L'altra faccia della medaglia - Cristina DONATI
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Transcript of L'altra faccia della medaglia - Cristina DONATI
1
L.U.M.H. Libera Università di Studi Psicologici Empirici Michel Hardy
F.A.I.P. Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia
L’altra faccia della medaglia Il viaggio nel sé nascosto
di
Cristina Donati
Tesi d’Esame
Counselor in Discipline Psicologiche Empiriche
ANNO ACCADEMICO 2011-1012
2
Indice
Introduzione 4
1.L’ombra un tesoro sconosciuto 6
1.1 Che cos’è l’ombra ? 6
1.2 L’ordine empirico 7
1.3 L’ombra e il debito empirico 9
1.4 L’ombra e la conoscenza di se 10
1.5 Proiezione dell’ombra 11
1.6 Classificazione dell’ombra secondo il materiale e gli ambienti 12
1.7 Teoria dell’ombra: Jung 15
1.8 L’ombra yin e l’ombra yang 17
2.La formazione dell’ombra 20
2.1 La formazione della persona 21
2.2 Il bambino e la sua crescita 22
2.3 Repressione e rimozione 24
2.4 L’ombra come sacco dell’immondizia 25
2.5 Elenco dei divieti 26
2.6 Le dipendenze 27
2.7 Il digiuno origini e le paure 28
2.8 Il digiuno ed i suoi doni 30
3 Abbracciare la propria ombra 33
3.1 Tre concezioni dell’inconscio: Freud, Nietzsche, Jung 34
3.2 Gestire la propria ombra 35
3.3 L’acqua come metafora 36
3.4 La rabbia 37
3.5 La paura 39
3.6 Senso di colpa 40
4.Il dolore 43 4.1 Il dolore dal punto di vista filosofico 43
3
4.2 La fuga dal dolore 45
4.3 Riconoscere il proprio dolore 48
4.4 Cos’è il dolore psicologico? 48
4.5 Il dolore e la malattia 50
4.6 Il dolore e i bambini 51
4.7 Procurarsi dolore 52
4.8 Dolore esperienza di vita 54
5. Segreti e costellazioni 55
5.1 Segreti: definizione 55
5.2 I segreti di famiglia 57
5.3 Le costellazioni familiari: cosa sono? 58
5.4 I segreti nelle costellazioni familiari 59
5.5 Lealtà familiare e irretimento 61
6. Morte e lutto 63
6.1 Preparazione alla morte: ciò che è essenziale 63
6.2 La morte: il dolore e la forza di dire addio 64
6.3 Attraversare il dolore… e la morte 65
6.4 Il Lutto e le sue fasi 66
7. Conclusioni: la strada verso la felicità 69
7.1 La ricerca della felicità 70
7.2 Ritrovare se stessi 71
Ringraziamenti
4
Introduzione
Per la maggior parte delle persone realizzare se stessi significa affermarsi socialmente,
conquistare potere, prestigio, denaro. Molti aspirano a divenire “qualcuno” nella vita, o al
contrario, quando pensano di non essere all'altezza, si adattano a rimanere dei “nessuno”. La
società moderna fa di tutto per standardizzarci, per farci diventare cittadini obbedienti e
macchine da lavoro. Rinunciando alla propria qualità di eccezionalità si è portati a ricercarla
fuori di sé, nei personaggi di un film o di un romanzo, nelle storie dei protagonisti della
politica, dello sport o dello spettacolo e così via. Ma nella realtà la vita di queste persone è
spesso diversa da quanto appare e creata ad arte dai media per compensare l'eccesso di
ordinarietà che i più sono forzati a vivere. Ogni individuo è fatto per essere se stesso e tutto
ciò che lo allontana dalla sua vera natura non può realmente gratificarlo ma può al massimo
dargli l'illusione temporanea di esserlo. Molta della insoddisfazione esistenziale che distingue
la nostra epoca ha origine proprio da questa illusione, dal gettar via il proprio tempo e le
proprie energie per realizzare ciò che non siamo.
Come sottolinea Erich Fromm nel suo libro “Avere o essere?” la nostra felicità e il nostro
equilibrio fanno parte in prevalenza alla sfera dell'essere; l'avere, da solo, non può dare
l’appagamento, sia che si tratti dell'avere materiale, sia che si tratti di avere sociale, come
potere, fama o prestigio. Tuttavia la maggior parte degli esseri umani oggi è ancora preda di
questo inganno che secondo alcuni si alimenta soprattutto di due fattori. Il primo sta nel fatto
che molti individui non raggiungono mai alcun traguardo materiale o sociale e quindi non
arrivano a toccare con mano che tali mete sono vuote illudendosi così all’infinito e vivendo di
attesa o di rassegnazione; in secondo luogo quelli che raggiungono qualche traguardo si
rendono conto di non risolvere assolutamente i propri bisogni e problemi esistenziali, però gli
è difficile accettare che qualcosa che tutta la società valorizza e insegue sia in realtà
un'illusione, e allora pensano: “non funziona perché non ho abbastanza potere, denaro,
riconoscimento sociale: devo averne di più, devo raggiungere una vetta più alta, lì scoverò ciò
che desidero”. E così tale meccanismo si perpetua. Un esempio è la storia del vestito nuovo
del re: il re è nudo, ma neppure una persona ha il coraggio di ammetterlo, dal momento che
gli altri sembrano guardarne ed apprezzarne l’abito, nessuno ha abbastanza sicurezza in sé
stesso da fidarsi in ciò che vede coi propri occhi e da andare contro corrente: solo la purezza
di un bambino, ancora non influenzato dalla società, svela l'inganno. Così è per le false mete
di cui sopra: pur toccando con mano la loro inutilità, manca la fiducia in se stessi per
accettarne la vacuità. Si è convinti che la società non può sbagliare e se tutti affermano che
5
questa è la cosa che davvero conta nella vita bisogna che sia così; “se per me non funziona è
colpa mia, forse non ne ho a sufficienza”. Chi si ostina in questa spirale perversa passa tutta
l’esistenza a scalare cime sempre più alte senza però trovare mai ciò che cerca. Se è fortunato
e ha capacità e determinazione può anche arrivare a conquistare “montagne”, ma che
differenza fa avere un trofeo in più quando il proprio essere ha bisogno di altro?
Per dare un significato diverso alla parola realizzarsi cerchiamo di immaginare l'essere umano
come un seme che deve germogliare, crescere e maturare, o ancora meglio come un insieme
di talenti ognuno dei quali rappresenta una parte importante di quello straordinario
microcosmo che è l'uomo. Nel momento in cui facciamo spazio al nostro bagaglio interiore e
riserviamo energie e tempo a coltivare tutte le nostre potenzialità siamo senza dubbio sulla
buona via, stiamo a poco a poco rialliniandoci allo stato di equilibrio , e questo ci fa sentire
bene, ci fa sentire nutriti nel profondo. Se, viceversa, rinneghiamo il nostro bagaglio autentico
e tendiamo a sostituirlo con qualcos'altro che non ci appartiene, solo perché crediamo o ci
hanno fatto credere che sia meglio così, allora ricaveremo solo soddisfazioni effimere,
momentanee, che gratificano forse la nostra maschera sociale ma non ciò che veramente
siamo. In questo caso possiamo stare certi che prima o poi il nostro essere autentico si
ribellerà, facendoci provare sempre più spesso sensazioni come inquietudine, insoddisfazione,
vuoto ed altre ancora. Ma per quanto dolorose tutte queste emozioni, non vanno criticate:
sono importanti, sono la spia rossa che ci segnala che qualcosa non va nel modo in cui stiamo
vivendo la nostra vita, e grazie ad esse possiamo decidere di vedere e sentire ciò che è, e
iniziare a fare qualcosa per cambiare.
Troppo spesso deleghiamo ad altri il potere di autodeterminare la nostra vita, rinunciando, in
cambio di tranquillità e rassicurazione, al nostro diritto di essere noi stessi.
Che triste un fior di pesco
che un giglio vuol sembrare
stupendo è invece il fiore
ch'esprime quel che è
Questo è il viaggio che attraverso questa tesi mi preparo ad intraprendere un viaggio di
crescita che porta a scoprire i lati più temuti e nascosti della persona ma che sono
indispensabili per diventare adulti e per raggiungere uno stato armonico.
6
1.L’ombra un tesoro sconosciuto
Non è guardando la luce che si diventa luminosi,
ma immergendosi nella propria oscurità.
Spesso però questo lavoro è sgradevole,
dunque impopolare.
C. G. Jung
L’amore per il nemico che è in me
Un giorno di sabato, il figlio di un rabbino andò a pregare in una sinagoga che non era
quella di suo padre. Al suo ritorno il rabbino gli domandò: “allora, hai imparato
qualcosa di nuovo?”. E il figlio rispose:”si, certo!”. Il padre, ferito nella propria
fierezza di rabbino, riprese: “bene, che cosa dunque insegnano in quel luogo?”. “ama
il tuo nemico”, rispose il figlio. Il padre non esitò a replicare: “predicano le stesse cose
che dico io. Come puoi dire di aver imparato qualcosa di nuovo?”. Il figlio rispose:
“mi hanno insegnato ad amare il nemico che abita in me, mentre io mi ostinavo a
combatterlo”.
1.1 Che cos’è l’ombra ?
La domanda a questa risposta verrà rivelata nei diversi capitoli di questa tesi ma cercherò fin
da subito di fare un po’ di chiarezza.
L’ombra è tutto ciò che abbiamo rimosso nell’inconscio per paura di essere respinti dalle
persone che hanno avuto ed hanno ancora oggi un ruolo importante nella nostra vita.
Abbiamo avuto paura di perdere il loro affetto deludendoli o mettendoli in situazioni di
disagio con i nostri comportamenti. Per questo abbiamo fatto distinzione tra ciò che era
ammissibile e ciò che non lo era ai loro occhi e per piacere a loro ci siamo affrettati a relegare
7
una gran numero di porzioni di noi stessi all’oblio dell’inconscio. Per evitare la minima
disapprovazione verbale o tacita delle persone che amavamo abbiamo fatto del nostro meglio.
Per questo ci siamo dimostrati gentili, educati e corretti verso gli altri ma per farlo abbiamo
messo a tacere quanto poteva sembrare vergognoso, deviante e riprovevole. Il nostro bisogno
di apprezzamento ci ha fatto conformare alle necessità, alle regole e alle leggi del nostro
ambiente dandoci da fare per mascherare quello che sembrava dispiacere ad esso o
sconvolgerlo.
Per alcuni è stato essere servizievoli, cosa ben vista negli ambienti dove l’affermazione di sé
era considerato un comportamento egoista. Per altri essere comprensivi andava bene mentre
arrabbiarsi arrecava fastidio; camuffare ogni propensione sessuale era accettato, ma mostrarla
era disonorevole, e così via.
Giorno dopo giorno in fondo al nostro essere si è creato un vasto mondo fatto di rimozioni e
repressioni accumulate nel corso degli anni che ci ha portato ad accomodarci su una specie di
vulcano che minaccia di eruttare da un momento all’altro. Questa energia compressa, ma viva
e attiva, possiamo definirla ombra.
“L’ombra è quell’oscuro tesoro fatto di elementi infantili del proprio essere, dei propri
attaccamenti, dei propri sintomi nevrotici, e infine dei propri talenti e dei propri doni non
sviluppati. Essa assicura il contatto con le profondità nascoste della propria anima, con la
vita, la vitalità e la creatività”1.
Questa identità incolta e selvaggia reclama incessantemente di essere riconosciuta e sfruttata.
Non si può ignorare la sua esistenza. Come un fiume tumultuoso, un giorno, essa forzerà la
porta della coscienza e la inonderà. Se però le offriamo una buona accoglienza,al contrario, si
svelerà in tutta la propria ricchezza.
Integrare la propria ombra significa quindi rendersi presente e disponibile a tutti i moti che
traggono da lei origine; al dolore, alla rabbia, alla colpa e tutti i suoi derivati e accettarli come
elementi del proprio essere, solo così è possibile accedere nuovamente al libero fluire.
1.2 L’ordine empirico
Per parlare con maggior chiarezza dell’ombra è necessario capire e comprendere cos’è
l’ordine empirico e quali sono le leggi che lo governano.
1 L.Frey-Ron, in C.Zweig, J. Abrams, Meeting the Shadow. The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature, Jeremy P. Tarcher, Los Angeles 1991.
8
L’ordine è onnicomprensivo e unisce l’essenza stessa dell’Universo, dalla nascita alla morte.
Esso determina tutto ciò che è, comprendendo ogni stato dell’uomo, ogni situazione o
comportamento, a prescindere dal bene e dal male, dalla forma e dal contenuto, dalla luce e
dall’ombra. “Il sistema è tutto e anche il suo contrario”2, dove luce e ombra rappresentano gli
elementi di una stessa unità, piatti della stessa bilancia umana. Ogni sua dinamica rappresenta
il principio stesso della vita, dove le sue leggi e i suoi parametri si manifestano e si attuano
attraverso meccanismi empirici, ovvero dinamiche nascoste che generano diritti e obblighi per
l’uomo e che sono insite in ogni tipo di relazione sia di natura amorevole che non.
Maggiormente l’uomo asseconda le sue leggi evitando quindi ogni violazione tanto più si
avvicinerà ad uno stato di equilibrio sperimentando uno condizione armonica tale da costituire
la base di ogni appagamento profondo.
L’ordine si manifesta solo attraverso dinamiche empiriche vale a dire “del fare”, ovvero non
considera la volontà o le intenzioni del singolo ma solamente i fatti. Esso non giudica e non
pone limiti lasciando all’uomo libero arbitrio come istanza suprema. La persona è libera di
sbagliare e di prendere decisioni non armoniche e compiere azioni contro-sistemiche a patto
però di assumersi le proprie responsabilità.
Principio cardine dell’ordine è l’equilibrio naturale che si attua attraverso la legge della
compensazione con la quale esso si adopera a recuperare e bilanciare attraverso moti empirici
ogni situazione che evidenzi un eccesso di parte. L’equilibrio rappresenta la condizione per
rimanere nel libero fluire ed è necessità assoluta per l’individuo per non essere estromesso dal
flusso vitale del sistema. Ma come già detto l’ordine non si impone ma si limita ad
assecondare le scelte del singolo a prescindere dalla loro qualità per quanto queste ultime
possano contrastare le sue dinamiche. L’unica cosa che esso adopera in questi casi sono dei
meccanismi atti a segnalare l’infrazione avvenuta, meccanismi che si muovono a fin di bene e
che permettono all’uomo di crescere attraverso i propri errori, infatti uno dei diritti
fondamentali dalla persona è il diritto di sbagliare.
“Tutte le dinamiche empiriche dimostrano che esiste sempre un denominatore comune, quello
della funzionalità. Essa costituisce il parametro d’eccellenza dell’ordine, interpretando
l’unico meccanismo attraverso cui si costituisce e si auto-rigenera in ogni istante: l’ordine
non contempla la casualità, ma riconosce come uno meccanismo legittimo quello di causa ed
effetto”3.
2 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh 3 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh
9
1.3 L’ombra e il debito empirico
Come definito già in precedenza la persona si sente in pace e appagata quando allineata con
l’ordine armonico. Lo stato che si riconosce come autentico in quanto si caratterizza
dell’assenza del debito empirico. Tale posizione è l’unica che fa accedere ad ogni singola
gamma espressiva delle emozioni. Non c’è nessuna emozione che sovrasta l’altra ma tutte
sono in ugual misura parte del portatore. In questa situazione il singolo può interpretare nella
maniera corretta la carica empirica che viene richiesta in una determinata situazione senza
caderci dentro.
Tale stato cambia in presenza di un debito empirico arretrato che fa si che la persona sia
obbligata a muoversi in un determinato modo. Infatti è sempre l’indicatore sistemico ad
attirare il suo sentire indipendentemente dalla situazione presente. “così è la sua carica
aggressiva, la paura latente, il senso di colpa o quello dell’inadeguatezza a dominare le sue
reazioni, influendo su di lui al punto da fargli credere che questo sia il suo stato naturale”4.
Il debito empirico è uno squilibrio tra il moto di dare e di ricevere. Ad esso non interessa se la
persona sia consapevole o meno dell’infrazione avvenuta o che questa non fosse intenzionale.
L’ordine non riconosce il perché di un azione né la colpa ed in questo modo non favorisce
nessuno e non esime nessuno dalle proprie responsabilità.
“L’ordine è in grado di individuare ogni infrazione sistemica percependola come mancanza
di responsabilità, anche se passata come testimone dalla propria stirpe. L’entità del debito si
sviluppa man mano che le convenzioni famigliari sostituiscono la matrice dell’ordine
naturale”5.
Nel copione personale è presente in maniera chiara la qualità e la quantità di debito della
persona. “Esso si manifesta attraverso le convinzioni più profonde e radicate, sia su se stessi
che su gli altri e sul mondo. Allo stesso momento implica anche tutte le credenze, i moti e le
azioni contro-sistemiche…e tutti gli indicatori empirici del debito usati per controbilanciare
l’arretrato: la paura, la rabbia e la colpa. La forza disarmonica acquisita strumentalizza il
piano personale dell’individuo affinché egli reagisca solo a parametri alterati e non più a
quelli genuini empirici”6.
4 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh 5 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh 6 M. Hardy, La grammatica dell‟essere, Lumh
10
Ogni debito distingue il lato ombra dell’individuo, infatti in seguito ad ogni infrazione
l’ombra si altera e si estende in un determinato modo e da quel momento fa si che in ogni
ambito della vita si sia attirati da chi ha un ombra speculare alla propria.
Viene definito debito di base il debito acquisito da piccoli che si sviluppa i primi anni di vita
attraverso il rapporto con i genitori ogni qualvolta che questo non corrisponda ai parametri
armonici. Inoltre è tramandato dalla propria stirpe attraverso la consegna familiare ed è
direttamente legato alla violazione del diritto del bambino di essere amato.
Soltanto quando si entra nel ruolo dell’adulto è possibile estinguere il proprio debito in quanto
solo da quel momento si ha la forza e lo spazio per poter contenere il dolore nascosto
attraverso le strategie di compensazione.
1.4 L’ombra e la conoscenza di se
Riconoscere e reintegrare la propria ombra costituisce una condizione essenziale della crescita
di un individuo e un passo fondamentale per avvicinarsi allo stato di eccellenza.
Nel corso della propria crescita accade di provare vergogna o paura di sentimenti o emozioni,
di qualità, interessi, idee, talenti per timore che non vengano apprezzati nel proprio ambiente.
Nasce così la tendenza a reprimerli e relegarli nella profondità dell’inconscio.
Far emergere le risorse non sfruttate del proprio essere, per quanto minaccioso possa apparire,
permetterà alla persona di appropriarsene. Se ciò non accadesse e l’uomo continuasse a
reprimerli e relegarli, gli si rivolterebbero contro , gli farebbero paura creandogli seri
problemi sia di ordine psicologico che sociale.
Riappacificarsi con la propria ombra è un esigenza fondamentale per far crescere la stima di
sé e rientrare verso l’equilibrio empirico. Non possiamo amarci se ignoriamo una parte
importante di noi facendola diventare in tal modo una nostra nemica.
Carl Jung ricorda come lo psichismo umano sia luogo di lotte intime: “Si sa, i drammi più
commoventi e più strani non si svolgono a teatro, ma nel cuore di uomini e donne comuni.
Questi vivono senza attirare l’attenzione e non tradiscono minimamente i conflitti che
imperversano nel loro animo, a meno che non cadano vittima di una depressione di cui essi
stessi ignorano la causa”.7
Chi rifiuta di conoscere la propria ombra sarà portato con il tempo a sentirsi depresso,
stressato, tormentato da un diffuso senso di angoscia, di insoddisfazione e di colpevolezza e
7 C.G.Jung , Psicologia e religione, Bollati Boringheri, Torino 1982.
11
tenderà a lasciarsi trasportare da gelosia, rabbia, devianze sessuali, golosità e via dicendo. Fra
le dipendenze più comuni citiamo l’alcolismo, il gioco d’azzardo. La dipendenza è un
problema dell’ombra. Alcuni ritengono tali comportamenti causa di degrado della natura
umana ma, non è così, ne sono una causa indiretta. Questi atteggiamenti permetto alla
persona di superare i limiti e di identificarsi per un lasso di tempo nel suo lato ombra di cui
sente tanto l’attrazione.
Ci sono molti talenti selvaggi sepolti nell’inconscio guardarsi nel profondo porterà vitalità e
incoraggerà la creatività in tutti i campi della vita.
Per operare tale ricerca dentro di sé è necessario mettersi in ascolto senza pregiudizi e
convinzioni personali. L’uomo può accedere alle proprie dinamiche nascoste solo attraverso il
proprio sentire.
1.5 Proiezione dell’ombra
"Tutto ciò che degli altri ci irrita può
portarci alla comprensione di noi stessi"
C.G. Jung
I lati poco amati di noi stessi che tentiamo
invano di eliminare dalla nostra vita si proiettano
sugli altri e ci costringono a riconoscerli.
J.M.
Se non riconosciuta l’ombra non solo creerà ossessioni ma imporrà il proprio ingresso nella
coscienza sotto forma di proiezioni sugli altri.
Una persona alle prese con la proiezione della propria ombra vedrà alterata la propria
percezione della realtà: i tratti e le qualità che avrà rifiutato di vedere in sé li assegnerà ad
altri, come se mettesse loro delle maschere. Potrà sia mitizzare i portatori delle sue proiezioni
sia denigrarli o averne paura.
Potremmo dire che il proiettore arriverà ad avere paura della propria ombra e a causa di un
curioso riverbero tali proiezioni arriveranno ad ossessionarlo e a causare intorno a lui conflitti.
Proiettare la propria ombra su qualcuno vuol dire assegnargli una maschera e procedere di
conseguenza. Chi è costretto d'altra parte a subire le proiezioni, si pensi a un popolo
12
discriminato, al “mobbing”, a ingiusti e coattivi attacchi personali non può che provare un
profondo disagio psichico che può arrivare sino a far traballare un buon equilibrio personale.
Non è semplice disfarsi delle proprie proiezioni nemmeno quando a volte la persona, altro, si
comporta con un atteggiamento tanto diverso da quello proiettato da mettere in dubbio il
nostro “giudizio”. Per non lasciare la propria proiezione ed evitare, quindi, di vedere la realtà
della propria ombra, il proiettore è pronto a ricorrere a finti pretesti pur di legittimare i propri
giudizi di condanna.
Con il tempo la persona avrà sempre più paura di mettersi in gioco e sarà portato a
confrontarsi con gli altri in maniera svantaggiosa, rimproverandosi e sentendosi un buono a
nulla.
La spiegazione a ciò pareva dal fatto che oltre al sistema empirico esiste un sistema personale
che si caratterizza per il fatto di competere solo all’uomo. Esso si compone di quanto ogni
individuo ha imparato durante la vita e forma il suo nucleo unico. Un sistema che si
autodifende anche quando le strategie che comprende sono disarmoniche.
Proprio dal rapporta tra lo il sistema empirico e quello personale dipende la capacità della
persona di stare nella vita. La distanza tra i due è termometro di quanto la persona sia vicino a
dinamiche armoniche o al contrario attui nella propria vita dinamiche contro armoniche.
1.6 Classificazione dell’ombra secondo il materiale e gli ambienti
A seconda della natura del materiale rimosso potremmo distinguere due forme di ombra:
l’ombra “nera” e l’ombra “bianca”.
La prima deriva da ogni istinto represso, come l’aggressività o la sessualità. Riguarda
soprattutto le persone che hanno acquisito una reputazione di moralità e virtù. A volte la loro
ombra insorge proprio verso i valori veicolati dall’ambiente in cui vivono: rivolta contro le
leggi e le regole della società, desiderio di dominio, pulsioni sessuali non gestite, gelosia e
invidia.
L’ombra bianca deriva dalla mancanza di sviluppo o di repressione di una tendenza virtuosa o
spirituale. Trae origine dalla pressione che l’ambiente sociale e familiare ha esercitato già dai
primi anni di vita , imponendo come regole, atteggiamenti e comportamenti fuorvianti.
La brava bambina cresciuta in un ambiente dove è normale servire e prodigarsi per gli altri è
portata a reprimere ogni slancio di realizzazione di sé. Saper parlare al proprio sostegno farà
parte della sua ombra bianca.
13
Le ombre classificate secondo gli ambienti che le hanno originate possono essere così
suddivise: familiare, istituzionale o nazionale.
L’ombra familiare:
Le famiglie non veicolano solamente valori e talenti positivi, ma anche zone d’ombra
conseguenti da rimozioni collettive. Così gli eventi tragici in una famiglia possono a volte
trasformarsi in miti; allo stesso modo, i lutti gestiti male seguitano ad perseguitarla e gli
scandali familiari costituiscono segreti ben mantenuti.
Tutte queste ferite, tragedie e drammi rimasti allo stato inconscio nella memoria familiare
hanno l’inclinazione di riprodursi da una generazione ad un'altra. I discendenti sono portati a
vivere nuovamente gli stessi drammi e a ripercorrere le stesse rimozioni senza sapere il
perché. Queste ingiunzioni hanno valore di legge all’interno della famiglia e rappresentano
una vera e propria consegna d’amore anche quando il suo contenuto si rivela dannoso e
controproducente. Attraverso la consegna familiare tutte le strategie si tramandano alle
generazioni future anche quando a prima vista il copione potrebbe apparire diverso. Ogni
resistenza del figlio cambia in maniera sostanziale alla morte del genitore, momento in cui si
attua la seconda parte della consegna che da quel istante lo investe come l’esponente più
importante della propria stirpe. Al singolo è richiesto di assumersi la responsabilità per tutto
l’operato del proprio nucleo familiare.
In tutte le famiglie in maniera più o meno consapevole i genitori per evitare situazioni di
disagio e per una inquietudine inconscia di lealtà familiare, impediranno, quindi, ai figli di
manifestare alcune emozioni o di sostenere e incitare qualità e talenti in maniera tale che essi
adottino un atteggiamento preciso. In questo modo, obbediscono alle pulsioni dell’ombra
familiare.
I figli, che temono e sentono il più piccolo rischio di rifiuto, osservano ubbidienti i divieti
parentali. Alcuni studiosi hanno raccolto nel tempo un certo numero di queste ingiunzioni
familiari che si caratterizzano per avere tutte una formulazione negativa. Di seguito un breve
elenco: “non esistere”, “non essere te stesso”, “non crescere”, “non realizzarti”, “non
essere in salute”, “non impegnarti”, “non istaurare relazioni intime”, “non pensare”, “non
essere sensibile” e così via.
A volte l’ombra della famiglia sembra si concentri tutta su un solo membro. È il caso classico
della “pecora nera” che devia dalle regole e dalle norme familiari. Questo però non mette
altro che in luce una compensazione avvenuta in quanto è l’intero sistema familiare ad essere
“difettoso”. L’irresponsabilità e la frivolezza di una persona porranno in luce un lato troppo
serio e rigido della famiglia. Agli uomini, ed in questo caso a tutti i membri della famiglia, è
14
richiesto di assumersi le proprie responsabilità. L’ordine non riconosce infatti differenza tra
chi commette un atto e chi lo subisce in quanto l’uno non potrebbe esistere senza l’altro e
soprattutto non gli importa dei perché. Inoltre solo il fatto di essere presente in un qualsiasi
contesto implica, anche se in quantità e in qualità diversa, una responsabilità per quanto
avvenuto.
L’ombra istituzionale
Nelle comunità si è portati a privilegiare certe qualità a discapito di altre le quali vengono
considerate inutili se non perfino negative. L’ombra del fondatore di una collettività lascia il
propria segno sull’ombra del gruppo anche dopo la sua morte. Per comprendere meglio come
funziona l’ombra istituzionale si può osservare il seguente esempio: in un istituto di
formazione per sacerdoti, due precettori si mostravano preoccupati di individuare anche i più
piccoli segni di omosessualità e di alcolismo tra i sacerdoti. Un gesto fraterno come un
abbraccio era interpretato come segno di omosessualità, bere velocemente un bicchiere di
vino era valutato come assenza di dominio di sé, propria dell’alcolista. Come risultato di tali
considerazioni tutti i seminaristi diventarono ossessionati dalla preoccupazione di scoprire tali
modi di fare iniziando a spiarsi gli uni con gli altri. Le ombre dei due educatori avevano finito
per contaminare tutti i membri dell’ambiente. Tutti i valori della comunità, fratellanza,
disponibilità, interesse allo studio non richiamavano più l’attenzione di nessuno poiché tutte
le energie erano rivolte nell’individuare omosessualità ed etilismo.
Una società incapace di riconosce la propria ombra si allontanerà poco a poco dai propri
obiettivi e, totalmente irretita da questa ombra, non sarà capace di far altro che incoraggiare
quello che cerca di evitare.
L’ombra nazionale
Esistono ombre anche su scala nazionale basti andare a visitare un paese straniero.
Si noterà che gli abitanti di questo paese hanno idee diverse dal paese di nostra provenienza.
Quello considerato un difetto nella propria patria potrebbe essere un pregio in un altro.
Più una nazione si isola, più si rende cieca sui propri difetti e limiti, più avrà la propensione a
proiettare le proprie paure e le proprie insofferenze sulle nazioni vicine. Il contatto con
popolazioni diverse aiuta a portare in superficie mancanze e limiti mentre il non conoscere
porta spesso ad avere pregiudizi verso l’altro. Battute di spirito che hanno come oggetto
popolazioni vicine e appellativi razzisti sono segnali evidenti dell’ombra nazionale. In tempi
di guerra, la proiezione dell’ombra del “nemico” è alimentata ed esasperata dai media. Tutto
ciò che si giudica sgradevole e disdicevole in se stessi ci si accanisce a scoprirlo
nell’avversario.
15
Durante la seconda guerra mondiale, il popolo tedesco aveva tutto i difetti immaginabili. I
neri sono stati a lungo bersaglio della proiezione dell’ombra dei bianchi. Nello stesso modo
gli ebrei sono stati vittime dell’ombra collettiva di altri popoli. Minoranze, stranieri danno
spesso fastidio per la loro diversità e originalità, diventando dei capri espiatori.
Quanto detto potrebbe farci pensare che le nazioni siano così condannate ad avere nemici a
cui affibbiare la propria ombra. Ma può non essere così; alcune società, da noi occidentali
considerate primitive, in passato hanno trovato una soluzione a questo, nominando al loro
interno alcune persone con il compito di fare la parte dell’ombra collettiva. Un esempio sono
stati i Sioux d’America dove lo Heuhoka esercitava il compito sacro che consisteva
nell’interpretare l’ombra del gruppo. In maniera sistemica egli faceva tutta una serie di attività
al contrario come cavalcare il cavallo rivolto verso la parte posteriore, innalzare la propria
tenda con l’entrata rivolta nella parte opposta a tutte le altre e si compiaceva regolarmente di
infrangere le norme e le regole della tribù8.
Un altro esempio significativo in passato era il giullare del re che svelava tutto quello che la
corte cercava di nascondere.
Ricordiamo ancora la “Festa dei Pazzi” nel Medio Evo, durante la quale le posizioni sociali
erano stravolte. Per esempio lo scemo del paese veniva nominato re, la serva si trasformava in
dama di corte e il giullare diveniva il cavaliere nero.
Nella società moderna tale posto è dato ai clown e ai comici i quali ci rimandano la nostra
ombra evidenziando i nostri difetti più comuni.
1.7 Teoria dell’ombra: Jung
Jung esperto della psicoanalisi freudiana, conosceva l’esistenza del mondo nascosto ma il
pensiero che fosse composto dalle rimozioni di entità psicologiche personali non lo
soddisfaceva. Per questo iniziò le sue ricerche sui miti, sui sogni, sulle disillusioni psicotiche,
così come anche sui disegni di “primitivi” e di bambini che lo portarono a riconoscere
l’esistenza di un altro inconscio, cioè “l’inconscio collettivo”. Ovvero una memoria di insieme
di immagini o di motivi innata e comune all’umanità. Chiamiamo tali configurazioni
universali “archetipi” perché li si trova in tutte le civiltà. L’ombra era per lui uno di questi
archetipi fondamentali.
8 D.M. Dooling, The Windom of dte Contrari, in Parabola, the Trickser, 5/1 (1979).
16
Tale scoperta mise fine alla sua grande amicizia con Freud che di li in avanti lo considerò
eretico rispetto alla tesi della propria scuola.
Secondo Jung, l’ombra rappresentava un insieme di complessi, di energie represse che Freud
aveva denominato “Es”. L’ombra come la concepiva Jung si profilava da sempre nei miti e
nelle leggende sotto forma di diversi archetipi: il “il fratello oscuro”, il “doppio”, i
“gemelli”, “ l’alter ego” e così via.
Nel tempo attraverso i suoi studi sui sogni e sui suoi pazienti da concetto astratto e anonimo
l’ombra assume un aspetto più concreto.
Dal 1912 Jung parlava del “lato ombroso dello psichismo” ed in seguito utilizzò diverse altre
espressioni come “il sé represso” o “il lato oscuro di sé”.
Nel 1917, nella sua opera La psicologia dell’inconscio, descrive l’ombra come “l’altro in
noi”, “l’inferiore riprovevole” o ancora “l’altro che ci mette in imbarazzo e ci fa
vergognare”.
La definì come “il lato negativo della persona, la somma di tutte le qualità sgradevoli che
abbiamo la tendenza a detestare e a nascondere, così come le funzioni insufficientemente
sviluppate e il contenuto dell’inconscio personale”. Aggiungiamo però che l’ombra non è in
se stessa qualcosa di male anche se ciò potrebbe sembrare incompatibile con i valori e le idee
ricevute di questo o quel ambiente.
Figura 1 Concezione Junghiana dello psichismo
17
Di solito, si preferisce camminare guidati dalla luce e questo impedisce di vedere l’ombra che
è alle proprie spalle; spesso sono gli altri a vederla prima della persona stessa. Al medesimo
modo spesso gli altri distinguono meglio il lato oscuro della personalità di un individuo che
lui stesso si rifiuta di vedere. “L’ombra che appare piccolissima sotto il sole di mezzogiorno
si allunga e si ingrandisce man mano che il giorno cala e durante la notte invade tutto lo
spazio”. Lo stesso avviene per l’ombra psichica, minuscola durante il periodo di veglia
assume proporzioni immense durante il sonno, quando si intrufola nei sogni.
Così quanto l’individuo ha cercato di mascherare durante il giorno per vergogna o altro, i
sogni lo rivelano la notte. Di qui i simboli di cui sono intessuti i sogni mettono in luce in
maniera a volte brutale il materiale rimosso: la madre avrà l’aspetto di una strega, il capo di
un tiranno e così via.
Il sogno non fa altro che illuminare in maniera cruda quanto si cerca di nascondere per
conformarsi alle regole.
Ci sono diverse espressioni usate nel gergo comune che illustrano bene le reazioni provocate
dal mondo psichico rimosso come: “ha paura della sua stessa ombra” o “si adombra per
niente”. Un proverbio tedesco dice: “non si può saltare sopra la propria ombra” che esprime
l’impossibilità di liberarsi del proprio mondo rimosso.
1.8 L’ombra yin e l’ombra yang
Come il lato luce anche il lato ombra contiene quindi una grande quantità di qualità
empiriche. Esse sono previste dal codice del sesso biologico cui si appartiene. Parleremo di
ombra yin e di ombra yang che si caratterizzano per consistenza e natura diverse. Ogni
individuo, oltre alle qualità più ambite del proprio codice, ha diritto di accedere anche a quelle
più scomode e considerate a volte deplorevoli. Un diritto ma anche un obbligo in quanto gli
viene richiesto di dare all’ombra il posto legittimo all’interno della propria vita facendola
manifestare senza combatterla.
Integrare la propria ombra costituisce un bisogno insito nell’esistenza che non ha bisogno di
consenso ma persiste per il semplice fatto che sia presente. Così uomo e donna integrati si
esprimono soprattutto attraverso il loro lato luce ma non per questo rinnegano la propria
ombra essendo allo stesso tempo in grado di entrare ed uscire da essa senza accumulare una
grande quantità di debito.
18
Coloro che pensano di essere solo buoni, bravi, educati e innocenti mostrano invece un segno
evidente di un considerevole degrado. È in questo caso e con l’avanzare della metamorfosi
empirica che alcuni lati d’ombra si rafforzano in maniera consistente diventando indicatori
sistemici. Tali indicatori sono uguali per tutti in quanto l’accesso di carica non fa differenza
tra maschile e femminile.
Per quanto l’ordine sostenga le dinamiche di apertura come primarie, legittima l’uomo,
attraverso il libero arbitrio, a scegliere quelle di cui sente maggiormente il richiamo in quanto
nella vita di ogni persona è sempre una delle due, tra luce e ombra, a predominare.
Ombra yin
Come appena detto anche la donna yin integrata ha bisogno della sua ombra senza la quale
non potrebbe esistere. “per quanto ci si potrebbe chiedere diversamente, anche a lei è
richiesto di riconoscersi nella propria fragilità e nella propria tristezza, di prendere atto
dalla sua naturale tendenza a subire e di entrare in dipendenza emotiva. Lei ne ha bisogno
come ogni altra esponente femminile poiché l’ombra nient’altro è che il rovescio della stessa
medaglia che dall’altro lato contiene le qualità femminile più ambite: la sensibilità, la
dolcezza, la sua capacità di essere leggiadra e spensierata allo stesso modo come la
maggiore apertura e l’amore incondizionato”9. Quello che fa si che la donna sia integrata è il
modo di accedervi, ovvero di saperla sperimentare senza allo stesso tempo perdersi in essa.
Lei riesce a sentire il proprio dolore trasformandolo senza sentirsi obbligata ad esorcizzarlo
ogni volta. La donna integrata è in grado di vivere la propria ansia senza arrivare alla
depressione o la propria timidezza senza però farsi fermare da essa, è in grado di sentire,
cedere nella propria autostima ma non per questo sentirsi vittima.
La donna yin alterata e la finta yin vivono maggiormente l’ombra appartenente al codice
femminile al contrario la donna finta yang e la yang autentica sono portate a prediligere
l’ombra maschile in quanto vivono un rifiuto assoluto verso l’ombra yin.
La principale dinamica dell’ombra femminile è la paura in tutte le sue manifestazioni e forme,
dalla timidezza all’angoscia, dalla paura di brillare a quella di soccombere.
Fanno parte dell’ombra yin anche la tristezza, la fragilità, l’eccesso di emotività, la mancanza
di chiarezza ma anche la dipendenza affettiva, il senso di colpa, il perfezionismo, la critica, la
vanità, la perfidia, la mancanza di organizzazione, la sbadataggine ed altre ancora.
L’ombra yang
Come la donna yin integrata anche l’uomo yang integrato è portatore e ha pieno diritto di
accedere alle qualità d’ombra. Tale realtà si caratterizza nel fatto che anche l’uomo più
9 M. Hardy, La grammatica dell’essere, Lumh
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pacifico ha bisogno di conoscere la sua forza bruta, la rivendicazione ceca ed il tradimento
sessuale. L’uomo ha la necessità di sentire la propria prepotenza, la propria ignoranza ed il
proprio cinismo. In quanto portatore sano è in grado di gestire, grazie alla propria esperienza,
tutte queste situazioni senza che esse prevaricano la sua esistenza. Nel caso contrario saremo
di fronte ad un debito che varia di peso e dimensioni in base al proprio allontanamento
dall’ordine.
L’uomo yin e l’uomo finto yin vivranno maggiormente l’ombra del sesso opposto, mentre
l’uomo finto yang e l’uomo yang alterato sperimenteranno maggiormente dinamiche guidate
dall’ombra yang.
Fanno parte dell’ombra yang la rabbia in tutte le sue manifestazioni che si tratti di abuso di
autorità o di violenza esplosiva e bruta. Nello stesso modo sono diritti dell’ombra yang la
superficialità, l’impazienza, un ego molto sviluppato, essere calcolatore e razionale, la sfida e
la competizione eccessiva, l’eccesso di controllo, l’inflessibilità, la superficialità e in ugual
misura la volgarità,
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2.La formazione dell’ombra
Fino ai trent’anni passiamo la maggior parte
del tempo a decidere quali aspetti di noi
stessi dobbiamo buttare nel sacco dell’immondizia,
poi passiamo il resto della vit
a a tentare di tirarli fuori.
(Robert Bly)
Storia dell’uomo dalle sette maschere
C’era una volta un uomo che portava sette maschere diverse, una per ogni giorno della
settimana. Quando si alzava la mattina, si copriva immediatamente il viso con una delle
maschere. Poi si vestiva e usciva per andare al lavoro. Viveva così, senza mai lasciar
vedere il suo viso.
Ma una notte, mentre dormiva, un ladro gli rubò le sette maschere. Al risveglio, non
appena si rese conto del furto, si mise a gridare a squarciagola: “Al ladro! Al ladro!”.
Poi si mise a percorrere tutte le strade della città alla ricerca delle proprie maschere.
Le persone lo vedevano gesticolare, bestemmiare e minacciare la terra intera delle più
grandi disgrazie se non fosse riuscito a trovare le sue maschere. Passò l’intera giornata
a cercare il ladro, ma invano.
Disperato e inconsolabile, si accasciò piangendo come un bambino. Le persone
cercavano di confortarlo, ma niente poteva consolarlo. Una donna che passava di lì si
fermò e gli domandò: “Che cosa le è successo? Perché piange così?”. Egli alzò la testa
e rispose con voce soffocata: “Mi hanno rubato le mie maschere, e con il viso così
scoperto mi sento troppo vulnerabile”. “Si consoli”, gli disse la donna. “Mi guardi: ho
sempre mostrato il mio volto da quando sono nata”. Egli la guardò a lungo e vide che
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era molto bella. La donna si chinò, gli sorrise e gli asciugò le lacrime. Per la prima
volta in vita sua., l’uomo sentì, sul viso, la dolcezza di una carezza. (Tadjo)
2.1 La formazione della persona
Non è facile concepire il concetto di ombra per chi ignora quello di persona. Tale componente
conosciuta anche come “Io Ideale”.
A partire da Jung, con il vocabolo “persona” si definisce quel Io sociale conseguente dagli
sforzi di adeguamento messi in atto per adattarsi alle norme educative, sociale e morali del
proprio ambiente.
La persona respinge dal proprio campo di conoscenza tutte le emozioni, i talenti e gli
atteggiamenti giudicati inaccettabili per la società cui appartiene. Allo stesso momento essa
produce nell’inconscio una controparte di se stessa definita da Jung “ombra”.
Eppure, come scrive M. Gargiulo nel suo articolo “Esperienza e simbolizzazione”, “l’unico
modo che la persona ha per eliminare una parte vitale che pure esiste è quello di non
percepirla più o di modificarne la percezione per renderla accettabile”.
L’immagine che ne scaturisce comprende tutte le parti, sia quelle accettate, sia quelle
modificate, ma esclude rigorosamente quelle rifiutate. Nel gergo empirico parleremo di
anestetizzarsi che rappresenta l’unico modo della persona di non sentire il dolore lacerante
che non sarebbe in grado di sostenere. Tesi parallela quella di A. Miller in “Il dramma del
bambino dotato e la ricerca del vero sé” quando dice “Ogni vita è piena di illusioni proprio
perché la verità ci appare insopportabile”.
L’origine del concetto junghiano di persona è il principio di “prosopon”; termine del teatro
greco che designava la maschera che portavano gli attori per interpretare un personaggio. Il
termine persona deriva da “per” “sonare”, cioè “risuonare attraverso”. Per l’appunto la
maschera dell’attore era usata per far risuonare la voce e per illustrare il carattere del
personaggio interpretato. Ogni Prosopon rappresentava un modello della condizione umana: il
bravo bambino, l’avaro, la vittima e così via. La maschera non esprimeva il dramma
dell’attore ma una situazione di conflitto a carattere universale.
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Il dilemma che nasce da tutto ciò può essere un conflitto interiore tra l’“Io sociale” e l’“Io
intimo”10 perché mentre l’Io persona cerca di adattarsi alla società, l’Io intimo perde di
importanza. La difficoltà cui ci si trova di fronte, è quella di adattarsi al proprio ambiente
senza tuttavia trascurare la propria crescita Da una parte è necessario promuovere lo sviluppo
della persona, con il rischio di ostacolare la socializzazione necessaria all’individuo; dall’altra
è opportuno tutelare la crescita del proprio Io intimo, evitando di spendere troppa energia per
adattarsi all’ambiente.
2.2 Il bambino e la sua crescita
Per crescere è necessario superare diverse fasi evolutive. Il neonato deve rinunciare al seno,
alla presenza costante della mamma, alla calda protezione e via di seguito finché non potrà
costruire la propria esistenza da adulto. Tutti questi passaggi costringono il genitore e il
bambino a sperimentare lutti che possono essere a secondo del tipo di perdita più o meno
dolorosi. Per diventare grandi ci viene chiesto di uccidere la rappresentazione del nostro
genitore interno. Questo significa che da adulti dovremo acquisire la libertà interiore di
costruire un nostro personale stile di vita e un sistema di valori anche se questi dovessero
collidere con le aspettative dei nostri genitori.
Alcuni autori lasciano intendere che un educazione perfetta dovrebbe poter eliminare qualsiasi
formazione dell’ombra nel bambino in maniera tale che una volta divenuto adulto non ne
debba soffrire.
Per esempio Robert Bly e Alice Miller paragonano il potenziale di crescita di un bambino a
una sfera che chiede di espandersi liberamente in tutte le direzioni allo stesso momento.
Questo significa che qualunque divieto verrebbe a bloccare la crescita del bambino creando
un ombra dannosa. Di parere simile troviamo il pensiero quasi utopistico di Jean Jacques
Rousseau, secondo cui la natura perfetta del bambino viene corrotta al contatto con la società
rappresentata dai genitori e educatori.
Ignorare il contesto sociologico di un bambino per metterlo al riparo da ogni influsso della
società equivarrebbe ad imprigionarlo però sotto una sfera di vetro. Non è possibile scegliere
di avere o non avere un ombra. Crescere e diventare adulto genera necessariamente la
formazione di un ombra.
10 Come detto in precedenza il contrasto tra il sistema empirico e il sistema personale.
23
La crescita ideale dovrebbe formarsi in virtù di un adattamento elastico e ragionevole ai valori
e norme del proprio ambiente. Nella misura del possibile la socializzazione del bambino
necessita di essere guidata in maniera da rispettare le aspirazioni del bambino. Ad esempio si
può impedire ad un bambino di picchiare un proprio compagno ma al tempo stesso
riconoscergli la legittimità di provare rabbia.
È attraverso i genitori che il bambino acquisisce ciò che è e codifica il mondo.
Ogni bambino è portatore di una matrice d’eccellenza, essa le appartiene per il semplice fatto
di esistere. Tale eredità e ricca di tutte i moti di cui l’umanità dispone. Solo nella fase di
attivazione la matrice si inquina per far posto al copione familiare. Attraverso questo sono
solo i principi sistemici familiare ad attivarsi, mentre restano bloccati tutti gli altri.
L’attivazione della carica avviene nell’infanzia attraverso il genitore dello medesimo sesso
biologico colui rappresenterà il modello di riferimento in cui il figlio si rispecchierà in ogni
ambito e situazione. In base alla qualità della consegna sentirà o no il permesso di crescere.
Nonostante i genitori facciano del loro meglio capita spesso nella nostra società che la qualità
d’amore trasmessa non sia sufficiente e fa si che il bambino si possa definire ai fini empirici
orfano.
Ma sia che esso sia figlio di genitori integrati sia che nasca da genitori alterati è richiesto di
sperimentare e di avvalersi del diritto empirico di sbagliare.
Se il genitore non riesce a vedere i figli come sono, non permetterà loro di conoscersi
realisticamente. Se il suo sguardo non sarà lucido e obiettivo non aiuterà il figlio a scoprire la
sua identità, anzi sarà per lui un ostacolo. Se inconsciamente tende a piegare i figli alle
proprie aspettative farà si che loro pensino di essere diversi da come sono in realtà. Se per
esempio il papà vuole che il figlio diventi un campione di calcio, lo indurrà a ritenersi
migliore di quanto sia in realtà. Minimizzerà i suoi limiti e ingigantirà le sue qualità e lo farà
sentire in colpa di voler giocare solo qualche partita con i suoi amici. Sarà obbligato a credere
alle parole del padre se non vorrà perdere la sua benevolenza annullandosi lui stesso.
Se il coraggio di scegliere autonomamente il proprio futuro è considerato fonte di dispiacere
per i genitori, il figlio è indotto a non considerare opportuno tale desiderio. Se essere
coraggiosi è considerato un pericolo il bambino non potrà fare altro che offrire il suo
consenso a chi in verità gli sta tappando le ali. Se la forza è un elemento importante nella
famiglia mentre la debolezza è inaccettabile il bambino cercherà di esserlo con tutte le sue
energie rinnegando una parte di se e sentendosi con il tempo inadeguato e di non andar mai
bene.
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La forza nasce dall’imparare ad amare se stessi, gli altri e la vita, messaggio che a molti
bambini non viene dato. Questi piccoli imparano a non disturbare, a non far soffrire i genitori
e a dimostrarsi forti trattenendo il dolore per la perdita, di fronte a violenze e alle frustrazioni
che subiscono. Quando arrivano le lacrime cominciano a mordersi le labbra, stringere i pugni,
irrigidire il corpo tentando di cacciare l’indesiderato sentire. “Non mi mostrerò debole”, “te
la farò pagare” e giorno dopo giorno la rabbia cresce acquisendo potere.
Il bambino si troverà a vivere in un mondo che vive come minaccia confuso anche da un
insieme di esempi non coerenti che ha intorno. Per difendersi non potrà far altro che costruirsi
un armatura, non esprimerà i suoi sentimenti al mondo ma manifesterà solo quelle emozioni
ritenute accettabili
Ma c’è un prezzo da pagare per questa mancata autenticità. La falsa persona sarà all’origine di
un ombra caratterizzata da un profondo radicamento nell’inconscio e da una particolare
aggressività.
2.3 Repressione e rimozione
Distinguiamo due forme di inibizione: la prima è la repressione ovvero un inibizione
intenzionale di un emozione o atteggiamento che poiché avviene in maniera cosciente nella
persona di solito non crea un ombra. La seconda è si chiama rimozione e consiste nel
respingere un potenziale psichico nell’inconscio senza neppure esserne consapevoli.
La rimozione può avvenire in due modi, o per mancanza di occasioni favorevoli
all’apprendimento oppure fa seguito ad un trauma psichico.
Nel primo caso si parla di persone che per diverse ragioni non hanno potuto sfruttare tutto il
loro potenziale: assenza di occasioni, ignoranza dei loro educatori, ambiente ostile e così via.
Tale ombra assumerà un aspetto primitivo e incolto ma non aggressivo. Come un bambino
che ha vissuto in un isola deserta per molti anni. Nei suoi primi contatti con il mondo sarà
rozzo, selvaggio, smarrito, ignorando le regole elementari della vita sociale. Non avrà
imparato a parlare, lavarsi, a mangiare ecc.
Il secondo tipo di rimozione invece deriva da severi divieti dell’ambiente circostante. In
questo caso l’energia psichica della persona viene respinta nelle profondità dell’inconscio
senza che nemmeno costui se ne accorga. Tale ombra presenta spesso un forte carattere di
aggressività e di autonomia.
Il soggetto non la riconosce come propria. Vive la sua ombra come qualcosa di dissociato e
pertanto essa sfuggirà al suo controllo.
25
2.4 L’ombra come sacco dell’immondizia
Robert Bly, poeta e pensatore americano , per descrivere l’ombra usa la metafora del sacco
dell’immondizia.
Egli sostiene che ogni volta che si rimuove un emozione, una qualità, una capacità, è come se
si gettassero tutte queste parti di sé in un sacco dell’immondizia. Tale cosa avviene secondo
lui per i primi trenta anni di vita e con il tempo tale fardello diviene sempre più pesante da
portare. Sara necessario per l’individuo rovistarci dentro per recuperare e tentare di
sviluppare tutti gli aspetti rimasti nascosti.
Chi non si dedica al compito umile e paziente di riciclare il contenuto del proprio sacco dopo
un po’ di tempo se ne sentirà schiacciato: cadrà in letargo, si lascerà vivere, proverà un grande
vuoto interiore.
I preziosi elementi che sono nel sacco continueranno a fermentare per essere visti e potersi
manifestare.
Ma perché una persona respinge nel suo inconscio un materiale così prezioso?
I motivi sono diversi a partire dal fatto che teme di essere oggetto di esclusione sociale, se si
permettesse di essere se stessa. Questa paura, sia essa reale o immaginaria, si manifesta
secondo diverse modalità: paura di perdere l’affetto dei genitori, paura di rimanere isolati,
paura di sentirsi emarginati dal gruppo, paura del ridicolo, paura di avere vergogna, paura di
non farcela e così via.
Ci sono famiglie per cui mostrarsi forti e felici è la regola. Il bambino imparerà presto a non
potersi sentire triste, a non piangere, a non chiedere aiuto. In altre famiglie saranno proibite
manifestazione d’affetto, di intimità per paura di degenerare in giochi o pensieri a sfondo
sessuale portando a favorire atteggiamenti freddi e distaccati.
A scuola alcune maestre si lamenteranno della difficoltà di lettura e di comprensione di alcuni
allievi facendoli sentire inadeguati e reprimendo la loro voglia di sapere e di porre domande.
L’opinione del gruppo per i bambini e gli adolescenti è molto importante. Un bambino
nasconderà le sue spiccate doti e voglia di imparare per non essere deriso dai suoi compagni,
una bambina eviterà di giocare a pallone per non essere considerata un maschiaccio
rimuovendo le benché minime manifestazioni dei lati maschili della sua personalità.
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2.5 Elenco dei divieti
Di seguito vorrei passare in rassegna una serie di divieti che riguardano l’espressione di certe
emozioni, qualità o inclinazioni. Si tratta sia di divieti reali sia di parole o gesti interpretati
come tali dalla persona coinvolta.
Divieti di diventare se stessi
Divieto di crescere o di cambiare, di pensare a sé, di attirare l’attenzione su di sé, di essere
uomo o donna, di essere in salute o malati, di divertirsi, di essere originali, di sentirsi amati
per ciò che si è o di essere fieri di se, di stare in disparte per rimanere soli, ecc.
Divieti relativi alle emozioni
Divieto di esprimere certe emozioni come la paura, la gelosia, la rabbia, la tenerezza, la
tristezza e così via; divieto anche di pensare di vivere certe emozioni, di essere sensuali o di
amare il piacere sessuale, di sentirsi “piccoli” e vulnerabili, ecc.
Divieti relativi all’apprendimento
Divieto di sperimentare, di imparare, di non sapere o di sentirsi ignoranti; divieto di
distinguersi dagli altri per le proprie capacità, come il disegno, la danza; divieto di essere
competenti, di sentirsi incompetenti, di sbagliare, di essere intelligenti o intellettuali, di
riuscire, di avere la fede, di esprimere tale fede in pubblico, ecc..
Divieti relativi all’intimità
Divieto di stringere amicizia, di avere una vita intima, di manifestare il proprio affetto con
parole o gesti, di amare una certa popolazione straniera, di avere fiducia, di affidarsi, ecc.
Divieti relativi all’affermazione di sé
Divieto di chiedere o di rifiutare, di esprimere la propria opinione, di avere progetti, di essere
conservatori o all’avanguardia, divieto di essere fieri di sé, di ritenersi capaci, ecc.
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Simili divieti hanno la maggior parte delle volte l’effetto di frenare la conoscenza e lo
sviluppo di ricchezze personali. Per sfruttarle bisogna avere l’umiltà, il coraggio, la pazienza
di andarle a guardare dove le abbiamo nascoste, tirarle fuori una ad una e assumersi il diritto
di utilizzarle.
Molti avranno paura di andare ad esplorare la loro ombra. Scopriranno che tale percorso non è
facile e prevede di sentire tutte le emozioni fino a quel momento messe da parte perché non si
era in grado di sostenerle, e andare a toccare il dolore.
2.6 Le dipendenze
La dipendenza è ritenere che una situazione, una sostanza, una condizione, una persona o
qualsiasi altra cosa siano fondamentali per la propria esistenza.
Quando la dipendenza è assoluta si può arrivare all’annullamento parziale o totale della
persona a favore dell’oggetto della dipendenza. Per cercare di evitare la perdita o il senso di
vuoto dell’abbandono, l’individuo può arrivare alla completa prostituzione di se stesso e alla
annullamento della propria vita.
Tale situazione può diventare letale nel lungo periodo.
Essere dipendenti vorrà dire delegare a qualcuno o a qualcosa la propria esistenza.
Uno dei motivi principali sembra essere un non risolto rapporto con le figure genitoriali che
porta tali persone a cercare in età adulta contesti o figure surrogate a cui attaccarsi per vivere.
Il bambino nella sua evoluzione e crescita attraversa infatti varie fasi. Passa dalla simbiosi con
la madre in cui i due sono un tutt’uno alla fase di separazione, individuazione in cui può
avviarsi verso le prime autonomie motorie, sociali e iniziare a costruire un identità personale.
Quando tale passaggio non avviene la persona entra spesso nelle dipendenze di cui sopra, così
facendo incorpora in sé le più grandi angosce umane come l’annullamento e l’abbandono.
Nel primo caso gli individui si percepiscono come vuoti, impotenti, invisibili, estranei a se
stessi e agli altri quasi come a sperimentare una sorta di morte. È questa la sensazione che
l’angoscia di annullamento fa arrivare alla persona che cerca di allontanarsi entrando nella
dipendenza con l’altro cercando l’affetto e la simbiosi.
Alcune persone cercano di ovviare alla sensazione di angoscia attraverso sostanze
stupefacenti, cibo, alcol, beni di consumo oppure andando a cercare situazione pericolose ed
estreme.
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Tutti questi tentativi non allevieranno la senso di morte anzi nel lungo periodo non condurrà
che alla ripetizione di relazioni infantili, distruttive e annullanti.
L’angoscia di abbandono rappresenta una forma più evoluta della precedente in quanto
l’individuo è riuscito a impostare una parziale identità ma non le autonomie indispensabili per
manifestarla.
Queste persone hanno spesso bisogno di qualcuno che li sostenga. Inoltre essendo in possesso
di un’identità sono in grado a volte di sentire il loro scarso potere, il bisogno di dipendere e il
senso di solitudine. È proprio la solitudine a portarlo alla ricerca di un surrogato. In genere le
radici di questi comportamenti possono essere individuate in traumi nella fase di separazione.
Quando il piccolo non viene spinto a sperimentare, o il genitore risulta avere atteggiamenti di
chiusura o di giudice o ancora da genitore rimasti loro stessi bambini e che chiedono ai figli di
assumere loro il ruolo di genitori. Il bambino sentitosi abbandonato ricercherà nella sua vita
situazione cui appoggiarsi o sarà portato a fuggire tutte le volte che si troverà a fare i conti
con richieste di affettività come una relazione di coppia o di amicizia.
Nella società moderna le forme di dipendenza oltre al tabacco, stupefacenti e alcol sono
svariate come lo shopping compulsivo, la cura eccessiva del corpo e dell’immagine.
Vi sono persone infatti che non possono rinunciare ad una seduta in palestra e altre che non
possono far a meno di mostrarsi costantemente brave, adeguate e perfette.
Esistono poi dipendenze che coinvolgono le condotte sessuali, il gioco ed anche il lavoro. In
un epoca come la nostra non mancano sicuramente i teledipendenti o persone che riescono ad
entrare in contatto e a comunicare con altri solo attraverso un computer o un telefonino.
Ci sono poi persone che ricercano situazioni di pericolo come nel caso di sport estremi e per
finire dipendenze che non vengono spesso considerate come quelle verso gli animali o le
persone.
2.7 Il digiuno origini e le paure
Il digiuno è una pratica istintiva e naturale a cui ricorre l'animale ferito o malato, che si
apparta ed isola astenendosi dal cibo sino al ricupero delle forze vitali ed alla guarigione.
Sono note le condizioni eccezionali del digiuno animale durante il letargo invernale o durante
periodi peculiari di trasformazione quali la stagione degli amori: è l'esempio dei salmoni che
interrompono l'assunzione del cibo quando percorrono il viaggio estenuante a ritroso lungo i
fiumi per cercare luoghi adatti alla riproduzione.
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Il digiuno è conosciuto in ambito antropologico: si pensi alla popolazione degli Hunza del
Tibet, le cui eccezionali condizioni di salute sono state attribuite, oltre che allo stile di vita ed
alle condizioni sociali equilibrate ed eccezionali, al periodo di semi-digiuno che dovevano
affrontare data la scarsità del cibo nel periodo invernale.
Meno noto è sicuramente l'uso del digiuno come strumento di disintossicazione del corpo e di
prevenzione ma anche guarigione dalle malattie: è il caso del digiuno idrico igienista, adottato
dalla naturopatia e in particolare dall'igiene naturale, un movimento sorto nel secolo scorso
per opera di alcuni medici e naturopati che anticiparono gli attuali contributi della psicologia
della salute proponendo un originale interpretazione del ruolo della patologia all'interno del
“Sistema uomo” e indicando la pratica del digiuno e la promozione di uno stile di vita
“conforme alle leggi della Natura” come via di guarigione e di mantenimento della salute
olistica.
Riferimenti al digiuno sono presenti nella letteratura medica ufficiale di tutto il mondo che
riportano ricerche sui cambiamenti fisiologici e sugli effetti terapeutici che accompagnano
l'astinenza dal cibo.
Ma dall'altro lato spesso le persone ne hanno paura. Questa emozione è riconducibile a
dinamiche psicologiche ed inconsce ben precise. L'astensione dal cibo richiama: infatti all'atto
del nutrirsi che ha un significato psicologico aggiuntivo rispetto alla semplice funzione
biologica: il cibo è il primo mezzo di scambio tra il bambino e il mondo (la madre in primo
luogo) attraverso il quale il bambino inizia l'apprendimento della realtà ed attraverso il quale
viene trasmesso il messaggio dell'amore e del contenimento materno. Così attorno all'atto del
nutrirsi si struttura la relazione bambino-altro. “Il nutrimento viene identificato con l'amore
nella maggior parte dei bambini in età molto precoce” come dichiara Lowen. Le
psicopatologie legate al cibo, come l'anoressia e la bulimia, testimoniano dell'ipervalore
simbolico investito nel cibo che viene alternativamente vissuto come “oggetto” dal quale
ottenere la gratificazione primaria, che si tratti di amore o di sicurezza, o sul quale scaricare le
tensioni aggressive e l'ansia esistenziale. La paura del digiuno va inserita in questa dinamica,
ove l'astensione dal cibo può voler significare il rinunciare alla sicurezza dell'amore
simbiotico. La paura di morire di fame equivale alla paura infantile di non essere amati.
Questa fa capo al nucleo dell’insicurezza che implica una minima fiducia in se stessi e negli
altri, dove con la continua preoccupazione di controllare ed anticipare gli eventi della vita, e
quindi con l'incapacità di vivere il presente si arriva “lasciarsi essere”. Così la paura del
digiuno è la paura dell'incontro con se stessi, con la propria “ombra”, con il vuoto, con le parti
di se stessi non integrate, la paura dei processi ritmici vegetativi e delle ondate di energia che
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attraversano il corpo al di là del controllo razionale, la paura quindi della propria istintualità
come della disidentificazione dagli aspetti egoici della personalità.
L'atto del digiunare quindi va ben oltre alla semplice finalità della guarigione fisiologica:
nella misura in cui astenersi dal cibo significa sperimentare la separazione del legame con la
materia-Madre-realtà consensuale e trascendere la paura dell'ignoto, del vuoto, della non-
identificazione, la pratica del digiuno diventa uno strumento, unitamente alla meditazione, per
la realizzazione psicologica e religiosa, intendendo il termine religioso nel senso etimologico
del termine (re-ligo, collego di nuovo): ricollegare l'uomo a se stesso, alla sua esperienza
attuale..
Il digiuno è allora uno dei diversi strumenti a disposizione dell'uomo per realizzare il processo
di crescita interiore e di attualizzazione delle potenzialità latenti. E' un percorso che passa
attraverso la presa di coscienza che conduce al decondizionamento culturale e alla
“disintossicazione” dalle informazioni apprese relativamente alla realtà consensuale, per
riappropriarsi delle diverse dimensioni dell'essere al mondo, delle potenzialità di guarigione,
trasformazione e consapevolezza, per raggiungere la più completa esperienza dell'essere e
riscoprire gli stati di coscienza spirituali e globali.
Disintossicando il corpo e la mente, il digiuno favorisce l'apertura dei centro energetici e in
particolare del centro del cuore, che presiede alla facoltà dell'amore e della compassione:
l'effetto di questa purificazione energetica si ripercuote a diversi livello dell'essere, poiché la
guarigione del chakra del cuore comporta il giusto equlibrio tra tutte le nostre parti e la
equidistanza da richieste eccessive che rischiano di travolgerci; ci permette di definire con
chiarezza i confini in cui ci sentiamo stabili e protetti, trovando il giusto rapporto con gli
interlocutori esterni. In tal modo guarisce la paura d'amare e con essa la persona recupera la
stabilità e si riappropria del proprio centro interiore trasformando le paure, le ansie, le
inibizioni in accettazione e realizzando la crescita di una consapevolezza più illuminata,
capace di percepire quanto di insondabile permea l'esperienza dell'essere.
2.8 Il digiuno ed i suoi doni
Quando una persona digiuna si verificano contemporaneamente diverse modificazioni
dell'ambiente interno ed esterno. Queste modificazioni hanno un effetto essenzialmente
destrutturante sulle attività psichiche e funzionali dell'Io, fenomeno che si manifesta nella
generale regressione delle modalità comportamentali, con allentamento delle difese rispetto al
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mondo emotivo e con depotenziamento del pensiero associativo e logico che si caratterizza in
forme di pensiero analogiche, talvolta irrazionali ma sicuramente creative. Tra gli effetti di
questo fenomeno vi sono il miglioramento dell'attenzione, della concentrazione e della
memoria: una più fluida lucidità mentale viene sperimentata dal digiunante, con affioramento
di idee nuove e creative rispetto ai problemi pratici ed esistenziali.
Durante il digiuno si è più in contatto con il proprio mondo interiore ed emotivo. La
particolare condizione regressiva, unitamente alla disattivazione del sistema di inibizione
dell'azione, può determinare spontanee scariche di espressione emotiva, che favoriscono
l'abreazione catartica e la liberazione degli impulsi e delle tensioni bloccati. Si può osservare
come l'intera variabilità emotiva, dalla gioia alla paura alla tristezza alla rabbia, che nelle
situazioni quotidiane viene repressa ed inibita, durante il digiuno affiora più facilmente alla
consapevolezza e viene più facilmente espressa, comunicata e, soprattutto elaborata ed
integrata, divenendo quindi risorsa per la crescita.
Dalla liberazione emotiva deriva l'aumentata capacità di rilassamento e la più profonda
disponibilità respiratoria e distensiva.
Un dato interessante, strettamente legato alla liberazione emotiva è la perdita di peso, che in
alcuni casi di inibizione è limitata nonostante l'astinenza dal cibo e che, una volta espresse ed
elaborate le emozioni trattenute, aumenta sensibilmente. Durante lo stato di digiuno vi è un
maggiore collegamento con l'Inconscio, che si può evidenziare nell'emergere di ricordi e di
insights spontanei rispetto alla storia e all'esperienza personale. Lo stesso mondo onirico si fa
più vivido e ricco. Durante il digiuno avvengono determinati cambiamenti delle abituali
strutturazioni che hanno il ruolo di stabilizzare lo stato di coscienza ordinario Si modificano le
attività quotidiane; la condizione di riposo e l'inattività prevalgono rispetto alla strutturazione
della giornata secondo il ritmo dei pasti e dell'attività lavorativa. Si affina la sensorialità in
genere e gli organi del senso percepiscono la realtà esterna in modo diverso, varia in maniera
notevole la percezione cenestesica che informa la mente sullo stato interno del corpo, sul
grado di tensione muscolare, sulla temperatura corporea: vengono a mancare le molteplici
stimolazioni indotte dall'assunzione del cibo. Variano quindi le tre principali sensazioni
corporee la sensazione fetale superficiale, a livello epidermico; le sensazioni legate al
movimento muscolare; le sensazioni “di pancia” e viscerali. Si può comprendere quindi come
il digiuno sia utilizzato come strumento di espansione della consapevolezza: esso allenta i
meccanismi di radicamento dell'Io alla realtà consensuale, favorendo l'integrazione delle
funzioni emisferiche del cervello ed in altri termini, favorendo il collegamento tra conscio ed
inconscio. Destrutturandosi le funzioni di stabilizzazione dello stato ordinario di coscienza, la
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consapevolezza si trasforma in una condizione particolare di sensibilità, recettività ed accesso
alla creatività interiore. Il momento del digiuno è, in questo senso, un momento di
ristrutturazione degli schemi mentali che orientano l'individuo nel mondo. Una
ristrutturazione che si attua nella possibilità di cambiamento di determinate strutture di
credenze, in particolare relative ai processi psicofisiologici dell'organismo: l'esperienza diretta
e profonda del proprio corpo che regola in modo equilibrato le funzioni di adattamento
all'astinenza da cibo fornisce una nuova concezione evolutiva dei processi inerenti la malattia,
la salute e la vitalità energetica.
Così, l'apprendimento della possibilità del digiuno e dell'autoguarigione rafforza il senso di
autostima, la sicurezza nelle capacità rigeneratrici dell'organismo, e in generale la fiducia
nella vita così come l'ha intesa Lowen, il quale afferma che “la scoperta che il corpo ha vita
propria ed ha la capacità di curarsi da sè e la rivelazione di una speranza. Rendersi conto
che il corpo ha la propria saggezza e la propria logica ispira un rispetto nuovo per le forze
istintive della vita”.
La disintossicazione ed il rilassamento si possono osservare nell'aumentata vitalità energetica,
condizione paradossale rispetto alla concezione comune che prevede l'astenia in caso di
astinenza dal cibo. Soggettivamente il benessere psicosomatico che si raggiunge con il
digiuno è esperibile nelle piacevoli ondate emotive ed energetiche che testimoniano del fluire
armonico della pulsazione vitale. Una volta liberate le tossine in eccesso e dopo aver dato
espressione agli impulsi ed alle emozioni bloccate, l'organismo è in grado di recuperare la
capacità di gioia e di piacere e la vera e propria euforia del benessere. Il digiuno è allora
l'occasione per trasformare il vuoto, che è vuoto dello stomaco come vuoto interiore,
esistenziale, affettivo e quindi assenza dell'amore, nel pieno della percezione del Sè corporeo
ed energetico, nella riappropriazione del corpo e dalle sensazioni che lo attraversano e lo
nutrono profondamente e totalmente.
Così, durante il digiuno ci si nutre delle riserve immagazzinate nei depositi ma soprattutto
della relazione con se stessi e con le altre persone: la funzione del gruppo non è solo di
sostegno e condivisione ma è soprattutto di nutrimento affettivo ed energetico.
Facendo una sintesi il digiuno porta ad una maggiore lucidità mentale e una creatività del
pensiero, alla liberazione delle emozioni inibite, con espressione spontanea, alla maggiore
capacità di rilassamento, con riduzione degli effetti dello stress, ad una maggiore sensibilità al
mondo interiore, con affioramento di ricordi, immagini.
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3.Abbracciare la propria ombra
Non puoi conoscere una cosa senza conoscere il suo contrario.
Non puoi conquistare la sincerità senza aver fatto esperienza dell’ipocrisia
ed esserti deciso a combattere contro di essa.
(Abu Uthman Maghrebi)
Devo accogliere e amare me stesso umilmente,ma nella mia interezza,
senza restrizioni, ombre e luci,gentilezze e collere, risate e lacrime, umiliazioni e fierezze,
rivendicare tutto il mio passato, il mio passato inconfessato, inconfessabile..
Janques Leclercq
Il lupo di Gubbio
Nel villaggio di Gubbio, abitavano persone dignitose, per non dire orgogliose. Il loro
villaggio era in ordine; le strade pulite; le case imbiancate di fresco a calce; le tegole
rosse dei tetti ben lavate; i vecchi felici; i bambini ben educati; i genitori lavoratori.
Appollaiati sul fianco della montagna gli abitanti di Gubbio gettavano uno sguardo
sprezzante sui villaggi in pianura. Consideravano le persone che abitavano in basso
sporche e poco frequentabili. Ma ecco che con il favore della notte, un ombra si
intrufolò a Gubbio e divorò due paesani. La popolazione si lasciò prendere dalla
costernazione. Due giovani coraggiosi si offrirono per andare ad uccidere il mostro.
Armati di spada, lo aspettarono a piè fermo. Ma, al mattino, trovarono i loro corpi
sbranati. Il panico fu totale. Capirono che si trattava di un lupo che, la notte, si
aggirava per le strade. Per liberarsene, l’assemblea del villaggio decise di fare ricorso
al santo conosciuto per il suo potere di parlare agli animali. Questo santo altri non era
che San Francesco d’Assisi. Partì dunque una delegazione per incontrare Francesco e
implorarlo di venire a cacciare per sempre il lupo dal loro tranquillo villaggio. Sulla
strada del ritorno, il santo si inoltrò nella foresta con il proposito di parlare con il lupo
cattivo. L’indomani mattina tutti i paesani si erano riuniti nella piazza pubblica e si
spazientivano per il ritardo di Francesco. Vedendolo finalmente uscire dalla foresta, di
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misero a gridare di gioia. A passi lenti il santo si aprì il cammino sino al pozzo, poi,
salendo sul bordo, apostrofò il suo uditorio: “Abitanti di Gubbio, dovete nutrire il
vostro lupo!”. Senza altri commenti, scese e se ne andò. All’inizio la gente prese molto
male la cosa. Si arrabbiarono con Francesco. La paura del lupo lasciò il posto alla
delusione e alla collera contro questo santo inutile. Ma, ricredutisi, quella sera
incaricarono uno di loro di depositare un cosciotto davanti alla propria porta. E fecero
lo stesso tutte le altre sere.
Da allora nessuno più morì tra le fauci del lupo. La vita riprese il suo corso normale.
D’altra parte, questa prova rese saggi gli abitanti del villaggio. Essi smisero di
mostrare un atteggiamento arrogante e sprezzante verso gli abitanti dei villaggi in
pianura. La presenza del lupo nel loro paesello li rese umili.
3.1 Tre concezioni dell’inconscio: Freud, Nietzsche, Jung
Jung considerava la reintegrazione dell’ombra come “il problema morale per eccellenza”.
Riconoscere la propria ombra, accettarla come parte di se stessi e reintegrarla nell’insieme
della propria persona. La persona che riesce ad abbracciare la propria ombra diventa un essere
completo e unico.
Freud, Nietzsche e Jung propongono percorsi diversi per la reintegrazione dell’ombra che
variano a secondo delle loro concezioni della natura dell’inconscio e dei rapporti dell’io
cosciente con quest’ultimo.
Per Sigmund Freud l’inconscio è un mondo di forze caotiche sempre pronte a superare i
fragili confini della coscienza. Come un vulcano che, travagliato dalle spinte istintuali e
erratiche della libido, minaccia in ogni momento di entrare in eruzione.
Per difendersi da tali straripamenti la parte cosciente ha bisogno di crearsi tutto un sistema di
difesa. Freud consiglia in particolare di dotarsi di due difese: la formazione del “principio
della realtà” e “lo sviluppo di una solida vita razionale”.
Nietzsche al contrario non vede affatto la necessità di difendersi dall’inconscio anche se ne
sostiene il carattere caotico e irrazionale. Lui esalta le forze inconsce del “Superuomo” e
quelle dell’uomo inferiore con le sue tendenze malefiche.
La sua opera, deformata dai nazisti è servita a giustificare i lori istinti razzisti e distruttori.
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Jung si allontana da entrambe queste due posizioni estreme. Per lui l’inconscio è un insieme
di forze opposte ma complementari che chiedono di essere organizzate. Esso è composto
prima di tutto da forze antitetiche come quelle dell’Ego e dell’ombra, del maschile e del
femminile e da un infinita serie di polarità alchemiche. Tali forze sono responsabili di tensioni
psichiche in constante fluttuazione. Nonostante ciò tutti questi elementi, grazie alla polarità
del Sé, cercano di organizzarsi in un tutto coerente.
La Concezione junghiana sottolinea la necessità di stabilire un giusto equilibrio tra gli
elementi dello psichismo. L’armonizzazione dell’Ego cosciente e dell’ombra, che Jung
definisce come “la totalità dell’inconscio”, è particolarmente importante. Questo processo
richiama la visione taoista della realtà, secondo cui l’universo risulta dall’armonizzazione
costante e invisibile dalla polarità tra yin e yang.
3.2 Gestire la propria ombra
Non si può fuggire da un dilemma eliminandone un aspetto. È importante accettare la
tensione che nasce tra l’io ideale e l’ombra. Inizialmente non sarà facile ma con il tempo nel
profondo tali poli da opposti diventeranno complementari. Il difficile confronto tra Ego e
ombra ha ricevuto molteplici definizioni nella letteratura simbolica . Per esempio gli
alchimisti lo chiamano nigredo, i mistici, le notti di fede; nei miti di Osiride e Dioniso lo si
descrive come smembramento della persona, mentre nello sciamanesimo si parla di
spezzettamento o di cottura nel calderone. In tutti i riti iniziatici il conflitto viene descritto
sotto forma simbolica di tortura o di una sepoltura .
Durante la crescita ogni individuo si troverà a vivere emozioni inaccettabili come anche forti
pulsioni istintuali. È necessario che impari a non dare ad essi libero corso ma allo stesso
tempo a non rimuoverli.
Molto spesso accade che non si è coscienti di tale necessità e il sistema cerca in qualche modo
di dare dei segnali che facciano in modo che si riequilibri come una malattia, un
licenziamento,un fallimento.
In molti potrebbero credere che tutta questa trasformazione possa avvenire naturalmente ma è
importante sottolineare che questo percorso esige coraggio.
Molte persone vivono in maniera dualistica: amano o odiano, lavorano o si riposano, si
prendono cura degli altri o si prendono cura di sé, esprimono i propri sentimenti o li
reprimono e così via.
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La polarità fa sì che siamo incapaci di considerare contemporaneamente i due aspetti di
un’unità e costringe la nostra conoscenza a muoversi seguendo una successione da cui
nascono i fenomeni del ritmo, del tempo e dello spazio. Per esempio, nel respiro,
l’inspirazione deriva dall’espirazione e senza il suo opposto non potrebbe esistere; se uno si
rifiuta di espirare non potrà poi nemmeno inspirare. Un polo non può esistere senza il suo
opposto. Dietro alla polarità sta l’unità quell’uno che racchiude tutti gli opposti non separati.
Questa dimensione viene chiamata anche Universo che per definizione comprende tutto per
cui nulla può esistere senza questa unità.
3.3 L’acqua come metafora
In natura tutto è polarizzato e simmetrico, ma in maniera imperfetto. Nella realtà visibile non
esiste una linea perfettamente diritta, né il cerchio o la sfera perfetti. Nel mondo, tutto è
dinamico e tende alla perfezione ma non c’è cosa che possa essere considerata perfettamente
simmetrica. Da sola l’acqua non potrebbe condurre bene l’elettricità. L’acqua pura a bisogno
di impurità per realizzarsi. Basta aggiungere un piccola quantità come un pizzico di sale
affinché essa si trasformi in un ottimo conduttore. Con un po’ di impurità l’acqua diventa una
forza assai potente. Tale elemento può definirsi come quel informazione che, mescolata
all’acqua, crea una nuova forma e la possibilità di accrescere ulteriormente l’informazione.
Paradossalmente, proprio in virtù delle sue imperfezioni, l’acqua è spinta ad anelare alla
perfezione e costruisce armonia e bellezza del nostro mondo visibile.
L’essere umano, che è parte integrante della natura, è imperfetto e può evolversi lavorando sui
propri errori. L’insegnamento dell’acqua ci dice quindi che colui che pensa di essere perfetto
o che crede che la natura viva in uno stato di perfezione è destinato a fallire e ad avere per
questo una vita dolorosa.
Gli antichi Cinesi spiegavano come l’acqua racchiude in sé l’equilibrio in natura tra i due
principi bipolari, femminile e maschile. È insieme yin ( polo negativo), nel suo tendere a una
certa stabilità, e yang (polo positivo) nella sua capacità di muoversi, evolversi e trasformarsi.
L’acqua ci porta a guardarci dentro, a scoprire parti di noi che non vorremmo vedere, paure
che sono con noi da infinite generazioni. Guardare nell’acqua non è fermarsi ad osservare la
superficie, significa penetrare nella sua trasparenza, nella nostra natura. Rappresenta il
guardiano messo davanti al nostro inconscio nella via di accesso ad esso. Kafka in un suo
racconto, “Davanti alla Legge”, scrive come tutti ci troviamo di fronte a una porta guardata a
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vista da un guardiano che ci intimorisce, ma siamo solo noi a impedirci di entrare perché
come il custode nella storia fa osservare al protagonista, quella porta è solo socchiusa ed è
destinata a noi e a nessun altro.
Lao Zi insegna che l’acqua è un insuperabile maestra di comportamento. È questo uno dei
suoi insegnamenti paradossali: se vuoi essere forte devi saperti piegare, devi essere flessibile.
Freud osservava come nei nostri sogni l’acqua rappresenta i desideri più profondi e il
godimento del rapporto sessuale. All’opposto, l’acqua è anche il substrato delle nostre paure
più profonde: di annegare, di non respirare, della sofferenza prima della morte.
Il ruolo importante dell’acqua per la vita non è in contraddizione con il suo ruolo nelle
esperienze di morte. In essa infatti vita e morte coesistono sempre: ce lo ricordano il trauma
quasi morte del nascituro durante il parto e la rinascita spirituale ottenuta con
l’“annegamento” nel bagno rituale. L’acqua quando è quiete evoca il silenzio e la calma della
meditazione; in opposizione il mare in tempesta può rappresentare l’agitarsi di tutte le
emozioni. Le proprietà adesive dell’acqua rimandano al sentimento più nobile: l’amore.
L’acqua aderisce a tutto e si adatta sempre alla forma di ciò che si prepara a contenerla.
L’amore è lo stimolo più forte che abbiamo per promuovere la vita e la sua qualità
paradossale è proprio quella di assorbire e di farsi assorbire, senza per questo sacrificare nulla
della sua identità.
La vita reale ci chiede di crescere di imparare a fare i conti con le perdite, con il dolore, con la
rabbia e con la paura, ma anche con i successi, con gli affetti e con il piacere.
3.4 La rabbia
La rabbia è un indicatore emotivo (o empirico) che fa capo al codice empirico yang. La rabbia
“sana” come definita da alcuni, non comprende in sé nessun elemento di violenza gratuita e
distruttrice ma ha in se unicamente le componenti per permettere all’uomo di affermare se
stesso durante la propria vita.
Per Felliozat gli impulsi aggressivi sono sani mentre i desideri di distruggere, di fare del male,
di ammazzare non sono pulsioni, ma impulsi-reazioni alle spinte aggressive. La violenza e il
desiderio di potere nascerebbero dal sentirsi impotenti. La rabbia in questo senso ha quindi
origine dalla storia personale dell’individuo.
Golman afferma che la rabbia distruttiva ha origine da fenomeni di alienazione sociale e di
disperazione del singolo individuo ampiamente presente nelle società moderne.
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Gli uomini se in armonia e nel pieno libero fluire non utilizzeranno mai la rabbia per
distruggere. Gli individui pieni di angoscia, nello stato alterato, potranno invece giungere a
comportamenti aberranti senza averne a volte la reale consapevolezza.
Chi è sordo alla rabbia non acquisirà la libertà di affermarsi in quanto non avrà le risorse per
lottare e difendere se stesso, le persone che ama, i propri diritti, valori, idee e sentimenti, la
propria autenticità.
Per fare ciò avrà bisogni di delegare altri diventandone dipendente oppure sarà costretto a
ritirarsi in un isolamento protettivo.
Una persona colma di rabbia metterà invece in atto in ogni momento e in tutti gli ambiti della
vita compresi quelli affettivi comportamenti di controllo, autoritari giungendo a atteggiamenti
di violenza verbale, fisica e psicologica. Il conflitto e la sopraffazione diventerà la principale
se non unica loro forma di comunicazione sia in campo sociale che affettivo.
Il rapporto della rabbia nella società moderna potrebbe essere definito schizofrenico. Da una
parte essa spinge gli individui ad accentuare comportamenti individuali selvaggi e di
esasperata competitività proponendo costantemente messaggi pubblicitari, trasmissioni e
videogiochi violenti e anaffettivi; per contro giudica come incivile e segno di debolezza
qualsiasi manifestazione di rabbia. Gli individui alla vista di tali messaggi incoerenti si
trovano confusi.
I bambini di fronte a siffatti modelli alterati non imparano ad accettare e ad esprimere in
modo coretto la propria aggressività. Frasi del tipo: “sei cattivo!”, “Farai morire la
mamma!”, porteranno solo a far crescere il bambino in maniera frustrata, impotente e
incapace di affermarsi di fronte agli altri.
Entrare in conflitto con se stessi o con altri non significa imporsi o iniziare una guerra, ma
vuol dire imparare a costruire forme di confronto fra universi diversi aventi caratteristiche e
esigenze differenti.
L’evitare sistematico del conflitto crea nella persona forti accumuli di rabbia inespressa, come
i rifiuti subiti in silenzio, i sensi di colpa per aver desiderato, parole non dette per paura di
ferire l’altro o per paura della risposta. Fromm scrive nel libro “L’arte di amare”: “..senza la
libertà di affrontare i cambiamenti ed i conflitti esistenziali non esisterà nessuna forma di
amore”. Se si è capaci di dire NO, si potranno dire dei veri SI. Non si tratterà di sì di
sottomissione o rassegnazione ma sì di una qualità diversa e autentica.
Per il bambino imparare a dire No ai propri genitori significa iniziare a lottare per costruire la
propria identità.
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È importate nel confronto imparare ad utilizzare un linguaggio che abbia il pronome “io” e
non “tu” tutte le volte che si sceglie di esternare la propria rabbia. Come ad esempio: “Io mi
sento usata quando tu ti comporti in questo modo!” e non “tu sei un egoista e non ti interessa
nulla di me…”. Iniziare un conflitto adoperando giudizi che tolgono valore o recano offese
non farà altro che accendere nell’altro una naturale reazione di difesa allo stesso modo
offensiva e mortificante. A nessuno fa piacere subire attacchi o essere ferito. La rabbia è un
mezzo per affermarci, difenderci e non per umiliare, annullare e abusare gli altri anche se,
come precedentemente accennato, è un diritto yang potervi accedere e sperimentare tali
pulsioni.
La rabbia nella sua forma integrata è di solito immediata, chiara e diretta; di seguito alcuni
termini usati per descrivere tale emozione: collera, irritazione, ira, rancore, risentimento,
stizza, irrequietezza, furia, astio, furore.
3.5 La paura
La paura costituisce uno degli indicatori empirici o anche di sicurezza che fa capo ai principi
dell’ombra yin. Si presenta quando l’uomo inizia a percepire vicino a se una minaccia questo
significa che il compito di questa emozione è di segnalare situazioni e persone ritenute fonte
di pericolo al fine di attivare il comportamento più adeguato come la fuga o il combattimento.
Senza di essa l’individuo non potrebbe imparare a confrontarsi con il proprio ambiente.
Quando si cerca di nascondere le proprie paure, prima di tutto a se stessi, il risultato è di
essere guidati inconsciamente da esse per tutta l’esistenza. La paura può essere generata dal
fatto di percepirsi inadeguati, non all’altezza, deboli, brutti oppure può essere provata in
occasioni di esami e situazioni sociali di gruppo, o in ambienti e situazioni nuove o poco
conosciute. Tale segnale è sano finché la persona non ci casca dentro.
Un individuo insensibile alla paura non sarà in grado di riconoscere i pericoli che gli si
presenteranno lungo la vita mettendo a repentaglio la propria sicurezza fisica, sociale e
psicologica. Una persona piena di paura avvertirà il mondo come minaccioso e si muoverà in
esso con diffidenza e fuggendo nel suo rifugio ogni volta che gli si presenteranno nuove
situazioni o circostanze non decodificabili nell’immediato.
Paura di che cosa? Perché mai l’uomo dovrebbe temere proprio ciò che gli consentirebbe di
realizzarsi pienamente e di vivere più felice? Le possibili risposte a questa domanda sono
numerose: perché cambiare significa abbandonare le certezze del presente per un futuro
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sconosciuto; perché come dice Hellinger significa perdere il senso di appartenenza, uscire dal
gruppo, affrontare la solitudine; perché significa abbandonare i piaceri più facili, ritardare
l’appagamento, impegnarsi e sforzarsi ecc.
C’è però una risposta che racchiude quanto appena descritto: l’uomo ha paura di abbandonarsi
alla spinta evolutiva perché ha paura di essere annullato, distrutto, perdere la sua identità,
morire.
L’uomo che ha paura non può veramente amare, in quanto amare vuol dire aprirsi
completamente, rendersi vulnerabili, senza barriere.
E qui inizia il circolo vizioso, la profezia che si autoadempie. Ciò che viene represso per
paura, non scompare, ma alimenta l’ombra e il sé inferiore. Tutto ciò che finisce nell’ombra
prima o poi imputridisce e assume una valenza realmente negativa, come un animale che
viene chiuso dentro una gabbia e diventa furioso. Ciò che fuoriesce dall’ombra fa sempre più
paura, perché si è inquinato e degenerato. E questo rinforza il bisogno di reprimere.
L’individuo diventa così preda di due forze contrapposte: la spinta verso il contatto e il rifiuto
di questo, prodotto dalla paura. La paura fa nascere due sostanziali reazioni difensive: il
desiderio di ledere o la paura di essere feriti.
Ma la paura è un elemento importante per l’uomo se gli si da e gli si riconosce il giusto posto.
3.6 Senso di colpa
Anche il senso di colpa fa capo al codice yin. È una emozione che permette di contenere le
pulsioni distruttive e di prendere coscienza della sofferenza dell'altro. Considerato in questo
modo può avere anche sfumature costruttive dato che mette in guardia nel caso che si stiano
superando i limiti, costringe ad una messa in discussione e ad un'assunzione di responsabilità.
Il senso di colpa è un meccanismo della coscienza che, se non è alterato, comunica un disagio
e ci rimprovera quando facciamo qualcosa che infrange il nostro codice morale,
perseguitandoci fino a quando non ci attiviamo per recuperare con un gesto riparatore.
Tentare di “evitare” il senso di colpa, vuol dire comportarsi in maniera da evitare di fare del
male ad un'altra persona. Il senso di colpa è una reazione ad una nostra azione “cattiva”,
illecita, crudele o disonesta che necessita di un riconoscimento delle proprie responsabilità.
Comunque può succedere che la colpa non sia connessa ad un atto specifico, ma nasca da un
senso di inadeguatezza non compreso, da un senso di incapacità, di disagio non chiaro, può
cioè sorgere da scenari più profondi della nostra interiorità, non necessariamente associati
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all'esperienza di vita pratica, trasformandosi in un'angoscia legata al convincimento di essere
inadeguati, inferiori, incapaci di essere amati e apprezzati.
E' certamente interessante notare come l'educazione religiosa cattolica ci insegni che ognuno
nasce macchiato dalla “colpa” del peccato commesso dai nostri progenitori quando
disobbedirono all'ordine divino e per questo furono cacciati dall'Eden.
Il senso di colpa invece ha a che fare con la nostra storia personale, con le esperienze di vita
fatte fin dall'infanzia. Il sentimento di colpevolezza nasce dal nostro “giudice interiore” che ci
mette di fronte agli insegnamenti che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, dalla religione e
dalla regole sociali, come se si dovesse pagare un prezzo in termini di sofferenza interiore per
avere osato desiderare qualcosa di vietato. Infatti basta solo aver pensato di violare una
“regola” per vivere una sensazione di disagio, per non sentirsi più la coscienza pulita. Il
bambino impara molto presto a sentirsi in colpa per non aver soddisfatto le aspettative degli
altri e spesso quando è spettatore di un divorzio, di una malattia o di una sofferenza dei
genitori, si convince di essere responsabile, come se effettivamente tutto ciò che è doloroso o
“negativo” fosse, per qualche ragione, colpa sua.
Il sentimento di colpevolezza può celare un senso di onnipotenza (“è tutta colpa mia!”), una
specie di volontà di controllo sugli altri e su ciò che si vive, un meccanismo perverso che ci
costringe a vivere nella dipendenza, lasciando agli altri il potere di liberarci. La maggior parte
delle persone che si sentono colpevoli soffrono, in qualche modo la paura dell'abbandono, il
timore di perdere un amore o l'approvazione degli altri. Il sentimento di colpevolezza infatti
induce ad adottare una certa condotta in funzione della fedeltà al gruppo di riferimento e al di
fuori del quale ci si sentirebbe persi. La possibilità di fare una scelta fuori dal coro spaventa, è
forte la tentazione di rimanere fedeli al gruppo rinunciando a se stessi e alla propria vera
identità. Ma l’innocenza è prevista empiricamente solo nel ruolo del bambino, sentirsi in
colpa e non assumersi le proprie responsabilità significa rimanere relegati nel ruolo del
piccolo. Crescere vuol dire rispondere dei propri atti e allo stesso tempo liberarsi dai
condizionamenti e dalla paura di infrangere imposizioni e regole, adottando un
comportamento rispettoso verso il gruppo, ma senza rinunciare a sé.
Uno dei pericoli cui si incorre non facendo i conti con questa realtà è quello di lasciarsi vivere
orientandosi verso scelte senza ambizioni o evitando accuratamente obiettivi impegnativi.
C'è chi per alimentare tale bisogno mangia tanto, specialmente cibo ipercalorico, per poi
sentirsi in colpa verso se stesso e verso gli altri che vengono percepiti come giudici sempre
pronti a dire la loro. Il rapporto con il cibo ci dice qualcosa della nostra capacità di
relazionarci: non sentirsi mai sazi di cibo è come non sentirsi mai sazi dell'amore che ci
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donano gli altri, giudicandolo sempre insufficiente. Si crea una grande dipendenza dagli altri e
soprattutto una grande mancanza di fiducia e autostima, si mangia per riempire vuoti di affetti
e ci si sente in colpa subito dopo per non riuscire ad aderire ai canoni dettati dalla società in
tema di immagine. E' raro gustare un pasto come momento di puro piacere, nella maggior
parte dei casi si finisce per non conoscere affatto i propri cibi preferiti così come si ha
difficoltà a scegliere partner o amicizie che veramente fanno stare bene.
Un altro comune senso di colpa è legato al vissuto di quei figli che non si occupano dei
genitori anziani: chi decide di non vivere con i propri genitori anziani può sentirsi ingrato o
traditore e spesso immagina che un giorno sarà abbandonato a sua volta, giusta punizione per
il suo egoismo. Se il tempo dedicato ai propri genitori, per necessità o per scelta, è poco, è
importante far sì che diventi comunque un momento intenso, interamente dedicato a loro. Non
è raro che a decidere di tenere con sé il genitore sia proprio quel figlio che è stato trattato
meno bene, lui sarà spinto da un desiderio inconscio di ricevere quell'amore che gli è
mancato, credendo in tale modo di poterlo finalmente ottenere offrendo le sue cure. I figli che
hanno ricevuto una qualità d’amore sufficiente, sono meno condizionati da questo tipo di
desiderio profondo.
Le madri che lavorano si possono sentire in colpa per il fatto di lasciare i propri bimbi da soli
tanto tempo. Gli effetti di questo tormento si possono osservare nella perdita di autostima e di
interesse per il lavoro, nella somatizzazione, nell'aggressività o, a volte, nella smisurata
indulgenza verso i figli. A volte si fa l'errore di non accettare la vita che si è scelta e
rimproverarsi è più facile che prendere coscienza di quello che si desidera davvero: “Perché
sono rimasta incinta se sapevo che poi avrei dovuto occuparmi dei figli? Perché non ho
lasciato il lavoro?”
In realtà è la qualità dell’amore e del tempo che si trascorre con i figli ad essere importate e
sarà sicuramente più nutrienti di una presenza continua ma distratta o, peggio ancora,
esclusiva e soffocante.
Lo stesso vale anche per quei padri divorziati che sono costretti a vedere i propri figli
sporadicamente. Molti cercano di conservare la loro autorevolezza ma si sentono presto
rifiutati ed iniziano a recitare la parte di padre-amico-permissivo. Questo li aiuta a sentire
meno quel senso di colpa che nasce puntuale dalla sensazione di aver deluso le aspettative che
il ruolo di padre richiede. Un “buon padre” dovrebbe essere sempre presente, ascoltare i figli,
incarnare “le regole”, essere un modello. E se tutto questo non si raggiunge? Si ha la
sensazione di aver fallito, di perdere l'amore dei propri figli.
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4.Il dolore
Dai parola al dolore.
La pena che non parla mormora in fondo
al cuore e lo invita a frantumarsi.
William Shakespeare.
Già, forse il dolore è la grande scuola
della quale fuggiamo
ma la sola che forgia
nuova ricchezza interiore.
Letizia Espanoli
4.1 Il dolore dal punto di vista filosofico
La filosofia considera il dolore come momento del più vasto problema del male. Gli antichi
Greci pensavano che il dolore fosse un ostacolo alla felicità, e quindi uno stato della coscienza
da eliminare, dato che consideravano la felicità come scopo della vita umana: naturalmente,
considerata la difficoltà di eliminare il dolore dalla vita fisica, pensavano che l’eliminazione
di esso si potesse raggiungere sul piano della meditazione filosofica, e dal superamento delle
passioni. Nell’antica Grecia si pensava che un dolore che affliggeva più persone, cessa di
essere patimento, solo per il fatto di essere intersoggettivabile comunicabile, modificandosi in
un qualcosa di molto simile al disagio o al malessere, ossia alla mezza contentezza. Un
qualcosa di condivisibile con gli altri uomini, sia sul piano della cognizione e dell'esperienza
che su quello della ragione, ci fa comprendere d'essere pezzi di qualcosa, di non essere delle
isole ma parti di un continente, d'essere uomini che sanno di godere e di tribolare insieme. Un
uomo ha sempre la pretesa di soffrire di più di chiunque altro perché non partecipa con altri
uomini a tale tormento e quindi del suo dolore per il fatto d'essere unico ed irripetibile, sarà
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anche indefinibile e incomunicabile. Nella Grecia antica l'espressione Paqos è ogni affezione
dell'anima che sia accompagnata dal piacere o dal dolore, dove il piacere e il dolore sono
segno di una reazione immediata dell'essere vivente ad una situazione favorevole o
sfavorevole tale che questi sia disposto ad affrontare la situazione con tutti i mezzi di cui sia
in possesso.
Il filosofo Platone dichiara che il dolore si ha quando la proporzione delle parti che
compongono l'essere vivente risulta predominata, compromessa o controllata di modo che
manchi l'armonia, mentre si ha il piacere quando tale armonia venga ristabilita.
Aristotele considera, invece, il piacere come un desiderio oppure uno stato naturale, mentre il
dolore come il contrario di esso. Aggiunge poi che il piacere è definito e determinato dai
movimenti dell’anima, dal ritorno totale e sensibile agli stati naturali ed è qualsiasi azione o
fatto che non è forzato e non è contro la nostra volontà. Il dolore è tutto ciò che è forzato, che
è contro natura; tutti gli affanni, gli sforzi ed i travagli sono considerati dolorosi e se sono
imposti da necessità, se non ci si è abituati. Aristotele definisce anche la paura come dolore
che proviene dalla proiezione di un male ipotetico ma che ci può colpire, portando con sé
distruzione ed anche dolore; infatti ,specifica, che non si ha paura di tutti i mali ma solo di
quelli che possono provocare gravi danni a noi stessi, ed inoltre questi mali non devono essere
lontani da noi, ma molto prossimi. Infine il dolore, per Aristotele, è un indicatore di una
situazione ostile, sfavorevole in cui l’essere vivente è “costretto” ha vivere mentre il piacere,
o la gioia, come situazione favorevole.
In Oriente, per il Buddha, il dolore venne assunto come elemento determinante e caratteristico
della vita degli uomini, il quale indicò proprio nella scomparsa di esso il principio della
felicità, il raggiungimento della non sensibilità, il Nirvana. Per il Cristianesimo, invece,
l’interpretazione del dolore mutò radicalmente, fino a diventare il mezzo di purificazione ed
elevazione morale, trovandosi in Gesù Cristo l’esempio più alto della virtù redentrice del
dolore. Infatti per la Chiesa l’espiazione dei peccati avviene solo attraverso i dolore, basta
pensare alla crocifissione, Cristo per mezzo di quel dolore fisico riuscì a purificare se stesso e
l’umanità dai peccati. Tutta l’ascetica cristiana è, di conseguenza, rivolta appunto
all’enunciazione delle varie forme di riscatto dell’uomo attraverso la prova e la sofferenza.
Secondo Schopenhauer la vita è dolore per essenza poiché l’essere è la manifestazione della
volontà infinita.
L’uomo è destinato a non trovare mai un appagamento definitivo. La soddisfazione finale è
solo apparente e dà presto luogo a un nuovo desiderio. Perché ci sia piacere bisogna per forza
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che ci sia stato dolore ma non è vero il contrario. Il dolore è un dato primario, il piacere è solo
una funzione che deriva da esso. La noia subentra quando viene meno il desiderio.
La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando
attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.
4.2 La fuga dal dolore
Lei, invece, non solo non lo aveva dimenticato,
ma ricordava con precisione certosina
ogni minimo dettaglio di quanto
era successo e ogni parola detta o sussurrata.
L’unica cosa che aveva cancellato
dalla sua mente era la delusione di essere stata
ingannata
Isabel Allende, La figlia della fortuna
“Non piangere!”, “Non ci pensare, vieni che andiamo a divertirci!”, “Se smetti di piangere ti
compro un gioco!”. Tutte frasi usate per scappare dal dolore fuggendo nel piacere. Molto
spesso i genitori o chi è vicino ad una persona che prova dolore, incapaci di tollerare tale
sofferenza cercano di spingere l’altro ad interrompere la propria manifestazione allettandolo
con offerte di divertimento, giochi ecc.
Spesso tale atteggiamento porta i genitori e chi si comporta così a sentire un senso di colpa e
inadeguatezza nel ricoprire tale ruolo vivendo il dolore dell’altro come la dimostrazione delle
loro colpe e di essere veramente sbagliati.
La prima delle quattro nobili verità del buddhismo insegna che la vita è difficile, che c'è la
sofferenza (Peck, 1978). Per quanto ci diamo da fare, non possiamo sfuggire al dolore che si
accompagna indissolubilmente alla vita. Non possiamo sfuggire alla malattia, alla vecchiaia,
alla morte. Eppure è ciò che tentiamo continuamente di fare: cerchiamo la felicità sfuggendo
al dolore. Ma il dolore negato, rimosso, ci segue come un'ombra. In tal modo, al posto del
dolore reale, ricadiamo in un dolore molto più durevole e grande.
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Il dolore reale, se accettato fino in fondo, vissuto pienamente, condiviso, ci fa crescere e
maturare come esseri umani.
Se superiamo la nostra tendenza narcisistica a rifuggire al dolore, ad arrabbiarci con il destino,
a sentirci vittime perseguitate ingiustamente, se solo apriamo gli occhi e vediamo che questa è
la condizione umana comune, allora possiamo considerare il dolore la strada da percorrere per
diventare adulti e vivere.
Una giovane donna di nome Kisagotami perse il suo unico figlio di circa un anno, a
causa di una malattia. Disperata girava il villaggio di casa in casa, stringendosi al
petto il cadavere del bambino e implorando una medicina che lo facesse tornare in vita.
I vicini pensavano che fosse impazzita, ne avevano paura e cercavano di evitarla. Un
uomo, invece, cercò di aiutarla indirizzandola al Buddha, dicendole che lui aveva la
medicina che cercava. Kisagotami andò dal Buddha - come noi andiamo dallo
psicoterapeuta - e lo implorò di darle quella medicina.
“Ne conosco una che potrebbe fare al caso tuo”, disse il Buddha, “ma ho bisogno di
una manciata di semi di senape provenienti da case in cui non siano mai morti né
bambini, né genitori, né coniugi, né servi”.Mentre faceva il giro del villaggio,
Kisagotami lentamente comprese che non era possibile trovare una casa di quel genere.
Depose il cadavere del suo bambino nella foresta e tornò dal Buddha.
“Mi hai procurato i semi di senape?” chiese questi.
“No rispose lei. La gente del villaggio mi ha detto: i vivi sono pochi, ma i morti sono
molti". “Pensavi di essere la sola ad aver perso un figlio”, disse il Buddha, “ma
lalegge della morte vuole che nessuna creatura vivente duri in eterno”.
Qualche tempo dopo Kisagotami prese i voti e divenne una seguace del Buddha. Una
sera si trovava in cima alla collina e lontano vide giù nel villaggio le luci che
splendevano nelle case. “La mia condizione è simile a quelle lampade”, rifletté.
Si narra che il Buddha le comparisse in una visione, confermando questa sua
intuizione. “Tutti gli esseri viventi somigliano alle fiamme di questelampade”, le disse,
“ora splendono, l'attimo dopo sono spente; solo coloro che raggiungono il Nirvana
sono al sicuro”
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Questa storia è una parabola sulla morte, sull'impermanenza e sulla trasformazione del dolore.
Kisagotami guarì nel momento in cui si rese conto che il suo problema non era unico, ma
universale. Spostando l'attenzione dal proprio trauma alle luci vacillanti del villaggio aveva
compiuto un salto quantico: aveva visto con chiarezza che la sua tragedia era la più comune
delle esperienze. Accettando la sua perdita, e non più negandola o rifiutandola, Kisagotami
aveva potuto scoprire una realtà più grande.
Il dolore, accettato come parte della realtà, e attraversato volontariamente, ci rende dolci e
gentili. Il dolore rifiutato, ci rende duri e crudeli, con noi stessi e con gli altri. Perché
rifiutiamo il dolore? Perché ne abbiamo paura. La paura ci assale nel momento in cui ci
sentiamo separati dal mondo, divisi dagli altri, e quindi frammentati al nostro interno.
L'identificazione nell'ego è espressione di orgoglio e arroganza: “Io, io, io”. “A me non deve
succedere”, “I miei genitori non mi hanno dato sufficiente affetto”, “La società mi ha tarpato
le ali”, “Io meritavo di più”.
La persona con un grande ego sviluppa una volontà personale e modi di fare in continua
opposizione a quanto previsto per l’equilibrio del sistema. Nuota contro corrente. Non può
rilassarsi: deve sempre controllare, lottare, contrapporsi alla sorte. Non si affida, ma sviluppa
la tendenza a forzare. Perde sempre più connessione e integrità. Soffre per un dolore non
necessario, un dolore sterile, distruttivo. In quel dolore non c'è senso alcuno: di qui la
crescente disperazione, il senso di inutilità e fallimento. Tutto ciò che ottiene è precario,
perché si attacca alla superficie delle cose, alle apparenze, a ciò che non è veramente
importante.
A fronte di questa malattia comune, la società in cui viviamo offre i suoi rimedi: la ricerca
della felicità attraverso il possesso di beni materiali, il potere sulle persone, l'identificazione in
un ruolo di prestigio, la carriera, il successo. E' la via dell'alienazione dal vero sé. E' la via
delle dipendenze quali cibo, alcol, sesso, droga, denaro, potere, una via distruttiva, che
aggrava il male che pretende di curare. La nostra società ha orrore per ciò che non può
controllare e assoggettare ai suoi schemi. Così incoraggia la soluzione più facile: alimentare il
narcisismo perseguendo la soddisfazione immediata dei bisogni. Di fronte al vuoto
esistenziale, alla mancanza di significato, ci propone un continuo giostra di stimoli:
alimentari, acustici, visivi, cinestesici. Ci culla dal mattino alla sera in un mondo falso e
illusorio. Non c'è più luogo in cui si possa stare in silenzio, senza radio, senza musica, senza
televisione, senza rumore del traffico. Meditare, riflettere, stare in intimità con se stessi e con
gli altri è sempre più difficile. Come dice Fromm l'uomo di oggi ha paura della solitudine e
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del silenzio Nella solitudine affiorano alla sua coscienza i demoni che ha cercato
disperatamente di affossare nell'ombra. E per fuggire ai demoni, sfugge a se stesso.
4.3 Riconoscere il proprio dolore
Secondo il pensiero di Miller ad un certo punto del percorso di crescita è possibile rendersi
conto di come siano stati precedentemente trattati i propri sentimenti di rabbia e frustrazione,
inclusa l’angoscia che spesso ne consegue. Come se quello fosse stato creduto l’unico modo
di sopravvivere, realizziamo che abbiamo soffocato stati d’animo e bisogni, abbiamo
minimizzato la portata della nostra esperienza o , addirittura, non ne abbiamo assolutamente
percepito il significato profondo. Il bambino che così ha costruito il suo modo di reagire al
dolore, da adulto a poco a poco comincia a rendersi conto che “quando è commosso,
impressionato o triste, cerca disperatamente di distrarsi” .
Chiunque per non sentire il dolore lacerante mette in atto un infinità di strategie di
compensazione che con l’andare del tempo formano un vero e proprio copione. Lo scopo è
quello di camuffare in maniera ermetica un debito. “Così ciò che si è subito da bambini, ciò
che si è ricevuto, quello di cui si è stati privati, ogni separazione, abbandono o tradimento
trovano il loro posto dietro tale maschera, sentendosi protetti da essa”11. Continuando su
questa strada si scoprono sentimenti, che una parte di noi vorrebbe ancora soffocare ma la
porta è stata aperta, non si può continuare ad essere ciechi.
L’armatura che impedisce di sentire, il sentimento che ci illudiamo di non provare è solo un
rimedio momentaneo che non modificherà ciò da cui ci sentiamo minacciati. Sarà la necessità
a farci avvicinare alle cause del malessere profondo che ci affligge e facendoci vicinale alle
ferite affettive mai ammesse e nascoste alla perfezione. Si sarà costretti a riconosce una
qualità d’amore non sufficiente da parte di chi ci ha amato, ammettere quanto la consegna
della famiglia di appartenenza sia inquinata, riconoscere abbandoni, abusi sessuali, tradimenti,
responsabilità mancate verso di se stesse e verso gli altri.
4.4 Cos’è il dolore psicologico?
11 M. Hardy, La grammatica dell’essere, Lumh
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“A volte arriva come un onda lunga e lenta che, partendo dalla pancia, si inerpica lungo lo
stomaco e raggiunge i polmoni e la gola facendoli urlare ed esplodere. Altre volte, invece,
sembra più simile a un coltello che, conficcandosi nella carne, apre piccoli varchi per
rigagnoli di lacrime calde e silenziose. In molti casi si presenta come un rumore di
sottofondo, incessante e fastidioso, o come un peso che comprime il petto, il ventre e le
gambe. Può persino giungere a rubare il respiro, le parole, le energie e la vita stessa.
Comunque sia quando decide di fare la sua comparsa, l’esistenza inizia a riempirsi di
tristezza, di disperazione, di rabbia, di lacrime e di urla”.
Se la paura, nella storia umana ha sempre avuto il compito di segnalare la presenza di un
pericolo, al dolore è toccato il compito di aiutare l’uomo ad affrontare le frustrazioni, i traumi
e le perdite esistenziali. Non ci sono strategie di risposta a tale emozione, il dolore va vissuto
e basta. È esprimendolo che si apre la strada per superare i lutti e ritornare alla vita. Nella
società moderna e occidentale il dolore viene quasi sempre demonizzato. Molti insegnamenti
datici fanno allontanare dal vivere il dolore in maniera naturale. Frasi come: “Non si piange”,
“piangere non serve a niente”, “devi essere forte, non vorrai far preoccupare i tuoi genitori”
porta la persona ad essere incapace di esprimere il proprio dolore.
La verità è che non c’è una risposta esatta ed esaustiva su cosa sia il dolore psicologico anche
se esso è parte di noi da sempre. Già dal primo giorno di vita ne facciamo esperienza, nel
momento in cui, dopo l’ultima contrazione uterina, veniamo scaraventati brutalmente al
mondo. Otto Rank individuò nel trauma della nascita il primo vero grande dolore umano.
È bizzarro come del dolore fisico conosciamo quasi tutto sia esso mal di testa o di denti,
dovuto a operazioni o fratture. Conosciamo la sensazione di stanchezza e di sentire il corpo
dolorante. Il dolore del corpo è anche facilmente localizzabile; nella pancia, nelle ossa, nella
testa, ecc.
Ma per quanto riguarda quello psicologico non è la stessa cosa. Dove è localizzato? Che
forma ha? Perché pur avendolo vissuto tutti ne sappiamo così poco?
Lo abbiamo sentito profondamente quando abbiamo perso qualcuno o in seguito a rifiuti o
dopo abbandoni affettivi, delusioni. A volte ne siamo stati così avvolti da desiderare di
chiudere i conti dell’esistenza con la morte o l’annullamento sia nostro che degli altri.
Conoscere il dolore è un passo importante per l’evoluzione, è solo attraverso la sua
espressione che la persona può permettersi di iniziare quel processo chiamato elaborazione
del lutto, necessario per affrontare e superare tutte le perdite che si faranno avanti nel corso
della vita.
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Non esprimere il dolore non significa essere forti o duri o persino migliori di altri, ma farà si
che si verrà privati della possibilità di vivere appieno e profondamente le sconfitte, i rifiuti, gli
abbandoni e la morte.
Chi non potrà vivere pienamente il dolore conseguente le perdite, non potrà indirizzarsi verso
nuovi investimenti affettivi, intellettivi e sociali. Passerà il resto della vita collegato al passato
e terrorizzato dal nuovo e dallo sconosciuto e in continua fuga da se stesso.
La società moderna non aiuta gli individui ad accettare e conoscere il proprio dolore che fa si
che con il tempo questo si trasformi in angoscia. Se non affrontata con il tempo si manifesterà
nel corpo e nella mente in maniera più o meno grave. Oggi alcuni studi ci dicono che anche il
cancro possa essere una conseguenza di lutti mai elaborati. Un bisogno che chiede di essere
soddisfatto è un bisogno che necessita comunque di una risposta. Se il segnale dell’angoscia
non trova un riscontro la psiche si trova costretta ad utilizzare meccanismi di difesa. Tali
meccanismi hanno il compito di evitare prolungate sofferenze ma costringerà l’individuo a
muoversi in un ambiente alterato che farà nascere ed aumentare il suo debito empirico.
L’individuo disimparerà nel tempo a percepire ciò che è reale a favore di falsi bisogni.
Avremmo così a che fare con individui sordi verso se stessi e che si faranno guidare nel corso
della loro vita unicamente dal dovere e da esigenze di immagine.
Il dolore, pur costituendo uno dei “colori” fondamentali dell’esperienza umana è una
emozione “scomoda” che non si impara ad affrontare fin dall’infanzia e si continua ad evitare
anche da adulti. L’esperienza e l’espressione autentica del dolore psicologico non rientra nel
modo in cui normalmente le persone affrontano la loro esistenza.
Il dolore è la risposta emozionale ad una circostanza in cui si riscontra una mancanza o una
perdita, come già riferito. Il dolore nella sua espressione immediata, semplice e non difensiva
è riconducibile all’espressione “vorrei, ma non è possibile” (stare con la persona amata,
vivere una certa realtà ecc.). Nel dolore non c’è “tensione” come nella rabbia, o “allarme”
come nella paura, ma una semplice adesione morbida, limpida alla realtà che si traduce in uno
stato fisiologico e psicologico di resa.
4.5 Il dolore e la malattia
Una esperienza emotiva molto forte può generare il dolore psicologico.
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Esempio: perdita o separazione da una realtà (persona, lavoro, salute, ambiente), possono
causare una emozione così forte da segnare un canale sensibile che si ripete in ogni occasione
di esperienze simili a quella che l’hanno generata.
Come per il dolore fisico anche per quello psichico, le emozioni coinvolgono il sistema
limbico del cervello che ci consente di esperimentare diversi tipi di emozioni, per esempio:
rabbia, paura, desiderio sessuale, piacere e dolore. Per causare le normali espressioni delle
emozioni devono funzionare però anche altre parti della corteccia, senza l’influenza delle
quali possono esserci delle reazioni anormali ed incontrollabili.
Nel dolore psicologico è presente una reazione fisiologica di tipo sia simpatico che
parasimpatico: aumento ritmo cardiaco, svenimenti, sudorazione, pianto, contrazioni
muscolari, variazione veglia sonno, fame inappetenza, ecc.
Qualora il dolore psicologico resti a livello non cosciente e quindi non elaborato, ci possono
essere delle sovrapposizioni a livello psicosomatico, che nel tempo lasciano segni evidenti
nella struttura fisica e comportamentale della persona come ad esempio: dolori alla schiena,
pesantezza alle gambe, problema nella deglutizione (nodo alla gola), dolori di testa, ecc.
In questa situazione si rischia spesso di dimenticare il dolore psicologico tanto da viverlo ad
un livello secondario, prendendo in considerazione esclusivamente il dolore fisico, che
potrebbe avere il sopravvento e diventare un dolore cronico patologico fino alla vera e propria
malattia.
Le emozioni troppo dolorose ed escluse dalla consapevolezza con qualche modalità difensiva,
sono nella vita come dei debiti non pagati da cui le persone si scollegano cercando di non
sentire il dolore o stando male in modo superficiale ed irrazionale (depressione, senso di
colpa, senso di oppressione, reazioni psicosomatiche ecc.).
4.6 Il dolore e i bambini
Perché le persone si creano sofferenze atroci e a volte stupide per evitare una sofferenza
autentica che costituisce una componente della esistenza umana?
I “cuccioli umani” non sanno elaborare il dolore, solo con il tempo, durante la crescita
scoprono pian piano il significato e giunti nel ruolo di adulto trovano lo spazio sufficiente e il
modo di integrare questa emozione.
E’ attraverso i genitori durante il periodo di crescita che la persona ha modo di fare
l’esperienza del dolore psicologico vissuto in modo naturale. Ad esempio, fra le braccia della
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mamma che conferma che la nonna è morta, che era tanto cara, che manca tanto, che non c’è
più, ma è stata tanto amorevole. Il bambino sente di avere il permesso di sciogliersi nel
pianto, lasciarsi attraversare dal pianto dirotto, sentire il dolore e gradualmente superare quel
dolore, scoprendo che quel vuoto nel suo mondo lascia comunque intatto, significativo e
rispettabile ciò che rimane.
Così si abitua a identificare la sua esistenza come sua e ricca di significato nonostante
l’assenza della persona ritenuta importante nella sua vita.
Un dolore per ciò che è perso o non può essere ottenuto, resta tale ma viene percepito in
maniera diversa avendogli dato il giusto posto.
Se lasciati soli invece i bambini (come anche gli adulti) sfiorano il dolore e lo classificano
come intollerabile prima di prenderne le distanze difensivamente.
Le difese attuate rispetto al dolore restano come dei blocchi che possono essere rimossi nel
momento in cui si attua un cambiamento consapevole e una crescita dell’individuo.
4.7 Procurarsi dolore
Cosa succede quando oltrepassi la linea di confine,
quella linea sottile che altri istintivamente rispettano?
Cosa accade quando vedi soltanto in bianco e nero?
Cosa quando il grigio diventa indefinito, si indurisce senza pietà?
Cosa quando vivi sul filo del rasoio e allora piangi,
da solo, o il mondo piange con te?
Quanto deve essere tortuoso il tuo pensiero,
quanto devi essere solo e disperato
perché sconfiggi il dolore col dolore?
Majan
Freud, quando formulò il “principio di piacere”, disse che l’uomo ha la tendenza a ricercare il
piacere e ad evitare il dolore Il dolore però in molte situazioni della vita è inevitabile, e
l’uomo deve saperlo affrontare individuando strategie utili più o meno “mature” a seconda del
proprio equilibrio psicologico. Non solo, ma il dolore può addirittura essere attivamente
ricercato per essere utilizzato esso stesso come difesa da un altro dolore più grande. Ad
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esempio, come vedremo, in certi casi di estrema sofferenza psicologica ci si può procurare un
dolore fisico per attutire, confondere o soffocare un dolore psicologico che in un determinato
momento viviamo come intollerabile.
L’autolesionismo è un fenomeno descrivibile come il contrario della cura di sé. In verità non è
così semplice distinguere tali termini. Una mancanza di cura può essere dannosa quanto una
cura eccessiva.
Avere cura di sé rimanda a comportamenti socialmente accettabili come farsi un tatuaggio o
un piercing o alcuno forme di chirurgia estetica.
Con il termine autosofferenza ci si riferisce a tutte quelle forme di comportamento dannose
per la propria salute e il proprio benessere. Comprende sia quelle che provocano danni diretti
al corpo (autolesionismo vero e proprio) sia quelli indiretti come fumare, bere ecc.
Come già accennato un eccessiva cura dell’igiene del proprio corpo può risultare dannosa per
la salute, come anche il fatto di praticare uno sport estremo.
Il bisogno di punizione
A volte nella vita si fanno scelte che ci portano su strade diverse da quelle che i genitori o altri
intorno a noi avrebbero voluto che facessimo. Se tali decisioni non avvengono in modo
coretto, anche lontani a chilometri di distanza un filo continua a collegarci a quella parte di
vita. Una madre malata, una famiglia bisognosa. Uno dei modi che si ha per far fronte al
senso di colpa per aver scelto una strada diversa è di punirsi. Un bisogno che si realizza
facendo sì che una realtà interna o esterna colpisca la propria individualità, danneggiandola. Il
danno ottenuto ha lo scopo di punire l’Io perché responsabile di un ordine; lo scopo della
punizione è quello di alleggerire il senso di colpa.
Qualche volta ciò si manifesta inducendo inconsapevolmente nella realtà comportamenti tali
da far sentire al soggetto umiliazione e annientamento. Il giocatore compulsivo che gioca per
rovinarsi, il fumatore che si distrugge i polmoni o la donna che sceglie un compagno
impulsivo e lo provoca in modo tale da scatenarne la violenza.
Un individuo può umiliarsi, annientarsi, distruggersi per amore incondizionato verso qualcuno
o qualcosa verso il quale si sente in colpa. Il senso di inadeguatezza, di non merito è
conseguenza di un bisogno masochistico di convalida attraverso la sottomissione e il dolore.
Il suicidio
Il suicidio è l’unica condotta in cui vittima e carnefice si identificano nella stessa persona.
Si stima che nel mondo siano almeno un migliaio le persone che ogni giorno decidono di
porre fine alla loro vita suicidandosi. Il 17% di queste morti viene imputato a persone che
presentano affezioni di tipo psichico. Il 33% avviene come un raptus e il 50% come episodio
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in seguito a forti sofferenze dovute nella maggior parte dei casi a lutti, difficoltà economiche
o legali che vanno a ledere l’immagine che la persona ha di sé, o ancora problematiche
sessuali, familiari o matrimoniali.
Si deduce da qui che le cause principali sono la difficoltà di fronteggiare le perdite e
l’incapacità di far fronte alle paure e alle angosce della vita.
Tutte queste persone mancano di autostima, quella necessaria per accettare i fallimenti e
manca l’autonomia e la forza per muoversi nel mondo.
Capita anche che ci si tolga la vita come affronto verso le persone ritenute inconsapevolmente
responsabili di non aver capito e amato a sufficienza; “Da oggi soffrirai per quanto mi hai
fatto soffrire”.
Anche questo è un comportamento di difesa che si attua per far tacere le voci dell’angosce di
abbandono e annullamento. Sembra l’ultima speranza di poter gestire la perdita. “sono io che
vi lascio, e non voi che mi abbandonate”. Per evitare la perdita il suicida è disposto a perdere
tutto se stesso. Un altro motivo che porta la persona a decidere di morire è un senso di colpa
per essere vivo mentre altri intorno a se non ce l’avevano fatta.
4.8 Dolore esperienza di vita
L’esperienza del dolore è una delle esperienze più intime e personali dell’esistenza, e insieme
alla morte appartiene solo a chi soffre: nessuno è sostituibile nel proprio dolore, nessuno può
cedere l’esperienza e neppure procrastinarla. La sofferenza è esperienza del limite e
soprattutto del proprio limite, della precarietà e della vulnerabilità. Guardandolo in questa
prospettiva il fenomeno sembrerebbe da rilegarsi come un esperienza negativa che deve
essere superata. Ma se invece di provare a spiegarlo lo osservassimo sotto una luce più
profonda di “volerlo comprendere”, la sofferenza “diventa essere” nel senso pieno. Per questo
motivo quando l’uomo è aperto alla sofferenza è capace di vivere nella sua piena autenticità.
Quando il dolore proverà ad entrare in noi non possiamo non aprirgli la porta, entrerà con la
forza di un uragano e arderà con l’impeto del fuoco quanto confidassi fosse tuo. Dopo il suo
passaggio niente sarà come prima non solo in te ma anche intorno a te. Ma anche quando sarà
così dannatamente difficile non fermarti qui attraversalo.
“Rompi l’involucro nella quale vorrebbe trovare casa e consenti che esso diventi linfa vitale
di cui oggi hai grande bisogno. Quando arriva a farti visita esso cercherà di sostare nella tua
mente, facendoti evocare mille volte quei ricordi e quei momenti nei quali avresti voluto fare
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meglio e di più, e nel tuo cuore invitandolo a spezzarsi pensando alla vita senza l’altro o a
ciò che non potrai più avere. Esso sosta scatenando in te il conflitto interiore”.
Possiamo definire questo il momento di passaggio, da compiere senza fretta con fiducia in noi
e aperti alle opportunità della vita. Il dolore porta a esplorare parti di noi che non
conoscevamo. Ci fa guardare negli occhi le nostre paure, le insicurezze e soprattutto ci porta a
toccare la parte più fragile di noi, quella emotiva.
È vero il dolore entra dentro e sconvolge le viscere, si sente nello stomaco, nella gola e nel
cuore, talvolta anche nella schiena e nelle gambe tanto da paralizzare la persona. Eppure, da
ogni dolore, ci si può rialzare e riprendere la vita più forti e più consapevoli. Questo significa
poter vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo dando valore alle persone che ci sono accanto
e dando valore a noi stessi.
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5. Segreti e costellazioni
5.1 Segreti: definizione
Difficili da mantenere, scomodi da rivelare, irresistibili da carpire. Ecco tre angolature sul
fenomeno dei segreti, che sottendono altrettante importanti dimensioni: la naturale
inclinazione umana alla condivisione, le inevitabili difficoltà che sorgono nella relazione con
gli altri, il problema antico della conoscenza, nella sua logica di amore e di potere.
Gli uomini provano un attrazione definibile quasi fatale verso i segreti, sono come animali
curiosi e istintivamente volti alla conoscenza. Da qualunque parte si tenda lo sguardo si crede
di cogliere un mistero che è sul punto di svelarsi. In ogni cosa è custodito un segreto, un
elemento di verità profonda ed ineffabile. Questa sensazione vale anche per le persone. Quale
la formula che svela l’ essenza dell’anima?
Questa spinta umana di conoscenza implica però alcuni effetti collaterali. Spesso la conquista
di un segreto comporta potere ma al tempo stesso può rappresentare una maledizione. Nella
mitologia greca Prometeo ruba il segreto del fuoco agli dei e viene punito per l'eternità. Nella
religione cristiana Adamo ed Eva colgono il frutto proibito ed entrambi vengono cacciati dal
Paradiso Terrestre. Ancora è l'Ulisse nella Divina Commedia, che “per seguir virtute e
conoscenza” oltrepassa i limiti delle colonne d'Ercole e viene inghiottito dal mare.
Possiamo affermare che ogni segreto trae origine dal nostro peculiare modo di percepire il
mondo, e in particolare quegli aspetti del mondo che si celano alla nostra conoscenza. Senza
curiosità non esistono segreti, ma solo cose ignote. Ma forse è più corretto considerare che un
segreto segnala un limite e un confine, e che la vera arte è quella di sapersi confrontare con il
limite.
Affinché esista un segreto il numero di “giocatori” è tre. Infatti non può essere uno in quanto
non ci sarebbe gusto senza il brivido di essere scoperti né il piacere di raccontarlo a qualcuno.
E non è neppure due perchè in questa soluzione manca qualcosa facendo perdere subito
interesse a chi lo condivide. Ci vuole almeno un titolare del segreto, uno con cui condividerlo,
e un terzo escluso che ad esempio può essere il resto del mondo.
L’uomo sente da sempre le necessità di salvaguardare il proprio “io” privato, basti pensare
che in molte culture cosiddette “primitive” si teme che svelando il nome di una persona la si
esponga al rischio che gli venga rubata l'anima. È questo uno dei motivi principali per cui
l'uomo ha imparato a costruire recinti, mura ed armi, sistemi sempre più sofisticati, tutto per la
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difesa di sé, delle cose e delle persone che considera “sue”, e del proprio gruppo di
appartenenza.
Esistono segreti ad ogni livello dell'organizzazione sociale: segreti individuali, familiari, di
gruppo, militari e di stato, industriali, ecc. Ma non è tutto, perché il possesso di un segreto
conferisce ai detentori un potere nei confronti di coloro che non ne sono a parte. Secondo
questa logica, il potere derivante da un segreto aumenta col diminuire delle persone che lo
condividono. Il segreto diventa così un'arma da impiegare non solo per la difesa, ma anche, a
volte soprattutto,per la supremazia. E' questo il paradigma della corsa agli armamenti, della
guerra fredda e dello spionaggio, dove l'informazione è sinonimo di potere e la segretezza è
l'arte della guerra. Mai come in questa epoca si sono espanse le possibilità di comunicare, di
condividere le informazioni e di farle circolare. E mai come in questa epoca sono esplosi il
mito dell'individualità, il culto della privacy, il bisogno quasi maniacale di affermazione di sé
attraverso la segretezza. Non a caso, il concetto giuridico di privacy risale alla fine dell'800,
ed appare originariamente come il diritto “to be let alone”, cioè essere lasciati in pace ma
anche, letteralmente, essere lasciati soli: la solitudine come fonte di libertà.
Ci vuole fiducia per raccontare un segreto, lealtà per conservarlo. Molte volte un segreto fa da
suggello ad un'amicizia importante. Nel corso degli anni si è passati dall'idea che alcuni
segreti potessero risultare gravosi, insostenibili per l'animo umano, fino al punto da far
ammalare il portatore del segreto, che finiva per nasconderlo persino a sé stesso, ad una
visione più moderna che tende invece a sottolineare proprio l'importanza della condivisione e
della narrazione: parlare con qualcuno dei propri segreti aiuta a “rimettere insieme i pezzi”.
Quanto detto non invita a considerare il rivelamento dei segreti una cosa sempre e comunque
positiva. Al contrario, proprio dalla considerazione dell'importanza quasi sacrale che viene
riconosciuta alla condivisione dei segreti, nasce l'ammonimento a non svendere i propri
segreti. Bisogna scegliere il momento giusto e la persona giusta, deve valerne veramente la
pena, e soprattutto non si deve inquinare il tutto con dei calcoli di convenienza. Si ravvisa qui
un fenomeno speculare al culto della privacy, che è lo scambio mercificato dei segreti, la loro
strumentalizzazione, la svendita al miglior offerente.
5.2 I segreti di famiglia
Tutte le famiglie possiedono dei segreti: eventi inconfessabili, vergognosi che proprio per
questi motivi, vengono repressi.
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Tuttavia tutto questo vissuto sotterraneo viene trasmesso inconsciamente e cosi le difficoltà
vissute dalle precedenti generazioni, vengono vissute nuovamente dalla generazione in corso.
Ad esempio può accadere che situazioni del passato si ripetano in modo misterioso, anche per
gli stessi protagonisti, che rimangono sorpresi dalle coincidenze di alcuni accadimenti.
Più il passato è nascosto, più tende a manifestarsi e ripetersi, in condizioni simili. Per potersi
liberare di questi accadimenti ripetitivi, è di vitale importanza portare a galla i segreti, anche
scomodi.
Non è vero che seppellendo i problemi e le difficoltà vissute dalle famiglie, queste non
daranno origine ha difficoltà; è vero il contrario.
Tanto più facciamo luce sugli avvenimenti, prima sarà possibile mettere ordine e quindi
lasciar andare anche se questo non significa cancellarli dalla propria vita ma vuol dire
integrarli e dare loro un posto in essa.
Separazioni, malattie, tracolli si trasmettono di padre in figlio. Già dalla prima infanzia i
bambini vengano a conoscenza dei segreti di famiglia in maniera inconsapevole: una morte
misteriosa o una nascita illegittima vengono tramandate nel tempo generando sofferenza. Un
conflitto non risolto all’interno di una famiglia è come un graffio su un disco che impedisce di
passare al brano successivo. Queste dinamiche ci rendono come prigionieri impedendoci di
andare nella vita con gioia e libertà. Alcuni specialisti ne campo della psicologia si sono
interessati alla definizione del segreto di famigli. Fra questi Serge Tisseron, che propone tre
criteri, che differenziano un segreto di famiglia da un segreto qualunque. Il contenuto deve
riguardare: ciò di cui non si parla; ciò che è vietato conoscere; ciò che fa soffrire le persone
che detengono il segreto.
5.3 Le costellazioni familiari: cosa sono?
Le costellazioni sono un mezzo importante per la persona per scoprire e far fronte ai segreti
tramandati dalla sua stirpe. Ma prima di parlare di questo è necessario dare una definizione di
cosa sono le costellazioni familiari e di come si svolgono.
L’approccio fenomenologico nelle costellazioni familiari consiste nella creazione di uno
spazio scenico nel quale si collocano dei “rappresentanti” ossia persone (i partecipanti al
seminario) che si prestano a dare un corpo e una voce a ciò che viene indagato.
Grazie alla teoria sistemica e all'approccio fenomenologico, si è oggi in grado di mettere in
scena ed esplorare ogni aspetto della realtà e portare alla luce quelle dinamiche nascoste che
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impediscono di vivere autenticamente e serenamente all’individuo la propria esistenza. Il
sistema del soggetto viene rappresentato in modo vivente dai partecipanti del gruppo e dopo
una breve indagine sulla situazione generale, si possono affrontare varie problematiche alle
quali la “costellazione” cercherà di portare una soluzione. I rappresentanti vengono guidati dal
campo morfogenetico e dinamiche spontanee e imprevedibili portano alla luce il vissuto
emotivo delle persone reali o delle situazioni che questi rappresentano.
Lasciando agire la manifestazione dell’“anima familiare” e osservandone la rappresentazione
scenica è possibile dialogare con ogni componente dei vari sistemi e comprendere la vera
origine del disagio o del sintomo. Attraverso una attenta e graduale comprensione delle
dinamiche esistenziali e delle esigenze dei membri rappresentati si ricompone il “sistema” nel
giusto ordine ed equilibrio: in una rinnovata armonia ogni soggetto può essere adeguatamente
riconosciuto e onorato. Quando si giunge a completare il processo nel modo più efficace, con
grande rispetto e gratitudine, reintegrando nella coscienza ogni situazione ed ogni elemento
escluso, allora le tensioni spariscono immediatamente e arriva la guarigione.
5.4 I segreti nelle costellazioni familiari
Le costellazioni familiari aiutano a portare alla luce i segreti e gli arretimenti della nostra vita.
Ciò accade ad esempio quando un membro della nostra famiglia è stato escluso o dimenticato
a causa del suo tragico destino: una donna che muore di parto, un soldato disperso in guerra,
una figlia morta in giovane età, un fratello suicida. Spesso gli intrecci si estendono per diverse
generazioni e si muovono su un piano arcaico della psiche inaccessibile ad un approccio
logico e razionale.
Per fare ciò occorre esporsi in maniera diretta alle questioni chiave che danno un senso alla
nostra esistenza: la vita e la morte, il passato e il destino, confrontandosi con l'Anima e con il
suo lungo e misterioso cammino di ricongiungimento con l’universo.
Per far chiarezza è necessario far luce sul termine “famiglia”. Infatti con tale termine si è
soliti indicare tre differenti e distinte realtà:
1. La Struttura Familiare: un gruppo di individui che vivono insieme nella stessa abitazione,
le regole con le quali si forma tale gruppo, la sua ampiezza e la sua composizione, le
modalità secondo cui si trasforma, si sviluppa e si divide.
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2. Le Relazioni Familiari: i rapporti (affetto, autorità) esistenti nel gruppo familiare e le
dinamiche con le quali i residenti sotto il medesimo tetto interagiscono e le emozioni che
provano l’uno per l’altro.
3. I Rapporti di Parentela: i legami ed i rapporti esistenti fra distinti gruppi di co-residenti tra
i quali vi siano dei rapporti di parentela e tutto ciò che intercorre fra di loro (aiuto,
frequenza degli incontri, ecc.).
Inclusi in un sistema familiare troviamo:i bambini, ivi inclusi i bambini abortiti, nati morti o
morti prematuramente, i genitori ed i loro fratelli e sorelle, i nonni, i bisnonni e gli antenati e
chiunque abbia sostenuto affettivamente o materialmente i membri di cui sopra ed infine
vittime di violenza o omicidio commesso da un qualsiasi membro della famiglia.
La coscienza familiare registra tutte le situazioni di morte, ingiustizia, privazione, dolore,
rabbia e paura sperimentate dai membri di una stessa stirpe e queste vengono trasmesse di
generazione in generazione in attesa di trovare conforto e riparazione. L'unico modo per
sapere chi siamo veramente e dove stiamo andando è riconoscere e onorare le nostre origini.
Coloro che si sono sacrificati e sono stati dimenticati. Coloro che sono partiti e non sono mai
più tornati. I bambini morti, i soldati uccisi. Ma anche le parole non dette, gli abbracci non
dati, le lacrime non versate. Tutto ciò che non viene espresso e riconosciuto all'interno del
nucleo familiare si sedimenta, si congela, crea un nucleo pesante di silenzio, di energia fredda
e densa che passa da una generazione all'altra e si manifesta come una incomprensibile
sofferenza.
Nell'approccio familiare sistemico che è alla base delle costellazioni familiari, l'individuo non
è considerato come elemento isolato ma è inserito in un determinato contesto di relazioni, ed è
appunto questo che ci permette di trovare identificazioni, legami e connessioni con destini
difficili nel sistema familiare.
Esso viene considerato come totalità anziché come agglomerato di individui separati e ciò
consente di elaborare un nuovo approccio in grado di descrivere una complessa gamma di
fenomeni sovraindividuali e transgenerazionali.
Ad esempio quando un membro della famiglia viene escluso o dimenticato a causa di un
destino difficile, ciò ha conseguenze nelle generazioni successive finché non ottiene
nuovamente il suo posto nel nucleo di appartenenza.
Fra le strategie utilizzate per tenere un segreto, una delle più usate è quella dell’evitamento di
un tema. Tuttavia, tale fenomeno porta con se delle conseguenze. Ad esempio, si immagini
una persona che non vuole parlare della propria esperienza di un aborto , si sentirà coinvolta e
magari in imparazzo se durante una discussione si parlerà di questo tema; tuttavia, non
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volendo raccontare la propria esperienza, cercherà di mascherare e non rendere esplicito il
proprio malessere, cercando di controllare il proprio comportamento o cercando di cambiare
argomento.
Se si pensa ad un tale meccanismo per segreti di famiglia tenuti nascosti per anni, bisogna
amplificarlo in modo esponenziale, per la durata degli anni in cui tale comportamento di
dissimulazione, controllo e di invio di messaggi contradditori si è verificato.
Per questo motivo, nel campo della psicologia clinica, si è detto che “il segreto trasuda”.
Con questa espressione si intende che i membri della famiglia che ignorano il segreto lo
intuiscono anche senza conoscerne l’esistenza e senza poter identificare ciò di cui si tratta.
Tuttavia i segreti di famiglia possono restare impliciti e non rivelati per anni o decenni e
spesso restano sepolti senza essere raccontati.
5.5 Lealtà familiare e irretimento
Per la coscienza familiare ognuno deve essere pienamente responsabile di ciò che fa in quanto
le conseguenze di ogni azione portata a termine da un componente della famiglia ricadono su
tutto il sistema, se il responsabile non se ne fa carico. Ogni torto commesso o subito richiede
una compensazione, e accade spesso che molte persone restino a lungo impegnate in questi
compiti di riparazione piuttosto che nel vivere la propria vita.
L'albero genealogico risente di tutte le esperienze vissute dai membri della famiglia di origine,
dove ogni membro che sia stato dimenticato, ogni conflitto non risolto, ogni emozione non
espressa, tende a ripresentarsi sotto forma di sofferenza e di sintomo. Se un fratello o un
fidanzato muore in guerra, se un bimbo viene abortito, se una donna muore di parto, è
possibile che nelle successive generazioni un membro della famiglia prenda
inconsapevolmente su di sé il dolore di chi ha sofferto ingiustamente e ne imiti il destino.
La lealtà familiare e l'irretimento sono situazioni che spesso impediscono ai successori di
vivere esperienze diverse da quelle già vissute, condannandoli ad una infinita costrizione a
rivivere eventi dolorosi e fallimenti.
Quando si parla di irretimento si parla anche di amore cieco. Ovvero quel vincolo che unisce i
figli ai propri genitori che è un sentimento inconscio che supera anche l'effettiva mancanza di
conoscenza o contatto (nel caso il figlio venga abbandonato e cresciuto da altre persone), o le
problematiche relazionali (violenze, abusi, conflitti). E' un amore non solo incondizionato, ma
anche “cieco”, che spinge i figli a prendere inconsapevolmente su di sé il dolore e il destino
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dei propri genitori. Alcuni figli sono pronti a sacrificare la propria esistenza per i genitori, e
nell'illusione di poterli salvare, si condannano ad una vita di fallimenti, di solitudine, di
malattia e addirittura di morte.
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6. Morte e lutto
6.1 Preparazione alla morte: ciò che è essenziale
Quando si parla della morte è difficile farlo in modo appropriato, tanto che forse è preferibile
tacere, proprio come a volte il modo migliore con cui possiamo testimoniare la nostra
partecipazione a un amico che ha subito un lutto è quello di stare per un po’ in silenzio
accanto a lui; ogni nostra parola può non essere all’altezza della complessità e della
delicatezza dei sentimenti che lui può provare. La morte è uno dei fenomeni meno
comprensibili e meno immaginabili e rappresenta l’unico tabù empirico riconosciuto dal
sistema. Questo tema è stato affrontato da tanti e sotto tutte le discipline: medicina,
psicologia, filosofia, religione, ecc.
Non a caso gli eventi di vita vengono tradizionalmente divisi in due sommarie categorie: i
timely events e gli untimely events. I primi sono gli eventi prevedibili che avvengono in un
tempo considerato dalle persone normale mentre i secondi sono quelli non prevedibili che
vanno contro al tempo che regola le aspettative della nostra esistenza. Un esempio di evento
normale è la morte di un genitore (o la propria morte) in età avanzata, mentre un esempio di
untimely event è la morte di un figlio per un genitore, una malattia inaspettata, un qualunque
evento doloroso che non è previsto dalle nostre aspettative, per cui siamo meno preparati.
Significa che anche la morte può avere significati molto diversi a secondo di come si
manifesta. Una cosa è morire in età avanzata dopo una ricca e soddisfacente vita, e ben altra
cosa è morire in età giovanile per un banale incidente, Non solo, ma l’impatto della morte
(come di qualunque dolore) varierà a seconda dei rispettivi significati che ad essa darà ogni
singola persona, del suo sistema di valori e soprattutto secondo la sua maturità sia lui ancora
“un bambino” sia passato nella fase di “adulto”. In punto di morte, le persone tendono a fare
un bilancio della propria esistenza: se il bilancio è attivo, se nella vita ha prevalso l'amore, la
morte sarà serena. Si è fatto quanto di meglio possibile, si può morire in pace. Se il bilancio è
negativo, se ha prevalso la distruttività, si combatte con la morte, la si rifiuta, ci s’impegna in
una lotta disperata.
Ma quali voci compaiono nel bilancio? Nei momenti finali della vita, ci si avvicina alla realtà
vera, a ciò che è veramente importante: le relazioni, gli affetti, gli aspetti spirituali
dell'esistenza. Se una relazione si è chiusa male, se ci sono dei sospesi, cose che si volevano
dire o fare, se si sono compiute azioni distruttive, tutto questo si trasforma in tormento, in
rimorso, in sofferenza.
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Chi muore male, lascia in eredità a parenti, amici, conoscenti, un senso di disperazione e
fallimento. Lascia un fardello che pesa sulla loro coscienza. Nella loro vita ci sarà un'ombra in
più con cui confrontarsi. Chi muore in pace, lascia a chi rimane un senso di serenità e fiducia,
e fornisce ai presenti un dono prezioso: li aiuta a superare la paura più grande, quella della
fine della vita. E' un esempio di luce che li accompagnerà nei momenti più scuri.
È necessario un tempo ben preciso chiamato periodo di lutto affinché il soggetto riesca a
superare la situazione e ad adattarsi alla sua nuova realtà. Così come la cicatrice di una ferita
cutanea necessita di un determinato tempo per rimarginarsi, allo stesso modo una
ristrutturazione dei significati della nostra esistenza necessita di un tempo per renderci
disponibili a nuovi progetti .
6.2 La morte: il dolore e la forza di dire addio
“Il vero problema non è di saper se vivremo o no
dopo la morte, ma se saremo davvero vivi
al momento di morire”
Marie de Hennezel.
Quando qualcuno muore abbiamo l’idea che sia morto per sempre. Quando un amore finisce
sentiamo come se una parte di noi fosse morta con lui. I ricordi prendono il sopravvento e ci
percuotono il cuore, l’anima in un vortice senza fine. Alcune persone si chiudono nella
sofferenza, ritenendo a volte l’altro colpevole di quanto successo.
“Non ne ho la forza eppure lo so che devo lasciarti andare, so che devo trovare il coraggio di
farlo, ma ogni angolo parla di te, in ogni oggetto vedo i tuoi occhio che mi guardano.
Lo so che devo trovare il coraggio di lasciarti andare, ma ogni volta che ci provo un fitta al
cuore me lo impedisce e allora basta una porta aperta per immaginare che stai arrivando, un
fruscio per trattenere il fiato, ma ovviamente non ci sei e non ci sarai mai più e le mie lacrime
non basteranno a fermare il tempo.
Lacrime arrivate dopo molti giorni, sensi di colpa che forse non hanno senso e quella
sensazione di impotenza che mi fa sentire viva ma che darei non so che, per respingere ed
essere insensibile.
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Il tempo lenisce ogni ferita è vero io lo so, ma ci sono momenti e sensazioni che torneranno
sempre quando meno te lo aspetti ti stringeranno la gola e lo stomaco e qualunque cosa
possa fare non potrò evitare.
Devo lasciarti andare, dirti addio per sempre, ma una parte di me sarà sempre con te spero
tanto che sia così anche per te.”12
Elaborare significa giungere ad una decisione ferma, convinta e totale. Vuol dire rivedere,
rinegoziare la propria storia e iniziare un processo di crescita. Accettare non significa però
dimenticare la sofferenza, non si può negare il passato o cancellarlo bensì cicatrizzarlo,
sedimentarlo e usarlo per acquisire una nuova spinta verso uno splendido futuro.
Il vero lutto, la fine di un amore, la perdita di una relazione significativa in realtà rappresenta
una parte di noi che se n’è andata con questa persona. È importante chiedersi, però, se è la
persona che se n’è andata a mancarci o la parte di vita vissuta con lei. Se il ricordo è
contestualizzato all’altro è difficile sentire la sofferenza, ma se immaginiamo quanto eravamo
insieme e quanto saremmo potuti essere, allora è lì che nasce il dolore. Una parte di noi non
c’è più ma è importante sapere che qualcosa di diverso può germogliare. Per mesi, giorni,
anni alcuni continuano a rivivere il proprio dolore, ormai cronico, attraverso “filmografie”
come se fosse reale. Non è possibile vivere un grande dolore da soli. Finché continuiamo a
tenere il dolore al caldo dentro di noi, non se ne andrà anzi diventerà malattia, depressione,
indebolimento del sistema immunitario. Il dolore fine a se stesso non può insegnare nulla: i
sensi di colpa di un passato non fanno altro che immobilizzare il presente. Tale dolore è come
congelato, tenerlo stretto è come dargli protezione e dire a sé stessi: “Non merito di essere
felice”.
6.3 Attraversare il dolore… e la morte
“Se vuoi venirne fuori devi
passarci nel mezzo”
Robert Frost
12 Marie de Hennezel, Morire a occhi aperti, Torino, Lindau, 2006
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Il dolore evitato si mantiene e si incrementa sempre di più. Per superarlo è necessario infilarsi
dentro di esso. Di fronte ad una ferita dolorosa, possiamo decidere se disinfettarla e
proteggerla in maniera tale da non infettarsi, accelerando anche il processo di guarigione. Ma
non è possibile farla sparire, ne sentire il dolore e ne farla sparire.
Il dolore legato ad un lutto non sparisce mai del tutto, ma con il tempo avremo più posto per
contenerlo. Leo Buscaglia afferma che l’unico modo di accettare la vita è accettare la morte
perché quest’ultima ci ricorda che esiste un limite. Non cresci se te ne stai seduto in un prato
pieno di fiori e ti porti cibi prelibati. Cresci se sei malato, se soffri, se subisci delle perdite ma
invece di nascondere la testa sotto la sabbia, prendi il tuo dolore e impari ad accettarlo non
come una maledizione ma come un dono che ti arriva con uno scopo. Louis Hay scrive: “Può
accadere che la malattia conduca alla morte. In quel caso molti di noi si sentono dei falliti,
come se avessero sbagliato in qualcosa. Così come abbiamo fatto con la vecchiaia, abbiamo
trasformato la morte in una sconfitta, in qualcosa da evitare a tutti i costi. La scienza medica
ricorre ad ogni gesto per forzare il corpo a restare attaccato alla vita, molto al di là delle sue
capacità. La morte, come la nascita, è normale e naturale. Ma raramente giunge nel
momento che riteniamo opportuno…quando la morte si avvicina dobbiamo accettarla con
serenità. È quello il momento per esternare tutto il nostro amore, per stare accanto a chi sta
per lasciarci”.
Non bisognerebbe mai dire ad una persone che “deve Accettare la fine”. Per noi uomini fatti
per la vita è una contraddizione. Accettare è un verbo che indica sottomissione e passività.
Rimarrà comunque vero il fatto che siamo chiamati a subire la morte come un peso o una
violenza. Accettare è come vivere da rassegnati. “Accogliere” è il cammino che ogni persona
è chiamato a vivere quando sperimenta l’avvicinarsi alla morte. Accogliere è apertura,
significa fare posto mentale ed emozionale a ciò che sta accadendo o che è già accaduto, per
diventare capaci di trasformarlo.
Il dolore ti rende incredibilmente attento e presente, ti fa crescere. Certo non bisogna il dolore
ma ogni volta che arriva bisogna saper godere anche di questo. Il sapore spesso è amaro ma
una volta acquisito porta lucidità e scuote via ogni intontimento e sonnolenza.
6.4 Il Lutto e le sue fasi
Nel linguaggio comune per lutto si intende l’emozione di dolore che si prova per la scomparsa
di una persona importante affettivamente. Possiamo dire che esistono diversi tipi di
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comportamento di fronte a tale situazione. Nel primo in seguito ad una perdita alcune persone
non hanno difficoltà a vestirsi “a lutto”e a vivere tali emozioni, altre invece pensano che il
comportamento più adeguato sia quello di rendere la durata del lutto il più breve possibile e di
riprendere la propria vita di tutti i giorni subito dopo la perdita. Per legge chi ha un lavoro
dipendente ha diritto a duo o tre giorni di congedo retribuito. Da qui si evince come nella
nostra società il tempo del dolore abbia poco significato e che le persone equilibrate ed adulte
siano quelle che “incassano” il colpo senza scomporsi. Ci sono anche persone che pensano
che un lutto debba essere portato tutta la vita per questo mantengono un legame patologico
con il morto. Vivono come se il defunto fosse ancora li con loro e soprattutto non permettono
a nessuno di sostituire il ruolo affettivo di quella persona.
Nella nostra società è importante nascondere la morte e il dolore. Il messaggio che arriva è
che per raggiungere il benessere bisogna far finta di essere felici, belli e realizzati.
Purtroppo oggi perdere è diventato sinonimo di perdenti.
Nello specifico il lutto è composto di tre fasi: dolore, rabbia e paura.
Queste si possono presentare in sequenza o alternarsi e possono avere una durata e intensità
diverse.
Il tempo del dolore
In questo periodo le emozioni ricorrenti vanno dalla tristezza alla malinconia sino a poter
arrivare a crisi di disperazione. Manifestando il proprio dolore la persona si sente nel diritto di
poter piangere la perdita e chiedere conforto e sostegno. In questo periodo la persona tende ad
isolarsi e la sua energia vitale diminuisce. Si richiamano alla mente tutti i ricordi positivi e
frequenti, sono le frasi come “nessuno era come lui, bello, bravo..” oppure frasi rivolte a se
stessi come “non ce la faccio senza di lui” o “la mia vita non ha più senso” oppure frasi come
“l’anno scorso eravamo..” o “mi ricordo che..”
Il tempo della rabbia
Ci si sente pervasi da un senso di ingiustizia per la perdita. La persona può provare rabbia che
si tratti solo di una leggera irritazione o di collera più prolungata. Ci si può sentire in colpa
per tale emozione pensando che sia un comportamento “cattivo” o che arrabbiarsi non abbia
nessun significato. Però non permettendo a questo sentimento di manifestarsi ci si impedisce
di reagire alla situazione e di ricominciare a lottare per formare la propria esistenza. Tante
frasi che si pronunciano come “non dovevi lasciarmi”, “non avevi il diritto”, o “i medici sono
incapaci” o “Dio perché sei ingiusto e cattivo” attivano non altro che un sano processo di
sfogo che alleggerisce la persona.
Il tempo della paura
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La perdita porta la persona a dover rinunciare ad una affetto o sicurezza. Questo la porta a
mostrare tutte le sue incertezze per il futuro, i dubbi di riuscire ad fronteggiare le conseguenze
della perdita, l’esitazione sulle scelte da fare.
L’ansia ha la meglio la maggior parte delle volte e l’individuo l’userà per difendersi rifiutando
le proprie responsabilità delegandole ad altri. In questo periodo si può solo sostenere la
persona in maniera amorevole.
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7. Conclusioni: la strada verso la felicità
Quando sei ispirato da un grande proposito,
da qualche progetto straordinario,
tutti i tuoi pensieri oltrepassano i loro confini.
La tua mente trascende le limitazioni,
la coscienza si espande in ogni direzione
e ti ritrovi in un nuovo, grande
mondo meraviglioso.
Le forze, le facoltà e i talenti addormentati
Si ridestano, ed ecco che diventi
Una persona molto, molto più grande
Di quel che avevi osato sognare.
Patanjali (III-I sec. A.C.)
Storia del portafoglio perduto
Una bella sera d’estate, un uomo guarda dalla finestra e vede il suo vicino camminare
gattoni per la strada. Sembra che stia cercando qualcosa sotto il lampione. Dice allora
tra sé: “vado ad aiutarlo a ritrovare quello che ha perso”.
Si accosta al suo vicino e gli domanda: “Che cosa hai perso?”. E l’altro risponde: “ho
perso il portafoglio. Quello che mi da più fastidio non è aver perso il denaro che
conteneva, ma tutti i documenti e le carte di credito”.
Il nostro buon samaritano si mette anch’egli a cercare intorno al lampione, sul
marciapiede, per la strada, nell’erba adiacente. Dopo innumerevoli sforzi infruttuosi,
gli viene in mente di domandare: “è qui che hai perso il portafoglio, vero?”.
Innocentemente l’amico risponde: “no, non qui. Nel campo laggiù”.
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Il nostro uomo non crede alle proprie orecchie. Come può il suo vicino pensare di
ritrovare il portafoglio sotto il lampione quando l’ha perduto altrove? Incuriosito, gli
chiede di spiegargli il suo comportamento. L’altro risponde candidamente: “è
semplice, qui c’è più luce”.
7.1 La ricerca della felicità
Il compito più difficile con cui bisogna misurarsi quando si desidera abbracciare la propria
ombra è proprio quella di cercarla nel posto giusto. La ricerca è tanto più difficoltosa in
quanto è tipico dell’ombra nascondersi nell’inconscio. Come la faccia nascosta della luna,
l’ombra rimane oscura e misteriosa. Il primo passo è smettere di negarne l’esistenza.
La strada verso la felicità è quella che integra e accetta pienamente tutti gli aspetti della nostra
esperienza.
Essere integri significa abbandonare il tentativo di perseguire il piacere, sfuggendo al dolore,
che non può essere controllato ed eliminato. Significa connettersi, aprirsi e continuare ad
amare, indipendentemente da ciò che succede.
Amare significa essere completamente presenti, prestare attenzione totale a ciò che accade qui
e ora, essere indivisi e non frammentati.
In un autentico stato di amore, non ci sono desideri, non ci sono aspettative. Non c'è
proiezione nel futuro, non c'è rimpianto del passato, c'è solo totale appagamento. C'è un
contatto profondo con la realtà delle cose e con le persone, un contatto così gratificante in sé
che assorbe la persona completamente. In uno stato di amore si comprende la relatività del
senso del tempo e dello spazio. Il tempo e lo spazio ordinari non esistono più, in quanto è
vissuto con la totalità del nostro essere.
Quando nello stato di coscienza ordinario pensiamo ai grandi maestri, proiettiamo su di loro i
nostri desideri, e crediamo che loro siano esenti dai fatti spiacevoli della vita, che siano
risparmiati dalle malattie e dal dolore. Ma non è così: S. Francesco soffrì di varie malattie,
Krishnamurti morì di cancro.
Così continuiamo a cercare qualcosa che ci garantisca l'immunità. La nostra medicina sta
prolungando sempre più la nostra vita.
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Chissà che un giorno non ci risparmi anche i dolori della vecchiaia. Così ci sono sempre più
persone anziane che letteralmente vegetano per anni e anni nelle cliniche e nelle case di
riposo. Ciò che conta è prolungare la vita. Per la medicina conta la quantità, non la qualità.
Un cucchiaino di sale rende imbevibile l'acqua di un bicchiere, ma lascia pressoché invariata
l'acqua di un lago.
7.2 Ritrovare se stessi
La natura ci ha dato un sentire che quando è vicino alla realtà empirica ci indica come sono le
cose che più ci stimolano e ci danno soddisfazione che sono le più adatte a noi. Se abbiamo
dentro di noi certi talenti, come quello artistico, ogni volta che ci imbatteremo in un'opera
d'arte o incontreremo un artista o ne leggeremo la vita, sentiremo qualcosa dentro, una
emozione, un sussulto, un sospiro, e così per ogni altra inclinazione: sentiamo qualcosa dentro
che ci emoziona, ci stimola, ci attrae. Se da bambini fossimo stati allenati a capire veramente i
nostri sentimenti e a fidarci delle indicazioni interiori non avremmo difficoltà nello scegliere
la strada giusta per noi perché i nostri sogni e le nostre aspirazioni ci farebbero da guida.
Solo il “sentire” interiore è nostro, è la cosa più nostra che abbiamo, ed è indipendente
dall'ambiente sociale. Che noi siamo nati in Cina o in Italia, poveri o ricchi, il nostro sentire è
unico, i nostri talenti sono unici. Ecco perché trovare la propria strada non è un affare per la
mente ma piuttosto per quel radar interiore che chiamiamo “sentire”.
Il nostro radar funziona in modo molto semplice, comprensibile anche da un bambino: se ciò
che facciamo ci stimola, piace, ci da soddisfazione e ci nutre, non solo nel corpo ma anche nel
cuore e nell'anima, allora significa che ci stiamo realizzando. Se invece la nostra vita ci
stanca, ci annoia, sembra assorbire tutte le nostre energie restituendoci poco o niente in
cambio, se l'entusiasmo è per noi solo un lontano ricordo, allora questi sono segnali
inequivocabili che siamo distanti dalla nostra strada e non stiamo affatto realizzando noi
stessi, ma tutt'al più qualche ideale o modello altrui, qualcosa insomma che non fa realmente
parte di noi. In questo caso dobbiamo avere il coraggio di ammettere con noi stessi che è
tempo di cambiare.
In fondo al nostro essere sappiamo tutti, seppure vagamente, qual'è la nostra vera strada, ma
spesso abbiamo paura ad ammetterlo perfino con noi stessi; la nostra ragione si preoccupa
sempre di dimostrarci in infiniti modi che è impossibile seguire quella direzione, che
avremmo troppo da perdere, che non saremmo all'altezza, che ormai è tardi, ecc. Certo, sono
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motivi indubbiamente validi, ma che senso ha vivere una vita che non ci realizza? Ed è
davvero così terribile perdere qualcosa che tutto sommato non ci gratifica affatto?
Sono sempre più frequenti i casi di persone che in un certo momento della loro esistenza
cambiano radicalmente la loro vita. Queste persone prendono coscienza delle loro reali
esigenze e capacità e si rendono conto del fatto che la vita che conducono e il lavoro che
fanno non rispecchia affatto il loro vero essere. Non è mai troppo tardi per trovare la propria
strada. E non è nemmeno detto che si debbano fare scelte drastiche come quelle suddette, a
volte basta molto meno per nutrire il nostro essere. E' certamente una grossa responsabilità
quella di realizzare la propria vita, ma il gioco vale senz'altro la candela: la vita è nostra: chi
ci può dire cosa va bene o cosa non va bene per noi se non noi stessi? Che senso ha “divenire
qualcuno” in confronto a “essere se stessi”?
C'è una qualità comune a tutti gli esseri umani, anche se in molti è ancora allo stato latente, e
si chiama potere personale, cioè il potere di prendere la vita nelle proprie mani, di
autodeterminarla, sentendo nel profondo di noi stessi ciò che va bene, ciò che ci fa sentire
realizzati. Nessun altro può fare questa scelta al nostro posto. Dobbiamo sentirci degni di
vivere la nostra autenticità, ognuno a proprio modo, perché, anche se noi esseri umani ci
somigliamo per molti aspetti, ognuno possiede una propria unicità, una sfumatura di colore, di
fragranza, e consentendo a se stesso di farla sbocciare e di viverla non solo realizza se stesso
ma arricchisce anche l'intera umanità.
Il più bel dono
che un fior può fare al mondo
è quello di sbocciare pienamente
condividendo ed esprimendo ciò che è;
così è per l'uomo,
prezioso fiore della consapevolezza.
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Ringraziamenti
Ho imparato che non sono perfetta. Quando per la prima volta ho sentito quanta rabbia quanto
rancore ci fosse dentro di me, mi sono sentita un mostro. E per tanto tempo, per mesi non ho
potuto fare altro che sputare tutta la furia nascosta in me. Per tanto tempo la sensazione era
così forte così assurda e non bastava mai. Mi chiedevo come mi si potesse amare, come
poteva amarmi qualcuno. Già il mio sguardo faceva paura a molti, per un periodo ai seminari
avevano tutti paura di me e chi non lo aveva era li pronto a sfidarmi, ma non aveva chance.
L’immagine nella mia mente era orribile non mi bastava “vincere” io volevo vedere il sangue
ma non era sufficiente neppure quello. Ero terrorizzata, sconvolta impaurita da quanto
nascosto in me. La brava bambina non sorrideva più, almeno non così tanto. Ero così
arrabbiata con il mondo ma soprattutto ero arrabbiata con me stessa. Mi sono così maltrattata
per tanto tempo lasciando a tante persone il potere di farmi del male.
Non sapevo cosa fosse l’amore nemmeno lontanamente. Sognavo che arrivasse il principe, ma
le favole sono favole e al massimo le puoi vedere in un film.
Elemosinavo amore. Per trent’anni ho supplicato amore in tutti i modi, usando tutto quello
che potevo e reprimendo tanto di me. Ho lavorato sin da piccola perché “Io sono forte”
“vedete come ce la faccio da sola”. Ho sedotto con la sensualità di una bambina finché il
debito non è stato alto e me lo ha riportato in maniera violenta e persistente. Immersa in
questo tumulto sentivo solo che qualcosa non andava ma ero ceca, completamente al buio. Mi
sentivo sola, sola come sempre in tutta la mia vita. Ha scuola mi hanno fatto credere che non
ero brava, e per quanto provassi di tutto non andava bene. Pensavo di essere diversa, di non
essere all’altezza e più mi ci sentivo e più lo diventavo e permettevo agli altri di trattarmi
come tale. Avevo tanti sogni, si sono infranti uno ad uno e ora so che deriva proprio da questo
non sentirmi all’altezza. Non permettermi di mostrarmi al mondo.
Guardare in faccia la mia ombra è stato difficile, ma sono grata a alla mia bambina di avermi
dato la mano ed aver avuto fiducia in me. L’immagine della scatola che nell’ottobre 2006 mi
vedeva rinchiusa in un luogo tanto piccolo, in trappola e per esplodere non c’è più. Ho tutta
una vita intera di strada di fronte a me da percorrere o forse no, ma sicuramente la mia morte
sarà molto più serena di quanto non lo sarebbe stata solo poco tempo fa. La donna che è in me
sta crescendo ogni giorno, si sta radicando nelle sue radici, inciampa e va bene così, ma fa il
massimo che può fare. Sa di valere tanto anche se alle volte lo dimentica, ha imparato a dire
no quando la situazione lo richiede, ha imparato a dire “mi sento ferita quando ti comporti
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così”, ha imparato a chiedere aiuto, ha imparato a dire dei si autentici, ma soprattutto ha
imparato che è speciale. Ogni cosa ha due lati, uno ci piace più dell’altro è vero ma ognuno ne
è imprescindibile. Per cui grazie al dolore, alla rabbia, alla tristezza, alla paura e a quanto di
nascosto racchiude ancora la mia anima. Grazie ad ogni vostra parte che mi permette di poter
sentire la fiducia, di ridere di gusto, di amare ed essere amata, di sentire di meritarmelo, di
aprirmi al mondo e che mi fa sentire una attaccamento alle mie radici familiari come non lo
avevo mai sentito e che mi fa sentire una donna e il potere di tutto l’universo femminile e di
tutte le donne che sono state prima di me, grazie per farmi volgere lo sguardo ad un uomo e
vedere la sua forza, la sua guida e la sua bellezza, grazie per l’istinto materno che sento
crescere ogni giorno.
Grazie per avermi messo al mondo