancava ancora poco alla

liberazione di Roma, che ricordo di essere stato presente ad una delle rare

uscite del Papa presso la chiesa di sant’Ignazio dove era stata traslata, per la

guerra, l’immagine della Madonna del Divino Amore; qui il Papa consacrò

Roma alla Madonna promettendo, e con lui romani, la costruzione di un

tempio a Castel di Leva dove era il santuario.

Il santuario del Divino Amore, posto sulla via Ardeatina, in partenza da Roma

dalle Terme di Caracalla, dista da Porta San Sebastiano circa 14 chilometri

lungo una strada che segue l’andamento collinare del suolo; fino a buona parte

degli anni cinquanta è stato meta di pellegrinaggi da parte di molti, sia dei

paesi limitrofi che di quelli distanti che, durante l’estate in occasione della

festa, vestiti da madonnari andavano al Santuario a bordo di carri addobbati

con decori eseguiti in carta crespa colorata, trainati da buoi anche loro

addobbati con lo stesso materiale, salvo il campanaccio che doveva scandire

con il suo suono i canti religiosi mariani.

Trattandosi della Madonna del Divino Amore, indicando con questo termine

lo Spirito Santo, la festa ricorre a Pentecoste, per cui nella prima metà di

giugno, e, la notte della vigilia, tuttora, un pellegrinaggio a piedi, parte alla

mezzanotte dall’obelisco di Axum per andare ad ascoltare la prima messa alle

sei.

Ma quel 1944 la ricorrenza fu celebrata a Roma e quella fu l’occasione che mi

consentì di vedere il Papa di persona.

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Ma non più di due mesi dopo lo rividi ancora, e questa volta assieme a tutta la

famiglia patriarcale in occasione di una udienza privata.

Il viaggio fino al Vaticano lo facemmo in taxi, gli uomini, zio Arduino, Papà e

zio Alberto in frac, le donne in abito lungo nero con velo di pizzo, noi tre

ragazzi con l’abito della prima Comunione, adattato in negozio perché erano

passati già due anni da che l’avevamo fatta.

Zio Arduino, che era abbastanza mangia preti e che rappresentava per noi

ragazzi un esempio di miscredente, aveva in quella occasione assunto le vesti

del pater familias, come d’altronde gli competeva nel matriarcato di cui

eravamo parte; e, non ostante la sua abitudine a viaggiare per il mondo, era

decisamente emozionato.

Noi ragazzi, come facciamo tutti a quell’età, ci davamo le arie facendo le finte

di non essere emozionati e ci ripetevamo l’un l’altro le parole che avevamo

preparato da dire al Papa quando si fosse avvicinato a noi.

Tutto il precorso dal portone di bronzo fino alle logge di Raffaello lo facemmo

a piedi ma anche i più anziani non trovarono occasione di lamentarsi della

lunga strada.

Da lì fummo introdotti in una stanza molto grande che il Papa avrebbe

attraversato uscendo dai suoi appartamenti privati.

Lì ci disponemmo, tutti in ginocchio, schierati in fila per uno, noi tre ragazzi,

al centro del gruppo, i grandi, nei quali montava l’emozione, ai nostri lati.

Il Papa entrò dalla nostra destra e parlottò con uno dei suoi accompagnatori

che dovette presentarci perché si rivolse a noi dicendo: Una bella famiglia

romana.

Noi ragazzi, non ostante i nostri buoni propositi, non riuscimmo a spiccicare

parola, e, ricordo che anche i grandi biascicarono qualcosa senza molto

significato; le zie Giannetta e Fernanda piangevano.

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Il Papa, dopo averci dato la mano a tutti e con ognuno avendo scambiato

qualche parola, si dispose proprio di fronte a noi che eravamo al centro del

gruppo, ed allargò le braccia nel suo gesto di benedizione che era soltanto suo,

e ci benedisse tutti, per uscire subito dopo, dalla porta alla nostra sinistra.

Eravamo stati tutti in ginocchio per tutto il tempo ma nessuno se ne lamentò.

Ciascuna delle tre famiglie che effettivamente formavano il nostro gruppo

ricevette qualche giorno dopo la foto del Papa con la benedizione scritta ed il

suo autografo; ricordo che su quella in cui Felice Favero chiedeva alla Santità

Vostra per sé e per la propria famiglia la benedizione apostolica, il Papa di sua

mano, prima della firma aggiunse una frase che solo qualche anno dopo, alla

scuola media, riuscii a comprendere; Peramanter in Domino; Pius p.p.XII

111

IL SALONE MARGHERITA

Li avevamo tutti e due proprio vicino casa: la Sala Umberto a Via della

Mercede, il Salone Margherita a via due Macelli.

Erano, e, sotto certi aspetti, sono tuttora, due sale gemelle, con lo stesso

arredamento belle époque da café chantant, la platea, una volta destinata a

tavolini ed una balconata più verosimilmente destinata a spettatori, ed

affiancata da palchi con balconcino aggettante sulla sala ma privi di una vera e

propria porta.

Le scale di accesso alla balconata erano accessibili solo una volta entrati nella

sala, da una specie di foyer, arredato con un gran numero di grandi specchi,

che alla sala Umberto precede la sala di spettacolo, mentre al salone

Margherita la circonda tutta.

Immediatamente dopo la guerra la sala Umberto era stata dedicata al cinema,

il salone Margherita era stato utilizzato come teatro, sempre gremito, in quella

stagione, perché sul suo palcoscenico si esibivano Anna Magnani ed Aldo

Fabrizi in una specie di rivista castigata che aveva molti spunti satirici sul

momento allora attuale.

La famiglia aveva prenotato i posti per tutti i componenti, anche noi bambini,

la domenica in fine di Aprile. Così quel pomeriggio andammo tutti a ridere in

vernacolo romanesco.

Noi ragazzi eravamo entusiasti, era per noi la prima volta che andavamo a

teatro, ed andarci in un’occasione allegra sarebbe stato memorabile per tutta la

vita.

Probabilmente per la guerra vissuta coscientemente che mi aveva in qualche

senso svezzato, riuscii a capire tutto quello che si svolgeva sulla scena senza

112

dover ricorrere alle spiegazioni dei genitori, i quali, per quanto li riguardava,

se la ridevano della grossa.

La rivista comprendeva due tempi, e nell’intervallo fra il primo ed il secondo

tempo si poteva uscire dal teatro per rientrarvi qualche minuto dopo.

Ed uscimmo anche noi.

All’esterno era una giornata nuvolosa, e doveva essere in qualche modo

piovuto perché ricordo il marciapiede bagnato.

Fuori del teatro alcuni strilloni offrivano le edizioni straordinarie dei giornali

della sera.

‘ Mussolini ucciso ‘

‘ Il Duce appeso a Piazzale Loreto’

Era quasi un anno che la guerra ci aveva lasciato, ed ormai sembrava quasi

non riguardarci più. Eravamo qui, fra il primo ed il secondo tempo di

un’opera carica di risate e ci trovavamo rituffati nella tragedia.

Non ricordo segnali di particolare entusiasmo, né fra gli spettatori usciti dal

teatro fra un atto e l’altro che erano stati colti di sorpresa dalla notizia, né fra

gli altri passanti.

Zio Alberto, che era stato gerarca anche se non aveva poi aderito alla

Repubblica di Salò, non rise più durante il secondo tempo.

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IL CIMENTO INVERNALE

Si scende alla banchina del Tevere tramite tre rampe di scale, interrotte da

brevi pianerottoli che non ne cambiano la direzione e che figurano in

corrispondenza dei ponti, nel percorso cittadino del fiume.

I gradini sono circa 20 per rampa e risultano in aggetto rispetto al muraglione

in travertino, e fanno capo, in basso ad un marciapiede largo circa 150

centimetri ed alto sul fiume, verso il quale non c’è parapetto, circa un metro,

almeno nei periodi di regime normale.

La corrente del fiume è abbastanza forte, per cui se il marciapiede risulta dalla

parte esterna della curva del fiume, non si verifica alcun deposito di limo o

fango che normalmente sono trasportati dal fiume, e perciò, subito sotto il

marciapiede c’è l’acqua.

Quando però la corrente del fiume fa cavitare l’acqua in prossimità del

marciapiede, qui si accumula man mano un sempre maggiore quantitativo di

limo sul quale sorgono piante spontanee ed inquinanti che talvolta

impediscono il passaggio sul vicino marciapiede.

Il regime del fiume peraltro, in quell’epoca era molto variabile, poiché non era

stata ancora realizzata la diga a Castel Giubileo, per cui era facile trovare in

inverno il fiume in piena, ed allora il marciapiede veniva completamente

coperto, però non si impediva ai veri fiumaroli l’accesso ai galleggianti,

perché, proprio in corrispondenza di Ponte Margherita , a metà della terza

rampa di scale, quella più vicina al fiume, si dipartiva una scaletta di legno

che, scavalcando il parapetto e scesi pochi gradini, si trovava in

corrispondenza con una passerella unita al galleggiante delle barche della

Tevere Remo, da cui si poteva accedere al galleggiante sociale della stessa

società, e da questa si veniva trasbordati su una barca attaccata ad una fune

114

lungo la quale era possibile scorrere tramite due anelli, fino al galleggiante

della Rari Nantes Roma.

La barca per il trasbordo, per effetto della corrente, era sempre in vicinanza

del galleggiante Rari Nantes, e per questa ragione era dotata di una corda di

richiamo ammarrata al galleggiante Tevere Remo.

Ricordo che tutti i fiumaroli pronunciavano Remo con la e aperta e solo da

grandicello mi resi conto che non si voleva indicare il fratello di Romolo, ma

l’attrezzo per remare, però se dicevo Tevere rémo ero guardato male.

Di galleggianti sul Tevere, fra il ponte Margherita ed il Ponte Cavour, ce ne

erano diversi, dei quali il più bello era quello della Società Aniene, che era

molto grande, a più piani e con il solarium costruito sul terrazzo in mezzo al

tetto, alle due estremità del quale erano installati, puntati verso l’alto, due

remi, colorati, come il galleggiante, dei colori sociali, il giallo e l’azzurro

chiaro.

Questo galleggiante ne aveva vicino un altro, meno imponente per il ricovero

delle barche.

L’accesso all’Aniene non avveniva generalmente dalla scaletta presso Ponte

Margherita, ma da quella presso Ponte Cavour , anche se, con il tempo e la

sempre minore manutenzione delle rive del fiume, l’accesso si rivelava

talvolta complesso per la presenza di vegetazione invadente.

I colori sociali del Tevere Remo erano invece bianco, rosso e azzurro scuro, e si

ripetevano sia sui remi che sui galleggianti della società, che, avendo anche

una sede a terra, aveva il galleggiante sociale bene attrezzato ma non così

imponente come quello dell’Aniene.

Il galleggiante più piccolo era quello della Rari Nantes, e consisteva di una

casina di circa dodici metri per otto e di un vicino galleggiante più piccolo

utilizzato come solarium.

115

La casina, in puro stile liberty occupava quasi tutto lo spazio del galleggiante:

verso riva e verso fiume c’era un piccolo corridoio di neanche 80 centimetri di

larghezza, munito, verso fiume di parapetto in acciaio, con all’inizio e alla fine

una scaletta per la discesa in acqua, ed un piccolissimo pontile in legno

marino. Il lato Nord della casina presentava un dente che consentiva un

piccolo spazio all’esterno con tavolo e panche coperti da un pergolato

realizzato con piante su vasi; il dente era invece occupato da un cucinino. Il

lato sud aveva un altro dente, aperto verso fiume in un piccolo solarium che

accedeva tramite passerella al secondo galleggiante, e chiuso verso la riva che

conteneva la doccia accessibile sia dall’interno della casina che dall’esterno e i

servizi.

Rari Nantes 1932 papà Felice è l’ultimo a destra

La casina, all’interno, era un gioiellino, tutta realizzata in mogano marino:

lungo tutte le pareti correva una panca con coperchio superiore chiudibile

eventualmente con lucchetto, ogni coperchio era largo circa 40 centimetri e

116

veniva utilizzato dai soci per il deposito di effetti personali; sopra la panca ed

in corrispondenza dei vani di questa, erano realizzati degli armadietti con

sportello anteriore, aggettanti per circa 30 centimetri ed alti 60, per il deposito

di effetti personali di maggior pregio. In effetti all’interno della panca

trovavano posto scarpe e zoccoli, nell’armadietto i costumi, le posate

personali, il bicchiere, il rasoio il pennello ed il sapone da barba, la scatola

porta sapone, il dentifricio e lo spazzolino.

All’interno dell’armadietto di papà c’era anche la copia del Giornale d’Italia

con la mia fotografia a 6 mesi e con il titolo: Ecco la foto del vincitore del concorso

per il più bel bambino di Roma, nella quale campeggiavo seduto, poggiato ad un

cuscino, ma già bene eretto, con lo sguardo diretto verso l’apparecchio

fotografico ed i capelli che formavano una specie di guglia sul sommo del

capo, realizzata acconciando i capelli ed utilizzando per tenerli in piega una

misteriosa miscela di acqua e zucchero.

La foto e l’articolo occupavano la quarta parte superiore sinistra della pagina e

tutto era stato ritagliato ed incollato alla parte interna dell’anta

dell’armadietto.

Un socio r.n. ( i soci della Rari Nantes, aggiungono dopo il nome e cognome,

queste due lettere minuscole a significare l’appartenenza che non si perde mai,

come fanno gli inglesi per i titoli accademici ) aveva aggiunto a grandi lettere

ed a matita rossa: Son più bello di papà!! Il premio per la vittoria era stato di

1.000 lire in Buoni del Tesoro ventennali, per cui quella che nel 1934 era una

bella sommetta, nel 1954 non avrebbe avuto più valore.

Al centro della casina c’erano due file di panche doppie con spalliera ed

appendiabiti centrale, e superiormente c’erano dei dispositivi per sospendere

le barche sociali fra le quali c’era la iole personale di papà.

117

Il tetto era a spiovente a quattro falde e, nella parte centrale era sollevato per

fare posto ad una finestra che correva sui quattro lati, con vetri colorati fissi ed

alcune intelaiature per l’areazione mobili tramite un complesso rinvio di

118

cordame.

Papà, dopo la guerra, aveva ricominciato ad andare all’ora di pranzo a fiume,

facendo venire a casa un operaio dalla Ditta a prendere il cestino del pranzo,

che era costantemente bistecca e verdura, salvo il venerdì nel quale la bistecca

era sostituita dal merluzzo.

I soci non erano molti, ma fra loro veramente amici, e tutti legati con gli affari

alla zona. Si trattava generalmente di commercianti con una buona

rappresentanza di antiquari di via del Babuino, impiegati con la passione del

nuoto, artigiani ed anche un farmacista, Franco J. detto Lucertola per la sua

abitudine di stare sempre al sole ad aumentare la tintarella.

L’industria dei marmi presso Tivoli, che è la maggiore causa di inquinamento

dell’Aniene e quindi del Tevere ancora non funzionava a pieno, per cui

l’inquinamento era ridotto, il fiume pescosissimo in specie di ciriole ( così si

chiamano a Roma le anguille ) ed il bagno piacevole.

La corrente nel tratto, però era molto forte, e bastava lasciarsi andare dalla

scaletta a monte per ritrovarsi immediatamente a livello della scaletta a valle

da afferrare al volo, altrimenti c’era il rischio di dover superare anche il

galleggiante solarium, la cui presenza provocava un vortice contrario e

consentiva di nuotare un breve tratto contro corrente per risalire a bordo.

L’uscita in barca avveniva dal galleggiante scoperto e bisognava, causa la

corrente, essere sempre aiutati sia nel montare che nel discendere dalla barca, i

remi infilati negli scalmi e tenuti fermi a terra da consoci volenterosi.

Papà mi insegnò a remare sulla sua iole secondo un sistema in voga fra i

canottieri e che solo studiando idraulica avrei compreso: entrata in acqua

senza urto ed uscita senza velocità. Il tutto era ottenuto con un gioco di polso

che portava il remo ad accompagnare la corrente dell’acqua, a non affondarlo

per dare alla leva un maggiore braccio, a sollevarlo senza strappo dall’acqua,

119

ed a portarlo indietro con la pala rivolta verso l’alto per limitare la resistenza

dell’aria e sfiorando l’acqua senza toccarla.

Il movimento è molto elegante ma anche tanto stancante però risulta ancora

quello più efficace.

Fra i soci era ricorrente la commenda che era riservata ai nuovi arrivi o a

coloro che, dopo pranzato, si erano addormentati su una sdraio al sole.

L’operazione che prende questo nome consiste nel riempire un secchio

d’acqua di fiume poi, dalla distanza di tre quattro metri, lanciare l’acqua sul

malcapitato, il quale, per legge, non deve risentirsi.

Per esperienza fatta posso assicurare che, anche nelle giornate più calde

l’acqua del Tevere è freddina.

Immagino quanto dovesse essere fredda il giorno di Natale ed in seguito

anche il Primo dell’Anno quando si svolgeva il cimento invernale cui

partecipavano in effetti tanti nuotatori. Io ebbi sempre la proibizione di

mamma, e forse non mi ha mai attratto molto l’idea, per cui mi limitavo ad

assistere. Ricordo che, quando riprese la tradizione dopo la guerra, il Tevere

era in piena per cui l’accesso al fiume doveva avvenire tramite la scaletta in

legno che portava al galleggiante barche della Tevere Remo, per la quale

ragione per il trasbordo di tutti, partecipanti e pubblico ci si dovette muovere

per tempo.

I partecipanti si spogliarono nel galleggiante Rari e, non potendo raggiungere

il ponte Margherita da cui si sarebbero dovuti tuffare, si limitarono a tuffarsi

dal galleggiante barche della Tevere Remo, cantando ed urlando per

mascherare il freddo, e raggiungendo il galleggiante solarium della Rari,

tremanti e felici per l’impresa.

Lo scaldabagno a legna consentì loro una doccia calda e tornarono asciutti ed

in costume al sole dicembrino a rifocillarsi con panettone e spumante che la

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tradizione voleva offerto dal presidente della Rari, e papà l’avrebbe offerto

tante volte negli anni.

Questa tradizione che era relativa al giorno di Natale, si estese nel tempo

anche a capo d’anno, principalmente per responsabilità di un fotografo belga

Rijk de S. meglio conosciuto come Mr. Okay, romano d’adozione e di

residenza ma che non avrebbe mai parlato bene l’italiano, che a mezzo giorno

di ogni inizio d’anno si lanciava con un bel volo d’angelo dall’alto di Ponte

Cavour, ed era perciò accompagnato da tanti bagnanti e da tante barche.

La presenza di tanti soci r.n. legati all’ambiente locale impedì in seguito, nel

1959, di sfruttare le possibilità che le Olimpiadi Romane fornivano alle società

di nuoto: il trasferimento in altra area demaniale e la possibilità di ottenere

finanziamenti per la costruzione di una piscina che sarebbe servita per gli

allenamenti delle squadre olimpiche, possibilità che invece venne colta al volo

dall’Aniene.

L’essere rimasti ancorati a quel posto, impedì la venuta di soci nuovi e giovani

che trovavano altrove la rispondenza alle proprie necessità di sport e di

divago; per cui la Rari Nantes si esaurì con la morte degli ultimi soci di quella

generazione, ed il galleggiante è stato trasferito a monte del Ponte della

metropolitana a complemento del circolo ferrovieri.

Mancando la Rari Nantes non si esegue più il cimento invernale in quello

spirito ed in quella tradizione, anche se a Roma rimangono tanti gli

innamorati del fiume e qualcuno celebra ancora l’anno nuovo tuffandosi nelle

sue acque limacciose ma bionde.

Un fiumarolo che merita di essere citato con nome e cognome, anche perché a

memoria della sua impresa fu murata una lapide sul muraglione dell’argine,

proprio davanti l’ingresso del galleggiante Rari Nantes, era Aldo Fioravanti.

Era un uomo che si rapava a zero, cosa inconsueta a quei tempi, ma possedeva

due baffi imponenti; il corpo muscoloso con un leggero strato di grasso come

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hanno i nuotatori, ed una struttura atletica più alta del normale, ed una

estrema capacità di galleggiamento in acqua.

Si era allenato alla sopportazione del freddo, facendo il bagno in casa in

compagnia di blocchi di ghiaccio; ma riuscì a stabilire il record mondiale di

percorrenza sul Tevere, scendendo da Orte a Roma per la bellezza di 130 km.

circa ed impiegando ben 33 ore. Ricordo che l’impresa fu ripresa anche dalla

rubrica sportiva del giornale radio quella domenica sera, ed il servizio si

apriva con la romanza della Madama Butterfly: un bel dì vedremo….

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L’ARTISTICO OPERAIA

Paoletta, a 6 anni, aveva cominciato a suonare il piano sotto la guida della

signorina Emma B.

Il piano era stato comprato dalla famiglia ( mi sembra dietro una spesa di

2.000 lire ) e disposto nel salotto, e le lezioni di piano ed i relativi esercizi

avevano reso di nuovo abitato il locale che altrimenti sarebbe restato

inutilizzato. Comunque su tutte le sedie e le poltrone restava una copertura di

protezione ritagliata e cucita ad hoc.

In famiglia Favero nessuno suonava uno strumento, mentre Ninnì era

diplomata in pianoforte e suonava benissimo ed il marito Alberto era un

abilissimo suonatore ad orecchio.

Nelle leggende familiari avevo tante volte sentito parlare del piano a coda che

i Benedettini avevano quando abitavano in Via Vittoria, e della triste fine che

aveva fatto rotto a colpi d’accetta da parte di Renata.

Dopo qualche mese che Paola aveva cominciato con il piano, Anco ed io

iniziammo a studiare la fisarmonica; si acquistarono due fisarmoniche uguali

che differivano soltanto per il colore, di marca Scandalli a 32 bassi, con

copertura esterna in madreperla, bianca la mia e rossa per Gianfranco.

Possiedo ancora un volume di musiche per fisarmonica intitolato il piccolo

montanaro ma né io né Anco fummo mai dei mostri musicali, tanto che dopo

un anno interrompemmo le lezioni; per dedicarci ambedue al piano forte, con

risultati molto migliori, sempre sotto la guida della signorina Emma B.

Gianfranco aveva la migliore disposizione perché riusciva, come il padre,

anche a suonare ad orecchio, ma nel complesso tutti e tre facemmo dei buoni

progressi.

123

Prima che la guerra finisse un’altra attività artistica avrebbe fatto parte della

nostra cultura: la danza, istruttrice la signorina Luisa B. . Dovevamo costituire

almeno due coppie ed inizialmente, mentre Anco faceva coppia con Paola, io

la facevo con Giannetta M. che era di un anno maggiore di me, che

frequentava la scuola del Sacro Cuore a Trinità dei Monti, ed era nostra

compagna di giochi da diversi anni al Pincio.

Giannetta, per la quale io sentivo un certo trasporto che data la mia

giovanissima età non saprei come definire ma che fu sempre nascosto dalla

mia eccessiva timidezza, abitava a metà strada fra noi ed Anco, in Corso

Umberto 509 ed era figlia di uno scrittore che essendo stato anche aviatore

aveva pubblicato uno immenso numero di libri di aviazione.

Le lezioni di ballo comunque avvenivano sempre a casa nostra, anche per la

presenza di un largo salone a disposizione e del giradischi.

Le lezioni iniziavano sempre con esercizi che comprendevano i movimenti dei

piedi (le posizioni) alcune delle quali continuo a ritenere assurde, mentre la

parte finale era dedicata ai balli veri e propri ( valzer, tango, one step, fox trot,

cui in seguito si sarebbero aggiunti il samba e la rumba ) ed a balli di gruppo,

tratti da operette o da creazioni della signorina Luisa B.

Per queste occasioni il numero di quattro era troppo limitato, per cui facevamo

gruppo con altri allievi della nostra maestra, che peraltro erano anche nostri

amici Enrico M. con la sorella Alessandra detta Nana, il cugino Fabio Massimo

Testa (che avrebbe in seguito sposato mia sorella Paola) e la cugina Maria

Luisa detta Lulla.

Con loro facevamo delle coreografie che hanno visto anche le assi del

palcoscenico come la Tirolese; la Javanese tratta dal Paese dei Campanelli ( balla

la Java boccuccia di baci/ gira e rigira sorridimi e taci/ balla la Java boccuccia di rose/ o

quante cose sapevi tu dir ....) come anche la scena dei gatti dalla stessa operetta (

Salomè, Salomè, tutti i gatti sono bigi e lo sai ... ) ; i Lancieri notissima cadrille

124

anglaise; e la danza Pirrica accompagnata dalla musica della polacca op. 40 n. 1

di Chopin, quest’ultima peraltro non fu mai perfezionata e quindi il pubblico

non ebbe mai occasione di vedere come ballavano, secondo noi, gli Epiroti di

Pirro.

Finite le elementari, io ed Anco fummo iscritti alle medie al Collegio San

Giuseppe - Istituto de Merode, sito in Piazza di Spagna all’inizio di Via di San

Sebastianello pochi metri prima del Mater Dei dove avevamo frequentato le

elementari, e dove Paola continuava ad andare essendo per le superiori

quell’istituto solo femminile.

Il San Giuseppe, che oltre le medie, aveva, come Istituto de Merode, anche il

liceo sia classico che scientifico e l’istituto commerciale, fu la mia scuola per gli

otto anni avvenire, fino al terzo liceo classico e fonte per me ed anche per la

mia famiglia di molte soddisfazioni.

Contrariamente a quello che avveniva alle elementari, per sviluppare la

competizione fra gli alunni, ad ogni trimestre in base ai risultati ottenuti, gli

alunni erano divisi per merito che si rifletteva anche nella disposizione dei

posti in classe, che vedevano avvicendarsi nei posti più prossimi alla cattedra,

quelli che erano agli ultimi posti nella classifica di merito, mentre i primi nel

profitto erano dislocati agli ultimi posti.

Io sono sempre stato nell’ultima fila per tutta la mia vita scolastica.

Perge puer mi scrisse sul foglio fratel Valfrido in prima media dandomi 10 al

mio primo compito di latino .

Come nella scuola irlandese la lingua ufficiale era l’inglese, al Collegio era il

francese, ed i fratelli delle scuole cristiane che erano la maggioranza dei nostri

professori avrebbero dovuto essere chiamati Frères alla francese, ma erano

normalmente chiamati alla romana frè.

Sempre per sviluppare la competizione, durante le lezioni avveniva che il

professore si rivolgesse impersonalmente alla classe domandando una qualche

125

particolarità, e per rispondere occorreva essere interpellati, e ciò si otteneva

alzando il dito e, per richiamare l’attenzione, ripetendo: frè... frè...frè...!

Presi una nota di merito per aver saputo che era stato l’Abate Francesco Maria

Taja che chiedendo: egli non vi pare l’aver noi oggi rinnovellato l’Arcadia? aveva

trovato il nome per quella Accademia.

Fratel, o meglio Frère Valfrido non era molto largo nei voti ma ricordo che

avendo dato come compito a casa da fare il disegno dello scudo di Achille

secondo la descrizione dell’Odissea, assegnò 11/10 al disegno portatogli da

Ugo P. che aveva realizzato un’opera d’arte tutta in inchiostro di china, mentre

noi poveri mortali, ci eravamo arrabattati con matite e pastelli colorati senza

riuscire a fare opere degne di essere mostrate.

Fra le altre attività del Collegio, ed il mondo avrebbe conosciuto molto bene

quella sportiva per opera della Stella Azzurra che sotto la guida del Prof.

Ferrero e la passione di frère Mario raggiunse la serie A di basket e fornì

diversi uomini alla Nazionale azzurra, c’era anche quella filodrammatica

guidata dall’Ing. Franco L.

Era un’attività conforme alla linea tutta maschile del collegio, perché nella

compagnia, almeno in quegli anni, non c’erano donne; e quando capitava di

dover mettere in scena un dramma con presenze femminili occorreva

trascriverlo per soli uomini. Compito che toccava a Franco L. ma che dava

risultati notevoli data la bravura dei partecipanti. Ricordo Arsenico e vecchi

merletti che ebbe un notevole successo e molte repliche.

Ora in questa attività rientrò anche la nostra scuola di ballo e fu un ingresso

importante perché per la prima volta delle donne, anche se giovinette,

calcarono le scene del San Giuseppe.

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Da sinistra: Giannetta;( dietro: Sandro P. detto Gallina); io; Paola; Anco; Nana; Enrico; Lulla; Fabio

Questo nostro debutto in scena non passò inosservato, e quel primo inverno

dopo la fine della guerra ricevemmo molti inviti fra cui anche quello del

Comitato Civico che ci chiamò ad esibirci in un palazzo nobile di Via della

Scrofa.

Ma il nostro successo maggiore si ebbe in un teatro in via dell’Umiltà che era

la Sede della filodrammatica artistico operaia dove la nostra esibizione ebbe

diverse repliche a pagamento con incasso devoluto in beneficenza.

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MADRE MARIA Una volta che l’esercito alleato era sbarcato a Salerno si credeva che avrebbe

fatto un solo boccone della resistenza tedesca dilagando verso il Nord d’Italia.

Invece i tedeschi avevano ben compreso che era molto meglio difendere la

propria patria in Italia, lontano dai propri confini, in un paese dove non tutti

erano convinti di dover abbandonare l’antico alleato, piuttosto che portarsi il

fronte in casa.

Oltretutto ancora non si era aggregata un’efficiente resistenza interna, che

avrebbe avuto rilevanza solo al Nord d’Italia e negli ultimi mesi di guerra, e la

popolazione delle campagne, specialmente al Sud, dove la presenza tedesca

era stata vista fraternizzare con le truppe Italiane, reputava ancora che i

tedeschi fossero alleati che tutto sommato difendevano l’Italia. Solo

successivamente gli abusi, in specie del braccio politico dell’esercito, le SS,

fecero preferire gli antichi nemici, che pure avevano bombardato tutto quanto

c’era da bombardare ed anche di più (104 volte era stata bombardata Napoli)

ma che tramite la propaganda parlavano di libertà, che non gli antichi alleati

che si stavano rivelando sempre più oppressori.

Anche lo sbarco ad Anzio, pur essenziale per l’accorciamento dei tempi della

guerra, non ebbe quell’effetto immediato che gli alleati si attendevano, ed una

snervante guerra essenzialmente di posizione, si protrasse per diversi mesi.

In questa situazione, aumentava sempre di più il numero degli sbandati, di

coloro che, per lo stato di guerra, erano costretti ad abbandonare le proprie

case o perché diroccate o perché attestate sul teatro della guerra.

Maria Carnevale Novi, una signora vedova meridionale, abbandonò anche lei

la sua casa spingendosi sempre più a Nord, e, nella via, raccogliendo bambini

e bambine sbandati in maggioranza femminucce, senza più genitori, casa,

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affetti, assistenza, guidandoli fra mille pericoli, al di qua ed al di là della linea

del fronte, man mano che questo si spostava.

Negli ultimi tempi, quando le truppe alleate avevano sfondato le linee

tedesche, la velocità del fronte fu molto maggiore di quella del corteo di

orfanelli e Madre Maria giunse a Roma tra la fine del ‘44 e il principio del ‘45.

Mariella K. , come sempre entusiasta, l’aveva conosciuta e l’aveva fatta

conoscere a mamma, quando già il Comune le aveva assegnato la parte

sinistra di un appartamento sulla salita del Pincio, uno di quegli insediamenti

lungo le mura che normalmente il Comune affida ad artisti ( architetti, pittori,

scultori ) ad un affitto di affezione ma con l’intesa che ne curino la

manutenzione; ed infatti la parte destra dell’appartamento era affidata ad un

pittore.

Madre Maria vi si era ristretta con le sole orfanelle, mentre i maschietti

avevano trovato sistemazione in altri istituti della città; le orfanelle peraltro

aumentavano di numero perché oltre quelle raccolte da Madre Maria, se ne

erano aggiunte altre portate da persone residenti nei territori liberati, ed

infine altre ancora inviate dal Comune di Roma.

Il miracolo di Madre Maria era il sostentamento di questa quarantina di

persone, per le quali al mattino non ci sarebbe stato più di che mangiare,

mentre all’ora di pranzo avevano sempre qualcosa da mettere nel piatto.

Può bastare l’atto di fede a trascinare uno sconosciuto alle porte

dell’Orfanotrofio Santa Rita per offrire quanto di quel giorno si ha bisogno?

Sembra di sì.

Non c’era sempre bisogno di questi interventi straordinari, perché mamma (ed

il negozio Benedettini) come tanti altri che erano stati coinvolti da Mariella K.

normalmente provvedevano ai bisogni più urgenti, ed anche il Comune faceva

la sua parte. Ma Madre Maria non sapeva negare l’accoglienza a chiunque

bussasse alla sua porta e con la stessa bonarietà si attendeva che ad un suono

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di campanello restasse sulla porta un cestino con le derrate per il giorno, e

questo talvolta accadeva.

Io ormai avevo oltre 12 anni ed ero piuttosto alto per la mia età, ero oltre un

metro e settanta, non avevo ancora cominciato a farmi la barba e mi dava un

fastidio estetico la peluria che mi cresceva sulle labbra, di scarpe portavo già il

43 ed avevo cominciato ad andare in giro senza essere accompagnato, sempre

peraltro con i pantaloni corti, o al massimo, alla zuava (con mio grande scorno

e fra i risolini dei compagni).

Non era raro che uscendo da scuola si andasse al Pincio, sul piazzale, con i

pattini o per giocare a palletta che era una versione del gioco del calcio fatto

con la palla da tennis. Poi, al termine, si scendeva per i giardini, montando

talvolta a cavalcioni sul leone di marmo che chiamavamo Autari ( il nome era

stato trovato da Giannetta M. qualche anno prima, quando studiava la storia

dell’Italia medievale.)

Proprio di fronte ad Autari c’era l’ingresso dell’orfanotrofio ed in quel periodo

c’erano trattative con il Comune perché fosse assegnata anche la parte destra

dell’appartamento che era stato abbandonato dal pittore.

Quando ciò avvenne, la stanza maggiore della nuova parte fu adibita a

cappella, ed io dovetti dimostrare di che schiatta fossi, aiutando ad attrezzarne

l’impianto elettrico.

In officina da papà mi diedero isolatori in porcellana, tasselli in legno,

interruttori a chiavetta e scatole a tabacchiera, nonché un conduttore elettrico

costituito da due cordoncini isolati in colore bianco, fra loro attorcigliati.

Si dovevano fissare prima i tasselli al muro, e su questi avvitare gli isolatori, in

modo che formassero una linea retta.

Sugli isolatori il cordoncino veniva posto in opera allargando i due conduttori

attorcigliati e facendoli passare oltre la testa dell’isolatore fino dentro la gola,

quindi tirando il cordoncino per richiudere, sulla gola dell’isolatore,

130

l’allargamento prima provocato. L’importante nella posa era scegliere bene il

punto dove occorreva allargare i due conduttori, perché alla fine della posa il

cordoncino doveva risultare teso lungo tutto il percorso, senza presentare anse

o lentezze, e trovare la posizione giusta era essenziale al primo tentativo per

evitare deformazioni al cavo che era poi difficilissimo da mascherare.

Dovevo essere stato abbastanza bravo le prime volte perché chi doveva

effettivamente costruire l’impianto e che io avrei dovuto aiutare, si limitò a

predisporre i tasselli per isolatori e cassette lasciando poi a me l’incombenza

del lavoro totale, che, debbo dire, soddisfece papà quando lo vide.

131

QUIRINALE

Dalla terrazza di Palazzo Marignoli avevamo la vista di tutto il Nord di Roma,

ma solo dei tetti mentre non riuscivamo a vedere le persone: Villa Borghese

era troppo distante per distinguere qualcuno, e della strada ne vedevamo un

pezzo troppo piccolo e distante per essere apprezzabile; essendo poi più

elevati rispetto al circondario, non potevamo neanche vedere i dirimpettai alle

finestre che erano tutte più basse di livello.

Riuscivamo a vedere solo la famiglia N. che abitava in Via del Gambero ed

aveva un terrazzo a livello più basso del nostro di circa due piani, in questa

famiglia c’erano due figli maschi: Umberto più grande di me di circa tre anni

ed Arnaldo che aveva su per giù la mia età.

Mentre Umberto era nero di capelli e scuro di carnagione, Arnaldo era rosso e

di carnagione sensibile tanto che, a differenza del fratello, non prendeva

volentieri il sole in terrazza.

In qualche maniera ci eravamo conosciuti, credo perché il loro padre aveva

avuto qualche contatto con la mia famiglia, perché se fosse dipeso dalla mia

timidezza non mi sarei mai azzardato a chiamarli da un terrazzo all’altro; ma

una volta rotto il ghiaccio della conoscenza familiare, ci parlavamo

guardandoci negli occhi, anche se a distanza, quasi sempre per nostra

iniziativa perché mentre noi potevamo accorgerci se loro erano a portata di

voce, loro, abitando a livello inferiore, non potevano.

Fuori di queste occasioni rappresentate dalla terrazza non avevamo mai

occasione di incontrarci, se non per caso, uscendo di casa.

Fui perciò particolarmente colpito quella mattina di maggio quando

incontrando per caso Arnaldo in strada, mi accorsi che aveva il distintivo

dell’edera: orrore, era repubblicano.

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In famiglia, per affetto e devozione forse più che per convinzione, eravamo

invece tutti monarchici ed all’occhiello della mia giacca, che però indossavo

solo nei giorni di festa, portavo il nodo Savoia.

Quei giorni, precedenti il referendum istituzionale, erano giorni di grande

passione politica che si svolgeva tutta nei comizi e, principalmente, nelle

discussioni che avvenivano in Galleria, nella quale, capannelli sede di animate

discussioni fra le diverse tendenze richiamavano sempre più numerose folle di

curiosi incrementando il numero degli appassionati partecipanti.

Il referendum non si prestava peraltro a molte opzioni, non c’erano vie di

mezzo, o era monarchia o repubblica ed era impossibile convincere

l’interlocutore, ma ciascuno tentava di farlo.

Anche io tentai di convincere Arnaldo, e lui me, ma restammo ciascuno delle

proprie idee.

Una domenica mattina di metà maggio, per opera non so di quale signora,

probabile cliente del negozio, Paola, Anco ed io fummo condotti al Quirinale

per giocare assieme ai principini.

Da qualche parte ci dovrebbe essere ancora la fotografia, cui zia Nenne teneva

molto (tanto da portarla seco a Cascais per farla firmare dal Re in occasione di

un pellegrinaggio a Fatima), di noi tre assieme a tutti i figli del Re; io ed Anco

vestiti del nostro migliore vestito estivo, blu Savoia con tanto di distintivo

all’occhiello e gli immancabili calzoni corti.

Ci era stato detto che avremmo dovuto rivolgerci ai principi chiamandoli

Altezza e che avremmo dovuto rispondere solo se interrogati.

133

Noi con i principini

Le loro Altezze erano decisamente annoiate, probabilmente era stato loro detto

che occorreva tenersi in contatto con il popolo ed accattivarsene le simpatie,

ma in specie Vittorio ( si presentò così, tacendo l’Emanuele) era molto

intimidito; forse non tanto da noi tre, quanto da un gruppo di ragazzini fra cui

anche qualche mutilatino che come noi era in visita a Palazzo. Da loro infatti

sortì l’idea di fare una partita di pallone, io ed Anco, abbastanza abituati a

giocarlo accettammo di far parte delle squadre, ed anche Vittorio fu coinvolto,

non ricordo se dalla nostra parte o in quella avversa.

Come sempre succede fra ragazzini, la cosa andò avanti fra urla e schiamazzi

non ostante l’ambiente, e credo che non ci siano state molte partite di pallone

giocate sulla ghiaia dei viali del Quirinale.

134

I nostri compagni di partita non erano stati istruiti come noi sul modo di

chiamare le loro Altezze, per cui non si peritavano di dire a Vittorio: Principe

passa !!

Il principe per quello che lo riguardava non curava molto la partita e smise

presto, forse anche prima di sudare, sotto la camicia e la giacchetta a maniche

lunghe. Anco ed io ce ne accorgemmo con qualche ritardo, anche richiamati

dalle nostri accompagnatrici che ci sussurravano, credendo di non essere

notate, che il principe aveva smesso di giocare e che dovevamo fargli

compagnia, e smettemmo anche noi, pur se molto più accaldati del principe

che evidentemente aveva limitato il suo impegno non ostante le sollecitazioni.

E così ancora accaldati fummo presentati, o meglio assistemmo alla

presentazione delle nostre accompagnatrici alla Regina che era scesa per

interessarsi, per poi allontanarsi subito.

Né noi né Paola dovevamo aver fatto molta impressione sulle Loro Altezze,

perché tornati di nuovo la domenica successiva, e questa volta con una

compagnia meno caciarona, non fummo riconosciuti.

135

NAPOLI Non possedevamo in famiglia un automobile.

Anzi dopo la fine della guerra papà aveva comprato una bicicletta da turismo

con il cambio, tutta cromata, ed andava in giro per Roma non curante dei sette

colli ( e delle altre salite fuori mano).

D’altronde aveva meno di 45 anni e si sentiva un giovanotto.

La mamma e le zie, distando casa meno di 500 metri dal negozio, non ne

avevano in effetti bisogno; andando sia Paola che io a scuola a piazza di

Spagna eravamo nella stessa situazione.

La domenica d’estate si andava, anche con la famiglia Crescenzi, al mare in

camionetta la quale avrebbe in breve lasciato il posto ad un torpedone

malandato. Questo torpedone fermava a Largo Chigi, per cui vicinissimo a

casa, ed era sempre probabile trovare posto a sedere; fuorché una domenica in

cui eravamo letteralmente stipati, gli uni sugli altri, e nella quale ebbi un

infortunio perché una chiusura anticipata della portiera mi prese la mano in

mezzo, e fortuna che il soffietto anti spifferi di corredo nella cerniera mi aiutò

ad evitare un’amputazione. Gli altri passeggeri dovettero sorbirsi i miei

lamenti fino al mare mentre un fazzoletto di zio Alberto mi tamponava la

ferita, ma nessuno, ricordo, ebbe pietà e mi cedette il posto.

Talora, a tavola, noi ragazzi, ma specialmente io, domandavamo se avremmo

mai avuto un’automobile, e di massima ci si rispondeva che essendo 6 in

famiglia, non esisteva una macchina adatta.

Papà leggeva 5 giornali al giorno: Tempo, Messaggero, Corriere dello sport al

mattino; Il Giornale d’Italia e Momento Sera alla sera; il martedì aggiungeva

anche il Tifone. Come avrei appreso qualche anno più tardi non sempre i

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giornali li comprava ma se li faceva prestare da Pietro C. l’edicolante di Piazza

San Silvestro cui li rendeva al mattino successivo.

Papà stava a casa a pranzo e a cena, per cui durante il giorno i giornali erano a

mia disposizione.

Ed io li guardavo e li leggevo prestando attenzione alle occasioni relative alla

vendita di automobili. E così trovai, non una sola volta, annunci riguardanti

una specie di camionetta che aveva una cabina anteriore chiusa con due posti,

ed il posteriore furgonato nel quale potevano montarsi 4 sedili. Anche il vano

posteriore aveva peraltro finestrini.

Quante volte ne parlai a papà e sempre mi sentivo rispondere: io non giro su

un residuato bellico.

In estate, comunque, non so come, papà ci fece un’improvvisata: aveva preso

una FIAT 1100, non so se comprata, a noleggio, in prestito o quant’altro e ci

disse che avrebbe portato noi figli e mamma assieme a zio Tonino a Napoli. I

due uomini davanti a dividersi la guida, mamma e noi ragazzi dietro.

La strada da percorrere, ovviamente era la consolare Appia per un buon tratto

e ci mettemmo in viaggio con poco bagaglio e molte gomme di ricambio.

Già ad Albano, appena fatta la salita delle Frattocchie, una gomma ci

abbandonò, ma lo zio e papà non si limitarono a sostituirla ma dovemmo

portarla da un gommista che la riparasse perché lo stato delle altre non era

migliore.

Il fatto si ripeté due o tre volte ogni tappa, e ce ne vollero quattro per giungere

a Napoli, ma le soste sarebbero state di più se il guidatore non avesse fatto di

volta in volta attenzione a tutto quanto potesse danneggiare una gomma, non

ultime le rotaie del tram o del treno che occorreva evitare di prendere

parallele.

Man mano che ci avvicinavamo a Napoli, mamma era sempre più in ansia che

non ci derubassero delle nostre, veramente povere, cose, e mi diede un

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incarico che lì per lì mi inorgoglì molto; stare nei pressi di papà e zio che

cambiavano la gomma, tenendo in mano l’asta del martinetto per colpirci

eventualmente qualche male intenzionato. Povera mamma, è vero che per i

miei 12 anni, quasi 13 ero abbastanza robusto, ma non credo che l’eventuale

male intenzionato si sarebbe fatto intimidire da me.

Quello che più ricordo di quel viaggio, oltre le fermate per il cambio gomme, è

l’odore della canapa in macero in tutta la piana tra Capua e Caserta, odore

aspro, pungente, a prima sensazione fastidioso ma di poi quasi buono a far

venire la voglia di aprire i polmoni e respirarlo appieno, una volta che se ne

era fatta l’abitudine.

Odore che avremmo ritrovato ogni viaggio successivo fatto alla fine dell’estate

verso Napoli, magari in compagnia di qualcuno ignaro che ne avrebbe

domandato la provenienza e che avremmo edotto al riguardo.

Napoli presentava ancora evidenti i segni della guerra e dei 104

bombardamenti cui era stata sottoposta, eppure per strada si sentiva

dovunque cantare, in una lingua il cui suono ci era familiare ma che noi

ragazzi non comprendevamo a pieno.

Per la prima volta ascoltammo Munasterio ‘e Santa Chiara, e non capimmo

perché zio Tonino ed i nostri genitori si asciugassero delle lacrime nascoste.

Sul Vomero ancora c’era il pino da cartolina con sullo sfondo il Vesuvio dal

quale usciva un filo di fumo, forse ricordo dell’eruzione di due anni prima.

Questo è per me un anno importante, il giorno che compii 13 anni, con l‘aiuto

di papà che mi guidava la mano mi feci la mia prima barba, dopo

un’insaponata con il pennello che papà mi aveva insegnato a fare.

Qualche tempo dopo, papà, alla guida sempre di quella 1100, mi condusse

all’inizio della Via Salaria, presso l’Aeroporto dell’Urbe, in completa assenza

di traffico, e lì, fermata l’auto, mi fece sedere al posto di guida e mi fece per la

prima volta condurre un’auto. Quella prima volta partii senza scossoni.

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(E’ strano quanto capita la prima volta che fai una cosa: tanti anni dopo, oltre

venti, sono stato forzato a seguire un istruttore di golf e compagno di giochi di

mia moglie sul campo di Bergamo. Io ero febbricitante per una alterazione che

avrei successivamente scoperto dovuta ad una intossicazione, e, non ostante il

caldo d’agosto, la maglia di lana ed il sudore copioso, tremavo dal freddo, e

solo la condiscendenza per l’ amico di mia moglie e per sua moglie mi

consentiva di seguirli lungo le prime nove buche. Il primo scopo di quella gita,

per la quale sia io che mia moglie avevamo comprato nello spaccio del club le

adatte scarpe chiodate, mai più usate peraltro, doveva essere quello che il

maestro, fatto qualche tiro, avrebbe dovuto insegnare a noi tre, le due mogli e

me. Invece lui continuava a tirare sempre solo, neanche indicandoci i corretti

movimenti, e la cosa andò avanti per diverse buche, per diverse salite e

diverse discese. Ad una buca, verso la fine del percorso, si fermò ed indicò la

meta: risultava molto più in basso della nostra posizione, con una distanza in

pianta di circa 100 metri, ed una in altezza di altrettanti. Qui, con la scusa che

la buca era in vista, ci fece provare: non vi preoccupate se al primo colpo non

prendete la palla, prendete la mazza in questa maniera, il pollice sinistro entro

il pugno destro, lungo la direttrice superiore dell’impugnatura, gambe

leggermente divaricate con la palla in corrispondenza del baricentro del corpo,

continuate a guardare la palla sollevando la mazza tenuta a due mani verso

destra, ruotate velocemente la mazza colpendo la palla e finendo il colpo

ruotando sul piede sinistro come faccio io….. Ecco prova tu Giampietro …..

Feci un ace. Non mi volle più insegnare niente.)

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IL DIKTAT

Visto da fuori non sembra che dentro sia tanto grande.

Si inizia infatti con un portoncino dietro tre gradini su Via San Sebastianello

proprio all’incrocio con Piazza di Spagna, e si segue un corridoietto che dà

luogo ad un androne abbastanza ampio, lasciando a destra una rampa di scale.

L’androne ha una pianta quasi quadrata ed è tutto rivestito di boiseries alle

pareti con scranno continuo per sedersi, ed in fondo, una porta a vetri, più

larga del primo corridoio, dà adito ad un secondo corridoio di minore

lunghezza.

A destra la sala rossa, a sinistra una larga scala porta al piano superiore.

Il corridoio termina in un cortile con quadriportico, ma non in asse rispetto a

questo perché sfocia presso un angolo dello stesso.

Girando a destra, sotto il portico, si trovano le finestre, molto grandi, della sala

rossa; al termine del tratto, si gira a sinistra e si percorre il secondo lato del

portico che presenta, nel lato destro, chiuso, una ininterrotta serie di porte che

chiudono i gabinetti alla turca.

Girando invece a sinistra il portico presenta per un tratto una parete chiusa

che si apre in due archi di accesso ad una scala che porta ad un cortiletto più

piccolo e più basso dove c’è una fontana con la statua della Madonna di

Lourdes, e di fronte l’ingresso del Teatro con a lato e sopra, su un ballatoio,

altre porte di gabinetti. Continuando per questo lato del portico, all’angolo,

dietro una porta a vetri parte la scala che conduce alla Cappella, ed ai piani

superiori.

Il quarto lato del portico, quello di fronte alla porta di ingresso presenta, in

corrispondenza proprio della porta una galleria di passaggio ad un altro

cortile, e lungo la parete la serie di finestre del refettorio. Al centro la statua di

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San Giovanni Battista de le Salle. All’estremo angolo a destra una seconda

scala, opposta a quella che porta alla cappella, reca ai piani superiori.

Al piano ammezzato, ad ogni lato del portico, si affacciano delle finestrelle in

corrispondenza di salette per musica e delle celle dei frati.

Al piano primo ciascuna delle due scale, ed anche quella posta di fronte alla

sala rossa, danno acceso ad un ballatoio, largo circa un metro e venti, che corre

lungo tutto il perimetro del cortile, in aggetto e dotato di una bella balaustra in

ferro lavorato stile liberty.

Dal ballatoio, in corrispondenza dei due lati più lunghi, si entra nelle aule che

si sviluppano radialmente rispetto al portico, alte e dotate di grandi finestre

per l’illuminazione. Sui lati più corti ci sono gli uffici della direzione, le sale

professori ed il grande orologio.

E’ il Collegio San Giuseppe.

La galleria di passaggio all’altro cortile conduce all’unito Istituto De Merode,

dove sarei andato una volta finite le medie.

Come tutti gli Istituti retti da religiosi dell’epoca anche il nostro era alieno da

manifestazioni di protesta e si opponeva a che gli studenti vi partecipassero

all’esterno dell’Istituto, come già accadeva per ragioni politiche e, in quel

periodo, istituzionali.

Ma già dopo il ritorno a scuola dalle vacanze di Natale era montato il senso di

delusione e di sconfitta nella Nazione, la consapevolezza della guerra perduta

ed il duro prezzo che l’Italia era costretta a pagare proprio a quegli alleati che

si erano presentati come liberatori. Briga e Tenda alla Francia, il Dodecanneso

alla Grecia, L’Africa orientale all’Etiopia anche con abbandono a quella

nazione dell’Eritrea che non era stata una conquista militare recente, ma la

conseguenza di accordi commerciali del secolo prima, per la Libia fu creato

addirittura un regno che non esisteva al tempo della guerra italo turca dal

1912, la Dalmazia alla Yugoslavia la quale aveva pretese anche sull’Istria e

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Trieste il cui territorio fu dichiarato libero e diviso in due zone ad

amministrazione separata sotto il controllo dell’ONU, e poi la proibizione di

avere portaerei e corazzate, l’obbligo di limitare l’esercito a 300.000 uomini

deputandolo esclusivamente alla difesa. L’unico contentino fu l’affidamento

della amministrazione fiduciaria della Somalia per 10 anni.

Nell’Assemblea Costituente che in quel periodo aveva le funzioni del

parlamento, c’era anche chi voleva penalizzare ancora di più l’Italia a

vantaggio di Tito, il dittatore iugoslavo che veniva considerato, dai comunisti,

compagno di partito almeno fino allo strappo che costui fece da Mosca.

La firma di questo accordo penalizzante e vergognoso, che veniva con

disprezzo denominato Diktat, doveva avvenire il 10 febbraio del 1947.

Quella mattina, fuori della scuola ci sarebbe stata qualche manifestazione di

protesta.

Noi alunni quel giorno non facemmo lezione: fummo radunati sotto il

quadriportico nel lato che dava accesso al teatro, il Direttore ci lesse,

lentamente, scandendo le parole perché ne divenissimo compiutamente

consapevoli, il testo del Diktat. Aveva al lato la bandiera tricolore del Collegio

abbrunata ed a mezz’asta e noi riempimmo il dolore con il nostro silenzio.

Questo è l’ultimo ricordo vivo della mia infanzia ed adolescenza.

L’ultimo lampo di memoria.