L'altra faccia della medaglia - Cristina DONATI

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1 L.U.M.H. Libera Università di Studi Psicologici Empirici Michel Hardy F.A.I.P. Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia L’altra faccia della medaglia Il viaggio nel sé nascosto di Cristina Donati Tesi d’Esame Counselor in Discipline Psicologiche Empiriche ANNO ACCADEMICO 2011-1012

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Tesi F.A.I.P. di Cristina DONATI.

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L.U.M.H. Libera Università di Studi Psicologici Empirici Michel Hardy

F.A.I.P. Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia

L’altra faccia della medaglia Il viaggio nel sé nascosto

di

Cristina Donati

Tesi d’Esame

Counselor in Discipline Psicologiche Empiriche

ANNO ACCADEMICO 2011-1012

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Indice

Introduzione 4

1.L’ombra un tesoro sconosciuto 6

1.1 Che cos’è l’ombra ? 6

1.2 L’ordine empirico 7

1.3 L’ombra e il debito empirico 9

1.4 L’ombra e la conoscenza di se 10

1.5 Proiezione dell’ombra 11

1.6 Classificazione dell’ombra secondo il materiale e gli ambienti 12

1.7 Teoria dell’ombra: Jung 15

1.8 L’ombra yin e l’ombra yang 17

2.La formazione dell’ombra 20

2.1 La formazione della persona 21

2.2 Il bambino e la sua crescita 22

2.3 Repressione e rimozione 24

2.4 L’ombra come sacco dell’immondizia 25

2.5 Elenco dei divieti 26

2.6 Le dipendenze 27

2.7 Il digiuno origini e le paure 28

2.8 Il digiuno ed i suoi doni 30

3 Abbracciare la propria ombra 33

3.1 Tre concezioni dell’inconscio: Freud, Nietzsche, Jung 34

3.2 Gestire la propria ombra 35

3.3 L’acqua come metafora 36

3.4 La rabbia 37

3.5 La paura 39

3.6 Senso di colpa 40

4.Il dolore 43 4.1 Il dolore dal punto di vista filosofico 43

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4.2 La fuga dal dolore 45

4.3 Riconoscere il proprio dolore 48

4.4 Cos’è il dolore psicologico? 48

4.5 Il dolore e la malattia 50

4.6 Il dolore e i bambini 51

4.7 Procurarsi dolore 52

4.8 Dolore esperienza di vita 54

5. Segreti e costellazioni 55

5.1 Segreti: definizione 55

5.2 I segreti di famiglia 57

5.3 Le costellazioni familiari: cosa sono? 58

5.4 I segreti nelle costellazioni familiari 59

5.5 Lealtà familiare e irretimento 61

6. Morte e lutto 63

6.1 Preparazione alla morte: ciò che è essenziale 63

6.2 La morte: il dolore e la forza di dire addio 64

6.3 Attraversare il dolore… e la morte 65

6.4 Il Lutto e le sue fasi 66

7. Conclusioni: la strada verso la felicità 69

7.1 La ricerca della felicità 70

7.2 Ritrovare se stessi 71

Ringraziamenti

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Introduzione

Per la maggior parte delle persone realizzare se stessi significa affermarsi socialmente,

conquistare potere, prestigio, denaro. Molti aspirano a divenire “qualcuno” nella vita, o al

contrario, quando pensano di non essere all'altezza, si adattano a rimanere dei “nessuno”. La

società moderna fa di tutto per standardizzarci, per farci diventare cittadini obbedienti e

macchine da lavoro. Rinunciando alla propria qualità di eccezionalità si è portati a ricercarla

fuori di sé, nei personaggi di un film o di un romanzo, nelle storie dei protagonisti della

politica, dello sport o dello spettacolo e così via. Ma nella realtà la vita di queste persone è

spesso diversa da quanto appare e creata ad arte dai media per compensare l'eccesso di

ordinarietà che i più sono forzati a vivere. Ogni individuo è fatto per essere se stesso e tutto

ciò che lo allontana dalla sua vera natura non può realmente gratificarlo ma può al massimo

dargli l'illusione temporanea di esserlo. Molta della insoddisfazione esistenziale che distingue

la nostra epoca ha origine proprio da questa illusione, dal gettar via il proprio tempo e le

proprie energie per realizzare ciò che non siamo.

Come sottolinea Erich Fromm nel suo libro “Avere o essere?” la nostra felicità e il nostro

equilibrio fanno parte in prevalenza alla sfera dell'essere; l'avere, da solo, non può dare

l’appagamento, sia che si tratti dell'avere materiale, sia che si tratti di avere sociale, come

potere, fama o prestigio. Tuttavia la maggior parte degli esseri umani oggi è ancora preda di

questo inganno che secondo alcuni si alimenta soprattutto di due fattori. Il primo sta nel fatto

che molti individui non raggiungono mai alcun traguardo materiale o sociale e quindi non

arrivano a toccare con mano che tali mete sono vuote illudendosi così all’infinito e vivendo di

attesa o di rassegnazione; in secondo luogo quelli che raggiungono qualche traguardo si

rendono conto di non risolvere assolutamente i propri bisogni e problemi esistenziali, però gli

è difficile accettare che qualcosa che tutta la società valorizza e insegue sia in realtà

un'illusione, e allora pensano: “non funziona perché non ho abbastanza potere, denaro,

riconoscimento sociale: devo averne di più, devo raggiungere una vetta più alta, lì scoverò ciò

che desidero”. E così tale meccanismo si perpetua. Un esempio è la storia del vestito nuovo

del re: il re è nudo, ma neppure una persona ha il coraggio di ammetterlo, dal momento che

gli altri sembrano guardarne ed apprezzarne l’abito, nessuno ha abbastanza sicurezza in sé

stesso da fidarsi in ciò che vede coi propri occhi e da andare contro corrente: solo la purezza

di un bambino, ancora non influenzato dalla società, svela l'inganno. Così è per le false mete

di cui sopra: pur toccando con mano la loro inutilità, manca la fiducia in se stessi per

accettarne la vacuità. Si è convinti che la società non può sbagliare e se tutti affermano che

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questa è la cosa che davvero conta nella vita bisogna che sia così; “se per me non funziona è

colpa mia, forse non ne ho a sufficienza”. Chi si ostina in questa spirale perversa passa tutta

l’esistenza a scalare cime sempre più alte senza però trovare mai ciò che cerca. Se è fortunato

e ha capacità e determinazione può anche arrivare a conquistare “montagne”, ma che

differenza fa avere un trofeo in più quando il proprio essere ha bisogno di altro?

Per dare un significato diverso alla parola realizzarsi cerchiamo di immaginare l'essere umano

come un seme che deve germogliare, crescere e maturare, o ancora meglio come un insieme

di talenti ognuno dei quali rappresenta una parte importante di quello straordinario

microcosmo che è l'uomo. Nel momento in cui facciamo spazio al nostro bagaglio interiore e

riserviamo energie e tempo a coltivare tutte le nostre potenzialità siamo senza dubbio sulla

buona via, stiamo a poco a poco rialliniandoci allo stato di equilibrio , e questo ci fa sentire

bene, ci fa sentire nutriti nel profondo. Se, viceversa, rinneghiamo il nostro bagaglio autentico

e tendiamo a sostituirlo con qualcos'altro che non ci appartiene, solo perché crediamo o ci

hanno fatto credere che sia meglio così, allora ricaveremo solo soddisfazioni effimere,

momentanee, che gratificano forse la nostra maschera sociale ma non ciò che veramente

siamo. In questo caso possiamo stare certi che prima o poi il nostro essere autentico si

ribellerà, facendoci provare sempre più spesso sensazioni come inquietudine, insoddisfazione,

vuoto ed altre ancora. Ma per quanto dolorose tutte queste emozioni, non vanno criticate:

sono importanti, sono la spia rossa che ci segnala che qualcosa non va nel modo in cui stiamo

vivendo la nostra vita, e grazie ad esse possiamo decidere di vedere e sentire ciò che è, e

iniziare a fare qualcosa per cambiare.

Troppo spesso deleghiamo ad altri il potere di autodeterminare la nostra vita, rinunciando, in

cambio di tranquillità e rassicurazione, al nostro diritto di essere noi stessi.

Che triste un fior di pesco

che un giglio vuol sembrare

stupendo è invece il fiore

ch'esprime quel che è

Questo è il viaggio che attraverso questa tesi mi preparo ad intraprendere un viaggio di

crescita che porta a scoprire i lati più temuti e nascosti della persona ma che sono

indispensabili per diventare adulti e per raggiungere uno stato armonico.

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1.L’ombra un tesoro sconosciuto

Non è guardando la luce che si diventa luminosi,

ma immergendosi nella propria oscurità.

Spesso però questo lavoro è sgradevole,

dunque impopolare.

C. G. Jung

L’amore per il nemico che è in me

Un giorno di sabato, il figlio di un rabbino andò a pregare in una sinagoga che non era

quella di suo padre. Al suo ritorno il rabbino gli domandò: “allora, hai imparato

qualcosa di nuovo?”. E il figlio rispose:”si, certo!”. Il padre, ferito nella propria

fierezza di rabbino, riprese: “bene, che cosa dunque insegnano in quel luogo?”. “ama

il tuo nemico”, rispose il figlio. Il padre non esitò a replicare: “predicano le stesse cose

che dico io. Come puoi dire di aver imparato qualcosa di nuovo?”. Il figlio rispose:

“mi hanno insegnato ad amare il nemico che abita in me, mentre io mi ostinavo a

combatterlo”.

1.1 Che cos’è l’ombra ?

La domanda a questa risposta verrà rivelata nei diversi capitoli di questa tesi ma cercherò fin

da subito di fare un po’ di chiarezza.

L’ombra è tutto ciò che abbiamo rimosso nell’inconscio per paura di essere respinti dalle

persone che hanno avuto ed hanno ancora oggi un ruolo importante nella nostra vita.

Abbiamo avuto paura di perdere il loro affetto deludendoli o mettendoli in situazioni di

disagio con i nostri comportamenti. Per questo abbiamo fatto distinzione tra ciò che era

ammissibile e ciò che non lo era ai loro occhi e per piacere a loro ci siamo affrettati a relegare

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una gran numero di porzioni di noi stessi all’oblio dell’inconscio. Per evitare la minima

disapprovazione verbale o tacita delle persone che amavamo abbiamo fatto del nostro meglio.

Per questo ci siamo dimostrati gentili, educati e corretti verso gli altri ma per farlo abbiamo

messo a tacere quanto poteva sembrare vergognoso, deviante e riprovevole. Il nostro bisogno

di apprezzamento ci ha fatto conformare alle necessità, alle regole e alle leggi del nostro

ambiente dandoci da fare per mascherare quello che sembrava dispiacere ad esso o

sconvolgerlo.

Per alcuni è stato essere servizievoli, cosa ben vista negli ambienti dove l’affermazione di sé

era considerato un comportamento egoista. Per altri essere comprensivi andava bene mentre

arrabbiarsi arrecava fastidio; camuffare ogni propensione sessuale era accettato, ma mostrarla

era disonorevole, e così via.

Giorno dopo giorno in fondo al nostro essere si è creato un vasto mondo fatto di rimozioni e

repressioni accumulate nel corso degli anni che ci ha portato ad accomodarci su una specie di

vulcano che minaccia di eruttare da un momento all’altro. Questa energia compressa, ma viva

e attiva, possiamo definirla ombra.

“L’ombra è quell’oscuro tesoro fatto di elementi infantili del proprio essere, dei propri

attaccamenti, dei propri sintomi nevrotici, e infine dei propri talenti e dei propri doni non

sviluppati. Essa assicura il contatto con le profondità nascoste della propria anima, con la

vita, la vitalità e la creatività”1.

Questa identità incolta e selvaggia reclama incessantemente di essere riconosciuta e sfruttata.

Non si può ignorare la sua esistenza. Come un fiume tumultuoso, un giorno, essa forzerà la

porta della coscienza e la inonderà. Se però le offriamo una buona accoglienza,al contrario, si

svelerà in tutta la propria ricchezza.

Integrare la propria ombra significa quindi rendersi presente e disponibile a tutti i moti che

traggono da lei origine; al dolore, alla rabbia, alla colpa e tutti i suoi derivati e accettarli come

elementi del proprio essere, solo così è possibile accedere nuovamente al libero fluire.

1.2 L’ordine empirico

Per parlare con maggior chiarezza dell’ombra è necessario capire e comprendere cos’è

l’ordine empirico e quali sono le leggi che lo governano.

1 L.Frey-Ron, in C.Zweig, J. Abrams, Meeting the Shadow. The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature, Jeremy P. Tarcher, Los Angeles 1991.

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L’ordine è onnicomprensivo e unisce l’essenza stessa dell’Universo, dalla nascita alla morte.

Esso determina tutto ciò che è, comprendendo ogni stato dell’uomo, ogni situazione o

comportamento, a prescindere dal bene e dal male, dalla forma e dal contenuto, dalla luce e

dall’ombra. “Il sistema è tutto e anche il suo contrario”2, dove luce e ombra rappresentano gli

elementi di una stessa unità, piatti della stessa bilancia umana. Ogni sua dinamica rappresenta

il principio stesso della vita, dove le sue leggi e i suoi parametri si manifestano e si attuano

attraverso meccanismi empirici, ovvero dinamiche nascoste che generano diritti e obblighi per

l’uomo e che sono insite in ogni tipo di relazione sia di natura amorevole che non.

Maggiormente l’uomo asseconda le sue leggi evitando quindi ogni violazione tanto più si

avvicinerà ad uno stato di equilibrio sperimentando uno condizione armonica tale da costituire

la base di ogni appagamento profondo.

L’ordine si manifesta solo attraverso dinamiche empiriche vale a dire “del fare”, ovvero non

considera la volontà o le intenzioni del singolo ma solamente i fatti. Esso non giudica e non

pone limiti lasciando all’uomo libero arbitrio come istanza suprema. La persona è libera di

sbagliare e di prendere decisioni non armoniche e compiere azioni contro-sistemiche a patto

però di assumersi le proprie responsabilità.

Principio cardine dell’ordine è l’equilibrio naturale che si attua attraverso la legge della

compensazione con la quale esso si adopera a recuperare e bilanciare attraverso moti empirici

ogni situazione che evidenzi un eccesso di parte. L’equilibrio rappresenta la condizione per

rimanere nel libero fluire ed è necessità assoluta per l’individuo per non essere estromesso dal

flusso vitale del sistema. Ma come già detto l’ordine non si impone ma si limita ad

assecondare le scelte del singolo a prescindere dalla loro qualità per quanto queste ultime

possano contrastare le sue dinamiche. L’unica cosa che esso adopera in questi casi sono dei

meccanismi atti a segnalare l’infrazione avvenuta, meccanismi che si muovono a fin di bene e

che permettono all’uomo di crescere attraverso i propri errori, infatti uno dei diritti

fondamentali dalla persona è il diritto di sbagliare.

“Tutte le dinamiche empiriche dimostrano che esiste sempre un denominatore comune, quello

della funzionalità. Essa costituisce il parametro d’eccellenza dell’ordine, interpretando

l’unico meccanismo attraverso cui si costituisce e si auto-rigenera in ogni istante: l’ordine

non contempla la casualità, ma riconosce come uno meccanismo legittimo quello di causa ed

effetto”3.

2 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh 3 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh

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1.3 L’ombra e il debito empirico

Come definito già in precedenza la persona si sente in pace e appagata quando allineata con

l’ordine armonico. Lo stato che si riconosce come autentico in quanto si caratterizza

dell’assenza del debito empirico. Tale posizione è l’unica che fa accedere ad ogni singola

gamma espressiva delle emozioni. Non c’è nessuna emozione che sovrasta l’altra ma tutte

sono in ugual misura parte del portatore. In questa situazione il singolo può interpretare nella

maniera corretta la carica empirica che viene richiesta in una determinata situazione senza

caderci dentro.

Tale stato cambia in presenza di un debito empirico arretrato che fa si che la persona sia

obbligata a muoversi in un determinato modo. Infatti è sempre l’indicatore sistemico ad

attirare il suo sentire indipendentemente dalla situazione presente. “così è la sua carica

aggressiva, la paura latente, il senso di colpa o quello dell’inadeguatezza a dominare le sue

reazioni, influendo su di lui al punto da fargli credere che questo sia il suo stato naturale”4.

Il debito empirico è uno squilibrio tra il moto di dare e di ricevere. Ad esso non interessa se la

persona sia consapevole o meno dell’infrazione avvenuta o che questa non fosse intenzionale.

L’ordine non riconosce il perché di un azione né la colpa ed in questo modo non favorisce

nessuno e non esime nessuno dalle proprie responsabilità.

“L’ordine è in grado di individuare ogni infrazione sistemica percependola come mancanza

di responsabilità, anche se passata come testimone dalla propria stirpe. L’entità del debito si

sviluppa man mano che le convenzioni famigliari sostituiscono la matrice dell’ordine

naturale”5.

Nel copione personale è presente in maniera chiara la qualità e la quantità di debito della

persona. “Esso si manifesta attraverso le convinzioni più profonde e radicate, sia su se stessi

che su gli altri e sul mondo. Allo stesso momento implica anche tutte le credenze, i moti e le

azioni contro-sistemiche…e tutti gli indicatori empirici del debito usati per controbilanciare

l’arretrato: la paura, la rabbia e la colpa. La forza disarmonica acquisita strumentalizza il

piano personale dell’individuo affinché egli reagisca solo a parametri alterati e non più a

quelli genuini empirici”6.

4 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh 5 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh 6 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh

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Ogni debito distingue il lato ombra dell’individuo, infatti in seguito ad ogni infrazione

l’ombra si altera e si estende in un determinato modo e da quel momento fa si che in ogni

ambito della vita si sia attirati da chi ha un ombra speculare alla propria.

Viene definito debito di base il debito acquisito da piccoli che si sviluppa i primi anni di vita

attraverso il rapporto con i genitori ogni qualvolta che questo non corrisponda ai parametri

armonici. Inoltre è tramandato dalla propria stirpe attraverso la consegna familiare ed è

direttamente legato alla violazione del diritto del bambino di essere amato.

Soltanto quando si entra nel ruolo dell’adulto è possibile estinguere il proprio debito in quanto

solo da quel momento si ha la forza e lo spazio per poter contenere il dolore nascosto

attraverso le strategie di compensazione.

1.4 L’ombra e la conoscenza di se

Riconoscere e reintegrare la propria ombra costituisce una condizione essenziale della crescita

di un individuo e un passo fondamentale per avvicinarsi allo stato di eccellenza.

Nel corso della propria crescita accade di provare vergogna o paura di sentimenti o emozioni,

di qualità, interessi, idee, talenti per timore che non vengano apprezzati nel proprio ambiente.

Nasce così la tendenza a reprimerli e relegarli nella profondità dell’inconscio.

Far emergere le risorse non sfruttate del proprio essere, per quanto minaccioso possa apparire,

permetterà alla persona di appropriarsene. Se ciò non accadesse e l’uomo continuasse a

reprimerli e relegarli, gli si rivolterebbero contro , gli farebbero paura creandogli seri

problemi sia di ordine psicologico che sociale.

Riappacificarsi con la propria ombra è un esigenza fondamentale per far crescere la stima di

sé e rientrare verso l’equilibrio empirico. Non possiamo amarci se ignoriamo una parte

importante di noi facendola diventare in tal modo una nostra nemica.

Carl Jung ricorda come lo psichismo umano sia luogo di lotte intime: “Si sa, i drammi più

commoventi e più strani non si svolgono a teatro, ma nel cuore di uomini e donne comuni.

Questi vivono senza attirare l’attenzione e non tradiscono minimamente i conflitti che

imperversano nel loro animo, a meno che non cadano vittima di una depressione di cui essi

stessi ignorano la causa”.7

Chi rifiuta di conoscere la propria ombra sarà portato con il tempo a sentirsi depresso,

stressato, tormentato da un diffuso senso di angoscia, di insoddisfazione e di colpevolezza e

7 C.G.Jung , Psicologia e religione, Bollati Boringheri, Torino 1982.

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tenderà a lasciarsi trasportare da gelosia, rabbia, devianze sessuali, golosità e via dicendo. Fra

le dipendenze più comuni citiamo l’alcolismo, il gioco d’azzardo. La dipendenza è un

problema dell’ombra. Alcuni ritengono tali comportamenti causa di degrado della natura

umana ma, non è così, ne sono una causa indiretta. Questi atteggiamenti permetto alla

persona di superare i limiti e di identificarsi per un lasso di tempo nel suo lato ombra di cui

sente tanto l’attrazione.

Ci sono molti talenti selvaggi sepolti nell’inconscio guardarsi nel profondo porterà vitalità e

incoraggerà la creatività in tutti i campi della vita.

Per operare tale ricerca dentro di sé è necessario mettersi in ascolto senza pregiudizi e

convinzioni personali. L’uomo può accedere alle proprie dinamiche nascoste solo attraverso il

proprio sentire.

1.5 Proiezione dell’ombra

"Tutto ciò che degli altri ci irrita può

portarci alla comprensione di noi stessi"

C.G. Jung

I lati poco amati di noi stessi che tentiamo

invano di eliminare dalla nostra vita si proiettano

sugli altri e ci costringono a riconoscerli.

J.M.

Se non riconosciuta l’ombra non solo creerà ossessioni ma imporrà il proprio ingresso nella

coscienza sotto forma di proiezioni sugli altri.

Una persona alle prese con la proiezione della propria ombra vedrà alterata la propria

percezione della realtà: i tratti e le qualità che avrà rifiutato di vedere in sé li assegnerà ad

altri, come se mettesse loro delle maschere. Potrà sia mitizzare i portatori delle sue proiezioni

sia denigrarli o averne paura.

Potremmo dire che il proiettore arriverà ad avere paura della propria ombra e a causa di un

curioso riverbero tali proiezioni arriveranno ad ossessionarlo e a causare intorno a lui conflitti.

Proiettare la propria ombra su qualcuno vuol dire assegnargli una maschera e procedere di

conseguenza. Chi è costretto d'altra parte a subire le proiezioni, si pensi a un popolo

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discriminato, al “mobbing”, a ingiusti e coattivi attacchi personali non può che provare un

profondo disagio psichico che può arrivare sino a far traballare un buon equilibrio personale.

Non è semplice disfarsi delle proprie proiezioni nemmeno quando a volte la persona, altro, si

comporta con un atteggiamento tanto diverso da quello proiettato da mettere in dubbio il

nostro “giudizio”. Per non lasciare la propria proiezione ed evitare, quindi, di vedere la realtà

della propria ombra, il proiettore è pronto a ricorrere a finti pretesti pur di legittimare i propri

giudizi di condanna.

Con il tempo la persona avrà sempre più paura di mettersi in gioco e sarà portato a

confrontarsi con gli altri in maniera svantaggiosa, rimproverandosi e sentendosi un buono a

nulla.

La spiegazione a ciò pareva dal fatto che oltre al sistema empirico esiste un sistema personale

che si caratterizza per il fatto di competere solo all’uomo. Esso si compone di quanto ogni

individuo ha imparato durante la vita e forma il suo nucleo unico. Un sistema che si

autodifende anche quando le strategie che comprende sono disarmoniche.

Proprio dal rapporta tra lo il sistema empirico e quello personale dipende la capacità della

persona di stare nella vita. La distanza tra i due è termometro di quanto la persona sia vicino a

dinamiche armoniche o al contrario attui nella propria vita dinamiche contro armoniche.

1.6 Classificazione dell’ombra secondo il materiale e gli ambienti

A seconda della natura del materiale rimosso potremmo distinguere due forme di ombra:

l’ombra “nera” e l’ombra “bianca”.

La prima deriva da ogni istinto represso, come l’aggressività o la sessualità. Riguarda

soprattutto le persone che hanno acquisito una reputazione di moralità e virtù. A volte la loro

ombra insorge proprio verso i valori veicolati dall’ambiente in cui vivono: rivolta contro le

leggi e le regole della società, desiderio di dominio, pulsioni sessuali non gestite, gelosia e

invidia.

L’ombra bianca deriva dalla mancanza di sviluppo o di repressione di una tendenza virtuosa o

spirituale. Trae origine dalla pressione che l’ambiente sociale e familiare ha esercitato già dai

primi anni di vita , imponendo come regole, atteggiamenti e comportamenti fuorvianti.

La brava bambina cresciuta in un ambiente dove è normale servire e prodigarsi per gli altri è

portata a reprimere ogni slancio di realizzazione di sé. Saper parlare al proprio sostegno farà

parte della sua ombra bianca.

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Le ombre classificate secondo gli ambienti che le hanno originate possono essere così

suddivise: familiare, istituzionale o nazionale.

L’ombra familiare:

Le famiglie non veicolano solamente valori e talenti positivi, ma anche zone d’ombra

conseguenti da rimozioni collettive. Così gli eventi tragici in una famiglia possono a volte

trasformarsi in miti; allo stesso modo, i lutti gestiti male seguitano ad perseguitarla e gli

scandali familiari costituiscono segreti ben mantenuti.

Tutte queste ferite, tragedie e drammi rimasti allo stato inconscio nella memoria familiare

hanno l’inclinazione di riprodursi da una generazione ad un'altra. I discendenti sono portati a

vivere nuovamente gli stessi drammi e a ripercorrere le stesse rimozioni senza sapere il

perché. Queste ingiunzioni hanno valore di legge all’interno della famiglia e rappresentano

una vera e propria consegna d’amore anche quando il suo contenuto si rivela dannoso e

controproducente. Attraverso la consegna familiare tutte le strategie si tramandano alle

generazioni future anche quando a prima vista il copione potrebbe apparire diverso. Ogni

resistenza del figlio cambia in maniera sostanziale alla morte del genitore, momento in cui si

attua la seconda parte della consegna che da quel istante lo investe come l’esponente più

importante della propria stirpe. Al singolo è richiesto di assumersi la responsabilità per tutto

l’operato del proprio nucleo familiare.

In tutte le famiglie in maniera più o meno consapevole i genitori per evitare situazioni di

disagio e per una inquietudine inconscia di lealtà familiare, impediranno, quindi, ai figli di

manifestare alcune emozioni o di sostenere e incitare qualità e talenti in maniera tale che essi

adottino un atteggiamento preciso. In questo modo, obbediscono alle pulsioni dell’ombra

familiare.

I figli, che temono e sentono il più piccolo rischio di rifiuto, osservano ubbidienti i divieti

parentali. Alcuni studiosi hanno raccolto nel tempo un certo numero di queste ingiunzioni

familiari che si caratterizzano per avere tutte una formulazione negativa. Di seguito un breve

elenco: “non esistere”, “non essere te stesso”, “non crescere”, “non realizzarti”, “non

essere in salute”, “non impegnarti”, “non istaurare relazioni intime”, “non pensare”, “non

essere sensibile” e così via.

A volte l’ombra della famiglia sembra si concentri tutta su un solo membro. È il caso classico

della “pecora nera” che devia dalle regole e dalle norme familiari. Questo però non mette

altro che in luce una compensazione avvenuta in quanto è l’intero sistema familiare ad essere

“difettoso”. L’irresponsabilità e la frivolezza di una persona porranno in luce un lato troppo

serio e rigido della famiglia. Agli uomini, ed in questo caso a tutti i membri della famiglia, è

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richiesto di assumersi le proprie responsabilità. L’ordine non riconosce infatti differenza tra

chi commette un atto e chi lo subisce in quanto l’uno non potrebbe esistere senza l’altro e

soprattutto non gli importa dei perché. Inoltre solo il fatto di essere presente in un qualsiasi

contesto implica, anche se in quantità e in qualità diversa, una responsabilità per quanto

avvenuto.

L’ombra istituzionale

Nelle comunità si è portati a privilegiare certe qualità a discapito di altre le quali vengono

considerate inutili se non perfino negative. L’ombra del fondatore di una collettività lascia il

propria segno sull’ombra del gruppo anche dopo la sua morte. Per comprendere meglio come

funziona l’ombra istituzionale si può osservare il seguente esempio: in un istituto di

formazione per sacerdoti, due precettori si mostravano preoccupati di individuare anche i più

piccoli segni di omosessualità e di alcolismo tra i sacerdoti. Un gesto fraterno come un

abbraccio era interpretato come segno di omosessualità, bere velocemente un bicchiere di

vino era valutato come assenza di dominio di sé, propria dell’alcolista. Come risultato di tali

considerazioni tutti i seminaristi diventarono ossessionati dalla preoccupazione di scoprire tali

modi di fare iniziando a spiarsi gli uni con gli altri. Le ombre dei due educatori avevano finito

per contaminare tutti i membri dell’ambiente. Tutti i valori della comunità, fratellanza,

disponibilità, interesse allo studio non richiamavano più l’attenzione di nessuno poiché tutte

le energie erano rivolte nell’individuare omosessualità ed etilismo.

Una società incapace di riconosce la propria ombra si allontanerà poco a poco dai propri

obiettivi e, totalmente irretita da questa ombra, non sarà capace di far altro che incoraggiare

quello che cerca di evitare.

L’ombra nazionale

Esistono ombre anche su scala nazionale basti andare a visitare un paese straniero.

Si noterà che gli abitanti di questo paese hanno idee diverse dal paese di nostra provenienza.

Quello considerato un difetto nella propria patria potrebbe essere un pregio in un altro.

Più una nazione si isola, più si rende cieca sui propri difetti e limiti, più avrà la propensione a

proiettare le proprie paure e le proprie insofferenze sulle nazioni vicine. Il contatto con

popolazioni diverse aiuta a portare in superficie mancanze e limiti mentre il non conoscere

porta spesso ad avere pregiudizi verso l’altro. Battute di spirito che hanno come oggetto

popolazioni vicine e appellativi razzisti sono segnali evidenti dell’ombra nazionale. In tempi

di guerra, la proiezione dell’ombra del “nemico” è alimentata ed esasperata dai media. Tutto

ciò che si giudica sgradevole e disdicevole in se stessi ci si accanisce a scoprirlo

nell’avversario.

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Durante la seconda guerra mondiale, il popolo tedesco aveva tutto i difetti immaginabili. I

neri sono stati a lungo bersaglio della proiezione dell’ombra dei bianchi. Nello stesso modo

gli ebrei sono stati vittime dell’ombra collettiva di altri popoli. Minoranze, stranieri danno

spesso fastidio per la loro diversità e originalità, diventando dei capri espiatori.

Quanto detto potrebbe farci pensare che le nazioni siano così condannate ad avere nemici a

cui affibbiare la propria ombra. Ma può non essere così; alcune società, da noi occidentali

considerate primitive, in passato hanno trovato una soluzione a questo, nominando al loro

interno alcune persone con il compito di fare la parte dell’ombra collettiva. Un esempio sono

stati i Sioux d’America dove lo Heuhoka esercitava il compito sacro che consisteva

nell’interpretare l’ombra del gruppo. In maniera sistemica egli faceva tutta una serie di attività

al contrario come cavalcare il cavallo rivolto verso la parte posteriore, innalzare la propria

tenda con l’entrata rivolta nella parte opposta a tutte le altre e si compiaceva regolarmente di

infrangere le norme e le regole della tribù8.

Un altro esempio significativo in passato era il giullare del re che svelava tutto quello che la

corte cercava di nascondere.

Ricordiamo ancora la “Festa dei Pazzi” nel Medio Evo, durante la quale le posizioni sociali

erano stravolte. Per esempio lo scemo del paese veniva nominato re, la serva si trasformava in

dama di corte e il giullare diveniva il cavaliere nero.

Nella società moderna tale posto è dato ai clown e ai comici i quali ci rimandano la nostra

ombra evidenziando i nostri difetti più comuni.

1.7 Teoria dell’ombra: Jung

Jung esperto della psicoanalisi freudiana, conosceva l’esistenza del mondo nascosto ma il

pensiero che fosse composto dalle rimozioni di entità psicologiche personali non lo

soddisfaceva. Per questo iniziò le sue ricerche sui miti, sui sogni, sulle disillusioni psicotiche,

così come anche sui disegni di “primitivi” e di bambini che lo portarono a riconoscere

l’esistenza di un altro inconscio, cioè “l’inconscio collettivo”. Ovvero una memoria di insieme

di immagini o di motivi innata e comune all’umanità. Chiamiamo tali configurazioni

universali “archetipi” perché li si trova in tutte le civiltà. L’ombra era per lui uno di questi

archetipi fondamentali.

8 D.M. Dooling, The Windom of dte Contrari, in Parabola, the Trickser, 5/1 (1979).

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Tale scoperta mise fine alla sua grande amicizia con Freud che di li in avanti lo considerò

eretico rispetto alla tesi della propria scuola.

Secondo Jung, l’ombra rappresentava un insieme di complessi, di energie represse che Freud

aveva denominato “Es”. L’ombra come la concepiva Jung si profilava da sempre nei miti e

nelle leggende sotto forma di diversi archetipi: il “il fratello oscuro”, il “doppio”, i

“gemelli”, “ l’alter ego” e così via.

Nel tempo attraverso i suoi studi sui sogni e sui suoi pazienti da concetto astratto e anonimo

l’ombra assume un aspetto più concreto.

Dal 1912 Jung parlava del “lato ombroso dello psichismo” ed in seguito utilizzò diverse altre

espressioni come “il sé represso” o “il lato oscuro di sé”.

Nel 1917, nella sua opera La psicologia dell’inconscio, descrive l’ombra come “l’altro in

noi”, “l’inferiore riprovevole” o ancora “l’altro che ci mette in imbarazzo e ci fa

vergognare”.

La definì come “il lato negativo della persona, la somma di tutte le qualità sgradevoli che

abbiamo la tendenza a detestare e a nascondere, così come le funzioni insufficientemente

sviluppate e il contenuto dell’inconscio personale”. Aggiungiamo però che l’ombra non è in

se stessa qualcosa di male anche se ciò potrebbe sembrare incompatibile con i valori e le idee

ricevute di questo o quel ambiente.

Figura 1 Concezione Junghiana dello psichismo

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Di solito, si preferisce camminare guidati dalla luce e questo impedisce di vedere l’ombra che

è alle proprie spalle; spesso sono gli altri a vederla prima della persona stessa. Al medesimo

modo spesso gli altri distinguono meglio il lato oscuro della personalità di un individuo che

lui stesso si rifiuta di vedere. “L’ombra che appare piccolissima sotto il sole di mezzogiorno

si allunga e si ingrandisce man mano che il giorno cala e durante la notte invade tutto lo

spazio”. Lo stesso avviene per l’ombra psichica, minuscola durante il periodo di veglia

assume proporzioni immense durante il sonno, quando si intrufola nei sogni.

Così quanto l’individuo ha cercato di mascherare durante il giorno per vergogna o altro, i

sogni lo rivelano la notte. Di qui i simboli di cui sono intessuti i sogni mettono in luce in

maniera a volte brutale il materiale rimosso: la madre avrà l’aspetto di una strega, il capo di

un tiranno e così via.

Il sogno non fa altro che illuminare in maniera cruda quanto si cerca di nascondere per

conformarsi alle regole.

Ci sono diverse espressioni usate nel gergo comune che illustrano bene le reazioni provocate

dal mondo psichico rimosso come: “ha paura della sua stessa ombra” o “si adombra per

niente”. Un proverbio tedesco dice: “non si può saltare sopra la propria ombra” che esprime

l’impossibilità di liberarsi del proprio mondo rimosso.

1.8 L’ombra yin e l’ombra yang

Come il lato luce anche il lato ombra contiene quindi una grande quantità di qualità

empiriche. Esse sono previste dal codice del sesso biologico cui si appartiene. Parleremo di

ombra yin e di ombra yang che si caratterizzano per consistenza e natura diverse. Ogni

individuo, oltre alle qualità più ambite del proprio codice, ha diritto di accedere anche a quelle

più scomode e considerate a volte deplorevoli. Un diritto ma anche un obbligo in quanto gli

viene richiesto di dare all’ombra il posto legittimo all’interno della propria vita facendola

manifestare senza combatterla.

Integrare la propria ombra costituisce un bisogno insito nell’esistenza che non ha bisogno di

consenso ma persiste per il semplice fatto che sia presente. Così uomo e donna integrati si

esprimono soprattutto attraverso il loro lato luce ma non per questo rinnegano la propria

ombra essendo allo stesso tempo in grado di entrare ed uscire da essa senza accumulare una

grande quantità di debito.

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Coloro che pensano di essere solo buoni, bravi, educati e innocenti mostrano invece un segno

evidente di un considerevole degrado. È in questo caso e con l’avanzare della metamorfosi

empirica che alcuni lati d’ombra si rafforzano in maniera consistente diventando indicatori

sistemici. Tali indicatori sono uguali per tutti in quanto l’accesso di carica non fa differenza

tra maschile e femminile.

Per quanto l’ordine sostenga le dinamiche di apertura come primarie, legittima l’uomo,

attraverso il libero arbitrio, a scegliere quelle di cui sente maggiormente il richiamo in quanto

nella vita di ogni persona è sempre una delle due, tra luce e ombra, a predominare.

Ombra yin

Come appena detto anche la donna yin integrata ha bisogno della sua ombra senza la quale

non potrebbe esistere. “per quanto ci si potrebbe chiedere diversamente, anche a lei è

richiesto di riconoscersi nella propria fragilità e nella propria tristezza, di prendere atto

dalla sua naturale tendenza a subire e di entrare in dipendenza emotiva. Lei ne ha bisogno

come ogni altra esponente femminile poiché l’ombra nient’altro è che il rovescio della stessa

medaglia che dall’altro lato contiene le qualità femminile più ambite: la sensibilità, la

dolcezza, la sua capacità di essere leggiadra e spensierata allo stesso modo come la

maggiore apertura e l’amore incondizionato”9. Quello che fa si che la donna sia integrata è il

modo di accedervi, ovvero di saperla sperimentare senza allo stesso tempo perdersi in essa.

Lei riesce a sentire il proprio dolore trasformandolo senza sentirsi obbligata ad esorcizzarlo

ogni volta. La donna integrata è in grado di vivere la propria ansia senza arrivare alla

depressione o la propria timidezza senza però farsi fermare da essa, è in grado di sentire,

cedere nella propria autostima ma non per questo sentirsi vittima.

La donna yin alterata e la finta yin vivono maggiormente l’ombra appartenente al codice

femminile al contrario la donna finta yang e la yang autentica sono portate a prediligere

l’ombra maschile in quanto vivono un rifiuto assoluto verso l’ombra yin.

La principale dinamica dell’ombra femminile è la paura in tutte le sue manifestazioni e forme,

dalla timidezza all’angoscia, dalla paura di brillare a quella di soccombere.

Fanno parte dell’ombra yin anche la tristezza, la fragilità, l’eccesso di emotività, la mancanza

di chiarezza ma anche la dipendenza affettiva, il senso di colpa, il perfezionismo, la critica, la

vanità, la perfidia, la mancanza di organizzazione, la sbadataggine ed altre ancora.

L’ombra yang

Come la donna yin integrata anche l’uomo yang integrato è portatore e ha pieno diritto di

accedere alle qualità d’ombra. Tale realtà si caratterizza nel fatto che anche l’uomo più

9 M. Hardy, La grammatica dell’essere, Lumh

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pacifico ha bisogno di conoscere la sua forza bruta, la rivendicazione ceca ed il tradimento

sessuale. L’uomo ha la necessità di sentire la propria prepotenza, la propria ignoranza ed il

proprio cinismo. In quanto portatore sano è in grado di gestire, grazie alla propria esperienza,

tutte queste situazioni senza che esse prevaricano la sua esistenza. Nel caso contrario saremo

di fronte ad un debito che varia di peso e dimensioni in base al proprio allontanamento

dall’ordine.

L’uomo yin e l’uomo finto yin vivranno maggiormente l’ombra del sesso opposto, mentre

l’uomo finto yang e l’uomo yang alterato sperimenteranno maggiormente dinamiche guidate

dall’ombra yang.

Fanno parte dell’ombra yang la rabbia in tutte le sue manifestazioni che si tratti di abuso di

autorità o di violenza esplosiva e bruta. Nello stesso modo sono diritti dell’ombra yang la

superficialità, l’impazienza, un ego molto sviluppato, essere calcolatore e razionale, la sfida e

la competizione eccessiva, l’eccesso di controllo, l’inflessibilità, la superficialità e in ugual

misura la volgarità,

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2.La formazione dell’ombra

Fino ai trent’anni passiamo la maggior parte

del tempo a decidere quali aspetti di noi

stessi dobbiamo buttare nel sacco dell’immondizia,

poi passiamo il resto della vit

a a tentare di tirarli fuori.

(Robert Bly)

Storia dell’uomo dalle sette maschere

C’era una volta un uomo che portava sette maschere diverse, una per ogni giorno della

settimana. Quando si alzava la mattina, si copriva immediatamente il viso con una delle

maschere. Poi si vestiva e usciva per andare al lavoro. Viveva così, senza mai lasciar

vedere il suo viso.

Ma una notte, mentre dormiva, un ladro gli rubò le sette maschere. Al risveglio, non

appena si rese conto del furto, si mise a gridare a squarciagola: “Al ladro! Al ladro!”.

Poi si mise a percorrere tutte le strade della città alla ricerca delle proprie maschere.

Le persone lo vedevano gesticolare, bestemmiare e minacciare la terra intera delle più

grandi disgrazie se non fosse riuscito a trovare le sue maschere. Passò l’intera giornata

a cercare il ladro, ma invano.

Disperato e inconsolabile, si accasciò piangendo come un bambino. Le persone

cercavano di confortarlo, ma niente poteva consolarlo. Una donna che passava di lì si

fermò e gli domandò: “Che cosa le è successo? Perché piange così?”. Egli alzò la testa

e rispose con voce soffocata: “Mi hanno rubato le mie maschere, e con il viso così

scoperto mi sento troppo vulnerabile”. “Si consoli”, gli disse la donna. “Mi guardi: ho

sempre mostrato il mio volto da quando sono nata”. Egli la guardò a lungo e vide che

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era molto bella. La donna si chinò, gli sorrise e gli asciugò le lacrime. Per la prima

volta in vita sua., l’uomo sentì, sul viso, la dolcezza di una carezza. (Tadjo)

2.1 La formazione della persona

Non è facile concepire il concetto di ombra per chi ignora quello di persona. Tale componente

conosciuta anche come “Io Ideale”.

A partire da Jung, con il vocabolo “persona” si definisce quel Io sociale conseguente dagli

sforzi di adeguamento messi in atto per adattarsi alle norme educative, sociale e morali del

proprio ambiente.

La persona respinge dal proprio campo di conoscenza tutte le emozioni, i talenti e gli

atteggiamenti giudicati inaccettabili per la società cui appartiene. Allo stesso momento essa

produce nell’inconscio una controparte di se stessa definita da Jung “ombra”.

Eppure, come scrive M. Gargiulo nel suo articolo “Esperienza e simbolizzazione”, “l’unico

modo che la persona ha per eliminare una parte vitale che pure esiste è quello di non

percepirla più o di modificarne la percezione per renderla accettabile”.

L’immagine che ne scaturisce comprende tutte le parti, sia quelle accettate, sia quelle

modificate, ma esclude rigorosamente quelle rifiutate. Nel gergo empirico parleremo di

anestetizzarsi che rappresenta l’unico modo della persona di non sentire il dolore lacerante

che non sarebbe in grado di sostenere. Tesi parallela quella di A. Miller in “Il dramma del

bambino dotato e la ricerca del vero sé” quando dice “Ogni vita è piena di illusioni proprio

perché la verità ci appare insopportabile”.

L’origine del concetto junghiano di persona è il principio di “prosopon”; termine del teatro

greco che designava la maschera che portavano gli attori per interpretare un personaggio. Il

termine persona deriva da “per” “sonare”, cioè “risuonare attraverso”. Per l’appunto la

maschera dell’attore era usata per far risuonare la voce e per illustrare il carattere del

personaggio interpretato. Ogni Prosopon rappresentava un modello della condizione umana: il

bravo bambino, l’avaro, la vittima e così via. La maschera non esprimeva il dramma

dell’attore ma una situazione di conflitto a carattere universale.

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Il dilemma che nasce da tutto ciò può essere un conflitto interiore tra l’“Io sociale” e l’“Io

intimo”10 perché mentre l’Io persona cerca di adattarsi alla società, l’Io intimo perde di

importanza. La difficoltà cui ci si trova di fronte, è quella di adattarsi al proprio ambiente

senza tuttavia trascurare la propria crescita Da una parte è necessario promuovere lo sviluppo

della persona, con il rischio di ostacolare la socializzazione necessaria all’individuo; dall’altra

è opportuno tutelare la crescita del proprio Io intimo, evitando di spendere troppa energia per

adattarsi all’ambiente.

2.2 Il bambino e la sua crescita

Per crescere è necessario superare diverse fasi evolutive. Il neonato deve rinunciare al seno,

alla presenza costante della mamma, alla calda protezione e via di seguito finché non potrà

costruire la propria esistenza da adulto. Tutti questi passaggi costringono il genitore e il

bambino a sperimentare lutti che possono essere a secondo del tipo di perdita più o meno

dolorosi. Per diventare grandi ci viene chiesto di uccidere la rappresentazione del nostro

genitore interno. Questo significa che da adulti dovremo acquisire la libertà interiore di

costruire un nostro personale stile di vita e un sistema di valori anche se questi dovessero

collidere con le aspettative dei nostri genitori.

Alcuni autori lasciano intendere che un educazione perfetta dovrebbe poter eliminare qualsiasi

formazione dell’ombra nel bambino in maniera tale che una volta divenuto adulto non ne

debba soffrire.

Per esempio Robert Bly e Alice Miller paragonano il potenziale di crescita di un bambino a

una sfera che chiede di espandersi liberamente in tutte le direzioni allo stesso momento.

Questo significa che qualunque divieto verrebbe a bloccare la crescita del bambino creando

un ombra dannosa. Di parere simile troviamo il pensiero quasi utopistico di Jean Jacques

Rousseau, secondo cui la natura perfetta del bambino viene corrotta al contatto con la società

rappresentata dai genitori e educatori.

Ignorare il contesto sociologico di un bambino per metterlo al riparo da ogni influsso della

società equivarrebbe ad imprigionarlo però sotto una sfera di vetro. Non è possibile scegliere

di avere o non avere un ombra. Crescere e diventare adulto genera necessariamente la

formazione di un ombra.

10 Come detto in precedenza il contrasto tra il sistema empirico e il sistema personale.

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La crescita ideale dovrebbe formarsi in virtù di un adattamento elastico e ragionevole ai valori

e norme del proprio ambiente. Nella misura del possibile la socializzazione del bambino

necessita di essere guidata in maniera da rispettare le aspirazioni del bambino. Ad esempio si

può impedire ad un bambino di picchiare un proprio compagno ma al tempo stesso

riconoscergli la legittimità di provare rabbia.

È attraverso i genitori che il bambino acquisisce ciò che è e codifica il mondo.

Ogni bambino è portatore di una matrice d’eccellenza, essa le appartiene per il semplice fatto

di esistere. Tale eredità e ricca di tutte i moti di cui l’umanità dispone. Solo nella fase di

attivazione la matrice si inquina per far posto al copione familiare. Attraverso questo sono

solo i principi sistemici familiare ad attivarsi, mentre restano bloccati tutti gli altri.

L’attivazione della carica avviene nell’infanzia attraverso il genitore dello medesimo sesso

biologico colui rappresenterà il modello di riferimento in cui il figlio si rispecchierà in ogni

ambito e situazione. In base alla qualità della consegna sentirà o no il permesso di crescere.

Nonostante i genitori facciano del loro meglio capita spesso nella nostra società che la qualità

d’amore trasmessa non sia sufficiente e fa si che il bambino si possa definire ai fini empirici

orfano.

Ma sia che esso sia figlio di genitori integrati sia che nasca da genitori alterati è richiesto di

sperimentare e di avvalersi del diritto empirico di sbagliare.

Se il genitore non riesce a vedere i figli come sono, non permetterà loro di conoscersi

realisticamente. Se il suo sguardo non sarà lucido e obiettivo non aiuterà il figlio a scoprire la

sua identità, anzi sarà per lui un ostacolo. Se inconsciamente tende a piegare i figli alle

proprie aspettative farà si che loro pensino di essere diversi da come sono in realtà. Se per

esempio il papà vuole che il figlio diventi un campione di calcio, lo indurrà a ritenersi

migliore di quanto sia in realtà. Minimizzerà i suoi limiti e ingigantirà le sue qualità e lo farà

sentire in colpa di voler giocare solo qualche partita con i suoi amici. Sarà obbligato a credere

alle parole del padre se non vorrà perdere la sua benevolenza annullandosi lui stesso.

Se il coraggio di scegliere autonomamente il proprio futuro è considerato fonte di dispiacere

per i genitori, il figlio è indotto a non considerare opportuno tale desiderio. Se essere

coraggiosi è considerato un pericolo il bambino non potrà fare altro che offrire il suo

consenso a chi in verità gli sta tappando le ali. Se la forza è un elemento importante nella

famiglia mentre la debolezza è inaccettabile il bambino cercherà di esserlo con tutte le sue

energie rinnegando una parte di se e sentendosi con il tempo inadeguato e di non andar mai

bene.

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La forza nasce dall’imparare ad amare se stessi, gli altri e la vita, messaggio che a molti

bambini non viene dato. Questi piccoli imparano a non disturbare, a non far soffrire i genitori

e a dimostrarsi forti trattenendo il dolore per la perdita, di fronte a violenze e alle frustrazioni

che subiscono. Quando arrivano le lacrime cominciano a mordersi le labbra, stringere i pugni,

irrigidire il corpo tentando di cacciare l’indesiderato sentire. “Non mi mostrerò debole”, “te

la farò pagare” e giorno dopo giorno la rabbia cresce acquisendo potere.

Il bambino si troverà a vivere in un mondo che vive come minaccia confuso anche da un

insieme di esempi non coerenti che ha intorno. Per difendersi non potrà far altro che costruirsi

un armatura, non esprimerà i suoi sentimenti al mondo ma manifesterà solo quelle emozioni

ritenute accettabili

Ma c’è un prezzo da pagare per questa mancata autenticità. La falsa persona sarà all’origine di

un ombra caratterizzata da un profondo radicamento nell’inconscio e da una particolare

aggressività.

2.3 Repressione e rimozione

Distinguiamo due forme di inibizione: la prima è la repressione ovvero un inibizione

intenzionale di un emozione o atteggiamento che poiché avviene in maniera cosciente nella

persona di solito non crea un ombra. La seconda è si chiama rimozione e consiste nel

respingere un potenziale psichico nell’inconscio senza neppure esserne consapevoli.

La rimozione può avvenire in due modi, o per mancanza di occasioni favorevoli

all’apprendimento oppure fa seguito ad un trauma psichico.

Nel primo caso si parla di persone che per diverse ragioni non hanno potuto sfruttare tutto il

loro potenziale: assenza di occasioni, ignoranza dei loro educatori, ambiente ostile e così via.

Tale ombra assumerà un aspetto primitivo e incolto ma non aggressivo. Come un bambino

che ha vissuto in un isola deserta per molti anni. Nei suoi primi contatti con il mondo sarà

rozzo, selvaggio, smarrito, ignorando le regole elementari della vita sociale. Non avrà

imparato a parlare, lavarsi, a mangiare ecc.

Il secondo tipo di rimozione invece deriva da severi divieti dell’ambiente circostante. In

questo caso l’energia psichica della persona viene respinta nelle profondità dell’inconscio

senza che nemmeno costui se ne accorga. Tale ombra presenta spesso un forte carattere di

aggressività e di autonomia.

Il soggetto non la riconosce come propria. Vive la sua ombra come qualcosa di dissociato e

pertanto essa sfuggirà al suo controllo.

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2.4 L’ombra come sacco dell’immondizia

Robert Bly, poeta e pensatore americano , per descrivere l’ombra usa la metafora del sacco

dell’immondizia.

Egli sostiene che ogni volta che si rimuove un emozione, una qualità, una capacità, è come se

si gettassero tutte queste parti di sé in un sacco dell’immondizia. Tale cosa avviene secondo

lui per i primi trenta anni di vita e con il tempo tale fardello diviene sempre più pesante da

portare. Sara necessario per l’individuo rovistarci dentro per recuperare e tentare di

sviluppare tutti gli aspetti rimasti nascosti.

Chi non si dedica al compito umile e paziente di riciclare il contenuto del proprio sacco dopo

un po’ di tempo se ne sentirà schiacciato: cadrà in letargo, si lascerà vivere, proverà un grande

vuoto interiore.

I preziosi elementi che sono nel sacco continueranno a fermentare per essere visti e potersi

manifestare.

Ma perché una persona respinge nel suo inconscio un materiale così prezioso?

I motivi sono diversi a partire dal fatto che teme di essere oggetto di esclusione sociale, se si

permettesse di essere se stessa. Questa paura, sia essa reale o immaginaria, si manifesta

secondo diverse modalità: paura di perdere l’affetto dei genitori, paura di rimanere isolati,

paura di sentirsi emarginati dal gruppo, paura del ridicolo, paura di avere vergogna, paura di

non farcela e così via.

Ci sono famiglie per cui mostrarsi forti e felici è la regola. Il bambino imparerà presto a non

potersi sentire triste, a non piangere, a non chiedere aiuto. In altre famiglie saranno proibite

manifestazione d’affetto, di intimità per paura di degenerare in giochi o pensieri a sfondo

sessuale portando a favorire atteggiamenti freddi e distaccati.

A scuola alcune maestre si lamenteranno della difficoltà di lettura e di comprensione di alcuni

allievi facendoli sentire inadeguati e reprimendo la loro voglia di sapere e di porre domande.

L’opinione del gruppo per i bambini e gli adolescenti è molto importante. Un bambino

nasconderà le sue spiccate doti e voglia di imparare per non essere deriso dai suoi compagni,

una bambina eviterà di giocare a pallone per non essere considerata un maschiaccio

rimuovendo le benché minime manifestazioni dei lati maschili della sua personalità.

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2.5 Elenco dei divieti

Di seguito vorrei passare in rassegna una serie di divieti che riguardano l’espressione di certe

emozioni, qualità o inclinazioni. Si tratta sia di divieti reali sia di parole o gesti interpretati

come tali dalla persona coinvolta.

Divieti di diventare se stessi

Divieto di crescere o di cambiare, di pensare a sé, di attirare l’attenzione su di sé, di essere

uomo o donna, di essere in salute o malati, di divertirsi, di essere originali, di sentirsi amati

per ciò che si è o di essere fieri di se, di stare in disparte per rimanere soli, ecc.

Divieti relativi alle emozioni

Divieto di esprimere certe emozioni come la paura, la gelosia, la rabbia, la tenerezza, la

tristezza e così via; divieto anche di pensare di vivere certe emozioni, di essere sensuali o di

amare il piacere sessuale, di sentirsi “piccoli” e vulnerabili, ecc.

Divieti relativi all’apprendimento

Divieto di sperimentare, di imparare, di non sapere o di sentirsi ignoranti; divieto di

distinguersi dagli altri per le proprie capacità, come il disegno, la danza; divieto di essere

competenti, di sentirsi incompetenti, di sbagliare, di essere intelligenti o intellettuali, di

riuscire, di avere la fede, di esprimere tale fede in pubblico, ecc..

Divieti relativi all’intimità

Divieto di stringere amicizia, di avere una vita intima, di manifestare il proprio affetto con

parole o gesti, di amare una certa popolazione straniera, di avere fiducia, di affidarsi, ecc.

Divieti relativi all’affermazione di sé

Divieto di chiedere o di rifiutare, di esprimere la propria opinione, di avere progetti, di essere

conservatori o all’avanguardia, divieto di essere fieri di sé, di ritenersi capaci, ecc.

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Simili divieti hanno la maggior parte delle volte l’effetto di frenare la conoscenza e lo

sviluppo di ricchezze personali. Per sfruttarle bisogna avere l’umiltà, il coraggio, la pazienza

di andarle a guardare dove le abbiamo nascoste, tirarle fuori una ad una e assumersi il diritto

di utilizzarle.

Molti avranno paura di andare ad esplorare la loro ombra. Scopriranno che tale percorso non è

facile e prevede di sentire tutte le emozioni fino a quel momento messe da parte perché non si

era in grado di sostenerle, e andare a toccare il dolore.

2.6 Le dipendenze

La dipendenza è ritenere che una situazione, una sostanza, una condizione, una persona o

qualsiasi altra cosa siano fondamentali per la propria esistenza.

Quando la dipendenza è assoluta si può arrivare all’annullamento parziale o totale della

persona a favore dell’oggetto della dipendenza. Per cercare di evitare la perdita o il senso di

vuoto dell’abbandono, l’individuo può arrivare alla completa prostituzione di se stesso e alla

annullamento della propria vita.

Tale situazione può diventare letale nel lungo periodo.

Essere dipendenti vorrà dire delegare a qualcuno o a qualcosa la propria esistenza.

Uno dei motivi principali sembra essere un non risolto rapporto con le figure genitoriali che

porta tali persone a cercare in età adulta contesti o figure surrogate a cui attaccarsi per vivere.

Il bambino nella sua evoluzione e crescita attraversa infatti varie fasi. Passa dalla simbiosi con

la madre in cui i due sono un tutt’uno alla fase di separazione, individuazione in cui può

avviarsi verso le prime autonomie motorie, sociali e iniziare a costruire un identità personale.

Quando tale passaggio non avviene la persona entra spesso nelle dipendenze di cui sopra, così

facendo incorpora in sé le più grandi angosce umane come l’annullamento e l’abbandono.

Nel primo caso gli individui si percepiscono come vuoti, impotenti, invisibili, estranei a se

stessi e agli altri quasi come a sperimentare una sorta di morte. È questa la sensazione che

l’angoscia di annullamento fa arrivare alla persona che cerca di allontanarsi entrando nella

dipendenza con l’altro cercando l’affetto e la simbiosi.

Alcune persone cercano di ovviare alla sensazione di angoscia attraverso sostanze

stupefacenti, cibo, alcol, beni di consumo oppure andando a cercare situazione pericolose ed

estreme.

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Tutti questi tentativi non allevieranno la senso di morte anzi nel lungo periodo non condurrà

che alla ripetizione di relazioni infantili, distruttive e annullanti.

L’angoscia di abbandono rappresenta una forma più evoluta della precedente in quanto

l’individuo è riuscito a impostare una parziale identità ma non le autonomie indispensabili per

manifestarla.

Queste persone hanno spesso bisogno di qualcuno che li sostenga. Inoltre essendo in possesso

di un’identità sono in grado a volte di sentire il loro scarso potere, il bisogno di dipendere e il

senso di solitudine. È proprio la solitudine a portarlo alla ricerca di un surrogato. In genere le

radici di questi comportamenti possono essere individuate in traumi nella fase di separazione.

Quando il piccolo non viene spinto a sperimentare, o il genitore risulta avere atteggiamenti di

chiusura o di giudice o ancora da genitore rimasti loro stessi bambini e che chiedono ai figli di

assumere loro il ruolo di genitori. Il bambino sentitosi abbandonato ricercherà nella sua vita

situazione cui appoggiarsi o sarà portato a fuggire tutte le volte che si troverà a fare i conti

con richieste di affettività come una relazione di coppia o di amicizia.

Nella società moderna le forme di dipendenza oltre al tabacco, stupefacenti e alcol sono

svariate come lo shopping compulsivo, la cura eccessiva del corpo e dell’immagine.

Vi sono persone infatti che non possono rinunciare ad una seduta in palestra e altre che non

possono far a meno di mostrarsi costantemente brave, adeguate e perfette.

Esistono poi dipendenze che coinvolgono le condotte sessuali, il gioco ed anche il lavoro. In

un epoca come la nostra non mancano sicuramente i teledipendenti o persone che riescono ad

entrare in contatto e a comunicare con altri solo attraverso un computer o un telefonino.

Ci sono poi persone che ricercano situazioni di pericolo come nel caso di sport estremi e per

finire dipendenze che non vengono spesso considerate come quelle verso gli animali o le

persone.

2.7 Il digiuno origini e le paure

Il digiuno è una pratica istintiva e naturale a cui ricorre l'animale ferito o malato, che si

apparta ed isola astenendosi dal cibo sino al ricupero delle forze vitali ed alla guarigione.

Sono note le condizioni eccezionali del digiuno animale durante il letargo invernale o durante

periodi peculiari di trasformazione quali la stagione degli amori: è l'esempio dei salmoni che

interrompono l'assunzione del cibo quando percorrono il viaggio estenuante a ritroso lungo i

fiumi per cercare luoghi adatti alla riproduzione.

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Il digiuno è conosciuto in ambito antropologico: si pensi alla popolazione degli Hunza del

Tibet, le cui eccezionali condizioni di salute sono state attribuite, oltre che allo stile di vita ed

alle condizioni sociali equilibrate ed eccezionali, al periodo di semi-digiuno che dovevano

affrontare data la scarsità del cibo nel periodo invernale.

Meno noto è sicuramente l'uso del digiuno come strumento di disintossicazione del corpo e di

prevenzione ma anche guarigione dalle malattie: è il caso del digiuno idrico igienista, adottato

dalla naturopatia e in particolare dall'igiene naturale, un movimento sorto nel secolo scorso

per opera di alcuni medici e naturopati che anticiparono gli attuali contributi della psicologia

della salute proponendo un originale interpretazione del ruolo della patologia all'interno del

“Sistema uomo” e indicando la pratica del digiuno e la promozione di uno stile di vita

“conforme alle leggi della Natura” come via di guarigione e di mantenimento della salute

olistica.

Riferimenti al digiuno sono presenti nella letteratura medica ufficiale di tutto il mondo che

riportano ricerche sui cambiamenti fisiologici e sugli effetti terapeutici che accompagnano

l'astinenza dal cibo.

Ma dall'altro lato spesso le persone ne hanno paura. Questa emozione è riconducibile a

dinamiche psicologiche ed inconsce ben precise. L'astensione dal cibo richiama: infatti all'atto

del nutrirsi che ha un significato psicologico aggiuntivo rispetto alla semplice funzione

biologica: il cibo è il primo mezzo di scambio tra il bambino e il mondo (la madre in primo

luogo) attraverso il quale il bambino inizia l'apprendimento della realtà ed attraverso il quale

viene trasmesso il messaggio dell'amore e del contenimento materno. Così attorno all'atto del

nutrirsi si struttura la relazione bambino-altro. “Il nutrimento viene identificato con l'amore

nella maggior parte dei bambini in età molto precoce” come dichiara Lowen. Le

psicopatologie legate al cibo, come l'anoressia e la bulimia, testimoniano dell'ipervalore

simbolico investito nel cibo che viene alternativamente vissuto come “oggetto” dal quale

ottenere la gratificazione primaria, che si tratti di amore o di sicurezza, o sul quale scaricare le

tensioni aggressive e l'ansia esistenziale. La paura del digiuno va inserita in questa dinamica,

ove l'astensione dal cibo può voler significare il rinunciare alla sicurezza dell'amore

simbiotico. La paura di morire di fame equivale alla paura infantile di non essere amati.

Questa fa capo al nucleo dell’insicurezza che implica una minima fiducia in se stessi e negli

altri, dove con la continua preoccupazione di controllare ed anticipare gli eventi della vita, e

quindi con l'incapacità di vivere il presente si arriva “lasciarsi essere”. Così la paura del

digiuno è la paura dell'incontro con se stessi, con la propria “ombra”, con il vuoto, con le parti

di se stessi non integrate, la paura dei processi ritmici vegetativi e delle ondate di energia che

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attraversano il corpo al di là del controllo razionale, la paura quindi della propria istintualità

come della disidentificazione dagli aspetti egoici della personalità.

L'atto del digiunare quindi va ben oltre alla semplice finalità della guarigione fisiologica:

nella misura in cui astenersi dal cibo significa sperimentare la separazione del legame con la

materia-Madre-realtà consensuale e trascendere la paura dell'ignoto, del vuoto, della non-

identificazione, la pratica del digiuno diventa uno strumento, unitamente alla meditazione, per

la realizzazione psicologica e religiosa, intendendo il termine religioso nel senso etimologico

del termine (re-ligo, collego di nuovo): ricollegare l'uomo a se stesso, alla sua esperienza

attuale..

Il digiuno è allora uno dei diversi strumenti a disposizione dell'uomo per realizzare il processo

di crescita interiore e di attualizzazione delle potenzialità latenti. E' un percorso che passa

attraverso la presa di coscienza che conduce al decondizionamento culturale e alla

“disintossicazione” dalle informazioni apprese relativamente alla realtà consensuale, per

riappropriarsi delle diverse dimensioni dell'essere al mondo, delle potenzialità di guarigione,

trasformazione e consapevolezza, per raggiungere la più completa esperienza dell'essere e

riscoprire gli stati di coscienza spirituali e globali.

Disintossicando il corpo e la mente, il digiuno favorisce l'apertura dei centro energetici e in

particolare del centro del cuore, che presiede alla facoltà dell'amore e della compassione:

l'effetto di questa purificazione energetica si ripercuote a diversi livello dell'essere, poiché la

guarigione del chakra del cuore comporta il giusto equlibrio tra tutte le nostre parti e la

equidistanza da richieste eccessive che rischiano di travolgerci; ci permette di definire con

chiarezza i confini in cui ci sentiamo stabili e protetti, trovando il giusto rapporto con gli

interlocutori esterni. In tal modo guarisce la paura d'amare e con essa la persona recupera la

stabilità e si riappropria del proprio centro interiore trasformando le paure, le ansie, le

inibizioni in accettazione e realizzando la crescita di una consapevolezza più illuminata,

capace di percepire quanto di insondabile permea l'esperienza dell'essere.

2.8 Il digiuno ed i suoi doni

Quando una persona digiuna si verificano contemporaneamente diverse modificazioni

dell'ambiente interno ed esterno. Queste modificazioni hanno un effetto essenzialmente

destrutturante sulle attività psichiche e funzionali dell'Io, fenomeno che si manifesta nella

generale regressione delle modalità comportamentali, con allentamento delle difese rispetto al

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mondo emotivo e con depotenziamento del pensiero associativo e logico che si caratterizza in

forme di pensiero analogiche, talvolta irrazionali ma sicuramente creative. Tra gli effetti di

questo fenomeno vi sono il miglioramento dell'attenzione, della concentrazione e della

memoria: una più fluida lucidità mentale viene sperimentata dal digiunante, con affioramento

di idee nuove e creative rispetto ai problemi pratici ed esistenziali.

Durante il digiuno si è più in contatto con il proprio mondo interiore ed emotivo. La

particolare condizione regressiva, unitamente alla disattivazione del sistema di inibizione

dell'azione, può determinare spontanee scariche di espressione emotiva, che favoriscono

l'abreazione catartica e la liberazione degli impulsi e delle tensioni bloccati. Si può osservare

come l'intera variabilità emotiva, dalla gioia alla paura alla tristezza alla rabbia, che nelle

situazioni quotidiane viene repressa ed inibita, durante il digiuno affiora più facilmente alla

consapevolezza e viene più facilmente espressa, comunicata e, soprattutto elaborata ed

integrata, divenendo quindi risorsa per la crescita.

Dalla liberazione emotiva deriva l'aumentata capacità di rilassamento e la più profonda

disponibilità respiratoria e distensiva.

Un dato interessante, strettamente legato alla liberazione emotiva è la perdita di peso, che in

alcuni casi di inibizione è limitata nonostante l'astinenza dal cibo e che, una volta espresse ed

elaborate le emozioni trattenute, aumenta sensibilmente. Durante lo stato di digiuno vi è un

maggiore collegamento con l'Inconscio, che si può evidenziare nell'emergere di ricordi e di

insights spontanei rispetto alla storia e all'esperienza personale. Lo stesso mondo onirico si fa

più vivido e ricco. Durante il digiuno avvengono determinati cambiamenti delle abituali

strutturazioni che hanno il ruolo di stabilizzare lo stato di coscienza ordinario Si modificano le

attività quotidiane; la condizione di riposo e l'inattività prevalgono rispetto alla strutturazione

della giornata secondo il ritmo dei pasti e dell'attività lavorativa. Si affina la sensorialità in

genere e gli organi del senso percepiscono la realtà esterna in modo diverso, varia in maniera

notevole la percezione cenestesica che informa la mente sullo stato interno del corpo, sul

grado di tensione muscolare, sulla temperatura corporea: vengono a mancare le molteplici

stimolazioni indotte dall'assunzione del cibo. Variano quindi le tre principali sensazioni

corporee la sensazione fetale superficiale, a livello epidermico; le sensazioni legate al

movimento muscolare; le sensazioni “di pancia” e viscerali. Si può comprendere quindi come

il digiuno sia utilizzato come strumento di espansione della consapevolezza: esso allenta i

meccanismi di radicamento dell'Io alla realtà consensuale, favorendo l'integrazione delle

funzioni emisferiche del cervello ed in altri termini, favorendo il collegamento tra conscio ed

inconscio. Destrutturandosi le funzioni di stabilizzazione dello stato ordinario di coscienza, la

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consapevolezza si trasforma in una condizione particolare di sensibilità, recettività ed accesso

alla creatività interiore. Il momento del digiuno è, in questo senso, un momento di

ristrutturazione degli schemi mentali che orientano l'individuo nel mondo. Una

ristrutturazione che si attua nella possibilità di cambiamento di determinate strutture di

credenze, in particolare relative ai processi psicofisiologici dell'organismo: l'esperienza diretta

e profonda del proprio corpo che regola in modo equilibrato le funzioni di adattamento

all'astinenza da cibo fornisce una nuova concezione evolutiva dei processi inerenti la malattia,

la salute e la vitalità energetica.

Così, l'apprendimento della possibilità del digiuno e dell'autoguarigione rafforza il senso di

autostima, la sicurezza nelle capacità rigeneratrici dell'organismo, e in generale la fiducia

nella vita così come l'ha intesa Lowen, il quale afferma che “la scoperta che il corpo ha vita

propria ed ha la capacità di curarsi da sè e la rivelazione di una speranza. Rendersi conto

che il corpo ha la propria saggezza e la propria logica ispira un rispetto nuovo per le forze

istintive della vita”.

La disintossicazione ed il rilassamento si possono osservare nell'aumentata vitalità energetica,

condizione paradossale rispetto alla concezione comune che prevede l'astenia in caso di

astinenza dal cibo. Soggettivamente il benessere psicosomatico che si raggiunge con il

digiuno è esperibile nelle piacevoli ondate emotive ed energetiche che testimoniano del fluire

armonico della pulsazione vitale. Una volta liberate le tossine in eccesso e dopo aver dato

espressione agli impulsi ed alle emozioni bloccate, l'organismo è in grado di recuperare la

capacità di gioia e di piacere e la vera e propria euforia del benessere. Il digiuno è allora

l'occasione per trasformare il vuoto, che è vuoto dello stomaco come vuoto interiore,

esistenziale, affettivo e quindi assenza dell'amore, nel pieno della percezione del Sè corporeo

ed energetico, nella riappropriazione del corpo e dalle sensazioni che lo attraversano e lo

nutrono profondamente e totalmente.

Così, durante il digiuno ci si nutre delle riserve immagazzinate nei depositi ma soprattutto

della relazione con se stessi e con le altre persone: la funzione del gruppo non è solo di

sostegno e condivisione ma è soprattutto di nutrimento affettivo ed energetico.

Facendo una sintesi il digiuno porta ad una maggiore lucidità mentale e una creatività del

pensiero, alla liberazione delle emozioni inibite, con espressione spontanea, alla maggiore

capacità di rilassamento, con riduzione degli effetti dello stress, ad una maggiore sensibilità al

mondo interiore, con affioramento di ricordi, immagini.

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3.Abbracciare la propria ombra

Non puoi conoscere una cosa senza conoscere il suo contrario.

Non puoi conquistare la sincerità senza aver fatto esperienza dell’ipocrisia

ed esserti deciso a combattere contro di essa.

(Abu Uthman Maghrebi)

Devo accogliere e amare me stesso umilmente,ma nella mia interezza,

senza restrizioni, ombre e luci,gentilezze e collere, risate e lacrime, umiliazioni e fierezze,

rivendicare tutto il mio passato, il mio passato inconfessato, inconfessabile..

Janques Leclercq

Il lupo di Gubbio

Nel villaggio di Gubbio, abitavano persone dignitose, per non dire orgogliose. Il loro

villaggio era in ordine; le strade pulite; le case imbiancate di fresco a calce; le tegole

rosse dei tetti ben lavate; i vecchi felici; i bambini ben educati; i genitori lavoratori.

Appollaiati sul fianco della montagna gli abitanti di Gubbio gettavano uno sguardo

sprezzante sui villaggi in pianura. Consideravano le persone che abitavano in basso

sporche e poco frequentabili. Ma ecco che con il favore della notte, un ombra si

intrufolò a Gubbio e divorò due paesani. La popolazione si lasciò prendere dalla

costernazione. Due giovani coraggiosi si offrirono per andare ad uccidere il mostro.

Armati di spada, lo aspettarono a piè fermo. Ma, al mattino, trovarono i loro corpi

sbranati. Il panico fu totale. Capirono che si trattava di un lupo che, la notte, si

aggirava per le strade. Per liberarsene, l’assemblea del villaggio decise di fare ricorso

al santo conosciuto per il suo potere di parlare agli animali. Questo santo altri non era

che San Francesco d’Assisi. Partì dunque una delegazione per incontrare Francesco e

implorarlo di venire a cacciare per sempre il lupo dal loro tranquillo villaggio. Sulla

strada del ritorno, il santo si inoltrò nella foresta con il proposito di parlare con il lupo

cattivo. L’indomani mattina tutti i paesani si erano riuniti nella piazza pubblica e si

spazientivano per il ritardo di Francesco. Vedendolo finalmente uscire dalla foresta, di

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misero a gridare di gioia. A passi lenti il santo si aprì il cammino sino al pozzo, poi,

salendo sul bordo, apostrofò il suo uditorio: “Abitanti di Gubbio, dovete nutrire il

vostro lupo!”. Senza altri commenti, scese e se ne andò. All’inizio la gente prese molto

male la cosa. Si arrabbiarono con Francesco. La paura del lupo lasciò il posto alla

delusione e alla collera contro questo santo inutile. Ma, ricredutisi, quella sera

incaricarono uno di loro di depositare un cosciotto davanti alla propria porta. E fecero

lo stesso tutte le altre sere.

Da allora nessuno più morì tra le fauci del lupo. La vita riprese il suo corso normale.

D’altra parte, questa prova rese saggi gli abitanti del villaggio. Essi smisero di

mostrare un atteggiamento arrogante e sprezzante verso gli abitanti dei villaggi in

pianura. La presenza del lupo nel loro paesello li rese umili.

3.1 Tre concezioni dell’inconscio: Freud, Nietzsche, Jung

Jung considerava la reintegrazione dell’ombra come “il problema morale per eccellenza”.

Riconoscere la propria ombra, accettarla come parte di se stessi e reintegrarla nell’insieme

della propria persona. La persona che riesce ad abbracciare la propria ombra diventa un essere

completo e unico.

Freud, Nietzsche e Jung propongono percorsi diversi per la reintegrazione dell’ombra che

variano a secondo delle loro concezioni della natura dell’inconscio e dei rapporti dell’io

cosciente con quest’ultimo.

Per Sigmund Freud l’inconscio è un mondo di forze caotiche sempre pronte a superare i

fragili confini della coscienza. Come un vulcano che, travagliato dalle spinte istintuali e

erratiche della libido, minaccia in ogni momento di entrare in eruzione.

Per difendersi da tali straripamenti la parte cosciente ha bisogno di crearsi tutto un sistema di

difesa. Freud consiglia in particolare di dotarsi di due difese: la formazione del “principio

della realtà” e “lo sviluppo di una solida vita razionale”.

Nietzsche al contrario non vede affatto la necessità di difendersi dall’inconscio anche se ne

sostiene il carattere caotico e irrazionale. Lui esalta le forze inconsce del “Superuomo” e

quelle dell’uomo inferiore con le sue tendenze malefiche.

La sua opera, deformata dai nazisti è servita a giustificare i lori istinti razzisti e distruttori.

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Jung si allontana da entrambe queste due posizioni estreme. Per lui l’inconscio è un insieme

di forze opposte ma complementari che chiedono di essere organizzate. Esso è composto

prima di tutto da forze antitetiche come quelle dell’Ego e dell’ombra, del maschile e del

femminile e da un infinita serie di polarità alchemiche. Tali forze sono responsabili di tensioni

psichiche in constante fluttuazione. Nonostante ciò tutti questi elementi, grazie alla polarità

del Sé, cercano di organizzarsi in un tutto coerente.

La Concezione junghiana sottolinea la necessità di stabilire un giusto equilibrio tra gli

elementi dello psichismo. L’armonizzazione dell’Ego cosciente e dell’ombra, che Jung

definisce come “la totalità dell’inconscio”, è particolarmente importante. Questo processo

richiama la visione taoista della realtà, secondo cui l’universo risulta dall’armonizzazione

costante e invisibile dalla polarità tra yin e yang.

3.2 Gestire la propria ombra

Non si può fuggire da un dilemma eliminandone un aspetto. È importante accettare la

tensione che nasce tra l’io ideale e l’ombra. Inizialmente non sarà facile ma con il tempo nel

profondo tali poli da opposti diventeranno complementari. Il difficile confronto tra Ego e

ombra ha ricevuto molteplici definizioni nella letteratura simbolica . Per esempio gli

alchimisti lo chiamano nigredo, i mistici, le notti di fede; nei miti di Osiride e Dioniso lo si

descrive come smembramento della persona, mentre nello sciamanesimo si parla di

spezzettamento o di cottura nel calderone. In tutti i riti iniziatici il conflitto viene descritto

sotto forma simbolica di tortura o di una sepoltura .

Durante la crescita ogni individuo si troverà a vivere emozioni inaccettabili come anche forti

pulsioni istintuali. È necessario che impari a non dare ad essi libero corso ma allo stesso

tempo a non rimuoverli.

Molto spesso accade che non si è coscienti di tale necessità e il sistema cerca in qualche modo

di dare dei segnali che facciano in modo che si riequilibri come una malattia, un

licenziamento,un fallimento.

In molti potrebbero credere che tutta questa trasformazione possa avvenire naturalmente ma è

importante sottolineare che questo percorso esige coraggio.

Molte persone vivono in maniera dualistica: amano o odiano, lavorano o si riposano, si

prendono cura degli altri o si prendono cura di sé, esprimono i propri sentimenti o li

reprimono e così via.

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La polarità fa sì che siamo incapaci di considerare contemporaneamente i due aspetti di

un’unità e costringe la nostra conoscenza a muoversi seguendo una successione da cui

nascono i fenomeni del ritmo, del tempo e dello spazio. Per esempio, nel respiro,

l’inspirazione deriva dall’espirazione e senza il suo opposto non potrebbe esistere; se uno si

rifiuta di espirare non potrà poi nemmeno inspirare. Un polo non può esistere senza il suo

opposto. Dietro alla polarità sta l’unità quell’uno che racchiude tutti gli opposti non separati.

Questa dimensione viene chiamata anche Universo che per definizione comprende tutto per

cui nulla può esistere senza questa unità.

3.3 L’acqua come metafora

In natura tutto è polarizzato e simmetrico, ma in maniera imperfetto. Nella realtà visibile non

esiste una linea perfettamente diritta, né il cerchio o la sfera perfetti. Nel mondo, tutto è

dinamico e tende alla perfezione ma non c’è cosa che possa essere considerata perfettamente

simmetrica. Da sola l’acqua non potrebbe condurre bene l’elettricità. L’acqua pura a bisogno

di impurità per realizzarsi. Basta aggiungere un piccola quantità come un pizzico di sale

affinché essa si trasformi in un ottimo conduttore. Con un po’ di impurità l’acqua diventa una

forza assai potente. Tale elemento può definirsi come quel informazione che, mescolata

all’acqua, crea una nuova forma e la possibilità di accrescere ulteriormente l’informazione.

Paradossalmente, proprio in virtù delle sue imperfezioni, l’acqua è spinta ad anelare alla

perfezione e costruisce armonia e bellezza del nostro mondo visibile.

L’essere umano, che è parte integrante della natura, è imperfetto e può evolversi lavorando sui

propri errori. L’insegnamento dell’acqua ci dice quindi che colui che pensa di essere perfetto

o che crede che la natura viva in uno stato di perfezione è destinato a fallire e ad avere per

questo una vita dolorosa.

Gli antichi Cinesi spiegavano come l’acqua racchiude in sé l’equilibrio in natura tra i due

principi bipolari, femminile e maschile. È insieme yin ( polo negativo), nel suo tendere a una

certa stabilità, e yang (polo positivo) nella sua capacità di muoversi, evolversi e trasformarsi.

L’acqua ci porta a guardarci dentro, a scoprire parti di noi che non vorremmo vedere, paure

che sono con noi da infinite generazioni. Guardare nell’acqua non è fermarsi ad osservare la

superficie, significa penetrare nella sua trasparenza, nella nostra natura. Rappresenta il

guardiano messo davanti al nostro inconscio nella via di accesso ad esso. Kafka in un suo

racconto, “Davanti alla Legge”, scrive come tutti ci troviamo di fronte a una porta guardata a

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vista da un guardiano che ci intimorisce, ma siamo solo noi a impedirci di entrare perché

come il custode nella storia fa osservare al protagonista, quella porta è solo socchiusa ed è

destinata a noi e a nessun altro.

Lao Zi insegna che l’acqua è un insuperabile maestra di comportamento. È questo uno dei

suoi insegnamenti paradossali: se vuoi essere forte devi saperti piegare, devi essere flessibile.

Freud osservava come nei nostri sogni l’acqua rappresenta i desideri più profondi e il

godimento del rapporto sessuale. All’opposto, l’acqua è anche il substrato delle nostre paure

più profonde: di annegare, di non respirare, della sofferenza prima della morte.

Il ruolo importante dell’acqua per la vita non è in contraddizione con il suo ruolo nelle

esperienze di morte. In essa infatti vita e morte coesistono sempre: ce lo ricordano il trauma

quasi morte del nascituro durante il parto e la rinascita spirituale ottenuta con

l’“annegamento” nel bagno rituale. L’acqua quando è quiete evoca il silenzio e la calma della

meditazione; in opposizione il mare in tempesta può rappresentare l’agitarsi di tutte le

emozioni. Le proprietà adesive dell’acqua rimandano al sentimento più nobile: l’amore.

L’acqua aderisce a tutto e si adatta sempre alla forma di ciò che si prepara a contenerla.

L’amore è lo stimolo più forte che abbiamo per promuovere la vita e la sua qualità

paradossale è proprio quella di assorbire e di farsi assorbire, senza per questo sacrificare nulla

della sua identità.

La vita reale ci chiede di crescere di imparare a fare i conti con le perdite, con il dolore, con la

rabbia e con la paura, ma anche con i successi, con gli affetti e con il piacere.

3.4 La rabbia

La rabbia è un indicatore emotivo (o empirico) che fa capo al codice empirico yang. La rabbia

“sana” come definita da alcuni, non comprende in sé nessun elemento di violenza gratuita e

distruttrice ma ha in se unicamente le componenti per permettere all’uomo di affermare se

stesso durante la propria vita.

Per Felliozat gli impulsi aggressivi sono sani mentre i desideri di distruggere, di fare del male,

di ammazzare non sono pulsioni, ma impulsi-reazioni alle spinte aggressive. La violenza e il

desiderio di potere nascerebbero dal sentirsi impotenti. La rabbia in questo senso ha quindi

origine dalla storia personale dell’individuo.

Golman afferma che la rabbia distruttiva ha origine da fenomeni di alienazione sociale e di

disperazione del singolo individuo ampiamente presente nelle società moderne.

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Gli uomini se in armonia e nel pieno libero fluire non utilizzeranno mai la rabbia per

distruggere. Gli individui pieni di angoscia, nello stato alterato, potranno invece giungere a

comportamenti aberranti senza averne a volte la reale consapevolezza.

Chi è sordo alla rabbia non acquisirà la libertà di affermarsi in quanto non avrà le risorse per

lottare e difendere se stesso, le persone che ama, i propri diritti, valori, idee e sentimenti, la

propria autenticità.

Per fare ciò avrà bisogni di delegare altri diventandone dipendente oppure sarà costretto a

ritirarsi in un isolamento protettivo.

Una persona colma di rabbia metterà invece in atto in ogni momento e in tutti gli ambiti della

vita compresi quelli affettivi comportamenti di controllo, autoritari giungendo a atteggiamenti

di violenza verbale, fisica e psicologica. Il conflitto e la sopraffazione diventerà la principale

se non unica loro forma di comunicazione sia in campo sociale che affettivo.

Il rapporto della rabbia nella società moderna potrebbe essere definito schizofrenico. Da una

parte essa spinge gli individui ad accentuare comportamenti individuali selvaggi e di

esasperata competitività proponendo costantemente messaggi pubblicitari, trasmissioni e

videogiochi violenti e anaffettivi; per contro giudica come incivile e segno di debolezza

qualsiasi manifestazione di rabbia. Gli individui alla vista di tali messaggi incoerenti si

trovano confusi.

I bambini di fronte a siffatti modelli alterati non imparano ad accettare e ad esprimere in

modo coretto la propria aggressività. Frasi del tipo: “sei cattivo!”, “Farai morire la

mamma!”, porteranno solo a far crescere il bambino in maniera frustrata, impotente e

incapace di affermarsi di fronte agli altri.

Entrare in conflitto con se stessi o con altri non significa imporsi o iniziare una guerra, ma

vuol dire imparare a costruire forme di confronto fra universi diversi aventi caratteristiche e

esigenze differenti.

L’evitare sistematico del conflitto crea nella persona forti accumuli di rabbia inespressa, come

i rifiuti subiti in silenzio, i sensi di colpa per aver desiderato, parole non dette per paura di

ferire l’altro o per paura della risposta. Fromm scrive nel libro “L’arte di amare”: “..senza la

libertà di affrontare i cambiamenti ed i conflitti esistenziali non esisterà nessuna forma di

amore”. Se si è capaci di dire NO, si potranno dire dei veri SI. Non si tratterà di sì di

sottomissione o rassegnazione ma sì di una qualità diversa e autentica.

Per il bambino imparare a dire No ai propri genitori significa iniziare a lottare per costruire la

propria identità.

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È importate nel confronto imparare ad utilizzare un linguaggio che abbia il pronome “io” e

non “tu” tutte le volte che si sceglie di esternare la propria rabbia. Come ad esempio: “Io mi

sento usata quando tu ti comporti in questo modo!” e non “tu sei un egoista e non ti interessa

nulla di me…”. Iniziare un conflitto adoperando giudizi che tolgono valore o recano offese

non farà altro che accendere nell’altro una naturale reazione di difesa allo stesso modo

offensiva e mortificante. A nessuno fa piacere subire attacchi o essere ferito. La rabbia è un

mezzo per affermarci, difenderci e non per umiliare, annullare e abusare gli altri anche se,

come precedentemente accennato, è un diritto yang potervi accedere e sperimentare tali

pulsioni.

La rabbia nella sua forma integrata è di solito immediata, chiara e diretta; di seguito alcuni

termini usati per descrivere tale emozione: collera, irritazione, ira, rancore, risentimento,

stizza, irrequietezza, furia, astio, furore.

3.5 La paura

La paura costituisce uno degli indicatori empirici o anche di sicurezza che fa capo ai principi

dell’ombra yin. Si presenta quando l’uomo inizia a percepire vicino a se una minaccia questo

significa che il compito di questa emozione è di segnalare situazioni e persone ritenute fonte

di pericolo al fine di attivare il comportamento più adeguato come la fuga o il combattimento.

Senza di essa l’individuo non potrebbe imparare a confrontarsi con il proprio ambiente.

Quando si cerca di nascondere le proprie paure, prima di tutto a se stessi, il risultato è di

essere guidati inconsciamente da esse per tutta l’esistenza. La paura può essere generata dal

fatto di percepirsi inadeguati, non all’altezza, deboli, brutti oppure può essere provata in

occasioni di esami e situazioni sociali di gruppo, o in ambienti e situazioni nuove o poco

conosciute. Tale segnale è sano finché la persona non ci casca dentro.

Un individuo insensibile alla paura non sarà in grado di riconoscere i pericoli che gli si

presenteranno lungo la vita mettendo a repentaglio la propria sicurezza fisica, sociale e

psicologica. Una persona piena di paura avvertirà il mondo come minaccioso e si muoverà in

esso con diffidenza e fuggendo nel suo rifugio ogni volta che gli si presenteranno nuove

situazioni o circostanze non decodificabili nell’immediato.

Paura di che cosa? Perché mai l’uomo dovrebbe temere proprio ciò che gli consentirebbe di

realizzarsi pienamente e di vivere più felice? Le possibili risposte a questa domanda sono

numerose: perché cambiare significa abbandonare le certezze del presente per un futuro

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sconosciuto; perché come dice Hellinger significa perdere il senso di appartenenza, uscire dal

gruppo, affrontare la solitudine; perché significa abbandonare i piaceri più facili, ritardare

l’appagamento, impegnarsi e sforzarsi ecc.

C’è però una risposta che racchiude quanto appena descritto: l’uomo ha paura di abbandonarsi

alla spinta evolutiva perché ha paura di essere annullato, distrutto, perdere la sua identità,

morire.

L’uomo che ha paura non può veramente amare, in quanto amare vuol dire aprirsi

completamente, rendersi vulnerabili, senza barriere.

E qui inizia il circolo vizioso, la profezia che si autoadempie. Ciò che viene represso per

paura, non scompare, ma alimenta l’ombra e il sé inferiore. Tutto ciò che finisce nell’ombra

prima o poi imputridisce e assume una valenza realmente negativa, come un animale che

viene chiuso dentro una gabbia e diventa furioso. Ciò che fuoriesce dall’ombra fa sempre più

paura, perché si è inquinato e degenerato. E questo rinforza il bisogno di reprimere.

L’individuo diventa così preda di due forze contrapposte: la spinta verso il contatto e il rifiuto

di questo, prodotto dalla paura. La paura fa nascere due sostanziali reazioni difensive: il

desiderio di ledere o la paura di essere feriti.

Ma la paura è un elemento importante per l’uomo se gli si da e gli si riconosce il giusto posto.

3.6 Senso di colpa

Anche il senso di colpa fa capo al codice yin. È una emozione che permette di contenere le

pulsioni distruttive e di prendere coscienza della sofferenza dell'altro. Considerato in questo

modo può avere anche sfumature costruttive dato che mette in guardia nel caso che si stiano

superando i limiti, costringe ad una messa in discussione e ad un'assunzione di responsabilità.

Il senso di colpa è un meccanismo della coscienza che, se non è alterato, comunica un disagio

e ci rimprovera quando facciamo qualcosa che infrange il nostro codice morale,

perseguitandoci fino a quando non ci attiviamo per recuperare con un gesto riparatore.

Tentare di “evitare” il senso di colpa, vuol dire comportarsi in maniera da evitare di fare del

male ad un'altra persona. Il senso di colpa è una reazione ad una nostra azione “cattiva”,

illecita, crudele o disonesta che necessita di un riconoscimento delle proprie responsabilità.

Comunque può succedere che la colpa non sia connessa ad un atto specifico, ma nasca da un

senso di inadeguatezza non compreso, da un senso di incapacità, di disagio non chiaro, può

cioè sorgere da scenari più profondi della nostra interiorità, non necessariamente associati

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all'esperienza di vita pratica, trasformandosi in un'angoscia legata al convincimento di essere

inadeguati, inferiori, incapaci di essere amati e apprezzati.

E' certamente interessante notare come l'educazione religiosa cattolica ci insegni che ognuno

nasce macchiato dalla “colpa” del peccato commesso dai nostri progenitori quando

disobbedirono all'ordine divino e per questo furono cacciati dall'Eden.

Il senso di colpa invece ha a che fare con la nostra storia personale, con le esperienze di vita

fatte fin dall'infanzia. Il sentimento di colpevolezza nasce dal nostro “giudice interiore” che ci

mette di fronte agli insegnamenti che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, dalla religione e

dalla regole sociali, come se si dovesse pagare un prezzo in termini di sofferenza interiore per

avere osato desiderare qualcosa di vietato. Infatti basta solo aver pensato di violare una

“regola” per vivere una sensazione di disagio, per non sentirsi più la coscienza pulita. Il

bambino impara molto presto a sentirsi in colpa per non aver soddisfatto le aspettative degli

altri e spesso quando è spettatore di un divorzio, di una malattia o di una sofferenza dei

genitori, si convince di essere responsabile, come se effettivamente tutto ciò che è doloroso o

“negativo” fosse, per qualche ragione, colpa sua.

Il sentimento di colpevolezza può celare un senso di onnipotenza (“è tutta colpa mia!”), una

specie di volontà di controllo sugli altri e su ciò che si vive, un meccanismo perverso che ci

costringe a vivere nella dipendenza, lasciando agli altri il potere di liberarci. La maggior parte

delle persone che si sentono colpevoli soffrono, in qualche modo la paura dell'abbandono, il

timore di perdere un amore o l'approvazione degli altri. Il sentimento di colpevolezza infatti

induce ad adottare una certa condotta in funzione della fedeltà al gruppo di riferimento e al di

fuori del quale ci si sentirebbe persi. La possibilità di fare una scelta fuori dal coro spaventa, è

forte la tentazione di rimanere fedeli al gruppo rinunciando a se stessi e alla propria vera

identità. Ma l’innocenza è prevista empiricamente solo nel ruolo del bambino, sentirsi in

colpa e non assumersi le proprie responsabilità significa rimanere relegati nel ruolo del

piccolo. Crescere vuol dire rispondere dei propri atti e allo stesso tempo liberarsi dai

condizionamenti e dalla paura di infrangere imposizioni e regole, adottando un

comportamento rispettoso verso il gruppo, ma senza rinunciare a sé.

Uno dei pericoli cui si incorre non facendo i conti con questa realtà è quello di lasciarsi vivere

orientandosi verso scelte senza ambizioni o evitando accuratamente obiettivi impegnativi.

C'è chi per alimentare tale bisogno mangia tanto, specialmente cibo ipercalorico, per poi

sentirsi in colpa verso se stesso e verso gli altri che vengono percepiti come giudici sempre

pronti a dire la loro. Il rapporto con il cibo ci dice qualcosa della nostra capacità di

relazionarci: non sentirsi mai sazi di cibo è come non sentirsi mai sazi dell'amore che ci

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donano gli altri, giudicandolo sempre insufficiente. Si crea una grande dipendenza dagli altri e

soprattutto una grande mancanza di fiducia e autostima, si mangia per riempire vuoti di affetti

e ci si sente in colpa subito dopo per non riuscire ad aderire ai canoni dettati dalla società in

tema di immagine. E' raro gustare un pasto come momento di puro piacere, nella maggior

parte dei casi si finisce per non conoscere affatto i propri cibi preferiti così come si ha

difficoltà a scegliere partner o amicizie che veramente fanno stare bene.

Un altro comune senso di colpa è legato al vissuto di quei figli che non si occupano dei

genitori anziani: chi decide di non vivere con i propri genitori anziani può sentirsi ingrato o

traditore e spesso immagina che un giorno sarà abbandonato a sua volta, giusta punizione per

il suo egoismo. Se il tempo dedicato ai propri genitori, per necessità o per scelta, è poco, è

importante far sì che diventi comunque un momento intenso, interamente dedicato a loro. Non

è raro che a decidere di tenere con sé il genitore sia proprio quel figlio che è stato trattato

meno bene, lui sarà spinto da un desiderio inconscio di ricevere quell'amore che gli è

mancato, credendo in tale modo di poterlo finalmente ottenere offrendo le sue cure. I figli che

hanno ricevuto una qualità d’amore sufficiente, sono meno condizionati da questo tipo di

desiderio profondo.

Le madri che lavorano si possono sentire in colpa per il fatto di lasciare i propri bimbi da soli

tanto tempo. Gli effetti di questo tormento si possono osservare nella perdita di autostima e di

interesse per il lavoro, nella somatizzazione, nell'aggressività o, a volte, nella smisurata

indulgenza verso i figli. A volte si fa l'errore di non accettare la vita che si è scelta e

rimproverarsi è più facile che prendere coscienza di quello che si desidera davvero: “Perché

sono rimasta incinta se sapevo che poi avrei dovuto occuparmi dei figli? Perché non ho

lasciato il lavoro?”

In realtà è la qualità dell’amore e del tempo che si trascorre con i figli ad essere importate e

sarà sicuramente più nutrienti di una presenza continua ma distratta o, peggio ancora,

esclusiva e soffocante.

Lo stesso vale anche per quei padri divorziati che sono costretti a vedere i propri figli

sporadicamente. Molti cercano di conservare la loro autorevolezza ma si sentono presto

rifiutati ed iniziano a recitare la parte di padre-amico-permissivo. Questo li aiuta a sentire

meno quel senso di colpa che nasce puntuale dalla sensazione di aver deluso le aspettative che

il ruolo di padre richiede. Un “buon padre” dovrebbe essere sempre presente, ascoltare i figli,

incarnare “le regole”, essere un modello. E se tutto questo non si raggiunge? Si ha la

sensazione di aver fallito, di perdere l'amore dei propri figli.

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4.Il dolore

Dai parola al dolore.

La pena che non parla mormora in fondo

al cuore e lo invita a frantumarsi.

William Shakespeare.

Già, forse il dolore è la grande scuola

della quale fuggiamo

ma la sola che forgia

nuova ricchezza interiore.

Letizia Espanoli

4.1 Il dolore dal punto di vista filosofico

La filosofia considera il dolore come momento del più vasto problema del male. Gli antichi

Greci pensavano che il dolore fosse un ostacolo alla felicità, e quindi uno stato della coscienza

da eliminare, dato che consideravano la felicità come scopo della vita umana: naturalmente,

considerata la difficoltà di eliminare il dolore dalla vita fisica, pensavano che l’eliminazione

di esso si potesse raggiungere sul piano della meditazione filosofica, e dal superamento delle

passioni. Nell’antica Grecia si pensava che un dolore che affliggeva più persone, cessa di

essere patimento, solo per il fatto di essere intersoggettivabile comunicabile, modificandosi in

un qualcosa di molto simile al disagio o al malessere, ossia alla mezza contentezza. Un

qualcosa di condivisibile con gli altri uomini, sia sul piano della cognizione e dell'esperienza

che su quello della ragione, ci fa comprendere d'essere pezzi di qualcosa, di non essere delle

isole ma parti di un continente, d'essere uomini che sanno di godere e di tribolare insieme. Un

uomo ha sempre la pretesa di soffrire di più di chiunque altro perché non partecipa con altri

uomini a tale tormento e quindi del suo dolore per il fatto d'essere unico ed irripetibile, sarà

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anche indefinibile e incomunicabile. Nella Grecia antica l'espressione Paqos è ogni affezione

dell'anima che sia accompagnata dal piacere o dal dolore, dove il piacere e il dolore sono

segno di una reazione immediata dell'essere vivente ad una situazione favorevole o

sfavorevole tale che questi sia disposto ad affrontare la situazione con tutti i mezzi di cui sia

in possesso.

Il filosofo Platone dichiara che il dolore si ha quando la proporzione delle parti che

compongono l'essere vivente risulta predominata, compromessa o controllata di modo che

manchi l'armonia, mentre si ha il piacere quando tale armonia venga ristabilita.

Aristotele considera, invece, il piacere come un desiderio oppure uno stato naturale, mentre il

dolore come il contrario di esso. Aggiunge poi che il piacere è definito e determinato dai

movimenti dell’anima, dal ritorno totale e sensibile agli stati naturali ed è qualsiasi azione o

fatto che non è forzato e non è contro la nostra volontà. Il dolore è tutto ciò che è forzato, che

è contro natura; tutti gli affanni, gli sforzi ed i travagli sono considerati dolorosi e se sono

imposti da necessità, se non ci si è abituati. Aristotele definisce anche la paura come dolore

che proviene dalla proiezione di un male ipotetico ma che ci può colpire, portando con sé

distruzione ed anche dolore; infatti ,specifica, che non si ha paura di tutti i mali ma solo di

quelli che possono provocare gravi danni a noi stessi, ed inoltre questi mali non devono essere

lontani da noi, ma molto prossimi. Infine il dolore, per Aristotele, è un indicatore di una

situazione ostile, sfavorevole in cui l’essere vivente è “costretto” ha vivere mentre il piacere,

o la gioia, come situazione favorevole.

In Oriente, per il Buddha, il dolore venne assunto come elemento determinante e caratteristico

della vita degli uomini, il quale indicò proprio nella scomparsa di esso il principio della

felicità, il raggiungimento della non sensibilità, il Nirvana. Per il Cristianesimo, invece,

l’interpretazione del dolore mutò radicalmente, fino a diventare il mezzo di purificazione ed

elevazione morale, trovandosi in Gesù Cristo l’esempio più alto della virtù redentrice del

dolore. Infatti per la Chiesa l’espiazione dei peccati avviene solo attraverso i dolore, basta

pensare alla crocifissione, Cristo per mezzo di quel dolore fisico riuscì a purificare se stesso e

l’umanità dai peccati. Tutta l’ascetica cristiana è, di conseguenza, rivolta appunto

all’enunciazione delle varie forme di riscatto dell’uomo attraverso la prova e la sofferenza.

Secondo Schopenhauer la vita è dolore per essenza poiché l’essere è la manifestazione della

volontà infinita.

L’uomo è destinato a non trovare mai un appagamento definitivo. La soddisfazione finale è

solo apparente e dà presto luogo a un nuovo desiderio. Perché ci sia piacere bisogna per forza

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che ci sia stato dolore ma non è vero il contrario. Il dolore è un dato primario, il piacere è solo

una funzione che deriva da esso. La noia subentra quando viene meno il desiderio.

La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando

attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.

4.2 La fuga dal dolore

Lei, invece, non solo non lo aveva dimenticato,

ma ricordava con precisione certosina

ogni minimo dettaglio di quanto

era successo e ogni parola detta o sussurrata.

L’unica cosa che aveva cancellato

dalla sua mente era la delusione di essere stata

ingannata

Isabel Allende, La figlia della fortuna

“Non piangere!”, “Non ci pensare, vieni che andiamo a divertirci!”, “Se smetti di piangere ti

compro un gioco!”. Tutte frasi usate per scappare dal dolore fuggendo nel piacere. Molto

spesso i genitori o chi è vicino ad una persona che prova dolore, incapaci di tollerare tale

sofferenza cercano di spingere l’altro ad interrompere la propria manifestazione allettandolo

con offerte di divertimento, giochi ecc.

Spesso tale atteggiamento porta i genitori e chi si comporta così a sentire un senso di colpa e

inadeguatezza nel ricoprire tale ruolo vivendo il dolore dell’altro come la dimostrazione delle

loro colpe e di essere veramente sbagliati.

La prima delle quattro nobili verità del buddhismo insegna che la vita è difficile, che c'è la

sofferenza (Peck, 1978). Per quanto ci diamo da fare, non possiamo sfuggire al dolore che si

accompagna indissolubilmente alla vita. Non possiamo sfuggire alla malattia, alla vecchiaia,

alla morte. Eppure è ciò che tentiamo continuamente di fare: cerchiamo la felicità sfuggendo

al dolore. Ma il dolore negato, rimosso, ci segue come un'ombra. In tal modo, al posto del

dolore reale, ricadiamo in un dolore molto più durevole e grande.

Page 46: L'altra faccia della medaglia - Cristina DONATI

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Il dolore reale, se accettato fino in fondo, vissuto pienamente, condiviso, ci fa crescere e

maturare come esseri umani.

Se superiamo la nostra tendenza narcisistica a rifuggire al dolore, ad arrabbiarci con il destino,

a sentirci vittime perseguitate ingiustamente, se solo apriamo gli occhi e vediamo che questa è

la condizione umana comune, allora possiamo considerare il dolore la strada da percorrere per

diventare adulti e vivere.

Una giovane donna di nome Kisagotami perse il suo unico figlio di circa un anno, a

causa di una malattia. Disperata girava il villaggio di casa in casa, stringendosi al

petto il cadavere del bambino e implorando una medicina che lo facesse tornare in vita.

I vicini pensavano che fosse impazzita, ne avevano paura e cercavano di evitarla. Un

uomo, invece, cercò di aiutarla indirizzandola al Buddha, dicendole che lui aveva la

medicina che cercava. Kisagotami andò dal Buddha - come noi andiamo dallo

psicoterapeuta - e lo implorò di darle quella medicina.

“Ne conosco una che potrebbe fare al caso tuo”, disse il Buddha, “ma ho bisogno di

una manciata di semi di senape provenienti da case in cui non siano mai morti né

bambini, né genitori, né coniugi, né servi”.Mentre faceva il giro del villaggio,

Kisagotami lentamente comprese che non era possibile trovare una casa di quel genere.

Depose il cadavere del suo bambino nella foresta e tornò dal Buddha.

“Mi hai procurato i semi di senape?” chiese questi.

“No rispose lei. La gente del villaggio mi ha detto: i vivi sono pochi, ma i morti sono

molti". “Pensavi di essere la sola ad aver perso un figlio”, disse il Buddha, “ma

lalegge della morte vuole che nessuna creatura vivente duri in eterno”.

Qualche tempo dopo Kisagotami prese i voti e divenne una seguace del Buddha. Una

sera si trovava in cima alla collina e lontano vide giù nel villaggio le luci che

splendevano nelle case. “La mia condizione è simile a quelle lampade”, rifletté.

Si narra che il Buddha le comparisse in una visione, confermando questa sua

intuizione. “Tutti gli esseri viventi somigliano alle fiamme di questelampade”, le disse,

“ora splendono, l'attimo dopo sono spente; solo coloro che raggiungono il Nirvana

sono al sicuro”

Page 47: L'altra faccia della medaglia - Cristina DONATI

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Questa storia è una parabola sulla morte, sull'impermanenza e sulla trasformazione del dolore.

Kisagotami guarì nel momento in cui si rese conto che il suo problema non era unico, ma

universale. Spostando l'attenzione dal proprio trauma alle luci vacillanti del villaggio aveva

compiuto un salto quantico: aveva visto con chiarezza che la sua tragedia era la più comune

delle esperienze. Accettando la sua perdita, e non più negandola o rifiutandola, Kisagotami

aveva potuto scoprire una realtà più grande.

Il dolore, accettato come parte della realtà, e attraversato volontariamente, ci rende dolci e

gentili. Il dolore rifiutato, ci rende duri e crudeli, con noi stessi e con gli altri. Perché

rifiutiamo il dolore? Perché ne abbiamo paura. La paura ci assale nel momento in cui ci

sentiamo separati dal mondo, divisi dagli altri, e quindi frammentati al nostro interno.

L'identificazione nell'ego è espressione di orgoglio e arroganza: “Io, io, io”. “A me non deve

succedere”, “I miei genitori non mi hanno dato sufficiente affetto”, “La società mi ha tarpato

le ali”, “Io meritavo di più”.

La persona con un grande ego sviluppa una volontà personale e modi di fare in continua

opposizione a quanto previsto per l’equilibrio del sistema. Nuota contro corrente. Non può

rilassarsi: deve sempre controllare, lottare, contrapporsi alla sorte. Non si affida, ma sviluppa

la tendenza a forzare. Perde sempre più connessione e integrità. Soffre per un dolore non

necessario, un dolore sterile, distruttivo. In quel dolore non c'è senso alcuno: di qui la

crescente disperazione, il senso di inutilità e fallimento. Tutto ciò che ottiene è precario,

perché si attacca alla superficie delle cose, alle apparenze, a ciò che non è veramente

importante.

A fronte di questa malattia comune, la società in cui viviamo offre i suoi rimedi: la ricerca

della felicità attraverso il possesso di beni materiali, il potere sulle persone, l'identificazione in

un ruolo di prestigio, la carriera, il successo. E' la via dell'alienazione dal vero sé. E' la via

delle dipendenze quali cibo, alcol, sesso, droga, denaro, potere, una via distruttiva, che

aggrava il male che pretende di curare. La nostra società ha orrore per ciò che non può

controllare e assoggettare ai suoi schemi. Così incoraggia la soluzione più facile: alimentare il

narcisismo perseguendo la soddisfazione immediata dei bisogni. Di fronte al vuoto

esistenziale, alla mancanza di significato, ci propone un continuo giostra di stimoli:

alimentari, acustici, visivi, cinestesici. Ci culla dal mattino alla sera in un mondo falso e

illusorio. Non c'è più luogo in cui si possa stare in silenzio, senza radio, senza musica, senza

televisione, senza rumore del traffico. Meditare, riflettere, stare in intimità con se stessi e con

gli altri è sempre più difficile. Come dice Fromm l'uomo di oggi ha paura della solitudine e

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del silenzio Nella solitudine affiorano alla sua coscienza i demoni che ha cercato

disperatamente di affossare nell'ombra. E per fuggire ai demoni, sfugge a se stesso.

4.3 Riconoscere il proprio dolore

Secondo il pensiero di Miller ad un certo punto del percorso di crescita è possibile rendersi

conto di come siano stati precedentemente trattati i propri sentimenti di rabbia e frustrazione,

inclusa l’angoscia che spesso ne consegue. Come se quello fosse stato creduto l’unico modo

di sopravvivere, realizziamo che abbiamo soffocato stati d’animo e bisogni, abbiamo

minimizzato la portata della nostra esperienza o , addirittura, non ne abbiamo assolutamente

percepito il significato profondo. Il bambino che così ha costruito il suo modo di reagire al

dolore, da adulto a poco a poco comincia a rendersi conto che “quando è commosso,

impressionato o triste, cerca disperatamente di distrarsi” .

Chiunque per non sentire il dolore lacerante mette in atto un infinità di strategie di

compensazione che con l’andare del tempo formano un vero e proprio copione. Lo scopo è

quello di camuffare in maniera ermetica un debito. “Così ciò che si è subito da bambini, ciò

che si è ricevuto, quello di cui si è stati privati, ogni separazione, abbandono o tradimento

trovano il loro posto dietro tale maschera, sentendosi protetti da essa”11. Continuando su

questa strada si scoprono sentimenti, che una parte di noi vorrebbe ancora soffocare ma la

porta è stata aperta, non si può continuare ad essere ciechi.

L’armatura che impedisce di sentire, il sentimento che ci illudiamo di non provare è solo un

rimedio momentaneo che non modificherà ciò da cui ci sentiamo minacciati. Sarà la necessità

a farci avvicinare alle cause del malessere profondo che ci affligge e facendoci vicinale alle

ferite affettive mai ammesse e nascoste alla perfezione. Si sarà costretti a riconosce una

qualità d’amore non sufficiente da parte di chi ci ha amato, ammettere quanto la consegna

della famiglia di appartenenza sia inquinata, riconoscere abbandoni, abusi sessuali, tradimenti,

responsabilità mancate verso di se stesse e verso gli altri.

4.4 Cos’è il dolore psicologico?

11 M. Hardy, La grammatica dell’essere, Lumh

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“A volte arriva come un onda lunga e lenta che, partendo dalla pancia, si inerpica lungo lo

stomaco e raggiunge i polmoni e la gola facendoli urlare ed esplodere. Altre volte, invece,

sembra più simile a un coltello che, conficcandosi nella carne, apre piccoli varchi per

rigagnoli di lacrime calde e silenziose. In molti casi si presenta come un rumore di

sottofondo, incessante e fastidioso, o come un peso che comprime il petto, il ventre e le

gambe. Può persino giungere a rubare il respiro, le parole, le energie e la vita stessa.

Comunque sia quando decide di fare la sua comparsa, l’esistenza inizia a riempirsi di

tristezza, di disperazione, di rabbia, di lacrime e di urla”.

Se la paura, nella storia umana ha sempre avuto il compito di segnalare la presenza di un

pericolo, al dolore è toccato il compito di aiutare l’uomo ad affrontare le frustrazioni, i traumi

e le perdite esistenziali. Non ci sono strategie di risposta a tale emozione, il dolore va vissuto

e basta. È esprimendolo che si apre la strada per superare i lutti e ritornare alla vita. Nella

società moderna e occidentale il dolore viene quasi sempre demonizzato. Molti insegnamenti

datici fanno allontanare dal vivere il dolore in maniera naturale. Frasi come: “Non si piange”,

“piangere non serve a niente”, “devi essere forte, non vorrai far preoccupare i tuoi genitori”

porta la persona ad essere incapace di esprimere il proprio dolore.

La verità è che non c’è una risposta esatta ed esaustiva su cosa sia il dolore psicologico anche

se esso è parte di noi da sempre. Già dal primo giorno di vita ne facciamo esperienza, nel

momento in cui, dopo l’ultima contrazione uterina, veniamo scaraventati brutalmente al

mondo. Otto Rank individuò nel trauma della nascita il primo vero grande dolore umano.

È bizzarro come del dolore fisico conosciamo quasi tutto sia esso mal di testa o di denti,

dovuto a operazioni o fratture. Conosciamo la sensazione di stanchezza e di sentire il corpo

dolorante. Il dolore del corpo è anche facilmente localizzabile; nella pancia, nelle ossa, nella

testa, ecc.

Ma per quanto riguarda quello psicologico non è la stessa cosa. Dove è localizzato? Che

forma ha? Perché pur avendolo vissuto tutti ne sappiamo così poco?

Lo abbiamo sentito profondamente quando abbiamo perso qualcuno o in seguito a rifiuti o

dopo abbandoni affettivi, delusioni. A volte ne siamo stati così avvolti da desiderare di

chiudere i conti dell’esistenza con la morte o l’annullamento sia nostro che degli altri.

Conoscere il dolore è un passo importante per l’evoluzione, è solo attraverso la sua

espressione che la persona può permettersi di iniziare quel processo chiamato elaborazione

del lutto, necessario per affrontare e superare tutte le perdite che si faranno avanti nel corso

della vita.

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Non esprimere il dolore non significa essere forti o duri o persino migliori di altri, ma farà si

che si verrà privati della possibilità di vivere appieno e profondamente le sconfitte, i rifiuti, gli

abbandoni e la morte.

Chi non potrà vivere pienamente il dolore conseguente le perdite, non potrà indirizzarsi verso

nuovi investimenti affettivi, intellettivi e sociali. Passerà il resto della vita collegato al passato

e terrorizzato dal nuovo e dallo sconosciuto e in continua fuga da se stesso.

La società moderna non aiuta gli individui ad accettare e conoscere il proprio dolore che fa si

che con il tempo questo si trasformi in angoscia. Se non affrontata con il tempo si manifesterà

nel corpo e nella mente in maniera più o meno grave. Oggi alcuni studi ci dicono che anche il

cancro possa essere una conseguenza di lutti mai elaborati. Un bisogno che chiede di essere

soddisfatto è un bisogno che necessita comunque di una risposta. Se il segnale dell’angoscia

non trova un riscontro la psiche si trova costretta ad utilizzare meccanismi di difesa. Tali

meccanismi hanno il compito di evitare prolungate sofferenze ma costringerà l’individuo a

muoversi in un ambiente alterato che farà nascere ed aumentare il suo debito empirico.

L’individuo disimparerà nel tempo a percepire ciò che è reale a favore di falsi bisogni.

Avremmo così a che fare con individui sordi verso se stessi e che si faranno guidare nel corso

della loro vita unicamente dal dovere e da esigenze di immagine.

Il dolore, pur costituendo uno dei “colori” fondamentali dell’esperienza umana è una

emozione “scomoda” che non si impara ad affrontare fin dall’infanzia e si continua ad evitare

anche da adulti. L’esperienza e l’espressione autentica del dolore psicologico non rientra nel

modo in cui normalmente le persone affrontano la loro esistenza.

Il dolore è la risposta emozionale ad una circostanza in cui si riscontra una mancanza o una

perdita, come già riferito. Il dolore nella sua espressione immediata, semplice e non difensiva

è riconducibile all’espressione “vorrei, ma non è possibile” (stare con la persona amata,

vivere una certa realtà ecc.). Nel dolore non c’è “tensione” come nella rabbia, o “allarme”

come nella paura, ma una semplice adesione morbida, limpida alla realtà che si traduce in uno

stato fisiologico e psicologico di resa.

4.5 Il dolore e la malattia

Una esperienza emotiva molto forte può generare il dolore psicologico.

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Esempio: perdita o separazione da una realtà (persona, lavoro, salute, ambiente), possono

causare una emozione così forte da segnare un canale sensibile che si ripete in ogni occasione

di esperienze simili a quella che l’hanno generata.

Come per il dolore fisico anche per quello psichico, le emozioni coinvolgono il sistema

limbico del cervello che ci consente di esperimentare diversi tipi di emozioni, per esempio:

rabbia, paura, desiderio sessuale, piacere e dolore. Per causare le normali espressioni delle

emozioni devono funzionare però anche altre parti della corteccia, senza l’influenza delle

quali possono esserci delle reazioni anormali ed incontrollabili.

Nel dolore psicologico è presente una reazione fisiologica di tipo sia simpatico che

parasimpatico: aumento ritmo cardiaco, svenimenti, sudorazione, pianto, contrazioni

muscolari, variazione veglia sonno, fame inappetenza, ecc.

Qualora il dolore psicologico resti a livello non cosciente e quindi non elaborato, ci possono

essere delle sovrapposizioni a livello psicosomatico, che nel tempo lasciano segni evidenti

nella struttura fisica e comportamentale della persona come ad esempio: dolori alla schiena,

pesantezza alle gambe, problema nella deglutizione (nodo alla gola), dolori di testa, ecc.

In questa situazione si rischia spesso di dimenticare il dolore psicologico tanto da viverlo ad

un livello secondario, prendendo in considerazione esclusivamente il dolore fisico, che

potrebbe avere il sopravvento e diventare un dolore cronico patologico fino alla vera e propria

malattia.

Le emozioni troppo dolorose ed escluse dalla consapevolezza con qualche modalità difensiva,

sono nella vita come dei debiti non pagati da cui le persone si scollegano cercando di non

sentire il dolore o stando male in modo superficiale ed irrazionale (depressione, senso di

colpa, senso di oppressione, reazioni psicosomatiche ecc.).

4.6 Il dolore e i bambini

Perché le persone si creano sofferenze atroci e a volte stupide per evitare una sofferenza

autentica che costituisce una componente della esistenza umana?

I “cuccioli umani” non sanno elaborare il dolore, solo con il tempo, durante la crescita

scoprono pian piano il significato e giunti nel ruolo di adulto trovano lo spazio sufficiente e il

modo di integrare questa emozione.

E’ attraverso i genitori durante il periodo di crescita che la persona ha modo di fare

l’esperienza del dolore psicologico vissuto in modo naturale. Ad esempio, fra le braccia della

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mamma che conferma che la nonna è morta, che era tanto cara, che manca tanto, che non c’è

più, ma è stata tanto amorevole. Il bambino sente di avere il permesso di sciogliersi nel

pianto, lasciarsi attraversare dal pianto dirotto, sentire il dolore e gradualmente superare quel

dolore, scoprendo che quel vuoto nel suo mondo lascia comunque intatto, significativo e

rispettabile ciò che rimane.

Così si abitua a identificare la sua esistenza come sua e ricca di significato nonostante

l’assenza della persona ritenuta importante nella sua vita.

Un dolore per ciò che è perso o non può essere ottenuto, resta tale ma viene percepito in

maniera diversa avendogli dato il giusto posto.

Se lasciati soli invece i bambini (come anche gli adulti) sfiorano il dolore e lo classificano

come intollerabile prima di prenderne le distanze difensivamente.

Le difese attuate rispetto al dolore restano come dei blocchi che possono essere rimossi nel

momento in cui si attua un cambiamento consapevole e una crescita dell’individuo.

4.7 Procurarsi dolore

Cosa succede quando oltrepassi la linea di confine,

quella linea sottile che altri istintivamente rispettano?

Cosa accade quando vedi soltanto in bianco e nero?

Cosa quando il grigio diventa indefinito, si indurisce senza pietà?

Cosa quando vivi sul filo del rasoio e allora piangi,

da solo, o il mondo piange con te?

Quanto deve essere tortuoso il tuo pensiero,

quanto devi essere solo e disperato

perché sconfiggi il dolore col dolore?

Majan

Freud, quando formulò il “principio di piacere”, disse che l’uomo ha la tendenza a ricercare il

piacere e ad evitare il dolore Il dolore però in molte situazioni della vita è inevitabile, e

l’uomo deve saperlo affrontare individuando strategie utili più o meno “mature” a seconda del

proprio equilibrio psicologico. Non solo, ma il dolore può addirittura essere attivamente

ricercato per essere utilizzato esso stesso come difesa da un altro dolore più grande. Ad

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esempio, come vedremo, in certi casi di estrema sofferenza psicologica ci si può procurare un

dolore fisico per attutire, confondere o soffocare un dolore psicologico che in un determinato

momento viviamo come intollerabile.

L’autolesionismo è un fenomeno descrivibile come il contrario della cura di sé. In verità non è

così semplice distinguere tali termini. Una mancanza di cura può essere dannosa quanto una

cura eccessiva.

Avere cura di sé rimanda a comportamenti socialmente accettabili come farsi un tatuaggio o

un piercing o alcuno forme di chirurgia estetica.

Con il termine autosofferenza ci si riferisce a tutte quelle forme di comportamento dannose

per la propria salute e il proprio benessere. Comprende sia quelle che provocano danni diretti

al corpo (autolesionismo vero e proprio) sia quelli indiretti come fumare, bere ecc.

Come già accennato un eccessiva cura dell’igiene del proprio corpo può risultare dannosa per

la salute, come anche il fatto di praticare uno sport estremo.

Il bisogno di punizione

A volte nella vita si fanno scelte che ci portano su strade diverse da quelle che i genitori o altri

intorno a noi avrebbero voluto che facessimo. Se tali decisioni non avvengono in modo

coretto, anche lontani a chilometri di distanza un filo continua a collegarci a quella parte di

vita. Una madre malata, una famiglia bisognosa. Uno dei modi che si ha per far fronte al

senso di colpa per aver scelto una strada diversa è di punirsi. Un bisogno che si realizza

facendo sì che una realtà interna o esterna colpisca la propria individualità, danneggiandola. Il

danno ottenuto ha lo scopo di punire l’Io perché responsabile di un ordine; lo scopo della

punizione è quello di alleggerire il senso di colpa.

Qualche volta ciò si manifesta inducendo inconsapevolmente nella realtà comportamenti tali

da far sentire al soggetto umiliazione e annientamento. Il giocatore compulsivo che gioca per

rovinarsi, il fumatore che si distrugge i polmoni o la donna che sceglie un compagno

impulsivo e lo provoca in modo tale da scatenarne la violenza.

Un individuo può umiliarsi, annientarsi, distruggersi per amore incondizionato verso qualcuno

o qualcosa verso il quale si sente in colpa. Il senso di inadeguatezza, di non merito è

conseguenza di un bisogno masochistico di convalida attraverso la sottomissione e il dolore.

Il suicidio

Il suicidio è l’unica condotta in cui vittima e carnefice si identificano nella stessa persona.

Si stima che nel mondo siano almeno un migliaio le persone che ogni giorno decidono di

porre fine alla loro vita suicidandosi. Il 17% di queste morti viene imputato a persone che

presentano affezioni di tipo psichico. Il 33% avviene come un raptus e il 50% come episodio

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in seguito a forti sofferenze dovute nella maggior parte dei casi a lutti, difficoltà economiche

o legali che vanno a ledere l’immagine che la persona ha di sé, o ancora problematiche

sessuali, familiari o matrimoniali.

Si deduce da qui che le cause principali sono la difficoltà di fronteggiare le perdite e

l’incapacità di far fronte alle paure e alle angosce della vita.

Tutte queste persone mancano di autostima, quella necessaria per accettare i fallimenti e

manca l’autonomia e la forza per muoversi nel mondo.

Capita anche che ci si tolga la vita come affronto verso le persone ritenute inconsapevolmente

responsabili di non aver capito e amato a sufficienza; “Da oggi soffrirai per quanto mi hai

fatto soffrire”.

Anche questo è un comportamento di difesa che si attua per far tacere le voci dell’angosce di

abbandono e annullamento. Sembra l’ultima speranza di poter gestire la perdita. “sono io che

vi lascio, e non voi che mi abbandonate”. Per evitare la perdita il suicida è disposto a perdere

tutto se stesso. Un altro motivo che porta la persona a decidere di morire è un senso di colpa

per essere vivo mentre altri intorno a se non ce l’avevano fatta.

4.8 Dolore esperienza di vita

L’esperienza del dolore è una delle esperienze più intime e personali dell’esistenza, e insieme

alla morte appartiene solo a chi soffre: nessuno è sostituibile nel proprio dolore, nessuno può

cedere l’esperienza e neppure procrastinarla. La sofferenza è esperienza del limite e

soprattutto del proprio limite, della precarietà e della vulnerabilità. Guardandolo in questa

prospettiva il fenomeno sembrerebbe da rilegarsi come un esperienza negativa che deve

essere superata. Ma se invece di provare a spiegarlo lo osservassimo sotto una luce più

profonda di “volerlo comprendere”, la sofferenza “diventa essere” nel senso pieno. Per questo

motivo quando l’uomo è aperto alla sofferenza è capace di vivere nella sua piena autenticità.

Quando il dolore proverà ad entrare in noi non possiamo non aprirgli la porta, entrerà con la

forza di un uragano e arderà con l’impeto del fuoco quanto confidassi fosse tuo. Dopo il suo

passaggio niente sarà come prima non solo in te ma anche intorno a te. Ma anche quando sarà

così dannatamente difficile non fermarti qui attraversalo.

“Rompi l’involucro nella quale vorrebbe trovare casa e consenti che esso diventi linfa vitale

di cui oggi hai grande bisogno. Quando arriva a farti visita esso cercherà di sostare nella tua

mente, facendoti evocare mille volte quei ricordi e quei momenti nei quali avresti voluto fare

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meglio e di più, e nel tuo cuore invitandolo a spezzarsi pensando alla vita senza l’altro o a

ciò che non potrai più avere. Esso sosta scatenando in te il conflitto interiore”.

Possiamo definire questo il momento di passaggio, da compiere senza fretta con fiducia in noi

e aperti alle opportunità della vita. Il dolore porta a esplorare parti di noi che non

conoscevamo. Ci fa guardare negli occhi le nostre paure, le insicurezze e soprattutto ci porta a

toccare la parte più fragile di noi, quella emotiva.

È vero il dolore entra dentro e sconvolge le viscere, si sente nello stomaco, nella gola e nel

cuore, talvolta anche nella schiena e nelle gambe tanto da paralizzare la persona. Eppure, da

ogni dolore, ci si può rialzare e riprendere la vita più forti e più consapevoli. Questo significa

poter vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo dando valore alle persone che ci sono accanto

e dando valore a noi stessi.

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5. Segreti e costellazioni

5.1 Segreti: definizione

Difficili da mantenere, scomodi da rivelare, irresistibili da carpire. Ecco tre angolature sul

fenomeno dei segreti, che sottendono altrettante importanti dimensioni: la naturale

inclinazione umana alla condivisione, le inevitabili difficoltà che sorgono nella relazione con

gli altri, il problema antico della conoscenza, nella sua logica di amore e di potere.

Gli uomini provano un attrazione definibile quasi fatale verso i segreti, sono come animali

curiosi e istintivamente volti alla conoscenza. Da qualunque parte si tenda lo sguardo si crede

di cogliere un mistero che è sul punto di svelarsi. In ogni cosa è custodito un segreto, un

elemento di verità profonda ed ineffabile. Questa sensazione vale anche per le persone. Quale

la formula che svela l’ essenza dell’anima?

Questa spinta umana di conoscenza implica però alcuni effetti collaterali. Spesso la conquista

di un segreto comporta potere ma al tempo stesso può rappresentare una maledizione. Nella

mitologia greca Prometeo ruba il segreto del fuoco agli dei e viene punito per l'eternità. Nella

religione cristiana Adamo ed Eva colgono il frutto proibito ed entrambi vengono cacciati dal

Paradiso Terrestre. Ancora è l'Ulisse nella Divina Commedia, che “per seguir virtute e

conoscenza” oltrepassa i limiti delle colonne d'Ercole e viene inghiottito dal mare.

Possiamo affermare che ogni segreto trae origine dal nostro peculiare modo di percepire il

mondo, e in particolare quegli aspetti del mondo che si celano alla nostra conoscenza. Senza

curiosità non esistono segreti, ma solo cose ignote. Ma forse è più corretto considerare che un

segreto segnala un limite e un confine, e che la vera arte è quella di sapersi confrontare con il

limite.

Affinché esista un segreto il numero di “giocatori” è tre. Infatti non può essere uno in quanto

non ci sarebbe gusto senza il brivido di essere scoperti né il piacere di raccontarlo a qualcuno.

E non è neppure due perchè in questa soluzione manca qualcosa facendo perdere subito

interesse a chi lo condivide. Ci vuole almeno un titolare del segreto, uno con cui condividerlo,

e un terzo escluso che ad esempio può essere il resto del mondo.

L’uomo sente da sempre le necessità di salvaguardare il proprio “io” privato, basti pensare

che in molte culture cosiddette “primitive” si teme che svelando il nome di una persona la si

esponga al rischio che gli venga rubata l'anima. È questo uno dei motivi principali per cui

l'uomo ha imparato a costruire recinti, mura ed armi, sistemi sempre più sofisticati, tutto per la

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difesa di sé, delle cose e delle persone che considera “sue”, e del proprio gruppo di

appartenenza.

Esistono segreti ad ogni livello dell'organizzazione sociale: segreti individuali, familiari, di

gruppo, militari e di stato, industriali, ecc. Ma non è tutto, perché il possesso di un segreto

conferisce ai detentori un potere nei confronti di coloro che non ne sono a parte. Secondo

questa logica, il potere derivante da un segreto aumenta col diminuire delle persone che lo

condividono. Il segreto diventa così un'arma da impiegare non solo per la difesa, ma anche, a

volte soprattutto,per la supremazia. E' questo il paradigma della corsa agli armamenti, della

guerra fredda e dello spionaggio, dove l'informazione è sinonimo di potere e la segretezza è

l'arte della guerra. Mai come in questa epoca si sono espanse le possibilità di comunicare, di

condividere le informazioni e di farle circolare. E mai come in questa epoca sono esplosi il

mito dell'individualità, il culto della privacy, il bisogno quasi maniacale di affermazione di sé

attraverso la segretezza. Non a caso, il concetto giuridico di privacy risale alla fine dell'800,

ed appare originariamente come il diritto “to be let alone”, cioè essere lasciati in pace ma

anche, letteralmente, essere lasciati soli: la solitudine come fonte di libertà.

Ci vuole fiducia per raccontare un segreto, lealtà per conservarlo. Molte volte un segreto fa da

suggello ad un'amicizia importante. Nel corso degli anni si è passati dall'idea che alcuni

segreti potessero risultare gravosi, insostenibili per l'animo umano, fino al punto da far

ammalare il portatore del segreto, che finiva per nasconderlo persino a sé stesso, ad una

visione più moderna che tende invece a sottolineare proprio l'importanza della condivisione e

della narrazione: parlare con qualcuno dei propri segreti aiuta a “rimettere insieme i pezzi”.

Quanto detto non invita a considerare il rivelamento dei segreti una cosa sempre e comunque

positiva. Al contrario, proprio dalla considerazione dell'importanza quasi sacrale che viene

riconosciuta alla condivisione dei segreti, nasce l'ammonimento a non svendere i propri

segreti. Bisogna scegliere il momento giusto e la persona giusta, deve valerne veramente la

pena, e soprattutto non si deve inquinare il tutto con dei calcoli di convenienza. Si ravvisa qui

un fenomeno speculare al culto della privacy, che è lo scambio mercificato dei segreti, la loro

strumentalizzazione, la svendita al miglior offerente.

5.2 I segreti di famiglia

Tutte le famiglie possiedono dei segreti: eventi inconfessabili, vergognosi che proprio per

questi motivi, vengono repressi.

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Tuttavia tutto questo vissuto sotterraneo viene trasmesso inconsciamente e cosi le difficoltà

vissute dalle precedenti generazioni, vengono vissute nuovamente dalla generazione in corso.

Ad esempio può accadere che situazioni del passato si ripetano in modo misterioso, anche per

gli stessi protagonisti, che rimangono sorpresi dalle coincidenze di alcuni accadimenti.

Più il passato è nascosto, più tende a manifestarsi e ripetersi, in condizioni simili. Per potersi

liberare di questi accadimenti ripetitivi, è di vitale importanza portare a galla i segreti, anche

scomodi.

Non è vero che seppellendo i problemi e le difficoltà vissute dalle famiglie, queste non

daranno origine ha difficoltà; è vero il contrario.

Tanto più facciamo luce sugli avvenimenti, prima sarà possibile mettere ordine e quindi

lasciar andare anche se questo non significa cancellarli dalla propria vita ma vuol dire

integrarli e dare loro un posto in essa.

Separazioni, malattie, tracolli si trasmettono di padre in figlio. Già dalla prima infanzia i

bambini vengano a conoscenza dei segreti di famiglia in maniera inconsapevole: una morte

misteriosa o una nascita illegittima vengono tramandate nel tempo generando sofferenza. Un

conflitto non risolto all’interno di una famiglia è come un graffio su un disco che impedisce di

passare al brano successivo. Queste dinamiche ci rendono come prigionieri impedendoci di

andare nella vita con gioia e libertà. Alcuni specialisti ne campo della psicologia si sono

interessati alla definizione del segreto di famigli. Fra questi Serge Tisseron, che propone tre

criteri, che differenziano un segreto di famiglia da un segreto qualunque. Il contenuto deve

riguardare: ciò di cui non si parla; ciò che è vietato conoscere; ciò che fa soffrire le persone

che detengono il segreto.

5.3 Le costellazioni familiari: cosa sono?

Le costellazioni sono un mezzo importante per la persona per scoprire e far fronte ai segreti

tramandati dalla sua stirpe. Ma prima di parlare di questo è necessario dare una definizione di

cosa sono le costellazioni familiari e di come si svolgono.

L’approccio fenomenologico nelle costellazioni familiari consiste nella creazione di uno

spazio scenico nel quale si collocano dei “rappresentanti” ossia persone (i partecipanti al

seminario) che si prestano a dare un corpo e una voce a ciò che viene indagato.

Grazie alla teoria sistemica e all'approccio fenomenologico, si è oggi in grado di mettere in

scena ed esplorare ogni aspetto della realtà e portare alla luce quelle dinamiche nascoste che

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impediscono di vivere autenticamente e serenamente all’individuo la propria esistenza. Il

sistema del soggetto viene rappresentato in modo vivente dai partecipanti del gruppo e dopo

una breve indagine sulla situazione generale, si possono affrontare varie problematiche alle

quali la “costellazione” cercherà di portare una soluzione. I rappresentanti vengono guidati dal

campo morfogenetico e dinamiche spontanee e imprevedibili portano alla luce il vissuto

emotivo delle persone reali o delle situazioni che questi rappresentano.

Lasciando agire la manifestazione dell’“anima familiare” e osservandone la rappresentazione

scenica è possibile dialogare con ogni componente dei vari sistemi e comprendere la vera

origine del disagio o del sintomo. Attraverso una attenta e graduale comprensione delle

dinamiche esistenziali e delle esigenze dei membri rappresentati si ricompone il “sistema” nel

giusto ordine ed equilibrio: in una rinnovata armonia ogni soggetto può essere adeguatamente

riconosciuto e onorato. Quando si giunge a completare il processo nel modo più efficace, con

grande rispetto e gratitudine, reintegrando nella coscienza ogni situazione ed ogni elemento

escluso, allora le tensioni spariscono immediatamente e arriva la guarigione.

5.4 I segreti nelle costellazioni familiari

Le costellazioni familiari aiutano a portare alla luce i segreti e gli arretimenti della nostra vita.

Ciò accade ad esempio quando un membro della nostra famiglia è stato escluso o dimenticato

a causa del suo tragico destino: una donna che muore di parto, un soldato disperso in guerra,

una figlia morta in giovane età, un fratello suicida. Spesso gli intrecci si estendono per diverse

generazioni e si muovono su un piano arcaico della psiche inaccessibile ad un approccio

logico e razionale.

Per fare ciò occorre esporsi in maniera diretta alle questioni chiave che danno un senso alla

nostra esistenza: la vita e la morte, il passato e il destino, confrontandosi con l'Anima e con il

suo lungo e misterioso cammino di ricongiungimento con l’universo.

Per far chiarezza è necessario far luce sul termine “famiglia”. Infatti con tale termine si è

soliti indicare tre differenti e distinte realtà:

1. La Struttura Familiare: un gruppo di individui che vivono insieme nella stessa abitazione,

le regole con le quali si forma tale gruppo, la sua ampiezza e la sua composizione, le

modalità secondo cui si trasforma, si sviluppa e si divide.

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2. Le Relazioni Familiari: i rapporti (affetto, autorità) esistenti nel gruppo familiare e le

dinamiche con le quali i residenti sotto il medesimo tetto interagiscono e le emozioni che

provano l’uno per l’altro.

3. I Rapporti di Parentela: i legami ed i rapporti esistenti fra distinti gruppi di co-residenti tra

i quali vi siano dei rapporti di parentela e tutto ciò che intercorre fra di loro (aiuto,

frequenza degli incontri, ecc.).

Inclusi in un sistema familiare troviamo:i bambini, ivi inclusi i bambini abortiti, nati morti o

morti prematuramente, i genitori ed i loro fratelli e sorelle, i nonni, i bisnonni e gli antenati e

chiunque abbia sostenuto affettivamente o materialmente i membri di cui sopra ed infine

vittime di violenza o omicidio commesso da un qualsiasi membro della famiglia.

La coscienza familiare registra tutte le situazioni di morte, ingiustizia, privazione, dolore,

rabbia e paura sperimentate dai membri di una stessa stirpe e queste vengono trasmesse di

generazione in generazione in attesa di trovare conforto e riparazione. L'unico modo per

sapere chi siamo veramente e dove stiamo andando è riconoscere e onorare le nostre origini.

Coloro che si sono sacrificati e sono stati dimenticati. Coloro che sono partiti e non sono mai

più tornati. I bambini morti, i soldati uccisi. Ma anche le parole non dette, gli abbracci non

dati, le lacrime non versate. Tutto ciò che non viene espresso e riconosciuto all'interno del

nucleo familiare si sedimenta, si congela, crea un nucleo pesante di silenzio, di energia fredda

e densa che passa da una generazione all'altra e si manifesta come una incomprensibile

sofferenza.

Nell'approccio familiare sistemico che è alla base delle costellazioni familiari, l'individuo non

è considerato come elemento isolato ma è inserito in un determinato contesto di relazioni, ed è

appunto questo che ci permette di trovare identificazioni, legami e connessioni con destini

difficili nel sistema familiare.

Esso viene considerato come totalità anziché come agglomerato di individui separati e ciò

consente di elaborare un nuovo approccio in grado di descrivere una complessa gamma di

fenomeni sovraindividuali e transgenerazionali.

Ad esempio quando un membro della famiglia viene escluso o dimenticato a causa di un

destino difficile, ciò ha conseguenze nelle generazioni successive finché non ottiene

nuovamente il suo posto nel nucleo di appartenenza.

Fra le strategie utilizzate per tenere un segreto, una delle più usate è quella dell’evitamento di

un tema. Tuttavia, tale fenomeno porta con se delle conseguenze. Ad esempio, si immagini

una persona che non vuole parlare della propria esperienza di un aborto , si sentirà coinvolta e

magari in imparazzo se durante una discussione si parlerà di questo tema; tuttavia, non

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volendo raccontare la propria esperienza, cercherà di mascherare e non rendere esplicito il

proprio malessere, cercando di controllare il proprio comportamento o cercando di cambiare

argomento.

Se si pensa ad un tale meccanismo per segreti di famiglia tenuti nascosti per anni, bisogna

amplificarlo in modo esponenziale, per la durata degli anni in cui tale comportamento di

dissimulazione, controllo e di invio di messaggi contradditori si è verificato.

Per questo motivo, nel campo della psicologia clinica, si è detto che “il segreto trasuda”.

Con questa espressione si intende che i membri della famiglia che ignorano il segreto lo

intuiscono anche senza conoscerne l’esistenza e senza poter identificare ciò di cui si tratta.

Tuttavia i segreti di famiglia possono restare impliciti e non rivelati per anni o decenni e

spesso restano sepolti senza essere raccontati.

5.5 Lealtà familiare e irretimento

Per la coscienza familiare ognuno deve essere pienamente responsabile di ciò che fa in quanto

le conseguenze di ogni azione portata a termine da un componente della famiglia ricadono su

tutto il sistema, se il responsabile non se ne fa carico. Ogni torto commesso o subito richiede

una compensazione, e accade spesso che molte persone restino a lungo impegnate in questi

compiti di riparazione piuttosto che nel vivere la propria vita.

L'albero genealogico risente di tutte le esperienze vissute dai membri della famiglia di origine,

dove ogni membro che sia stato dimenticato, ogni conflitto non risolto, ogni emozione non

espressa, tende a ripresentarsi sotto forma di sofferenza e di sintomo. Se un fratello o un

fidanzato muore in guerra, se un bimbo viene abortito, se una donna muore di parto, è

possibile che nelle successive generazioni un membro della famiglia prenda

inconsapevolmente su di sé il dolore di chi ha sofferto ingiustamente e ne imiti il destino.

La lealtà familiare e l'irretimento sono situazioni che spesso impediscono ai successori di

vivere esperienze diverse da quelle già vissute, condannandoli ad una infinita costrizione a

rivivere eventi dolorosi e fallimenti.

Quando si parla di irretimento si parla anche di amore cieco. Ovvero quel vincolo che unisce i

figli ai propri genitori che è un sentimento inconscio che supera anche l'effettiva mancanza di

conoscenza o contatto (nel caso il figlio venga abbandonato e cresciuto da altre persone), o le

problematiche relazionali (violenze, abusi, conflitti). E' un amore non solo incondizionato, ma

anche “cieco”, che spinge i figli a prendere inconsapevolmente su di sé il dolore e il destino

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dei propri genitori. Alcuni figli sono pronti a sacrificare la propria esistenza per i genitori, e

nell'illusione di poterli salvare, si condannano ad una vita di fallimenti, di solitudine, di

malattia e addirittura di morte.

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6. Morte e lutto

6.1 Preparazione alla morte: ciò che è essenziale

Quando si parla della morte è difficile farlo in modo appropriato, tanto che forse è preferibile

tacere, proprio come a volte il modo migliore con cui possiamo testimoniare la nostra

partecipazione a un amico che ha subito un lutto è quello di stare per un po’ in silenzio

accanto a lui; ogni nostra parola può non essere all’altezza della complessità e della

delicatezza dei sentimenti che lui può provare. La morte è uno dei fenomeni meno

comprensibili e meno immaginabili e rappresenta l’unico tabù empirico riconosciuto dal

sistema. Questo tema è stato affrontato da tanti e sotto tutte le discipline: medicina,

psicologia, filosofia, religione, ecc.

Non a caso gli eventi di vita vengono tradizionalmente divisi in due sommarie categorie: i

timely events e gli untimely events. I primi sono gli eventi prevedibili che avvengono in un

tempo considerato dalle persone normale mentre i secondi sono quelli non prevedibili che

vanno contro al tempo che regola le aspettative della nostra esistenza. Un esempio di evento

normale è la morte di un genitore (o la propria morte) in età avanzata, mentre un esempio di

untimely event è la morte di un figlio per un genitore, una malattia inaspettata, un qualunque

evento doloroso che non è previsto dalle nostre aspettative, per cui siamo meno preparati.

Significa che anche la morte può avere significati molto diversi a secondo di come si

manifesta. Una cosa è morire in età avanzata dopo una ricca e soddisfacente vita, e ben altra

cosa è morire in età giovanile per un banale incidente, Non solo, ma l’impatto della morte

(come di qualunque dolore) varierà a seconda dei rispettivi significati che ad essa darà ogni

singola persona, del suo sistema di valori e soprattutto secondo la sua maturità sia lui ancora

“un bambino” sia passato nella fase di “adulto”. In punto di morte, le persone tendono a fare

un bilancio della propria esistenza: se il bilancio è attivo, se nella vita ha prevalso l'amore, la

morte sarà serena. Si è fatto quanto di meglio possibile, si può morire in pace. Se il bilancio è

negativo, se ha prevalso la distruttività, si combatte con la morte, la si rifiuta, ci s’impegna in

una lotta disperata.

Ma quali voci compaiono nel bilancio? Nei momenti finali della vita, ci si avvicina alla realtà

vera, a ciò che è veramente importante: le relazioni, gli affetti, gli aspetti spirituali

dell'esistenza. Se una relazione si è chiusa male, se ci sono dei sospesi, cose che si volevano

dire o fare, se si sono compiute azioni distruttive, tutto questo si trasforma in tormento, in

rimorso, in sofferenza.

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Chi muore male, lascia in eredità a parenti, amici, conoscenti, un senso di disperazione e

fallimento. Lascia un fardello che pesa sulla loro coscienza. Nella loro vita ci sarà un'ombra in

più con cui confrontarsi. Chi muore in pace, lascia a chi rimane un senso di serenità e fiducia,

e fornisce ai presenti un dono prezioso: li aiuta a superare la paura più grande, quella della

fine della vita. E' un esempio di luce che li accompagnerà nei momenti più scuri.

È necessario un tempo ben preciso chiamato periodo di lutto affinché il soggetto riesca a

superare la situazione e ad adattarsi alla sua nuova realtà. Così come la cicatrice di una ferita

cutanea necessita di un determinato tempo per rimarginarsi, allo stesso modo una

ristrutturazione dei significati della nostra esistenza necessita di un tempo per renderci

disponibili a nuovi progetti .

6.2 La morte: il dolore e la forza di dire addio

“Il vero problema non è di saper se vivremo o no

dopo la morte, ma se saremo davvero vivi

al momento di morire”

Marie de Hennezel.

Quando qualcuno muore abbiamo l’idea che sia morto per sempre. Quando un amore finisce

sentiamo come se una parte di noi fosse morta con lui. I ricordi prendono il sopravvento e ci

percuotono il cuore, l’anima in un vortice senza fine. Alcune persone si chiudono nella

sofferenza, ritenendo a volte l’altro colpevole di quanto successo.

“Non ne ho la forza eppure lo so che devo lasciarti andare, so che devo trovare il coraggio di

farlo, ma ogni angolo parla di te, in ogni oggetto vedo i tuoi occhio che mi guardano.

Lo so che devo trovare il coraggio di lasciarti andare, ma ogni volta che ci provo un fitta al

cuore me lo impedisce e allora basta una porta aperta per immaginare che stai arrivando, un

fruscio per trattenere il fiato, ma ovviamente non ci sei e non ci sarai mai più e le mie lacrime

non basteranno a fermare il tempo.

Lacrime arrivate dopo molti giorni, sensi di colpa che forse non hanno senso e quella

sensazione di impotenza che mi fa sentire viva ma che darei non so che, per respingere ed

essere insensibile.

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Il tempo lenisce ogni ferita è vero io lo so, ma ci sono momenti e sensazioni che torneranno

sempre quando meno te lo aspetti ti stringeranno la gola e lo stomaco e qualunque cosa

possa fare non potrò evitare.

Devo lasciarti andare, dirti addio per sempre, ma una parte di me sarà sempre con te spero

tanto che sia così anche per te.”12

Elaborare significa giungere ad una decisione ferma, convinta e totale. Vuol dire rivedere,

rinegoziare la propria storia e iniziare un processo di crescita. Accettare non significa però

dimenticare la sofferenza, non si può negare il passato o cancellarlo bensì cicatrizzarlo,

sedimentarlo e usarlo per acquisire una nuova spinta verso uno splendido futuro.

Il vero lutto, la fine di un amore, la perdita di una relazione significativa in realtà rappresenta

una parte di noi che se n’è andata con questa persona. È importante chiedersi, però, se è la

persona che se n’è andata a mancarci o la parte di vita vissuta con lei. Se il ricordo è

contestualizzato all’altro è difficile sentire la sofferenza, ma se immaginiamo quanto eravamo

insieme e quanto saremmo potuti essere, allora è lì che nasce il dolore. Una parte di noi non

c’è più ma è importante sapere che qualcosa di diverso può germogliare. Per mesi, giorni,

anni alcuni continuano a rivivere il proprio dolore, ormai cronico, attraverso “filmografie”

come se fosse reale. Non è possibile vivere un grande dolore da soli. Finché continuiamo a

tenere il dolore al caldo dentro di noi, non se ne andrà anzi diventerà malattia, depressione,

indebolimento del sistema immunitario. Il dolore fine a se stesso non può insegnare nulla: i

sensi di colpa di un passato non fanno altro che immobilizzare il presente. Tale dolore è come

congelato, tenerlo stretto è come dargli protezione e dire a sé stessi: “Non merito di essere

felice”.

6.3 Attraversare il dolore… e la morte

“Se vuoi venirne fuori devi

passarci nel mezzo”

Robert Frost

12 Marie de Hennezel, Morire a occhi aperti, Torino, Lindau, 2006

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Il dolore evitato si mantiene e si incrementa sempre di più. Per superarlo è necessario infilarsi

dentro di esso. Di fronte ad una ferita dolorosa, possiamo decidere se disinfettarla e

proteggerla in maniera tale da non infettarsi, accelerando anche il processo di guarigione. Ma

non è possibile farla sparire, ne sentire il dolore e ne farla sparire.

Il dolore legato ad un lutto non sparisce mai del tutto, ma con il tempo avremo più posto per

contenerlo. Leo Buscaglia afferma che l’unico modo di accettare la vita è accettare la morte

perché quest’ultima ci ricorda che esiste un limite. Non cresci se te ne stai seduto in un prato

pieno di fiori e ti porti cibi prelibati. Cresci se sei malato, se soffri, se subisci delle perdite ma

invece di nascondere la testa sotto la sabbia, prendi il tuo dolore e impari ad accettarlo non

come una maledizione ma come un dono che ti arriva con uno scopo. Louis Hay scrive: “Può

accadere che la malattia conduca alla morte. In quel caso molti di noi si sentono dei falliti,

come se avessero sbagliato in qualcosa. Così come abbiamo fatto con la vecchiaia, abbiamo

trasformato la morte in una sconfitta, in qualcosa da evitare a tutti i costi. La scienza medica

ricorre ad ogni gesto per forzare il corpo a restare attaccato alla vita, molto al di là delle sue

capacità. La morte, come la nascita, è normale e naturale. Ma raramente giunge nel

momento che riteniamo opportuno…quando la morte si avvicina dobbiamo accettarla con

serenità. È quello il momento per esternare tutto il nostro amore, per stare accanto a chi sta

per lasciarci”.

Non bisognerebbe mai dire ad una persone che “deve Accettare la fine”. Per noi uomini fatti

per la vita è una contraddizione. Accettare è un verbo che indica sottomissione e passività.

Rimarrà comunque vero il fatto che siamo chiamati a subire la morte come un peso o una

violenza. Accettare è come vivere da rassegnati. “Accogliere” è il cammino che ogni persona

è chiamato a vivere quando sperimenta l’avvicinarsi alla morte. Accogliere è apertura,

significa fare posto mentale ed emozionale a ciò che sta accadendo o che è già accaduto, per

diventare capaci di trasformarlo.

Il dolore ti rende incredibilmente attento e presente, ti fa crescere. Certo non bisogna il dolore

ma ogni volta che arriva bisogna saper godere anche di questo. Il sapore spesso è amaro ma

una volta acquisito porta lucidità e scuote via ogni intontimento e sonnolenza.

6.4 Il Lutto e le sue fasi

Nel linguaggio comune per lutto si intende l’emozione di dolore che si prova per la scomparsa

di una persona importante affettivamente. Possiamo dire che esistono diversi tipi di

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comportamento di fronte a tale situazione. Nel primo in seguito ad una perdita alcune persone

non hanno difficoltà a vestirsi “a lutto”e a vivere tali emozioni, altre invece pensano che il

comportamento più adeguato sia quello di rendere la durata del lutto il più breve possibile e di

riprendere la propria vita di tutti i giorni subito dopo la perdita. Per legge chi ha un lavoro

dipendente ha diritto a duo o tre giorni di congedo retribuito. Da qui si evince come nella

nostra società il tempo del dolore abbia poco significato e che le persone equilibrate ed adulte

siano quelle che “incassano” il colpo senza scomporsi. Ci sono anche persone che pensano

che un lutto debba essere portato tutta la vita per questo mantengono un legame patologico

con il morto. Vivono come se il defunto fosse ancora li con loro e soprattutto non permettono

a nessuno di sostituire il ruolo affettivo di quella persona.

Nella nostra società è importante nascondere la morte e il dolore. Il messaggio che arriva è

che per raggiungere il benessere bisogna far finta di essere felici, belli e realizzati.

Purtroppo oggi perdere è diventato sinonimo di perdenti.

Nello specifico il lutto è composto di tre fasi: dolore, rabbia e paura.

Queste si possono presentare in sequenza o alternarsi e possono avere una durata e intensità

diverse.

Il tempo del dolore

In questo periodo le emozioni ricorrenti vanno dalla tristezza alla malinconia sino a poter

arrivare a crisi di disperazione. Manifestando il proprio dolore la persona si sente nel diritto di

poter piangere la perdita e chiedere conforto e sostegno. In questo periodo la persona tende ad

isolarsi e la sua energia vitale diminuisce. Si richiamano alla mente tutti i ricordi positivi e

frequenti, sono le frasi come “nessuno era come lui, bello, bravo..” oppure frasi rivolte a se

stessi come “non ce la faccio senza di lui” o “la mia vita non ha più senso” oppure frasi come

“l’anno scorso eravamo..” o “mi ricordo che..”

Il tempo della rabbia

Ci si sente pervasi da un senso di ingiustizia per la perdita. La persona può provare rabbia che

si tratti solo di una leggera irritazione o di collera più prolungata. Ci si può sentire in colpa

per tale emozione pensando che sia un comportamento “cattivo” o che arrabbiarsi non abbia

nessun significato. Però non permettendo a questo sentimento di manifestarsi ci si impedisce

di reagire alla situazione e di ricominciare a lottare per formare la propria esistenza. Tante

frasi che si pronunciano come “non dovevi lasciarmi”, “non avevi il diritto”, o “i medici sono

incapaci” o “Dio perché sei ingiusto e cattivo” attivano non altro che un sano processo di

sfogo che alleggerisce la persona.

Il tempo della paura

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La perdita porta la persona a dover rinunciare ad una affetto o sicurezza. Questo la porta a

mostrare tutte le sue incertezze per il futuro, i dubbi di riuscire ad fronteggiare le conseguenze

della perdita, l’esitazione sulle scelte da fare.

L’ansia ha la meglio la maggior parte delle volte e l’individuo l’userà per difendersi rifiutando

le proprie responsabilità delegandole ad altri. In questo periodo si può solo sostenere la

persona in maniera amorevole.

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7. Conclusioni: la strada verso la felicità

Quando sei ispirato da un grande proposito,

da qualche progetto straordinario,

tutti i tuoi pensieri oltrepassano i loro confini.

La tua mente trascende le limitazioni,

la coscienza si espande in ogni direzione

e ti ritrovi in un nuovo, grande

mondo meraviglioso.

Le forze, le facoltà e i talenti addormentati

Si ridestano, ed ecco che diventi

Una persona molto, molto più grande

Di quel che avevi osato sognare.

Patanjali (III-I sec. A.C.)

Storia del portafoglio perduto

Una bella sera d’estate, un uomo guarda dalla finestra e vede il suo vicino camminare

gattoni per la strada. Sembra che stia cercando qualcosa sotto il lampione. Dice allora

tra sé: “vado ad aiutarlo a ritrovare quello che ha perso”.

Si accosta al suo vicino e gli domanda: “Che cosa hai perso?”. E l’altro risponde: “ho

perso il portafoglio. Quello che mi da più fastidio non è aver perso il denaro che

conteneva, ma tutti i documenti e le carte di credito”.

Il nostro buon samaritano si mette anch’egli a cercare intorno al lampione, sul

marciapiede, per la strada, nell’erba adiacente. Dopo innumerevoli sforzi infruttuosi,

gli viene in mente di domandare: “è qui che hai perso il portafoglio, vero?”.

Innocentemente l’amico risponde: “no, non qui. Nel campo laggiù”.

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Il nostro uomo non crede alle proprie orecchie. Come può il suo vicino pensare di

ritrovare il portafoglio sotto il lampione quando l’ha perduto altrove? Incuriosito, gli

chiede di spiegargli il suo comportamento. L’altro risponde candidamente: “è

semplice, qui c’è più luce”.

7.1 La ricerca della felicità

Il compito più difficile con cui bisogna misurarsi quando si desidera abbracciare la propria

ombra è proprio quella di cercarla nel posto giusto. La ricerca è tanto più difficoltosa in

quanto è tipico dell’ombra nascondersi nell’inconscio. Come la faccia nascosta della luna,

l’ombra rimane oscura e misteriosa. Il primo passo è smettere di negarne l’esistenza.

La strada verso la felicità è quella che integra e accetta pienamente tutti gli aspetti della nostra

esperienza.

Essere integri significa abbandonare il tentativo di perseguire il piacere, sfuggendo al dolore,

che non può essere controllato ed eliminato. Significa connettersi, aprirsi e continuare ad

amare, indipendentemente da ciò che succede.

Amare significa essere completamente presenti, prestare attenzione totale a ciò che accade qui

e ora, essere indivisi e non frammentati.

In un autentico stato di amore, non ci sono desideri, non ci sono aspettative. Non c'è

proiezione nel futuro, non c'è rimpianto del passato, c'è solo totale appagamento. C'è un

contatto profondo con la realtà delle cose e con le persone, un contatto così gratificante in sé

che assorbe la persona completamente. In uno stato di amore si comprende la relatività del

senso del tempo e dello spazio. Il tempo e lo spazio ordinari non esistono più, in quanto è

vissuto con la totalità del nostro essere.

Quando nello stato di coscienza ordinario pensiamo ai grandi maestri, proiettiamo su di loro i

nostri desideri, e crediamo che loro siano esenti dai fatti spiacevoli della vita, che siano

risparmiati dalle malattie e dal dolore. Ma non è così: S. Francesco soffrì di varie malattie,

Krishnamurti morì di cancro.

Così continuiamo a cercare qualcosa che ci garantisca l'immunità. La nostra medicina sta

prolungando sempre più la nostra vita.

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Chissà che un giorno non ci risparmi anche i dolori della vecchiaia. Così ci sono sempre più

persone anziane che letteralmente vegetano per anni e anni nelle cliniche e nelle case di

riposo. Ciò che conta è prolungare la vita. Per la medicina conta la quantità, non la qualità.

Un cucchiaino di sale rende imbevibile l'acqua di un bicchiere, ma lascia pressoché invariata

l'acqua di un lago.

7.2 Ritrovare se stessi

La natura ci ha dato un sentire che quando è vicino alla realtà empirica ci indica come sono le

cose che più ci stimolano e ci danno soddisfazione che sono le più adatte a noi. Se abbiamo

dentro di noi certi talenti, come quello artistico, ogni volta che ci imbatteremo in un'opera

d'arte o incontreremo un artista o ne leggeremo la vita, sentiremo qualcosa dentro, una

emozione, un sussulto, un sospiro, e così per ogni altra inclinazione: sentiamo qualcosa dentro

che ci emoziona, ci stimola, ci attrae. Se da bambini fossimo stati allenati a capire veramente i

nostri sentimenti e a fidarci delle indicazioni interiori non avremmo difficoltà nello scegliere

la strada giusta per noi perché i nostri sogni e le nostre aspirazioni ci farebbero da guida.

Solo il “sentire” interiore è nostro, è la cosa più nostra che abbiamo, ed è indipendente

dall'ambiente sociale. Che noi siamo nati in Cina o in Italia, poveri o ricchi, il nostro sentire è

unico, i nostri talenti sono unici. Ecco perché trovare la propria strada non è un affare per la

mente ma piuttosto per quel radar interiore che chiamiamo “sentire”.

Il nostro radar funziona in modo molto semplice, comprensibile anche da un bambino: se ciò

che facciamo ci stimola, piace, ci da soddisfazione e ci nutre, non solo nel corpo ma anche nel

cuore e nell'anima, allora significa che ci stiamo realizzando. Se invece la nostra vita ci

stanca, ci annoia, sembra assorbire tutte le nostre energie restituendoci poco o niente in

cambio, se l'entusiasmo è per noi solo un lontano ricordo, allora questi sono segnali

inequivocabili che siamo distanti dalla nostra strada e non stiamo affatto realizzando noi

stessi, ma tutt'al più qualche ideale o modello altrui, qualcosa insomma che non fa realmente

parte di noi. In questo caso dobbiamo avere il coraggio di ammettere con noi stessi che è

tempo di cambiare.

In fondo al nostro essere sappiamo tutti, seppure vagamente, qual'è la nostra vera strada, ma

spesso abbiamo paura ad ammetterlo perfino con noi stessi; la nostra ragione si preoccupa

sempre di dimostrarci in infiniti modi che è impossibile seguire quella direzione, che

avremmo troppo da perdere, che non saremmo all'altezza, che ormai è tardi, ecc. Certo, sono

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motivi indubbiamente validi, ma che senso ha vivere una vita che non ci realizza? Ed è

davvero così terribile perdere qualcosa che tutto sommato non ci gratifica affatto?

Sono sempre più frequenti i casi di persone che in un certo momento della loro esistenza

cambiano radicalmente la loro vita. Queste persone prendono coscienza delle loro reali

esigenze e capacità e si rendono conto del fatto che la vita che conducono e il lavoro che

fanno non rispecchia affatto il loro vero essere. Non è mai troppo tardi per trovare la propria

strada. E non è nemmeno detto che si debbano fare scelte drastiche come quelle suddette, a

volte basta molto meno per nutrire il nostro essere. E' certamente una grossa responsabilità

quella di realizzare la propria vita, ma il gioco vale senz'altro la candela: la vita è nostra: chi

ci può dire cosa va bene o cosa non va bene per noi se non noi stessi? Che senso ha “divenire

qualcuno” in confronto a “essere se stessi”?

C'è una qualità comune a tutti gli esseri umani, anche se in molti è ancora allo stato latente, e

si chiama potere personale, cioè il potere di prendere la vita nelle proprie mani, di

autodeterminarla, sentendo nel profondo di noi stessi ciò che va bene, ciò che ci fa sentire

realizzati. Nessun altro può fare questa scelta al nostro posto. Dobbiamo sentirci degni di

vivere la nostra autenticità, ognuno a proprio modo, perché, anche se noi esseri umani ci

somigliamo per molti aspetti, ognuno possiede una propria unicità, una sfumatura di colore, di

fragranza, e consentendo a se stesso di farla sbocciare e di viverla non solo realizza se stesso

ma arricchisce anche l'intera umanità.

Il più bel dono

che un fior può fare al mondo

è quello di sbocciare pienamente

condividendo ed esprimendo ciò che è;

così è per l'uomo,

prezioso fiore della consapevolezza.

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Ringraziamenti

Ho imparato che non sono perfetta. Quando per la prima volta ho sentito quanta rabbia quanto

rancore ci fosse dentro di me, mi sono sentita un mostro. E per tanto tempo, per mesi non ho

potuto fare altro che sputare tutta la furia nascosta in me. Per tanto tempo la sensazione era

così forte così assurda e non bastava mai. Mi chiedevo come mi si potesse amare, come

poteva amarmi qualcuno. Già il mio sguardo faceva paura a molti, per un periodo ai seminari

avevano tutti paura di me e chi non lo aveva era li pronto a sfidarmi, ma non aveva chance.

L’immagine nella mia mente era orribile non mi bastava “vincere” io volevo vedere il sangue

ma non era sufficiente neppure quello. Ero terrorizzata, sconvolta impaurita da quanto

nascosto in me. La brava bambina non sorrideva più, almeno non così tanto. Ero così

arrabbiata con il mondo ma soprattutto ero arrabbiata con me stessa. Mi sono così maltrattata

per tanto tempo lasciando a tante persone il potere di farmi del male.

Non sapevo cosa fosse l’amore nemmeno lontanamente. Sognavo che arrivasse il principe, ma

le favole sono favole e al massimo le puoi vedere in un film.

Elemosinavo amore. Per trent’anni ho supplicato amore in tutti i modi, usando tutto quello

che potevo e reprimendo tanto di me. Ho lavorato sin da piccola perché “Io sono forte”

“vedete come ce la faccio da sola”. Ho sedotto con la sensualità di una bambina finché il

debito non è stato alto e me lo ha riportato in maniera violenta e persistente. Immersa in

questo tumulto sentivo solo che qualcosa non andava ma ero ceca, completamente al buio. Mi

sentivo sola, sola come sempre in tutta la mia vita. Ha scuola mi hanno fatto credere che non

ero brava, e per quanto provassi di tutto non andava bene. Pensavo di essere diversa, di non

essere all’altezza e più mi ci sentivo e più lo diventavo e permettevo agli altri di trattarmi

come tale. Avevo tanti sogni, si sono infranti uno ad uno e ora so che deriva proprio da questo

non sentirmi all’altezza. Non permettermi di mostrarmi al mondo.

Guardare in faccia la mia ombra è stato difficile, ma sono grata a alla mia bambina di avermi

dato la mano ed aver avuto fiducia in me. L’immagine della scatola che nell’ottobre 2006 mi

vedeva rinchiusa in un luogo tanto piccolo, in trappola e per esplodere non c’è più. Ho tutta

una vita intera di strada di fronte a me da percorrere o forse no, ma sicuramente la mia morte

sarà molto più serena di quanto non lo sarebbe stata solo poco tempo fa. La donna che è in me

sta crescendo ogni giorno, si sta radicando nelle sue radici, inciampa e va bene così, ma fa il

massimo che può fare. Sa di valere tanto anche se alle volte lo dimentica, ha imparato a dire

no quando la situazione lo richiede, ha imparato a dire “mi sento ferita quando ti comporti

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così”, ha imparato a chiedere aiuto, ha imparato a dire dei si autentici, ma soprattutto ha

imparato che è speciale. Ogni cosa ha due lati, uno ci piace più dell’altro è vero ma ognuno ne

è imprescindibile. Per cui grazie al dolore, alla rabbia, alla tristezza, alla paura e a quanto di

nascosto racchiude ancora la mia anima. Grazie ad ogni vostra parte che mi permette di poter

sentire la fiducia, di ridere di gusto, di amare ed essere amata, di sentire di meritarmelo, di

aprirmi al mondo e che mi fa sentire una attaccamento alle mie radici familiari come non lo

avevo mai sentito e che mi fa sentire una donna e il potere di tutto l’universo femminile e di

tutte le donne che sono state prima di me, grazie per farmi volgere lo sguardo ad un uomo e

vedere la sua forza, la sua guida e la sua bellezza, grazie per l’istinto materno che sento

crescere ogni giorno.

Grazie per avermi messo al mondo