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Facoltà di Lettere e Filosofia Dottorato in “Società, politica e culture dal tardo medioevo all’età contemporanea” (XXV ciclo) L’agricoltura italiana tra sviluppo economico e fallimento ambientale. Il caso dell’Italia centrale. Toscana, Marche e Umbria dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Ottanta. Relatore: Prof. Piero Bevilacqua Dottoranda: Rosa Chiatti Anno accademico 2013-2014

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Facoltà di Lettere e Filosofia

Dottorato in “Società, politica e culture dal tardo medioevo all’età contemporanea” (XXV ciclo)

L’agricoltura italiana tra sviluppo economico e fallimento ambientale. Il caso dell’Italia centrale.

Toscana, Marche e Umbria dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Ottanta.

Relatore:

Prof. Piero Bevilacqua

Dottoranda:

Rosa Chiatti

Anno accademico 2013-2014

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SOMMARIO PREMESSA .......................................................................................................... 4 1. MERCATO AGRICOLO E PAC ................................................................... 8

1.1 ANALISI DEL MERCATO DEI PRODOTTI AGRICOLI E ALIMENTARI ............ 8 1.2. BREVE SGUARDO ALL’EVOLUZIONE DELLA POLITICA AGRICOLA

COMUNITARIA (DAGLI ANNI SESSANTA ALLA FINE DEGLI ANNI OTTANTA) ................................................................................................................. 14

1.3 L’ITALIA E IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE AGRICOLA EUROPEA .......... 25 2. CARATTERI DELLA POLITICA AGRARIA DELLA REGIONE

TOSCANA DAL SECONDO DOPOGUERRA AGLI ANNI SETTANTA .................................................................................................... 40 2.1. RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA, DELLO STATO E DELLE REGIONI

NEGLI INDIRIZZI DI POLITICA AGRARIA .......................................................... 40 2.2 SITUAZIONE DELL’AGRICOLTURA TOSCANA NEGLI ANNI

SETTANTA ................................................................................................................. 43 2.3 ANALISI DEI FATTORI DI PRODUZIONE ............................................................ 50

2.3.1 IL “CAPITALE”: TERRA, INVESTIMENTI, CREDITO ............................... 52 2.3.2 DINAMICHE RELATIVE AL CAPITALE FONDIARIO ........................................ 57 2.4 LE AGRICOLTURE TOSCANE ................................................................................ 84 2.5 LA CRISI DELLA COLLINA TRA TUTELA AGRICOLA E STANDARD

PRODUTTIVI ............................................................................................................. 90 2.5.1 IL SETTORE VITIVINICOLO......................................................................... 91 2.5.2 IL SETTORE OLIVICOLO ............................................................................ 100

2.6 LA POLITICA AGRICOLA COMUNE E L’AGRICOLTURA TOSCANA .......... 112 2.7 LA REVISIONE DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNE ............................... 118 2.8 PROBLEMI APERTI ................................................................................................ 122

3. GLI ANNI OTTANTA NEL CONTESTO AGRICOLO TOSCANO .................................................................................................... 125 3.1. PESO DEL SETTORE AGRICOLO NELL’ECONOMIA REGIONALE ............... 125 3.2 LA FORZA LAVORO .............................................................................................. 134 3.3 LE SUPERFICI ......................................................................................................... 145 3.4 IL CAPITALE ........................................................................................................... 153 3.5 IL MERCATO ........................................................................................................... 155

4. L’AGRICOLTURA CONTEMPORANEA E IL PAESAGGIO TOSCANO. EVOLUZIONE DELLE CARATTERISTICHE DEL PAESAGGIO AGRARIO NELLA SECONDA META’ DEL ‘900. ....... 160 4.1 LE COLLINE TOSCANE MUTANO VOLTO ........................................................ 160 4.2 UNA NUOVA FISIONOMIA DEL PAESAGGIO AGRARIO ............................... 165

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4.3 DINAMICHE RELATIVE AI QUATTRO PRINCIPALI SISTEMI AGRO-PAESAGGISTICI REGIONALI ............................................................................... 168

4.4 LA VITE: PRODOTTO COLTURALE O PRODOTTO CULTURALE? ............... 173 5. TRASFORMAZIONE DEGLI ASSETTI AGRARI NELLE

MARCHE DAL SECONDO DOPOGUERRA ALLA FINE DEGLI ANNI SETTANTA. ...................................................................................... 175 5.1 LE DINAMICHE DELLA FORZA-LAVORO ALL’INTERNO DEL

SETTORE AGRICOLO MARCHIGIANO .............................................................. 180 5.2 LO SVILUPPO CAPITALISTICO E LE SUE RIPERCUSSIONI

NELL’AGRICOLTURA MARCHIGIANA ............................................................. 205 6. MARCHE: AGRICOLTURA INDUSTRIALE, PAESAGGIO E

AMBIENTE NEGLI ANNI OTTANTA .................................................... 213 6.1 PECULIARITA’ DELLO SVILUPPO AGRICOLO REGIONALE ........................ 217 6.2 AGRICOLTURA E INDUSTRIALIZZAZIONE ..................................................... 221 6.3 TIPOLOGIA AZIENDALE E REDDITIVITA’ ....................................................... 223 6.4 VARIETA’ PAESAGGISTICHE E AGRICOLTURA ............................................. 232

7. IL SETTORE PRIMARIO UMBRO: EVOLUZIONE DEI CARATTERI STRUTTURALI DAL SECONDO DOPOGUERRA AGLI ANNI SETTANTA ............................................................................ 241 7.1 GLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA: UNA VISIONE D’INSIEME ............... 241 7.2 IL PESO DEI MOVIMENTI MIGRATORI SUL SETTORE PRIMARIO

REGIONALE NEGLI ANNI SESSANTA ............................................................... 244 7.3 L’USO DEI SUOLI ................................................................................................... 253 7.4 LA VITE: DA COLTURA PROMISCUA A COLTURA SPECIALIZZATA ......... 255 7.5 VERSO GLI OLIVETI SPECIALIZZATI ................................................................ 258 7.6 GLI ANNI SETTANTA NELLO SCENARIO AGRICOLO REGIONALE ............ 261

8. EVOLUZIONE DEL SETTORE AGRICOLO UMBRO NEL CORSO DEGLI ANNI OTTANTA ............................................................ 269 8.1 LE AZIENDE AGRICOLE ....................................................................................... 273 8.2 DISPOSIZIONI COMUNITARIE E PROGRAMMAZIONE REGIONALE:

L’AGRICOLTURA TRA ECONOMIA E TUTELA AMBIENTALE ..................... 280 9. L’UMBRIA E I RISVOLTI AMBIENTALI

DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE ................................................ 283 9.1 DINAMICHE RELATIVE AL BOSCO ................................................................... 283 9.2 L’EROSIONE DEL SUOLO ..................................................................................... 286 9.3 LE CONSEGUENZE DEL DISSESTO IDROGEOLOGICO .................................. 289

CONCLUSIONI ............................................................................................... 298 FONTI E BIBLIOGRAFIA: ........................................................................... 301

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PREMESSA

L’idea di sviluppare un progetto di ricerca volto ad analizzare i mutamenti

intervenuti nell’agricoltura di tre particolari regioni quali Toscana, Umbria e

Marche è scaturita dall’osservazione di alcune immagini, scattate da Henri

Desplanques nelle campagne dell’Italia centrale nell’arco di un ventennio (1953-

1973), che mettono in luce in maniera molto vivida e impietosa le graduali e

progressive trasformazioni che il paesaggio agrario di una regione, come del

resto anche Toscana e Marche, caratterizzata da secoli di peculiari assetti

colturali e paesaggistici, ha subito in un lasso di tempo piuttosto breve. Nella

prima metà degli anni Sessanta Desplanques descrive in questi termini le colline

umbre “(...) i pendii sembrano come morti, anche se qualche rado cespuglio o

zolla erbosa vi si abbarbica qua e là. I dissodamenti d’un tempo avevano

costretto il bosco ad indietreggiare, oggi le colture sono sostituite da vegetazione

stopposa”1

1 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale,

Quattroemme, Perugia, 2006, pp. 556-557.

. Queste brevi considerazioni unite alla forza delle immagini hanno

creato l’interesse di andare ad indagare le motivazioni sottese ad un così radicale

e repentino stravolgimento di assetti agricoli che per secoli hanno sostenuto e

caratterizzato le campagne dell’Italia centrale. In questo studio sono state

esaminate le realtà agricole di Toscana, Umbria e Marche regioni in cui

l’evoluzione dei patti mezzadrili è stata piuttosto difficile e ha lasciato importanti

strascichi sia sul piano strettamente produttivo che su quello paesaggistico-

ambientale. L’arco temporale preso in considerazione va dagli anni Cinquanta

del Novecento fino a tutti gli anni Ottanta. Nel corso di questi quaranta anni

l’agricoltura è stata investita da molteplici e variegate trasformazioni dettate dalle

politiche internazionali che sempre più incisivamente hanno condizionato le

realtà locali. Per avere una visione che andasse oltre le dinamiche interne alle

singole realtà regionali, si è voluto prendere in considerazione sia i principali

provvedimenti emanati a livello comunitario in merito alla politica agricola sia le

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principali tendenze di mercato che hanno visto come protagonisti i prodotti

agroalimentari. I primi due capitoli infatti, hanno come oggetto lo studio delle

interazioni esistenti tra le caratteristiche del mercato agricolo nazionale ed

internazionale con i principali provvedimenti emanati a livello comunitario.

Dall’esame delle dinamiche inerenti l’andamento dei mercati agricoli e le sue

implicazioni sulla Politica Agricola Comunitaria sono emersi alcuni fattori

cruciali che si sono rivelati utilissimi per la comprensione sia del comportamento

degli enti locali e degli addetti al settore agricolo nelle tre regioni oggetto di

studio, che delle trasformazioni degli assetti colturali e aziendali regionali.

Successivamente si è passati allo studio della situazione agricola di Toscana,

Marche e Umbria negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra

Mondiale per avere un quadro di partenza chiaro da utilizzare come termine di

confronto per gli sviluppi del settore primario nei decenni successivi. Mediante

una analisi dettagliata delle strutture agricole e delle colture esistenti nei territori

di Toscana, Marche e Umbria, da sempre aree d’elezione di vite ed olivo e

contraddistinti da molteplici forme paesaggistiche, si è cercato di ricostruire il

processo che ha portato alla formazione degli attuali assetti agricoli e colturali

inserendolo nel panorama dei grandi mutamenti di mercato che hanno investito

l’Europa. Come già accennato in precedenza, le motivazioni che hanno portato a

circoscrivere l’ambito della ricerca all’agricoltura di queste tre particolari regioni

sono da ricercare nella complessità relativa alle dinamiche inerenti l’evoluzione

dei patti di mezzadria. Le aziende mezzadrili, indissolubilmente legate ai

tradizionali assetti colturali che sin dal basso medioevo vigevano in questi

territori non avevano fatto altro che confermare ed accentuare i caratteri storici e

le tendenze di queste economie, contribuendo all’esaltazione del carattere

promiscuo della valorizzazione della terra. Il paesaggio che ne emergeva vedeva i

seminativi sempre più arborati e i campi divisi con arte fra arbusti, macchie, aree

da pascolo, vigne, frutteti misti. E’ solo dopo la metà del XX secolo che questi

assetti e tutti i suoi complessi equilibri verranno sconvolti. Uno studio relativo a

queste aree mostra chiaramente come le politiche sottese allo sviluppo e alla

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diffusione dell’agricoltura industriale abbiano cercato non solo di livellare le

caratteristiche variegate di un paesaggio agrario modellato da secoli e secoli di

tradizione, ma siano riuscite ad accelerare in maniera traumatica i processi di

abbandono della terra da parte dei contadini già in atto, seppur con lieve

intensità, nell’immediato dopoguerra. Infatti, nel presente studio ci si è soffermati

ad analizzare le dinamiche relative all’emigrazione rurale, sottolineando un fatto

fondamentale: sono stati i giovani per primi a battersi al fine di ottenere migliori

condizioni di vita nelle campagne e, soltanto in un secondo momento, sfiduciati e

delusi da politiche incapaci di rispondere alle esigenze di rinnovamento e di

conseguenza incapaci di trattenere i contadini sulla loro terra, hanno dato luogo a

fenomeni migratori mai visti prima nelle suddette regioni. Con l’istituzione della

Comunità Economica Europea nel 1957 e con la nascita della Politica Agricola

Comunitaria all’inizio degli anni Sessanta gli indirizzi seguiti in ambito agricolo

erano volti essenzialmente al sostegno dei prezzi. Tale pratica però, si è rivelata

quasi immediatamente non adatta ad assolvere il compito di ammodernamento

strutturale di cui necessitava il settore agricolo; le crisi di sovrapproduzione

ricorrenti per tutto il corso degli anni Settanta ne sono la testimonianza. Soltanto

intorno alla metà degli anni Ottanta cominciano ad essere avvertite, sia a livello

europeo che locale, le distorsioni relative alla inadeguatezza dei provvedimenti in

materia di politica agricola fino ad allora attuati. Tutto ciò ha avviato un vivace

dibatto intorno alla necessità di una radicale ristrutturazione dell’agricoltura

europea che ha visto protagonisti sia le parti politiche che gli operatori e gli

studiosi del settore. Da queste discussioni, oltre all’esigenza di natura

strettamente economica di razionalizzazione e ottimizzazione dei fattori

produttivi, è emersa l’esigenza, ormai non più procrastinabile, di arginare l’esodo

dalle campagne che ormai era diventato un male cronico delle aree marginali

interne alle regioni e che, recidendo l’antico legame del contadino con la terra,

aveva prodotto gravissimi squilibri sia sociali che ambientali. Occorre precisare,

però, che già nella seconda metà degli anni Cinquanta l’esodo dalle campagne

era stato percepito come una grave minaccia per le aree rurali di queste tre

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regioni e soprattutto in Umbria e nelle Marche, dove la popolazione agricola

raggiungeva livelli molto elevati e l’agricoltura all’inizio degli anni Sessanta era

la principale fonte di reddito, gli enti locali e i partiti di sinistra avevano sollevato

questa problematica proponendo una riforma agraria più incisiva di quella attuata

agli inizi degli anni Cinquanta. Dunque il problema dell’emigrazione dalle

campagne non costituiva certo una novità ma, proprio durante gli anni Ottanta,

nel pieno sviluppo dei rapporti capitalistici, i sistemi di produzione fino ad allora

attuati e sostenuti in ambito internazionale, aggravati dalle principali

conseguenze derivanti dagli avvenimenti del decennio precedente come la crisi

petrolifera e le ricorrenti crisi da sovrapproduzione, hanno manifestato le loro più

gravi distorsioni. La presa di coscienza di questo stato di cose ha indotto dunque

vari osservatori a considerare l’agricoltura non solo dal punto di vista relativo a

modelli di efficienza produttiva, ma anche come la sola attività capace di attuare

sistemi di salvaguardia territoriale nelle aree marginali di regioni come le Marche

e l’Umbria, in cui il passaggio dalla mezzadria alla piccola proprietà non si è

realizzato in maniera univoca ed indolore ma ha lasciato una scia di

contraddizioni e povertà che ha segnato in modo indelebile le realtà agricole di

queste due regioni. Per quanto riguarda la Toscana, invece, oltre alle ricerche

relative ai rapporti di produzione e alle loro evoluzioni nei decenni considerati,

l’attenzione si è concentrata sulle trasformazioni che hanno investito il settore

vitivinicolo ed il settore olivicolo. E’ stato scelto di esaminare dettagliatamente

queste due produzioni perché esse rappresentano le coltivazioni prevalenti e

caratterizzanti il territorio regionale. E’ risultato particolarmente interessate

seguire le vicende che hanno visto protagonisti la vite e l’olivo nell’ambito

agricolo internazionale e osservare come di volta in volta i provvedimenti di

carattere sovranazionale hanno influenzato in modo ben visibile le campagne

toscane. Molto stimolante è stato vedere come nel volgere di pochi decenni le

colture consociate, tipiche degli assetti mezzadrili, hanno lasciato il posto ai vasti

appezzamenti adibiti a colture specializzate imposte dalle esigenze di mercato.

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1. MERCATO AGRICOLO E PAC

1.1 ANALISI DEL MERCATO DEI PRODOTTI AGRICOLI E

ALIMENTARI

Come si è precedentemente accennato, per meglio comprendere i processi di

trasformazione che hanno investito le agricolture regionali dagli anni Cinquanta

alla fine degli anni Ottanta del Novecento si è ritenuto opportuno analizzare le

principali caratteristiche del mercato dei prodotti agricoli ed alimentari delle

economie sviluppate. Queste, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso,

sono state oggetto di un accavallarsi di cambiamenti sempre più numerosi, rapidi

ed incisivi direttamente associati alle trasformazioni in atto nella società, che

hanno condotto ad una radicale ristrutturazione dell’intera catena dell’offerta

alimentare e a profonde trasformazioni nell’organizzazione e nel funzionamento

dello stesso mercato. A fondamento di questi cambiamenti vi sono alcune delle

megatendenze che dominano oggi l’economia e la società 2

• il crescente potere del consumatore di indirizzare la produzione;

e che si sono

sviluppate nel corso degli anni Ottanta del Novecento. In particolare hanno

giocato un ruolo determinante:

• la progressiva globalizzazione della produzione;

• le nuove tecnologie3

Il lavoro sinergico di queste tre componenti ha generato lo sviluppo di un

sistema di relazioni di interdipendenza tra i settori che producevano fattori di

produzione per uso agricolo, l’agricoltura, l’industria alimentare, il commercio e

la distribuzione dei prodotti agricoli e alimentari, dando luogo a quello che da

.

2 R.D. Buzzel. - R.E.M. Nourse, Product innovation in food processing, Boston, 1987.

3 G. Galizzi, Il mercato dei prodotti agricoli e alimentari, in AA.VV. Storia dell’agricoltura italiana, Vol. III, Accademia dei Georgofili, Firenze, 2003.

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alcuni decenni a questa parte è stato definito sistema agroalimentare 4 .

L’inglobamento dell’agricoltura all’interno del sistema agroalimentare ha

prodotto delle profonde modifiche nel settore primario che lo hanno indotto ad

adottare modelli di produzione, di approvvigionamento, di distribuzione e di

coordinamento propri della moderna attività manifatturiera. Analizzando le

trasformazioni in atto nel mercato dei prodotti agricoli ed alimentari non si può

fare a meno di notare il radicale capovolgimento del ruolo svolto dalla domanda5.

A differenza del passato, quest’ultima non dipende più dalla produzione; è il

consumatore che in questi ultimi decenni ha determinato cosa doveva essere

prodotto, come doveva essere prodotto, in quale forma, in quale luogo ed in

quale tempo il prodotto doveva essere disponibile. Nel corso degli anni Ottanta si

è assistito alla nascita di un fenomeno nuovo che ha visto come protagonisti i

consumatori i quali, pretendendo dal mercato alimentare il soddisfacimento dei

loro bisogni 6

4 G.P. Cesaretti-A.C. Mariani. - V. Sodano, Sistema agroalimentare e mercati agricoli, Il Mulino,

1994.

, hanno iniziato ad influenzarlo e condizionarlo innescando un

processo fino ad allora sconosciuto e che sarà destinato a durare fino ai giorni

nostri. I bisogni in questione possono essere ricondotti alle seguenti tipologie:

bisogni di corrispondere ai gusti e alle preferenze di coloro che si accingono ad

usufruire dei prodotti agroalimentari che devono assolvere a compiti specifici

come: conservare la salute del consumatore, assicurargli un aspetto fisico

piacevole, fargli provare nuove sensazioni, facilitare le occasioni di incontro

sociale, accrescere il tempo disponibile per le attività preferite. Ormai è evidente

che il prodotto alimentare e ancor più quello agroalimentare viene a configurarsi

non più come elemento essenziale alla sopravvivenza umana, ma diviene lo

strumento del soddisfacimento di bisogni che non possono certo definirsi

“primari” con come il semplice alimentarsi. Partendo da queste considerazioni si

5 D.I. Padberg - R.E. Westgren, Product Competition and Consumer Behaviour in the Food Industries, in “American Journal of Agricultural Economics” n. 4, 1979, pp. 620-625.

6 M.E. Porter, Competition in global industries: a conceptual framework, in Competition in Global Industries, Boston, 1986, pp. 15-60.

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può ben vedere come l’evoluzione della domanda abbia seguito, nel corso degli

ultimi decenni, due filoni principali: da un lato si è verificata una crescente

richiesta di prodotti già convenientemente preparati, dall’altro una sempre

maggiore attenzione verso i rapporti esistenti tra i metodi di produzione degli

alimenti che ci si accingeva ad acquistare ed i fenomeni dello sfruttamento del

lavoro, della distruzione delle risorse naturali, dell’inquinamento dell’ambiente e

del maltrattamento degli animali7. Occorre precisare, però che le problematiche

relative all’inquinamento dell’ambiente e dello sfruttamento delle risorse

avevano iniziato ad essere particolarmente sentite già intorno alla metà degli anni

Settanta allorquando, in seguito alla crisi petrolifera, la percezione delle questioni

ambientali e dell’esauribilità delle risorse divenne di carattere comune8

7 J.M. Connor - R.T. Rogers - B.W. Marion - W.F. Mueller, The food menufacturing industries,

Lexington, 1985.

. E’ poi,

non meno significativa, come indice dei nuovi bisogni che il prodotto alimentare

era tenuto soddisfare, la crescente inquietudine del consumatore circa i rischi che

la propria salute poteva correre a seguito della progressiva industrializzazione dei

processi di produzione della catena alimentare. Questo rischio non si configurava

più come un problema isolato, occasionale, bensì tendeva ad essere percepito

come un fenomeno associato a dei sistemi o a delle prassi di produzione

considerati come una minaccia potenziale, capace di causare effetti gravi o

addirittura irreversibili. Gli anni Ottanta, ormai caratterizzati da abbondanza

produttiva, segnano il passaggio da una inquietudine quantitativa ad una

inquietudine qualitativa. In ultima analisi, il consumatore ha incominciato ad

esigere dal prodotto alimentare l’idoneità a soddisfare un’ampia gamma di

bisogni inseriti in determinati valori sociali e culturali che si stavano definendo in

seguito alla progressiva individualizzazione degli stili di vita. Questo fatto

conferiva una nuova dimensione all’idea di qualità del prodotto alimentare. Nel

lessico comune il termine “qualità” indica il carattere superiore di un determinato

8 D.A. Faber, Eco-pragmatism: Making Sensible Environmental Decisions in an Uncertain World, University of Chicago Press, Chicago, 1999; C.M. Daclon, Geopolitica dell’ambiente: sostenibilità e cambiamenti globali, Franco Angeli, Milano, 2008.

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prodotto. Se poi si passa al gergo tecnico la parola “qualità” esprime le proprietà

intrinseche ed oggettive che permettono di differenziare un prodotto da un altro.

Nella nuova realtà del mercato dei prodotti agricoli e alimentari, venuta

configurandosi sul finire degli anni Settanta e nel corso del decennio successivo,

caratterizzata dall’esigenza di adeguare l’offerta alla domanda, il concetto di

qualità inizia ad allontanarsi sempre di più dal carattere oggettivo, di cui si è

appena parlato, per inserirsi in quella dimensione soggettiva venuta a crearsi con

l’evoluzione del rapporto domanda/offerta nel mercato dei prodotti alimentari. La

qualità pertanto, incomincia ad essere definita come l’attitudine dell’insieme

delle caratteristiche di un prodotto alimentare a soddisfare i bisogni espressi o

potenziali del consumatore9

Ad accentuare tale fenomeno ha contribuito in maniera sostanziale la

globalizzazione dell’economia che ha modificato profondamente la struttura ed il

funzionamento del mercato dei prodotti agricoli e alimentari. Anno dopo anno si

è assistito alla crescita a livello internazionale delle diverse aree di mercato dei

singoli prodotti ed alla successiva fusione dell’una con l’altra fino a dare origine

per gran parte dei prodotti ad un unico mercato di ampiezza mondiale. A tal

proposito è importante sottolineare la svolta che è stata compiuta in sede GATT

(General Agreement on Tariffs and Trade) con l’Uruguay Round

.

10

9 G. Galizzi, I sistemi agroalimentari europei: conflitti e convergenze, in L’agricoltura italiana tra

prospettiva mediterranea e continentale. Atti del XXXIII Convegno di Studi della SIDEA, Firenze, 1998, pp. 23-50; G. Galizzi, Il mercato dei prodotti agricoli e alimentari, cit.

la quale ha

fatto in modo che le politiche agricole nazionali e le relative politiche

commerciali, sino ad allora escluse dalle negoziazioni multilaterali, fossero

10 L’Uruguay Round è il più importante dei negoziati che ha coinvolto 123 Paesi ed è durato sette anni e mezzo (1986-1994) terminando con la firma degli accordi di Marrakech il 15 aprile 1994, con la creazione del WTO, e con la ratifica di tre accordi principali: 1) GATT: accordo generale sulle tariffe doganali ed il commercio; 2) GATS (General Agreement on Trade in Services): accordo generale sul commercio dei servizi; 3) TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights): aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale. A tal proposito si vedano UNDP, Rapporto 2000 sullo sviluppo umano. I diritti umani, Torino, 2000 e P.E. Geller, Intellectual Property in the Global Market Place: Impact of Trips Dispute Settlements, in IL 1995, pp.99-100.

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portate all’interno della disciplina del commercio internazionale 11 . In questo

modo sono state gettate le basi per una graduale, sensibile riduzione delle

politiche di protezione dell’agricoltura e di sostegno dei redditi agricoli attuate

dalle economie sviluppate. La riforma Mc Sharry 12 della Politica Agricola

Comune e gli indirizzi, sempre di politica agraria, indicati dalla Commissione

Europea in Agenda 2000 sono una evidente testimonianza di questo impatto. Da

ciò emerge chiaramente che ormai si stava diffondendo e trovava applicazione

l’idea che le frontiere politiche avrebbero dovuto condizionare sempre meno

l’agricoltura, l’industria alimentare, la commercializzazione e la distribuzione dei

prodotti alimentari. Tali logiche, guidate dai vorticosi e irrazionali meccanismi

del mercato hanno finito per fagocitare e distruggere i delicatissimi equilibri

esistenti nel settore agricolo. Come si è detto oltre al sempre più influente ruolo

dei consumatori ed alla globalizzazione dei mercati, il fattore tecnologico ha

giocato anch’esso un ruolo di primo piano nei mutamenti intervenuti in

agricoltura. Esso non si è limitato a facilitare il processo di globalizzazione con

la riduzione della distanza economica, ma ha favorito in misura particolarmente

sensibile l’adattamento della produzione agricola e alimentare alla domanda del

consumatore finale ed alla mondializzazione dei mercati. Un primo effetto

dell’azione congiunta delle tre grandi tendenze or ora considerate può essere

ravvisato nello sviluppo di una competizione sempre più intensa e complessa che

ha fatto emergere un nuovo fattore di vantaggio competitivo: la differenziazione

del prodotto13

11 W. Martin - L.A. Winter, The Uruguay Round and The Developing Countries, Cambridge

University Press, 1996.

. La differenziazione del prodotto è considerata la capacità delle

12 La Riforma Mc Sharry (1992) rappresenta una svolta significativa nell’ambito della riforme della PAC in quanto è la prima applicazione del principio di disaccoppiamento. Per favorire la riduzione della produzione e delle eccedenze fu introdotto l’obbligo della messa a riposo (set-aside), in percentuale variabile secondo le esigenze del mercato, dei terreni adibiti a seminativi, stabilendo un compenso per ettaro anche su tale superficie. Occorre precisare che il sistema del set-aside è stato introdotto alcuni anni prima della Riforma Mc Sharry e precisamente nel 1988 con il Regolamento CEE 1272/88 ma tale normativa non prevedeva l’obbligatorietà.

13 G. Galizzi, I sistemi agroalimentari europei: conflitti e convergenze, in L’agricoltura italiana tra prospettiva mediterranea e continentale. Atti del XXXIII Convegno di Studi della SIDEA, Firenze, 1998; F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, in

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imprese di offrire prodotti, beni e servizi che per le loro caratteristiche differenti

o per la loro migliore qualità sono percepiti dal mercato come qualcosa di unico,

di modo che essi si dimostrino di valore superiore per i consumatori14. A questo

punto si dispone di alcune conoscenze che consentono di comprendere meglio i

principali problemi di mercato dei prodotti, come quelli tipici, che sono

importanti per gran parte della nostra agricoltura. Le alte caratteristiche

qualitative di questi prodotti e la considerazione di cui essi hanno goduto e

godono tutt’ora presso i consumatori costituiscono certamente un importante

fattore di vantaggio competitivo per quanti li producono. La normativa

dell’Unione Europea sui prodotti a Denominazione di Origine Protetta ha poi

rafforzato grandemente questo vantaggio poiché, come si vedrà più avanti, ha

posto severi vincoli all’uso della loro denominazione. Tutto questo non è stato

tuttavia sufficiente per garantire nel lungo periodo non solo l’espansione del

mercato dei prodotti, ma neppure la conservazione dell’attuale livello della loro

domanda. Questo livello è stato ed è tutt’altro che stabile per una serie di fattori:

anche nel caso dei prodotti tipici i gusti dei consumatori tendono a mutare

continuamente anche se in misura percettibile solo nel medio e lungo termine.

Inoltre, occorre notare che il progresso tecnologico permette di ottenere delle

imitazioni pressoché perfette del prodotto tipico e che la protezione legale della

denominazione di origine e dell’indicazione geografica protetta15 che è assicurata

dalle norme dell’Unione Europea non vale per i mercati esterni al mercato

unico 16

P. Bevilacqua (a cura), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, Vol. III Mercati e Istituzioni, Marsilio Editori, Venezia, 1991, pp. 543-592.

. In queste condizioni il futuro delle produzioni tipiche sembra

strettamente legato non solo alla capacità di garantire un elevato livello

14 G. Galizzi - L. Venturini, Towards a theory of successful vertical cooperation in the food system, in Vertical Relationships and Coordination in the Food System, Heidelberg, 1999, pp.61-92.

15 Si veda il Regolamento CE n. 1236/96 della Commissione del 10 luglio 1996.

16 F. Capelli - B. Klaus - V. Silano, Nuova disciplina del settore alimentare e autorità europea per la sicurezza alimentare, Giuffrè Editore, 2006, pp. 23-41.

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14

qualitativo dei prodotti ad ogni stadio del processo di produzione ma anche

all’attuazione di politiche di prodotto particolarmente attente all’evoluzione dei

gusti e delle abitudini di acquisto17

.

1.2. BREVE SGUARDO ALL’EVOLUZIONE DELLA POLITICA

AGRICOLA COMUNITARIA (DAGLI ANNI SESSANTA ALLA FINE

DEGLI ANNI OTTANTA)

La fine degli anni Cinquanta rappresenta per l’agricoltura italiana un momento

importante anche per la nascita della Comunità Economica Europea, sancita con

il Trattato di Roma del 25 marzo 1957. Il compito principale della Comunità

venne definito nel Trattato come quello di promuovere uno sviluppo armonioso

delle attività e un generico miglioramento (art.2). Gli specifici indirizzi in

materia di agricoltura vennero formulati nell’articolo 38, dove venivano indicati

cinque obiettivi18

• aumentare la produttività dell’agricoltura;

:

• assicurare alle popolazioni agricole un tenore di vita accettabile;

• pervenire ad una stabilizzazione del mercato all’interno della comunità;

• garantire un adeguato approvvigionamento dei prodotti agricoli;

• assicurare dei prezzi ragionevoli per l’ acquisto dei prodotti agricoli.

Queste finalità esprimevano chiaramente le esigenze improcrastinabili di

un’epoca, quella post-bellica, in cui la crescita della produzione alimentare e il

miglioramento delle condizioni di vita generali dovevano costituire i principali

obiettivi a cui tendere. In linea con quanto stabilito dalla comunità in relazione

all’ incremento della produttività del comparto agricolo, gli indirizzi politici

17 C. Losavio, Il consumatore di alimenti nell’Unione Europea e il suo diritto ad essere informato,

Giuffrè Editore, 2007.

18 A. Piccinini, Politica e agricoltura. La svolta europea del secolo ventunesimo, Franco Angeli, Milano, 2000.

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15

nazionali furono rivolti sia all’espansione delle terre coltivate, sia

all’intensificazione colturale delle superfici già coltivate19. Nell’attuare tali linee

programmatiche vennero stabiliti interventi sia di carattere infrastrutturale,

strettamente legati ai progetti di bonifica, sia di riconversione del latifondo con lo

scopo di realizzare sistemi colturali meno estensivi e di incrementare la

meccanizzazione20

Negli anni Sessanta la politica agricola nazionale iniziò ad essere influenzata

dalle prime iniziative assunte dalla Comunità Economica Europea in materia

Politica Agricola. E’ questo il periodo in cui prende avvio un processo tendente a

lasciare fuori l’agricoltura dal contesto economico generale, relegandola ad un

ruolo marginale rispetto ad altre attività valorizzate dal cosiddetto “miracolo

economico”. Sono questi gli anni in cui si fanno sempre più pesanti gli effetti

dell’esodo rurale, le cui più evidenti conseguenze, soprattutto nelle zone

marginali ma non solo, sono ravvisabili nel completo abbandono sia in termini di

dismissione della professione agricola sia di rinuncia alla residenza rurale.

Questa fase segna l’inizio del declino del settore agricolo in un sistema in cui il

progresso e lo sviluppo erano letti univocamente in termini di crescita

economica, senza prestare attenzione al fatto che le scelte di dismissione delle

attività agroforestali nazionali non erano certo la soluzione ottimale in termini di

sostenibilità ambientale e sociale. Occorre notare che questo clima di ottimismo

nei riguardi dell’esodo agricolo ha spinto legislatori ed economisti a considerare

le crisi dell’agricoltura come uno step necessario per la crescita e per la

diffusione di nuove attività produttive e dei diversi modelli di vita ad esse

associate, come un passo avanti nell’emancipazione non solo economica ma

soprattutto sociale. Nonostante ciò, in questo periodo non sono mancate delle

.

19 M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, caratteristiche strutturali e

tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

20 G. Massullo , La riforma agraria, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, cit.

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16

iniziative in materia di politica agricola caratterizzate, però, dalla mancanza di

una razionale pianificazione degli interventi. Ci si riferisce ai due Piani Verdi

che, con durata quinquennale, vennero avviati rispettivamente nel 1961 e nel

1966. Il Primo Piano Verde fu approvato con la legge 454 del 2 giugno 1961.

Questo provvedimento prevedeva lo stanziamento di 600 miliardi di lire

mantenendosi sulla linea degli impegni relativi alla bonifica, alla

meccanizzazione e allo sviluppo del settore zootecnico, con un forte incentivo al

credito agrario21. Con il Secondo Piano Verde si volle promuovere gli interventi

di miglioramento delle dotazioni aziendali e dell’impiego dei mezzi tecnici. In

questo periodo si verificò un rinnovato interesse per la revisione dei patti agrari

curando particolarmente le iniziative in favore della proprietà coltivatrice. La

legge n.590 del 26 maggio 1965 promuoveva mutui poliennali agevolati per

favorire l’acquisto di terre, introducendo per la prima volta in modo esplicito non

solo il criterio per la costituzione di una specifica forma di proprietà, quella

contadina, ma soprattutto il raggiungimento di un’efficiente ampiezza tecnico-

economica del fondo22

21 M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, caratteristiche strutturali e

tendenze evolutive, cit.

. Nel frattempo in materia di agricoltura, La Comunità

Economica Europea stava mettendo a punto dei piani di intervento volti al

sostegno dei prezzi che ancora negli anni Ottanta rappresentavano il prevalente

impegno finanziario dell’Unione Europea. La Politica Agricola Comunitaria, in

questo periodo ha privilegiato sostanzialmente gli interventi di mercato, fondati

su premi e prelievi legati rispettivamente all’esportazione e all’importazione di

determinate produzioni. L’attuazione di queste linee programmatiche avvenne

nel 1962 quando ebbe inizio l’azione di sostegno al mercato dei cereali con la

individuazione di un prezzo di riferimento, fissato ad un livello giudicato

appropriato sia per i produttori interni che per il mercato comunitario; oltre a

22 A. Marinelli, Politica agricola nazionale, comunitaria, globale, in Accademia dei Georgofili (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, Polistampa, Firenze, 2002, pp. 197-240.

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17

questo veniva stabilito un prezzo di intervento, inteso come il prezzo minimo che

la Comunità Europea garantiva ai produttori impegnandosi in prima persona ad

acquistare la produzione. Tali meccanismi, indistintamente rivolti a tutti i Paesi

membri, condussero alla fissazione dei prezzi di intervento estremamente

convenienti per alcuni Paesi, contribuendo in questo modo ad acuire le fortissime

distorsioni del naturale equilibrio dei mercati locali, con un’impressionante

espansione dell’offerta associata a profondi mutamenti degli ordinamenti

produttivi territoriali. Partita dai cereali, la Politica Agricola Comunitaria dei

prezzi alla fine degli anni ‘60 si estese alla quasi totalità dei prodotti agricoli,

innescando una serie di problemi legati al rapido raggiungimento di eccedenze

produttive in relazione, oltre che all’elevato incremento dell’offerta anche ad uno

stallo della domanda, con una rilevante diminuzione dei livelli di crescita dei

consumi alimentari. Il provvedimento, però, che contribuì significativamente

all’avviamento di una politica sovranazionale in materia agricola fu il

Regolamento 17/64 che istituiva il Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e

Garanzia (FEOGA)23

23 S. Mangiameli (a cura di), L’ordinamento europeo. Le politiche dell’Unione, Giuffrè Editore, 2008,

pp. 343-344.

. Gli orientamenti relativi alla riforma strutturale del sistema

produttivo vennero inquadrati nella sezione di Orientamento, mentre quelli rivolti

al sostegno dei mercati furono inseriti nella sezione di Garanzia. L’Italia non

apportò contributi significativi alla definizione della politica comunitaria in

quanto non fu in grado di avanzare proposte efficaci, peferendo il quasi totale

allineamento alle scelte tedesche che, seppur favorivano le produzioni cerealicole

locali, proponevano livelli di prezzi tali da essere considerati vantaggiosi anche

per i Paesi meno vocati per tale produzione. Da non trascurare il fatto che i due

Piani Verdi, assi portanti della politica agricola italiana, favorirono il disinteresse

nazionale per le opportunità offerte dalla PAC. Un’iniziativa di qualche rilievo

può essere rappresenta, a metà degli anni ‘60, dalla specifica regolamentazione

per il comparto dell’ortofrutta che prevedeva interventi di ritiro o di distribuzione

di eccedenze di frutta e di alcuni ortaggi. L’Italia rimase estranea a qualunque

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18

politica di carattere strutturale, in particolar modo agli interventi relativi

all’ammodernamento delle aziende agricole e del sistema delle trasformazioni a

valle. Certamente si trattava di azioni con effetti a lungo termine e perciò

risultavano meno interessanti in termini di efficacia immediata ma comunque la

condizione italiana continuava a restare di estrema arretratezza soprattutto se

paragonata ad alcune realtà produttive europee.

Gli anni Settanta costituiscono un periodo di stallo dal punto di vista

dell’impegno nazionale in agricoltura. Le cause di un tale atteggiamento sono da

ricercare nel diverso equilibrio istituzionale generato sia dal maturare del potere

sovranazionale esercitato in ambito PAC sia dalle deleghe alle Regioni in materia

di agricoltura. Ben presto le questioni dello sviluppo agricolo nazionale

trovarono spazio nei soli strumenti di politica comunitaria. La tutela delle

specificità locali che avrebbe dovuto essere trattata in ambito regionale venne a

mancare per il modo in cui venne gestito il passaggio delle competenze dallo

Stato alle Regioni24. Il travaglio interno all’Italia determinò per tutti gli anni

Settanta una condizione di totale assenza di linee guida nazionali per lo sviluppo

agricolo, delegando di fatto la gestione del settore nazionale ad una PAC

strutturata principalmente sulle caratteristiche dell’agricoltura nord europea 25

24 F. Praussello, Cinquant’anni e più di integrazione economica in Europa. La goccia e la roccia

nell’economia europea, Franco Angeli, 2010.

,

che nulla avevano a che vedere con quelle dell’agricoltura italiana, del tutto

inadeguata rispetto alle specificità delle diverse realtà agricole del Paese.

L’espressione di una politica comunitaria preposta al governo della realtà italiana

non solo determinò, come già successo nel decennio precedente, il rinvio di

interventi strutturali di fondamentale importanza, ma fece emergere

prepotentemente la questione delle terre marginali, evidenziandone i limiti

tecnici che si opponevano a qualunque ipotesi comunitaria di massimizzazione

produttiva e tantomeno a qualunque strategia di riduzione dei prezzi che si

25 C.M. Daclon, Agricoltura e riforma mondiali, in “Agricoltura”, Rivista del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, n. 300, 2000.

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19

sarebbe sviluppata negli anni successivi. La complessiva strategia di incremento

delle produzioni interne, portata avanti dalla politica comunitaria dell’epoca, era

supportata da uno scenario internazionale caratterizzato da un deficit alimentare

in forte aumento. I rapporti del Club di Roma del 1972 e del 1974 ed il Rapporto

Global 2000 voluto dagli Stati Uniti concordavano nell’indicare che il forte

incremento demografico avrebbe determinato un progressivo aumento della

domanda di beni alimentari a fronte di un’offerta incapace di seguire tale

evoluzione. Nello scenario mondiale gli aumenti di produzione dovuti

all’introduzione di innovazioni tecnologiche, si verificarono nei Paesi in forte

crescita economica, mentre rimasero esclusi i Paesi in via di sviluppo. Da ciò

derivò un ingente incremento degli scambi internazionali dei prodotti agricoli.

Dal punto di vista della Politica Agricola Comunitaria gli unici provvedimenti di

carattere strutturale sono identificabili nelle direttive socio-strutturali per

l’ammodernamento ed il potenziamento delle strutture agricole (159/72),

l’incoraggiamento alla cessazione dell’attività agricola (160/72), l’informazione

socioeconomica (161/72) e la salvaguardia delle zone montane e svantaggiate

(268/75). A livello nazionale questi provvedimenti non produssero effetti

significativi sia per la scarsa entità delle risorse ad essi destinati sia per il

carattere di direttiva con cui vennero promossi. Inoltre tali direttive

sottolinearono le difficoltà di applicare provvedimenti estranei alla cultura rurale

italiana, come nel caso del prepensionamento, proposta concepibile per le realtà

nord Europee ma totalmente improponibile in Italia in cui la figura

dell’agricoltore non è solo una professione ma anche una scelta di vita.

Nonostante queste evidenti difficoltà la situazione italiana era alleggerita dai

cospicui aiuti a pioggia provenienti dalle erogazioni residuali dei Piani Verdi e

dalle crescenti risorse comunitarie destinate all’aiuto alle produzioni e alla

garanzia dei mercati che vedevano comunque l’ Italia tra i principali beneficiari.

Al termine degli anni Settanta nei governi nazionali europei si riaccese

l’interesse per una politica agraria nazionale ed una programmazione settoriale. Il

Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste formulò per l’Italia il documento di

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programmazione su “Indicazioni per un Piano agricolo alimentare” da cui scaturì

una conferenza nazionale incentrata sul miglioramento quantitativo della

produzione agricola e alimentare interna che, insieme al deficit energetico,

rappresentava uno dei maggiori saldi negativi italiani. Il tutto venne fatto

confluire nella legge n. 984 del 27 dicembre 1977, la Legge Quadrifoglio, riferita

a specifici ambiti di intervento: zootecnia, ortofrutta e zone rurali. Sulla base di

tale legge venne predisposto il Piano agricolo nazionale, approvato dal Cpaa il 13

dicembre 1979. Con tale legge si proponeva, per la prima volta in maniera

organica, una razionalizzazione della spesa pubblica in agricoltura. Il piano,

inizialmente programmato fino al 1987, si concluse con tre anni di anticipo. Nel

1985 in seguito all’esperienza effettuata con la Legge Quadrifoglio venne varato

un secondo piano agricolo nazionale "Per un nuovo piano agricolo nazionale"

chiamato Piano Pandolfi da cui scaturì la legge n.752 del 1986 con una copertura

finanziaria fino al 1991. Tra le novità principali da ricordare l’apertura verso le

amministrazioni regionali, che vennero chiamate a contribuire alla stesura del

piano. In tal modo il piano rappresentò il primo concreto tentativo di

coordinamento nazionale delle iniziative locali regionali auspicando una

programmazione più vicina alle peculiarità locali. Un altro aspetto saliente è

costituito dall’individuazione di interventi di carattere orizzontale, rivolti ai

servizi per lo sviluppo agricolo, distinti da interventi di carattere verticale, rivolti

ai singoli settori e prevalentemente trasferiti alle competenze delle singole

Regioni il tutto con procedure di spesa più immediate di quelle sperimentate con

la Legge Quadrifoglio. Tuttavia, anche con tale esperienza, nonostante la

semplificazione amministrativa, non vennero risolti i principali problemi di

politica agricola generati dalla contrapposizione tra Stato e Regioni. Questo

nonostante il DPR n. 616 del 1977 che, in stretta relazione con l’attuazione della

Legge 382/75, fissava puntualmente le rispettive competenze dei due livelli

istituzionali: allo Stato venivano attribuite le funzioni di indirizzo programmatico

il successivo coordinamento, mentre le Regioni avevano funzioni puramente

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attuative. Di fatto anche questa organizzazione risultò di difficile attuazione per i

vincoli di carattere amministrativo, sia nazionali che comunitari.

A livello comunitario gli anni Ottanta furono caratterizzati da un primo

bilancio sulle scelte di politica agricola. Si notarono subito gli effetti distorsivi

legati all’assoluto prevalere degli interventi di garanzia dei mercati, rispetto ad

una pressoché inesistente azione di riforma strutturale del sistema produttivo26.

Tale condizione era testimoniata con estrema evidenza dal fatto che oltre il 60%

dell’intero ammontare del bilancio comunitario veniva assorbito in quegli anni

dal FEOGA, ed in particolare dalla sezione garanzia, con una progressione che

vedeva raddoppiare nell’arco di un quinquennio i fondi ad essa dedicati27

Regolamento 797/85 relativo al miglioramento dell’efficienza delle strutture

agrarie;

. Di

fronte a questa situazione maturò l’esigenza di intervenire con un profondo

processo riorientamento della PAC. Gli sforzi in tale direzione trovarono risultato

nella formulazione di tre provvedimenti:

Regolamento 2052/88 di riforma dei fondi strutturali;

Regolamento 2088/85 sui Piani Integrati Mediterranei.

In termini di contenuti la principale novità di tali provvedimenti risiedeva nel

fatto di indicare il miglioramento della produttività delle imprese agricole

eminentemente attraverso la riduzione dei costi di produzione, evitando

qualunque trasformazione finalizzata alla elevazione della produzione aziendale.

Sempre con lo stesso spirito vennero definiti i principi del set-aside con il quale

si cercava di ridurre le produzioni comunitarie attraverso il ritiro dei seminativi,

ossia la messa a riposo dei terreni destinati alla semina. Questi principi vennero

formalizzati nel regolamento 1094/88 con cui si indicava che le terre messe a

riposo per un periodo quinquennale dovevano essere comunque curate, evitando

conseguenze legate al completo abbandono. Questo regolamento inizialmente in

26 Commissione CEE COM (88) 501, 1998, Il futuro del mondo rurale.

27 Ibidem.

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22

Italia non ebbe un gran successo probabilmente perché, come si è già detto,

l’approccio all’attività agricola nel nostro Paese non si esauriva in motivazioni

esclusivamente professionali. Tuttavia dopo i primi due anni gli agricoltori, in

particolare quelli delle zone marginali, iniziarono ad aderire in modo

significativo. Questo regolamento sollevò non poche perplessità: la prima di

carattere politico, relativa al fatto che con esso si contribuì a radicare sia

nell’opinione pubblica sia negli operatori del settore, una visione

assistenzialistica negli orientamenti della PAC: l’offrire un contributo per

sollecitare una non produzione rappresentò insieme alle distruzioni delle

eccedenze produttive di quegli anni l’espressione più estrema di questo

approccio, contribuendo a rendere ancora più profondo il solco di separazione tra

l’agricoltura ed il resto della società. Un’altra perplessità legata alla pratica del

set-aside era dovuta al fatto che esso comportava delle alterazioni nell’equilibrio

produttivo aziendale in quanto si sollecitava la riduzione nei processi produttivi

aziendali di un solo input produttivo, il capitale fondiario, generando nel breve

periodo (i cinque anni di durata dell’adesione al provvedimento) un eccesso di

dotazioni in termini di capitali di esercizio e di lavoro. Il regolamento 2088/85

sui Programmi Integrati Mediterranei rappresentò un provvedimento

specificamente adatto per ridurre nei confronti di alcune aree comunitarie gli

effetti derivanti dall’ampliamento della Comunità a Spagna e Portogallo. Il

particolare stato di arretratezza strutturale delle realtà rurali di questi due Paesi

rappresentò l’opportunità per lanciare uno specifico intervento di miglioramento

delle strutture socioeconomiche non solo di tali aree, ma anche di altre regioni di

Paesi già appartenenti alla Comunità. Fu così che in Italia vennero ammesse ai

PIM tutte le regioni del Mezzogiorno, la Toscana, la Liguria e le Marche ad

eccezione dei grandi agglomerati urbani, delle zone costiere urbanizzate e con

una attività turistica permanente. Questo regolamento ha un precedente nel

Regolamento 269 del 1979 che promuoveva specifici programmi regionali di

intervento pubblico in favore del settore agricolo. Tale regolamento ebbe in Italia

un altissimo livello di adesioni. Inquadrato nel contesto del pacchetto

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23

mediterraneo il regolamento 269 nasceva per migliorare le condizioni di

svantaggio fisico e colturale dell’agricoltura della Francia meridionale e

dell’Italia centro-meridionale. Per queste zone, caratterizzate da una situazione

particolarmente sfavorevole per quanto concerneva le condizioni di produzione,

l’erosione del suolo e il bilancio idrico, era previsto un intervento esteso anche al

comparto forestale. Nell’ambito dei PIM, per le aree pianeggianti sono stati

privilegiati interventi miranti all’incremento della competitività e della

diversificazione produttiva, mentre nelle zone collinari e di montagna sono stati

favorite misure atte a perseguire obiettivi di sviluppo rurale e di conservazione di

un tessuto socio-economico in grado di mantenere una popolazione attiva

minima. I Programmi integrati, di durata pluriennale, avevano carattere globale

poiché agli interventi per l’agricoltura si accompagnavano azioni incidenti sulle

strutture extra agricole, dal momento che il ritardo del loro sviluppo era

considerato contemporaneamente causa ed effetto di quello del settore primario.

Con queste misure, da un lato si supera la logica dell’intervento settoriale,

affrontando le problematiche relative all’interdipendenza fra agricoltura,

industria e servizi e dall’altro si cerca un coordinamento dell’intervento dei vari

fondi strutturali. Nonostante le buone intenzioni la realizzazione dei PIM ha

incontrato notevoli difficoltà finanziarie: oltre alla durata, non proprio breve, del

tempo trascorso tra l’adozione del Regolamento 2088/85 e la presentazione dei

progetti da parte degli Stati membri (da 6 a 18 mesi) vi sono state ulteriori

dilazioni per il loro esame e la loro approvazione, con la conseguenza di una

tardiva partenza dell’azione e una scarsa utilizzazione negli esercizi dal 1985 al

1987 degli stanziamenti previsti28

28 R. Fanfani - S. Gatti - L. Lanini - E. Montresor - F. Pecci, Spazio rurale e sviluppo agricolo in

Europa, in Studi sull’agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, Feltrinelli, 1994.

. La preparazione dei programmi da pare degli

Stati membri ha risentito delle difficoltà di gestione insite nel carattere

intersettoriale delle azioni richieste e nella carenza di informazione e di

organizzazione; la mancanza di massimali indicativi per ciascun programma ha

causato, inoltre, un eccesso di richieste di finanziamenti da parte degli Stati

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24

membri, motivando così una sostanziale riduzione delle azioni proposte29. Il fatto

che non sia stata stabilita una soglia minima per le richieste di finanziamento ha

fatto sì che, mentre le proposte di programma sono state presentate alla

Commissione degli Stati membri entro il 1986, le decisioni di approvazione e la

firma dei contratti si sono protratte fino alla fine del 1988; la concessione degli

effetti di retroattività, pur attenuando alcuni inconvenienti dovuti ai ritardi, non

ha però contribuito alla chiarezza delle situazioni. Queste ed altre difficoltà si

spiegano in parte con la complessità del sistema di elaborazione, approvazione,

finanziamento e realizzazione dei progetti integrati che presentano procedure

sovrapposte e un numero eccessivo di azioni e di misure30

Nel 1988 la Commissione con il documento "Il futuro del mondo rurale"

formalizzò per la prima volta in un documento pubblico l’esigenza di inquadrare

le sorti dell’agricoltura nel più ampio contesto dello sviluppo rurale,

evidenziando i rischi connessi al suo declino

.

31

Negli anni Novanta va ricordato il Piano Mc Sharry che prevedeva la

stabilizzazione delle produzioni eccedentarie, passando progressivamente da una

politica di aiuto al settore agricolo fondata sul sostegno dei prezzi a forme di

sostegno diretto dei redditi secondo meccanismi che avrebbero ridotto gli

impedimenti al libero scambio delle merci a livello mondiale e la tendenza alle

eccedenze produttive dei produttori comunitari

.

32

29 Ibidem. L’insieme delle domande presentate prevedeva infatti una spesa complessiva di 14.246 mio

Ecu e un contributo di bilancio della Comunità pari a 6.112 mio Ecu, di gran lunga superiore alle effettive disponibilità, anche se un parziale ridimensionamento delle domande era avvenuto nella fase di trasferimento tra il livello regionale e quello centrale dei diversi Paesi membri. In particolare in Italia le proposte iniziali delle regioni, che raggiungevano complessivamente 5 miliardi di Ecu, sono state ridotte del 50% prima della loro trasmissione alla Commissione.

.

30 Uno studio dell’Ocse del 1986 individua i seguenti ostacoli: la lontananza (geografica e socio-culturale) dai centri decisionali; la scarsità del capitale di rischio; le difficoltà di accesso all’informazione e alle innovazioni tecnologiche; la mancanza di servizi appropriati; la carenza di un tessuto economico integrato; a tal proposito si veda Comitato d’esame delle situazioni economiche e dei problemi di sviluppo (a cura di), Ocse-Rapporto Italia 1986-87, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1987.

31 Commissione CEE, Il futuro del mondo rurale, Com. 501, luglio 1988.

32 Commissione Europea, Towards a common agricultural and rural policy for Europe, Bruxelles, 1997.

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25

Con la Dichiarazione di Cork del 1996, frutto della Conferenza Europea sullo

Sviluppo Rurale, si propose l’immagine di un’agricoltura portatrice di valori ben

superiori a quelli identificabili nell’inquadramento tradizionale di settore

economico33

. In questo modo si affermò il fatto che l’intervento in agricoltura

non doveva essere inteso come un atto di pura solidarietà da parte dei settori

economici più forti in favore di un mondo in via d’estinzione, ma come il

legittimo riconoscimento dell’insostituibile ruolo del primario per l’intera

società, con tutti i valori culturali, sociali ed economici in esso riscontrabili.

L’insieme di questi principi ispiratori di una nuova PAC hanno avuto la loro

sintesi in Agenda 2000 documento con cui la Commissione Europea inquadra gli

orientamenti per il settore in un complessivo quadro dominato dalle sfide di

internazionalizzazione dei mercati e dall’ampliamento dell’Unione.

1.3 L’ITALIA E IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE AGRICOLA

EUROPEA

Come si può capire da ciò che è stato esposto nei paragrafi precedenti,

all’analisi della Politica Agricola Comunitaria sono stati dedicati numerosi studi

da parte degli economisti; si possono infatti reperire notevoli pubblicazioni che

descrivono, commentano, interpretano e criticano il processo di integrazione

agricola europea sottolineandone i fattori positivi e quelli negativi, i successi e le

sconfitte34

33 The Cork declaration: a living contryside, Cork, Irlanda, 7-9 Novembre, 1996.

. Tuttavia in queste analisi non è ravvisabile una prospettiva storica dal

momento che esse prescindono dal contesto economico, sociale e politico delle

realtà investite dal processo si integrazione agricola europea. Certamente questo

34 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, cit. Per quanto riguarda la letteratura sull’agromento si vedano: V. Saccomandi, Politica agraria comune e intgrazione europea, Bologna, 1978; J. Marsh-P. Swanney-F. De Filippis, La politica agricola comunitaria, Bari, 1980; CNEL, Rapporto sulla politica agraria comune negli anno ottanta, Roma, 1986; S. Torcasio, La politica agricola, in “L’Italia nella politica internazionale”, Annuario dell’Istituto Affari Internazionali, annate varie.

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approccio, utilissimo per comprendere gli interventi di politica agraria nella loro

settorialità, è inadeguato per le interpretazioni in chiave storica poiché esse

richiedono una attenzione particolare nei confronti dei fenomeni di interazione

con le dinamiche, di breve ma soprattutto di lungo periodo, del contesto

socioeconomico e politico nel quale si colloca l’intervento pubblico in

agricoltura. Infatti, nelle economie cosiddette sviluppate e caratterizzate da

legami intersettoriali sempre più vincolanti, i processi evolutivi in agricoltura

dipendono dall’azione congiunta di tre fattori: contesto economico, politiche

macroeconomiche e politiche per l’agricoltura 35

Detto ciò si rende necessaria una breve analisi delle condizioni relative alla

agricoltura e all’economia del nostro Paese negli anni immediatamente

precedenti l’integrazione europea. Dal punto di vista del contesto

macroeconomico, intorno alla metà degli anni ‘50 il modello di sviluppo da

portare avanti era già ben chiaro, come afferma Augusto Graziani "la decisione di

politica economica più rilevante del dopoguerra fu quella di abbandonare

progressivamente la politica di protezionismo e di chiusura degli scambi con

l’estero, per orientare l’economia italiana verso una politica di apertura

commerciale"

. In questo paragrafo non si

effettuerà l’analisi l’analisi dettagliata sugli effetti della PAC in Italia, ma si

cercherà di comprendere come essa si è inserita nel processo di crescita

dell’economia e dell’agricoltura italiana e di come è stata gestita e percepita da

parte dei molteplici attori coinvolti nella sua vicenda.

36. La scarsità di materie prime e di conoscenze tecnologiche capaci

di competere con quelle delle economie avanzate hanno fatto sì che quella della

progressiva liberalizzazione diventasse quasi una scelta obbligata 37

35 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, in Storia

dell’agricoltura italiana in età contemporanea, cit., p. 544.

. L’Italia,

36 A. Graziani (a cura di), L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, 1979, pp. 24-25.

37 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, cit., p. 545 “la via della progressiva liberalizzazione rappresentava per certi aspetti una via obbligata (...)”. L’alternativa che l’Italia si trovava di fronte non era dunque fra sviluppo come economia chiusa e sviluppo come economia aperta, ma piuttosto quella fra sviluppo industriale come economia aperta da un lato, e rinuncia, almeno iniziale, allo sviluppo industriale, dall’altro”.

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condizionata dall’atmosfera politica generatasi con la Guerra Fredda, vide

nell’Europa occidentale l’area privilegiata per una possibile apertura

commerciale capace di poter garantire, soprattutto dopo la costituzione della

CEE, anche al nostro Paese un grado di sviluppo tale da competere con le

economie avanzate. In questo quadro l’agricoltura richiedeva comunque

un’attenzione particolare: innanzi tutto essa occupava in Italia nel 1955 il 40%

della forza lavoro e produceva il 20% del prodotto nazionale lordo38, in secondo

luogo occorre ricordare l’estrema arretratezza, sia in senso assoluto che relativo,

rispetto alle realtà agricole dei Paesi europei con cui di lì a breve sarebbe

avvenuta una integrazione rapida e pervasiva sotto le rigide regole imposte dalla

PAC. Alla luce di ciò appare ancora più significativo il divario esistente tra

l’agricoltura italiana e quella dei partner europei in relazione ad alcune variabili

strutturali quali: l’ampiezza media delle aziende, le forme di conduzione, i livelli

tecnologici, lo stock di capitale per addetto e per ettaro, il grado di integrazione

con i settori a monte e a valle, , la produttività della terra e del lavoro. Quindi alle

soglie dell’integrazione europea l’agricoltura italiana non aveva ancora portato a

termine quel processo di modernizzazione che ormai nelle aree di antica

industrializzazione era già da tempo consolidato. L’idea che l’Italia avesse

urgente bisogno di avviarsi sulla strada della modernizzazione era diffusa nella

cultura economica del dopoguerra tanto che si può affermare che la politica

agraria degli anni cinquanta sia stata sotto molti aspetti chiaramente rivolta a

promuovere le condizioni affinché tale modernizzazione potesse avvenire senza

particolari squilibri39

38 G. Fabiani, L’agricoltura italiana tra sviluppo e crisi 1945-1985, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 75-

76; 177.

. Tutto ciò è stato evidenziato in più occasioni da Manlio

39 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, cit., p. 545 “Contribuivano a questa consapevolezza sia la cultura tecnica che quella economica: da un lato vi erano tanti tecnici agricoli, di impostazione serpieriana, che auspicavano l’obiettivo di "bonifica integrale"; dall’altro si stava sviluppando in ambito economico una concezione lineare dello sviluppo per stadi successivi, conveniente sia per l’ approccio liberale che per quello marxiano, in cui la modernizzazione in agricoltura era un punto cardine della fase di sviluppo accelerato dell’economia trainato dalla grande industria; non ultima la forte suggestione della dottrina keinesiana, che suggeriva l’opportunità e la possibilità di governare in positivo i processi di crescita attraverso l’intervento pubblico”.

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Rossi-Doria il quale affermava che la politica agraria del secondo dopoguerra “ha

indubbiamente perseguito un disegno coerente con la riforma agraria, la

formazione di proprietà coltivatrici, un compromesso in materia di mezzadria,

una prima legge di regolazione del contratto di affitto e il consistente avvio di

una politica di bonifiche e di irrigazione” 40. Già all’inizio degli anni ‘50 gli

intenti progettuali, manifestatisi alla fine del decennio precedente, cominciarono

a traballare sotto la spinta della legge Fanfani per la meccanizzazione agricola41 e

nella legge per la montagna, antesignane del tipico intervento a pioggia che

caratterizzerà i successivi Piani Verdi 42 . La seconda metà degli anni ‘50 è

pervasa da un forte clima di ottimismo, favorito dai successi nel campo

dell’industria e dal cosiddetto boom economico. Sembra che ormai in agricoltura

anche il tradizionale problema di sovrabbondanza di manodopera possa essere

risolto grazie alla ingente richiesta di forza lavoro del settore industriale. Si fa

largo la concezione di una agricoltura italiana costituita da una ridotta “polpa” da

valorizzare e da tanto “osso” da scartare43

40 M. Rossi-Doria, Un trentennio di politica agraria: elementi per un bilancio, in “La questione

agraria”, n. 5, 1982, pp. 179-180.

. Da un lato una minoritaria porzione

del territorio nazionale, naturalmente vocata al settore agricolo e dotata già di per

sé di una efficiente rete infrastrutturale, da accompagnare verso un più

consistente aumento della produttività; dall’altro, ampie aree di zone marginali,

in cui un’agricoltura misera ed arretrata costituisce l’unica attività produttiva, in

cui non ha più senso perseguire obiettivi di sviluppo dal momento che sembra

sufficiente destinarvi un flusso costante di spesa pubblica di tipo assistenziale,

nell’attesa di un loro naturale ed inevitabile svuotamento. A tutto ciò va aggiunto

41 Nella legge Fanfani (n.949 del luglio 1952) si possono riconoscere due obiettivi impliciti: 1) il sostegno all’industria produttrice di macchine agricole; 2) la modernizzazione agricola perseguita solamente con la sostituzione della forza lavoro dentro una organizzazione aziendale prevalentemente statica. In Italia ci si trova di fronte ad una tipologia di modernizzazione a maglie aziendali rigide dove, il processo di aggiustamento grava sul fattore lavoro.

42 Vedere paragrafo precedente.

43 La metafora della “polpa” e “dell’osso” è di Manlio Rossi-Doria. Tale metafora fu usata per marcare le forti differenze relative all’agricoltura meridionale e per esprimere l’esigenza di elaborare “politiche diverse per realtà diverse”.

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che in Italia era quasi del tutto ignorato il colossale meccanismo di intervento

settoriale e sovranazionale che si stava costituendo con la nascita della PAC. A

questa considerazione fa riscontro il fatto che nella Conferenza del Mondo

Rurale e dell’Agricoltura del 1961, momento di grande rilevanza per l’analisi

della situazione agricola italiana e per la progettazione di scenari futuri, si

ritrovino sporadiche tracce e di carattere perlopiù generico relative alla PAC, alla

politica dei prezzi, ai problemi posti dall’integrazione con le più forti agricolture

nord-europee44. Alcune questioni che animarono il dibattito, peraltro incentrato

su altri temi, all’interno della Conferenza risultano di straordinaria rilevanza,

soprattutto alla luce dei successivi sviluppi della PAC: da una parte vi fu chi

sottolineava i rischi di un aggravamento del deficit della bilancia agroalimentare

connesso all’aumento delle importazioni di cereali, foraggio, bestiame che le

esportazioni ortofrutticole sicuramente non sarebbero state in grado di

compensare45; dall’altra si rilevò che l’adesione alla CEE costituiva "il tentativo

di integrare a livello europeo la sola parte avanzata, la sola parte capitalistica

dell’agricoltura in una forma che porta alla cristallizzazione di un certo aspetto

fondiario e produttivo" 46

44 Conferenza Nazionale del Mondo Rurale e dell’Agricoltura, Resoconti della III Commissione,

Roma, 1961, questo documento risulta piuttosto utile nel descrivere la mancata percezione delle obiettive carenze di competitività del sistema agricolo italiano dal momento che “non si accetta la tesi che l’agricoltura italiana sia costituzionalmente inferiore, come produttività economica, a quella degli altri paesi”, p.349.

. In conclusione la concezione della politica agraria

maturata in Italia negli anni della nascita della PAC si può definire come l’azione

congiunta di interventi di accompagnamento e di gestione flessibile dei ruoli in

linea con i dettami dello sviluppo industriale quali: riserva di manodopera e

presidio sociale nelle zone di osso; mercato di sbocco per i prodotti dell’industria

nazionale fornitrice di mezzi tecnici; funzione produttiva nelle zone di polpa,

suscettibili di sviluppo intensivo e capaci di difendere o guadagnarsi il proprio

45 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, cit.

46 Conferenza Nazionale del Mondo Rurale e dell’Agricoltura, Resoconti della III Commissione, Roma, 1961, p. 358.

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spazio all’interno del mercato nazionale e in quello europeo47. Queste concezioni

trovano piena applicazione nei Piani Verdi48

Alla fine degli anni Sessanta (1967-68) l’intervento della PAC sui mercati

agricoli diviene una realtà: tuttavia “proprio quando ha sostanzialmente termine

quella imponente costruzione che è l’organizzazione comune di mercato e sta per

iniziare la fase del mercato unico con prezzi comuni e sostegno comunitario, la

Commissione suona un vigoroso campanello d’allarme con il Memorandum di

fine 1968 che denuncia gli aspetti negativi del sistema tanto faticosamente

costruito (spreco di risorse, crescenti oneri per le finanze pubbliche e per i

consumatori, effetti redistributivi non desiderati all’interno della stessa

agricoltura con divari medi invariati tra settori, difficoltà nei rapporti

commerciali con i paesi terzi) ed espone i principi di azione per venirne

gradualmente fuori”

, operanti per un decennio a partire

dal 1961-62 e fonte di erogazione di ingenti parti della spesa pubblica in

agricoltura. Con i Piani Verdi si mette in pratica un tipo di intervento passivo e

scarsamente selettivo dal momento che è semplicemente subordinato alla

domanda del beneficiario.

49

47 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, cit., p.

564.

. Questo progetto, definito Memorandum Mansholt, va

inquadrato nel contesto macroeconomico europeo della fine degli anni Sessanta

ed è il tentativo di riequilibrare gli strumenti di intervento in agricoltura per

riportarne la relativa importanza alle indicazioni iniziali che lo stesso Mansholt

aveva dato un decennio prima nella sua Bibbia Verde cioè: ridimensionare

progressivamente il sostegno via prezzi per avviare una robusta politica delle

strutture, capace di risolvere i problemi associati ad alcune strozzature operanti a

48 Il primo Piano Verde prevede lo stanziamento in un quinquennio di una somma pari a 550 miliardi di lire destinata al rifinanziamento di leggi preesistenti: bonifica, meccanizzazione, zootecnia; il secondo Piano Verde privilegia gli interventi di mercato e il finanziamento di capitali di esercizio, accentuando il carattere non strutturale della politica economica per l’agricoltura in questi anni. G. Fabiani, L’agricoltura italiana tra sviluppo e crisi, Il Mulino, 1986, pp. 200-201.

49 G. Barbero, L’agricoltura nella politica economico-sociale della CEE, in "Rivista di economia agraria", n.2, 1974, pp.225-226.

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livello aziendale che rallentavano il processo di modernizzazione dell’agricoltura

europea50. Gli strumenti da utilizzare per realizzare ciò erano aiuti selettivi agli

investimenti, incentivi alla fuoriuscita del settore di terra e forza-lavoro

marginali, assistenza, prevalentemente di carattere temporaneo, per le aziende

operanti in zone svantaggiate. Tutto ciò sfociò nel varo della politica delle

strutture agricole (1972) incentrata su tre direttive socio-strutturali51, a cui tre

anni più tardi si affiancò quella sulle zone svantaggiate. In Italia il Piano

Mansholt ha avuto una grande risonanza, soprattutto tra gli economisti, ed ha

contribuito ad avviare anche nel nostro paese un dibattito in materia di PAC.

Quasi in maniera unanime si sottolinearono le dimensioni, le peculiarità e la

eterogeneità del problema strutturale dell’agricoltura italiana che per essere

superato avrebbe dovuto richiedere l’adozione di politiche diverse per realtà

diverse. Un secondo blocco di critiche riguardava l’esclusiva focalizzazione dei

provvedimenti comunitari di ammodernamento delle strutture alla sola sfera

aziendale; infatti si evidenziò il fatto che le imprese venivano considerate come

monadi indipendenti i cui problemi si dovevano affrontare nel loro stesso ambito

prescindendo dai legami di integrazione con il territorio e con i settori a monte e

a valle. Lo stesso criterio di selezione dei finanziamenti adottato è, per le

esigenze italiana, eccessivamente subordinato alla dimensione aziendale 52

50 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, cit. e M.

De Benedictis (a cura di), Trasformazioni agrarie e pluriattività in Italia, Il Mulino, Bologna, 1990.

. Le

direttive si rivelarono un fallimento poiché, oltre alle difficoltà segnalate nel

51 Le tre direttive riguardano: 1) l’ammodernamento delle aziende agricole, attraverso misure per il finanziamento delle unità produttive che dimostrino la capacità di ristrutturarsi sulla base di un piano di sviluppo quinquennale (Direttiva 159); 2) l’incentivazione all’abbandono dell’attività agricola, al fine di ridurre la superficie complessivamente coltivata e favorire la ristrutturazione delle aziende da ammodernare (Direttiva 160); 3) l’informazione socioeconomica e la qualificazione professionale per favorire la riconversione degli agricoltori verso occupazioni extra-agricole (Direttiva 161). A queste si aggiungerà, nel 1975, la Direttiva 268 sull’agricoltura di montagna e delle zone svantaggiate, che prevede agevolazioni ulteriori e pagamenti diretti, compensativi dello svantaggio naturale, a favore delle aziende di queste zone

52 Questo criterio fa riferimento alle aziende potenzialmente vitali, ovvero capaci di raggiungere un reddito per unità di lavoro comparabile con quello percepito nei settori extragricoli. Sulle direttive comunitarie e sui problemi associati alla loro applicazione in Italia si veda lo studio del CNEL, Osservazioni e proposte sulla politica comunitaria e nazionale delle strutture agricole, Roma, 1978.

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dibattito precedentemente citato, furono recepite in ritardo dalle autorità

responsabili della loro applicazione sia a livello nazionale sia a livello

regionale53. Da non sottovalutare il fatto che le direttive di riforma strutturale si

sono inserite in una situazione di particolare disorientamento

dell’amministrazione italiana, dovuta al trasferimento delle competenze in

materia agricola alle appena nate Regioni, con tutta l’inerzia e i problemi ad essa

connessi. Il 1972 non è stato soltanto l’anno dell’avvio delle riforme strutturali

ma anche della firma degli atti di adesione alla CEE di Regno Unito, Irlanda e

Danimarca che certamente hanno contribuito allo sbilanciamento della

specializzazione produttiva in senso nord-europeo, alla marginalizzazione della

realtà agricola mediterranea, e alla nascita del “serpente monetario”, cioè la

istituzionalizzazione di un regime di cambi flessibili come sostituto del sistema

di cambi fissi instaurato subito dopo la guerra con gli accordi di Bretton Woods.

Quest’ultimo avvenimento ha rappresentato un colpo durissimo per il

funzionamento della politica di mercato della PAC che, basandosi sulla

fissazione annuale di un prezzo unico di sostegno per i vari prodotti agricoli

valido su tutto il territorio comunitario, avrebbe rischiato di inglobare il disagio

relativo alla variabilità dei tassi di cambio 54

53 La legge di recepimento nazionale delle direttive è del 1975 ma alla fine degli anni Settanta alcune

regioni ancora non le avevano introdotte nel proprio ordinamento.

. In Italia gli anni Settanta

rappresentano un periodo caratterizzato da una forte tensione, sia sul piano

politico che su quello economico: l’inflazione, la disoccupazione strutturale e il

disavanzo pubblico costituiscono i problemi principali dello Stato. In tale

situazione, totalmente opposta a quella del decennio precedente, senza più le

certezze innescate dal modello di crescita industriale, ormai già in declino, le

misure di accompagnamento che fino ad allora avevano sostenuto la politica

agraria italiana entrano in crisi. Con l’esaurirsi del II Piano Verde si registra una

54 I prezzi dei singoli prodotti vengono fissati annualmente in termini di Unità di Conto Europee (UC fino al 1979, ECU in seguito), ma vanno poi trasformati in moneta nazionale sulla base del tasso di cambio vigente rispetto all’ECU. Di conseguenza qualsiasi svalutazione che abbia luogo tra le monete europee e l’ECU si traduce in un incremento dei rispettivi prezzi nazionali, anche se i prezzi stabiliti a livello comunitario non hanno subito alcuna variazione.

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quasi totale immobilità di idee e un macroscopico disimpegno in termini di

risorse finanziarie55. La nascita delle amministrazioni regionali non contribuisce

di certo a migliorare questa già pesante condizione: il trasferimento di

competenze amministrative in materia agricola si traduce in una disordinata

frantumazione dell’intervento in agricoltura, nel quadro di un suo sensibile

ridimensionamento56. In questo contesto di instabilità ed incertezza si insinua con

sempre più invadenza la Politica Agricola Comunitaria che ormai è percepita

dall’opinione pubblica e non solo in maniera alquanto diversa rispetto al

decennio precedente: tramonta l’ottimistica incoscienza del decennio precedente

sostituita da un coro di lamentele, proteste, rivendicazioni, contro una politica

ritenuta ingiusta e penalizzante nei confronti dell’Italia57. A tal proposito Giorgio

La Malfa, intuendo le contraddizioni insite nella posizione assunta dal nostro

Paese nei confronti della PAC scriveva: “la posizione dell’Italia in questa

vicenda è una delle più contraddittorie. Nello sforzo di non contrastare le

richieste degli agricoltori per un regime di prezzi elevati, l’Italia è stata con la

Germania la più tenace assertrice dell’opportunità di non ridurre i prezzi agricoli.

Poiché d’altra parte essa è importatrice diretta di molti prodotti agricoli e poiché

il FEOGA è finanziato in larga parte mediante i prelievi tributari sulle

importazioni, l’Italia sopporta dei costi molto elevati per la politica di sostegno ai

prezzi (...) di cui beneficiano la Francia e l’Olanda ciononostante essendo le

strutture agricole italiane profondamente arretrate rispetto a quelle di tutte le altre

nazioni europee, i prezzi agricoli concordati sono risultati troppo bassi per

garantire un adeguato volume di reddito alla maggioranza degli agricoltori

italiani” 58

55 G. Fabiani, L’agricoltura italiana tra sviluppo e crisi, cit., pp. 338 ss.

. La critica italiana evidenzia due problemi particolari riguardanti

soprattutto la gestione e la politica dei prezzi: 1) lo squilibrio nel sostegno tra

56 F. De Filippis, Le politiche agrarie in Italia, cit., p.31.

57 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la Politica Agricola del Mercato Comune Europeo, cit., p. 576.

58 Cfr. P. Uri (a cura di), Un futuro per l’agricoltura europea, Milano, 1971, p.17.

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prodotti continentali e prodotti mediterranei che penalizza l’Italia sia come

importatrice dei primi che come unico paese produttore ed esportatore dei

secondi59; 2) la passività, da un punto di vista finanziario, che caratterizza l’Italia

nei confronti della PAC. Infatti, il contributo finanziario che il nostro Paese versa

nelle casse del bilancio CEE in conseguenza dei meccanismi della PAC è

superiore a quanto riceve sotto forma di spesa erogata a favore dei propri

agricoltori60. Questa critica era inasprita dal fatto che il rapporto costi/benefici

della PAC non comprendevano soltanto i flussi finanziari di bilancio ma

inglobavano i trasferimenti dai consumatori agli agricoltori infatti, come si è

detto sopra, poiché l’Italia è un Paese importatore netto di prodotti agricoli, i suoi

consumatori pagano un costo che in parte va ai propri agricoltori ma in parte va a

beneficio degli agricoltori dei Paesi esportatori della CEE con grande aggravio in

termini di bilancia commerciale 61 . Nonostante le problematiche connesse al

recepimento delle direttive europee in Italia, non bisogna, tuttavia, dimenticare

che il nostro Paese presentava degli elementi di svantaggio62 che difficilmente

anche in assenza della PAC avrebbero potuto consentire uno sviluppo equilibrato

del settore agricolo 63

59 Da notare che tra gli studiosi ed i politici inizia a far capolino l’idea di un riequilibrio al ribasso del

sostegno dei prezzi mentre la lobby agricola italiana vorrebbe estenderlo in maniera decisa anche ai prodotti mediterranei. A conferma di ciò si cita la posizione assunta dalla Coldiretti: " Diamo atto innanzi tutto dell’efficace azione dei nostri Ministri per il completamento della politica agricola comune di mercato. Noi sosteniamo, d’accordo con le organizzazioni agricole degli altri Paesi CEE". Cfr. Pareri di enti pubblici e privati sulla proposta di direttive e di regolamento della Commissione delle Comunità Europee, in “Rivista di economia agraria”, n.2-3, 1971, p.216.

. Con Giovanni Marcora alla guida del Ministero

dell’Agricoltura la situazione andò modificandosi: gli squilibri nella bilancia dei

pagamenti, venutisi a creare con la competitività dell’industria esportatrice ed

60 G. Orlando, Considerazioni critiche sulla politica agricola comunitaria, in AA.VV., Lezioni sull’economia italiana nell’integrazione internazionale, Inea, Milano, 1974.

61 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la Politica Agricola del Mercato Comune Europeo, cit.

62 Tali elementi vanno ricercati nell’arretratezza dell’agricoltura italiana, nella mancanza di una politica agraria interna, nell’inefficienza amministrativa con cui la stessa PAC viene applicata dalle autorità italiane.

63 E. Calcaterra, Il nodo dell’agricoltura italiana nella politica agricola comunitaria, in C. Bernini Carri - E. Calcaterra - J. Marsh - D. Velo, Il mercato comune agricolo, Firenze, 1979.

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acuiti dalla crisi petrolifera, fecero emergere chiaramente le dinamiche relative

ad un ingente deficit commerciale dovuto ai prodotti agro-alimentari,

accumulatosi nel ventennio precedente come conseguenza di una forte crescita

dei consumi e secondo solo al deficit dei prodotti energetici 64 . Il ministro

Marcora portò il Paese a riflettere sull’impossibilità, per una economia

strutturalmente povera di materie prime e di energia, di permettersi un sempre

crescente disavanzo commerciale in un settore con peso e potenzialità notevoli,

in cui la produzione sostitutiva di importazioni sarebbe stata possibile se

adeguatamente stimolata65. La metà degli anni Settanta vede come tema centrale

del dibattito politico italiano la necessità di un Piano agricolo-alimentare, in

questo modo l’agricoltura ritorna ad essere al centro dell’intervento pubblico.

Tutto ciò si è concretizzato nel varo della Legge Quadrifoglio66 considerata come

fattiva occasione di programmazione: “si tratta di qualcosa di molto diverso dal

progetto anni Cinquanta, poiché l’obiettivo è di carattere produttivo più che

strutturale, l’orizzonte temporale molto più ristretto, i soggetti beneficiari non più

tanto le aziende agricole familiari ed i comparti tradizionali, quanto il settore

agroalimentare nel suo insieme ed in particolare le catene produttive in grado di

sostituire importazioni” 67

64 M. De Benedictis - F. De Filippis (a cura di), Struttura degli scambi agroalimentari e politica

agraria, Milano, 1988.

. Tuttavia questi progressi risultarono effimeri e la

condizione subalterna dell’Italia nei confronti della PAC non subisce mutamenti:

“la fetta di risorse che l’agricoltura italiana strappa alla CEE è aumentata durante

il periodo, tuttavia è rimasto, ed in certi casi è stato addirittura istituzionalizzato,

65 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la Politica Agricola del Mercato Comune Europeo, cit., p. 579.

66 Legge n.984 del 1977. Il suo nome deriva dal fatto che essa in principio era articolata in quattro settori con lo scopo di ridurre il deficit agricolo-alimentare: zootecnia, ortofrutta, forestazione ed irrigazione. Ad essi si aggiunsero le colture industriali, i prodotti mediterranei, l’intervento per la rivitalizzazione delle zone interne dell’agricoltura italiana. L’allargamento del raggio d’azione elevò senz’altro gli obiettivi ma in un certo senso ne depotenziò l’approccio iniziale di intervento forte, deciso e selettivo, guidato da un obiettivo chiaro, avvicinandolo a quello di una legge finanziaria generalizzata e che per certi aspetti ricorda i Piani Verdi.

67 F. De Filippis, Le politiche agrarie in Italia, cit., p. 32.

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il loro carattere compensatorio per una politica che continua ad essere un affare

nord-europeo; anzi al riguardo, la linea impersonata dal ministro Marcora

implicava, semmai, il tentativo di far entrare in questo affare almeno una parte

dell’agricoltura del Nord-Italia più che quello di contribuire a mutarne la

sostanza. Sul piano interno, la emanazione della legge Quadrifoglio, la quale ha

trovato, del resto, applicazione lacunosa e parziale, non ha cambiato molto le

cose: lo stesso dibattito sul piano agricolo-alimentare che l’aveva generata, molto

ricco e stimolante sul piano culturale ma forse troppo presto appagatosi di tale

risultato, non è arrivato a delineare una strategia coerente e praticabile di politica

agraria” 68 . L’allargamento mediterraneo della CEE nell’opinione pubblica

italiana era percepito come una reale minaccia, Grecia, Spagna e Portogallo

divengono temibili concorrenti. “Ciò, in fondo, è un logico corollario della

posizione subalterna dell’Italia descritta nelle pagine precedenti: ritornate, dopo

la stagione degli effimeri successi della fine degli anni Settanta, ad una logica di

tipo difensivo e non avendo comunque elaborato una strategia di lungo periodo

capace di contrastare la filosofia nord-europea che domina la PAC, le forze

politiche e sociali agricole italiane sono spaventate di dover dividere con altri le

concessioni che si riesce di volta in volta a strappare” 69

Il trentennio che va dagli anni Ottanta ai giorni nostri è caratterizzato da una

continua e profonda analisi delle contraddizioni insite nella PAC ed emerse negli

anni precedenti. Sempre più diffusa è la convinzione della necessità di una sua

radicale revisione, infatti per tutti gli anni Ottanta si assiste all’emanazione di

tutta una serie di documenti volti ad interventi di riforma della Commissione

CEE in quello che è stato definito una permanente operazione di autoanalisi

. Questo sarà

l’atteggiamento dominante per tutto il decennio successivo.

70

68 J. Marsh - P. Swanney - F. De Filippis, La politica agricola comunitaria, cit., pp. 120-121.

della PAC. Sebbene da molto tempo fossero emersi elementi critici nel sistema

69 Ibidem, pp. 122-123.

70 M. De Benedictis, L’evoluzione della politica agricola comune, in CNEL, Rapporto sulla politica agricola comune degli anni Ottanta, cit., p. 8.

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della PAC, soltanto negli anni Ottanta si avverte un clima di crisi vera e propria;

ciò è essenzialmente dovuto a quattro nuovi elementi71

1) l’andamento divergente delle economie dei singoli stati membri, frutto di

scelte di politica economica contraddittorie, e le conseguenti difficoltà

riscontrate nella messa a regime del Sistema Monetario Europeo;

:

2) caduta dello spirito europeista dei governi nazionali, che porta ad una

maggiore conflittualità e a un progressivo irrigidimento delle posizioni

soprattutto in relazione alla PAC: a tal proposito si rammenta l’attacco al

principio di solidarietà finanziaria portato dal Regno Unito, con la esplicita

insistente richiesta di una compensazione monetaria per il proprio passivo

strutturale nei confronti del bilancio CEE, in gran parte dovuto alla

distribuzione squilibrata della spesa agricola;

3) l’allargamento mediterraneo della Comunità, con l’entrata di Grecia,

Spagna e Portogallo, che amplia e diversifica gli interessi in gioco;

4) il radicale cambiamento della posizione della CEE sul mercato

internazionale dei prodotti agricoli, da importatrice netta a forte esportatrice

di eccedenze di prodotti chiave, unitamente ad una più generale crisi della

domanda mondiale di tali prodotti, che provoca gravi tensioni commerciali

tra la Comunità e i tradizionali Paesi esportatori72

Tenendo conto di questi fattori si comprende il perché dell’evoluzione

progressivamente restrittiva della PAC che fino ad allora non aveva mancato di

elargire cospicui aiuti all’agricoltura europea.

.

Sul fronte italiano si sottolinea la strategia di difesa messa in atto dalla classe

politica come difesa dagli attacchi restrittivi sferrati da Bruxelles. E’ palese la

perdita di rilevanza dell’intervento in agricoltura nelle priorità delle discussioni 71 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la Politica Agricola del Mercato Comune Europeo, cit.

72 Ibidem, p.582. Nell’ambito dei Paesi esportatori occorre distinguere la posizione dei Paesi in via di sviluppo da quella dei Paesi più ricchi, quali Australia, Canada, e soprattutto Stati Uniti: per quanto riguarda i primi, infatti, le loro lamentele risultano facilmente gestibili con accordi commerciali ad hoc, diverso è il caso dei Paesi sviluppati che hanno una notevole forza politica e capacità contrattuale nonché la possibilità di ingaggiare costose guerre commerciali basate su pratiche di dumping.

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politiche; questa caduta di interesse può essere fatta risalire al progressivo

miglioramento in ambito macroeconomico ed alla conseguente minor gravità

attribuita al problema del deficit agroalimentare. Inoltre si fa sempre più strada la

rassegnazione di fronte alla impraticabilità di rivendicare una maggiore quota di

benefici, dato che nel nuovo scenario si devono soprattutto limitare le perdite

conseguenti alla riduzione del sostegno complessivo. In ciò si può trovare un

nesso tra l’atteggiamento passivo verso la PAC e una scarsa capacità progettuale

in termini di politica agraria nazionale. Da questo deriva una serie di leggi di

finanziamento per l’agricoltura73

73 Al riguardo si vedano: R. Finuola, L’attività di spesa del Maf nell’ambito della legge pluriennale

per l’agricoltura: le azioni orizzontali, in “La questione agraria” n.39, 1990; G. Antonelli - M. Baragani - M. Mellano, Modelli di spesa e politiche agrarie regionali, Franco Angeli, Milano, 1989.

che non hanno alcuna organicità e favoriscono

la frammentazione delle scelte in materia agricola che vengono delegate alle

Regioni. Questo stato di sbandamento è confermato dal fatto che le principali

organizzazioni agricole trovano sempre maggiore difficoltà a svolgere il loro

ruolo tradizionale di trasmissione ed intermediazione tra potere politico e ceti

agricoli; non sembra azzardato affermare che questo sia dovuto al

ridimensionamento dell’importanza dell’agricoltura nell’economia che tende a

ridurre il peso politico di tali organizzazioni. Non bisogna dimenticare che esse,

però, non si sono adeguate tempestivamente alla nuova situazione e sono risultate

incapaci di ridefinire il loro ruolo all’interno del contesto che si è venuto a

creare; il loro atteggiamento passa da una ideologia ruralista e corporativa alla

volontà di trasformarsi in moderni gruppi di pressione interessati soltanto alla

difesa dei loro interessi. La strategia riduzionista non è ben accettata nel nostro

Paese e dà luogo ad un acceso dibattito culturale e scientifico in materia di

politica agraria: non si assiste soltanto all’analisi tecnico-economica della PAC

ma gli studiosi affrontano soprattutto gli aspetti direttamente connessi con le

conseguenze dell’applicazione della Politica Agricola Comunitaria a livello

nazionale, internazionale e comunitario. Tutto ciò appare più significativo se si

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rammenta il quasi totale disinteresse degli studiosi e dei politici italiani nel

momento della nascita della PAC.

Negli ultimi anni il dibattito culturale in materia rimane ancora acceso

soprattutto in considerazione di alcuni fattori che a tutt’oggi risultano di

importanza strategica quali:

• la crescente integrazione dell’agricoltura con il resto dell’economia sia a

livello settoriale che territoriale;

• la maggior sensibilità del settore agricolo rispetto alle politiche

macroeconomiche di tipo fiscale, monetario o commerciale, sociale,

ambientale o di sviluppo integrato;

• l’accresciuta interdipendenza internazionale dei sistemi agricoli;

• lo sviluppo dei nuovi bisogni nelle società industrializzate , la richiesta al

settore agricolo di produrre cibo sano e di qualità e servizi ambientali

piuttosto che garantire una ormai fuori dal tempo sicurezza alimentare74

74 F. De Filippis - L. Salvatici, L’Italia e la Politica Agricola del Mercato Comune Europeo, cit.

.

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2. CARATTERI DELLA POLITICA AGRARIA DELLA REGIONE

TOSCANA DAL SECONDO DOPOGUERRA AGLI ANNI

SETTANTA

2.1. RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA, DELLO STATO E DELLE

REGIONI NEGLI INDIRIZZI DI POLITICA AGRARIA

Nell’ambito della definizione e della messa a punto delle politiche economiche

relative al settore agricolo per i Paesi aderenti all’Unione Europea si è venuta

configurando una specifica definizione della distribuzione delle competenze e dei

ruoli tra i diversi livelli istituzionali rappresentati sia dall’Unione Europea stessa

che dagli Stati membri e dalle loro Amministrazioni Regionali. Tale ripartizione

può essere sintetizzata in questo modo:

• organismi comunitari: soggetti che hanno la responsabilità, oltre che della

politica di mercato dei prodotti agricoli, della politica agricola

complessivamente intesa75

• organismi di governo nazionali: soggetti che, oltre a partecipare

all’elaborazione delle politiche e degli atti comunitari, coordinano

l’adeguamento della realtà agricola nazionale alle esigenze del mercato

comunitario e internazionale

;

76

• regioni, realtà istituzionali che assolvono alla progettazione e all’attuazione

degli interventi.

;

Il compito caratterizzante l’Unione Europea dovrebbe essere volto verso tutti

gli interventi atti ad orientare i settori produttivi afflitti dagli squilibri di mercato

ed a favorire ed accompagnare i processi di stabilizzazione di comparti in cui le

politiche agricole comunitarie hanno inciso più profondamente; secondo questa

75 M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, cit., p.11.

76 Ibidem

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ottica politiche dei prezzi, mercati e politiche strutturali dovrebbero perseguire

gli stessi obiettivi77

Agli Stati membri spetterebbero le azioni volte ad orientare in maniera

verticalizzata con lo scopo di abbracciare tutte le esigenze (ricerca tecnologica,

impostazione delle strutture produttive e orientamenti di mercato) solo di quei

comparti che rappresentano una grande risorsa per l’economia del Paese o

comunque per le componenti sociali che in essa sono presenti

.

78

Alle regioni spetterebbero, oltre alla attuazione concreta delle normative

emanate dagli organismi comunitari e statali, le azioni che mirano ad affrontare

lo sviluppo integrato territoriale di zone che richiedono piani progettuali basati

non solo sul potenziamento del settore agricolo ma anche sulla crescita di altre

attività e la messa appunto di opportuni servizi sul territorio

.

79

Nel contesto reale, però, le cose hanno assunto un aspetto ben diverso infatti,

mancati adempimenti, lentezza nell’attuazione ed attriti sono stati le costanti

caratteristiche dell’intervento in agricoltura. In questo capitolo verranno

analizzati gli effetti che le modalità con cui sono state attuati gli interventi di

riforma hanno prodotto nel contesto agricolo toscano.

.

Come si è già detto, la situazione dell’agricoltura italiana è piuttosto peculiare,

dal momento che essa racchiude in sé realtà fortemente differenziate sia da un

punto di vista territoriale che produttivo; basti pensare alle dinamiche che dal

secondo dopoguerra ad oggi hanno investito non solo le aree marginali di

montagna e collina ma anche vasti aree di pianura. Da ciò emerge l’esigenza di

77 Ibidem e G. Pastori, Profili istituzionali dell’intervento pubblico in agricoltura, in AA.VV., Il

governo dell’adattamento dell’agricoltura italiana: istituzione e strumenti. Atti del XXVIII convegno di studi della SIDEA, Inea-Il Mulino, Bologna.

78 M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, cit. e Costato L., Il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, in “Diritto e giurisprudenza agraria dell’ambiente”, n. 2, 1994.

79 F. Sotte (a cura di), Spesa regionale per l’agricoltura. Metodologie per l’analisi e il controllo della Politica agraria, Inea-Il Mulino, Bologna, 1993.

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analizzare l’agricoltura italiana non più solo con un’ottica produttiva ma

soprattutto come strumento di gestione e salvaguardia del territorio.

Partendo da questo presupposto si può spiegare l’ingente erogazione di fondi

che le Regioni destinano al settore primario80, non giustificabile con il mero

contributo produttivo che l’agricoltura offre all’economia delle stesse. A tal

proposito risultano chiarificatori gli studi compiuti da Antonelli e Mellano81 dai

quali emerge il ruolo determinante svolto dall’agricoltura nella difesa del

territorio e nella salvaguardia dei valori paesaggistico-ambientali. A tutto ciò si

associano sia direttamente che indirettamente altri compiti peculiari del settore:

la conservazione dei patrimoni culturali locali, l’ostacolo alla creazione di aree

urbane di dimensioni eccessive e la capacità di assorbire manodopera, perlopiù

stagionale, in periodi di crisi occupazionale degli altri settori82

Intorno alla metà degli anni Settanta, tali problemi, unitamente alle evidenti

distorsioni insite nella Politica Agricola Comunitaria, hanno portato ad una

nuova consapevolezza circa il ruolo del settore primario. Tale consapevolezza

però, nel corso degli anni Ottanta si è tradotta in misure che, in alcuni casi, hanno

assunto un carattere stridente con altri provvedimenti comunitari

. Sempre da questo

punto di vista e strettamente legato a quanto si è detto finora emerge il fatto che

nelle società considerate sviluppate sono venuti alla luce problemi di natura

ambientale legati al sempre più crescente impiego di mezzi meccanici e concimi

chimici in agricoltura.

Tenendo conto di questi peculiari compiti riservati al settore primario,

l’Unione Europea ha emanato delle misure riguardanti il contenimento

80 G. Antonelli - M. Baragani - M. Mellano, Modelli di spesa e Politica agraria regionale, Franco

Angeli, Milano, 1991 e G. Orlando, La Politica agraria italiana attraverso l’analisi della spesa pubblica, Angeli, Milano, 1984.

81 G. Antonelli - M. Mellano, La spesa per l’agricoltura delle regioni a statuto ordinario. Un bilancio di politica agraria, in “Rivista di Economia Agraria”, n. 3, 1990.

82 M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, cit., p.17.

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dell’inquinamento prodotto dall’attività agricola83, tali misure, però, in alcuni

casi hanno assunto un carattere stridente con altri provvedimenti comunitari84

Da questa considerazione scaturisce un nodo problematico importantissimo

che vede intrecciarsi la politica ambientale con la politica agraria, quest’ultima

non può assolutamente prescindere dal ruolo rivestito dal fattore ambiente nella

formazione del reddito sia degli addetti al settore agricolo che a quello

extragricolo.

.

2.2 SITUAZIONE DELL’AGRICOLTURA TOSCANA NEGLI ANNI

SETTANTA

La crisi della mezzadria, tipo di conduzione agricola peculiare della campagna

Toscana, ha innescato un processo di rinnovamento che ne ha pian piano mutato

l’immagine tradizionale. Sin dall’inizio degli anni Settanta del Novecento, si

assiste ad un sempre maggiore sostegno pubblico 85 al settore primario che

contribuisce alla trasformazione dell’agricoltura toscana nei suoi elementi

caratterizzanti. Le ragioni di un tale cambiamento vanno ricercate nell’esigenza

di superamento dei “preesistenti regimi nazionali di aiuto considerati obsoleti” 86

83 Si vedano il Regolamento 2078/92 relativo a metodi di produzione agricola compatibili con le

esigenze di protezione dell’ambiente e con la cura dello spazio naturale e il Regolamento 2080/92 che istituisce un regime comunitario di aiuti alle misure forestali nel settore agricolo.

e di trascinare il settore agricolo nel vortice di crescita che ha caratterizzato le

scelte di politica agricola nel decennio in esame.

84 Si vedano soprattutto i provvedimenti inerenti gli interventi di garanzia dei mercati che hanno caratterizzato la Politica Agricola Comunitaria per gran parte degli anni Settanta del Novecento e il Regolamento CEE 1272/88 che introduce il set-aside.Questo provvedimento testimonia una inversione di tendenza rispetto alle misure di sostegno e garanzia attuate fino ad allora.

85 A tal proposito si veda il lavoro di S. Tardit., Sostegno finanziario diretto all’agricoltura, in “Studi e informazioni”, n. 4, Banca Toscana, 1984. Ci si riferisce in particolar modo alle direttive del 1972 volte a mettere in atto un regime selettivo di aiuti indirizzato verso quelle aziende capaci di seguire il trend di ammodernamento richiesto dal mercato comunitario.

86 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988, p. 117.

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Questa evoluzione è testimoniata dall’esame dei dati statistici relativi allo

sviluppo di aziende a salariati sorte in seguito alla riorganizzazione delle antiche

fattorie e al formarsi di aziende a conduzione contadina anche in zone non

tradizionalmente vocate a questo tipo di organizzazione agraria, quali la Toscana

nord-occidentale e la Maremma 87 . Su questo fenomeno sono stati effettuati

molteplici studi 88

87 IRPET, Toscana: Agricoltura risultati provinciali del 2° Censimento Generale dell’agricoltura, 25

ottobre, 1970, allegato al n. 17 del 30 novembre 1972 di “Informazioni statistiche”.

che, da diverse angolazioni, hanno cercato di cogliere la

rilevanza che la crisi della mezzadria ha assunto nella formazione dei nuovi

assetti fondiari. Benché la letteratura sull’argomento sia alquanto vasta e ricca di

giudizi e criteri interpretativi, si può cogliere una questione di fondo che nella

maggioranza dei casi è stata affrontata solo in modo implicito: comprendere se la

riorganizzazione fondiaria fosse il frutto di un adattamento passivo alle nuove

condizioni oppure se le scelte imprenditoriali innovatrici avessero assunto un

ruolo cruciale e dinamico nel processo di trasformazione. Alla luce di quanto fin

qui si è detto occorre notare che gli studi indirizzati verso un’ottica di

programmazione hanno messo in luce tre diverse dinamiche la cui interrelazione

ha portato alla formazione di un determinato assetto agricolo. La prima è quella

che comunemente viene definita dinamica endogena in quanto segue una

tendenza che si potrebbe definire naturale, ovvero uno sviluppo autonomo del

settore agricolo; la seconda è la cosiddetta dinamica esogena caratterizzata

dall’influenza di fattori politici ed economici operanti su scala mondiale che

hanno di fatto condizionato e, molto spesso, inciso in maniera significativa sui

mercati influenzando il sistema di relazioni economiche; la terza è la cosiddetta

dinamica delle politiche volte ad produrre delle profonde modifiche

all’andamento naturale per ottenere un trend desiderato, rispondente a precise

88 Cfr. G. Fabiani, L’agricoltura italiana tra sviluppo e crisi, Il Mulino, Bologna, 1972; R. Cianferoni - Z. Ciuffoletti – P. Clemente, Crisi della mezzadria e lotte contadine in P.L. Ballini - L. Lotti – M.G. Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, Milano 1991; I. Biagianti, Condizioni della mezzadria toscana nel secondo dopoguerra in “Istituto Alcide Cervi”, Annali 3/1981, Bologna, Il Mulino, 1981; Andreini C., Dringli F., Lavoro, sindacato e lotte sociali nel Valdarno superiore (1943-1991), tipografia valdarnese, San Giovanni Valdarno 1992.

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indicazioni programmatiche. Pur tenendo ben presente l’incidenza dei fattori

esogeni nel processo di sviluppo dell’agricoltura toscana nel periodo in

questione, l’attenzione si soffermerà sulle peculiarità delle componenti relative al

sistema agricolo toscano e sulle modalità con cui esso ha reagito agli stimoli

esterni. Per spiegare l’importanza che le peculiarità regionali rivestono nel

processo di reazione alle dinamiche mondiali, europee e nazionali si può citare il

caso del periodo che ha seguito il forte rincaro del prezzo dei prodotti agricoli,

uniformatosi su quello dei cereali, favorito dalle forti richieste dei vari Paesi e la

crisi petrolifera che ha caratterizzato gli inizi del decennio in questione. Quello

appena descritto è stato sì un fenomeno di carattere generale, indifferenziato a

scala mondiale e nazionale89

Per meglio comprendere gli indirizzi di politica agraria regionale sembra

opportuno accennare brevemente ad alcuni eventi che hanno caratterizzato le

vicende politico-economiche internazionali nella prima metà degli anni Settanta.

Il mutamento di direzione inerente lo scambio fra materie prime e prodotti

trasformati e l’inevitabile riscontro del carattere limitato delle risorse energetiche

hanno avuto una fortissima influenza sia sulle economie, sia sugli approcci

politici e soprattutto sugli stili di vita dei Paesi cosiddetti sviluppati. Da tutto ciò

sono scaturite, come prima reazione, recessione e inflazione. In Italia, nell’ottica

di una immediata ripresa economica, si è fatto leva sul processo di controllo

dell’inflazione che è andata man mano aumentando con ritmi elevati rispetto agli

altri Paesi industrializzati e per cause sempre meno legate all’andamento dei

, ma ha messo in luce differenti risposte da parte

delle varie realtà regionali. Una tale varietà di risposte va ricercata nella

differente capacità di reazione a carattere locale che ben evidenzia la tipicità delle

differenze regionali. Su queste basi si cercherà di delineare l’andamento

dell’agricoltura toscana tentando di rilevare la specifica reazione del sistema

agricolo alle sollecitazioni ricevute.

89 IRPET, L’agricoltura toscana negli anni ‘70, Firenze, 1980.

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prezzi delle risorse energetiche90. Tale politica, se da un lato ha consentito una

crescita economica con incrementi che, in alcuni casi, si sono mostrati superiori a

quelli di altri Paesi considerati più forti, non ha però permesso un

consolidamento a causa dei limiti strutturali di siffatto sistema alla cui rimozione

sono state affiancate iniziative sempre e solo di carattere congiunturale e

gravitanti negli ambiti specifici di manovre monetarie e creditizie 91 . Tra le

problematiche strutturali che non hanno avuto una adeguata risposta c’è

sicuramente il settore agricolo, sempre più condizionato dalla Politica Agricola

Comunitaria. La posizione favorevole assunta dalle materie prime nel mercato

mondiale, fra cui anche quelle alimentari, fino alla metà degli anni Settanta non

ha avuto una forte incidenza nel nostro Paese a causa della sua specializzazione

produttiva. Infatti, agrumi, ortaggi, vino e olio erano considerate, nell’ambito

degli scambi internazionali, derrate “di lusso” rispetto ai cereali. Detto ciò,

bisogna comunque tener conto del fatto che “in un periodo in cui il tasso di

inflazione non aveva raggiunto valori esasperati né un differenziale marcato

rispetto agli altri Paesi, la situazione, per questi comparti, non si modificava

drasticamente rispetto ai periodi precedenti”92. Tale stato di cose si è andato

modificando in senso negativo con l’aumentare dell’inflazione e in particolare

del suo differenziale. Il processo di contenimento volto ad arginare gli aumenti

dei prezzi agricoli messo in atto dalla CEE con lo scopo di rallentare l’inflazione

che per limitare le spese di bilancio e la diversa protezione accordata ai prodotti,

ha notevolmente ridotto la possibilità di beneficiare dei vantaggi derivanti

dall’inflazione. In un tale stato di cose si è assistito alla sola rivalutazione del

valore della proprietà mentre si sono aggravate le problematiche relative sia

all’impresa capitalistica che a quella familiare93

90 IRPET, Considerazioni sul Piano Pandolfi, Firenze, 1976 e G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra

crisi e ristrutturazione, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale, cit.

. L’aumento dei prezzi del settore

91 Ibidem.

92 IRPET, L’agricoltura toscana negli anni ‘70, Firenze, 1980, p.30.

93 Ibidem.

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energetico congiuntamente all’inflazione hanno avuto sul settore agricolo effetti

divergenti: da un lato gli ingenti costi energetici da pagare ai Paesi produttori

richiedevano una forte sollecitazione di tutte le forze atte a ridurre il disavanzo

della bilancia commerciale; dall’altro, per il fatto di incidere in modo

differenziato, l’inflazione ha condizionato la possibilità di incidenza reale delle

politiche adottate a vari livelli94

.

2.2.1 L’AGRICOLTURA TOSCANA TRA SVILUPPO DESIDERATO E

SVILUPPO REALE

La politica economica in generale ma soprattutto quella relativa al settore

agricolo tende, nel periodo in esame, ad assumere i caratteri di una “politica di

piano”95. Si pensi, infatti, al primo Piano Mansholt, che proponeva un quadro

nazionale di interventi nel campo delle strutture, e ai vari programmi comunitari

fino ad arrivare al Memorandum “Agricoltura 80” basato sul riesame critico di

tutta una serie di esperienze pluridecennali inteso a sistematizzare in maniera

unitaria problemi strutturali, mercantili e sociali. In questa ottica vanno

considerati sia i diversi Piani Verdi che il Programma economico nazionale

1966-1970. Questa impostazione programmatica viene mantenuta anche dalla

Regione che ha ribadito una scelta indirizzata verso una politica di

programmazione per il governo delle proprie competenze 96

94 Ibidem.

. Nelle varie

esperienze di programmazione si possono ravvisare, comunque, degli elementi

costanti, quali crescita della produttività e della remunerazione, che talvolta si

intrecciano con finalità extraeconomiche come la difesa del reddito dei lavoratori

95 AA.VV., Problemi attuali della pianificazione in agricoltra. Teoria, metodi ed applicazioni. Atti del XI Convegno di studi Sidea, Siena, 1974.

96 M. Prestamburgo, Aspetti metodologici della programmazione regionale in agricoltura, “Rivista di economia agraria”, n.5/71.

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e la tutela dell’ambiente97. Dal punto di vista prettamente economico le misure

adottate mostrano chiaramente caratteri di natura settoriale, in alcuni casi volti

esclusivamente verso un indirizzo produttivistico ed in altri verso quello

protezionistico. La peculiarità di tali misure si basa su una strumentazione

finanziaria costituita da contributi, agevolazioni e garanzie, che vuole intervenire

sui prezzi e sui redditi piuttosto che sulle strutture 98 . I limiti, che di certo

influiscono in varia maniera ma pur sempre chiaramente visibili, derivanti da tale

impostazione risultano essere: l’incertezza relativa alla quantificazione di scopi

ben determinati e geograficamente definiti, il mancato riconoscimento del ruolo

dell’organizzazione tecnico-amministrativa per la programmazione e il controllo

delle strutture economico-tecniche per l’intervento, l’incapacità di verifica

relativa agli obiettivi prefissati nonché ai mezzi utilizzati per raggiungerli 99

97 A. Bruzzo, Alcune questioni poste dalle recenti tendenze della programmazione regionale in Italia,

in M. Bielli – M. La Bella (a cura di), Problematiche dei livelli sub-regionali di programmazione, Franco Angeli, Milano, 1982.

.

Detto ciò, occorre però ricordare che il mancato raggiungimento degli obiettivi

dichiarati non è da imputare esclusivamente alle politiche agricole, dal momento

che le contraddizioni insite al sistema agricolo nazionale e regionale hanno avuto

un ruolo di primo piano. Alla luce di quanto detto si può affermare che le

politiche si sono rivelate non adeguate e hanno, anzi, portato ad esiti negativi: si

pensi che “dal 1° gennaio 1970, data dell’entrata in vigore a regime della PAC la

situazione economica dell’agricoltura ha registrato ulteriori aggravamenti

relativi, come provano alcune circostanze dei fatti: accentuazione del fenomeno

delle eccedenze economiche, mancata riduzione del divario fra i prezzi dei

prodotti agricoli all’ingrosso e al dettaglio e la rapida ricostituzione del divario

fra i prezzi dei fattori produttivi per l’agricoltura, la permanenza, se non

l’accrescimento, del dislivello tecnologico rispetto agli altri settori, il mancato

98 U. Sorbi, Il mercato dei principali prodotti agricoli tipici della Toscana, Relazione tenuta il 14 giugno 1965 in occasione del Convegno per la valorizzazione dei prodotti tipici dell’agricoltura toscana, Stamperie editoriali Parenti di G., Firenze, 1966.

99 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit.

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superamento della sperequazione tra redditi agricoli ed extragricoli, gli effetti

inflazionistici del sostegno del reddito attraverso il meccanismo dei prezzi

garantiti quando gli sbocchi crescano meno rapidamente delle possibilità,

l’obiettivo privilegio accordato all’impresa capitalistica senza che la perseguita

efficienza aziendale si sia tradotta, se non molto parzialmente, in efficienza

economico-sociale, la precarietà delle politiche di promozione delle produzioni

locali contrastante con la simmetrica determinazione degli altri parteners nella

CEE”100. Per quanto riguarda l’adattamento del contesto agricolo toscano alle

direttive europee emergono due fondamentali punti critici: il primo riguarda la

disparità di trattamento riservata alle categorie contadine, soprattutto in

mancanza di idonei servizi di assistenza tecnica e di mercato, di fronte ai criteri

di concessione delle provvidenze per la ristrutturazione; il secondo deriva dalla

direttiva concernente la cessazione dell’attività che ha fatto sorgere alcuni dubbi

in merito ai reali obiettivi perseguiti (cessazione dell’attività dei contadini in

esubero rispetto alle esigenze della produzione o accrescere l’offerta di terra per

l’ampliamento dell’azienda?) 101 . Quest’ultima ipotesi sembra essere smentita

dalle dinamiche relative ad impresa, lavoro e proprietà che ha visto nell’arco del

secondo dopoguerra una forte rigidità del rapporto tra i principali titoli di

possesso delle superfici aziendali: proprietà e affitto, con la cronica irrilevante

incidenza di quest’ultimo102

.

100 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit., p. 32.

101 IRPET, L’agricoltura toscana negli anni ‘70, Firenze, 1980. A partire dal 1975: imprenditore con sufficiente capacità professionale, contabilità razionale, piano di sviluppo.

102 Ibidem.

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2.3 ANALISI DEI FATTORI DI PRODUZIONE

Partendo dall’analisi di alcuni dati forniti dall’IRPET103 si è visto come alcuni

caratteri strutturali dell’agricoltura toscana risultano quantomeno discordanti:

l’assetto aziendale agricolo alla fine degli anni Settanta è ancora caratterizzato

dalla forte rilevanza dell’azienda di grandi dimensioni condotta con l’impiego di

salariati, ma, l’elemento nuovo è rappresentato dal posto occupato dalle aziende a

conduzione diretta che investono una quota di superficie relativamente maggiore

tenendo conto che il campo di osservazione dal quale emergono questi risultati

non tiene conto delle aziende economicamente irrilevanti104

Dal punto di vista delle dimensioni aziendali dal secondo dopoguerra

. 105 e,

soprattutto, per tutto il corso degli anni Settanta in Toscana si può osservare un

andamento piuttosto interessante rispetto alla media nazionale che vale la pena di

analizzare: in complesso la dimensione media delle aziende regionali ha

raggiunto i 14 ettari, non solo per effetto del forte incremento delle aziende a

salariati ma anche di quelle a conduzione diretta, che è, percentualmente,

addirittura superiore106

103 Ibidem.

. Il profilo che si viene delineando nel periodo in esame,

mette in luce sia la diminuzione del numero di aziende, frutto del declino del

sistema mezzadrile, sia la minore disponibilità di superficie aziendale; in

aggiunta a ciò va sottolineato il fenomeno, seppur di lieve entità, di riconversione

produttiva che ha determinato lo spostamento di parte della superficie utilizzata

104 Cfr. G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit., in cui è specificato che il campo di osservazione CEE riportato globalmente in appendice al 2° Censimento Generale dell’Agricoltura e dal quale viene estratto il campione per le "Indagini sulla struttura delle aziende agricole" svolte dall’ISTAT, prende, infatti, in considerazione solo le aziende con superficie agricola utilizzata superiore ad un ettaro e quelle che pur di dimensioni inferiori commercializzano una produzione superiore ad un certo ammontare.

105 I dati relativi all’evoluzione delle aziende agricole ed in particolar modo quelli riguardanti la struttura della proprietà fondiari nell’immediato dopoguerra si rimanda all’indagine condotta da Giuseppe Medici per conto dell’Inea nel 1947.

106 G. Fabiani, M. Gorgoni, Una analisi delle strutture dell’agricoltura italiana, in "Rivista di Economia Agraria", n. 6, 1973.

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51

da seminativo ad arborato107. Tale tendenza che, come si è già detto, non ha

rappresentato almeno in questa fase iniziale un fattore rilevante nell’assetto della

SAU regionale, ha comunque destato preoccupazione tra gli amministratori

regionali proprio per le conseguenze derivanti da una sua eventuale evoluzione,

soprattutto in relazione alla già difficile situazione delle coltivazioni legnose e

alla possibilità di inficiare la valorizzazione ottimale dei sistemi di irrigazione.

Tenendo conto dei possibili effetti derivanti da questo trend la Regione Toscana

ha organizzato a Siena un convegno incentrato sulle problematiche relative alla

difficile situazione delle coltivazioni legnose della collina (soprattutto in

riferimento alla viticoltura) e del conseguente problema insito nei sistemi di

irrigazione108

.

107 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit.

108 Giunta Ragionale della Regione toscana (a cura di), Una politica per l’irrigazione, Firenze, 1976. La Giunta Regionale ha poi presentato precisi programmi in proposito nella: Proposta di programma regionale per lo sviluppo dell’irrigazione, presentata in applicazione della legge 984/77.

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ANDAMENTO AZIENDE SECONDO LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DI CONDUZIONE, DAL 1947 AL

1977

Fonte: G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, in Agricoltura toscana e

sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana,

Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

2.3.1 IL “CAPITALE”: TERRA, INVESTIMENTI, CREDITO

Già dalla metà degli anni Sessanta e con un trend sempre in crescita nel corso

del decennio successivo si è assistito ad un forte incremento del valore della terra

indipendente dalla quantità e dalla qualità degli impianti su di essa esistenti e, di

conseguenza, dalla redditività dell’impresa. Tutto ciò ha favorito il formarsi di un

mercato fondiario estremamente dinamico, in cui lo squilibrio tra domanda e

offerta vedeva la prima raggiungere livelli ben più alti rispetto alla seconda

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prescindendo dalla tipologia dei fondi, (questo fino alla fine del decennio

allorquando iniziano a manifestarsi i primi segni di stanchezza del mercato

dovuti a fattori intrinsecamente congiunturali).

ANDAMENTO DEL VALORE FONDIARIO E DEL COSTO DELLA VITA NEL PERIODO 1961 - 1977

Fonte: G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, in Agricoltura toscana e

sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana,

Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

In questo modo si è venuto a creare un meccanismo in cui il continuo

incremento dei prezzi della terra che ormai andavano ben oltre il tasso di

inflazione, ha portato a considerare i terreni come “bene rifugio”. In questa sede

è importante comprendere le motivazione profonde di tale stato di cose, la cui

spiegazione non può esaurirsi attribuendo soltanto all’inflazione l’origine del

fenomeno.

Certamente un elemento cardine che può far luce sulla natura di tale dinamica

va ricercato nel mutamento di atteggiamenti culturali che hanno come base la

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consapevolezza dell’esauribiltà delle risorse naturali. Infatti le prime discussioni

relative ai limiti della crescita e al conseguente esaurimento delle risorse naturali

risalgono ai primi anni Settanta e più precisamente al 1972 quando il cosiddetto

“Club di Roma”109

In Italia ed in particolare in Toscana, regione che presenta notevoli peculiarità

non solo di carattere geomorfologico ma anche di tradizioni insediative e

culturali, il dibattito lanciato dal rapporto del “Club di Roma” ha trovato ampia

risonanza al punto da costituire una delle cause, se non la principale, scatenanti

del repentino aumento della domanda di beni fondiari

commissionò un rapporto da cui è emerso che entro pochi

decenni si sarebbe verificato l’esaurimento di risorse naturali di primaria

importanza.

110 . Il risultato di tali

dinamiche ha assunto valenze diverse: da un punto di vista strettamente

economico la convenienza può aversi anche in assenza di positivi risultati

gestionali 111 ; per ciò che attiene l’aspetto collettivo, si evidenzia sia un

depauperamento complessivo, sia un forte rallentamento negli investimenti

miranti ad un maggiore sfruttamento produttivo della risorsa terra; dal punto di

vista prettamente privato acquistano valore gli aspetti che attengono alla sfera del

ricreativo e dell’impiego del tempo libero112

109 Facendo riferimento alle classiche tematiche di influenza malthusiana relative alla scarsità

alimentare e evidenziando una sfiducia verso la capacità della tecnologia di far fronte ai problemi, il rapporto e le posizioni ad esso afferenti mostrano nodi problematici che invitano ad interrogarsi sulla razionalità e lungimiranza dello sviluppo capitalistico. A tal proposito di vedano: Boltho A., Economic growth, in The European Economy: Growth and Crisis, Oxford, 1982; Abramowitz, M., Catching up, forging ahead and falling behind, in “Journal of Economic History”, n. 46, 1986; Cairncross F.-Cairncross A., The Legacy of the Golden Age. The 1960s and their economic consequences, London, 1992; Marglin S.,-Schor J., The Golden Age of Capitalism. Reinterpreting the Post War Experience, Oxford, 1990.

. La somma di queste due spinte

conduce ad una redistribuzione tra interno ed esterno a vantaggio di quest’ultimo

che trova ampi spazi di mercato nei quali inserirsi. Da ciò sembra derivare un

110 A. Maddison, Le forze dello sviluppo capitalistico. Un confronto di lungo periodo, Giuffrè, Milano, 1995.

111 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit.

112 Ibidem.

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non trascurabile impulso all’appesantimento del deficit della bilancia alimentare

italiana.

Analizzando i dati specifici relativi al settore produttivo si nota la consistente

flessione degli investimenti lordi, che dai circa 50 miliardi (espressi in lire

costanti 1970) del biennio 71/72 scendono ai 42 del biennio 77/78113. Questi dati,

seppur aggregati, fanno emergere una realtà in cui l’elemento caratterizzante è

rappresentato dal forte rallentamento nella capitalizzazione dell’agricoltura

toscana. Un aspetto di notevole rilevanza è rappresentato dalla costante perdita di

punti sia rispetto alle regioni del Centro-Nord sia rispetto al complesso

dell’Italia; in secondo luogo, occorre osservare che, mentre all’inizio del

decennio gli investimenti nell’agricoltura regionale rappresentavano oltre il 6%

di tutti gli investimenti, con un’incidenza di poco inferiore al dato nazionale ma

leggermente superiore a quella del Centro-Nord, l’evoluzione di questi ultimi due

aggregati è stata tendenzialmente positiva mentre quella toscana ha seguito un

andamento inverso collocandosi, nel 1978, a livelli nettamente inferiori ai due

termini di raffronto114

113 IRPET, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, 1980.

. Concludendo si può affermare che in Toscana il decennio

in esame è stato caratterizzato da un deciso calo degli investimenti in agricoltura,

tuttavia questo trend generale necessita di una ulteriore puntualizzazione poiché

ci si scontra con la difficoltà soprattutto in campo analitico di concepire il settore

agricolo come un insieme omogeneo invece che come un accostamento di tanti

settori eterogenei che trovano come solo elemento unificante la terra intesa come

fattore produttivo.

114 Ibidem. Un’interessante fonte informativa per l’intervento a medio e lungo termine è data dal raffronto dei dati forniti dall’IRPET con le annuali relazioni di bilancio dell’Istituto federale di credito agrario per la Toscana, in particolare si vedano: Istituto federale di credito agrario per la Toscana, Relazioni e bilancio dell’esercizio 1970, Coppini, Firenze, 1971; Istituto federale di credito agrario per la Toscana, Relazioni e bilancio dell’esercizio 1971, Coppini, Firenze, 1972; Istituto federale di credito agrario per la Toscana, Relazioni e bilancio dell’esercizio 1973, Coppini, Firenze, 1974.

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Se si vuole analizzare gli investimenti da un punto di vista maggiormente

disaggregato il credito agrario di miglioramento 115 costituisce uno strumento

senz’altro utile. “In linea di massima si trova conferma della diminuzione di peso

nei confronti del Paese, ma si deve rilevare che gli andamenti sono meno precisi

anche, e soprattutto, per il ruolo che svolge l’agevolazione del credito in questo

comparto”116

Nel periodo in esame si assiste alla crescita della quota destinata alle

Costruzioni Rurali che, “nel 1979, superava il 40% del complesso risultando la

voce più importante e sostituendosi alla voce “Altre Migliorie” che, invece, vede

più che dimezzata la propria quota fra il 1975 e il 1979, soprattutto per la quasi

cessata attività dei Consorzi di Bonifica, le cui funzioni ora sono svolte dalla

Regione o dalle Comunità Montane”

. Nonostante ciò sono rintracciabili alcune significative indicazioni

relative alla destinazione degli investimenti finanziari tramite il ricorso al sistema

creditizio. Particolarmente rilevante risulta essere il declino dei fondi destinati a

nuove piantagioni, che avevano sempre caratterizzato la Toscana, mentre si

constata l’aumento, seppur non elevato, dei crediti destinati all’irrigazione e alla

sistemazione dei terreni.

117

115 Il Credito Agrario di Miglioramento è stato istituito con la del legge 5 luglio 1928 n. 1760 e

successive modifiche ed è regolato dalle leggi de1 14 agosto 1971 n. 817, del 9 maggio 1975 n. 153, dal Decreto Legislativo 01/09/93 n. 385 e dalla legge 17 febbraio 1992 n. 154. A tal proposito si vedano: Finanziamento e credito all’agricoltura. Atti del Convegno (Firenze, 1-2 giugno 1995), Giuffrè, 1996 e A. Pellarini, Credito e agricoltura, Forum Edizioni, 1998. Le caratteristiche e le dimensioni degli investimenti nel settore agricolo scaturiscono oltre che dall’annata agraria anche dal rapporto lavoro/capitale che determina in modo differente gli esiti produttivi dei diversi fattori, Tali finanziamenti sono indirizzati prevalentemente all’acquisizione di proprietà, beni di investimento e mezzi produttivi oltre che al pagamento di salari, canoni, imposte, tasse e oneri sociali.

. Una considerazione più approfondita va

riservata alla evoluzione del credito per la formazione della proprietà coltivatrice

caratterizzata da un andamento decisamente crescente, sia in assoluto, giungendo

116 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit., p. 41 e G. Fabiani, M. Gorgoni, Una analisi delle strutture dell’agricoltura italiana, cit.

117 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit., p. 41.

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a quasi un quarto del totale regionale, sia rispetto alle similari assegnazioni

concesse in Italia118

Concludendo non si puo’ non considerare l’andamento del capitale agrario

regionale, che nel decennio manifesta un trend maggiormente costante di quello

nazionale; anche la composizione interna non subisce alterazioni apprezzabili:

oltre la metà del credito è destinata ai prestiti di conduzione; circa un quarto ai

prestiti a enti e associazioni agrarie. Questa distribuzione interna è

sostanzialmente simile a quella del Paese anche se in quest’ultimo aggregato le

distanze sono minori, in particolare fra il credito destinato alla meccanizzazione e

quello della zootecnia.

.

2.3.2 DINAMICHE RELATIVE AL CAPITALE FONDIARIO

I dati emersi dall’indagine relativa alla distribuzione della proprietà fondiaria

nel nostro Paese condotta dall’INEA nel 1947, hanno permesso di fotografare la

situazione relativa all’assetto fondiario nei primi anni del secondo dopoguerra119.

Premettendo che esistono notevoli differenze tra provincia e provincia, sembra

opportuno cercare di indagare le relazioni esistenti tra gli assetti fondiari e le

vicissitudini di cui la mezzadria fu protagonista nell’immediato Secondo

Dopoguerra per comprenderne in modo adeguato i rapporti di causa-effetto. Da

un lato si trovano poderi di grandi dimensioni da gestire dopo un periodo di

grandi sconvolgimenti e dall’altro i mezzadri che, riprendendo la protesta che li

vide al centro della scena negli anni 1919-1920 120

118 Ibidem.

, rivendicano una decisiva

119 INEA, La distribuzione della proprietà fondiaria, Roma, 1947.

120 A tal proposito si veda G. Crainz – G. Nenci, Il movimento contadino, in Storia dell’agricoltura italiana, cit., p. 650 in cui si legge “L’analogia delle richieste tra il primo e il secondo dopoguerra non può nascondere che, se i problemi sono fondamentalmente gli stessi, il contesto generale è in qualche misura già mutato e proprio questo mutamento, al di là dei fatti politici nel senso proprio del termine sia locali sia nazionali, influisce nel movimento stesso, è dentro di esso. Ciò che era stata la forza della mezzadria ottocentesca comincia a diventare la sua debolezza. La sicurezza che essa

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revisione dei patti agrari che neanche il cosiddetto “lodo 121 De Gasperi” del

1946122

Alla fine degli anni Quaranta, sulla scia di rinnovamento che investe le

campagne e non solo, si assiste all’avvicinamento della famiglia mezzadrile con

le tematiche e le organizzazioni sindacali; a rafforzare questo legame

contribuiscono i caratteri peculiari della società mezzadrile in cui, come

dimostrano alcuni studi

, trasformato in legge l’anno successivo era stato in grado di garantire.

123, il nucleo familiare nella sua compattezza assicura

“uno schieramento politico di gruppo”124. Dagli studi emerge chiaro il fatto che

la coesione nell’espressione dell’opinione rappresenta un valore fondante

nell’organizzazione familiare mezzadrile soprattutto per il capofamiglia e gli

anziani in generale e le veglie serali costituiscono un momento importantissimo

di aggregazione di cui gli attivisti possono approfittare per diffondere le

tematiche più rilevanti concernenti le condizioni di lavoro nelle campagne125

offriva rispetto ad altre situazioni agricole, e anche non agricole, perde il suo vantaggio relativo quanto più le condizioni di chi vive isolato diventano diverse da quelle di chi sta nei centri”.

.

Divenuta un elemento fondante nel sistema sinergico costituito con

l’organizzazione sindacale e coinvolta come struttura omogenea nelle

121 Con il termine “lodo” ci si riferisce ad un negozio giuridico con il quale si conclude un arbitrato, a tal proposito cfr. A. Favata, Dizionario dei termini giuridici, CELT Casa Editrice La Tribuna, 2006. Il provvedimento emanato da De Gasperi non si tratta di un lodo ma di un giudizio che poi verrà attuato con il decr. legisl. 27 maggio 1947 n. 495.

122 S. Zoppi, De Gasperi e la nuova Italia: le riforme negli anni difficili e l’affermazione della vita democratica, Rubettino, 2004. Il 3 marzo 1946 la CGIL invia al Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi una istanza volta al raggiungimento di un accordo tra concedenti e mezzadri. De Gasperi esprime allora un giudizio, divenuto legge l’anno seguente e appellato in modo improprio “lodo”, che, pur mantenendo la quota del riparto pari al 50%, stabilisce che i proprietari debbano destinare ai mezzadri, in virtù dei danni di guerra subiti, la cifra in denaro corrispondente al 24% del prodotto lordo di parte padronale di un anno agrario per di più anche il corrispettivo del 10% destinato a lavori di ripristino nei poderi investiti dai disastri bellici.

123 R. Cianferoni – M. Vanni – M. Menci, Veglie a Porcignano: contadini, nobili e preti chiantagiani fra conservazione e mutamento, Bi&Gi, Verona, 1985; L. Zola, Memorie del territorio, territori della memoria, Franco Angeli, 2009; “Annali dell’Istituto A. Cervi”, 9, 1987.

124 G. Crainz – G. Nenci, Il movimento contadino, cit., p.651.

125 M. Bergamaschi, I sindacati della CGIL 1944-1968: un dizionario, Fondazione ISEC, 2007; F. Renda, Contadini e democrazia in Italia (1943-1947), Guida Editori 1980; A. Esposto, Democrazia e contadini in Italia nel XX secolo: il ruolo dei contadini nella formazione dell’Italia Contemporanea, Robin Edizioni, 2006.

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rivendicazioni da essa propugnate, la famiglia mezzadrile si ritrova ad assumere i

caratteri dei “lavoratori ribelli”126 tipici delle realtà industriali coniugando con

essi le esigenze e le richieste dei lavoratori della terra. Inoltre, la vicinanza con i

principali centri urbani regionali fa in modo che anche nelle aree rurali

mezzadrili si faccia strada l’esigenza di una radicale trasformazione che

coinvolga non soltanto i patti agrari ma tutta la società contadina in generale. A

questo proposito risulta molto interessante la relazione di Antonio Negrini al IV

Congresso Nazionale della Federmezzadri 127 in cui si evince che gli obiettivi

delle nuove generazioni non si riconoscono più soltanto nella conquista della

terra ma assumono connotazioni nuove che si sono ormai allontanati dalle

tradizionali finalità sindacali espresse dalla propaganda128. Ormai tra i giovani si

fa strada la convinzione che le ferie, le strutture per le attività ricreative, i corsi di

formazione professionale siano elementi imprescindibili in una società cosiddetta

civile 129 . Come sottolineano Crainz e Nenci nel loro saggio sul movimento

contadino130

126 Cfr. G. Crainz – G. Nenci, Il movimento contadino, cit., p.652.

, man mano che tra le gente rurale si fa strada la convinzione che i

centri urbani, grandi o piccoli che siano, possano offrire occasioni di

miglioramento economico e sociale, ogni sforzo volto a ottenere riconoscimenti

dei diritti nei confronti dei padroni appare insufficiente. In questo modo si assiste

ad una grande contraddizione che investe il movimento contadino stesso: da un

lato si apre il periodo delle manifestazioni di massa e dall’altro prende avvio il

grande esodo dalle campagne che nel corso di pochi decenni porterà

all’estinzione della mezzadria.

127 IV Congresso Nazionale della Federmezzadri, Atti e documenti, Roma, 1956.

128 Archivio del Movimento Operaio e Contadino in Provincia di Siena, Fondo della Federazione Nazionale, VIII. Carteggio, VIII.2 circolari, volantini, comunicazioni varie 1951-1963.

129 IV Congresso Nazionale della Federmezzadri, Atti e documenti,cit.; Archivio della Confederterra Toscana, Firenze, b. 185, f.10, questionari relativi all’indagine “Perché i giovani abbandonano la terra”, marzo-aprile 1954.

130 G. Crainz - G. Nenci, Il movimento contadino, cit.

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Detto ciò si passa all’analisi della distribuzione fondiaria regionale e delle

singole realtà provinciali nell’immediato secondo dopoguerra per cogliere le

differenze che caratterizzano sia gli assetti strutturali aziendali sia le dinamiche

legate al mondo rurale ad essi correlate. Come si è già detto, le proteste contadine

non hanno avuto eguali sviluppi in tutta la regione ma hanno assunto connotati

diversi in relazione al tipo di organizzazione fondiaria presente sul territorio.

Esaminando attentamente le cifre a nostra disposizione è possibile constatare

che la presenza di aziende superiori ai 200 ettari risulta maggiore nella regione

rispetto alla media nazionale e che nelle classi centrali da 10 a 100 ettari non vi

sono evidenti diversità rispetto alla media nazionale; un altro dato significativo è

rappresentato dalle dinamiche inerenti il frazionamento fondiario che in Toscana

appare di gran lunga minore rispetto alla media nazionale. La tabella relativa alla

distribuzione della proprietà fondiaria in Italia al 1947 mostra chiaramente il fatto

che in Toscana esiste una netta maggioranza della proprietà privata rispetto a

quella degli enti, tale quadro è acuito dal fatto che i patrimoni fondiari degli enti

pubblici risultano limitati al 30%, mentre il restante 70% è costituito da società

commerciali ed altri enti il cui ruolo di proprietari non è dissimile da quello dei

privati131

.

131 A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico

regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981. IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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DISTRIBUZIONE DELLA PROPRIETÀ FONDIARIA IN TOSCANA E ITALIA 1947

Composizione percentuale per classi di ampiezza (ha)

Toscana Italia

fino a 0,5 1,6 4,1 da 0,5 a 2 5,6 13,4 da 2 a 5 7,5 13,6 da 5 a 10 7,2 10,6 da 10 a 25 10,5 13,6 da 25 a 50 8,7 9,8 da 50 a 100 9,8 9,1 da 100 a 200 10,8 8,3 da 200 a 500 15,4 9,0 da 500 a 1000 9,5 4,5 oltre 1000 13,4 4,0 100,0 100,0

Totale superficie (ha)

2.216.712 27.826.029

di cui: proprietà di privati (ha)

1.891.252 21.572.951

(% su totale superficie)

(85,3) (77,5)

proprietà di enti (ha)

325.460 6.253.078

(% su totale superficie)

(14,7) (22,5)

di cui: dello stato, provincie, comuni

29,9 64,7

di altri enti 70,1 35,3

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

I dati esposti nella tabella riguardante la distribuzione della proprietà fondiaria

nelle province della Toscana al 1947 mettono bene in evidenza, invece, le

diversità relative alla composizione e alla distribuzione fondiaria delle singole

province al 1947. Da ciò si può vedere come le aziende con maggiore superficie

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(>200 ha) siano collocate nel grossetano e nel senese, seguite da quelle situate in

provincia di Pisa e Livorno.

DISTRIBUZIONE DELLA PROPRIETÀ FONDIARIA NELLE PROVINCE DELLA TOSCANA 1947.

Composizione percentuale delle superfici per classi di ampiezza (ha)

<2 2-5 5-10 10-50 50-200 >200

Massa-Carrara

22,8 18,4 15,8 23,7 5,4 13,9

Lucca 22,4 18,4 13,3 19,3 8,6 18,0

Pistoia 16,8 17,9 14,0 22,2 10,7 18,4

Firenze 2,8 4,1 5,4 22,2 25,0 40,5

Livorno 5,3 6,4 6,0 13,8 13,6 54,9

Pisa 4,4 4,5 4,9 13,9 16,4 55,9

Arezzo 4,1 6,1 7,5 27,4 24,5 30,4

Siena 1,7 2,4 3,0 12,1 19,8 61,0

Grosseto 3,1 3,7 3,4 11,3 12,4 66,1

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Parlando di queste provincie, che presentano una configurazione fondiaria con

aziende di grandi dimensioni occorre, però, fare alcune precisazioni e distinzioni:

la provincia di Grosseto e tutta la Maremma sono aree in cui prevale il grande

latifondo mentre le provincie di Pisa e Livorno sono caratterizzate da aziende

condotte con il sistema mezzadrile 132

132 A questo proposito si vedano AA.VV., La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, INEA,

1947 e Conferenza Nazionale del Mondo Rurale e dell’Agricoltura, Resoconti della III Commissione, Roma, 1961.

. In queste provincie il malcontento

contadino si faceva sentire con più forza rispetto alle aree agricole delle provincie

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di Massa e Lucca dove vi era una maggiore concentrazione della piccola

proprietà coltivatrice133. Accanto a ciò si mostra chiara la differenza esistente tra

le province di Massa- Carrara, Lucca e Pistoia, collocate nella parte settentrionale

della Regione, e le altre, in particolar modo Siena e Grosseto. Da un punto di

vista che riguarda strettamente gli assetti produttivi occorre precisare che essi

sono rigorosamente connessi a tre fattori: aspetti ambientali, alla tipologia di

proprietà e al numero di soggetti che insistono sull’unità fondiaria. Tenendo

conto di ciò si può facilmente verificare che dalla forte parcellizzazione delle

aree vocate alle produzioni ortofrutticole e olivicole in cui il protagonista

principale è il proprietario imprenditore, (si pensi alla campagna pistoiese) si

arriva a quelle zone non particolarmente vocate alla viticoltura ed olivicoltura di

pregio in cui queste ultime colture assumono caratteristiche di semi-marginalità

(si vedano i grandi latifondi del grossetano in cui l’olivicoltura e la viticoltura

occupano un posto relativamente secondario nell’organizzazione degli assetti

colturali e in cui dominano le produzioni cerealicolo-pastorali). Per approfondire

gli aspetti relativi alla strutture aziendali e alla loro evoluzione nel tempo

risultano essenziali i dati contenuti nella tabella che segue che riguardano le due

tipologie su cui si ha una maggiore disponibilità di informazioni134

: la proprietà e

l’affitto.

133 Ibidem.

134 A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit.

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PROPRIETÀ E AFFITTO PER TIPO DI IMPRESA IN TOSCANA E ITALIA. 1947, 1961*, 1970, 1975

Composizione percentuale della superficie produttiva

Toscana Italia

1947 1961 1970 1975 1947 1961 1970 1975

Coltivatore diretto

20,5 28,5 39,7 46,2 52,4 - 57,4 62,9

In proprietà 17,9 26,4 35,9 42,4 33,7 - 43,8 49,8 In affitto 2,6 2,1 3,8 3,8 18,7 - 13,6 13,1 In “economia” 32 39,7 48,1 46,3 25,6 - 35,8 32,5 In proprietà 31,3 38,8 46,9 45 19,2 - 34,2 31 In affitto 0,7 0,9 1,2 1,3 6,4 - 1,6 1,5 A mezzadria e altre forme

47,5 31,8 12,2 7,5 22,0 - 6,8 4,6

In proprietà 46,8 31,3 12,0 7,3 20,7 - 6,6 4,4 In affitto 0,7 0,5 0,2 0,2 1,3 - 0,2 0,2 Totale proprietà 96,0 96,5 94,8 94,7 73,6 - 84,6 85,2 Totale affitto 4,0 3,5 5,2 5,3 26,4 - 15,4 14,8

100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 - 100,0 100,0

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

L’aspetto di maggiore interesse, per il taglio del presente lavoro, è costituito

dal dato che mostra come l’espansione della proprietà contadina abbia

guadagnato spazio in relazione al ridimensionamento della mezzadria e la

conduzione con affittuari abbia assunto un ruolo complementare ma

progressivamente sempre più significativo nel momento in cui la ristrutturazione

delle aziende esigeva un ampliamento dei confini del fondo135

135 A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit.

. Raffrontando i

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numeri della Tabella 4 che delineano la distribuzione delle aziende per provincia

negli anni 1930-1961-1970 si nota una situazione sostanzialmente concordante

con quanto espresso finora.

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Analizzando le dinamiche che hanno come protagonista la proprietà fondiaria

si osserva un andamento tendente alla riduzione delle aree coincidenti con le

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aziende più piccole; nella media regionale questo trend è costante fino alla classe

di ampiezza di cinque ettari al di sopra dei quali si presenta una inversione con

una variazione significativa nel periodo 1961-1970 oltre i cento ettari.

Continuando ad esaminare la situazione nelle singole province sembra opportuno

effettuare alcune considerazioni. La prima riguarda la contrazione del numero di

aziende con superficie inferiore a un ettaro che risulta maggiore in quelle zone

già caratterizzate da un basso indice in quella classe136, mentre questo fenomeno

di riduzione riguarda lievemente o addirittura non riguarda affatto la parte

settentrionale della Regione dove continuano a persistere impianti produttivi

perlopiù ortofrutticoli e vivaistici che trovano condizioni ottimali in queste

dimensioni. La seconda considerazione riguarda l’incremento dello spazio

occupato dalle aziende di grandi dimensioni che, ad eccezione delle province

settentrionali, raggiunge una forte concentrazione nel resto della Regione; a

questo proposito c’è da notare la regressione segnalata dai dati del 1961 per le

province di Livorno, Pisa e Grosseto come conseguenza degli espropri

conseguenti alla legge “Stralcio”137

136 Ibidem.

infatti nel 1947 furono rilevate nella Regione

più di duecento aziende con superficie maggiore di mille ettari ma dal momento

che i censimenti successivi a tale data hanno evidenziato le aziende oltre i cento

137 La legge 21 ottobre 1950 n.841 cosiddetta legge Stralcio riguarda le norme per l’espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini. Tale provvedimento, come pure la precedente legge Sila del 12 maggio 1950 per la colonizzazione dell’altopiano silano e dei territori jonici contermini (poi inglobata nella stessa legge Stralcio, trae i propri principi ispiratori dall’art.44 della Costituzione della Repubblica Italiana che prevede limitazioni dell’estensione della proprietà terriera privata, la bonifica delle terre incolte, la trasformazione del latifondo, la ricostruzione delle unità produttive e gli aiuti alla piccola media proprietà delle zone montane (Cfr. AA.VV., La Costituzione della Repubblica Italiana, De Agostini, 2011). I territori oggetto di riforma individuati dalle legge Stralcio si identificavano con le zone dove più grave era la situazione produttiva, economica e sociale derivante dalla concentrazione assai alta della proprietà fondiaria. Furono individuati nove comprensori di riforma: del Delta Padano, della Maremma, del Fucino, del Garigliano e Volturno, del Sele, Apulo-Lucano, della Sila, della Sicilia e della Sardegna. Nei vari territori furono istituiti appositi Enti per la colonizzazione la cui funzione era quella di attuare le disposizioni di legge nelle rispettive zone di competenza. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell’agricoltura in età contemporanea, Marsilio, 1990 e per il caso della Toscana si veda anche L. Lotti, Storia della civiltà toscana: il Novecento, Le Monnier, 1998.

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ettari (non specificando dettagliatamente le classi di ampiezza superiori) come

limite massimo, non vi è certezza dell’esistenza di aziende con estensione

nettamente superiori ai cento ettari. Nonostante ciò si può affermare che le

proprietà di grandissime dimensioni hanno subito un forte ridimensionamento a

seguito della Riforma Agraria infatti, gli espropri tra il 1951 e il 1955 hanno

riguardato per la maggior parte centoquarantacinquemila ettari situati in proprietà

superiori ai duecento ettari138. Come è possibile rilevare a livello nazionale anche

in Toscana nel periodo che va dal 1947 alla fine degli anni Settanta si assiste ad

un trend di crescita delle superfici aziendali 139 ma ciò non deve essere

considerato come un andamento generalizzato, infatti in particolare nella

seconda metà degli anni Settanta e soprattutto a livello di grandi aziende le

superfici si mantengono costanti o manifestano addirittura delle flessioni. C’è da

precisare inoltre, come afferma Panattoni, che le rilevazioni del 1975 non

esprimono in modo adeguato questa dinamica dal momento che non sono

annoverate le aziende investite totalmente da superfici boschive, predominanti

nelle classi superiori di ampiezza; tenendo conto di questo fatto acquistano

maggior valore i dati che ne esprimono la flessione tra il 1975 e 1977.

Nell’analisi delle dinamiche relative agli assetti fondiari non si può prescindere

dalle ingenti differenze esistenti tra i vari tipi di aziende pertanto sembra

opportuno introdurre alcune classificazioni inerenti i vari tipi di proprietà e di

conduzione aziendale: azienda condotta dal coltivatore diretto, azienda

capitalistica con manodopera salariata e azienda condotta a mezzadria.

Dall’osservazione delle tabelle che seguono è possibile comparare gli andamenti

delle strutture aziendali e procedere ad opportune considerazioni140

138 Questo dato è riportato in A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit., p.32.

.

139 Ibidem e F. Campus, Dinamica delle strutture agricole italiane: dimensioni aziendali, tipi di impresa e popolazione agricola, INEA, Roma, 1969.

140 I valori del 1947 sono ripresi dall’indagine INEA e in essa sono espressi tutti i tipi di proprietà, mentre i Censimenti dell’Agricoltura del 1961 e del 1970 non riportano i dati riferiti alle proprietà che per le loro ridotte dimensioni non potevano essere considerate aziende a tutti gli effetti. I dati forniti dalle due indagini del 1975 e del 1977 invece, a seguito delle imposizioni comunitarie che non includevano nel campo di osservazione aziende con superfici minori di un ettaro e con almeno

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Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

duecentocinquantamila lire di produzione commercializzata nel 1975 e trecentocinquantamila nel 1976; a tal proposito oltre il già citato studio di Panattoni si vedano anche: Direttiva 75/108/CEE del Consiglio del 20 gennaio 1975 “relativa all’organizzazione di un’indagine strutture 1975 nel quadro di un programma di indagini sulla struttura delle aziende agricole” (G.U. n.L.42 del 15/02/1975) e Decisioni 77/122/CEE - 77/128/CEE della Commissione del 25 gennaio 1977 che stabiliscono un piano di campionamento per la Repubblica Francese, la Repubblica Federale di Germania, la Repubblica Italiana, il Granducato del Lussemburgo, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, l’Irlanda e il Regno di Danimarca ai fini dell’indagine 1975 sulla struttura delle aziende agricole (G.U. n.L.37 del 09/02/1977).

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Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

In seguito all’applicazione delle Decisioni 77/122/CEE e 77/128/CEE in cui,

come si è specificato nella nota 140, erano stabilite le modalità di

campionamento, ai fini dell’indagine 1975 sulla struttura delle aziende agricole,

che escludevano dalla rilevazione le proprietà inferiori ad un ettaro non in grado

di raggiungere un minimo stabilito di produzione commercializzata141

141 Per la descrizione dettagliata del valore minimo di produzione commercializzata si rimanda alla nota

precedente.

, si nota

una marcata diminuzione della superficie investita da aziende inferiori ad un

ettaro. Per quanto riguarda la proprietà contadina, si assiste ad un calo in termini

di superficie nella fascia inferiore ai venti ettari, mentre si registra un aumento di

oltre quattro punti percentuali nelle classi di ampiezza superiori ai cinquanta

ettari. Le imprese condotte in economia mostrano un calo molto marcato delle

superfici appartenenti alla fascia minima e come per la proprietà contadina si può

individuare nei venti ettari il confine che segna le classi di ampiezza con

superficie in diminuzione e classi con superficie in aumento. Tale fenomeno

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potrebbe essere imputato al processo di accorpamento che come si vedrà più

avanti ha investito le superfici agrarie regionali. In merito alle dinamiche relative

alle imprese mezzadrili il processo di contrazione delle superfici aziendali è da

imputare essenzialmente a due cause: la perdita di economicità dei poderi di

dimensioni ridotte che via via sono andati scomparendo, e il processo di

esproprio come conseguenza della già citata Riforma Agraria che ha portato alla

disgregazione delle proprietà caratterizzate da immensa superficie aziendale.

Riassumendo l’andamento relativo alle variazioni delle aree occupate dalle

aziende nel trentennio 1947-1977 si può affermare che nell’ambito delle aziende

mezzadrili si riscontra una contrazione della superficie pari a novecentomila

ettari, mentre le imprese contadine vedono un incremento di circa

quattrocentomila ettari e le imprese capitalistiche registrano anche loro un

incremento di superficie occupata. Uno sguardo più attento ai dati appena citati

mostra come gli anni Sessanta abbiano rappresentato un periodo particolarmente

movimentato dal punto di vista relativo alla distribuzione della proprietà

fondiaria. Infatti durante il decennio si assiste a profondi mutamenti relativi

all’assetto agrario regionale: è questo il periodo in cui le aziende mezzadrili

vedevano progressivamente calare le superfici occupate perdendo annualmente

quasi cinquanta mila ettari e la proprietà contadina guadagnava circa il 45%.

Certamente questo fenomeno è ravvisabile, seppur non con la stessa intensità del

periodo successivo, anche nei quindici anni precedenti. Per meglio comprendere

questo processo è bene porre brevemente l’attenzione all’andamento del mercato

fondiario. Negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale,

sulla spinta delle vicende politico-economiche internazionali 142

142 Si fa riferimento alla crisi coreana e alla svalutazione monetaria.

si registra un

grande dinamismo nell’ambito del mercato fondiario che vede la presenza attiva

dei contadini sia locali che provenienti perlopiù da Marche e Sicilia. Per tutto il

corso degli anni Cinquanta si verifica un periodo di stallo in cui l’offerta di terra

sovrasta di gran lunga la domanda specialmente in collina. E’ questo il periodo in

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cui si assiste all’aumento della superficie fondiaria occupata dalla piccola

proprietà coltivatrice che guadagna intorno ai centocinquantamila ettari 143 .

Certamente la legge Stralcio ha avuto una parte importante in tal senso ma

occorre precisare un fatto: è vero che l’incremento della piccola proprietà

coltivatrice si è verificato sulle grandi superfici mezzadrili ma allo stesso tempo

l’uscita di scena dei mezzadri ha comportato l’abbandono di superfici talmente

vaste che l’espansione della proprietà contadina non è stata in grado di bilanciare.

L’esodo mezzadrile continua in modo incessante negli anni successivi facendo

registrare tra il 1947 e il 1970 una perdita di superficie aziendale pari a circa

duecentomila ettari, la maggior parte della quale viene classificata come terra

abbandonata144

Un discorso a parte va riservato alle aree arretrate in cui le superfici non più

considerate facenti parte a contesti aziendali raggiungono i quarantamila ettari,

pari al 6,9%

. Le tabelle che seguono confermano questa tendenza e risultano

molto utili nell’individuare in modo preciso sia l’entità delle superfici perse sia la

loro collocazione provinciale. In questo senso la divisione del territorio regionale

in macrozone dà un contributo importante. Le arre turistico-industriali fanno

registrare una superficie minima in termini assoluti ma con una notevole

incidenza, ciò si potrebbe attribuire al cambiamento di destinazione produttiva a

cui sono andati incontro la maggior parte dei terreni posti in questa macrozona.

La campagna urbanizzata vede un regresso di superficie aziendale di oltre

ventottomila ettari attribuibile sia al cambiamento di destinazione produttiva sia

a fenomeni di abbandono incondizionato per mancanza di economicità.

145 , particolarmente significativo appare il fatto che l’indagine

condotta dall’ISTAT relativa alle strutture aziendali nel 1975 annovera le aziende

presenti in questa macrozona come extramarginali146

143 Questo dato è ripreso dallo studio di Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit.

.

144 G. Becattini (a cura di), Lo sviluppo economico della Toscana, IRPET, Firenze, 1975.

145 Dati riportati da Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit.

146 Indagine sulla struttura delle aziende agricole, Istituto Centrale di Statistica, Roma, 1975

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Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze

1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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Andando maggiormente nel dettaglio si può osservare come nel contesto delle

aree arretrate il declino della mezzadria abbia avuto una caratterizzazione meno

marcata rispetto alle altre zone, qui, soltanto la metà degli ottantamila ettari

lasciati dal sistema mezzadrile sono stati occupati da differenti tipologie

aziendali. A conferma del carattere extramarginale della maggior parte delle

imprese presenti in questa macrozona appare significativo anche il fatto che le

aziende capitalistiche non abbiano approfittato della crisi mezzadrile per

ampliare le loro superfici infatti esse, non solo non fanno registrare incrementi

significativi di estensione ma in alcune province presentano delle diminuzioni.

Detto ciò però non bisogna dimenticare che all’interno della macrozona delle

aree arretrate sono collocate anche le zone collinari di Pisa e Siena che però

presentano, nel decennio 1961-1970 una variazione positiva della superficie

occupata dalle aziende capitalistiche. La spiegazione di un tale stato di cose va

ricercata nelle caratteristiche dell’agricoltura tipica di queste zone in cui la

viticoltura occupa un ruolo rilevante e nei provvedimenti volti all’ampliamento

degli impianti situati in zone di pregio.

Gli effetti più evidenti del regresso della mezzadria si notano nelle zone

agricole vere e proprie dove dei centosessantaquattromila ettari lasciati da

quest’ultima la metà sono occupati dalla proprietà contadina e solo un terzo dalle

imprese capitalistiche.

In generale, dall’esame dei dati a disposizione relativi al decennio 1961-1970,

si può osservare un fenomeno che ha una portata di novità: la piccola proprietà

coltivatrice esce fuori dai territori dove fino ad allora era stata confinata

guadagnando una superficie di circa centonovantamila ettari, tale incremento

risulta più evidente nelle province meridionali dove tale fenomeno si associa ad

una regressione delle aree occupate dalle grandi imprese capitalistiche.

I dati relativi alle variazioni delle ampiezze medie aziendali segnalano un

incremento delle dimensioni medie aziendali maggiore nell’ambito delle aziende

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condotte in economia rispetto a quelle contadine, mentre nelle rimanenti imprese

mezzadrili non sono ravvisabili segnali evidenti di ammodernamento147

Quest’ultimo dato testimonia la sostanziale inadeguatezza del sistema

mezzadrile nel restare al passo con il mutamento previsto dai nuovi processi

produttivi che negli anni Sessanta si affacciano sullo scenario agricolo regionale.

.

Un ulteriore elemento di grande importanza riguardante l’assetto fondiario

emerso dal confronto dei dati del 1961 e del 1970 è costituito dalla

frammentazione aziendale in unità distinte di terreno. Generalmente questo è

dovuto alle conseguenze delle spartizioni ereditarie e risulta tanto più grave

quanto più piccole sono le dimensioni aziendali: a titolo esemplificativo si posso

citare i casi delle province di Lucca e Massa-Carrara in cui si registra una

estrema frammentarietà148. Occorre precisare, però, che le divisioni ereditarie

non rappresentano l’unica causa di questa tendenza infatti, anche le conduzioni a

mezzadria avevano come caratteristica la frammentazione fondiaria in due o tre

unità 149 e dunque le proprietà diretto-coltivatrici aventi radici mezzadrili non

hanno fatto altro che rafforzare questo fenomeno. Inoltre, nel decennio in esame

si assiste ad un incremento del processo di frammentazione in conseguenza alla

ristrutturazione aziendale imposta a livello europeo150 di cui si parlerà più avanti.

Oltre al fenomeno della frammentazione sembra utile rilevare anche è l’aspetto

legato alla forma di utilizzazione del suolo. A questo proposito il Censimento

Generale dell’agricoltura del 1970151

147 A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo economico

regionale, cit.

e le Indagini sulla struttura delle aziende

148 A questo proposito cfr. A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit., p.147 in cui si legge “la frammentazione in più di cinque corpi, e cioè ad un livello certamente carico di riflessi negativi per la gestione aziendale, occupa la metà ed oltre della superficie produttiva”.

149 M. Tofani, La mezzadria dall’assemblea costituente alle leggi agrarie, in “Quaderni di politica agraria”, Vol.2 , Edagricole, 1964.

150 Società italiana degli agricoltori, L’Italia agricola nel XX secolo: storia e scenari, Meridiana Libri, 2000.

151 ISTAT, Censimento Generale dell’Agricoltura, 25 ottobre 1970: dati sulle caratteristiche strutturali delle aziende, Roma, 1970.

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agricole condotte dall’ISTAT negli anni 1975 e 1977 152 forniscono dati

abbastanza dettagliati. Certamente nel trentennio che va dal 1947 alla fine degli

anni Settanta, come effetto dell’abbandono della terra, sopravvengono notevoli

cambiamenti negli indirizzi colturale e di conseguenza nella forme di

utilizzazione del suolo. In questo senso gli aspetti di maggior rilievo risultano

essere il potenziamento produttivo delle aree situate in pianura e il concomitante

abbandono dei terreni situati sia in zone collinari non particolarmente vocate sia

in aree decentrate. Come si è già accennato nel capitolo relativo all’illustrazione

generale dei provvedimenti comunitari, questo trend è stato riconosciuto dalle

indicazioni contenuti nel Piano Mansholt del 1968153

152 ISTAT, Indagine sulla struttura delle aziende agricole, Roma, 1978; ISTAT, Indagine sulla

struttura delle aziende agricole, Roma, 1979.

che prevedeva un radicale

rinnovamento strutturale della Politica Agricola Comunitaria ed in particolare

auspicava la crescita dell’efficienza aziendale, l’abbattimento dei costi relativi

alla Politica Agricola e l’ampliamento delle dimensioni aziendali in modo da

facilitare l’introduzione della meccanizzazione sempre con lo scopo di un

aumento produttivo. In questa ottica l’esodo rurale era visto come un fattore

positivo necessario ad accrescere il benessere economico della popolazione

agricola. I principali avvenimenti internazionali quali la crisi energetica e la

recessione che hanno caratterizzato la prima metà degli anni Settanta hanno fatto

emergere alcune perplessità circa l’applicabilità del Piano Mansholt

all’agricoltura italiana e la rinuncia di gran parte delle risorse agricole nazionali.

In questo senso vanno ricercate le motivazioni sottese alle pratiche di

rivalorizzazione dei terreni situati in luoghi che una volta erano stati teatro

dell’esodo rurale. Questo fenomeno, che ha investito con modalità diverse le aree

agricole nazionali, assume in Toscana delle connotazioni particolari che vale la

153 Le indicazioni contenute nel Piano Mansholt del 1968 vennero accolte nelle Direttive CEE del 1972; a tal proposito si vedano: Direttiva CEE n. 72/159 del Consiglio relativa all’ammodernamento delle aziende agricole; Direttiva CEE n. 72/160 del Consiglio concernente l’incoraggiamento alla cessazione dell’attività agricola ed alla destinazione della superficie agricola utilizzata a scopi di miglioramento delle strutture; Direttiva CEE n. 72/161 del Consiglio concernente l’informazione socio-economica e la qualificazione professionale delle persone che lavorano nell’agricoltura.

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pena esaminare e valutare. Riprendendo i dato contenuti nella tabella relativa alle

variazioni dell’area occupata da azienda e impresa nel periodo 1947-1977 si nota

come l’estensione della superficie agricola non facente più parte del contesto

aziendale si aggiri intorno a quattrocentodiecimila ettari, se poi si va nel

particolare e si prendono in considerazione due periodi ben distinti cioè il

decennio 1961-1970 e la seconda metà degli anni Settanta (in particolare il

triennio 1975-1977) balza agli occhi il fatto che il processo di abbandono della

terra subisce una forte calo dal momento che l’indice annuo del secondo

intervallo coincide con un terzo di quello del periodo precedente, se è vero che

queste osservazioni, basate su dati empirici che si limitano semplicemente a

registrare un trend, non consentono di esprimere considerazioni relative alle

cause di tale fenomeno e alle pratiche agricole ad esso legate volte al recupero

delle aree produttive ci permettono, però, di constatare un rallentamento del

processo di abbandono. A sostegno di questa ipotesi concorrono i dati riportati

dalle già citate rilevazioni dell’ISTAT che mettono in luce delle dinamiche

particolarmente interessanti riguardanti le superfici agricole delle aziende

comprese tra trenta e cinquanta ettari. Questa classe di ampiezza si configura

come quella in cui risultano maggiormente evidenti gli effetti dell’espansione

della superficie agricola utilizzata. Qui si registrano un grande ampliamento delle

aree destinate alle colture arboree, di cui il vigneto occupa un posto privilegiato,

e un regresso delle foraggere permanenti. A sostegno di quanto finora affermato

circa il trend relativo agli assetti fondiari regionali troviamo i dati relativi

all’andamento del mercato fondiario, infatti, nel periodo in esame si assiste ad un

forte incremento nella domanda di terra da parte di molti imprenditori, tale

domanda, però, tende ad escludere aree caratterizzate da suoli scadenti.

Nell’ambito dei processi di ristrutturazione aziendale che in questo periodo

hanno investito il settore agricolo regionale con un dinamismo senza precedenti,

assume un’ importanza estremamente rilevante anche l’impiego del lavoro anzi si

può affermare, come vedremo in maniera più dettagliata nei prossimi paragrafi,

che proprio il fattore lavoro ha rappresentato una delle prime spinte verso nuove

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forme di riorganizzazione aziendale. Per questo motivo sembra opportuno

esaminarne le caratteristiche principali ed effettuare alcune considerazioni a

riguardo. In merito a questo argomento si può disporre, oltre alle informazioni

relative agli anni di riferimento utilizzate in precedenza, anche dei dati relativi al

1967 riportati nell’indagine sulla struttura delle aziende agricole 1967 effettuata

dall’ISTAT154

.

154 Indagine sulla struttura delle aziende agricole, 1967, ISTAT, Roma, 1970.

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Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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AZIENDE CONDOTTE A PIENO TEMPO ED A TEMPO PARZIALE. 1970

Valori percentuali

Occupazione

Aree e provincie

Esclusiva o

prevalente in

azienda

Prevalente in

altre aziende

agricole

Prevalente in

altri settori

Aree arretrate Massa – Carrara 72,4 2,3 25,3 Lucca 69,4 2,8 28,0 Firenze 65,5 4,4 20,1 Pisa 67,7 4,6 27,7 Arezzo 66,8 7,9 25,3 Siena 69,5 5,3 25,2 Grosseto 63,5 9,9 26,6 Totale 68,0 4,5 26,7 Aree agricole Firenze 66,1 4,1 27,7 Pisa 65,9 6,8 27,3 Arezzo 72,1 5,5 22,4 Siena 68,9 5,9 25,2 Grosseto 70,3 8,1 21,2 Totale 69,4 6,7 23,9 Aree turistico – industriali Massa – Carrara 66,7 1,4 29,9 Lucca 71,9 2,6 25,5 Livorno 68,0 5,2 26,8 Grosseto 70,3 6,3 23,4 Totale 69,7 3,7 26,6 Area campagna urbanizzata Lucca 77,1 1,8 21,1 Pistoia 68,1 3,4 28,4 Firenze 73,5 3,6 22,5 Pisa 67,3 3,8 27,4 Arezzo 74,3 4,9 20,7 Siena 75,6 5,0 19,4 Totale 72,1 3,6 24,3 Toscana 70,3 4,5 25,2 Totali Aree di campagna urbanizzata 72,1 3,6 24,3 Aree arretrate 68,6 4,5 26,7 Aree agricole 69,4 6,7 23,9 Aree turistico – industriali 69,7 3,7 26,6 Massa Carrara 71,5 2,0 26,5 Lucca 72,7 2,3 25,0 Pistoia 68,1 3,4 28,5 Firenze 71,5 3,8 24,7 Arezzo 71,9 5,8 22,3 Pisa 67,6 5,0 27,4 Livorno 66,0 5,2 26,8 Siena 70,2 5,6 24,2 Grosseto 69,0 5,3 22,7 Fonte: A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze

1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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Dall’esame delle cifre a nostra disposizione possiamo notare che negli ultimi

tre anni degli anni Sessanta si assiste ad una grande diminuzione a livello

globale, che con meno intensità perdura anche nei cinque anni successivi,

dell’impiego del lavoro. Concentrando l’attenzione al quinquennio ‘70-’75 si

rileva un lieve aumento del lavoro medio per azienda 155 acuito dal fatto che

soprattutto i dati del 1975 non tengono conto delle aziende di dimensioni molto

ridotte. Da ciò risulta chiaro come l’espansione delle superfici aziendali abbia

influito sul calo dell’impiego del lavoro come riferisce Panattoni “appare

evidente che nei periodi anzidetti l’ampliamento aziendale ha avuto effetto

dominante sulla diminuzione dell’impiego che rimane viceversa cedente sulla

superficie utilizzata in tutto il decennio, sia pure a tassi medi annui in così forte

diminuzione da far supporre che si sia raggiunta una posizione di equilibrio”156

155 Come rileva Panattoni nello studio, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit. occorre precisare che

nel quinquennio ‘70-’75 mentre l’impiego del lavoro a livello globale risultava ancora in calo l’impiego del lavoro medio per azienda registrava un certo aumento.

.

A questo punto, tenendo conto del fatto che alla fine degli anni Settanta si

verifica un processo di recupero della terra precedentemente abbandonata

assimilabile a quello relativo al totale delle giornate prestate, si può convenire

con quanto detto da Panattoni circa il raggiungimento di uno stato di equilibrio

tra le dinamiche inerenti la superficie aziendale e quelle relative all’impiego della

forza-lavoro. Le considerazioni finora espresse portano a formulare una

domanda: gli indirizzi che per quasi un trentennio hanno orientato il settore

agricolo verso una razionale messa a punto di tecniche atte al risparmio di lavoro

all’interno delle varie fasi della produzione stanno perdendo di efficacia? Per

provare a dare una risposta a tale quesito si cercherà di osservare l’andamento

relativo alla composizione ed al conferimento del lavoro. In questo senso si nota

un evidente calo, sia in termini assoluti che relativi, dell’apporto di lavoro da

parte dei conduttori e delle loro famiglie mentre si registra un aumento

dell’impiego di salariati. Le indagini già citate condotte dall’ISTAT per gli anni

156 A. Panattoni, Assetto fondiario e strutture aziendali, cit., p.153.

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1975 e 1977 forniscono indicazioni più approfondite in merito infatti, dai dati in

esse riportate si può desumere come le aziende gestite dal solo coltivatore siano

in netto calo157 e condotte perlopiù a tempo parziale. Una parabola decrescente

caratterizza pure le imprese a conduzione unicamente familiare. Maggiore

dinamismo si riscontra invece nelle aziende a struttura capitalistica che vedono

crescere sia il numero che l’impiego medio. La tabella precedente, riguardante le

varie tipologie di conduzione aziendale al 1970, mostra dei dati che meritano

alcune riflessioni: diversamente da quanto ci si aspetterebbe la maggiore

concentrazione di imprese agricole condotte a tempo pieno si riscontra nella

campagna urbanizzata, dove la vicinanza dei centri urbani dovrebbe offrire

alternative di impiego. A ben guardare questo aspetto presenta dei caratteri solo

in apparenza contraddittori che è possibile chiarire facendo riferimento al

concetto generale di “campagna urbanizzata” e declinandolo nelle diverse realtà

della Regione. Riprendendo quanto detto da Becattini 158

157 Da specificare che la diminuzione di tale tipologia aziendale sarebbe risultata ancora più forte se si

fosse tenuto conto delle aziende di piccolissime dimensioni non censite dalle indagini ISTAT per gli anni 1975 e 1977.

si può definire la

campagna urbanizzata come quell’area che si trova in prossimità della città e

presenta una configurazione organizzativa tipica del settore agricolo, in queste

zone l’attività agricola persiste negli spazi interstiziali lasciati dall’industria che è

arrivata ad occupare porzioni di territorio un tempo destinati al settore primario.

In un tale contesto i centri urbani offrono certamente alternative di impiego,

infatti, nella maggior parte dei casi le aziende agricole meno produttive situate

nella campagna urbanizzata vengono progressivamente dismesse e i lavoratori

migrano verso i centri urbani in cerca di altri impieghi. E’ vero anche, però, che

le imprese agricole più produttive che operano nella campagna urbanizzata hanno

158 G. Bacattini, Lo sviluppo economico della Toscana, IRPET, Firenze, 1975. La transizione dal concetto di campagna come luogo di produzione di beni agricoli alla cosiddetta economia rurale affonda le proprie radici nella crisi del sistema mezzadrile. Dopo gli interventi sopravvenuti nel settore agricolo negli anni ‘70 si fa strada il concetto di nuova ruralità che supera il modello fordista di standardizzazione produttiva. In quest’ottica l’area rurale giunge a rivestire un ruolo nuovo che vuole offrire diverse modalità di consumo strettamente legate alla tutela ed alla specificità delle produzioni.

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accesso facilitato a strutture per la lavorazione e lo stoccaggio che costituiscono

un nodo fondamentale tra la produzione e la commercializzazione delle derrate

agricole. Tutto ciò contribuisce in maniera notevole ad un ulteriore sviluppo di

aziende già prospere. Il fatto che le imprese meno produttive vengano

progressivamente dismesse e che quelle più fiorenti trovino delle occasioni di

miglioramento riduce drasticamente il fenomeno del part-time e spiega come mai

nella campagna urbanizzata ci sia una maggiore concentrazione di aziende

condotte a tempo pieno.

2.4 LE AGRICOLTURE TOSCANE

Come si è già spiegato nel paragrafo precedente, una forte limitazione nello

studio delle dinamiche dell’agricoltura regionale risiede nella diffusa percezione

del settore primario come una entità omogenea. Questa convinzione risulta

estremamente fuorviante soprattutto se applicata ad una realtà come la Toscana

in cui collina, pianura costiera e montagna concorrono a caratterizzare un

paesaggio regionale molto diversificato. A conferma di ciò basta osservare il

seguente grafico che esprime i diversi andamenti produttivi relativi alle singole

produzioni.

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ANDAMENTO DELLE PRINCIPALI PRODUZIONI REGIONALI DAL 1970 AL 1979

Fonte: G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, in Agricoltura toscana e

sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana,

Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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A titolo esemplificativo si possono considerare le produzioni totali di alcuni

comparti classici (allevamenti, legnose, erbacee) che, ad eccezione di qualche

similarità di andamento congiunturale, esprimono trends e soprattutto punti di

arrivo assai diversificati. I divari appaiono ancora più marcati se ci si inoltra

nell’analisi dei singoli comparti 159 . Si pensi, per esempio, all’insieme delle

produzioni legnose all’interno del quale l’andamento delle coltivazioni

vivaistiche si discosta enormemente da quello delle coltivazioni viti-olivicole. Da

queste considerazioni nasce l’esigenza di chiarire in modo definitivo e univoco

un elemento determinante per la scelta del punto di vista da cui studiare e

analizzare il settore agricolo regionale: il settore primario va inteso come un

unicuum oppure lo si deve concepire suddiviso il tante agricolture quanti sono i

diversi comparti o le differenti zone? Per rispondere a tale domanda non si può

prescindere dall’analisi condotta dall’IRPET che ha individuato in Toscana

quattro “Macrozone” basandosi sui caratteri distintivi delle varie tipologie

agricole160

.

159 IRPET, L’agricoltura toscana negli anni Settanta, Firenze, 1980.

160 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit. L’individuazione delle quattro Macrozone prende in considerazione i seguenti parametri: tipologie aziendali, utilizzo dei fattori produttivi, tipi di produzione e interrelazioni con il mercato.

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MACROZONE AGRICOLE INDIVIDUATE DALL’IRPET TENENDO CONTO DELLE TIPOLOGIE AZIENDALI,

DELL’UTILIZZO DEI FONDI, DEI TIPI DI PRODUZIONE E DELLE INTERRELAZIONI CON IL MERCATO.

Fonte: G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, in Agricoltura toscana e

sviluppo economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana,

Firenze 1981, IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

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Il lavoro condotto dall’IRPET mostra chiaramente come in Toscana sussistano

diverse tipologie di agricoltura ancorate non soltanto alla specializzazione

produttiva ma anche alle peculiarità territoriali su cui esse insistono. Certamente

il concetto di specificità territoriali non è una novità di questo periodo, basti

pensare alle “cento Italie agricole” di Jacini161 che già alla fine dell’800 indicava

le variegate entità territoriali in cui emergono strette interrelazioni tra

organizzazioni produttive, trasformazione degli assetti fondiari e tradizioni

culturali. Detto ciò, il suddetto studio viene utilizzato in questa sede non perché

costituisce un elemento di novità nel campo degli studi inerenti l’agricoltura in

Italia, ma perché fornisce delle coordinate pratiche da utilizzare nell’analisi delle

singole e variegate realtà agricole che insistono sul suolo regionale così da

cogliere le differenziazioni spaziali del settore. La zonizzazione effettuata

dall’IRPET ha portato alla luce, come si è detto, quattro Macrozone: l’agricoltura

delle aree arretrate a cui sono strettamente legate problematiche di natura sia

ambientale che sociale, la cosiddetta “campagna urbanizzata” la cui peculiarità

risiede nei suoi caratteri interstiziali162, le aree agricole vere e proprie che stanno

alla base dell’agricoltura regionale e di cui si discuterà più avanti ed infine le aree

turistico-industriali in cui spiccano notevoli potenzialità di sviluppo mediante

l’integrazione ambientale, che avranno piena applicazione nei decenni successivi.

La linea di ricerca sviluppata in questa direzione dall’IRPET, inoltre, ha portato

alla formulazione di una possibile differenziazione ambientale163

161 S. Jacini, I risultati della Inchiesta agraria: relazione pubblicata negli Atti della Giunta per la

Inchiesta agraria, Einaudi, 1976.

dell’agricoltura

toscana. La ricerca, svolta utilizzando sia l’insieme degli indicatori che quello

delle conoscenze acquisite tramite esperienze precedenti di zonizzazione

162 IRPET, L’agricoltura toscana negli anni Settanta, cit. Per caratteri interstiziali si intende l’utilizzo di piccoli appezzamenti di terra situati in aree limitrofe ai centri abitati, coltivati da soggetti che non si dedicano all’attività agricola part-time e in cui emergono strette interdipendenze tra produttore e consumatore.

163 Come nel rapporto è più volte specificato il termine ambientale è qui usato non in senso fisico ma, appunto, nell’insieme di interrelazioni territoriali economiche e sociali che agiscono in una determinata area.

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regionale con riguardo al settore agricolo164, ha permesso di caratterizzare le

singole realtà locali in maniera abbastanza univoca. C’è da ricordare, però, che i

risultati ottenuti non vanno interpretati come tentativo di delimitazione di aree

omogenee dal punto di vista agronomico o geografico165. Tutto ciò mette in luce

alcuni aspetti interessanti legati alle dinamiche che investono le Macrozone: per

quanto riguarda le aree agricole e quelle turistico-industriali si nota un trend

positivo “le prime possono beneficiare di un effetto struttura, seppur solo

lievemente positivo, mentre le seconde, pur caratterizzate da un mix produttivo

non favorevole, possono vantare un differenziale di crescita nettamente positivo.

Le aree arretrate con una struttura molto vicina alla media, denunciano invece

una dinamica negativa anche se non così accentuata come quella delle aree di

campagna urbanizzata che non riescono a sfruttare il pur positivo effetto

struttura”166

Certamente il discorso affrontato assume dei caratteri che lo avvicinano al

mero esercizio statistico ma ci consente di individuare elementi essenziali per il

superamento proprio dell’ambito tecnico-economico. Tra i più evidenti appaiono

alcune dinamiche relative all’imprenditorialità nella differenziazione ambientale

. Se si esaminano, poi, i singoli comparti produttivi, considerando il

peso modesto delle produzioni industriali, si nota che le aree agricole presentano

un andamento piuttosto movimentato rispetto alla media in tutti i settori. Nelle

aree turistico-industriali si verifica un processo analogo a quello appena citato

soprattutto per le produzioni orticole , mentre cereali e le derrate industriali si

attestano nella media, e le arboree, evidenziano un andamento meno dinamico

della media. Nelle aree arretrate non si segnalano valori rilevanti in relazione alle

peculiarità settoriali mentre il trend nella campagna urbanizzata è sì positivo ma

caratterizzato da scarsa dinamicità, soprattutto nel settore degli ortaggi.

164 Cfr. M. Tofani - E. Giorgi, Strutture e ordinamento produttivo delle aziende agricole toscane,

Centro di studi e di ricerche economico-sociali dell’Unione Regionale delle Camere di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura della Toscana, Firenze, 1970.

165 Per quanto attiene alle precedenti zonizzazioni si rimanda a IRPET, Criteri di ripartizione territoriale della Toscana 1954-1973, Firenze, 1977.

166 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit., p. 50.

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dei comparti del settore primario, di cui si parlerà più avanti e che acquisteranno

caratteri più strutturati nei decenni successivi. Da quanto detto e stando ai dati

forniti dall’IRPET nel lavoro sopra citato, rimangono ancora poco chiari i

collegamenti tra la composizione della famiglia contadina, il sistema economico-

produttivo del settore primario e le sue interdipendenze 167

. Concludendo non

sembra superfluo ribadire che l’agricoltura toscana non può essere pensata come

un insieme omogeneo interpretabile prescindendo dalle peculiarità tipiche di ogni

processo produttivo anche all’interno dello stesso comparto.

2.5 LA CRISI DELLA COLLINA TRA TUTELA AGRICOLA E STANDARD

PRODUTTIVI

Nel decennio in esame le linee generali di intervento in agricoltura si sono

focalizzate intorno a tre problemi principali: il problema della collina, quello

irriguo e quello zootecnico. In questa sede analizzeremo le problematiche relative

all’ambiente collinare sede privilegiata delle colture olivicole e viticole.

Come si è più volte ricordato, gran parte della collina toscana è stata per secoli

la culla delle coltivazioni viti-olivicole che negli ultimi decenni hanno attirato

grandi quantità di investimenti. Ciò ha reso possibile la creazione di prodotti di

fama e di gran pregio quali il vino Chianti e il Montalcino solo per fare qualche

esempio. Partendo da questa considerazione sembra interessante analizzare e

confrontare le dinamiche che hanno interessato i settori vitivinicolo e olivicolo

nella seconda metà del Novecento.

167 Su questo tema si è incentrato il XVII convegno di studi della Società di Economia Agraria i cui atti

sono pubblicati nella Rivista di Economia Agraria, n.1, 1981.

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2.5.1 IL SETTORE VITIVINICOLO

Le cifre fornite dall’ISTAT ci dicono che alla fine degli anni Settanta la

viticoltura occupava una superficie di circa 200 mila ettari di cui 125 mila in

coltura principale e 83 mila in coltura secondaria.

SUPERFICIE VITICOLA IN ETTARI

Fonte: R. Cianferoni, Le produzioni Toscane: Vino e Olio in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Se si paragonano questi dati con quelli di inizio decennio si nota chiaramente

un aumento di 11 mila ettari in cui la vite rappresenta la coltivazione principale e

un calo di impianti in coltura secondaria. Questa situazione rispecchia il trend di

progressivo ammodernamento nel settore viticolo iniziato già alla fine degli anni

Sessanta. Come già rilevava Jacini nell’inchiesta di fine Ottocento la superficie

agraria dedicata alla viticoltura investiva 391 mila ettari 168

168 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune

di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, Dipartimento di Economia Agraria e delle Risorse Territoriali ARSIA, 2003.

. All’epoca la vite

veniva coltivata con sistema promiscuo in cui ai vigneti si associavano colture

erbacee o arboree, soltanto un esiguo spazio di superficie veniva destinato ai

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vigneti cosiddetti “alla francese” cioè specializzati, concentrati principalmente

nel Chianti geografico e nell’Isola d’Elba 169 . Tutto ciò permetteva una

molteplicità di sistemazioni colturali tali per cui era possibile conseguire

l’autosufficienza alimentare e l’impiego costante di forza-lavoro nei vari periodi

dell’anno. Da ciò è facile dedurre che nei primi decenni del Novecento le

coltivazioni viticole presentavano una bassa densità e si presentavano perlopiù

allevate a sostegno vivo, nonostante ciò nei vigneti specializzati, che nel periodo

suddetto risultavano di numero esiguo, la quantità di piante per unità di superficie

presentava valori nettamente superiori rispetto ai sistemi di coltivazione di natura

promiscua. Come è stato più volte ricordato, la mezzadria ha caratterizzato fino

alla prima metà del secolo scorso il profilo agricolo e paesaggistico della

Regione. In questo periodo coltivare uva in zone particolarmente vocate, come ad

esempio nel Chianti, consentiva agli agricoltori di percepire guadagni nettamente

superiori rispetto a qualsiasi altro tipo di produzione. C’è da osservare, inoltre,

che proprio il sistema di coltivazione promiscua ha ritardato nella Regione la

diffusione della fillossera 170 avvenuta all’inizio del Novecento e che aveva

interessato in maniera importante gli impianti specializzati in cui le piantagioni

danneggiate furono rimpiazzate con nuove tipologie di piante innestate su viti

americane. E’ risalente al periodo tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del

Novecento il recupero post-fillosserico dei vigneti caratterizzato dall’impiego di

un tipo di sistemazione viticola a sostegno morto, di forte specializzazione e che

pian piano si collocava in zone di più facile coltivazione seppur non

particolarmente vocate. Questo avvenne perché con l’abolizione del patto della

fossa171

169 Ibidem.

dopo le prime lotte contadine, l’affossatura indispensabile alle nuove

170 Cfr. M. Bandini, Aspetti economici della invasione fillosserica in Toscana, Soc. An. Treves-Treccani-Tumminelli, 1932 e dello stesso autore, Il carattere storico dell’economia agraria, INEA, 1967.

171 E. Sereni, L’agricoltura toscana e la mezzadria nel regime fascista e l’opera di Arrigo Serpieri in Atti del convegno La Toscana nel regime fascista, Firenze Olschki, 1971. I Patti di Fossa comportavano ingenti costi per il mezzadro il quale doveva provvedere ai lavori di miglioria del fondo ed in particolar modo allo scavo di fosse per l’impianto di nuovi vigneti. Tali patti furono

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coltivazioni non era più a carico del mezzadro ma spettava totalmente ai

proprietari che, non volendo sostenere costi a loro avviso troppo onerosi,

spostarono le piantagioni dalla collina in pianura dove notoriamente le

sistemazioni agricole di questo tipo richiedevano meno dispendio di risorse. A

tutto ciò vanno aggiunti altri due fattori: il primo riguarda l’aumento dei costi di

produzione a cui non aveva fatto seguito un adeguato aumento del prezzo del

vino; il secondo riguarda il graduale livellamento del prezzo del vino prodotto in

collina con quello prodotto in pianura. Con la nascita della CEE si è assistito ad

un notevole cambiamento degli assetti agricoli regionali, soprattutto per quanto

riguardava la viticoltura e l’olivicoltura. Ma vediamo nel dettaglio quali furono le

tappe che hanno portato alle attuali organizzazioni colturali. Verso la metà degli

anni Sessanta, grazie all’articolo 18 del Reg. (CEE) 17/64 che prevedeva

l’intervento del FEOGA per il potenziamento della produzione e della messa in

commercio delle derrate agricole fornendo un contributo a fondo perduto che

poteva raggiungere il 25% delle spese necessarie al miglioramento dell’assetto

produttivo, si è verificato un ingente afflusso di capitali privati in ambito

agricolo. Inoltre, il suddetto Regolamento Europeo prevedeva anche un

contributo dello Stato membro a favore di investitori privati, in tal modo

sommando l’aiuto comunitario e quello nazionale poteva essere coperto il 70%

delle spese lasciando al privato il pagamento del 30% dell’importo. Questo

provvedimento, per quanto riguarda la viticoltura, fu accolto in Italia nel 1965 ed

entrò totalmente in vigore con il secondo Piano Verde172

eliminati con il “Patto colonico regionale” del 1920 conseguenza delle rivolte contadine del 1919. L’importanza e la novità del Patto colonico regionale risiede nel suo carattere regionale in quanto capace di garantire un maggiore rispetto dei diritti dei mezzadri fino ad allora regolati con provvedimenti di carattere essenzialmente locale.

. Lo scopo del Piano

consisteva nell’adeguamento delle produzioni viticole delle aree fortemente

vocate alle necessità e ai bisogni del mercato sia nazionale che internazionale,

172 Vedere il paragrafo dove si è trattato dell’evoluzione della Politica Agricola Comunitaria dagli anni Sessanta a oggi. Anche nel primo Piano Verde un posto importante era riservato alla viticoltura, ma solo con il secondo Piano Verde furono tracciati definitivamente gli indirizzi che gli investitori privati avrebbero dovuto seguire nell’attuazioni degli interventi oggetto di aiuto comunitario.

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indirizzando gli assetti colturali verso una sempre maggiore specializzazione e

modernizzazione. Le azioni di miglioramento avrebbero dovuto essere indirizzate

verso le aree di produzione a Denominazione di Origine Controllata 173

e le

procedure per la loro esecuzione avrebbero dovuto rispettare rigorosamente i

disciplinari di produzione.

SUPERFICIE IN ETTARI OCCUPATA DA IMPIANTI VITICOLI SPECIALIZZATI

Fonte: R. Cianferoni, Le produzioni Toscane: Vino e Olio in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

In tal modo era fortemente auspicata la sostituzione dei vecchi vitigni,

perlopiù in coltura promiscua, con nuovi impianti vocati ad una maggiore

specializzazione. Per fare ciò ai viticoltori era erogato un finanziamento statale in

conto capitale che andava ad aggiungersi a quello europeo “inoltre ai viticoltori 173 Cfr. Decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1967, n. 506 (in Gazzetta Ufficiale, 7 luglio,

n. 168) Norme relative all’Albo dei vigneti e alla denuncia delle uve destinate alla produzione dei vini a denominazione di origine “controllata” o “controllata e garantita” e DPR del 9 agosto 1967 che indicava in vino Chianti come produzione a Denominazione di Origine Controllata e ne stabiliva il relativo disciplinare di produzione.

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che affidavano l’esecuzione dei propri progetti ad un Ente di sviluppo a ad Enti

pubblici lo Stato concedeva la possibilità di contrarre un mutuo ventennale in

conto interesse il cui tasso era del 3% per il restante 50% non coperto né dal

sussidio comunitario né da quello statale”174. In questo modo, potendo usufruire

di incentivi particolarmente favorevoli, le produzioni viticole di pregio avrebbero

assunto un ruolo di primo piano nel campo agricolo regionale; infatti, con

l’istituzione della Denominazione di Origine Controllata, è stato possibile

definire in maniera univoca i limiti delle zone di produzione arginando potenziali

fraintendimenti relativi all’utilizzo non sempre corretto della Denominazione.

Oltre a ciò è possibile riconoscere altri aspetti positivi conseguenti al

provvedimento in materia di Denominazione di Origine Controllata (D.O.C.) tra

cui il più importante risulta essere il fatto di riunire le peculiarità tipiche dei

vitigni in oggetto, senza però offuscarne i tratti distintivi, in maniera da

introdurre nel sistema di mercato prodotti con caratteristiche di fondo ben

identificabili 175. Come conseguenza di questo processo di tipicizzazione è da

ricordare il forte potenziamento del ruolo dei consorzi176

174 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune

di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit., p. 6.

e i benefici ottenuti, in

termini di utilizzo di servizi, dalle aziende ad essi aderenti. Dunque, come si è

visto chiaramente da quanto finora esposto, gli anni Sessanta hanno rappresentato

per la vitivinicoltura un momento di particolare fermento. Le ragioni di questo

spirito di rinnovamento sono da ricercarsi sia nell’esigenza di ristrutturazione,

peraltro non più procrastinabile, degli impianti post-fillosserici che in questo

175 R. Cianferoni – A. Innocenti, Agricoltura e sviluppo sostenibile nel Chianti Classico in Atti del Convegno Volpaia 29 maggio 1999, Leo S. Olchki editore, Firenze, 1999.

176 Sono questi gli anni in cui si profilano i tratti distintivi dei due più rilevanti consorzi toscani: il Consorzio Vino Chianti e il Consorzio Vino Chianti Classico che gestiscono ancora oggi un un’area che già dal primo consorzio del 1924 era denominata Chianti, a tal proposito cfr. R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit., p. 7 in cui si legge “Sebbene già dagli anni Sessanta esistessero due consorzi dal punto di vista del disciplinare di produzione il Chianti Classico è rimasto una sottozona della più vasta are del chianti fino al 1996, quando con il D.M. 5 agosto vennero approvati due distinti disciplinari di produzione, uno per il chianti, l’altro per il chianti Classico”.

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periodo avevano raggiunto piena maturità, sia nella decadenza della mezzadria a

cui ha fatto seguito l’abbandono delle campagne e la scarsità di forza-lavoro. Per

sopperire alla mancanza di manodopera vennero introdotte le macchine operatrici

che pian piano ebbero sempre maggiore diffusione. Come è ben comprensibile,

per poter ottimizzare l’utilizzo dei mezzi meccanici si rendeva necessario sia

l’abbandono dei modi di coltivazione tradizionali, come le consociazioni, sia

l’accorpamento di più unità colturali. In questo modo il volto della collina

toscana pian piano mutava i suoi caratteri: i nuovi sistemi produttivi prevedevano

la sostituzione dei filari con blocchi di colture specializzate di più facile

adattabilità al lavoro delle macchine. Lo scopo principale di questo processo di

rinnovamento era il miglioramento qualitativo delle produzioni da attuarsi con

tutti i mezzi che la tecnologia di allora poteva offrire. La mezzadria a poco a

poco scomparve quasi dappertutto e ai vecchi proprietari si sostituirono piccoli

imprenditori che operavano in associazione a nuove tipologie di professionisti,

nel contempo emerse la figura del coltivatore diretto con salariati. Tutti questi

fattori di trasformazione sociale ed economica hanno dato la spinta al

rinnovamento del settore vitivinicolo toscano che ebbe il periodo di maggiore

sviluppo tra il 1964 e il 1973177

177 La viticoltura toscana: lineamenti strutturali e aspetti evolutivi, Ente Maremma, Firenze, 1977.

. In questo frangente ebbero una funzione di vitale

importanza l’Ente di Sviluppo per la Toscana ed il Lazio e l’Ente Autonomo per

la bonifica, l’irrigazione e la valorizzazione fondiaria. Un fattore di novità che

merita di essere menzionato è rappresentato dalla grande diffusione che in

questo periodo ebbero le innovazioni tecnologiche tra tutti gli operatori del

settore vitivinicolo a prescindere dalle dimensioni aziendali. Fino a questo

momento, infatti, le applicazioni dei più moderni mezzi tecnologici erano

appannaggio esclusivo delle grandi aziende che potevano disporre di maggiori

capitali. Tutto ciò fu possibile in larga parte grazie all’opera degli Enti di cui si è

parlato poco sopra che oltre a intervenire in modo incisivo nelle aree di loro

competenza hanno contribuito, per mezzo di azioni di propaganda, alla

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circolazione non solo dei nuovi progressi in campo tecnico ma anche delle

modalità di accesso ai contributi pubblici178. Nell’ottica di accrescere le rese per

unità di superficie si favorirono le zone maggiormente vocate, poiché il Secondo

Piano Verde prevedeva l’erogazione di fondi esclusivamente per la costituzione

di vigneti situati in aree DO, a tutto ciò si deve aggiungere che ormai, grazie

all’azione dei più potenti mezzi agricoli, effettuare e mantenere impianti in

terreni collinari particolarmente scoscesi tradizionalmente coltivati solo

utilizzando il lavoro manuale, non risultava particolarmente oneroso rispetto alla

pianura. Non bisogna però, perdere di vista la situazione del mercato del vino179

Dalle considerazioni or ora effettuate, risulta evidente il ruolo cardine, anche

se non esclusivo, nella crisi dei prodotti vitivinicoli regionali, svolto dal mercato.

Come dimostrano i dati a nostra disposizione, l’offerta, nel periodo ‘50-’70, non

presenta cambiamenti rilevanti rispetto agli anni precedenti, in cui, però, bisogna

tener conto del fatto che nel sistema mezzadrile gran parte della produzione era

destinata all’autoconsumo.

in cui i prezzi delle produzioni di pregio non rendevano conveniente la

realizzazione di nuovi impianti, pertanto, l’occasione vantaggiosa offerta dai

finanziamenti previsti dal già citato Secondo Piano Verde va considerata tale solo

se inserita in un’ottica di bonifica degli impianti.

178 E. Giorgi - I. Capecchi, Problemi vitivinicoli in Toscana, Tipografia Coppini, Firenze, 1977 e R.

Cianferoni - F. Mancini, La collina nell’economia e nel paesaggio toscano, Accademia dei Georgofili, Firenze, 1993.

179 A tal proposito si veda A. Morettini, Il consumo di alcool, aspetti psico-sociali, Regione Toscana, Firenze, 1980. Da questa ricerca condotta da medici e sociologi è emerso che in provincia di Firenze il consumo di alcool cresce man mano che ci si allontana dal città e ci si avvicina alle zone rurali. Va ricordato che la diminuzione del consumo del vino si è verificata nonostante il calo del prezzo reale del vino stesso al consumo e “malgrado il fatto che esso fornisce attualmente l’unità di alcool a prezzi di gran lunga inferiori a quelle di altre bevande alcooliche (birra e superalcolici) per le quali si registra invece un aumento dei consumi” R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale, cit., p. 256.

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ETTOLITRI DI VINO PRODOTTI DALL’INIZIO DEGLI ANNI CINQUANTA ALLA FINE DEGLI ANNI

SETTANTA

Fonte: R. Cianferoni, Le produzioni Toscane: Vino e Olio in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

PRODUZIONE PER ETTARO IN COLTURA SPECIALIZZATA O PRINCIPALE

Fonte: R. Cianferoni, Le produzioni Toscane: Vino e Olio in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Per il periodo in questione non si hanno dati relativi al consumo pro-capite di

vino a livello regionale, mentre sul fronte nazionale tale consumo ha manifestato

una netta diminuzione, ciò è stato messo in relazione al cambiamento degli stili

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di vita dei consumatori e ai fenomeni di urbanizzazione. Occorre sottolineare

anche, che la discrepanza tra offerta e domanda nel settore vitivinicolo

rappresentava solo uno dei fattori responsabili della crisi del settore, infatti

un’altra causa è ravvisabile nell’arretratezza strutturale nell’ambito della

commercializzazione. I dati che Cianferoni ci fornisce al 1979 mettono in luce

due punti chiave: gran parte della produzione vinicola di cantine sociali e

viticoltori vinificatori è inserita nei canali dell’industria vinicola e del grande

commercio; un posto alquanto rilevante è occupato dalle vendite ai diretti

consumatori e ai commercianti al dettaglio e non trascurabile è la quota destinata

all’autoconsumo. Alla lue di quanto detto emerge una tendenza di fondo: il

prezzo di riferimento la maggior parte delle volte coincideva con quello del vino

destinato all’ingrosso e non quello del vino al minuto. Nelle dinamiche che

portavano a stabilire il prezzo all’ingrosso, i produttori rivestivano un ruolo

marginale e soltanto nei periodi in cui la produzione scarseggiava potevano

assumere qualche potere decisionale; nelle annate di grande produzione i

coltivatori, mossi dal timore di accumulare eccessive giacenze, vendevano a

qualunque prezzo ma nonostante ciò i grandi industriali non si sono dimostrati in

grado di raggiungere adeguati profitti a causa della loro incapacità di

modulazione del prezzo al consumo. In queste condizioni i produttori, cercando

di aumentare le vendite dirette per compensare i bassi costi delle vendite

all’ingrosso, costituivano un fattore concorrenziale rilevante. L’inadeguatezza

della grande industria nello sfruttare a suo favore la particolare congiuntura,

caratterizzata da bassi prezzi all’ingrosso, avrebbe dovuto essere la spinta, anche

per il futuro, alla formazione di accordi interprofessionali 180 già consolidati

oltralpe e che in Italia hanno ottenuto qualche risultato positivo181

180 R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit.

. Oltre alle

181 Cfr. R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit, pp. 259-260 “accordo interprofessionale normativo ed economico per il Moscato d’Asti e l’Asti Spumante siglato il 21 settembre 1979 dopo lunghe trattative tra i rappresentanti della Regione Piemonte , degli operatori agricoli, delle cantine sociali e degli industriali spumantieri. L’accordo prevede impegni e regole di comportamento che determinano linee di programmazione economica per l’intera politica del settore, toccando i problemi relativi sia all’impianto dei vigneti che alle strutture di trasformazione, alla promozione,

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considerazioni relative ai caratteri strutturali del mercato del vino bisogna tenere

in considerazione un altro aspetto rilevante che riguarda i prodotti vitivinicoli

toscani: la loro promozione. Infatti, dalle fonti a nostra disposizione risulta che

nel periodo in esame il vino è la bevanda meno reclamizzata mentre godono di

notevole pubblicità le altre bevande a basso costo di produzione 182 . In

conclusione dobbiamo convenire che la maggior parte degli studiosi183, e con il

senno del poi possiamo dire non a torto, non si faceva illusioni e non si lasciava

trasportare da facili ottimismi184

sottolineando la debolezza del settore, ancora

troppo poco protetto a livello concorrenziale dal pubblico potere.

2.5.2 IL SETTORE OLIVICOLO

Negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale

l’olivicoltura, con caratteristiche diverse da provincia a provincia, occupava una

superficie di circa 250 mila ettari185

alla tutela della qualità e alla difesa e vigilanza contro le frodi. A livello normativo e contrattuale l’accordo prevede principalmente la garanzia del ritiro di tutta la produzione da parte dell’industria e una serie di meccanismi per fronteggiare situazioni eccedentarie o deficitarie e la contrattazione annuale del prezzo basata sui costi di produzione”.

. Il sistema mezzadrile aveva contribuito al

mantenimento di alcune peculiarità dell’olivicoltura toscana che nel tempo hanno

modellato il paesaggio, si pensi alle già citate pratiche di consociazione sia con

colture erbacee che con quelle legnose in particolare viticole. La coltivazione

182 G.P. Cesaretti - R.H. Green - A. Mariani - E. Pomarici, Il mercato del vino. Tendenze strutturali e strategie dei concorrenti, Franco Angeli, Milano, 2006; D. Cersosimo, I consumi alimentari. Evoluzione strutturale, nuove tendenze, risposte alla crisi. Atti del workshop tenuto a Palazzo Rospigliosi, Roma 27 settembre, 2011; L. Casini L. - C. Seghieri - F. Torrisi, Wine consumer Behaviour in selected points of sale of the Italian Major Retailing Trade in 3° International Wine Business and Research Conference, 6-7-8/07/2006.

183 A questo proposito si veda R. Cianferoni, Una politica per la collina, in “Politica agraria”, n.3, settembre 1980.

184 Con gran favore fu accolta l’iniziativa avviata dall’Accademia nazionale di agricoltura di Bologna sui “problemi della collina” che ha dato vita a riunioni interregionali a Torino, Macerata, Matera.

185 P. Nanni (a cura di), La Toscana nella storia dell’olivo e dell’olio, Arsia-Accademia dei Georgofili, Firenze, 2002.

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dell’olivo, dunque, risultava strettamente legata alle vicissitudini che nel corso

dei secoli hanno visto protagonista la mezzadria e questo ha fatto in modo che

l’olivicoltura diventasse un elemento comune e fondante tra assetto fondiario,

inteso come organizzazione poderale, condizioni idrogeologiche e paesaggio.

Non da ultimo va ricordato che questa coltura ha due importanti qualità: la prima

consiste nell’attitudine a resistere anche in zone non ottimali dal punto di vista

agronomico 186 e la seconda è la sua famosa longevità. Il fatto che

l’organizzazione del podere mezzadrile si avvicinasse ad una tipologia di

economia definita chiusa, in cui la policoltura avrebbe dovuto garantire il quasi

totale soddisfacimento del fabbisogno alimentare familiare, ha determinato

l’estensione delle superfici olivetate anche in aree dove fino ad allora erano

presenti boschi e pascoli. La facile adattabilità di questa pianta ha contribuito in

maniera determinante alla sua diffusione in quasi tutta la superficie regionale con

modalità di coltivazione differenti dipendenti dai fattori ambientali, dagli assetti

aziendali e dalle necessità relative alle tecniche colturali. Da ciò si deduce

chiaramente come ciò abbia determinato la creazione di un paesaggio agrario

estremamente variegato. A questa multiforme varietà paesaggistica hanno

contribuito soprattutto i diversi modi di allevamento dell’olivo: nei terreni

maggiormente vocati le piante appaiono di grandi dimensioni, nelle aree più

difficili dal punto di vista geomorfologico le coltivazioni assumono dimensioni

molto più ridotte; occorre ricordare inoltre, come afferma più volte Sereni187

186 Ibidem.

, che

le sistemazioni collinari a ciglioni e a terrazze hanno arricchito e differenziato le

forme del paesaggio olivicolo regionale. Quanto finora esposto mostra

chiaramente come la crisi e la successiva scomparsa della mezzadria abbia inciso

profondamente nella trasformazione degli assetti colturali soprattutto nelle zone

definite marginali dove l’olivicoltura seppur con bassissime rese economiche

svolgeva un ruolo determinante nella salvaguardia degli equilibri idrogeologici.

187 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari, 1961.

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Di seguito si esamineranno le vicende che hanno caratterizzato il settore negli

anni Settanta, periodo in cui le conseguenze della scomparsa del sistema

mezzadrile sembrano essere maggiormente incisive.

Alla fine degli anni Settanta i terreni adibiti alla coltivazione olivicola

occupano uno spazio di oltre 190 mila ettari di cui la maggior parte in coltura

secondaria. Dal raffronto di queste cifre con quelle di inizio decennio emerge un

calo della superficie totale di 10 mila ettari dovuto alla riduzione dei terreni in

cui l’ulivo rappresentava la coltura secondaria non bilanciato dall’incremento di

quella in coltura principale.

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DINAMICHE RELATIVE ALLA SUPERFICIE OLIVICOLA DALLA METÀ DEGLI ANNI SESSANTA ALLA

FINE DEGLI ANNI SETTANTA

Fonte: R. Cianferoni, Le produzioni Toscane: Vino e Olio in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Particolarmente interessante risulta il fatto che per il periodo 1965-1979 si

evidenzia uno stallo relativo all’impianto di nuovi oliveti.

Dall’analisi dei dati a nostra disposizione si vede chiaramente la forte

diminuzione di nuove piantagioni non in produzione tanto che in alcune province

non si sono costituiti nuovi impianti o laddove lo si è fatto hanno investito

estensioni di terreno irrilevanti. Un ulteriore elemento che l’analisi della tabella

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rileva è rappresentato dal fatto che la riorganizzazione del settore sia stata

effettuata mediante il rinfittimento 188 dei terreni già olivati piuttosto che per

mezzo di nuovi impianti. Questo processo va spiegato raffrontando questi dati

con quelli analoghi relativi al settore vitivinicolo infatti, nello stesso periodo,

come conseguenza della ristrutturazione aziendale, sono state eliminate notevoli

quantità di piante d’olivo e sostituite con produzioni vitivinicole. Questa

evoluzione appare più marcata nelle aree di coltivazione dei vitigni di pregio per

il fatto che nei terreni regionali adibiti ad olivicoltura, in periodi di crisi, la

migliore opzione è rappresentata dalla viticoltura 189

. Nonostante ciò la

produzione di olio non si arresta anzi, pur con variazioni da provincia a

provincia, in poco più di un decennio si accresce di oltre 30 mila quintali.

188 Con questo termine si indica la procedura che prevede la piantagione di giovani olivi fra quelli

adulti.

189 L. Lulli- A. Lorenzoni- A. Arretini, La carta dei suoli, la loro capacità d’uso, l’attitudine dei suoli all’olivo e al Sangiovese, Istituto sperimentale studio e difesa del suolo, progetto finanziato “conservazione del suolo”, sottoprogetto “dinamica dei versanti”, vol.14, 1980; G. Sanesi, La natura del suolo nel Chianti Classico, in Il Chianti Classico, Consorzio vino Chianti Classico, Firenze, 1974.

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DINAMICHE RELATIVE ALLA PRODUZIONE OLIVICOLA DALLA METÀ DEGLI ANNI SESSANTA ALLA

FINE DEGLI ANNI SETTANTA

Fonte: R. Cianferoni, Le produzioni Toscane: Vino e Olio in Agricoltura toscana e sviluppo

economico regionale. Atti della Conferenza Scientifica sull’Agricoltura Toscana, Firenze 1981,

IRPET, Le Monnier, Firenze, 1988.

Tale stato di cose può essere letto come la conseguenza di due opposte

tendenze: l’abbandono di gran parte delle coltivazioni olivicole e il

potenziamento degli impianti, attuato mediante procedure di rinfittimento, che ha

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convertito l’olivo da coltura secondaria a coltura principale o esclusiva. La

crescita dei rendimenti unitari nella Regione va attribuita sia all’ottimizzazione

delle tecniche produttive sia all’abbandono di piantagioni meno redditizie poste

in zone marginali. A questo proposito si ritiene utile analizzare le diverse realtà

regionali del settore olivicolo con lo scopo di osservare le modalità con cui sono

state risolte le problematiche agronomiche che via via si sono presentate. Per far

ciò è necessario porre l’attenzione sulle tre realtà che, nel periodo in esame,

caratterizzano la superficie olivicola toscana:

• olivicoltura tradizionale contraddistinta da suoli posti in forte pendenza in

cui risulta inapplicabile il lavoro dei mezzi meccanici;

• olivicoltura tradizionale con ingenti potenzialità produttive sia qualitative

che quantitative;

• olivicoltura specializzata intensiva190

Il primo caso, in cui la mancanza di un adeguato uso della meccanizzazione

costituisce il principale ostacolo a possibili evoluzioni di carattere prettamente

economico, riveste un ruolo di primo piano nella definizione e nella tutela del

paesaggio toscano tradizionale

.

191

190 L. Angeli - L.-R Omodei Zorini. A. Polidori-Simoni, Agricoltura toscana, in “Giornata sulla

olivicoltura”, supplemento al n.12, dicembre 1979; L. Angeli - R. Polidori, Situazione e prospettive dell’agricoltura toscana, Centro 2P, Firenze, 1979.

, basti pensare agli oliveti che dalle pendici

collinari della Versilia raggiungono il litorale. Infatti con il definitivo abbandono

del sistema mezzadrile, in queste aree si andava progressivamente incontro

all’abbandono delle coltivazioni olivicole, fattore determinante nel mantenimento

degli equilibri idrogeologici; ciò ha destato in questi anni notevoli

preoccupazioni che si sono concretizzate successivamente, intorno alla metà

degli anni Ottanta, nel secondo comma del terzo articolo del Regolamento CEE

191 E. Giorgi, Aspetti economici della produzione di olive da olio in provincia di Firenze, in “Arti e mercature”, 7-8, 1965; per potenziare questa importante funzione rivestita dalle piantagioni tradizionali coltivabili soltanto mediante lavoro umano gli esperti del settore hanno avanzato essenzialmente due proposte: la prima consisteva in una sorta di rimboschimento tagliando alla base le piante e lasciando poi la loro ricostruzione in forma di cespuglio, la seconda voleva mettere a carico della pubblica amministrazione i principali oneri che l’impossibilità dell’uso di mezzi meccanici comportava, a tal riguardo cfr. R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit.

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1654/86 del 26 maggio 1986192. Il Regolamento costituisce un passo decisivo nel

riconoscimento del ruolo polivalente dell’olivicoltura, tale funzione è stata

ulteriormente sottolineato nel programma dell’ETSAF193

L’apporto più significativo alla produzione regionale è fornito dalla

olivicoltura tradizionale meccanizzata. In queste aree le attenzioni di esperti e

produttori si sono concentrate principalmente su un tipo di ristrutturazione volta

ad ottimizzare il lavoro dei mezzi meccanici, per ottenere questo risultato si è

proceduto alla conversione degli impianti in coltura promiscua in produzioni

specializzate utilizzando il metodo di rinfittimento. Nella provincia di Lucca

invece, dove la presenza di terreni con oltre quattrocento piante per ettaro

rendeva impossibile la coltivazione meccanizzata, è stato necessario attuare

procedure di diradamento

(Ente Toscano Sviluppo

Agricolo e Forestale), volto alla ristrutturazione degli impianti olivicoli

danneggiati dalle gelate del 1985, in cui si vede riconosciuta all’olivo la

formidabile capacità di costituire un ruolo cardine nella conservazione dei tratti

di un paesaggio dalle forti connotazioni storiche e culturali.

194 . Più volte, in questo periodo, gli esperti hanno

sottolineato l’importanza della raccolta meccanica delle olive che , se effettuata

in piantagioni con determinate caratteristiche195, avrebbe potuto garantire una

notevole convenienza economica. Occorre notare, però, che le cultivar196

192 P. Nanni (a cura di), La Toscana nella storia dell’olivo e dell’olio, cit, p.129 nel secondo comma del

terzo articolo del Regolamento CEE 1654/86 del 26 maggio 1986 si leggeva: “sono ammissibili le misure collettive di ricostituzione degli oliveti che: a) contribuiscano al ripristino del paesaggio caratterizzato dagli oliveti, garantiscano la protezione dell’ambiente , il consolidamento del suolo e la regolarità del regime idraulico; b) contribuiscano ad un miglioramento durevole delle condizioni di lavoro nelle aziende agricole interessate e consentano, pertanto, un aumento del reddito di lavoro”.

presenti

193 AA.VV., La nuova olivicoltura in Toscana, ESTAF, Firenze, 1987.

194 L. Lulli - A. Lorenzoni - A. Arretini, La carta dei suoli, la loro capacità d’uso, l’attitudine dei suoli all’olivo e al Sangiovese, cit.

195 R. Cianferoni, Una politica per la collina, op.cit e R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, op.cit. Le caratteristiche che avrebbero potuto consentire l’ottimizzazione delle macchine raccoglitrici risultano le seguenti: appropriate potature, portamento eretto delle piante, adeguata grandezza della drupe e maturazione contemporanea.

196 M. Basso - S. Natali, Contributo allo studio delle cultivar toscane di olivo. Indagini eseguite nella provincia di Pisa, in “Annali della Facoltà di Agraria”, n. 22, Pisa, 1962, pp.47-110; C. Cantini – A.

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nelle zone in questione nella maggior parte dei casi presentavano requisiti

opposti a quelli richiesti per utilizzare al meglio le macchine raccoglitrici per cui

gli interventi da attuare risultavano particolarmente onerosi. In tale prospettiva

fin dai primi anni Settanta si è cercato di indirizzare la ricerca verso la creazione

di nuove varietà attuando procedure di incrocio e di mutazione mediante

l’utilizzo di raggi gamma.197

L’olivicoltura specializzata intensiva pur procurando alte rese produttive in

quanto praticata nei terreni più fertili, investiva esigue estensioni di superficie

agricola, questo fenomeno si può spiegare con il fatto che nei terreni

favorevolmente predisposti venivano impiantati tipologie di coltivazioni

maggiormente redditizie. Come si è già fatto per il settore vitivinicolo, sembra

utile, anche in questo caso procedere all’analisi dell’andamento del mercato

olivicolo per meglio comprendere le varie decisioni di politica agricola prese a

livello locale. L’osservazione dei dati forniti dall’IRPET

198 mette in luce il forte

divario regionale esistente tra il consumo dell’olio di oliva e la produzione. Da

ciò si deduce che la regione non produce una quantità di olio di oliva capace di

coprire l’intero fabbisogno regionale, certamente ciò, pur costituendo un fattore

importante all’interno delle dinamiche di mercato, non è riuscito a frenare la crisi

del settore che, come si vedrà più avanti ha altre cause. Un ruolo significativo è

svolto dall’autoconsumo199

Ciamato - A. Sani - G. Marracini - M. Bazzanti, Identificazione, caratterizzazione e selezione di genotipi di olivo diffusi in Toscana in Atti Congresso internazionale Olive Oil Quality, Firenze 1-3 dicembre 1992, pp. 291-292. R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit, p.279: “(...) infatti gli oliveti risultano costituiti da più cultivar di origine antichissima che, a causa delle numerose mutazioni che si sono accumulate nel tempo, presentano una rilevante disformità produttiva, sia qualitativa che quantitativa”.

a cui si associa la raccolta a cottimo in cui gli operai,

197 E. Baldini - S. Ragazzini, Le varietà di olivo dell’agro fiorentino, Accademia dei Georgofili, Firenze, 1998.

198 IRPET, L’agricoltura toscana negli anni Settanta, Firenze, 1980; R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit., p. 282. L’IRPET stima che, nel decennio in questione, in Toscana il consumo di olio di oliva si aggiri intorno ai 450 mila quintali mentre la produzione ammonta mediamente a 250 mila quintali.

199 Sempre basandoci dei dati forniti dall’IRPET nello studio R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, op.cit. si nota che le aziende in coltura principale ammontano a circa 52 mila per cui, tenendo in considerazione un consumo medio dei nuclei familiari dei coltivatori o dei proprietari di

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pur di garantirsi olio genuino, accettano retribuzioni orarie che in alcuni casi non

raggiungono nemmeno la metà delle tariffe sindacali stabilite 200 garantendo

notevoli vantaggi economici ai proprietari in quanto i compensi stabiliti dalle

tabelle salariali avrebbero, in alcuni casi, superato il valore complessivo delle

produzioni. Un altro carattere peculiare dell’olivicoltura toscana è rappresentato

dalla quota di olio venduta direttamente ai consumatori, soprattutto nelle aree

agricole adiacenti ai centri cittadini201, ciò consente di ottenere prezzi maggiori

rispetto sia a quelli all’ingrosso sia a quelli di oli provenienti da altre regioni e

venduti al minuto202. Il successo riscosso dall’olio di oliva di frantoio non è da

imputarsi a fattori pubblicitari, peraltro completamente assenti in questo periodo,

ma alle peculiarità della cucina tipica regionale 203

75Kg, i quintali totali risultano essere 39 mila, a questa cifra va aggiunto il consumo interno delle aziende in cui l’olivo è presente in coltivazione secondaria e l’autoconsumo dei cottimisti che percepiscono compensi in natura .

diffusa non soltanto in

campagna ma apprezzata e praticata anche dagli abitanti dei centri urbani. In

periodi di forte produzione gli oli provenienti da aree meno vocate sono venduti

ai grossisti a prezzi notevolmente bassi e destinati a consumatori che non sono in

grado di distinguere un olio di pregio da quello derivante da lavorazioni

industriali. Come si è già accennato poco prima, alcuni studiosi fanno risalire le

cause delle difficoltà relative al settore alla concorrenza degli oli di semi che

200 “Rinnovo contratto lavoro, tabelle salariali e trattative unitarie con l’Unione ProvincialeAgricoltori per il rinnovo del contratto provinciale dei lavoratori agricoli”, 1972 in Archivio Camera del Lavoro di Grosseto, Federbraccianti, b. 8 (304). A tal proposito si vedano anche: A. Pepe, Il sindacato nell’Italia del ‘900, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996; A. Pepe, Il sindacato nel compromesso nazionale: repubblica, costituzione, sviluppo in Storia del sindacato nel ‘900, Vol.3, Ediesse, Roma, 2001.

201 R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit.

202 A questo proposito Cianferoni ci fornisce un esempio molto chiaro “Per avere un’idea di questo divario può essere indicativo il fatto che nei dintorni di Firenze, nelle migliori zone olivicole, il prezzo dell’olio di oliva di frantoio è stato, per il raccolto 1980-81, di L. 4.000 il kg in partite sfuse di decine di kg, mentre l’olio extravergine di oliva di provenienza non toscana si trovava nei negozi in bottiglie da 1 litro a prezzi assai inferiori”, p.283.

203 G. Bini, L’olivo albero degli dei, ed SugarCo, Milano, 1986; P. Pisani, Ricette a cinghia stretta, Ed Il Compasso, Grosseto, 1988.

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presentavano costi di gran lunga più bassi rispetto a quelli degli oli di oliva204.

Sembra utile illustrare brevemente i passi che hanno favorito la concorrenza degli

oli di semi nei confronti dell’olio di oliva. Nonostante negli ultimi decenni si sia

verificata una grande crescita dell’utilizzo dei grassi vegetali in generale, soltanto

l’olio di semi ha raggiunto ingenti livelli di espansione e diffusione dal momento

che il consumo pro-capite di olio di oliva non ha subito variazioni di rilievo.

Alcuni studiosi205

204 R. Cianferoni, Le produzioni toscane: vino e olio, cit., in questo studio l’autore fornisce i seguenti

dati: per ottenere un quintale i olio di oliva c’è bisogno di circa 100 ore di lavoro umano mentre per ottenere un quintale di olio di girasole bastano nello stesso ambiente collinare 6 ore, fra le due produttività vi è un rapporto di 1 a 17.

hanno imputato questo fenomeno essenzialmente a due cause:

la prima consiste nella forte e marcata campagna di pubblicizzazione messa in

atto dall’industria degli oli di semi, la seconda alla diffusa disinformazione della

maggior parte dei consumatori circa le caratteristiche organolettiche dell’olio di

oliva e di conseguenza alla superiorità dietetica di quest’ultimo prodotto. In

generale, tenendo conto dei loro prezzi relativi, è emerso che, in questo periodo,

l’olio di semi è considerato da gran parte dei consumatori, un discreto sostituto di

quello di oliva e, pertanto, a causa dei suoi bassi prezzi si è dimostrato in grado

di far propria una porzione cospicua del mercato dell’olio di oliva. Malgrado non

si abbiano studi specifici relativi alla condotta dei consumatori toscani, si può

supporre che, visto il grande apprezzamento dell’olio di frantoio, l’olio di semi

non raggiunga nella regione l’alto grado di sostituibilità ottenuto a livello

nazionale. In conclusione si può affermare con certezza che, eccezion fatta per il

mercato dell’olio di frantoio, il prezzo dell’olio d’olio di oliva, per tutti gli anni

Settanta, è calibrato sul prezzo degli oli di semi e di conseguenza questa

dinamica non tiene in alcun conto i costi di produzione. Questa constatazione

chiarisce le cause della battuta d’arresto subita dal prezzo dell’olio di oliva

nonostante si sia verificato un incremento dei costi di produzione rispetto agli

205 R. Cianferoni, The background, Conditions and Image of Quality Agricultural Production in Tuscany, in R. Leonardi – R.Y. Nanetti (a cura di), Regional Developmentin an Integrated European Economy: The Case of Tuscany, London, 1998; G. Cannata (a cura di), I sistemi agrari territoriali italiani, Franco Angeli, Milano, 1989.

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altri prodotti agricoli e non si siano registrate sovrapproduzioni. Occorre

ricordare dunque che le misure attuate dalla CEE 206 volte a favorire

l’importazione di semi oleosi hanno danneggiato pesantemente il settore

olivicolo. Questo tipo di politica ha procurato vantaggi ai Paesi non olivicoli

(cioè tutti tranne Italia e successivamente Grecia), infatti i prodotti

dell’agricoltura cosiddetta nordica sono stati protetti da particolari misure

(prelievi)207 nonostante non vi fossero stati di inferiorità della produttività simili

a quelli esistenti tra oli di semi e oli di oliva208

. A conclusione di può affermare

che, nel periodo in esame, particolarmente svantaggiata appariva la situazione

relativa all’olio d’oliva, con l’aggravante che il pesante divario tra il costo di

produzione e il prezzo al consumo aveva sì radici strutturali ma risentiva

comunque della difficile fase congiunturale. Il problema era molto serio in

quanto l’attuazione di un’auspicata necessaria agricoltura di movimento risultava

tutt’altro che agevole, anche per i cospicui investimenti intrasferibili necessari

alla gestione annua della produzione del vino e dell’olio. Tutto ciò ci porta a

riflettere sull’eccessiva leggerezza, forse causata anche dalla scarsa conoscenza

delle leggi dell’economia di mercato, con la quale per tutti gli anni Sessanta e

parte degli anni Settanta, si è gestito il settore sia olivicolo che vinicolo.

Certamente in questi anni risultava estremamente complessa e difficilmente

attuabile l’ipotesi di una piena alternativa colturale, nelle zone collinari, alla vite

e all’olivo.

206 Regolamento 136/66/CEE del Consiglio del 22 settembre 1966 relativo all’attuazione di

un’organizzazione comune dei mercati nel settore dei grassi e successive modifiche e integrazioni.

207 Per fare due esempi si possono considerare sia il mercato dei cereali che quello dei prodotti lattiero-caseari: per il primo si vedano i Regolamenti CEE 13/62, 120/67 e 2727/75, per il secondo I Regolamenti CEE 13/64 del 5 febbraio 1964, 804/68 del 27 giugno 1968, 1411/71 del 29 giugno 1971 e 1079/77 del 17 maggio 1977.

208 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit.

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2.6 LA POLITICA AGRICOLA COMUNE E L’AGRICOLTURA

TOSCANA

Già si è più volte affermato che l’introduzione della Politica Agricola

Comunitaria ha rappresentato per i settori caratterizzanti l’agricoltura regionale,

viticoltura e olivicoltura, un elemento talvolta fortemente vincolante visti gli

orientamenti volti a favorire le produzioni tipiche dei paesi nordici. A questo

proposito si ritiene utile soffermare l’attenzione sulle discussioni in merito alla

revisione della PAC che hanno animato il decennio in esame. I tratti essenziali

della PAC sono stati enunciati nel capitolo precedente, perciò qui si

analizzeranno principalmente le loro ripercussioni sull’agricoltura regionale nel

corso degli anni Settanta. Per fare ciò ci si baserà sullo studio promosso dalla

Commissione CEE con il fine di esaminare la questione degli effetti regionali

della PAC 209 . Non sembra superfluo ricordare che non tutti i prodotti

regolamentati dalla Politica Agricola Comunitaria hanno beneficiato di eguali

misure di sostegno, da ciò è derivato che, essendo diversa la tipologia delle

produzioni da regione e regione, risultava differente anche il grado di sostegno

comunitario a seconda della regione presa in esame. Come si legge

nell’interessantissimo rapporto fornito da Claudio Guida nello studio

commissionato dall’IRPET “il grado di sostegno delle organizzazioni comuni di

mercato è funzione di un insieme di elementi: a) della garanzia del sostegno, che

può essere permanente o temporanea e applicarsi alla totalità o a una parte della

produzione; b) del livello di prezzo al quale la garanzia si applica; c) del grado di

protezione dai prodotti concorrenti” 210

209 Commissione CEE, Studio degli effetti regionali della politica agricola comune, serie “Politica

regionale”, 21, Bruxelles, 1981.

. Il fatto che la Politica Agricola

Comunitaria abbia posto in essere tendenze volte a favorire le produzioni

nordiche ha certamente influito in maniera notevole all’interno

210 C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, in Agricoltura toscana e sviluppo economico regionale, cit.

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dell’organizzazione agricola delle regioni meridionali della Comunità. Dunque

anche le produzioni tipiche regionali quali vino e olio, seppur con modalità

differenti da zona a zona, hanno risentito di questo fatto. Per spiegare le differenti

dinamiche che coinvolgono le aree produttive regionali in relazione alle

organizzazioni comuni di mercato sembra utile citare il caso del settore

vitivinicolo. In questo settore il sostegno comunitario non risulta particolarmente

significativo ma, il fatto di essere inserito nel mercato comune211 ha fatto sì che

le produzioni vitivinicole delle aree maggiormente ben predisposte verso

l’applicazione dei più moderni sistemi produttivi, si sviluppassero e

guadagnassero posizioni all’interno del mercato. Per contro la vitivinicoltura

delle aree di pregio, situate in terreni collinari, non ha seguito lo stesso trend di

sviluppo dal momento che i costi di produzione non erano ripagati da adeguati

prezzi di mercato. L’incremento degli impianti di carattere intensivo, che in

questi anni hanno avuto la loro massima espansione nelle pianure alluvionali,

hanno acuito il divario, già peraltro in crescita, tra offerta e consumo,

contribuendo a mantenere i prezzi del mercato vinicolo ben al di sotto di quelli

fissati annualmente dalla CEE. I Regolamenti 816 e 817 del 1970212

211 Per tutti gli anni Sessanta le politiche riguardanti la vitivinicoltura si erano rivelate poco incisive dal

momento che non erano stati stabiliti in modo chiaro gli obiettivi da raggiungere, tuttavia già nel 1962 si manifestò l’esigenza di costituire un catasto viticolo con lo scopo di disciplinare razionalmente il settore, a questo proposito si veda il Regolamento CEE n. 24 del 24 aprile 1962; a livello comunitario si era già diffusa la convinzione che qualsiasi tipo di provvedimento programmatico doveva fondarsi su una adeguata informazione in merito al potenziale produttivo in maniera tale da effettuare previsioni attendibili sull’andamento dell’offerta. Questi presupposti gettarono le basi dell’Organizzazione Comune del Mercato (OCM) del vino. Al Regolamento del 1962 fecero seguito altri provvedimenti: i Regolamenti CEE 816/70 e 817/70, il primo è stato di gran lunga il più rilevante in quanto con esso erano delineati i cinque punti cardine relativi al settore: regolamentazione di prezzi e interventi, rapporti con Paesi esterni alla Comunità, normative relative allo sviluppo complessivo degli impianti, direttive in merito ai processi enologici e indicazioni di carattere generale. in merito a ciò si veda anche R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

emanati

dalla Comunità Economica Europea testimoniano l’importanza di tre questioni

inerenti le disposizioni comunitarie nei confronti del settore vitivinicolo. La

prima faceva riferimento alla differenziazione tra le disposizioni relative ai vini

212 Vedi nota 162.

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da tavola e quelle indirizzate ai Vini di Qualità Prodotti in Regioni

Determinate 213 , alla base di questi provvedimenti stava la convinzione della

autonomia dei due mercati e del fatto che il mercato dei vini pregiati non avesse

necessità di alcun intervento. La seconda questione, derivante dal bisogno di

orientare la viticoltura verso produzioni di qualità, riguardava sia l’insieme delle

pratiche da seguire nel processo produttivo sia gli accertamenti volti a verificarle,

in essa erano contenute le indicazioni per coltivare i vigneti e le prescrizioni

relative al processo di produzione del vino214. La terza questione aveva come

punto cardine la politica dei prezzi, facendo una netta distinzione tra i

provvedimenti da applicare sul mercato interno e quelli da attuare nel mercato

esterno alla Comunità 215 . Sembra opportuno ricordare che le conseguenti e

ricorrenti distillazioni al 65%-75% del prezzo di orientamento 216

213 Le disposizioni particolari in merito ai Vini di Qualità Prodotti in Regioni Determinate sono

disciplinate dal Regolamento CEE 817/70

, se hanno

costituito un fattore positivo dal punto di vista remunerativo per i produttori delle

zone intensive, non hanno di certo giovato alla viticoltura collinare. Tutto ciò,

unito alla sostanziale assenza dei produttori nelle fasi successive a quella della

vinificazione e alla politica CEE, che tratta in modo uniforme realtà tra loro

estremamente diverse, è certo all’origine delle gravissime difficoltà che hanno

colpito la viticoltura italiana. A questo punto è lecito porsi una domanda: quali

furono i risultati raggiunti con questi primi interventi nel settore agricolo

214 Con il Regolamento CEE 817/70 le diverse zone furono ripartite in base alla loro predisposizione verso produzioni qualitativamente alte, inoltre vennero stabiliti criteri per la costituzione di nuove sistemazioni viticole e per la ristrutturazione dei vecchi. Occorre ricordare che questo punto fu sostenuto ammettendo solo restrizioni qualitative e non quantitative come invece proponeva la Francia a questo proposito si veda E. Pomarici – R. Sardone (a cura di), L’OCM Vino. La difficile transizione verso una strategia di comparto, INEA, Roma, 2009.

215 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit. Alla prima categoria appartenevano gli interventi a sostegno al magazzinaggio distinti tra breve e lungo termine e la distillazione obbligatoria che entrava in vigore quando, nonostante gli interventi per il magazzinaggio, il mercato non era in grado di riequilibrarsi. Le misure relative al mercato esterno si fondavano su due principi base: sistemi di protezione mediante particolari tariffe doganali e sistemi di restituzione volte a garantire il Paese Comunitario che esportava al di fuori del mercato europeo, dove i prezzi risultavano di gran lunga minori rispetto al prezzo di orientamento.

216 C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, cit.

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regionale ma soprattutto nel comparto vitivinicolo? Per rispondere a questo

quesito è necessario far riferimento alle caratteristiche assunte dalla produzione

vitivinicola e alle modifiche sopravvenute nel mercato del vino. Innanzitutto si

assistette ad una indiscutibile crescita della produzione vinicola dovuta sia ai

piani FEOGA e ai conseguenti sostegni nazionali volti a stimolare

l’ammodernamento per ottenere una maggiore efficienza degli impianti, sia alle

nuove politiche dei prezzi che assicuravano al coltivatore il collocamento del

prodotto. In merito a ciò si osserva però una certa incoerenza in quanto i

provvedimenti strutturali riguardavano solamente i Vini di Qualità Prodotti in

Regioni Determinate mentre gli aiuti di mercato erano destinati a tutta la restante

produzione vinicola. Se si esaminano poi, le dinamiche di mercato si registra un

fatto importante: non solo la domanda non cresceva proporzionalmente

all’offerta ma addirittura calava. A questo proposito viene alla mente la famosa

legge di Engel217per cui più aumenta il reddito di un nucleo familiare e meno

questo spenderà per i beni di prima necessità, infatti anche per il vino si costata

una diminuzione del livello di domanda con la crescita del reddito dei

consumatori218. Occorre precisare però, che questa tendenza è riscontrabile solo

in relazione al mercato dei vini comuni mentre i Vini di Qualità Prodotti in

Regioni Determinate erano caratterizzati da un trend positivo219

217 H. Houthakker, An International Comparison of Household Expenditure Patterns, Commemorating

The Centenary of Engel’s Law, Ecometrica ,vol.25, 1957, pp.532-551.

. In questo senso

ha giocato un ruolo fondamentale l’evoluzione socio-economica dei consumatori.

Già dalla metà degli anni Sessanta si incominciava a notare un certo

cambiamento nei gusti della popolazione in fatto di bevande alcoliche, dovuto in

particolar modo ad una serie di alcuni fattori tra loro collegati come

l’attenuazione del livello di ruralità della popolazione stessa e il conseguente

218 T. Unwin, Storia del vino. Geografie, culture e miti dall’antichità ai giorni nostri, Donzelli, 2002 e A. Antanaros, La grande storia del vino. Tra mito e realtà, l’evoluzione della bevanda più antica del mondo, Edizioni Pendragon, 2006.

219 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

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aumento dell’urbanizzazione, la minor presenza di lavori pesanti e la diffusione

delle cosiddette professioni intellettuali che ritenevano il vino una bevanda non

necessaria al sostentamento umano ma un qualcosa avente una funzione

edonistica. Ad un simile cambiamento di gusti e di comportamenti i viticoltori

non seppero far fronte e, in conseguenza alla recente opera di ristrutturazione

iniziata all’inizio degli anni Settanta, avendo basato gli orientamenti produttivi

del settore su calcoli di mercato errati, andarono in contro ad una forte crisi. Ciò

ha innescato una serie di meccanismi per cui in breve tempo si assistette ad una

persistente sproporzione tra offerta, in continua crescita, e domanda220. A questo

punto ci si potrebbe interrogare sul perché gli operatori del settore ed in

particolare i produttori non seppero adeguarsi ai mutamenti in atto. Una prima

causa si può ravvisare nelle misure comunitarie relative ai prezzi del vino che

non consentivano ai produttori di aree marginali di uscire dal circuito di mercato,

una secondo motivo potrebbe risiedere nelle peculiarità della coltivazione

viticola, in cui gioca un ruolo importante il carattere poliennale, e non ultimo la

difficoltà di convertire gli impianti di recente ristrutturazione221. A tutto ciò si

deve aggiungere la febbrile attività di investimenti negli impianti con la vana

speranza, nel breve periodo, di un aumento dei prezzi. Questo comportò un

ulteriore squilibrio tra capitale fondiario e prezzi di mercato. Occorre notare, poi,

un fatto interessante: anche la condizione in cui versavano le produzioni di

pregio non era positiva, infatti, nonostante si incominciasse ad intravvedere una

certa autonomia nella domanda rispetto ai vini da tavola, la grande offerta di

questi ultimi riusciva ancora ad influenzare il prezzo dei primi 222

220 Occorre sottolineare che ad acuire questo stato di cose contribuirono alcune stagioni di raccolto

sovrabbondante.

. Tutto ciò

smentiva quanto auspicato dalla OCM che considerava il mercato dei vini di

pregio svincolato da quello dei vini comuni. In conclusione si può con certezza

221 E. Giorgi - I. Capecchi, Problemi vitivinicoli in Toscana, Tipografia Coppini, Firenze, 1977.

222 Il marketing del vino in Europa: consumi, canali, distributori e importatori, Nomisma, 2003. R. Polidori – D. Romano, Dinamica economica strutturale e sviluppo rurale endogeno; il caso del Chianti Classico, in “Rivista di Economia Agraria”, 52, 1997.

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affermare che le zone di pregio risentirono in modo più pesante del calo

repentino e persistente dei prezzi, in quanto in esse risultava maggiore lo

squilibrio tra i costi di produzione e i prezzi223. Per tutto il decennio l’esigenza di

una radicale riforma della Politica Agricola Comunitaria e con essa del settore

vitivinicolo fu accantonata, alcuni studiosi 224 ne fanno risalire le cause a due

eventi che hanno condizionato in maniera decisiva gli assetti economici

mondiali: la guerra del Kippur e la fine del gold standard. La prima ebbe come

conseguenza un innalzamento del prezzo del petrolio dovuto sia alla chiusura dei

Paesi dell’ Opec sia alle speculazioni attuate dalla grandi compagnie del petrolio

mentre la seconda introdusse il sistema dei cambi flessibili225. Entrambi questi

avvenimenti, andando ad incidere sulle dinamiche degli scambi agricoli

internazionali innescandone trend positivi offuscarono e fecero rimandare le

urgenti riforme strutturali che avrebbero dovuto riguardare il settore226

.

223 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune

di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

224 Ibidem.

225 Dal 1944 gli accordi di Bretton Woods avevano stabilito un sistema di regolazione degli scambi internazionali mediante la convertibilità del dollaro, valuta di riferimento, in oro secondo parametri ben stabiliti: 35 dollari per un’oncia d’oro. Nel 1971, dopo le vicende che videro protagonisti gli Stati Uniti nel Vietnam e che innescarono una ingente crescita della spesa pubblica, il sistema entrò in crisi e il presidente Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro in oro mettendo in moto un processo che di lì a poco avrebbe portato al definitivo abbandono del gold exchange standard. A questo proposito si vedano: R. Solomon, Il sistema monetario internazionale (1945-1981), Liguori, Napoli, 1984; D. Cavalieri, Teoria economica. Un’introduzione critica, Giuffrè, 2009; G. Sabattini, Moneta e finanziamento del sistema economico, Franco Angeli, 1999; J. Gold, Legal and Institutional Aspects of The International Monetary Sistem: Selected Essays, vol.2, International Monetary Fund, 1984.

226 G. Sapelli, Storia economica dell’Italia Contemporanea, Mondadori, 2008; E. Basile – C. Cecchi, Diritto all’Alimentazione Agricoltura e Sviluppo. Atti del XLI Convegno di studi (Roma, 18-20 settembre, 2004), Franco Angeli, 2006; M. Boggio, Agricolture e mercati in transizione. Atti del XLIII Convegno di studi (Assisi, 7-9 settembre, 2006), Franco angeli, 2008.

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2.7 LA REVISIONE DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNE

Riallacciandoci al discorso fatto nel paragrafo precedente, possiamo affermare

che la viticoltura, come del resto il settore primario in generale, non ha

beneficiato, nel decennio in questione, di radicali interventi strutturali. Infatti in

campo agricolo non si attuarono provvedimenti organici volti ad affrontare

razionalmente le distorsioni del sistema ma ci si limitò a fronteggiare le diverse

problematiche che di volta in volta si presentavano. Le principali misure si

articolarono in due filoni principali: il primo riguardava l’ottimizzazione degli

impianti produttivi e il secondo prevedeva il consolidamento dei sistemi di

mercato mettendo la distillazione al centro della gestione di questo.

Dall’obiettivo di ottimizzazione degli impianti scaturirono tre Regolamenti: il

Reg. (CEE) 1162/76 che prevedeva la modulazione delle capacità produttive ai

bisogni del mercato, il Reg. (CEE) 1163/76 che offriva delle indennità per

eliminare gli impianti vitivinicoli di qualità inferiori e il Reg. (CEE) 458/80 che

prevedeva facilitazioni creditizie per la ricostituzione di vigneti nell’ambito di

operazioni collettive227. Come abbiamo visto però, queste misure non risultarono

sufficienti ad affrontare la crisi che interessava sempre più in maniera incisiva il

settore vitivinicolo. Consapevoli della criticità della situazione, produttori, esperti

e rappresentanti delle istituzioni diedero vita ad accese discussioni in merito a tre

temi particolarmente sentiti alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta:

il primo tema riguardava la combinazione tra riduzione della spesa e sostegno

alle produzioni mediterranee, nell’ambito dei negoziati che alla fine del decennio

portarono all’ingresso di Spagna e Portogallo; il secondo tema aveva come

elemento centrale l’eventuale esaurimento delle risorse proprie; il terzo, in ordine

di tempo riguardava la posizione dell’Inghilterra nei riguardi del bilancio

CEE228

227 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune

di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

in quanto la politica sostenuta dal Regno Unito auspicava una riduzione

228 D. Beetham – S. Weir, Political Power and Democratic Control in Britain, Routledge, 2013.

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delle spese comunitarie nei confronti della Politica Agricola. L’atteggiamento

britannico risultava motivato dal fatto che il settore primario non godeva di

particolare rilevanza nel complesso dell’economia britannica incentrata perlopiù

sull’industria229. In questa sede si cercherà di esporre e valutare le soluzioni che

di volta in volta sono state presentate e si tenterà di cogliere i vantaggi e gli

svantaggi da esse derivanti. In questo contesto interessa esaminare le proposte

relative ai due prodotti caratterizzanti il settore agricolo regionale: l’olio e il vino

pertanto, si comincerà dalle proposte che, nel tentativo di sbloccare i negoziati di

adesione sulle questioni agricole, la Commissione aveva presentato al Consiglio;

proposte miranti ad aumentare l’incisività delle organizzazioni comuni di

mercato dell’olio d’oliva, del vino e degli ortaggi230. Per quanto riguarda l’olio di

oliva, la Commissione riteneva che, nell’ottica di preservare l’equilibrio tra

offerte e consumo anche dopo l’ingresso di Spagna e Portogallo, si manifestava

la necessità di avvicinare il prezzo di mercato dell’olio d’oliva a quello degli oli

da semi 231 . Il rapporto alla fine degli anni Settanta risultava 2,7:1 ma la

Commissione propose di abbassare il rapporto 2,0:1232. Per raggiungere questo

traguardo sarebbe stato opportuno innalzare ulteriormente il livello di

integrazione già accordato alla produzione e alla commercializzazione233

229 A questo proposito si veda il Rapporto CNEL sulla Politica Agricola Comune negli anni Ottanta,

Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Roma, 1986, p. 75 dove si legge “(..) ferma posizione dell’Inghilterra nella richiesta di rimborso-in palese contraddizione col principio della solidarietà finanziaria- del suo miliardo di sterline nel quadro del più generale rifiuto a tollerare in futuro il riprodursi di situazioni inaccettabili per i contribuenti inglesi, strutturali contributori netti del bilancio comunitario”.

. Come

si può ben comprendere, questa proposta, seppure sembrava adatta all’ulteriore

potenziamento di un’organizzazione comune di mercato quale quella dell’olio

230 C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, cit.

231 Per l’analisi delle dinamiche di mercato relative all’olio d’oliva e agli oli da semi si rimanda al paragrafo relativo all’analisi del settore olivicolo.

232 C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, cit., p.120.

233 Commissione CEE, Rapporto della Commissione delle comunità europee al Consiglio in esecuzione del mandato del 30 maggio 1980, in “Bollettino delle comunità europee”, suppl., 1/81.

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120

d’oliva che, come dimostra lo studio precedentemente accennato 234 , era “da

annoverare tra le organizzazioni volte ad assicurare il più elevato grado di

sostegno ai redditi dei produttori”235, incontrò molteplici obiezioni. Le principali

critiche, mosse dai Paesi non caratterizzati dall’agricoltura mediterranea, si

basavano su considerazioni di ordine pratico e su alcune previsioni relative alla

spesa comunitaria per il comparto olivicolo, infatti, per il 1981 era prevista una

quota di denaro pari a 600 milioni di ECU236

Per quanto riguarda il settore vitivinicolo, lo studio effettuato da Claudio

Guida per l’IRPET

che poteva anche raddoppiarsi dopo

l’ingresso dei Paesi Iberici e con l’adeguamento del prezzo dell’olio di oliva al

prezzo degli oli da semi.

237

riporta puntualmente le proposte di modifiche inerenti

l’organizzazione comune del settore:

Distillazione preventiva obbligatoria. Provvedimento volto a rimuovere dal

mercato, prima dell’avvio del processo di commercializzazione, le

eccedenze di vini da tavola. La ripartizione su base territoriale delle

percentuali da distillare avrebbe dovuto modularsi tenendo conto di vari

elementi quali rese, dei tipi di vino, e del valore alcalometrico. La

differenziazione avrebbe così consentito di far gravare le azioni di

alleggerimento del mercato soprattutto sui produttori delle zone a rese

elevate, principali responsabili delle eccedenze238

.

Divieto dell’uso del saccarosio e del mosto concentrato rettificato per

l’arricchimento dei vini.

234 Commissione CEE, Studio degli effetti regionali della politica agricola comune, serie “Politica

regionale”, 21, Bruxelles, 1981.

Queste due disposizioni avevano lo scopo, da una

parte, di diminuire le i surplus destinando una parte delle uve alla

produzione, appunto, del mosto rettificato, dall’altra, a equiparare “i costi di

235 C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, cit., p.120.

236 Ibidem.

237 Ibidem, pp.120-121

238 Ibidem.

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121

arricchimento dei vini italiani e del sud della Francia rispetto alle altre aree

vinicole della Comunità alle quali, la legislazione allora in vigore

consentiva il ricorso al saccarosio”239

La viticoltura toscana da sempre caratterizzata da grande qualità ed esigue rese

per ettaro sembra essere stata avvantaggiata da queste modifiche. Questo è

deducibile dal fatto che il riequilibrio del mercato mediante la distillazione

preventiva di vini da tavola prodotti in zone caratterizzati da sistemi di

coltivazione intensivi, ha consentito, per un certo lasso di tempo, di accostare i

prezzi di mercato al prezzo di orientamento fissato annualmente in sede CEE.

.

Nel rapporto di giugno del 1981, dopo che il Consiglio dei Ministri del 30

maggio 1980 aveva dato mandato 240, la Commissione ha affrontato anche la

questione relativa alla possibilità di una revisione della PAC. Alla Commissione

veniva affidato l’incarico di studiare le possibilità di risolvere in via permanente

il problema inglese di bilancio241 e di elaborare adeguate proposte in merito. Il

rapporto si sforzava di collocare le dinamiche aventi per oggetto il riassetto della

posizione di bilancio britannico in un’ottica di sviluppo volta a ribadire

l’importanza del processo di integrazione in cui la rimodulazione di alcuni punti

della PAC doveva procedere di pari passo al potenziamento di altre politiche , in

particolare della politica dell’energia e delle innovazioni tecnologiche, della

politica regionale, di quella sociale e dell’occupazione242

239 Ibidem.

. In merito alla politica

240 Con tale Mandato il Consiglio dei Ministri affidava alla Commissione il compito di riesaminare l’insieme delle politiche aventi effetti di bilancio, a tal proposito si veda B. Olivi, L’Europa difficile, Il Mulino, 1993, pp. 210-214.

241 Commissione CEE, Documento di base sulla situazione finanziaria, 1979; B. Olivi, L’Europa difficile, cit. e C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, cit.. Nei confronti del bilancio comunitario, erano due soli gli stati membri che denunciavano un saldo negativo: Il Regno Unito, in primo luogo, e la Repubblica federale. La Francia risultava in posizione di equilibrio e gli stati membri rimanenti registravano saldi attivi. Come si può ben vedere dalle cifre riportate da Guida nel 1980 è stato stimato per il Regno Unito un deficit di 1.800 milioni di ECU, per la Repubblica federale di 1.000 milioni di ECU. Il saldo attivo più rilevante in cifre assolute sarebbe stato quello dell’Italia, con poco meno di 750 milioni di ECU.

242 C. Guida, La Politica Agricola Comune nell’agricoltura toscana, cit.

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agricola comune si possono di seguito enunciare brevemente i punti salienti della

discussione:

• l’intervento comunitario doveva avere come scopo il graduale

avvicinamento dei livelli dei prezzi comuni a quelli praticati dai principali

Paesi concorrenti (Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, ecc.);

• necessità di mettere da parte il principio della garanzia di prezzo illimitata

per favorire una garanzia regolata in funzione di obiettivi di produzione

stabiliti a livello comunitario.

Seppur di notevole rilievo, le suddette proposte della Commissione, volte alla

risoluzione esclusiva delle questioni strettamente inerenti al contenimento della

spesa agricola, non si configuravano come risolutrici del cronico squilibrio

relativo alla distribuzione degli effetti della politica comunitaria sulle varie realtà

locali. Nonostante ciò, nel Rapporto si poteva scorgere una timida apertura verso

la questione legata al ritardo dello sviluppo dell’agricoltura mediterranea243

.

2.8 PROBLEMI APERTI

Da quanto detto emerge che i mutamenti che hanno caratterizzato la struttura

aziendale si riflettono in maniera chiara nei dati sull’occupazione che mostrano

una certa stabilità dei lavoratori indipendenti e una diminuzione di quelli 243 Cfr. Segretariato Generale del Consiglio delle Comunità europee, Ventunesimo sommario delle

attività del Consiglio 1° gennaio- 31 dicembre 1981, 1982, p. 182 in cui si legge: 16 ottobre 1981 la Commissione ha trasmesso al Consiglio una comunicazione relativa alle conseguenze dell’allargamento sulla situazione del mercato dell’olio d’oliva nella Comunità. Questa comunicazione è intesa a stabilire le grandi linee dei provvedimenti che permetterebbero di realizzare un migliore equilibrio tra la produzione ed il consumo di olio d’oliva nella Comunità, sia nella sua composizione attuale sia dopo l’adesione dei Paesi candidati. In quest’ordine di idee la Commissione considera il problema sotto due aspetti: 1) sotto l’aspetto interno, proponendo di adattare il regime di sostegno e in particolare di aumentare l’aiuto al consumo di olio d’oliva così da ridurre a 2:1 il rapporto tra il prezzo di questo prodotto e i prezzi degli oli da semi concorrenti, favorendo in tal modo il consumo di olio d’oliva; 2) sotto l’aspetto esterno, prevedendo contatti bilaterali e multilaterali da prendere in particolare con i Paesi fornitori di oli vegetali, nonché nel quadro del GATT, al fine soprattutto di evitare che con l’adesione della Spagna e del Portogallo vengano accordate dalla Comunità concessioni senza contropartita. Le istanze del Consiglio hanno avviato senza indugio l’esame della comunicazione surriferita al fine di permettere alla Commissione di formulare in uno stadio ulteriore le proposte formali necessarie in materia.

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dipendenti. Si riscontra, inoltre, una certa flessione negli investimenti delle nuove

piantagioni e l’aumento dell’irrigazione; per quanto riguarda le prime la

stabilizzazione e l’assestamento delle aziende di collina è andata di pari passo

con l’espansione delle coltivazioni legnose in pianura, mentre, per l’irrigazione

l’incremento degli investimenti non ha permesso di colmare il gap esistente tra

livello regionale e nazionale244

Uno studio molto interessante effettuato da M. De Benedictis, F. De Filippis e

A. Giannola

.

245 delinea chiaramente il quadro di crescita della Regione: qui si è

verificata una crescita e una distribuzione del peso dei singoli comparti rivolta

verso quelli meno dinamici. Si rileva, però, che questa componente, riveste un

peso, in valore assoluto, poco incisivo, dal momento che il differenziale

complessivo è attribuibile alla minore dinamicità della produzione regionale246.

La suddivisione in sottoperiodi effettuata dagli autori mostra in modo

inequivocabile che l’effetto globale di quanto sopra esposto si sia creato nel

periodo che va dal 1960 al 1965 quando la crisi mezzadrile raggiunge il suo apice

e non sono ancora attuate le ristrutturazioni aziendali che porteranno alla

sostituzione della vecchia organizzazione poderale e alle quali si deve il recupero

del periodo successivo, fino al 1970247

Utilizzando lo stesso sistema di analisi, l’IRPET

. 248

244 R. Cianferoni, Una politica per la collina, op. cit.

ha confrontato le

dinamiche regionali della produzione con quelle nazionali e i risultati ottenuti

sono i seguenti: “negli ultimi anni la Toscana ha presentato un tasso di crescita

245 M. De Benedictis - F. De Filippis - Giannola A., L’andamento della produzione vendibile agricola a livello regionale, in “Rivista di Economia Agraria”, 3/1980. Tale studio, condotto con una tecnica definita Shift and Share analysis, vuole misurare il differenziale di crescita della produzione vendibile regionale rispetto a quella nazionale e isolare la componente derivante dal diverso tasso di crescita che dei comparti e quella derivante dal peso che i singoli comparti hanno all’interno della produzione regionale rispetto ai pesi dell’aggregato nazionale. L’analisi, articolata in sottoperiodi, prende in esame il periodo 1954/1977 e si basa sui dati ISTAT.

246 Ibidem.

247 Ibidem.

248 G. Bianchi, L’agricoltura toscana tra crisi e ristrutturazione, cit.

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124

della produzione agricola vendibile inferiore a quello nazionale pur risultando

complessivamente favorita sul piano della specializzazione produttiva: l’effetto

strutturale è infatti positivo, mentre è, invece, negativo, e superiore in valore

assoluto l’effetto differenziale”249

In generali si può affermare che una vivace dinamicità si riscontra nelle

produzioni arboree e zootecniche. La posizione assunta dalle coltivazioni legnose

in merito alla loro specializzazione riporta ai dati che stimano il valore della

quantità di prodotto vendibile ma il punto fondamentale non risulta tanto questo

quanto la difficoltà di sbocchi mercantili molto sentita in tutta la Toscana ed in

particolare in zone come il Chianti che concorrono a specializzare la produzione

regionale

. Più significative risultano essere le differenze

fra i settori all’interno della Regione e fra il livello regionale e quello nazionale

in relazione a particolari produzioni. Da ciò emerge che la vocazione produttiva

toscana in alcuni settori specifici quali le colture olivicole e la zootecnia, molto

dinamici a livello nazionale, ha avuto un effetto particolarmente positivo, mentre

la specializzazione in produzioni complessivamente poco dinamiche ha ottenuto

effetti negativi.

250

.

249 Ibidem, p. 45.

250 R. Cianferoni, Produttività redditività e prospettive delle aziende agrarie della collina toscana, Regione Toscana -L.G.. Firenze, 1985.

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3. GLI ANNI OTTANTA NEL CONTESTO AGRICOLO TOSCANO

Sulla base di quanto esposto nel capitolo precedente, in questa sezione si

cercherà di analizzare le dinamiche che hanno caratterizzato il settore agricolo

della Toscana durante gli anni Ottanta concentrando l’attenzione su alcuni punti

in particolare quali: l’importanza rivestita dal settore nell’ambito dell’economia,

l’applicazione delle tecniche produttive, le caratteristiche assunte dal mercato

agricolo, le dinamiche legate alle superfici agrarie, al capitale e all’occupazione.

La comparazione dell’andamento di queste variabili con il trend dei decenni

precedenti ci permette di comprendere empiricamente l’evoluzione

dell’agricoltura regionale. Tutto ciò risulta particolarmente interessante perché,

dall’osservazione diretta dei dati, è possibile stabilire il grado di sviluppo e di

diffusione delle pratiche relative all’agricoltura industriale e le conseguenze da

esse derivanti..

3.1. PESO DEL SETTORE AGRICOLO NELL’ECONOMIA REGIONALE

Nello studio relativo alla politica agraria delle regioni italiane curato da Mario

Prestamburgo 251 sono riportati alcuni dati che mostrano come l’agricoltura

toscana durante gli anni Ottanta non attraversi un periodo di particolare

sviluppo, infatti “se a prezzi correnti il totale delle produzioni regionali è passato

dai 1.319 miliardi di lire del 1980 ai 2.346 miliardi del 1993, l’analisi condotta

sui valori a prezzi costanti (base 1985) porta ad un risultato di segno opposto:

confrontando le medie triennali ‘80/82 e ‘91/93 la produzione passa dai 2.260

miliardi dell’inizio del periodo ai 2.036 miliardi della fine con una perdita di

quasi il 10%”252

251 M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, cit.

. Quanto appena esposto risulta ancora più preoccupante se si

252 Ibidem, p. 290.

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considera il fatto che nello stesso lasso di tempo l’agricoltura nazionale vede un

incremento pari al 10,7% 253. Da tale stato di cose si evince come il settore

primario regionale abbia visto decrescere la sua importanza nel contesto agricolo

italiano passando dal 4,73 % del triennio ‘80/82 al 3,85% del triennio ‘91/93254.

Leggendo queste cifre si ha l’impressione che l’andamento agricolo regionale sia

completamente svincolato dal trend di crescita nazionale. Procedendo all’analisi

del dato medio a prezzi costanti disaggregata per comparti produttivi si nota, per

il triennio iniziale e quello finale, una evidentissima contrazione del peso delle

colture legnose che passano dal 27% al 23%255

. Questo andamento decrescente

ha visto un parziale rallentamento alla fine del decennio, infatti il 1985 si può

considerare come data spartiacque che fa intravvedere un seppur lieve recupero

tuttavia insufficiente a ripristinare i livelli raggiunti nel decennio precedente.

253 Ibidem. L’incremento dell’agricoltura nazionale è quantificabile in queste cifre: da 47.759 a 52.876

miliardi di lire a prezzi costanti).

254 Ibidem.

255 Ibidem.

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127

PLV TOSCANA A PREZZI COSTANTI. MEDIE TRIENNALI, NUMERI INDICE, PERCENTUALI SUL TOTALE NAZIONALE

Medie triennali Numeri indice Percentuali sul

totale nazionale

80/82 86/88 91/93 80/82 86/88 91/93 80/82 86/88 91/93

ERBACEE 821.616 1.093.80

8 918.478 100 133 112 5,19 5,88 4,70 Cereali 288.978 410.935 335.340 100 142 116 5,94 7,16 5,44 Legumi secchi 2.647 2.491 3.749 100 94 142 2,03 1,75 2,87 Patate 27.989 24.302 22.108 100 87 79 3,36 3,16 3,03 Ortaggi 256.452 247.431 206.508 100 96 81 3,78 3,58 2,90 Industriali 89.554 144.618 131.557 100 161 147 5,16 5,29 4,89 Fiori e piante 157.547 259.815 219.216 100 165 139 10,65 11,76 8,13 FORAG. GERE 4.760 5.803 5.502 100 122 116 3,70 4,14 4,01 LEGNOSE 610.689 451.257 469.306 100 74 77 4,91 3,65 3,59 Prodotti vitivinicoli 321.175 241.287 196.262 100 75 61 7,29 5,66 5,05 Prodotti dell’olivicoltura 80.978 29.051 72.286 100 36 89 3,43 1,46 2,97 Frutta 60.190 42.724 53.504 100 71 89 1,63 1,09 1,19 Altre legnose 148.345 138.195 147.254 100 93 99 7,49 6,30 6,46 ALLEVA. MENTI 822.902 717.242 643.011 100 87 78 4,25 3,64 3,20 Carni 653.271 557.594 495.514 100 85 76 5,16 4,34 3,79 Latte 128.841 119.653 103.233 100 93 80 2,37 2,13 1,83 Uova 38.490 35.749 39.428 100 93 102 3,18 2,95 3,01 Altri prodotti 2.300 4.245 4.835 100 185 210 4,82 7,24 7,04

TOTALE 2.259.96

6 2.268.11

0 2.036.29

7 100 100 90 4,73 4,46 3,85

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

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DESTINAZIONE DELLA SUPERFICIE AGRICOLA UTILIZZATA AI CENSIMENTI. TOSCANA - VALORI ASSOLUTI, RIPARTIZIONI E VARIAZIONI PERCENTUALI

Ettari Ripartizione Variazione 1990 1982 1970 1990 1982 1970 90/82 82/70 SEMINATIVI 570.420,24 589.504,46 580.379,57 32,10 31,60 29,20 -3,24 1,57 Cereali 277.430,97 351.394,13 303.277,21 15,60 18,90 15,30 -21,05 15,87 frumento 169.770,57 208.094,42 216.406,77 9,60 11,20 10,90 -18,42 -3,84 granoturco 38.473,59 63.750,12 38.087,04 2,20 3,40 1,90 -39,65 67,38 Patata 1.504,64 2.413,26 4.874,89 0,10 0,10 0,20 -37,65 -50,50 Barbabietola da zucchero 8.058,43 6.702,24 6.175,20 0,50 0,40 0,30 20,23 8,53

Piante industriali 53.328,13 24.442,68 5.460,40 3,00 1,30 0,30 118,1

8 347,64 Ortive 13.298,74 13.697,12 11.780,74 0,70 0,70 0,60 -2,91 16,27 Foraggere avvicendate 130.754,30 150.196,70 168.990,54 7,40 8,10 8,50 -12,94 -11,12 COLTIVAZIONI LEGNOSE AGRARIE 171.723,98 194.962,08 222.236,29 9,70 10,50 11,20 -11,92 -12,27 Vite 70.755,31 90.068,62 120.768,37 4,00 4,80 6,10 -21,44 -25,42 per vini DOC e DOCG 28.622,64 37.811,19 120.100,54 1,60 2,00 6,00 -24,30 -68,52 per altri vini 41.884,17 51.651,66 - 2,40 2,80 - -18,91 - per uva da tavola 203,32 516,02 667,83 - - - -60,60 -22,73 Olivo 88.827,10 94.981,10 93.442,81 5,00 5,10 4,70 -6,48 1,65 Agrumi 39,86 23,48 17,69 - - - 69,76 32,73 Fruttiferi 7.726,48 6.702,63 5.248,06 0,40 0,40 0,30 15,28 27,72 PRATI PERMANENTI E PASCOLI 164.205,52 170.458,42 216.985,53 9,20 9,10 10,90 -3,67 -21,44 CASTAGNETI DA FRUTTO 21.218,67 35.256,86 31.180,43 1,20 1,90 1,60 -39,82 13,07 SUPERFICIE AGRICOLA UTILIZZATA 927.568,41 990.181,82 1.055.489,06 52,20 53,10 53,20 -6,32 -6,19 PIOPPETE 3.687,02 3.375,91 1.088,06 0,20 0,20 0,10 9,22 210,27 BOSCHI 703.112,01 729.225,24 755.069,74 39,60 39,10 38,00 -3,58 -3,42 SUP. AGRICOLA NON UTILIZZATA 79.907,43 68.042,55 92.184,68 4,50 3,70 4,60 17,44 -26,19 ALTRA SUPERFICIE 62.288,61 72.807,03 81.489,60 3,50 3,90 4,10 -14,45 -10,65 SUPERFICIE TOTALE 1.776.563,48 1.863.632,55 1.985.321,14 100,00 100,00 100,00 -4,67 -6,13 Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001

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CAPI ALLEVATI AI CENSIMENTI SECONDO LE PRINCIPALI SPECIE DI BESTIAME. TOSCANA - VALORI ASSOLUTI E VARIAZIONE PERCENTUALE

Capi allevati Variazione 1990 1982 1970 90/82 82/70 BOVINI E BUFALINI 150.230 202.124 318.773 -25,67 -36,59 vacche da latte 32.893 36.794 60.839 -10,60 -39,52 OVINI 717.534 583.232 489.233 23,03 19,21 pecore 619.557 505.036 461.914 22,68 9,34 CAPRINI 33.311 30.987 6.998 7,50 342,80 capre 29.255 25.789 6.661 13,44 287,16 EQUINI 23.064 18.912 14.892 21,95 26,99 SUINI 292.785 424.797 520.049 -31,08 -18,32 scrofe 23.868 35.395 76.783 -32,57 -53,90 CONIGLI 1.464.581 1.404.954 8.788.890 4,24 -84,01 fattrici 176.406 274.839 - -35,81 - ALLEVAMENTI AVICOLI 5.248.025 4.569.700 5.729.639 14,84 -20,24 polli da carne 2.488.368 2.591.755 2.828.503 -3,99 -8,37 galline da uova 1.803.812 1.496.061 1.966.296 20,57 -23,91

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Le origini di tale fenomeno possono avere una duplice natura: una di carattere

contingente e l’altra riconducibile sia alla componente strutturale che a quella

concorrenziale del settore256

256 Cfr. D. Ciaccia – G. Perrella, Aspetti contabili e metodologici dell’attuale stima degli investimenti in

agricoltura, in “Quaderni di ricerca”, vol.7/93, Istat, Roma. Per componente strutturale si intende la porzione di crescita legata alle peculiarità settoriali regionali mentre la componente concorrenziale fa riferimento al differenziale di crescita presente nei vari settori in relazione al corrispondente settore nazionale.

. La causa contingente può essere ravvisabile nella

gelata che colpì le piantagioni nel 1985 e che ebbe effetti gravi soprattutto nelle

produzioni olivicole; le motivazioni di carattere strutturale devono essere

ricercate invece, nei provvedimenti comunitari dei primi anni Ottanta volti alla

fissazione delle quote fisiche di produzione che ebbero pesanti ripercussioni nella

olivicoltura regionale. In Toscana il settore primario possiede una componente

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strutturale positiva che è però contrastata da una componente concorrenziale

decisamente negativa257

.

COMPOSIZIONE DELLO SLITTAMENTO TOTALE NELLA CRESCITA DELLA PLV TOSCANA - VALORI ASSOLUTI IN MILIONI DI LIRE E PERCENTUALI SULLA PLV INIZIALE

Componente strutturale Componente

concorrenziale

mil. di lire % mil. di lire % Cereali 45.251 2 -35.880 -1,59 Legumi secchi -224 -0,01 1.010 0,04 Patate -5.867 -0,26 -2.594 -0,11 Ortaggi -12.541 -0,55 -62.169 -2,75 Industriali 45.283 2 -16.270 -0,72 Fiori e piante 105.894 4,68 -63.818 -2,82 Foraggere -327 -0,01 488 0,02 Prodotti vitivinicoli -57.361 -2,54 -92.744 -4,1 Prodotti dell’olivicoltura 2.474 0,11 -16.882 -0,75 Frutta 3.988 0,18 -15.734 -0,7 Altre legnose 8.428 0,37 -22.961 -1,02 Carni -38.640 -1,71 -177.652 -7,86 Latte -7.634 -0,34 -30.541 -1,35 Uova -809 -0,04 -2.056 -0,09 Altri prodotti 2.204 0,1 -366 -0,02 ERBACEE 177.468 7,85 -179.232 -7,93 LEGNOSE -42.471 -1,88 -148.320 -6,56 ALLEVAMENTI -44.879 -1,98 -210.616 -9,31 TOTALE 90.118 3,98 -538.168 -23,8 SLITTAMENTO TOTALE -448.050 -19,81

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Questi dati testimoniano il fatto che la regione sia caratterizzata da condizioni

svantaggiose per la crescita ma da una inclinazione produttiva che avrebbe potuto

portare a risultati economici soddisfacenti. Tuttavia occorre rilevare che, nel

corso degli anni Ottanta, in Toscana nessuna tipologia di prodotti fa registrare 257 A questo proposito si veda M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit., p.295,

in cui sono riportati dettagliatamente i dati riferiti a questo fenomeno: la componente strutturale si attesta su valori positivi pari al 3,98% mentre la componente concorrenziale assume valori negativi pari a 23,80%.

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andamenti positivi relativi alla componente concorrenziale. I dati che seguono,

relativi al peso dei tre grandi comparti produttivi (produzioni erbacee, arboree e

allevamento) confermano il fatto che nel periodo in esame l’unico contributo

rilevante è dato dalle produzioni erbacee ed in particolare dai cereali e dalle

colture industriali, mentre le coltivazioni arboree non offrono contributi

significativi per la crescita delle settore primario regionale.

INDICE DELLE PRODUZIONI A PREZZI COSTANTI CON RIFERIMENTO ALLE MEDIE TRIENNALI

1980/82 E 1991/93

1980/82 1991/93

ERBACEE 0,049 0,103

FORAGGERE -0,128 0,021

LEGNOSE 0,019 -0,037

ALLEVAMENTI -0,056 -0,096

Cereali 0,119 0,179

Legumi secchi -0,412 -0,151

Ortaggi -0,117 -0,147

Industriali 0,046 0,124

Fiori e piante 0,412 0,377

Prodotti vitivinicoli 0,226 0,141

Prodotti dell’olivicoltura -0,165 -0,133

Frutta -0,501 -0,537

Carni 0,045 -0,009

Latte -0,343 -0,365

Uova -0,203 -0,127

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

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Questi dati assumono un’importanza particolare se confrontati con quelli

relativi al ventennio 1960/1980. Infatti si nota come in questo periodo,

contrariamente a quanto si verifica nel lasso di tempo successivo, il fattore

concorrenziale abbia assunto valori positivi per le produzioni vitivinicole,

lattiero-casearie, dei fiori e delle colture industriali258. Provando a ricercare le

cause di tale fenomeno non si può non tener conto delle decisioni comunitarie

inerenti il settore vitivinicolo che hanno caratterizzato i primi anni Ottanta. I dati

prima citati, messi in relazione con le principali direttive europee, soprattutto

quelle emanate nel vertice di Dublino, ci permettono di effettuare delle

considerazioni relative alle ripercussioni che queste ultime hanno avuto

nell’ambito dell’agricoltura regionale ed in particolar modo nelle produzioni

vitivinicole. Per meglio percepire le reazioni che le misure comunitarie hanno

generato nel contesto locale si è analizzato il dibattito generatosi all’interno della

III Conferenza Regionale dell’Agricoltura tenutasi a Firenze nel gennaio del

1985 in cui l’assessore regionale all’agricoltura Emo Bonifazi 259 nel suo

intervento di apertura manifesta forti perplessità circa l’applicabilità

all’agricoltura regionale delle proposte avanzate al vertice di Dublino 260

258 G. Bianchi – M. Morandi, L’evoluzione recente dell’agricoltura toscana, in IRPET, Agricoltura

Toscana e Sviluppo Economico Regionale. Atti della conferenza scientifica sull’agricoltura toscana, Le Monnier, Firenze, 1981.

259 Alcune brevi notizie sulla figura di Bonifazi sono state riprese da www.regione.toscana.it nella sezione dedicata all’archivio del Consiglio Regionale, Emo Bonifazi (Pienza, 1925-Siena ,2013) è stato dirigente e poi segretario provinciale del P.C.I. Di Grosseto, componente della sezione agraria della direzione nazionale del P.C.I., membro della segreteria nazionale dell’Alleanza Contadini, fondatore dell’Associazione Regionale Contadini della Toscana di cui ha ricoperto l’incarico di presidente dal 1965 al 1978, è stato eletto deputato al Parlamento per tre legislature (1968-1979) e ha fatto parte della commissione Agricoltura della Camera e della commissione Interparlamentare per la elaborazione dei decreti di trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Per informazioni più dettagliate relative alla biografia di Bonifazi si rimanda a www.storia.camera.it

260 Nel vertice di Dublino svoltosi nel dicembre del 1984 vengono adottate due decisioni fondamentali per le sorti del settore vitivinicolo: con la prima si fa strada la convinzione che la riduzione del potenziale produttivo vinicolo sia un elemento essenziale della riforma dell’organizzazione del mercato vitivinicolo; la seconda afferma che nel contesto di una azione diretta a migliorare la struttura del settore vitivinicolo, saranno finanziati in base al regolamento 355/77 esclusivamente gli investimenti volti a migliorare la qualità dei vini senza la quantità e, entro il 31.1.1985 sarà adottato un regolamento per migliorare la struttura dei vigneti greci e l’industria vinicola greca per una superficie di 20.000 ettari. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a www.european-council.europa.eu/media/849400/1984.

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affermando: “L’accordo di Dublino per la produzione e la distillazione

obbligatoria del vino da tavola equivale, bisogna dirlo senza ambiguità alcuna,

alla fissazione della quota fisica; lo sconquasso che provocherebbe nella nostra

regione è facilmente prevedibile se non riusciremo unitariamente a farvi fronte

sul piano politico e su quello operativo. Ma come abbiamo sostenuto in molte

occasioni, le quote fisiche non sono pericolose e vessatorie solo per l’immediato;

esse rappresentano un intervento che avrà conseguenze di lungo periodo e che

renderà assai difficile la ristrutturazione dell’agricoltura italiana. Infatti, quando

le quote si sono calate nella realtà nazionale, hanno incontrato condizioni

storiche consolidate sia per la parte produttiva che per la collocazione delle

industrie di trasformazione; così è stato per la bietola, così per il latte, così per il

pomodoro e le scelte hanno seguito il criterio, sia pure con qualche

condizionamento, delle vocazioni storiche. Ne è risultato un ingabbiamento

strutturale dell’agricoltura, un indebolimento delle vocazioni produttive e quindi

della competitività, una mortificazione di grandi potenzialità, in Toscana

particolarmente” 261

261 AA.VV., Atti della III Conferenza Regionale dell’Agricoltura, Firenze 16-18 gennaio 1985,

Regione Toscana Giunta Regionale, intervento di presentazione dell’assessore regionale all’agricoltura Emo Bonifazi.

. Bonifazi continua il suo intervento con delle lucide

argomentazioni che lo portano ad accusare la Comunità Economica Europea di

condurre una politica agricola volta a privilegiare un certo tipo di produzioni

penalizzando quelle mediterranee, infatti dichiara: “Il Copa ha calcolato, come a

tutti è noto, una perdita del 40% dei redditi agricoli nel prossimo quinquennio,

con le conseguenze che è facile immaginare, soprattutto se si tiene conto che la

spesa di mercato della Cee ha favorito prevalentemente i cereali ed i prodotti

zootecnici e lattiero caseari. I fatti vogliono, inoltre, che proprio taluni di questi

settori siano privilegiati dall’andamento dei mercati e dalle modifiche nei gusti

dei consumatori; il consumo di carne nella Cee, ad esempio è passato da 50 ad 80

Kg pro capite, provocando un duplice beneficio per i paesi esportatori. Inoltre la

fissazione delle quote fisiche cui già si è accennato e talune supertasse, non solo

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limitano le produzioni mediterranee o esasperano la superiorità di altre

agricolture, ma, non essendo state precedute da misure di ristrutturazione e di

rinnovamento, coglieranno l’Italia e la Toscana in una fase particolarmente

difficile per l’agricoltura; d’altro canto tutto ciò alimenta la tendenza costante

della Pac a privilegiare le coltivazioni estensive rispetto a quelle intensive e

quindi la proprietà fondiaria rispetto al lavoro. Questo insieme di azioni fa dire

alla Coldiretti, nella sua proposta per il piano agricolo nazionale che gli

inconvenienti della PAC sono collegati alla iniqua redistribuzione dei vantaggi

fra le regioni della Comunità”262. Le parole di Bonifazi trovano conferma nella

bassa incidenza dell’agricoltura regionale, costituita prevalentemente dalle

produzioni di vino e olio, sull’economia complessiva263

.

3.2 LA FORZA LAVORO

Strettamente legato alle modificazioni intervenute nei vari comparti agricoli

nel periodo in esame è il fattore forza-lavoro. Le indagini relative alle forze-

lavoro calcolano l’offerta di lavoro contando l’insieme dei lavoratori associandoli

al settore in cui esercitano la loro professione principale. Basandosi su questi

calcoli risulta particolarmente evidente l’andamento negativo che investe

l’occupazione agricola regionale rispetto a quella nazionale, dal momento che le

cifre calcolate per il periodo ’80/’90 mettono in luce il fatto che il settore

primario ha espulso il 41% della forza-lavoro264

.

262 AA.VV., Atti della III Conferenza Regionale dell’Agricoltura, cit., intervento di apertura

dell’assessore regionale all’agricoltura Emo Bonifazi.

263 A tal riguardo si veda M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit, in cui sono riportati i seguenti dati: il contributo del settore agricolo in termini di Valore Aggiunto al costo dei fattori passa infatti dal 3,4% del 1980 al 2,8% del 1990 se misurato a prezzi costanti

264 M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

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Se invece si analizzano i risultati ottenuti mediante il calcolo di unità di lavoro

la discrepanza esistente tra il trend occupazionale dell’agricoltura toscana e

quello nazionale diminuisce sensibilmente e l’andamento negativo regionale si

attesta intorno al -25%265. Nonostante queste precisazioni inerenti le metodologie

utilizzate per stimare l’evoluzione occupazionale in agricoltura bisogna

comunque constatare che la terra ha espulso lavoratori con un una velocità di

gran lunga maggiore della caduta del valore aggiunto266

265 Il Sistema europeo dei conti economici afferma che il calcolo dell’occupazione interna debba tenere

conto dell’insieme dei lavoratori siano essi dipendenti che indipendenti che abbiano una occupazione nel settore produttivo. Il calcolo del numero medio di occupati in lasso di tempo definito deve dare conto del lavoro realmente svolto, perciò è stata utilizzata la nozione di unità di lavoro. I calcoli effettuati tenendo conto il concetto di unità di lavoro prendono in considerazioni variabili quali: il lavoro domestico, il lavoro nero, il lavoro prestato da stranieri e il doppio lavoro. A questo proposito oltre agli studi di Prestamburgo si vedano anche: Ministero dell’Economia e delle Finanze-Dipartimento del Tesoro-Direzione I Analisi Economica e Finanziaria, Quaderno strutturale dell’economia italiana. I principali indicatori macroeconomici del 1970 al 2000, Roma, 2001 e Istat, La misura dell’occupazione non regolare nelle stime di contabilità nazionale. Anni 1980-2010, Roma, 2011.

. Il fatto che l’Istat si basi

266 E. Arcuri, Analisi shift and share dei divari regionali nella crescita della produzione agricola (1980-1992) in Tartaglia A. (a cura di), Atti del seminario di studi su strutture e redditi delle aziende agricole, Arti Grafiche La Regione, Campobasso, 1994; M. Baragani – C. Magni - M. Mellano,

DINAMICA DELL’OCCUPAZIONE (OCCUPATI SECONDO L’INDAGINE SULLE FORZE DI LAVORO) (MIGLIAIA DI OCCUPATI)

Toscana Toscana Anni Indipend. Dipend. Totale Anni Indipend. Dipend. Totale

1980 90 41 131 1980 69% 31% 100% 1990 46 31 77 1990 60% 40% 100%

80/90 -49% -24% -41% Italia Italia Anni Indipend. Dipend. Totale Anni Indipend. Dipend. Totale

1980 1.811 1.088 2.899 1980 62% 38% 100% 1990 1.104 791 1.895 1990 58% 42% 100%

80/90 -39% -27% -35%

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

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sui dati disaggregati a carattere regionale al fine di calcolare le unità di lavoro

consente di cogliere dettagliatamente sia le dinamiche del lavoro, facendo una

differenziazione tra lavoro dipendente e indipendente, sia la rilevanza assunta

dall’occupazione part-time e occasionale all’interno del settore agricolo toscano.

Infatti, operando una distinzione tra lavoro dipendente e non, si rileva una

moderata crescita di lavoro dipendente. La tabella che segue mette in evidenza la

differenza del rapporto lavoro dipendente/lavoro totale facendo riferimento al

1982 e al 1990: si passa dal 18% del 1982 al 17% del 1980267

; tutto ciò fa

supporre che all’interno sia delle grandi aziende capitalistiche sia di quelle a

conduzione familiare si verifichino le medesime dinamiche occupazionali.

DINAMICA DELLA DOMANDA DI LAVORO (GIORNATE DI LAVORO IMPIEGATE NELLE AZ. AGRICOLE) (MIGLIAIA DI GIORNATE)

Toscana Toscana Anni Familiari Dipend. Totale Anni Familiari Dipend. Totale

1982 30.177 6.625 36.802 1982 82% 18% 100% 1990 20.315 4.193 24.508 1990 83% 17% 100%

82/90 -33% -37% -33% Italia Italia

Anni Familiari Dipend. Totale Anni Familiari Dipend. Totale

1982 507.561 101.256 608.817 1982 83% 17% 100% 1990 381.327 79.200 460.526 1990 83% 17% 100%

82/90 -25% -22% -24%

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001

Andando nel dettaglio e confrontando queste cifre con quelle relative al

decennio precedente si nota una inversione di tendenza infatti, durate gli anni

Specializzazione produttiva e differenziazioni regionali nell’agricoltura italiana: un metodo di valutazione, in “Rivista di economia agraria” n. 4, 1986.

267 M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit., p.298.

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Settanta si è assistito ad un incremento dell’occupazione indipendente268. Questi

dati sembrano essere in contraddizione con il fenomeno di contrazione delle

superfici facenti parte di aziende con salariati ma a ben vedere tale

contraddizione si dimostra soltanto apparente in quanto le proprietà gestite da

coltivatori diretti inglobano situazioni molto variegate rispetto al contributo del

lavoro salariato. Inoltre, facendo la somma delle aree occupate dalle imprese

condotte da coltivatore diretto con l’ausilio di manodopera extrafamiliare con

quelle occupate da aziende condotte con lavoro salariato ne risulta una incidenza

del 48% nel 1982 e del 45% nel 1990269

Un discorso a parte va riservato al fenomeno del part-time che, seppur inserito

all’interno delle dinamiche relative al settore agricolo, non può costituire un

elemento rilevante nell’ambito aziendale. Nonostante ciò esso assume un ruolo

significativo se lo si considera in termini sociali ed economici indiretti.

Innanzitutto occorre operare una chiara definizione di part-time, dal momento

che, come fa notare Luigi Alfonso Giancani

.

270, ve ne esistono di molteplici che

portano a valutazioni non comparabili. Tale fenomeno assume differenti

peculiarità in base alle Regioni in cui si verifica e al tipo di sviluppo economico

in esse presente. Il part-time si configura come adeguamento passivo alle

problematiche interne alla famiglia nelle aree marginali a cui si associano

fenomeni di pendolarismo e di integrazione di redditto mediante ingenti

trasferimenti sociali271

268 A tal proposito si vedano: M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.; G.

Bianchi – M. Morandi, L’evoluzione recente dell’agricoltura toscana in Irpet, Agricoltura Toscana e Sviluppo Economico Regionale. Atti della conferenza scientifica sull’agricoltura toscana, Le Monnier, Firenze, 1988.

, mentre nelle aree più sviluppate e industrializzate, come

del resto accade in molti comuni toscani, costituisce una tipologia consolidata di

integrazione tra agricoltura e industria in cui agiscono sia imprese ben inserite

269 M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

270 L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, in R. Cianferoni - F. Mancini (a cura di), La collina nell’economia e nel paesaggio della Toscana, Accademia dei Georgofili, 1993.

271 Ibidem.

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138

nel mercato capaci di conseguire alti profitti sia piccole aziende che hanno per

scopo l’autoconsumo o specializzate in particolari produzioni come vino e

olio272. Lo studio del fenomeno prende il via dalla presa di coscienza del fatto

che negli anni Ottanta ormai il part-time diviene un processo diffuso in cui il

nucleo familiare contadino fa fronte alla graduale perdita dei redditi agricoli

mediante impieghi presso altre aziende agricole o addirittura in altri settori

produttivi. Gli studi che in questa sede sono stati utilizzati273 per l’osservazione

delle dinamiche relative al part-time hanno come obiettivo di indagine

l’atteggiamento della famiglia nei confronti dell’azienda e la propensione ad

incrementare il reddito ed “alla marginalità del flusso economico aziendale

all’interno del bilancio familiare” 274 . Tali analisi si sono focalizzate sulla

famiglia, identificando il tempo parziale con il risultato del processo di

mutamento che ha coinvolto il nucleo familiare, in cui il tradizionale equilibrio

famiglia-azienda è stato minato dal rapido mutamento economico

contemporaneo. Corrado Giacomini nel suo saggio sulla politica agraria e le

famiglie agricole a redditi misti275

272 Ibidem.

rileva che “nelle imprese familiari il rapporto

tra famiglia e azienda, sotto le sollecitazioni del mercato del lavoro privilegia la

famiglia, rispetto alla quale l’impresa agricola è solo una delle componenti della

sua strategia volta a migliorare le condizioni di vita attraverso la gestione di tutte

273 P. Lacombe, Place de la pluriactivité des agriculteurs dans la dinamique des structures agraires en France, in “International Seminar on mixed households”, Ljublijana, 1981; P. Lacombe, Agricoltori part-time e adattamento delle strutture agricole alla pluriattività, in “La Questione Agraria”, n.7, 1987; M.G. Eboli – E. Turri, Verso un modello interpretativo della pluriattività nelle famiglie-aziende coltivatrici, in “Rivista di Economia Agraria”, n.2, 1989; C. Giacomini, Politica agraria e famiglie agricole a redditi misti, in “La Questione Agraria”, n.12, 1983; P. Calza Bini – M. Ghersevich – A. Mariani, La famiglia azienda in agricoltura: part-time, doppio lavoro e lavoro informale, in P. Guidicini – C. Catelli (a cura di), Sociologia rurale. Quale futuro?, Franco Angeli, Milano, 1983.

274 P. Calza Bini - M. Ghersevich – A. Mariani, La famiglia azienda in agricoltura: part-time, doppio lavoro e lavoro informale, cit., p. 99.

275 C. Giacomini, Politica agraria e famiglie agricole a redditi misti, cit.

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139

le risorse economiche ed umane di cui dispone”276. Secondo quanto appena detto

il nucleo familiare si caratterizza come un corpo flessibile adattabile alle

modificazioni economiche. Oltre allo studio di Giacomini possiamo citare quello

effettuato da Paolo Calza Bini insieme a Marco Ghersevich e Assunta Mariani277

in cui sono descritte molto bene le funzioni, via via differenti, che l’azienda

riveste nel rapporto con la famiglia. Gli autori riconducono a tre tipologie le

relazioni azienda-famiglia: il primo tipo è costituito da aziende con un ruolo

centrale intorno al quale è possibile riscontrare anche altri tipi di attività ma che

comunque rimangono subordinati rispetto alla gestione aziendale; nel secondo

caso la famiglia e l’azienda assumono valenza paritetica e dunque si cerca di

adattare gli ordinamenti colturali con le necessità occupazionali della famiglia,

nel terzo caso rientrano tutte quelle situazioni in cui l’azienda riveste un ruolo

marginale e il lavoro agricolo è gestito con obiettivi che esulano dal mero

contesto economico. Queste tre categorie possono rappresentare sia differenti

modelli di relazione tra azienda e famiglia sia diversi tipologie di adattamento

della famiglia a mutamenti economici più generali. In quest’ultimo caso il nucleo

familiare si cimenta in nuove attività e, se queste si dimostrano in grado di

contribuire in modo soddisfacente ad un incremento di reddito, le perfeziona fino

a farle diventare attività principali, relegando in questo modo l’azienda agricola

ad un ruolo secondario. Tutto ciò però, come dimostrano gli studi citati, non

preclude la possibilità di rivitalizzare l’azienda agricola al mutare di particolari

situazioni quali perdita di impieghi extragricoli e pensionamento dei membri

familiari. Giancani nell’analizzare le dinamiche famiglia-aziende ha considerato

come part-time “quelle aziende nelle quali uno o più membri della famiglia

dichiarano di lavorare prevalentemente fuori dell’azienda agricola familiare”278

276 Ibidem; a tal riguardo si veda anche L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo

libero, cit.

.

277 P. Calza Bini – M. Ghersevich – A. Mariani, La famiglia azienda in agricoltura: part-time, doppio lavoro e lavoro informale, cit.

278 L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, cit.

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140

Come sottolinea lo stesso autore tale definizione riprende pur con qualche

differenza la definizione formulata dal Centre for European Agricultural

Studies 279 e la applica allo studio delle realtà aziendali presenti sul territorio

regionale. L’indagine di Giancani risulta interessante per il fatto che prende in

considerazione prospettive sociali, molto spesso trascurati o considerati di

secondaria importanza che molto spesso sfuggono ai dati statistici. La ricerca ha

preso in esame le aziende di tre comuni toscani: Anghiari, Monte San Savino e

Vinci e, utilizzando il Censimento dell’Agricoltura del 1990, Giancani ha potuto

reperire utili informazioni relative non soltanto alle aziende, alle forme di

conduzione e alle ripartizioni colturali ma anche alla composizione del nucleo

familiare contadino in base all’età e all’occupazione 280

. I dati riportati nelle

tabelle che seguono mettono il luce non solo il fatto che negli anni Ottanta il part-

time si è affermato ormai come un fenomeno diffuso ma anche il progressivo

invecchiamento degli occupati.

279 La differenza consiste nel fatto che come afferma Giancani in L.A. Giancani, L’agricoltura del

mezzo tempo e del tempo libero, cit., p.100 il Centre for European Agricultural Studies “restringe ai settori non agricoli il lavoro esterno dei componenti familiari; essi sono quindi definiti esclusivi quando lavorano esclusivamente in azienda, alternanti se lavorano anche fuori, ospiti quando non prestano attività lavorativa”. A tal proposito si vedano Centre for European Agricultural studies, Part-time farming: its nature and implications, Ashford, Kent, 1977 e A.M. Fuller, From part-time farming to pluriactivity: a decade of change in Rural Europe, in “Journal of Rural Studies”, n.4, Elsevier Ltd, 1990, pp. 361-373.

280 L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, cit.

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141

INVECCHIAMENTO E PART-TIME DEL CONDUTTORE

Voci Anghiari Monte San Savino Vinci

Con oltre 55 anni 46% 56% 57%

Con attività

extragricola

prevalente

Part-time del

conduttore

1982 27% 43% 25%

1990 36% 40% 24%

Fonte: L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, in R. Cianferoni – F.

Mancini (a cura di), La collina nell’economia e nel paesaggio della Toscana, Accademia dei

Georgofili, 1993.

NUMERO MEDIO DEI COMPONENTI FAMILIARI

Voci Anghiari Monte San Savino Vinci

Media famiglie 3,4 3,2 3,3

Professionali 2,6 1,9 2,5

Pluriattive 3,8 3,9 3,7

Componenti il nucleo

familiare con oltre 55

anni di età:

professionali 58% 83% 64%

pluriattive 27% 30% 35%

Fonte: L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, in R. Cianferoni – F.

Mancini (a cura di), La collina nell’economia e nel paesaggio della Toscana, Accademia dei

Georgofili, 1993.

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142

FAMIGLIE DI SOLI ANZIANI

Voci Anghiari Monte San Savino Vinci

Tutti oltre 65 anni:

Numero famiglie 8 16 9

SAU 5 11 4

Tutti oltre 55 anni:

Numero famiglie 22 31 18

SAU 16 26 10

Fonte: L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, in R. Cianferoni – F.

Mancini (a cura di), La collina nell’economia e nel paesaggio della Toscana, Accademia dei

Georgofili, 1993.

Come sottolinea l’autore “nei tre comuni osserviamo così oggi un’agricoltura

con 3-4 ha per addetto e questo rapporto salirà, per semplice effetto demografico,

a 5-6 ha in dieci anni, con un 50-70% di incremento della superficie coltivata per

addetto. Questo processo, che potrebbe essere considerato positivo in quanto in

linea con l’agricoltura moderna, non sarà privo di problematiche sociali e di

riflessi sulla coltivazione dei terreni e sul paesaggio agrario a causa

dell’articolata distribuzione nelle famiglie-aziende e dei vincoli imposti

all’ampliamento delle superfici aziendali dalla rigidità delle strutture, del mercato

fondiario, dei contratti agrari”281

281 Ibidem, p. 101.

. Dall’osservazione delle tabelle emerge anche la

forte presenza di anziani, che nella maggior parte dei casi rivestono il ruolo di

conduttori. Questo fatto potrebbe indurci a ritenere che il tempo parziale non sia

così diffuso come ci si aspetterebbe. Se si considerano come aziende a tempo

parziale tutte quelle imprese che corrispondono alla definizione di part-time

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143

utilizzata da Giancani 282 , il fenomeno appare in tutta la sua ampiezza dal

momento che, nei comuni esaminati, ne sono interessati due terzi delle famiglie e

quasi la totalità della superficie coltivata. Un altro aspetto sorprendente è

costituito dal fatto che l’agricoltura a tempo parziale, sempre nell’ambito dei

comuni oggetto di studio, non sembra essere condizionata dal tipo di

localizzazione dei terreni e dalle dimensione dell’azienda. A questo punto si

potrebbe avanzare l’ipotesi che le esigue possibilità di guadagno offerte

dall’aziende non costituiscano la causa principale del ricorso al tempo parziale.

Un motivo della diffusione del part-time si può ravvisare anche nel cambiamento

della mentalità rurale, che riflette i mutamenti in atto in tutta la società per cui la

città e le opportunità di emancipazione economica e sociale offerte dal contesto

urbano sono considerate come degli obiettivi imprescindibili per giungere a quel

benessere materiale che, per tutti gli anni Ottanta e parte degli anni Novanta, è

stato un baluardo dell’ideologia liberale. E’ importante precisare che questa

prospettiva di studio non si limita a cogliere nel sistema part-time i potenziali

vantaggi economici, tanto decantati dall’ideologia liberale, ma mette bene in

evidenza le problematiche di natura economica, sociale e ambientale correlate

alla funzione subalterna attribuita all’attività agricola. Infatti i comuni esaminati

sono caratterizzati da un cronico immobilismo, in quanto il 90% delle aziende

non ha fatto registrare mutamenti degli ordinamenti produttivi. Tale stallo è

dovuto a diversi fattori tra cui: raggiungimento del punto di equilibrio tra

l’utilizzo della forza-lavoro e le dimensioni aziendali (55% dei casi), difficoltà ad

accedere ai finanziamenti (17,8% dei casi), realizzazione di obiettivi tecnici e

commerciali apprezzabili 283

282 La definizione di part-time utilizzata da Giancani è basata su questo assunto: si configura il part-

time quando in una famiglia pluriattiva uno o più membri dichiarano di lavorare prevalentemente fuori dell’azienda agricola.

. Inoltre si segnala che le modifiche relative agli

ordinamenti produttivi scaturiscono nella maggior parte dei casi come

conseguenza di eventi particolari quali acquisto di terreni (71% dei casi),

283 Questi dati sono stati ripresi da L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, cit.

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adeguamento della produzione alla possibilità di impiego della manodopera

familiare (28,6% dei casi)284. E’ importante sottolineare che, tra i titolari delle

imprese che hanno subito modifiche della superficie coltivata, il 62% ha

acquistato terreni, il 19% ha utilizzato il set-aside mentre il 19% ha venduto o

abbandonato i terreni285

La funzione del tempo parziale in agricoltura è stata oggetto, per tutti gli anni

Ottanta, di molta attenzione soprattutto da parte delle organizzazioni dei

coltivatori, infatti all’interno della III Conferenza Regionale dell’Agricoltura

Toscana sul problema del part-time è stato a lungo dibattuto. Carlo Zanieri

. Per quanto riguarda le relazioni di queste aziende con il

mercato si nota la posizione di rilievo assunta alle produzioni destinate

all’autoconsumo (90%) che interessa prevalentemente frutta, ortaggi, olio e vino,

per il restante 10% le aziende vendono direttamente al consumatore.

286

284 Questi dati sono stati ripresi da L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero,

cit.

, nel

suo intervento articola in modo lucido le principali questioni sorte intorno al

part-time sostenendo quanto segue: “il part-time è un problema che la Coldiretti

non scopre oggi. La nostra Confederazione ne ha fatto oggetto di specifica

attenzione anche con un convegno. Occorre chiarire che il part-time in senso

stretto, cioè l’operatore impegnato in settori extragricoli e che a tempo parziale

coltiva un terreno, è diverso dal nucleo familiare che ha al proprio interno unità

attive impegnate a pieno tempo in agricoltura e unità impegnate in settori

extragricoli. Questa precisazione è necessaria perché nei confronti delle due

diverse forme di conduzione nell’esercizio dell’attività agricola occorrono una

attenzione e un comportamento dell’intervento pubblico diversi. (…) Così pure

occorre precisare che l’attività agrituristica non è assimilabile al part-time perché

è parte integrante dell’attività, non è assoggettabile a differenziazioni di tempo

285 L.A. Giancani, L’agricoltura del mezzo tempo e del tempo libero, cit., p.111

286 Per le notizie relative all’attività di Carlo Zanieri si rimanda a www.toscana.coldiretti.it, Carlo Zanieri (Tripoli, 1938) ha svolto e svolge l’attività di coltivatore diretto nel Mugello, è stato Presidente della Federazione Provinciale di Firenze , della Federazione Regionale Toscana e di IRIPA Toscana.

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impegnato. Che poi il part-time, pur con tutta la necessaria attenzione che ad esso

deve essere dedicata, non possa e non debba costituire il riferimento strategico di

una politica agricola ci pare scontato. L’agricoltura a pieno tempo e professionale

deve necessariamente costituire il riferimento specifico di qualsiasi iniziativa che

riguardi il settore. Il part-time è un altro aspetto, da non trascurare per ciò che

rappresenta anche in termini sociali e in termini economici diretti e indotti”287

.

Dunque secondo la Coldiretti il part-time, nonostante sia indiscutibilmente legato

all’agricoltura, non può essere considerato come un ramo produttivo ma come

supporto ad attività di salvaguardia e tutela del suolo e di conservazione di

pratiche e tradizioni rurali. Sul tema relativo al ruolo di salvaguardia ambientale

e tutela del suolo che l’agricoltura dovrebbe svolgere si ritornerà più avanti. Nel

prossimo paragrafo si esamineranno, invece, le trasformazioni che hanno

investito le superfici agricole in seguito ai mutamenti degli assetti aziendali.

3.3 LE SUPERFICI

Il decennio ‘80/’90 è caratterizzato dalla costante perdita di superficie agricola

che non ha riguardato soltanto l’agricoltura toscana ma ha avuto luogo in tutto il

territorio nazionale288

287 AA.VV., Atti della III Conferenza Regionale dell’Agricoltura, cit., intervento di Carlo Zanieri

presidente Federazione Provinciale Coltivatori Diretti.

. Da notare anche la contrazione della superficie agricola

utilizzata che ha subito un calo pari a -6,32%. Questo dato assume particolare

significato se confrontato con il trend di crescita della superficie agricola non

utilizzata che, nel periodo considerato, è aumentata del 17%, ciò risulta ancor più

significativo se si considera che nel contesto agricolo nazionale la superficie

288 Prestamburgo, tenendo conto dei dati riportati dai Censimenti dell’agricoltura del 1982 e del 1990, sottolinea il fatto che in Toscana la dinamica della superficie agricola ha fatto registrare un -4,67%, questo dato, tuttavia, non si discosta molto dall’andamento nazionale che si attesta intorno al -3,93%; a questo proposito si vedano: M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit. e Istat, Statistiche dell’agricoltura Anno 2000, Annuario n.48, Roma, 2005.

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146

agricola non utilizzata ha subito una diminuzione del 5%289

. La tabella che segue,

relativa all’utilizzazione del suolo a livello regionale sottolinea il fatto che la

maggior incidenza della perdita di superficie agricola utilizzata, senza distinzione

di tipologie colturali, si registra nelle zone di montagna in cui risulta prevalente

la presenza di terreni agricoli marginali.

UTILIZZAZIONE DELLE SUPERFICI AI CENSIMENTI. TOSCANA - RIPARTIZIONE E VARIAZIONE PERCENTUALE PER ZONA ALTIMETRICA

Ripartizione percentuale Variazione percentuale montagna collina pianura TOTALE montagna collina pianura TOTALE 1970 seminativi 14,09 32,85 44,09 29,23 - - - - prati e pascoli 16,56 9,36 7,42 10,93 - - - - coltivazioni legnose agrarie 5,68 12,80 14,06 11,19 - - - - castagneti da frutto 4,81 0,85 1,03 1,81 - - - - TOTALE SAU 41,14 55,85 66,60 53,16 - - - - boschi e pioppete 49,37 35,63 24,88 38,09 - - - - altre superfici 9,49 8,52 8,51 8,75 - - - - SUPERFICIE TOTALE 100,00 100,00 100,00 100,00 - - - - 1982 1982/1970 seminativi 14,01 35,38 50,44 31,63 -11,30 3,37 2,42 1,57 prati e pascoli 17,31 7,01 4,22 9,15 -6,74 -28,07 -49,05 -21,44 coltivazioni legnose agrarie 4,87 12,05 12,64 10,46 -23,50 -9,62 -19,54 -12,27 castagneti da frutto 6,16 0,69 0,18 1,89 14,20 -22,17 -84,32 -1,76 TOTALE SAU 42,34 55,13 67,48 53,13 -8,17 -5,26 -9,29 -6,19 boschi e pioppete 50,90 37,13 24,24 39,31 -7,99 0,01 -12,79 -3,12 altre superfici 6,76 7,74 8,28 7,56 -36,45 -12,74 -12,90 -18,90 SUPERFICIE TOTALE 100,00 100,00 100,00 100,00 -10,76 -4,02 -10,47 -6,13 1990 1990/1982 seminativi 13,69 35,72 50,33 31,94 -10,30 -2,21 -8,43 -3,75 prati e pascoli 16,68 7,29 5,88 9,24 -11,61 0,70 27,83 -3,67 coltivazioni legnose agrarie 4,50 11,13 10,91 9,67 -15,22 -10,50 -20,82 -11,92 castagneti da frutto 3,53 0,56 0,31 1,19 -47,38 -20,48 60,03 -39,82 TOTALE SAU 38,40 54,70 67,44 52,04 -16,79 -3,88 -8,30 -6,63 boschi e pioppete 53,27 37,27 23,36 39,78 -3,99 -2,76 -11,57 -3,52

289 Istat, Statistiche dell’agricoltura Anno 2000, cit.

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altre superfici 8,32 8,03 9,20 8,17 13,00 0,43 2,00 3,11 SUPERFICIE TOTALE 100,00 100,00 100,00 100,00 -8,26 -3,13 -8,24 -4,67

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Certamente la Toscana ha avuto ed ha una forte caratterizzazione forestale,

come testimoniano i censimenti del 1982 e del 1990290 ma un tale incremento di

superficie inutilizzata non è imputabile alla sola estensione delle aree boschive

ma va ricondotto alle politiche di set-aside; infatti fino al periodo in questione

(IV Censimento Generale dell’Agricoltura del 1982- V Censimento Generale

dell’Agricoltura del 1990) il set-aside era stato adottato per una sola campagna

con scarsi risultati291

290 Istat, 4° Censimento Generale dell’Agricoltura, 21 ottobre, 1990. Quadro generale e prime

valutazioni Toscana. Dati definitivi provinciali, Regione Toscana, 1991.

. Sicuramente il set-aside si configura come elemento di

novità nello scenario della politica agricola che, nonostante avesse già da tempo

manifestato segni di stanchezza verso una produttività incondizionata, non aveva

ancora abbandonato le logiche volte al perseguimento del perfetto funzionamento

aziendale. Certamente il set-aside non può essere paragonato ai precedenti

provvedimenti di estensivazione delle produzioni che si limitavano a

regolamentare la diversificazione dei fattori aziendali mediante l’uso di tecniche

atte alla diminuzione della produzione per ettaro, pertanto esso rappresenta un

vero e proprio punto di rottura rispetto ad ogni tipo di provvedimento in campo

agricolo fino ad allora adottato. Lo studio effettuato da Mario Dini, Benedetto

291 M. Dini - B. Rocchi - C. Rosato, Reazione degli imprenditori ed applicazione della politica di set-aside: un caso di studio, in “Rivista di Economia Agraria”, n. 4, 1994. Il set-aside è stato proposto nel Reg. 88/1094 e confermato nel Reg.91/2328 relativo al miglioramento delle strutture agrarie; inizialmente tale pratica era a discrezione degli imprenditori che potevano stabilire se mettere a riposo porzioni di terreni aziendali in cambio di indennizzi in denaro, successivamente il pacchetto McSharry, in linea con le nuove logiche di politica dei prezzi e di mercato, ha reso obbligatorio il ritiro dei seminativi. A tal proposito si vedano il Reg. 92/1765 e il Reg. 92/1766 che prevedono il riallineamento dei prezzi comunitari dei prodotti agricoli a quelli internazionali.

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148

Rocchi e Carmine Rosato292

sulla reazione degli imprenditori nei confronti della

politica del set-aside in provincia di Firenze illustra in maniera chiara e concisa

la dinamica relativa alle richieste di messa a riposo dei terreni. Gli autori fanno

notare come il set-aside sia stato una provvedimento di carattere generale che

non teneva conto in alcun modo del livello di modernizzazione raggiunto dalle

aziende e delle diversità a livello regionale. Proprio per questo motivo nella

seconda metà degli anni Ottanta si è sollevato un dibattito che aveva come

principali argomenti di discussione i seguenti punti critici: la effettiva capacità di

raggiungere con tale provvedimento il contenimento delle eccedenze; il fatto che

un’applicazione non condizionata da fattori quali le varie tipicità agricole e il

livello di modernizzazione raggiunto dalle aziende avrebbe comportato una

maggiore concentrazione di domande in aree marginali; le difficoltà burocratiche

legate alla gestione della procedura. L’analisi di Dini, Rocchi e Rosato riesce a

dare un quadro sostanziale della situazione in provincia di Firenze che, con poche

varianti, può estendersi al resto della regione. Riportiamo di seguito la tabella che

fornisce notizie inerenti le aziende che hanno richiesto il set-aside tenendo conto

sia della relativa superficie totale sia della tipologia del conduttore.

292 M. Dini - B. Rocchi - C. Rosato, Reazione degli imprenditori ed applicazione della politica di set-

aside: un caso di studio, cit.

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PROVINCIA DI FIRENZE. AZIENDE CHE HANNO RICHIESTO IL SET-ASIDE E RELATIVA SUPERFICIE

TOTALE PER CLASSE DI SUPERFICIE TOTALE E TIPOLOGIA DEL CONDUTTORE. PERCENTUALE SUL

TOTALE DELLE AZIENDE CENSITE NEL 1990 (V CENSIMENTO GENERALE DELL’AGRICOLTURA).

Classi di superficie totale (in ettari) Fino a 2 Aziende 2-5 5-10 10-20 20-50 50-100 Oltre

100 Totale

Coltivatore diretto proprietario

0,01 0,20 0,85 1,75 1,80 3,85 6,76 0,56

Coltivatore diretto affittuario

- - 0,77 0,64 2,50 14,29 16,67 0,82

Conduttore con salariati

3,06 11,00 20,39 35,23 40,28 40,63 67,59 12,02

Altre persone fisiche

1,32 - 0,40 - - - 25,00 0,47

Persone giuridiche - - 2,30 2,15 4,85 9,71 16,85 6,58

Totale 0,05 0,40 1,49 3,17 5,96 11,55 23,02 1,85

Superfici

Coltivatore diretto proprietario

0,02 0,20 0,55 1,85 2,02 3,95 7,06 3,30

Coltivatore diretto affittuario

- - 0,68 0,53 3,26 15,67 26,37 10,19

Conduttore con salariati

6,27 12,74 21,60 38,86 43,49 40,66 92,31 74,58

Altre persone fisiche

1,10 - 0,48 - - - 35,48 8,36

Persone giuridiche - - 2,81 2,17 6,25 10,02 15,10 13,92

Totale 0,10 0,45 1,63 3,48 6,83 12,01 28,01 16,64

Fonte: Dini M.-Rocchi B.-Rosato C., Reazione degli imprenditori ed applicazione della politica

di set-aside: un caso di studio, in “Rivista di Economia Agraria”, n. 4, 1994.

Com’è possibile notare c’è una maggiore tendenza verso il set-aside man

mano che cresce la superficie delle aziende, gli autori sottolineano che le grandi

aziende condotte con salariati rappresentano il 70% delle imprese facenti

domanda mentre l’85% delle superfici; questo fenomeno, che coinvolge perlopiù

aziende di imprenditori non lavoratori, può essere spiegato dal fatto che le grandi

imprese sono caratterizzate da una maggiore adattabilità nell’organizzazione

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delle superfici produttive che consente di volta in volta la concentrazione delle

risorse nei terreni qualitativamente superiori. Molto interessante risulta l’analisi

dei dati riguardanti l’andamento delle domande di ritiro di seminativi

disaggregati per zona altimetrica. Essi confermano uno degli argomenti del

dibattito acceso intorno alla questione set-aside e cioè che l’applicazione

incondizionata di tale provvedimento avrebbe avuto maggiore incidenza nelle

zone marginali. Infatti, come si può dedurre dall’osservazione della seguente

tabella nei tre anni presi in esame la maggior concentrazione di domande di

messa a riposo dei seminativi si è verificata in collina e in pianura, aree dove

sono collocate la maggior parte dei terreni marginali regionali.

PROVINCIA DI FIRENZE. SET-ASIDE RICHIESTO PER ANNO DI APPLICAZIONE DEL

PROVVEDIMENTO E ZONA ALTIMETRICA.

Distribuzione percentuale

1990 1991 1992

Montagna 13,17 11,22 11,06

Collina 83,60 83,95 84,43

Pianura 3,23 4,83 4,51

Totale 100 100 100

Fonte: M. Dini – B. Rocchi – C. Rosato, Reazione degli imprenditori ed applicazione della

politica di set-aside: un caso di studio, in “Rivista di Economia Agraria”, n. 4, 1994.

Un altro elemento che merita una certa attenzione è costituito dalle

motivazioni che inducono gli imprenditori a richiedere il set-aside. Lo studio di

Dini, Rocchi e Rosato, citato in precedenza, individua alcuni obiettivi che,

secondo gli autori, spingono gli imprenditori agricoli a richiedere la messa a

riposo dei seminativi. Analizzando le informazioni che gli autori ci forniscono

circa le domande presentate si nota che, man mano che aumenta la percentuale di

seminativi per cui si ipotizza il ritiro, il set-aside non si configura più come una

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opzione in grado di offrire una diversa distribuzione delle risorse aziendali ma

viene concepito come un modo per “disattivare”293

parzialmente o totalmente

l’azienda agricola. Nonostante il Regolamento 88/1094, che istituiva il set-aside,

prevedesse delle alternative al riposo e il Ministro dell’Agricoltura avesse

considerato la messa a riposo dei seminativi come una opportunità per favorire i

rimboschimenti in quelle zone considerate marginali e che avevano

maggiormente risentito delle riforme della politica dei prezzi e dei mercati, in

Toscana ciò non fu pienamente attuato. Infatti, i dati contenuti nella tabella che

segue, mettono in evidenza che oltre tre quarti della superficie per cui è stata

avanzata la domanda di set-aside sono destinati al riposo totale o al riposo con

rotazione.

293 M. Dini - B. Rocchi - C. Rosato, Reazione degli imprenditori ed applicazione della politica di set-

aside: un caso di studio, cit.

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PROVINCIA DI FIRENZE. SET-ASIDE RICHIESTO DOPO TRE CAMPAGNE PER TIPO DI UTILIZZO E

PER TIPOLOGIA DI CONDUTTORE, CLASSE DI AMPIEZZA E ZONA ALTIMENTRICA DELL’AZIENDA

RICHIEDENTE.

Imboschi-mento

Usi non agricoli

Riposo totale

Riposo con rotazione

Creazione pascoli

Produzio-ni

alternative

Totale

ha % ha % ha % ha % ha % ha % ha

Coltivatore dir. prop.

134 10,24 21 1,61 629 47,88 325 24,71 204 15,56 0 0,00 1313

Coltivatore dir. aff.

6 1,51 0 0,00 265 71,82 24 6,47 75 20,24 0 0,00 370

Conduttore con salar.

286 5,81 33 0,68 2581 52,35 1492 30,26 530 10,75 7 0,75 4930

Altre persone fisiche

1 2,79 0 0,00 35 97,21 0 0,00 0 0,00 0 0,00 36

Persone giuridiche

184 11,80 14 0,93 486 31,09 499 37,96 365 23,38 13 0,84 1563

Totale 612 7,45 69 0,84 3996 48,66 2340 28,49 1174 14,30 20 0,25 8211

Fino a 2 1 19,98 0 0,00 4 80,02 0 0,00 0 0,00 0 0,00 5

2-5 5 10,59 2 4,14 28 64,98 0 0,00 9 29,29 0 0,00 43

5-10 7 3,44 0 0,00 161 79,39 24 11,75 11 5,43 0 0,00 203

10-20 19 4,95 2 062 205 54,49 105 27,81 39 10,47 6 1,66 377

20-50 75 7,33 12 1,15 692 67,81 140 13,69 102 10,03 0 0,00 1021

50-100 32 2,79 24 2,09 649 56,64 304 26,56 135 11,83 1 0,10 1147

Oltre 100 474 8,75 129 0,54 2257 41,66 1767 32,62 877 16,19 13 0,24 5418

Totale 612 7,45 69 0,84 3996 48,66 2340 28,49 1174 14,30 20 0,25 8211

Montagna 69 8,20 2 0,23 397 47,00 166 19,61 211 24,96 0 0,00 844

Collina 441 6,32 67 0,96 3363 48,22 2122 30,43 961 13,78 20 0,29 6974

Pianura 102 25,98 0 0,00 236 60,17 52 13,19 3 0,66 0 0,00 393

Totale 612 7,45 68,94 0,84 3996 48,66 2340 28,49 1174 14,30 20 0,25 8211

Fonte M. Dini – B. Rocchi – C. Rosato, Reazione degli imprenditori ed applicazione della

politica di set-aside: un caso di studio, in “Rivista di Economia Agraria”, n. 4, 1994.

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In conclusione, quanto finora esposto ci fa constatare che, nonostante molta

letteratura economico-giuridica 294

abbia fornito differenti interpretazioni del

fenomeno del set-aside spaziando dalla concezione ottimizzante auspicata dalla

cosiddetta teoria standard all’idea che la messa a riposo dei seminativi non

potesse costituire una mera questione di razionalità economica, nella provincia

fiorentina e più in generale in tutta la regione Toscana questa pratica è stata

concepita come una possibilità per giungere ad un graduale abbandono

dell’attività agricola.

3.4 IL CAPITALE

Effettuare una analisi esaustiva dei capitali fissi nel settore agricolo è una

operazione alquanto difficile dal momento che le uniche fonti utilizzabili che

riportano dati su base regionale sono gli aggregati contabili in cui sono riportati

gli investimenti fissi lordi suddivisi in base ai settori che ne usufruiscono

all’interno della categoria più generale di agricoltura foreste e pesca295

294 AA.VV., Il regime di aiuti comunitari per il ritiro della produzione dei terreni agricoli: un

contributo del Comitato di Redazione, in “Rivista di Economia Agraria”, n.3, 1988; M. Cordwell, The European Model of Agriculture, Oxford University Press, 2004; European Commission. Directorate-General for Agriculture, Office for Official Publications of European Communities, The common agricultural policy, Office for Official Publications of European Communities, 2001; J. Bryan, Agriculture and EU Environmental Law, Ashgate Publishing, 2009; R Macrory, Reflection on 30 Years of EU Environmental Law: A High Level of Protection?, Europa Law Publishing, 2006; S.A. Cobert, Insects, plants and succession: Advantages of long-term set-aside, in “Agriculture, Ecosystem and Environment”, n. 53, 1995; G.M. Robinson, Geographies of Agriculture: Globalisation, Restructuring and Sustainability, Pearson Education, 2004.

. Tuttavia,

basandoci su studi e analisi di carattere prettamente economico svolti in

precedenza e sui dati regionali resi disponibili fino al 1990 dall’Inea riguardanti

295 A tal proposito si vedano anche M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit. e D. Ciaccia – G. Perrella, Aspetti contabili e metodologici dell’attuale stima degli investimenti in agricoltura, in Quaderni di Ricerca, vol.7, Istat, 1993. Come rileva Prestamburgo nell’ambito delle circoscrizioni statistiche il valore degli investimenti fissi lordi fino al 1990 era fornito dall’Inea disaggregato per: bonifiche e irrigazione, miglioramenti fondiari, elettrodotti, fabbricati rurali, trattrici, macchine agricole, bestiame da riproduzione, altre macchine, automotoveicoli; dopo tale data l’Inea non ha provveduto più alla pubblicazione di tale informazione che dal 1991 è disponibile a livello nazionale presso l’Istat.

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le bonifiche, i miglioramenti fondiari e le macchine e le attrezzature, è stato

possibile individuare le dinamiche di queste tre tipologie di capitale che risultano

le più rilevanti nel contesto economico regionale. Come affermano Mario Dini,

Silvio Menghini, Benedetto Rocchi e Gianluca Stefani nello studio relativo

all’evoluzione dello scenario agricolo e territoriale della Toscana “l’insieme del

capitale fisso riproducibile valutato a prezzi costanti registra una sostanziale

stabilità in Toscana nel decennio considerato, mentre in leggerissima flessione

appare quello nazionale. Se tuttavia si esclude dal conteggio la voce bonifiche

che, a rigore, non interessa soltanto il settore agricolo, allora il capitale fisso

riproducibile cala di oltre il 5% sia a livello regionale che nazionale” 296 .

Tornando ad esaminare il trend delle tre categorie relative a bonifiche,

miglioramenti fondiari e macchine, occorre sottolineare che la loro incidenza

assume un valore peculiare nella regione rispetto al contesto nazionale. In

Toscana verso la fine degli anni Ottanta gli investimenti per i miglioramenti

fondiari fanno raggiungono l’apice, ciò può essere imputato al trend dei flussi di

credito di miglioramento erogati297. Studiando attentamente le varie tipologie di

stanziamento dei crediti di miglioramento emerge che la maggior parte delle

erogazioni del 1988 riguardano la costituzione di nuovi impianti 298

296 M. Dini - S. Menghini - B. Rocchi - G. Stefani, L’evoluzione dello scenario agricolo e territoriale

della Toscana, in M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit., p.300.

. Si può

supporre che ciò sia dovuto alle conseguenza della gelata del 1985 che causò

297 Dallo studio di Ciaccia e Perrella, Aspetti contabili e metodologici dell’attuale stima degli investimenti in agricoltura, cit. si evince che nell’ambito dell’erogazione del credito di miglioramento sotto la voce “altre migliorie” sono inseriti i finanziamenti per la stabilizzazione dei disavanzi e quelli relativi al sostegno di cooperative agroalimentari. A tal riguardo si vedano: Legge Regionale 5 marzo 1985 n.24 (modifica dell’art. 42 della L.R. 23 dicembre 1977 n.83 concernente norme in materia di bonifica, di consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario e delega di funzioni agli enti locali), Legge Regionale del 29 dicembre 1987 n.61 (modifiche alla L.R. 1° agosto 1981 n.63 “Disciplina delle agevolazioni finanziarie regionali nel settore dell’agricoltura”).

298 Dini, Menghini, Rocchi e Stefani nel saggio L’evoluzione dello scenario agricolo e territoriale della Toscana, cit., p.301 riportano quanto segue: “(...) la voce che causa la forte crescita degli investimenti nell’88 sono i crediti per l’effettuazione di nuove piantagioni che passano dai 2,5 miliardi del 1986 agli oltre 38 miliardi del 1988”.

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ingenti danni soprattutto alle produzioni olivicole299. Di carattere contingente è la

notevole crescita dei fondi destinati alla bonifica in quanto la provincia di Arezzo

è stata investita da ingenti opere di irrigazione300. Per quanto riguarda il settore

delle attrezzature nel decennio in esame si è assistito ad un forte calo degli

investimenti, confermato dalle iscrizioni di macchinari nuovi di fabbrica presso

le strutture autorizzate a fornire carburante a prezzi agevolati. Questa

informazione, unita al fatto che certamente non tutti mezzi iscritti possono

considerarsi efficienti, fa supporre che ci sia in ambito regionale il problema di

sottoutilizzazione del parco macchine301. Non disponendo di dati disaggregati

relativi alle macchine e attrezzature per il decennio in esame si possono cogliere

solo andamenti generali che però celano dinamiche complesse non analizzate

nelle statistiche ufficiali di questo periodo302

.

3.5 IL MERCATO

Riallacciandoci a quanto esposto nel capitolo precedente in merito all’impatto

che la Politica Agricola Comunitaria ha avuto nei settori tradizionali

dell’agricoltura regionale possiamo affermare che per tutto il corso degli anni

Settanta le istituzioni europee non attuarono radicali riforme volte ad una

299 A tal riguardo la Legge 198/85 ed il Regolamento 1654/86 si configurano come misure volte ad

incentivare la costituzione di nuovi impianti nel periodo immediatamente successivo alla gelata del 1985.

300 Dini, Menghini, Rocchi e Stefani nel saggio L’evoluzione dello scenario agricolo e territoriale della Toscana, cit. Questa constatazione è confermata dal fatto che nel periodo 1985/1987 la maggioranza parte delle risorse per la bonifica è stata convogliata nella provincia di Arezzo dove si stava costruendo il bacino di Montedoglio e le opere di adduzione delle acque. A tal riguardo si veda anche Istat, Statistiche delle Opere Pubbliche anno 1986, Roma, 1989.

301 A questo proposito si veda Unacoma, Annuari statistici. La meccanizzazione agricola in Italia, 1979; Unacoma, Annuari statistici. La meccanizzazione agricola in Italia, 1982; Unacoma, Annuari statistici. La meccanizzazione agricola in Italia, 1988.

302 Ci si riferisce al contoterzismo il cui utilizzo nel settore agricolo non è preso in considerazione nelle statistiche del decennio ‘80/’90. Cfr. R. Fanfani (a cura di), Il contoterzismo nell’agricoltura italiana, Il Mulino, Bologna, 1989.

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razionale ristrutturazione di lungo periodo ma fronteggiarono in maniera

disorganica le varie problematiche che di volta in volta si presentavano. Con i

primi anni Ottanta cominciarono ad emergere le prime distorsioni derivate da un

tale atteggiamento politico ed i limiti del sistema dei prezzi rappresentavano il

problema più urgente da risolvere. Il sistema dei prezzi, infatti, aveva contribuito

ad accentuare le differenze interne ai Paesi della Comunità dal momento che non

era stato in grado di supportare i Paesi a reddito inferiore e aveva favorito

l’allargamento della forbice tra aree privilegiate e non. Di fronte ad un tale stato

di cose si manifestava l’esigenza di giungere a una riforma della Politica

Agricola Comune con il fine di apportare delle modifiche ai provvedimenti fino

ad allora utilizzati per gestire il settore, di diminuire il sostegno ai prezzi e

contemporaneamente ideare e applicare nuove metodologie di sostegno al reddito

agricolo303. La pubblica presa di coscienza del fallimento del sistema dei prezzi si

espresse concretamente quando nel 1985 la Commissione Europea pubblicò il

cosiddetto “Libro Verde”304, un documento in cui erano contenute delle proposte

su possibili scenari di sviluppo della Politica Agricola Comunitaria. Questo, nei

propositi delle istituzioni comunitarie, avrebbe dovuto costituire la base di

partenza per un dibattito tra gli Stati membri volto a fornire gli indirizzi da

attuare nei periodo successivi. Come era prevedibile la maggior parte degli Stati

si oppose all’ipotesi del definitivo abbandono del precedente sistema dei prezzi,

infine venne raggiunto un compromesso in base al quale furono teorizzati dei

metodi di controllo alla produzione che si tradussero nelle quote, nei limiti di

garanzia, nel principio di corresponsabilità dei produttori e nell’introduzione

degli stabilizzatori finanziari 305

303 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune

di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

. Come è ovvio anche le produzioni agricole

304 Commissione CEE (1985) “Prospettive della Politica Agricola Comunitaria”, DOC. COM. 333 (85), Bruxelles. Il Libro Verde sulle prospettive della Politica Agricola Comunitaria si configura come un documento in cui vengono formulate proposte di modifiche strutturali del settore agricolo da attuare su specifici contesti regionali e territoriali.

305 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

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toscane risentirono di queste modifiche ed in particolar modo il settore

vitivinicolo che con il Reg.CEE 822/87 venne sottoposto ad una chiara

regolamentazione. Tale provvedimento, in verità, non costituiva una misura del

tutto nuova in quanto in esso confluivano sia le normative già esistenti in materia

sia alcune nuove aggiunte. Il fatto che il Reg.CEE 822/87 non avesse un carattere

di novità lo testimonia il fatto che esso riproponeva, con irrilevanti variazioni, il

sistema dei prezzi comuni, il sistema di regolazione degli scambi con i Paesi non

appartenenti alla Comunità, gli aiuti al magazzinaggio e l’aiuto per

l’utilizzazione dei mosti concentrati 306 che avrebbe dovuto consentire un più

agevole smaltimento delle eccedenze e anche il fatto che esso, continuando a

regolamentare solo il mercato dei vini da tavola, utilizzava misure già impiegate

nei periodi precedenti quali le politiche di controllo del potenziale produttivo.307

Gli unici due aspetti originali erano: l’introduzione di tre tipi di distillazione

obbligatoria e tre di distillazione volontaria 308

306 A tal proposito si veda il Reg. CEE n. 822/87 del Consiglio del 16 marzo 1987 relativo

all’Organizzazione Comune del Mercato Vitivinicolo, Art. 46.

e l’utilizzo degli stabilizzatori

finanziari come strumento di attuazione del principio di garanzia limitata nel

comparto vitivinicolo con lo scopo di ottenere una concomitante diminuzione

delle eccedenze e delle spese del FEOGA. Tuttavia questo ultimo obiettivo, cioè

la riduzione delle spese del FEOGA, non venne pienamente raggiunto e ciò a

causa sia dalle inesattezze relative alla ripartizione delle quote di prodotto da

inviare alla distillazione obbligatoria da parte degli Stati membri sia nelle

previsioni relative alle produzioni dei periodi successivi. Ad aggravare la

307 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit.

308 A tal riguardo si veda R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit., p. 16 dove si legge: “il primo tipo di distillazione obbligatoria, al quale veniva attribuito il compito principale per lo smaltimento delle eccedenze, fu interessata da alcune novità. A tal riguardo furono ampliate le condizioni che l’avrebbero fatta scattare individuandole nel verificarsi di almeno una situazione che indicasse la presenza di squilibri di mercato, ovvero, una disponibilità ad inizio di campagna che superi la quantità corrispondente a quattro mesi di normale fabbisogno interno, una produzione che superi di oltre il 9% le normali utilizzazioni interne, la media ponderata dei prezzi di tutti i tipi di vino che resti al di sotto dell’82% del prezzo di orientamento”.

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situazione contribuirono le lacune in merito alla formulazione di sanzioni da

applicare ai Paesi che volutamente o accidentalmente commettessero tali errori.

Tutto ciò, come si può ben capire, non si presentava come il più adatto a risolvere

il problema delle eccedenze. A tale scopo, invece, risultarono particolarmente

utili le politiche del controllo del potenziale produttivo come il proibire la

costituzione di nuovi impianti ad eccezione delle produzioni V.Q.P.R.D. per le

quali la domanda superava di gran lunga l’offerta nel mercato europeo309. Inoltre

furono imposte delle condizioni per l’impianto di nuovi vigneti in base alle quali

si concedeva l’opportunità di reimpiantare solo se si procedeva alla estirpazione

di una superficie vitata di estensione equivalente 310

309 Reg. CEE n. 822/87 del Consiglio del 16 marzo 1987 relativo all’Organizzazione Comune del

Mercato Vitivinicolo, Art. 6 “Ogni nuovo impianto di viti è vitato fino al 31 agosto 1990 tuttavia nuovi impianti possono essere autorizzati dagli Stati membri per superfici destinate alla produzione di v.q.p.r.d. per i quali la Commissione ha riconosciuto che la produzione a causa delle sue caratteristiche qualitative è largamente inferiore”.

che poteva essere sia di

proprietà del richiedente sia di un altro proprietario che cedeva il diritto di

estirpazione mediante un accordo. Successivamente, nel 1988, per favorire la

dismissione degli impianti viticoli venne istituito un premio in denaro da dare

agli agricoltori che avessero estirpato, senza diritto di reimpianto, le coltivazioni

viticole. Come afferma Polidori nella sua relazione sull’impatto della

ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’Organizzazione Comune di

Mercato: “L’introduzione del premio per l’abbandono non contribuì affatto al

risanamento del bilancio FEOGA perché, responsabile dell’assorbimento di

notevoli risorse, vanificò le riduzioni delle spese sostenute che erano state

310 Reg. CEE n. 822/87 del Consiglio del 16 marzo 1987 relativo all’Organizzazione Comune del Mercato Vitivinicolo, Art. 7 Comma 1 “I reimpianti di viti sono consentiti soltanto nel caso in cui una persona fisica o giuridica o un’associazione di persone disponga di un diritto di reimpianto ai sensi dell’Allegato V o di un diritto di reimpianto acquisito in base ad una precedente legislazione nazionale. A titolo transitorio, i produttori degli Stati membri la cui legislazione nazionale non prevedeva alla data del 27 maggio 1976, diritti di reimpianto, e che hanno proceduto ad una estirpazione di viti debitamente provata e attestata dallo Stato membro interessato, dopo tale data possono essere autorizzati ad effettuare entro il 27 maggio 1984, un impianto di viti su una superficie di coltivazione effettivamente equivalente a quella in cui ha avuto luogo l’estirpazione, alle condizioni fissate dal presente regolamento”.

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raggiunte grazie al ridimensionamento delle politiche di mercato” 311 . Dalle

considerazioni finora effettuate emerge chiaramente come gli indirizzi

programmatici comunitari in materia di agricoltura abbiano avuto come esigenza

principale il contenimento delle produzioni, nell’ottica di contenimento delle

spese di garanzia. A ciò va aggiunto un altro fattore che ha influenzato le scelte

verso questo obiettivo e cioè l’internazionalizzazione dei mercati

agroalimentari312

Il prossimo capitolo sarà dedicato agli effetti che l’agricoltura industriale ha

avuto sugli assetti paesaggistici toscani e alle conseguenze ambientali derivanti

dalla radicale trasformazione delle modalità di produzione agricola.

.

311 R. Polidori, Impatto della ristrutturazione viticola toscana all’interno dell’organizzazione Comune

di Mercato del vino (OCM) istituita dal Reg. (CE) 1493/99, cit., p.17.

312 In questo senso si tenga presente il dibattito avutosi all’interno dell’Uruguay Round che ha visto come protagonisti i Paesi Comunitari, gli Stati Uniti e il Gruppo di Cairns, quest’ultimo è un gruppo di 17 Paesi, grandi esportatori, operante all’interno del WTO e impegnato in una politica fortemente orientata verso la liberalizzazione dei mercati.

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4. L’AGRICOLTURA CONTEMPORANEA E IL PAESAGGIO

TOSCANO. EVOLUZIONE DELLE CARATTERISTICHE DEL

PAESAGGIO AGRARIO NELLA SECONDA META’ DEL ‘900.

4.1 LE COLLINE TOSCANE MUTANO VOLTO

Francesco Pardi nel suo saggio Le trasformazioni del paesaggio storico nelle

colline toscane delinea il significato dell’espressione paesaggio storico

definendolo come “l’assetto del mondo rurale ottocentesco che si protrae con

qualche integrazione e variazione fino alla metà del nostro secolo” 313

313 F. Pardi, Le trasformazioni del paesaggio storico nelle colline toscane, in Neri Serneri S. (a cura di),

Storia del territorio e storia dell’ambiente, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 54.

. Pardi

afferma che soltanto dopo il secondo conflitto mondiale, con l’affermarsi di

logiche industriali anche in campo agricolo, si è potuto parlare di un vero e

proprio passaggio da un antico ad un moderno regime rurale. L’avvento

dell’agricoltura industriale ha radicalmente sconvolto le campagne toscane, come

del resto quelle di tutta la penisola, facendo in modo che in maniera graduale ma

progressiva il lavoro manuale cedesse il passo alla meccanizzazione. Prima di

analizzare nel dettaglio le dinamiche relative al mutamento paesaggistico e

ambientale che ha investito le colline toscane nella seconda metà del Novecento

occorre precisare che i mutamenti sociali e le istanze di rinnovamento ravvisabili

all’indomani del secondo dopoguerra non hanno avuto ripercussioni immediati

negli assetti agricoli e di conseguenza paesaggistici. Infatti, tenendo conto dei

dati relativi all’andamento delle superfici e delle colture tra gli anni Cinquanta e

Sessanta, riportati nelle pagine precedenti, e osservando alcune immagini delle

campagne risalenti allo stesso periodo, non si colgono radicali mutamenti negli

assetti agricoli. Come osserva Pardi, a conferma di quanto appena affermato, le

principali pubblicazioni, che tra gli anni Cinquanta e Sessanta hanno voluto

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analizzare i mutamenti intervenuti nella società e le ripercussioni sugli assetti

agricoli regionali 314, sottolineano ancora il fatto che il cambiamento in questi

anni post-bellici è confinato alla scena sociale e non ha intaccato

l’organizzazione paesaggistica che preserva i caratteri dei tradizionali assetti

mezzadrili. Soltanto nella seconda metà degli anni Sessanta il volto delle colline

Toscane comincia a mutare. E’ questo il periodo del definitivo declino dei patti

mezzadrili, dell’utilizzo massiccio di potenti macchine agricole e di prodotti

chimici che hanno svolto una funzione determinante nel rimodellamento della

fisionomia paesaggistica e nell’inasprimento dei problemi di carattere

ambientale. Fino a quel momento la coltura promiscua aveva regnato sovrana

nelle distese collinari regionali, i campi si presentavano piccoli, poichè la misura

ottimale era stabilita in base a quanti metri i buoi aggiogati potevano percorrere

senza fermarsi. In un simile contesto il lavoro e la fatica dell’uomo erano

strettamente connessi con quelli degli animali dal momento che “la capacità di

penetrazione del vomere nella terra dipendeva dalla forza del contadino curvo

sull’aratro” 315 . I seminativi nelle zone collinari non raggiungevano mai la

larghezza di quelli posti in pianura pertanto, questi campi si presentavano

caratterizzati da una fitta vegetazione arborea, in prevalenza olivi e alberi da

frutto, che celava alla vista i seminativi sottostanti. Le sistemazioni colturali poi,

seguivano le tradizioni locali infatti “i filari di vite a palo secco potevano infittirsi

e assomigliare alla monocoltura, mentre quelli di vite maritata all’acero

campestre, distanziati ai margini dell’arativo, più o meno largo, assumevano a

volte l’aspetto di veri e propri pergolati”316

314 Si fa riferimento alle seguenti pubblicazioni: G. Piovene, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano,

1957; A. Sestini (a cura di), Il paesaggio, Vol VII della serie “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, 1963; G. Barbieri, Toscana, in Regioni d’Italia, Utet, Torino, 1964.

. Alla grande varietà di organizzazione

degli impianti si devono aggiungere le differenti sistemazioni dei versanti. Le

colline toscane, nonostante siano state anch’esse investite dai processi di

315 F. Pardi, Le trasformazioni del paesaggio storico nelle colline toscane, cit., p. 59.

316 Ibidem.

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modernizzazione che si sono verificati nel corso degli anni, hanno mantenuto

quei tratti distintivi tipici delle sistemazioni tradizionali. Infatti nei versanti

apuani, in quelli del Monte Pisano, nelle colline intorno a Firenze, Arezzo e

Cortona e nelle zone del Chianti è possibile ancora scorgere l’abile lavoro umano

che ha forgiato i terrazzamenti artificiali sostenuti da muri a secco e ciglioni

erbosi. L’inclinazione dei pendii poi, determinava il tipo di terrazzamento e la

varietà delle produzioni: nei versanti meno ripidi si continuava a coltivare grano,

mentre nei gradoni più ripidi e stretti la coltura prevalente restava l’olivo. Anche

la composizione delle pietre che costituivano i muri a secco era rivelatrice della

natura dei suoli che caratterizzavano le differenti tipologie collinari: nelle aree

intorno alla Montagnola senese e al Monte Argentario le pietre usate nella

costruzione dei muri a secco presentavano un aspetto scabro, cariato; a ridosso

del Monte Morello e nella Val d’Arbia i muri si presentavano di un colore bianco

e pastoso; nei dintorni di Cortona, invece le pietre assumevano un colore

giallastro. L’osservazione delle varie tipologie dei muretti a secco rivela anche

un altro aspetto importante del rapporto tra uomo e territorio e tra lavoro umano e

meccanizzazione: i muretti a secco con andamento irregolare che cercano di

adattarsi alla meglio alle curve di livello testimoniano il lavoro paziente dei

mezzadri volto al mantenimento degli equilibri idrogeologici, mentre la

regolarità dei muri che si impone con forza sui versanti collinari è indice

dell’affermazione della mentalità della moderna grande fattoria che vuole piegare

il territorio alle esigenze produttive. Accanto alle organizzazioni colturali e alle

sistemazioni dei versanti, un altro aspetto significativo di come per secoli l’uomo

si sia adattato al territorio è rappresentato dagli insediamenti colonici. Di

notevole interesse risultano le vestigia di antiche tinaie, ricavate nei pendii, che

servivano a raccogliere i mosti; l’esistenza di questi luoghi è una testimonianza

preziosa della tradizionale conservazione dei mosti dal momento che ben presto

questa pratica è stata sostituita dalla raccolta e dal deposito nelle cantine delle

grandi fattorie. Anche la concimazione tradizionale presentava caratteri che

all’agricoltura moderna e industriale apparivano come pratiche obsolete e anti-

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economiche, le colombaie erano un punto strategico per la raccolta del cosiddetto

colombino, guano necessario alla concimazione dei terreni. Dopo il secondo

conflitto mondiale questi scenari iniziano a mutare: si assiste all’avvento

dell’urbanesimo. Ormai il contadino è considerato un mestiere da miserabili in

quanto risulta caratterizzato da precarietà e bassi profitti, le campagne iniziano a

spopolarsi e, come è stato più volte detto nel corso di questa trattazione, sono i

giovani che risentono maggiormente del richiamo della città e dei salari offerti

dall’industria nascente. La fine dei patti di mezzadria avvenuta alla metà degli

anni Sessanta segna poi il definitivo abbandono delle campagne. La prima e più

evidente conseguenza di questo fenomeno consiste nella graduale ma progressiva

sostituzione delle policolture con le monocolture. Ora le superfici vitate e olivate

cessano di convivere con i seminativi e le colture meno redditizie in ogni singola

area vengono abbandonate in favore di produzioni maggiormente vocate. In

questo modo si vengono configurando vere e proprie aree contraddistinte da

produzioni ben determinate: è il caso della zona del Chianti in cui i vigneti

specializzati hanno la meglio sui seminativi, al contrario nella bassa Valdelsa i

seminativi guadagnano terreno rispetto alle superfici vitati dal momento che qui

la produzione vitivinicola aveva mantenuto le caratteristiche dell’autoconsumo.

Gli alberi da frutta hanno una duplice sorte: nelle fasce limitrofe alle vecchie case

coloniche, dove più forti sono state le conseguenze dell’esodo agricolo essi sono

andati incontro a processi di abbandono mentre i frutteti situati in aree facilmente

coltivabili con l’ausilio delle macchine e posti in terreni particolarmente

favorevoli hanno visto una sempre maggiore specializzazione produttiva.

Strettamente correlata a quanto finora esposto risulta essere la generale

ridefinizione della maglia agraria molto spesso accompagnata dalla distruzione

delle tradizionali sistemazioni di versante. In collina ciò si è tradotto nel

massiccio abbandono della trama verde, costituita perlopiù da siepi, che

delimitava i singoli campi. Viene ripresa in chiave moderna la sistemazione a

rittochino che, come è stato più volte ribadito, seguendo la linea di massima

pendenza è un elemento decisivo nei processi di dilavamento. Questo fenomeno

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risulta più evidente nelle aree suscettibili di elevati profitti, come quelle vocate

alle produzioni specializzate e in particolar modo nei vigneti di denominazione di

origine controllata. Queste zone sono andate oggetto, soprattutto dalla fine degli

anni Settanta in poi ad un vero e proprio rimodellamento orografico; le parole

usate da Pardi danno l’idea dello sconvolgimento subito dagli assetti collinari in

nome della specializzazione produttiva: “il rilievo viene scassato in profondità

con gli scavatori meccanici e una parte della maceria di roccia messa a nudo

viene di nuovo interrata insieme ai materiali di riporto più fini nelle avvallature

che rompevano l’ideale continuità del pendio: in pratica questo viene raschiato in

alcuni punti e riempito in altri” 317

317 Ibidem, pp. 65-66.

. Come si può ben comprendere la

composizione naturale dei versanti collinari viene forzata a tal punto che si

assiste alla creazione di zone costituite da soli sassi che si alternano ad altre in

cui l’elemento predominate è la terra. Le conseguenze di queste trasformazioni è

ben visibile anche dalla colorazione dei suoli che assumono una tonalità scura

nelle zone più umide e più chiara in quelle più asciutte. I residui della pietra e

della terra smossa sono stati per decenni ammassati ai margini dei grandi

appezzamenti e con il passare del tempo sono stati sommersi da rovi e

vegetazione spontanea. In alcuni casi questi grandi blocchi di terra e pietra sono

stati brucati insieme ai pali di cemento inutilizzati con la conseguenza di

generare diossina. Oltre a queste pratiche, sicuramente nocive dal punto di vista

ambientale, è possibile ravvisare una tendenza, presente soprattutto nei vigneti

del Chianti, che prevede un utilizzo più razionale dei residui dello smottamento

mediante la creazione di grandi terrazzamenti a metà pendio. Questa pratica è

attuata senz’altro con l’impiego di ruspe e mezzi meccanici ma comunque è

indice di una nuova consapevolezza che riguarda il rapporto dell’uomo con il

territorio. Certamente nelle logiche economiche a breve termine la maggior parte

delle aziende agricole non sembra a tutt’oggi tener conto di tutta una serie di

problematiche legate al fattore ambientale quali l’inquinamento delle falde

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acquifere dovuto agli agenti chimici e alla polverizzazione dei suoli derivante dal

massiccio sfruttamento dei terreni. Un altro elemento fondamentale nel delineare

la trasformazione subita dalle campagne toscane in conseguenza

dell’affermazione dell’agricoltura industriale è ravvisabile nella sostituzione

delle colture. Come si è visto dai dati statistici riportati nei capitoli precedenti, le

colture cerealicole hanno fatto registrare un certo ridimensionamento nel corso

dei decenni. Il girasole e il mais hanno pian piano acquistato terreno rispetto al

grano e, nonostante producano maggiori rese come piante irrigue, si sono diffuse

anche in collina. Testimonianze di tale fenomeno sono visibili nella Val d’Arbia.

Il mais, invece, per il fatto che può essere coltivato anche in appezzamenti di

ridotte dimensioni, è presente anche in piccoli campi gestiti da coltivatori diretti.

Anche gli oliveti hanno visto mutare la loro fisionomia sotto la spinta

dell’agricoltura industriale: dopo il 1985, anno della grande gelata, gli impianti

olivicoli cambiano volto e anche la struttura delle piante va incontro a delle

modifiche, infatti si preferisce coltivare piante più piccole per facilitare la

raccolta per mezzo di mezzi meccanici.

4.2 UNA NUOVA FISIONOMIA DEL PAESAGGIO AGRARIO

Emilio Sereni all’inizio degli anni Sessanta delineava il concetto di paesaggio

agrario utilizzando le seguenti parole “quella forma che l’uomo, nel corso e ai

fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente

imprime al paesaggio naturale”318

318 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 1961 (Ed.1999), p. 29.

. Gli studi di ecologia del paesaggio, che hanno

analizzato in maniera sistemica e dinamica le interazioni tra processi naturali e

fattori socio-economici, hanno messo in evidenza il carattere invasivo del settore

primario nei confronti dei sistemi naturali. Solo negli ultimi anni si è andata

affermando una visione olistica delle dinamiche uomo-ambiente volta a

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considerare la componente antropica come una delle controparti all’interno della

complessità degli ecosistemi319

Come è stato più volte ricordato, verso la fine degli anni Ottanta le distorsioni

nate dagli effetti di una Politica Agricola Comunitaria incapace di attuare riforme

strutturali hanno generato una grave crisi da sovrapproduzione, che rendeva

necessario ripensare al ruolo del settore agricolo non solo in termini economici

ma anche ambientali. Si è aperto, dunque, un periodo di riflessione che ha portato

a vedere il paesaggio come un bene capace di custodire elementi di arcaicità,

tradizione e conservazione. Questo nuovo modo di concepire la realtà rurale

sembra, però, non tenere nella giusta considerazione il ruolo che l’uomo ha avuto

nel plasmarlo e nel gestirlo. I problemi legati alla gestione antropica

dell’ambiente agricolo si fanno ancora più pressanti nel corso degli anni Ottanta

quando, territori con forti connotazioni rurali e ad alta valenza paesaggistica,

sono state teatro dell’edilizia residenziale senza alcuna preoccupazione di tutela

ambientale

.

320. Alcuni studiosi321 hanno imputato quest’ultimo fenomeno al fatto

che sul finire del secolo scorso il termine “rurale” ha iniziato ed essere utilizzato

per identificare una realtà territoriale contrapposta a quella urbana, ma diversa da

quella agricola. Anche il territorio toscano è stato investito da questo fenomeno,

soprattutto nelle aree collinari prossime a Firenze e il Monte Pisano322

319 M. Antrop, Background conceps for integrated landscape analysis, in “Agriculture Ecosistem and

Environment”, n. 77, Elsevier, 2000; G. Tress (a cura di), From landscape research to landscape planning: aspect of integration, education and integration, Springer, 2005.

dove la

vicinanza ai principali centri urbani ha giocato un ruolo fondamentale nel

processo di infrastrutturazione delle campagne. I dati statistici che abbiamo

utilizzato nei capitoli precedenti per descrivere l’andamento dell’agricoltura

320 R. Pazzagli (a cura di), Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, Edizioni ETS, Pisa, 2008.

321 V. Merlo, Neoruralità, in “Informazioni dai Georgofili”, n. 2, Firenze, 2007; O. Vitali, L’evoluzione rurale-urbana in Italia, Franco Angeli, Milano, 1983; D. Storti (a cura di), Tipologie di aree rurali in Italia, Inea, Roma, 2000.

322 P. Pieroni – G. Brunori, Il caso del Monte Pisano: il paesaggio della campagna periurbana, tra sviluppo residenziale-turistico e nuove forme di agricoltura, in G. Brunori – M. Marangon – M. Reho, La gestione del paesaggio rurale tra governo e governance territoriale, Franco Angeli, Milano, 2007.

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regionale nella seconda metà del secolo scorso sono direttamente collegati alla

marcata semplificazione delle varietà paesaggistiche. Nelle zone di montagna e

collina si è registrato l’aumento delle aree boschive caratterizzate, però, da una

drastica riduzione delle piante ad alto fusto in favore della vegetazione cedua.

Tutto ciò risulta essere la diretta conseguenza dell’abbandono a cui è andata

incontro la superficie boschiva regionale. Un dato importante riguarda i

castagneti da frutto che, a causa del diffondersi di alcune fitopatologie e al

declino della castanicoltura verificatosi negli ultimi decenni, hanno registrato una

marcata contrazione di superficie.

Le zone pianeggianti sono state investite da interventi invasivi di

accorpamento, specializzazione e intensificazione produttiva. Quest’ultima ha

caratterizzato anche le produzioni legnose, in quanto gli impianti a bassa densità

e le colture promiscue hanno lasciato il posto a distese regolari costituiti perlopiù

da seminativi. Come si può comprendere la diffusione delle colture foraggere a

seguito nell’avvicendamento, evidente conseguenza del riordino fondiario, ha

influito notevolmente sull’assetto paesaggistico e ambientale. Infatti, dopo gli

interventi di riforma fondiaria, ad ogni azienda spettava una stalla ed

inevitabilmente ciò implicava la necessità di provvedere al reperimento di

foraggio. Questo stato di cose, aggravato dai vantaggi economici derivanti dalla

zootecnia intensiva, ha indotto i conduttori delle aziende ad abbandonare

l’allevamento diffuso e brado in favore di sistemi intensivi e circoscritti. Anche

questa inversione di tendenza verificatasi nell’ambito zootecnico, unita alle

mutazioni degli assetti colturali, ha contribuito in maniera importante alla

formazione di una nuova fisionomia paesaggistica.

Un altro fenomeno molto importante, nato con l’avvento dell’agricoltura

industriale in Toscana, è la scomparsa della vegetazione arbustiva a sostegno

delle colture: fino alla prima metà del secolo scorso il paesaggio toscano era

costellato di viti maritate e gli eucalipti in Maremma erano usati come

frangivento. Sono andati altresì scomparendo le vestigia di arcaiche pratiche

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economiche come gli alpeggi in Garfagnana e in Lunigiana e le sistemazioni

idrauliche lungo i corsi di Serchio e Pescia.

Il progressivo ridursi delle varietà paesaggistiche toscane in seguito

all’affermazione dell’agricoltura industriale ha caratterizzato il periodo che va

dagli anni Sessanta alla fine del Novecento. L’elemento che ha contribuito in

modo preponderante nella semplificazione paesaggistico-colturale è costituito dal

ricorso a omosuccessioni di lunga durata (semina per diversi anni consecutivi di

frumento sulle stesse unità colturali) che oltre a impoverire i terreni e avvelenarli

con l’impiego di fertilizzanti chimici e diserbanti ha impresso al paesaggio un

volto monotono e monocromatico.

L’ultimo decennio del secolo scorso è stato caratterizzato da una serie di

tendenze che hanno visto una ulteriore contrazione della superficie agraria e una

diminuzione più contenuta del numero di aziende con la conseguenza di un

aumento della superficie aziendale. Unitamente a ciò sul finire degli anni

Novanta si possono cogliere alcuni segnali di controtendenza ravvisabili in una

certa riduzione dei seminativi tra cui colza, frumento e barbabietola da zucchero

e la ripresa di superfici vitate. Per meglio cogliere le implicazioni sottese a tale

processo risulta interessante osservarlo tenendo conto delle diverse realtà locali

caratterizzate da differenti componenti strutturali di carattere naturale e

antropico.

4.3 DINAMICHE RELATIVE AI QUATTRO PRINCIPALI SISTEMI

AGRO-PAESAGGISTICI REGIONALI

Pazzagli nel suo studio sulle caratteristiche del paesaggio toscano

contemporaneo323

323 R. Pazzagli (a cura di), Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, cit.

divide il territorio regionale in quattro marcoareali: il sistema

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appenninico, quello gravitante attorno al fiume Arno, quello delle colline interne

e quello della costa.

Il sistema appenninico è costituito dalle aree montane settentrionali ancora

caratterizzate da una antropizzazione di tipo tradizionale in cui i pascoli sono

inseriti all’interno delle zone boschive contraddistinte prevalentemente da

castagneti e faggete. I castagneti monumentali dello Scesta costituiscono una

testimonianza significativa dell’importanza che i castagneti hanno assunto nel

corso dei secoli per l’economia delle popolazioni montane. La valle dello Scesta

è caratterizzata da un paesaggio castanicolo con un buon livello di integrità in cui

gli antichi edifici rurali e le sistemazioni del terreno conservano ancora i tratti

tradizionali caratteristici324

In queste zone è ancora evidente il rapporto funzionale e produttivo esistente

tra uomo ed attività silvo-pastorali, tale interrelazione è testimoniata dalla

presenza di borghi come modalità insediative prevalenti a cui è possibile

. Tuttavia, anche qui esistono elementi di vulnerabilità

che minacciano la conservazione, il primo è da considerarsi lo stato di

progressivo abbandono che ha caratterizzato i castagneti da alcuni decenni a

questa parte, il secondo, invece, è ravvisabile nelle frequenti fitopatie tipiche di

queste piante come il cancro del castagno e il cosiddetto “mal d’inchiostro”.

Occorre osservare anche che questa zona è stata sottoposta, dalla fine degli anni

Ottanta in poi, a frequenti rimboschimenti. Questi ultimi, però, non hanno seguito

la logica di mantenimento della monumentalità secolare degli alberi ma, hanno

privilegiato l’impianto di nuovi giovani esemplari che tuttavia non possiedono le

capacità di salvaguardia idrogeologica delle grandi piante monumentali. Sempre

nel marcoareale appenninico, nei pendii caratterizzati da migliore esposizione

l’attività antropica è stata più incisiva andando a disegnare in maniera definita i

versanti dell’alta collina. Sono questi i luoghi dei grandi terrazzamenti e dei muri

a secco che testimoniano come le attività agricole tradizionali siano stati in grado

di conciliare la coltivazione alla difesa del suolo.

324 M. Agnoletti M. (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Laterza, Roma-Bari,

2011.

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accedere per mezzo di strade interpoderali fiancheggiate da alberi da frutto che

concorrono a caratterizzare il paesaggio. I versanti assolati del Mugello sono un

esempio di organizzazione rurale in tal senso poiché, osservando le

caratteristiche paesaggistiche, è possibile rilevare la presenza di piccoli impianti

orticoli in associazione con frutteti, vigneti e oliveti destinati perlopiù

all’autoconsumo325

Nelle pianure di questa macroarea si è mantenuta un tipo di agricoltura basata

sulle colture agrarie tradizionali associata all’allevamento di tipo estensivo basato

sull’utilizzo dei pascoli stagionali, situati perlopiù in posizione svantaggiata

rispetto ai terreni di pianura

. Qui è ancora possibile distinguere i segni dell’agricoltura

tradizionale con la presenza delle colture miste situate in appezzamenti delimitati

da siepi vive e attraversati dalla rete di drenaggio.

326

Il sistema interessato dal bacino dell’Arno investe il centro della regione e

comprende le zone limitrofe alle città di Arezzo e Firenze fino a giungere ai

confini con Pisa e Livorno. Qui la rete delle maglie poderali tipica dei

tradizionali assetti mezzadrili si è andata via via semplificando con

l’affermazione dell’agricoltura industriale. I terreni maggiormente produttivi

situati prevalentemente in pianura sono stati destinati alle colture intensive

infatti, queste superfici sono state il teatro delle principali dinamiche che hanno

investito sia la specializzazione che la meccanizzazione della produzione.

L’impatto paesaggistico di maggiore importanza è da considerarsi la progressiva

eliminazione delle colture promiscue in favore di produzioni intensive e

costruzione di strutture commerciali che si sono impiantate in aree un tempo

adibite al solo uso agricolo. Il processo di specializzazione non ha riguardato solo

le pianure del sistema del bacino dell’Arno ma ha caratterizzato anche la collina

in cui i tradizionali impianti viticoli nel corso degli anni Sessanta sono stati

.

325 D. Rizzo – M. Galli – T. Sabbatini, I segni del paesaggio. Le sistemazioni idraulico-agrarie del

Monte Pisano, in “Locus”, n. 3, 2007.

326 M. Galli – D. Rizzo – E. Bonari, Le funzionalità paesaggistiche dell’attività agricola: il caso di

studio della Lunigiana, in “Agribusiness Paesaggio e Ambiente”, n. 1, 2006.

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soppiantati da vigneti specializzati che hanno favorito la semplificazione

paesaggistica. L’impianto di nuovi vigneti di carattere intensivo, realizzati

principalmente con sistema a rittochino 327

Il sistema delle colline interne è situato nel cosiddetto “cuore” della regione ed

è formato da rilievi collinari di modesta altezza e dalla presenza di valli come la

Val di Chiana, la campagna senese e la val d’Orcia. Queste zone sono

considerate le più caratteristiche del paesaggio regionale, e per questo motivo

sono protette da vincoli paesaggistici

, ha fatto sì che gli elementi di

interruzione dei versanti e il sistema di affossature e di drenaggio delle acque

venissero completamente rimossi favorendo in tal modo il rischio di erosione.

328

327 Per rittochino si intende un particolare tipo di sistemazione agraria per cui le unità colturali seguono

le linee di massima pendenza, a tal proposito si veda: R. Landi, Sistemazioni idraulico-agrarie in Italia. Atlante dei tipi geografici, Istituto Geografico Militare, 2004.

. La tipologia agricola vede l’alternanza

di seminativi e colture arboree sia di tipo estensivo (oliveti in coltura promiscua)

che intensivo (vigneti). Fino agli anni Novanta del secolo scorso queste

campagne erano contraddistinte da indirizzi colturali di tipo intensivo ma nella

seconda metà del decennio, con i cambiamenti relativi al mercato, si è verificato

una evoluzione sia di tipo gestionale che colturale. Un segno di questi

cambiamenti è la riduzione delle superfici a grano a cui si è accompagnata la

ripresa delle sistemazione dei versanti collinari. Il ritorno alle pratiche agricole

tradizionali è testimoniato dai vigneti di Lamole, situati nel comune di Greve in

Chianti; in questi terreni all’inizio degli anni Settanta, dopo i processi di

ricomposizione fondiaria, è stata avviata un’opera di ricostituzione delle superfici

vitate. In un primo momento, in seguito all’affermazione della meccanizzazione,

si preferirono gli impianti sistemati a rittochino e di conseguenza i tradizionali

terrazzamenti vennero abbandonati. Sul finire del secolo scorso, però, si è

assistito ad un progressivo ritorno alla viticoltura tradizionale e ai suoi metodi

colturali fatti di terrazzamenti e viti ad alberello. Tutto ciò è stato favorivo dai

328 Articolo 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 43 “Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137” e articolo 33 della legge regionale 3 gennaio 2005, n.1 “Norme per il governo del territorio”.

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cambiamenti nel gusto dei consumatori che sempre più preoccupati per la loro

salute si sono orientati verso prodotti di maggiore qualità in grado di mantenere

intatte le proprietà organolettiche originali. La qualità richiesta nei prodotti ben si

sposa con il ripristino delle pratiche agricole tradizionali in cui alla produzione è

strettamente legata la tutela del territorio e del paesaggio. Le colline interne,

proprio per il loro valore paesaggistico, sono a tutt’oggi una meta turistica molto

apprezzata e la presenza di una diffusa attività agrituristica lo conferma. A questo

proposito occorre effettuare alcune precisazioni: se da un lato la logica sottesa

allo sviluppo delle attività turistiche ha consentito la ristrutturazione e il recupero

di antichi casolari e annessi agricoli, dall’altro ha incrementato la diffusione di un

vasto sistema infrastrutturale fatto di reti stradali asfaltate, piscine, ristoranti, bar

e servizi di vario genere che hanno contribuito ha snaturare la vocazione agricola

di queste campagne.

Il sistema della costa comprende le zone che si affacciano sul Tirreno costituiti

prevalentemente da pianure costiere delimitate da basse colline densamente

popolate. L’agricoltura è caratterizzata da impianti specializzati creati negli anni

successivi alla riforma fondiaria del 1950. Attraversando queste zone è possibile

cogliere una quasi totale uniformità paesaggistica che sembra interrompersi solo

al confine con le colline dove solo modeste estensioni di superfici vitate si

alternano ai seminativi. Nell’ultimo scorcio di secolo queste zone hanno visto un

graduale calo della risorsa idrica in seguito all’espansione delle attività turistiche

sulla costa. Tutto ciò ha determinato un arretramento delle colture verso le

colline a cui si è associato il progressivo abbandono delle produzioni estive in

favore di quelle invernali come cavoli, cavolfiori e spinaci, con lo scopo di

arginare un massiccio utilizzo di acqua nei periodi di maggior calura.

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4.4 LA VITE: PRODOTTO COLTURALE O PRODOTTO CULTURALE?

L’utilizzazione dei suoli e le pratiche agrarie possono essere considerate come

lo specchio della “cultura materiale nel paesaggio” 329 e in Toscana la

coltivazione della vite costituisce l’elemento produttivo che meglio si sposa con

questo concetto. La viticoltura ben testimonia le tracce dell’azione antropica

all’interno del paesaggio nel susseguirsi delle epoche storiche. Di fronte

all’avvento e alla diffusione dell’agricoltura industriale che ha investito sia

direttamente che indirettamente quasi tutte le aree rurali regionali è possibile

cogliere nella viticoltura un aspetto che sfugge alle comuni logiche economiche e

di mercato e che si configura come una sorta di elemento unificante tra uomo e

ambiente circostante. Che la viticoltura in Toscana non abbia soltanto una mera

valenza economica lo attesta il caso dell’Isola d’Elba. Uno studio relativo alla

viticoltura intesa come esempio di tecnica di coltivazione e di trasmissione di

uno specifico saper fare ha messo in luce alcuni aspetti interessanti: il primo

riguarda la persistenza della viticoltura come attività produttiva malgrado

esistano attività maggiormente redditizie, soprattutto nel settore turistico; il

secondo fa riferimento al fatto che nell’Isola siano conservati dei vitigni

autoctoni e tecniche tradizionali di coltivazione e vinificazione; il terzo ed ultimo

concerne l’attenzione e il recupero dei prodotti di qualità a carattere locale330

329 G. Cortesi, Il paesaggio (come prodotto) culturale, in R. Pazzagli (a cura di), Il paesaggio della

Toscana tra storia e tutela, cit., p. 242.

. Per

quanto concerne il primo aspetto, se è vero che per tutta la seconda metà del

Novecento si è assistito ad una contrazione delle superfici vitate è altrettanto vero

che le poche aziende rimaste e l’esigua estensione delle superfici adibite alla

coltura della vite rendono testimonianza di una persistenza sia colturale che

330 B. Cori - G. Cortesi – E. Izis – M. Lazzeroni – E. Lemmi, Evoluzione dell’uso del suolo e trasformazioni del paesaggio culturale: il caso dell’Isola d’Elba, in E. Manzi (a cura di), Paesaggio e Mediterraneo, Memorie Società Geografica Italiana, Roma, 2006.

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culturale che prescinde ogni aspetto di tipo economico331

Il fatto che sull’Isola d’Elba siano presenti molte varietà di vitigni autoctoni

quali procanico, ansonica, biancone e aleatico coltivati secondo la tradizionale

tecnica ad alberello basso invece che a spalliera

. Non è un caso poi che

tali aziende sono condotte a part-time dal momento che da sole non sarebbero

state in grado di garantire redditi sufficienti ai proprietari. Malgrado ciò si

registra tra i viticoltori dell’isola una volontà di dedicarsi ad una agricoltura di

tipo tradizionale capace di esplicarsi in armonia con il territorio circostante.

Risulta importante sottolineare, inoltre, che se nell’ottica di un’economia sempre

più globale le piccole aziende rappresentano un ostacolo da eliminare, per quanto

riguarda invece la prospettiva culturale esse si sono configurate e si configurano

come unità capaci di conservare il patrimonio delle tecniche colturali in unione

alla cura del paesaggio e al mantenimento di una tradizione che con l’avvento dei

meccanismi globalizzanti sarebbero andati via via scomparendo.

332

Questi aspetti emersi nelle campagne dell’Isola dell’Elba non sono esempi

isolati ma sono riscontrabili anche in altre aree della regione dove le tecniche

agrarie tradizionali hanno resistito alle spinte della modernizzazione agricola e i

coltivatori di fronte al dilagare della viticoltura intensiva praticata con il sistema

del rittochino hanno preferito mantenere le sistemazioni a cavalcapoggio,

girapoggio e più in generale quelle a terrazze e ciglioni.

concorre a confermare la

vocazione dei coltivatori locali per l’applicazione e la trasmissione di saperi

antichi.

331 Ibidem e G. Cortesi, Il paesaggio (come prodotto) culturale, in R. Pazzagli (a cura di), Il paesaggio

della Toscana tra storia e tutela, cit.

332 L’allevamento a spalliera è il tipo di coltivazione più praticata al mondo, risulta molto diffuso all’interno dell’agricoltura industriale perché consente un facile utilizzo delle macchine agricole; a tal proposito si veda: F. Marangon, Gli interventi paesaggistico-ambientali nelle politiche regionali di sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2006.

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Esempio dell’evoluzione del paesaggio agrario toscano. Intensificazione delle colture

legnose nelle campagne di Vinci (FI).

Fonte: R. Pazzagli (a cura di), Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, Edizioni ETS,

Pisa, 2008.

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Esempio della trasformazione della collina toscana sul finire del ‘900 in cui i nuovi impianti

viticoli sistemati a rittochino prevalgono insieme a nuove infrastrutture.

Fonte: R. Pazzagli (a cura di), Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, Edizioni ETS,

Pisa, 2008.

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Rare persistenze di coltura promiscua nelle colline della Valdichiana.

Fonte: S. Neri Serneri (a cura di), Storia del territorio e storia dell’ambiente, Franco

Angeli, Milano, 2012.

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Foto aerea del 1954 delle campagne tra Marciano (AR) e Tegoleto (AR) che mette in

evidenza la particolareggiata articolazione dei fondi.

Fonte: S. Neri Serneri (a cura di), Storia del territorio e storia dell’ambiente, Franco

Angeli, Milano, 2012.

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Foto aerea del 1978 delle campagne tra Marciano (AR) e Tegoleto (AR) che mostra

chiaramente gli effetti dell’accorpamento fondiario.

Fonte: S. Neri Serneri (a cura di), Storia del territorio e storia dell’ambiente, Franco

Angeli, Milano, 2012.

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5. TRASFORMAZIONE DEGLI ASSETTI AGRARI NELLE MARCHE

DAL SECONDO DOPOGUERRA ALLA FINE DEGLI ANNI

SETTANTA.

Dopo aver presentato il caso della regione Toscana che, per la sua complessità

e le sue peculiarità locali, ha meritato uno spazio molto ampio, si passa all’esame

dei mutamenti negli assetti agricoli marchigiani intervenuti negli anni successivi

alla Seconda Guerra Mondiale. Rispetto ai capitoli relativi al contesto agricolo

toscano, in cui i trend produttivi delle produzioni tipiche avevano un ruolo

centrale, qui l’attenzione sarà concentrata sulle trasformazioni strutturali delle

aziende agricole dopo il tramonto della mezzadria che in queste regioni, più che

altrove, hanno avuto notevoli ripercussioni economici e sociali.

5.1 LE DINAMICHE DELLA FORZA-LAVORO ALL’INTERNO DEL

SETTORE AGRICOLO MARCHIGIANO

Lo studio delle dinamiche caratterizzanti le strutture agricole marchigiane

prende avvio dall’analisi dei dati emersi dal Censimento Generale della

Popolazione del 1951333 da cui si evince che nel settore agricolo è presente una

popolazione attiva pari al 60,2%. Se è vero che nei vent’anni successivi questa

percentuale scende al 25,3%334

333 Istat, IX Censimento Generale della Popolazione: 4 novembre 1951, Soc. Abete, 1958.

, confrontata con quella dell’Umbria (20,7%) e

della Toscana (11,5%) anch’esse caratterizzate dal sistema mezzadrile, risulta

comunque molto significativa. Analizzando questo dato anche negli anni

successivi al 1971 si nota un certo calo ma, nonostante ciò, Le Marche restano al

primo posto per quanto riguarda la popolazione attiva nell’ambito interregionale

mezzadrile facendo registrare una media superiore sia a quella delle regioni del

334 Istat, XI Censimento Generale della Popolazione: 24 ottobre 1971, Roma, 1972.

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Nord che a quella nazionale335

. Come dimostra la tabella sottostante nei primi

anni Cinquanta lo stato della forza lavoro nella regione risulta in sostanza

invariato rispetto al periodo pre-bellico.

POPOLAZIONE ATTIVA IN AGRICOLTURA NEL 1936 E NEL 1951.

Maschi e Femmine Maschi 1936 1951 1936 1951

Conduttori non coltivatori

5.155 4.648 3.937 3.610

Dirigenti e impiegati

1.202 1.234 1.188 1.218

Conduttori coltivatori

34.709 35.471 31.646 32.213

Coloni parziali 62.128 66.345 60.348 64.580

Salariati di cui

compartecipanti 107 50 91 42

a contratto annuo 6.097 2.941 4.818 2.586

a giornata 35.127 14.069 23.944 12.340

Coadiuvanti di cui

249.440 257.062 119.095 135.545

conduttori non coltivatori

932 587

conduttori coltivatori

58.358 27.079

coloni parziali 190.150 91.429

Altri 394 725 390 660

Totale 394.359 382.681 245.457 252.929

Fonte: Cavazzani A., L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda

contadina a conduzione familiare, Tipolitografia S.I.T.A., Ancona, 1978.

Un elemento importante che emerge dai dati appena esposti è costituito dal

fatto che due terzi dei conduttori sono mezzadri mentre un terzo coltivatori

diretti. Il sistema mezzadrile ancora mantiene un ruolo significativo nel

panorama occupazionale regionale, infatti la complessità insita nella rescissione

335 S. Anselmi, Storia d’Italia. Le Regioni. Vol.6: Le Marche, Einaudi, 1987.

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del contratto di mezzadria influisce non poco in questo senso. Come sottolinea

Bruno Ciaffi: “Fino all’inizio dell’ultima guerra mondiale, di solito ogni famiglia

si trovava nel podere più confacente alla sua forza perché ogni anno, con i cambi

di colonia, limitati quasi sempre alle pure necessità colturali, si provvedeva alle

sistemazioni delle situazioni sperequate; successivamente, per i vincoli frapposti

alle disdette che permangono tuttora, quel normale assestamento annuale

dipendente soprattutto dalle variazioni delle capacità lavorative per divisioni e

altre cause, è venuto a mancare, per cui si sono determinati stridenti squilibri con

gravissimo danno della produzione e del coloni stessi”336

Questo tasso di attività rurale è strettamente legato al tipico assetto agricolo

della mezzadria che per secoli è stato l’unico mezzo in grado di giungere ad una

sorta di compromesso tra coltivazioni collinari e salvaguardia idrogeologica del

territorio. Come fa notare Anselmi: “(...) l’antico assetto agricolo della regione ha

trovato nel patto di mezzadria lo strumento idoneo a porre a coltura il territorio e

a conservarlo in condizioni di buona produttività per molti secoli, nonostante la

depauperante e onnipresente coltivazione del grano, nell’ambito di una politica

economica orientata all’esportazione, (…) all’esaltazione dell’immagine urbana

dei possidenti (…)”

. Le parole di Ciaffi

assumono maggiore efficacia se messe in relazione con il fatto che la

proporzione tra l’ ampiezza dell’azienda e quella del nucleo familiare mezzadrile

rappresenta un importantissimo fattore di equilibrio per le dinamiche interne al

settore agricolo in senso generale.

337. Tornando ancora alle cifre ed in particolare a quelle

contenute nell’indagine campionaria dell’Ispettorato Agrario Compartimentale

per le Marche338

336 B. Ciaffi, Il volto agricolo delle Marche, Edizioni Agricole, Bologna, 1953, p. 179. A tal proposito

si veda anche A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a conduzione familiare, Tipolitografia S.I.T.A., Ancona, 1978.

si nota un elemento interessante e cioè che nel 46,6% dei poderi

mezzadrili presi in considerazione la manodopera risulta insufficiente ma

337 Ibidem, p.243.

338 Issem, Prime linee per il piano ragionale di sviluppo economico delle Marche, Ancona, 1969.

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soltanto sporadicamente il mezzadro ricorre alle assunzioni, Ciò è spiegabile

tenendo in considerazione il fatto che il peso economico di tale iniziativa sarebbe

interamente a suo carico. Per superare gli inconvenienti derivanti da carenza di

manodopera si ricorre prevalentemente ai cosiddetti scambi di prestazione.

Anche questa pratica contribuisce a rafforzare la rigidità del settore agricolo in

cui si viene manifestando con sempre maggiore intensità la necessità di investire

maggiori capitali. Come osserva Ada Cavazzani “Manca spesso la manodopera;

mancano quasi sempre i capitali”339. Ad aggravare la situazione concorre anche il

fatto che, nel periodo della risoluzione dei patti mezzadrili, viene meno anche il

ruolo di garante che, nell’ambito del processo di potenziamento produttivo, il

mezzadro aveva ricoperto fino ad allora. Quest’ultimo infatti, nel rispetto dei

patti di mezzadria, contribuendo con la metà del capitale di scorta poteva gestirlo

autonomamente assumendosi i rischi che una cattiva gestione comportava340. Ma,

di fronte alla riluttanza dei proprietari terrieri ad investire nell’agricoltura, ai

mezzadri non restava altro da fare che utilizzare i capitali di scorta al fine di non

retrocede socialmente341

339 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a

conduzione familiare, p.53.

. Nello stesso tempo l’atmosfera di crisi che avvolgeva il

sistema mezzadrile aveva contribuito a far sì che la borghesia agraria operasse un

ingente trasferimento di capitali dall’agricoltura ad altri settori. Già alla fine degli

anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta all’interno del settore agricolo si

manifesta la necessità di maggiori investimenti di capitali che però la borghesia

agraria assenteista non ha intenzione di attuare. Da tali premesse non meraviglia

il fatto che alla fine degli anni Sessanta l’agricoltura marchigiana venga descritta

340 A. Arzeni – R. Esposti - F. Sotte, Politiche di sviluppo rurale tra programmazione e valutazione, Franco Angeli, Milano, 2003.

341 A questo proposito si veda A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a conduzione familiare, p.53 in cui si legge: “Nel passato era stato soprattutto il mezzadro a garantire lo sviluppo produttivo, concorrendo nell’impresa con la metà del capitale di scorta. Se era fornito di mezzi finanziari per acquistare la comproprietà delle scorte del nuovo fondo la sua sistemazione era molto facile e godeva di una notevole autonomia della scelta. Altrimenti retrocedeva irrimediabilmente, con la famiglia, su poderi sempre più scadenti o nella categoria dei casanolanti, ridotti a vivere alla giornata ai margini delle colonie”.

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come un settore caratterizzato da un bassissimo tasso di accrescimento della

produzione di gran lunga inferiore sia a quello nazionale che a quello dell’Italia

centrale; altri dati da non sottovalutare sono: il livello dello stock di capitale

agricolo, che risulta essere un terzo di quello dell’Italia meridionale,

l’incremento della produttività come conseguenza delle migrazioni verso i centri

urbani e, malgrado ciò, un decremento del saggio di rendimento del capitale.

Occorre ricordare, inoltre, che i rapporti contrattuali da cui risulta un

pressoché totale impiego di manodopera, celano delle situazioni alquanto

diversificate 342 : infatti, stando agli Atti della Commissione parlamentare di

inchiesta sulla miseria in Italia343

, risulta che una ingente parte delle famiglie

contadine vive ai margini della povertà. Questa forbice esistente tra quanto

risulta formalmente, cioè la piena occupazione, e i dati reali è riconducibile

ancora una volta allo scarso investimento di capitali nel contesto aziendale

mezzadrile poiché, un più alto livello di investimenti avrebbe permesso, oltre

all’aumento del valore del prodotto, di attenuare la sottoccupazione.

342 Annuario dell’agricoltura italiana 1953, p.506.

343 Parlamento. Camera dei deputati, Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla: Inchiesta a carattere comunitario, II Commissione, 1954, Vol. I, p.22.

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SOTTOCCUPAZIONE AGRICOLA NELLE MARCHE NEL BIENNIO 1950-’51

Unità uomo (000)

Salariati fissi e giornalieri 13,3

Coltivatori diretti 313,6

Impiego medio annuo delle unità uomo (giornate 000)

Salariati fissi e giornalieri 78

Coltivatori diretti 142

Giornate effettivamente lavorate nell’anno per attività ordinarie (000)

Salariati fissi e giornalieri per coltura

1.034

Coltivatori diretti per coltura

44.531,3

Pieno impiego per unità uomo (numero giornate annue) Pieno impiego complessivo Salariati fissi 3.724

Coltivatori diretti 87.808

Totale 91532

Sottoccupazione (giornate 000)

Salariati fissi 2.607,1

Coltivatori diretti 40.587,1

Totale 43.194,2

Sottoccupazione (%) Salariati fissi 70

Coltivatori diretti 46

Totale 47

Fonte: Cavazzani A., L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda

contadina a conduzione familiare, Tipolitografia S.I.T.A., Ancona, 1978.

Anche l’esame dei dati contenuti nei censimenti della popolazione del 1951 e

del 1961 fa scorgere alcuni aspetti caratterizzanti il trend occupazionale

all’interno del settore agricolo regionale infatti, insieme al calo generale della

popolazione residente (pari ad un punto percentuale) si registra un decremento

della popolazione attiva in agricoltura pari al 31%, maggiormente concentrato

nelle zone montuose interne. Analizzando le serie storiche dei dati Istat viene

fuori un’altra informazione interessante: il numero degli occupati cosiddetti

“permanenti” in agricoltura è risultato minore rispetto alla totalità degli attivi344

344 Istat, Statistiche storiche dell’Italia dal 1861 al 1975, Roma, 1976, pp. 108-147; G. Dell’Angelo,

Note sulla sottoccupazione nelle aziende contadine, Giuffrè, Roma, 1960,

.

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La causa di questo fenomeno può essere ravvisata nel calo della sottoccupazione,

infatti nel decennio considerato il numero degli occupati marginali è sceso di

sette punti percentuali. Andando nel dettaglio emerge che, soprattutto durante gli

anni Cinquanta, si verifica una notevole riduzione del numero dei mezzadri solo

in parte bilanciata dall’incremento delle figure dei coltivatori diretti. Dal

raffronto degli elementi contenuti nell’indagine dell’Inea sulla distribuzione della

proprietà fondiaria 345 con le cifre riportate nel censimento generale

dell’agricoltura del 1961346 si evidenzia una contrazione della superficie agricola

caratterizzata dalla mezzadria mentre non si riscontrano variazioni di rilievo nelle

dinamiche della superficie gestita da coltivatori diretti. Questo raffronto

conferma che per tutti gli anni Cinquanta la dinamica più rilevante nell’ambito

della forza-lavoro riguarda la mezzadria dal momento che i mezzadri passano dal

75% della popolazione attiva in agricoltura del 1951 al 60% del 1961. Va detto

comunque che questo trend non influisce in modo significativo sui sistemi di

conduzione poiché anche la superficie delle aziende condotte a mezzadria

diminuisce, nel medesimo periodo, di quasi dieci punti percentuali non

producendo variazioni rilevanti nella distribuzione delle aziende in base alle

classi di superficie. Anche se sia i mezzadri che la superficie delle aziende a

mezzadria diminuisce c’è da specificare che ciò non avviene in maniera

proporzionale, infatti l’estensione dei terreni gestiti con contratto mezzadrile

diminuisce i misura più contenuta rispetto al numero dei mezzadri. Tutto ciò ha

come conseguenza la crisi della famiglia mezzadrile concepita come unità

produttiva infatti, in un tale stato di cose “Si restringe la composizione del nucleo

familiare, in media e sia pure secondo stime approssimative, di un membro attivo

per famiglia”347

345 Inea, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, Edizioni Italiane, 1947.

. Da ciò si comprende chiaramente che il passo dalla crisi del

nucleo familiare mezzadrile a quella dell’azienda è breve. Questa stretta

346 Istat, Censimento Generale dell’Agricoltura: 15 aprile 1961, Roma, 1963.

347 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a conduzione familiare, cit., p.62.

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correlazione tra azienda mezzadrile e nucleo familiare è confermata dalla drastica

diminuzione delle unità coadiuvanti che all’inizio degli anni Sessanta sono

ridotte a circa due per ogni azienda.

COMPOSIZIONE DELLE FAMIGLIE MEZZADRILI E DIRETTO COLTIVATRICI NEL 1936, 1951 E 1961.

Famiglie Mezzadrili 1936 1951 1961

Mezzadri capifamiglia 60.154 62.337 50.821

Coadiuvanti 190.150 197.007 109.877

Familiari non coadiuvanti 213.556 178.099 132.101

Totale componenti 463.860 437.443 292.799

Coadiuvanti per capo famiglia 3,16 3,16 2,16

Familiari non coadiuvanti per capo famiglia

3,55 2,86 2,60

Componenti per famiglia in complesso

7,71 7,02 5,76

Famiglie Diretto Coltivatrici 1936 1951 1961

Coltivatori diretti capifamiglia 34.709 33.194 33.307

Coadiuvanti 58.358 60.055 45.267

Familiari non coadiuvanti 102.836 68.287 70.546

Totale componenti 195.903 161.536 149.120

Coadiuvanti per capofamiglia 1,68 1,81 1,36

Familiari non coadiuvanti per capofamiglia

2,96 2,06 2,12

Componenti per famiglia in complesso

5,64 4,87 4,48

Fonte: Cavazzani A., L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda

contadina a conduzione familiare, Tipolitografia S.I.T.A., Ancona, 1978.

Bisogna aggiungere che il fenomeno dell’impiego occupazionale extra-

aziendale non è imputabile soltanto alla bassa redditività del lavoro agricolo ma

anche al ruolo produttivo accessorio rivestito dai coadiuvanti rispetto al

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conduttore. Dall’esame dei dati della tabella precedente si evince senza ombra di

dubbio che all’interno della famiglia mezzadrile si è verificato un deciso

abbandono da parte dei suoi membri che in un primo periodo si erano rivolti ad

attività occupazionali diverse da quelle agricole348. Nel decennio che va dal 1951

al 1961 l’azienda mezzadrile ha potuto posticipare il suo inevitabile crollo grazie

alle manovre di intensificazione dello sfruttamento del lavoro nonostante l’esodo

della manodopera delle aree marginali. Il ricorso ad una forte intensificazione

dello sfruttamento del lavoro è stato reso necessario anche dall’irrilevante

contributo che i mezzi meccanici potevano fornire in questo periodo

all’agricoltura regionale e dalle scarse conoscenze delle più moderne tecniche

agronomiche. A questo proposito Sergio Pretelli nel suo saggio dal titolo Ferro,

chimica e vapore nello sviluppo agricolo delinea molto bene lo stato di

ammodernamento dell’agricoltura regionale utilizzando queste parole: “I 2.123

trattori presenti nelle Marche nel 1950 sono ancora impiegati per la maggior

parte in coppia con la trebbiatrice, ma a partire da allora (sostituzione del cingolo

alla ruota in ferro) il nuovo trattore salirà ogni pendio e si espanderà velocemente

in tutte le campagne marchigiane. I vecchi melote e i vari Sack o loro equivalenti

italiani non reggono alla nuova forza di trazione e di fronte all’ostacolo, pietra o

radice che sia, se non si rompe la catena di attacco, salta il carrello o salta il

vomere. Vengono anche meno le rotazioni e la diversificazione delle colture, si

rompe l’isolamento contadino, cambia l’universo rurale ma non si crea un punto

di riferimento efficace per l’applicazione dei principi della nuova scienza

agronomica” 349

348 G. Orlando, La produttività del lavoro agricolo e lo sviluppo delle aree arretrate, Inea, Roma, 1957.

. Esaminando le statistiche contenute negli annuari

dell’agricoltura italiana del 1950 e del 1953 si rileva che il settore agricolo

marchigiano è investito da forti flussi migratori caratterizzati dall’esodo dei

contadini verso l’area senese, aretina e nei pressi della campagna romana.

Questo fenomeno ha avuto due cause principali: la prima risiede nel blocco dei

349 S. Pretelli, Ferro chimica e vapore nello sviluppo agricolo, in Storia d’Italia. Le Regioni, vol.6, cit., p, 586.

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contratti agrari350mentre la seconda è riconducibile all’allentamento del mercato

mezzadrile che ha favorito una certa mobilità interna alla regione (dalle zone di

montagne alle aree litoranee). E’ da precisare, però, che questa mobilità ha

incontrato non pochi ostacoli dovuti principalmente alla folta schiera di operatori

esterni al settore agricolo, perlopiù professionisti e commercianti, decisi,

soprattutto nelle aree d’elezione delle colture orticole, a sostituire la mezzadria

con rapporti capitalistici. A tutto ciò si aggiunga il fatto che i mezzadri

provenienti dall’interno non potevano certo disporre della liquidità per rilevare la

quota di scorte poderali351

Durante gli anni Sessanta si continua ad assistere alla contrazione degli

occupati marginali in agricoltura con la differenza che tale diminuzione riguarda

anche gli occupati permanenti nel settore producendo un mutamento qualitativo

nella tipologia di esodo che si ripercuote in maniera decisa sulla struttura degli

assetti produttivi. Il dato significativo che emerge in questo periodo è la costante

riduzione delle aziende condotte a mezzadria e dell’incremento di quelle condotte

dal coltivatore diretto. Una realtà a parte è costituita dalle superfici più produttive

situate nelle zone litoranee, dove, come si è accennato prima, l’impresa

capitalistica si è affermata come principale sistema di gestione fondiaria vista la

difficoltà degli ex mezzadri ad acquistare

.

352

350 A questo proposito si rimanda al documento inerente la proposta di legge n.365 del 23 febbraio 1949

presentata dai deputati Bonomi, Truzzi, Stella, Burato, Sodano, Fina, Gui, Chiarini, Calcagno, Visentin, Marenghi, Franzo, Troisi, Facchin relativa alla “Proroga dei contratti di affitto di fondi rustici, di mezzadria, colonia parziaria e compartecipazione”. Il documento è disponibile nella sezione documenti a stampa del sito internet della camera dei deputati.

. Il fortissimo calo dei rapporti di

mezzadria che caratterizza tutti gli anni Sessanta e di cui sono protagonisti, a

differenza del decennio precedente, gli occupati permanenti è la dimostrazione

che quella che prima era soltanto la crisi della famiglia mezzadrile adesso è

diventata la crisi dell’intera azienda. Le problematiche non riguardano più la

sottoccupazione o l’attuazione di minor carico di lavoro, ormai si fa sempre più

351 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a conduzione familiare, cit.

352 C. Barberis - V. Siesto, Produzione agricola e strati sociali, Franco angeli, Milano, 1974.

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pressante l’esigenza di trasformare l’assetto produttivo partendo dal rapporto

capitale-lavoro, l’allargamento del mercato e la possibilità di ottenere incrementi

produttivi da investimenti fissi giocano un ruolo fondamentale in questo senso.

E’ questo il periodo che vede raddoppiare il peso delle spese per l’acquisto di

beni e servizi sul valore della produzione lorda vendibile 353 . Si può dunque

affermare che al definitivo crollo dell’assetto mezzadrile contribuirono sia cause

di origine culturale, quali l’atmosfera di rinnovamento derivante dalla fine della

guerra e le aspettative verso il periodo della ricostruzione, sia fattori di ordine

economico. Anche gli studiosi 354 e i politici contemporanei avevano colto le

problematiche connesse con il sistema mezzadrile in cui il reddito del colono non

era paragonabile a quello del salariato nell’industria. Infatti, nell’ambito della

Conferenza nazionale del mondo rurale355, voluta nel 1961 dal governo Fanfani,

la questione dello squilibrio tra redditi agricoli e salari industriali fu uno dei temi

centrali. Nella relazione finale della Conferenza, curata da Bandini e Campilli,

era messa in evidenza la sostanziale arretratezza derivante dalla mezzadria che

non risultava più adeguata a fronteggiare le sfide dell’ammodernamento del

settore agricolo; in quest’ottica si proponeva l’attuazione di interventi atti ad

accompagnare ed accelerare il processo di evoluzione verso la proprietà

contadina356

353 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a

conduzione familiare, cit.; R. Fanfani, Proprietà terriera e azienda agricola nell’Italia del dopoguerra, in Storia dell’agricoltura, cit., Vol. 2.

. Ormai la mezzadria, con il suo ordinamento produttivo misto, è

divenuta agli occhi degli addetti ai lavori (tecnici e professionisti, nonché

economisti, politici ed imprenditori) un sistema anacronistico assolutamente

inadattabile ai repentini mutamenti richiesti dal mercato. L’unica soluzione che

354 A tal proposito si veda M. Tofani, Tendenze attuali nei tipi di impresa in Italia, in “Rivista di Economia Agraria”, n.2, 1952 e M. Tofani, La mezzadria dall’Assemblea Costituente alle leggi agrarie, Bologna, 1964.

355 Atti della Conferenza Nazionale del Mondo Rurale e dell’Agricoltura, Vol. 11, Roma, 1963.

356 M. Bandini – P. Campilli, Rapporto finale del comitato di Presidenza, in Atti della Conferenza Nazionale, cit. a tal proposito si veda anche M. Moroni, L’Italia delle colline. Uomini, terre e paesaggi nell’Italia centrale (secoli XV-XX), Proposte e ricerche, 2003.

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in questo periodo pare possibile è costituita dalla lenta e costosa sostituzione dei

tradizionali ordinamenti colturali con organizzazioni produttive più efficienti. Il

raggiungimento di tale obiettivo, nella regione Marche più che altrove, ha

incontrato non pochi ostacoli, dal momento che come osserva Ada Cavazzani “

L’accumulazione del mezzadro nelle zone produttivisticamente più interessanti

non ha raggiunto livelli proporzionati all’entità di capitali necessaria alla

valorizzazione e il contratto colonico è sopravvissuto fissando alla terra famiglie

prive di alternative complessive e assottigliate nel numero dei componenti”357.

Certamente bisogna prendere atto anche del fatto che, oltre a queste complesse e

difficili situazioni di adattamento ai nuovi scenari economici, esistono realtà in

cui i concedenti maggiormente dinamici sotto il profilo imprenditoriale hanno

provveduto all’allargamento della superficie aziendale e alla sostituzione dei

vecchi rapporti di conduzione con nuove tipologie di contratti.358

357 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a

conduzione familiare, cit., p.72.

E’ palese che di

fronte a queste dinamiche la forbice tra le aziende con un buon potenziale di

sviluppo e quelle povere si allarghi ancora di più, risulta interessante, invece,

cercare di comprendere le motivazioni sottese alla sopravvivenza delle imprese

agricole caratterizzate da un basso profilo produttivo. Gli economisti hanno

ravvisato le cause di tale sopravvivenza nella struttura del mercato, nelle

caratteristiche della politica agricola nazionale e nel sostegno europeo alle

strutture estensive che caratterizzano la maggior parte delle zone agricole

marchigiane. Inoltre, è importante sottolineare, che in un primo momento i

mercati locali offrivano una certa autonomia alle piccole aziende nel collocare le

produzioni rispetto ai circuiti regionali, nazionali e internazionali. Oltre a ciò

non bisogna sottovalutare il fatto che questi sono gli anni in cui per i piccoli

produttori il maggiore fattore di sbocco sul mercato è costituito dalla diffusione

delle reti di acquisizione delle produzioni cosiddetti “standardizzabili”. Questa

358 Ci si riferisce in particolar modo alla conduzione con salariati. A questo proposito si veda E. Pugliese – M. Rossi, Dualismo strutturale in agricoltura e mercato del lavoro, in A. Graziani (a cura di), Crisi e ristrutturazione dell’economia italiana, Einaudi, Torino, 1975.

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situazione, capace di sostenere per tutti gli anni Sessanta le aziende a reddito

ridotto, precipita inesorabilmente allorquando si avvia a livello comunitario il

processo di adeguamento dei prezzi di sostegno ai costi delle aziende più

efficienti. In tale congiuntura, dove la mezzadria non è più in grado di sussistere

come sistema produttivo efficiente e il passaggio dei mezzadri a coltivatori diretti

diviene di difficile attuazione, come conseguenza del dibattito svoltosi all’interno

della Conferenza nazionale del mondo rurale, nel 1965 venne varato un

provvedimento legislativo volto a facilitare l’acquisto da parte dei mezzadri delle

proprietà terriere 359

. Questa legge contribuì in modo significativo alla crisi

definitiva del sistema mezzadrile. I dati riportati nella seguente tabella, che

illustra la distribuzione delle aziende e la relativa superficie in ettari per forma di

conduzione nel periodo 1947-1970, risultano molto eloquenti nel darci il conto

delle dimensioni del fenomeno.

359 Si fa riferimento alla Legge del 26 maggio 1965 n. 59 varata dal governo Moro e pubblicata nella

Gazzetta Ufficiale, n.142 del 9 giugno 1965 che, mediante la concessione di mutui a tasso agevolato, aveva lo scopo di favorire l’acquisto dei poderi da parte dei mezzadri.

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DISTRIBUZIONE DELLE AZIENDE E DELLA SUPERFICIE AGRICOLA (IN ETTARI) PER FORMA DI

CONDUZIONE, 1947-1970 (MIGLIAIA DI UNITÀ)

1947 1961 1970

forma di conduzione

aziende superf. aziende superf. aziende supef.

conduzione diretta

* 14.498 3.486 13.218 3.120 14.671

con salariati o compartecip.

* 7.068 330 9.160 287 8.992

mezzadria * 6.070 317 3.125 130 1.259

altre forme * 1.832 161 1.069 70 442

totale * 27.637 4.294 26.572 3.607 25.064

Fonte: Moroni M., L’Italia delle colline. Uomini, terre e paesaggi nell’Italia centrale (secoli

XV-XX), Proposte e ricerche, 2003, p. 148; *dati mancanti.

Come dimostrano le cifre riportate sopra la mezzadria cede il passo alla

conduzione diretta, tale passaggio avviene mediante esigui investimenti di

capitale che non consentono uno sviluppo di ingenti tassi di accumulazione360

Per tutti gli anni Settanta nel settore agricolo regionale si verifica un duplice

fenomeno: da una parte, nelle aziende di modeste dimensioni, si assiste ad un

progressivo declino che investe sia il capitale che il lavoro e in conseguenza di

ciò l’azienda assume sempre più un ruolo complementare di integrazione dei

redditi extra-agricoli; dall’altra le proprietà di grandi dimensioni cominciano a

manifestare alcuni segni di dinamismo. L’esame delle tabelle riportate sotto

. In

questo periodo la ricerca dell’efficienza produttiva e di competitività sul mercato

poggiano su due cardini: agevolazioni finanziarie e calo del peso lavorativo

dovuto sia alla meccanizzazione che al decremento demografico che ha

caratterizzato il settore.

360 E. Cottone (a cura di), Riorganizzazione capitalistica e lotta di classe nelle campagne, Samonà e

Savelli, Roma, 1972.

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fornisce degli spunti di riflessione inerenti l’andamento occupazionale in

agricoltura. Una prima caratteristica strutturale è data dalla percentuale delle UL

familiari rispetto al totale del lavoro impiegato nell’azienda; il fatto che la

percentuale delle UL sia molto elevata è la spia del bassissimo, per non dire quasi

nullo, peso assunto dai lavoratori esterni. Degno di nota risulta essere il fatto che

una seppur lieve incidenza dei lavoratori non familiari si riscontra soltanto

nell’ambito delle aziende con ordinamento ceralicolo-industriale e di estensione

compresa tra i 10 e i 20 ettari.

UNITÀ DI LAVORO IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI “NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE

MARCHE AL 1975 PER ORDINAMENTO PRODUTTIVO E CLASSE DI AMPIEZZA.

UL per azienda (unità CEE) Codice CEE

Ordinamento produttivo

Totali Familiari Non familiari

% UL Familiari sul totale aziende

UL CEE totali/ha

SAU

Indice UL CEE

totali ha SAU

111 Ceralicolo-colture

industriali

-5 ha 1,48 1,48 - 100,00 0,38 100

-5-10 ha 1,63 1,61 0,02 99,00 0,22 58

-10-20 ha 2,33 2,11 0,22 90,00 0,17 45

120 Erbaceo-arboreo

-50-10 ha 1,98 1,98 - 100,00 0,23 100

-10-20 ha 2,60 2,60 - 100,00 0,17 74

130 Erbaceo-allev. bovino e/o

ovino

-5-10 ha 2,33 2,33 - 100,00 0,33 100

-10-20 ha 2,62 2,62 - 100,00 0,19 57

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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195

UNITÀ DI LAVORO IN AZIENDE COSTITUENTI “NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE MARCHE AL

1976 PER ORDINAMENTO PRODUTTIVO E CLASSE DI AMPIEZZA.

Codice CEE

Ordinam. Produt.vo

U.L. Per azienda (unitàCEE) %UL Familiari sul totale aziendale

UL CEE Totali Ha

SAU Totali Familiari Non familiari

110 Erbaceo-ortoflor.

5-10 ha 2,04 2,04 - 100 0,31

111 Cereal.- colt.ind

< 5 ha 1,19 1,19 - 100 0,30

5-10 ha 1,80 1,80 - 100 0,23

10-20 ha 2,03 1,95 0,08 96,47 0,14

20-50 ha 2,20 2,03 0,17 92,70 0,07

112 Ortoflor.

5-10 ha 2,20 2,20 - 100 0,29

120 Erbaceo-arboreo

< 5 ha 1,40 1,40 - 100 0,35

5-10 ha 1,59 1,5 0,04 99,34 0,23

130 Erbaceo-zootecnico

< 5 ha 1,69 1,68 0,01 99,95 0,45

5-10 ha 1,91 1,91 - 100 0,27

10-20 ha 2,64 2,59 0,05 98,23 0,18

140 Erbaceo-allev.suino e/o avicolo

5-10 ha 1,73 1,73 - 100 0,22

210 Arboreo-erbaceo

5-10 ha 2,04 2,03 0,01 99,87 0,29

10-20 ha 2,79 2,79 - 100 0,19

310 Zootecnico-erbaceo

< 5 ha 2,27 2,27 - 100 0,73

5-10 ha 1,89 1,74 0,15 92,08 0,25

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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ORE DI LAVORO IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI “NUCLEI”E CONTABILIZZATE NELLE

MARCHE AL 1975 PER ORDINAMENTO PRODUTTIVO E CLASSE DI AMPIEZZA

Codice CEE

Ordinamento produttivo

Numero di familiari permanentemente occupati

Del titolare e dei familiari perm. occupati

Della famiglia nel complesso

Dei salariati fissi e operai avvent.

Ore di lavoro annue in totale

Ore di lavoro totale per la SAU

Ore di lavoro annue per UL familiare permanentemente occupata

111 Ceralicolo-colture

industriali

-5 ha 2,00 3.562 3.562 - 3.562

909 1.781

-5-10 ha 2,21 3.397 3.874 36 3.910

530 1.534

-10-20 ha 3,29 5.222 5.359 321 5.680

416 1.585

120 Erbaceo-arboreo

-50-10 ha 2,80 4.773 4.773 - 4.773

558 1704

-10-20 ha 3,00 6.469 6.469 - 6.469

442 1957

130 Erbaceo-allev.

bovino e/o ovino

-5-10 ha 3,06 5.586 5706 - 5706 820 1824

-10-20 ha 4,00 6.035 6439 - 6439 462 1508

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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197

ORE DI LAVORO IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI “NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE

MARCHE AL 1976 PER ORDINAMENTO PRODUTTIVO E CLASSE DI AMPIEZZA.

Cod. CEE

Ord. Produttivo

Numero di familiari perm.te occupati (compreso il titolare)

Ore di lavoro annue Ore di lavoro annue

Ore di lavoro totale per ha SAU

Ore di lavoro annue per UL

familiare perm. te

occ.

Del titolare e dei familiari

perm.te occupati

Della famiglia

nel compl.

Dei salariati fissi e operai

avventizi

110 Erbaceo-ortoflor.

5-10 ha 2,40 4836 4918 - 4918 760 2015

111 Cereal.- colt.ind

< 5 ha 1,33 2283 2932 - 2932 739 1712

5-10 ha 2,30 4368 4590 - 4590 591 1895

10-20 ha 2,30 4355 4928 181 5109 355 1889

20-50 ha 2,50 4471 5070 399 5469 179 1788

112 Ortoflor.

5-10 ha 2,57 5282 5386 - 5386 719 2054

120 Erbaceo-arboreo

< 5 ha 1,54 3302 3639 - 3639 916 2136

5-10 ha 1,95 3705 3890 26 3916 569 1894

130 Erbaceo-zootecnico

< 5 ha 2,04 4119 4276 2 4278 1135 2015

5-10 ha 2,02 3924 4800 - 4800 683 1939

10-20 ha 3,31 5952 6603 118 6721 470 1796

140 Erbaceo-allev.suino e/o avicolo

5-10 ha 1,57 3532 4359 - 4359 564 2247

210 Arboreo-erbaceo

5-10 ha 2,25 4903 5286 6 5292 757 2179

10-20 ha 3,20 6871 6961 - 6961 484 2147

310 Zootecnico-erbaceo

< 5 ha 2,50 6394 6394 - 6394 1723 2037

5-10 ha 2 4199 4287 368 4655 631 2099 Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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Questa sostanziale rispondenza tra i valori inerenti il peso del lavoro familiare

nel complesso aziendale si può spiegare tenendo conto sia del tipo di conduzione

delle aziende sia dell’uniformità nella distribuzione del lavoro degli ordinamenti

produttivi considerati. Si possono ravvisare due cause di tale uniformità: la prima

consiste nel fatto che per alcune colture, in particolare per quelle cerealicole, il

carattere stagionale della domanda di lavoro è stato risolto con il fattore

meccanizzazione; la seconda è ravvisabile nell’intensificazione del lavoro

permanente e nell’utilizzo del lavoro part-time da parte dei familiari occupati in

settori extra-agricoli laddove l’impiego stagionale risulta ancora necessario, ad

esempio nella viticoltura. Nell’indagine condotta dall’Osservatorio economico

per l’Umbria e le Marche per la classe di ampiezza 10-20 ettari è stata

contabilizzata un’azienda, condotta in economia, che utilizza lavoro dipendente

per l’88,5%361

361 Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche attraverso la rete

contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980, p.23.

. La presenza di questa tipologia di azienda e la sua incidenza sulla

minore percentuale del lavoro familiare sul totale aziendale induce a formulare

delle considerazioni interpretative sulla realtà agricola marchigiana: esistono

situazioni aziendali in cui i proprietari della terra, nonostante non traggano il loro

reddito principale dall’attività agricola, non abbandonano il settore primario ma

preferiscono affittare i terreni i quali vengono adibiti a colture estensive in

particolare cereali e produzioni industriali. In questo modo il proprietario riduce

sia l’impiego di lavoro dipendente, sia l’utilizzo di macchinari agricoli interni

all’azienda, ricorrendo perlopiù al noleggio per le attività di semina, aratura ecc.

Questo modo di operare, oltre a produrre il depauperamento dei terreni, porta con

sé gravi conseguenze di carattere economico dal momento che la

estensivizzazione delle colture, messa in atto con questi criteri, produce

immobilità sul mercato fondiario e preclude una migliore organizzazione delle

risorse da parte di coloro che sarebbero disposti a gestire le aziende in maniera

più razionale. Un altro fattore importante per l’analisi strutturale relativa

all’impiego della forza-lavoro negli anni Settanta è costituito dall’indice UL CEE

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per ettari di SAU che fa riferimento al rapporto tra intensità di lavoro, indirizzo

produttivo e classe di ampiezza362. Questo valore conferma la considerazione

secondo cui l’intensità del lavoro è inversamente proporzionale alla superficie

agricola utilizzata363

. Tutto ciò fa avanzare l’ipotesi che, malgrado il forte esodo

rurale che ha caratterizzato la regione negli anni precedenti, nelle aziende di

piccolissime dimensione ancora sia presente un eccesso di popolazione. Tale

teoria trova conferma nei riportati dall’Osservatorio economico per l’Umbria e le

Marche riguardanti la produzione lorda vendibile per UL CEE proposti nella

tabella seguente. Il valore della produzione lorda vendibile per UL CEE è

caratterizzato da un trend crescente con l’aumentare della superficie aziendale;

questo fatto se messo in relazione al calo dell’intensità di lavoro per ettari di

superficie agricola utilizzata ci consente di giungere alla conclusione che nelle

aziende di maggiori dimensioni non solo il numero degli occupati si rivela

minore ma essi risultano più produttivi rispetto a quelli delle aziende di minori

dimensioni.

362 Ibidem.

363 Questo andamento si può osservare chiaramente ponendo pari a 100 il risultato del rapporto tra intensità di lavoro e estensione SAU nella classe di ampiezza che comprende le aziende con superficie inferiore ai 5 ettari, ciò che viene rilevato è che, passando nelle classi di ampiezza successive, nell’ordinamento 111, l’indice subisce una forte diminuzione fino a dimezzarsi. Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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PRODUZIONE LORDA VENDIBILE PER UL CEE IN AZIENDE COSTITUENTI “NUCLEI” E

CONTABILIZZATE NELLE MARCHE AL 1975.

Codice CEE Ordinamento produttivo

Classe di ampiezza (SAU) < 5ha 5-10 ha 10-20 ha 20-50ha

111 Cerealicolo - colture

industriali

2.104 4.314 4.848 -

120 Erbaceo-arboreo

- 4.111 4.308 -

130 Erbaceo- Allevamento

- 2.806 3.799 -

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

PRODUZIONE LORDA VENDIBILE PER UL CEE IN AZIENDE COSTITUENTI “NUCLEI” E

CONTABILIZZATE NELLE MARCHE AL 1976.

Codice CEE Ordinamento Produttivo

Classe di ampiezza (SAU) < 5 ha 5-10 ha 10-20 ha 20-50 ha

110 Erbaceo-ortofl.

- 4057 - -

111 Cereal.-colt.ind.

3321 3372 5871 8072

112 ortofloricolo - 7136 - -

120 Erbaceo-arboreo

3339 4321 - -

130 Erbaceo-zootecnico

3146 3670 5807 -

140 Erbaceo-allev.suino e/o avicolo

- 3401 - -

210 Arboreo-erbaceo

- 4035 5490 -

310 Zootecnico-erbaceo

2697 5558 - -

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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201

Considerando poi il capitale agrario per UL si nota come esso sia direttamente

proporzionale alle dimensioni aziendali, dal momento che, come è stato già

rilevato, l’intensità di lavoro per ettaro diminuisce appare chiaro che

l’incremento dell’ampiezza delle aziende sia congiunto alla sostituzione del

lavoro con il capitale. Tenendo presente, infine, il fatto che complessivamente

l’intensità di capitale per ettaro subisce un calo, si desume che con all’aumento

delle dimensioni sia associato un più razionale impiego di capitale e una più

produttiva gestione dei fattori.

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202

VALORE A COSTO DI RICOSTRUZIONE DEI CAPITALI AZIENDALI PER UL TOTALI CEE NEL 1975

(VALORI IN MIGLIAIA DI LIRE).

Codice CEE Ordinamento produttivo

Capitale Totale Indice Cap. Agr. fondiario agrario

111 Cerealicolo - colture industriali

< 5 ha 22.001 2.230 24.231 100

5-10 ha 30.466 2.876 33.342 129

10-20 ha 22.244 5.085 27.329 228

120 Erbaceo-arboreo

5-10 ha 18.662 3.317 21.979 100

10-20 ha 23.646 5.518 29.164 166

130 Erbaceo- Allevamento

5-10 ha 16228 3447 19735 100

10-20 ha 15452 4700 20152 136

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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203

VALORE A COSTO DI RICOSTRUZIONE DEI CAPITALI AZIENDALI PER UL TOTALI CEE NEL 1976

(VALORI IN MIGLIAIA DI LIRE).

Codice CEE Ordinamento produttivo

Capitale Totale

Fondiario Agrario

110 Erbaceo-ortofl.

5-10 ha 11928 4587 16515

111 Cerealicolo-colture industr.

< 5 ha 14846 2649 17495

5-10 ha 12956 3617 16573

10-20 ha 19919 6170 26089

20-50 ha 28598 9230 37828

112 Ortofloricolo

5-10 ha 13913 3492 17405

120 Erbaceo-arboreo

< 5-10 ha 11289 3860 15149

5-10 ha 13287 6148 19435

130 Erbaceo-zootecnico

< 5 ha 9145 4448 13593

5-10 ha 10018 5665 15683

10-20 ha 17181 7288 24469

140 Erbaceo-allev.suino e/o

avicolo

5-10 ha 13658 7151 20809

210 Arboreo-erbaceo

5-10 ha 14026 5319 19345

10-20 ha 25084 3998 29082

310 Zootecnico-erbaceo

< 5 ha 8490 4154 12644

5-10 ha 13152 7188 20340

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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204

INTENSITÀ FONDIARIA E DI ESERCIZIO PER HA DI SAU IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI

“NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE MARCHE NEL 1975 (VALORI IN MIGLIAIA DI LIRE).

Codice CEE

Ordinamento Produttivo

Classe di ampiezza (SAU)

< 5 ha 5-10 ha 10-20 ha 20-50 ha

Capitale Capitale Capitale Capitale

Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr.

111 Cerealicolo-colture indusriali

8328 844 6738 636 3799 868 - -

120 Erbaceo-arboreo - - 4202 769 4202 981 - -

130 Erbaceo-Allevamento

- - 5461 1155 2906 884 - -

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

INTENSITÀ FONDIARIA E DI ESERCIZIO PER HA DI SAU IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI

“NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE MARCHE NEL 1976 (VALORI IN MIGLIAIA DI LIRE).

Codice CEE

Ord. Produttivo Classe di Ampiezza (SAU) < 5 ha 5-10 ha 10-20 ha 20-50 ha

Capitale Capitale Capitale Capitale

Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. 111 Cereal.-colture

indust. 8328 844 6738 636 3799 868 - -

120 Erbaceo-arboreo

- - 4327 769 4202 981 - -

130 Erbaceo-all.bovino e/o

ovino

- - 5461 1155 2906 884 - -

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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205

5.2 LO SVILUPPO CAPITALISTICO E LE SUE RIPERCUSSIONI

NELL’AGRICOLTURA MARCHIGIANA

Come si è più volte affermato, la mezzadria riveste un ruolo centrale

nell’evoluzione degli equilibri economici e sociali dell’agricoltura regionale.

Fino all’avvento e alla diffusione dei sistemi capitalistici in agricoltura la

mezzadria era stata una organizzazione aziendale capace di garantire una

coesistenza complessivamente equilibrata tra tutti i fattori della produzione.

Questo era stato possibile grazie all’esiguità dei capitali richiesti, dalle tecniche

produttive, considerate ancora rudimentali dai fautori dell’introduzione della

cosiddetta modernità in agricoltura, dal lavoro del mezzadro che nella maggior

parte dei casi sopperiva all’incuria del proprietario assenteista. Nonostante ciò il

sistema mezzadrile non riesce a realizzare redditi pro-capite sufficienti a

garantire una prosperità economica. Questa è la condizione della maggior parte

delle aziende mezzadrili al cui interno, però, vi sono delle realtà stratificate con

situazioni molto critiche caratterizzate da famiglie che vivono in condizioni di

indigenza364. Il fenomeno si manifesta con maggiore intensità nelle zone più

interne in cui c’è minore produttività. Occorre precisare inoltre, che la criticità in

cui versa l’azienda mezzadrile è da attribuire al totale disinteresse dei proprietari

assenteisti molto spesso demotivati nell’investire il capitale necessario

all’ammodernamento aziendale. 365 Poiché, come si è visto in precedenza, i

vincoli imposti dai contratti di mezzadria non consentivano alle famiglie di

spostarsi, l’unico strumento che avrebbe portato ad un aumento dei redditi pro-

capite era costituito dalla diminuzione del carico demografico366

364 C. Barberis - V. Siesto, Produzione agricola e strati sociali, Franco Angeli, Milano, 1974.

. In realtà alcuni

hanno avanzato l’ipotesi che per giungere ad un aumento del reddito pro-capite si

sarebbe potuto percorrere la strada dell’affrancamento dai rapporti di

365 R. Stefanelli, Agricoltura e sviluppo economico, Editrice Sindacale Italiana, Roma, 1968.

366 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a conduzione familiare, cit.

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206

mezzadria367 ma ciò, come si è dimostrato nei paragrafi precedenti, risultava di

difficile attuazione per la scarsità di capitali per acquistare il podere da parte dei

mezzadri. La maggior rilevanza che gli investimenti di capitali assumono nel

settore agricolo produce un vero e proprio sconvolgimento dei rapporti di

conduzione a partire dai primi anni Sessanta. La crisi del nucleo familiare

mezzadrile diviene la crisi dell’azienda, questo fenomeno ha due cause

principali: la prima riguarda gli scarsi investimenti dei concedenti e la seconda è

legata al precedente accumulo di capitale delle famiglie mezzadrili ottenuto

spesso dall’integrazione del reddito pro-capite mediante l’impiego extra-agricolo.

L’unica risoluzione di questo progressivo declino della mezzadria è costituita

dalla conversione del patto colonico nell’impresa diretto-coltivatrice o

capitalistica. In questo modo diventa inevitabile la penetrazione delle logiche

capitalistiche all’interno del settore agricolo, fino ad allora baluardo delle

tradizioni contadine. Il primo segnale di questo epocale cambiamento è costituito

dal fatto che i produttori agricoli si rivolgono sempre più massicciamente al

mercato dei beni industriali, in particolar modo macchine agricole. La possibilità

di acquistare i mezzi meccanici con forti agevolazioni fiscali ha rappresentato

una forte spinta in tal senso368

367 A. Bagnasco - M. Messori, Tendenze dell’economia periferica, Torino, 1975; P. Calza Bini,

Economia periferica e classi sociali, Esi, Napoli, 1976; M. Forni, Storie familiari e storie di proprietà. Itinerari sociali nell’agricoltura italiana del dopoguerra, Rosembreg & Sellier, Torino, 1987; F. Cazzola, La pluriactivité dans les campagnes italiennes: problèmes d’interprétation, in G. Garrier - R. Hubscher (a cura di), Entre faucilles et marteaux, Lyon-Paris, 1988.

. La sempre più stretta dipendenza dal mercato fa sì

che le aziende agricole siano indotte ad aumentare la produzione al fine di

raggiungere alti livello di competitività. In un siffatto contesto, decisamente

mutato rispetto a quello dell’immediato dopoguerra, l’aumento della redditività

diviene una condizione imprescindibile per far fronte sia alla notevole

esposizione finanziaria sia ai bisogni di sostentamento che sono diventati via via

più elevati. Certamente l’inasprimento delle tecniche per intensificare il lavoro

368 A tal proposito si veda: Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, Primo piano verde: legge 2 giugno 1961 n. 454; Secondo piano verde: legge 27 ottobre 1966 n. 910, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1968.

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207

ora non bastano più. Nelle Marche si è cercato di attuare la realizzazione

dell’incremento del reddito pro-capite, oltre che con il calo del peso demografico,

con il recupero della rendita del concedente. Questa procedura ha avuto effetti

fallimentari che hanno assunto aspetti contraddittori all’interno del settore

agricolo dal momento che, come rileva Ada Cavazzani, “se il conduttore che si

affranca dal rapporto colonico non subisce più, a chiusura del bilancio, la

sottrazione di una parte consistente del reddito realizzato in azienda, deve

tuttavia sostenerne il costo, tutto in una volta o in grosse rateazioni, dell’acquisto

del podere”369

Non bisogna dimenticare che il passaggio dal rapporto colonico alla proprietà

coltivatrice coinvolge quelle aziende che non producono remunerazioni

soddisfacenti per i proprietari assenteisti

. Con questi criteri i mezzadri si sono trovati nella quasi totale

incapacità di acquistare le proprietà e così facendo una grossa parte di capitale è

potuta transitare dall’agricoltura ad altri settori, con conseguenze devastanti sul

piano della produzione.

370 i quali non vogliono investire capitali

in agricoltura e che non vogliono accrescere la quota di partecipazione ai capitali

circolanti. Una volta che il colono, che tra pur mille difficoltà, è divenuto

proprietario si trova a dover attuare le trasformazioni degli assetti produttivi che

richiedono una grande mole di investimenti fissi371

369 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a

conduzione familiare, cit., p.85.

. Questa situazione di stallo, in

cui il colono non è in grado di investire capitali fissi nell’azienda e il concedente

non vuole privarsi della rendita per contribuire alla formazione del capitale, è

testimoniata dal limitato sviluppo delle dimensioni dei terreni specializzati

caratterizzati dalle colture legnose nelle aziende mezzadrili per tutti gli anni

Sessanta. Da quanto è stato finora esposto si può affermare che per tutti gli anni

370 Infatti come si è più volte detto i mezzadri in un primo tempo hanno ridotto le loro necessità al minimo, poi per incrementare il reddito si sono rivolti ad attività extra-agricole.

371 O. Vitali, La popolazione attiva in agricoltura attraverso i censimenti, Roma, 1968; F. Landi, I contratti agrari, in AA.VV., Cultura popolare del’Emilia Romagna. Strutture sociali e vita contadina, Milano, 1977.

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208

Sessanta, gli investimenti nel settore agricolo non hanno avuto alcun ruolo di

incremento produttivo contribuendo, invece, alla espulsione di manodopera e

acuendo le differenza tra le aziende a gestione diretto-coltivatrice e quelle

capitalistiche. Come confermano i dati riportati nel saggio di Ada Cavazzani nel

periodo che va dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, il reddito netto

per addetto all’agricoltura ha seguito una progressione geometrica crescendo del

111% nel 1961 rispetto al 1951e dello stesso valore percentuale nel decennio

successivo372

Per tutti gli anni Settanta il capitale agrario

mentre contemporaneamente si è assistito, nello stesso periodo, ad

una riduzione di oltre il 75% degli addetti al settore agricolo. 373

372 A. Cavazzani, L’agricoltura a tempo parziale nelle Marche: ricerca sull’azienda contadina a

conduzione familiare, cit.. A tal riguardo si veda anche E. Pugliese – M. Rossi., Dualismo strutturale in agricoltura e mercato del lavoro, cit.

costituisce un fattore di primaria

importanza all’interno della gestione aziendale. Tutto ciò è stato possibile grazie

sia all’introduzione del progresso tecnologico sia all’inserimento sempre più

massiccio delle aziende agricole all’interno dell’economia di mercato. Per quanto

concerne, invece, il capitale fondiario occorre fare alcune precisazioni relative

alle problematiche legate alla valutazione. In questo tipo di settore, nella maggior

parte dei casi, non sempre i prezzi di mercato corrispondono alla effettiva

potenzialità dei terreni di produrre rendita, dal momento che le variabili che

incidono sull’andamento dei prezzi sono molteplici e di carattere speculativo

come la localizzazione e l’estensione aziendale. Oltre a ciò occorre tenere in

considerazione che, nelle congiunture economiche di forte inflazione, come ad

esempio gli anni Settanta, il prezzo dei terreni subisce un considerevole aumento

dovuto al sopraggiungere di un’altra variabile che va ad unirsi alle due appena

citate: il fatto che la terra assume il ruolo di “bene-rifugio” dal momento che

viene considerata come l’unico elemento in grado di arginare la vertiginosa

discesa del valore monetario. Proprio per tali ragioni non è possibile ricavare

373 Per capitale agrario si fa riferimento alle macchine, al capitale di scorta e al capitale circolante mentre il capitale fondiario è costituito dalla terra e dai capitali in essa stabilmente investiti. L. De Michele, Lineamenti di economia agraria e sviluppo rurale. Organizzazione, amministrazione e marketing, Dellisanti, 2007.

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209

delle informazioni precise sulla struttura fondiaria delle aziende. Dai dati riportati

dall’osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, presenti nella tabella

relativa all’intensità fondiaria e di esercizio per ettaro di SAU, è possibile

soltanto constatare la sostanziale preferenza della domanda per le estensioni di

terreno di modeste dimensioni con valori per ettaro tendenzialmente più elevati

nelle prime classi di ampiezza e via via decrescenti con l’aumento delle

dimensioni aziendali.

Lo studio del capitale agrario, invece, risulta particolarmente interessante

poiché esso è in grado di offrire delle utili informazioni sul grado di produttività

delle aziende e sui loro rapporti con gli altri settori produttivi. Qui di seguito

viene mostrata la tabella riguardante l’entità e la composizione media aziendale

dei capitali delle aziende prese in oggetto dall’osservatorio economico per

l’Umbria e le Marche.

ENTITÀ E COMPOSIZIONE MEDIA AZIENDALE DEI CAPITALI IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI

“NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE MARCHE (VALORI IN MIGLIAIA DI LIRE).

Codice CEE

Ordinamento Produttivo

Classe di Ampiezza (SAU) < 5ha 5-10 ha 10-20 ha 20-50 ha

Capitale Capitale Capitale Capitale

Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. 111 Cerealic.-

colt.industr. 32.562 3.301 49.660 4.688 51.828 11.849 - -

120 Erbaceo-arboreo

- - 36.951 6.568 61.481 14.348 - -

130 Erbaceo-allev.

- - 37.952 8.032 40.484 12.314 - -

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

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210

ENTITÀ E COMPOSIZIONE MEDIA AZIENDALE DEI CAPITALI IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI

“NUCLEI” E CONTABILIZZATE NELLE MARCHE (VALORI IN MIGLIAIA DI LIRE).

Codice CEE

Ord. Produttivo

Classe di ampiezza (SAU) < 5 ha 5-10 ha 10-20 ha 20-50 ha

Capitale Capitale Capitale Capitale

Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. Fond. Agr. 110 Erbaceo-

ortoflor. - - 24334 9359 - - - -

111 Cereal.-colt.ind.

17667 3153 23332 6511 40436 12525 62917 20306

112 Ortofloricolo - - 30609 7684 - - - -

120 Erbaceo-arboreo

15805 5405 21127 9776 - - - -

130 Erbaceo-zootecnico

15455 7518 19134 10820 45359 19242 - -

140 Erbaceo-all.suino e/o

avicolo

- - 23629 12371 - - - -

210 Arboreo-erbaceo

- - 28614 10851 69986 11156 - -

310 Zootecnico-erbaceo

19274 9430 25236 13586 - - - -

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche

attraverso la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

Confrontando questi dati con quelli espressi nella tabella precedente

riguardante l’intensità fondiaria e di esercizio per ettari di SAU non si riesce a

scorgere una tendenza ben definita ma si può dedurre che la crescita delle

dimensioni aziendali va di pari passo con quella del capitale agrario utilizzato. A

titolo esemplificativo si può considerare il trend di quest’ultimo fattore

nell’ordinamento 111: ponendo pari a 100 il valore dell’indice nella prima classe

di ampiezza, si passa a 75 nella classe di ampiezza successiva e a 102

nell’ultima374

374 Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura delle Marche attraverso la rete

contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980, p.25.

. Quello che trapela da questa analisi è il fatto che nelle aziende di

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minori dimensioni si assiste ad un forte finanziamento con capitale proprio

associato oltre che ad un eccesso di lavoro anche ad una parziale utilizzazione del

capitale agrario disponibile, in questo caso ci si riferisce alle macchine agricole.

Questa tendenza, rilevata per l’anno 1975 e 1976 è rintracciabile per tutto il corso

degli anni Settanta. Riepilogando quanto finora esposto, si può affermare che

l’ampliamento delle aziende necessita di entità crescenti di capitale agrario per

addetto che raggiunge valori rilevanti nelle classi di ampiezza 10-20 ettari, le

aziende presenti in tale classi manifestano la capacità di affrontare mutamenti

relativi all’ordinamento combinando le varie tipologie di capitale nelle maniere

che di volta in volta si rivelano le più convenienti dal punto di vista produttivo.

E’ importante ricordare che, per poter cogliere pienamente delle

trasformazioni intervenute nel settore agricolo marchigiano, è necessario che

l’analisi relativa all’evoluzione temporale degli ordinamente colturali tenga conto

delle problematiche legate alle caratteristiche dell’industrializzazione regionale.

L’espressione “industrializzazione diffusa” riesce a indicare in maniera chiara il

carattere di tale fenomeno, il cui aspetto più significativo risiede nel radicamento

territoriale e nella dimensione locale delle piccole e medie imprese che operano

sul territorio regionale375

375 G. Fuà - C. Zacchia (a cura di), L’industrializzazione senza fratture, Il Mulino, Bologna, 1983.

. Le dimensioni degli impianti industriali marchigiani e

la loro dislocazione territoriale hanno avuto delle ripercussioni all’interno del

settore primario regionale, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche relative

alla forza –lavoro in agricoltura, sempre più caratterizzata, come si è visto nei

paragrafi precedenti, dal fenomeno del part-time. Certamente la disponibilità di

entrate extragricole ha fatto sì che il nucleo familiare contadino, non più

ossessionato dall’esigenza di sopravvivere con i soli proventi della terra, potesse

continuare a dedicarsi alle attività agricole facendo investimenti, altrimenti

inattuabili, sui terreni. Accanto agli aspetti positivi, però, nel corso del tempo

sono emersi elementi negativi connessi al part-time in agricoltura. Le

conseguenze negative più evidenti riguardano gli sconvolgimenti degli assetti

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idrogeologici dovuti al massiccio impiego di mezzi meccanici utilizzati per

sopperire alla carenza di manodopera. All’analisi dei mutamenti ambientali e

paesaggistici conseguenti all’affermazione dell’agricoltura industriale nelle

Marche sarà dedicato il prossimo capitolo.

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213

6. MARCHE: AGRICOLTURA INDUSTRIALE, PAESAGGIO E

AMBIENTE NEGLI ANNI OTTANTA

Volendo partire dai risultati che l’agricoltura marchigiana ha raggiunto negli

anni recenti si può certamente affermare che essa fornisce attualmente un

prodotto pari a quasi il 50% in più rispetto al 1961376

con un quinto degli occupati

che insistono su una superficie ridotta di un quarto. Come mostra la tabella che

segue la situazione nazionale, invece, ha visto una aumento della produzione

agricola complessiva pari al 75% ma con un esodo di manodopera minore

rispetto a quello marchigiano e cambiando destinazione produttiva ad una minore

porzione di superficie agricola.

PERFORMANCE DEI SISTEMI AGRICOLI (VALUTAZIONI PERCENTUALI ‘61-’87)

Marche IC NEC Italia PLV 48 59 70 73 Valore aggiunto 29 40 45 49 Occupazione agricola -78 -74 -70 -65 SAU -24 -25 -29 -23 Capitale fondiario -24 -22 -15 -14 Stock bestiame -46 -22 -3 -20 Macchine (CV) 1212 897 636 682 Consumi intermedi 116 138 182 196 Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Nell’ultimo quarto di secolo la produzione lorda vendibile ha subito un

incremento del tasso medio annuo calcolato intorno al 7,6%, sostanzialmente

simile a quello dell’Italia Centrale, che si attesta intorno al 7,2%, ma maggiore

sia a quello del Nec (6,9%) sia a quello medio nazionale (6,3%) e doppio rispetto

376 A. Bartola - F. Sotte- A. Fantini – R. Zanili, L’agricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e

Politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane, cit.

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214

a quello del settore secondario della stessa regione Marche377

. La causa di una

tale evoluzione del settore primario marchigiano va ricercata nell’aumento della

disponibilità di superficie per addetto dovuta alla massiccia diffusione delle

macchine agricole che, sul finire degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta ha

caratterizzato il settore. Un altro fattore che ha determinato l’incremento del tasso

medio annuo della produzione lorda vendibile per occupato nella regione è

costituito dall’aumento del volume prodotto per ettaro, a sua volta dovuto, oltre

che alle tecnologie applicate all’agricoltura, allo sviluppo delle produzioni senza

terra.

377 Ibidem.

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215

RAPPORTI INPUT/OUTPUT DEI VARI SISTEMI AGRICOLI (CONTENUTO DI FATTORE PER 100 MILIONI DI PLV A PREZZI ‘80)

1961 1967 1972 1975 1978 1981 1984 1987

Marche

Consumi intermedi (milioni) 22 29 31 30 34 34 33 32

Occupati (n.) 51 28 22 15 13 11 10 8 SAU (ha) 119 99 102 90 79 69 67 61 Macchine (hp) 53 134 251 292 350 392 452 475 Bestiame (n.capi) 82 69 61 59 54 49 40 30

Capitale fondiario (milioni) 241 176 209 195 177 204 147 124

Italia centrale

Consumi intermedi (milioni) 19 25 26 26 29 29 29 28

Occupati (n.) 40 22 15 12 10 9 8 7 SAU (ha) 133 109 94 83 76 66 65 63 Macchine (hp) 62 123 200 237 280 308 355 387 Bestiame (n.capi) 64 55 51 48 46 41 36 32

Capitale fondiario (milioni) 279 194 229 244 216 224 164 138

Nord Est - Centro

Consumi intermedi (milioni) 19 25 29 29 32 32 31 31

Occupati (n.) 31 17 12 9 8 7 6 6 SAU (ha) 99 79 63 56 50 44 43 41 Macchine (hp) 84 152 213 241 275 305 342 364 Bestiame (n.capi) 57 50 47 45 43 40 38 34

Capitale fondiario (milioni) 272 220 236 236 235 251 161 135

Italia

Consumi intermedi (milioni) 17 22 25 26 29 29 28 28

Occupati (n.) 33 19 14 12 11 9 8 7 SAU (ha) 102 90 64 58 53 49 47 45 Macchine (hp) 67 119 169 197 229 257 279 304 Bestiame (n.capi) 52 45 42 41 40 37 37 36

Capitale fondiario (milioni) 295 241 242 230 231 257 167 146

Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

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216

Come rilevano Bartola, Sotte, Fantini e Zanili nel loro studio relativo alla

politica agraria regionale, i mutamenti intervenuti nel settore agricolo non hanno

assunto connotazioni uniformi sia spaziali che temporali, infatti sono stati

individuati quattro momenti relativi alle trasformazioni dell’agricoltura

utilizzando come parametri l’evoluzione della produzione lorda vendibile, dei

consumi intermedi e del valore aggiunto.

La prima fase che si conclude nel 1967 e presenta aspetti non dissimili da

quelli del resto della nazione, cioè crescita di produzione e dell’utilizzo delle

risorse.

Il secondo periodo, che abbraccia gli anni 1968-1972, vede un decremento

produttivo ed una certa diminuzione dell’utilizzo di materie e prime e capi di

bestiame. Contemporaneamente a ciò si verifica una notevole contrazione delle

rese medie per ettaro di SAU per cui l’incremento produttivo per addetto è da

considerarsi come mero risultato della diminuzione dell’occupazione.

Contrariamente a quanto avviene nelle Marche, nelle altre zone il settore

primario è investito da ingenti accrescimenti delle rese unitarie e di produzione

per addetto. Come giustificazione di questo fenomeno, che vede l’agricoltura

regionale incapace di procedere di pari passo con il trend di sviluppo nazionale,

si può addurre il fatto che nelle Marche, come si è visto nel capitolo precedente,

la trasformazione della mezzadria è stato un processo caratterizzato da molteplici

difficoltà e contraddizioni che hanno contribuito ad aumentare il differenziale sul

prodotto per occupato e che, come vedremo, soltanto nella metà degli anni

Ottanta tenderà a ricomporsi.

Il terzo momento, individuabile nel decennio 1972-1982, vede il riavvicinarsi

della condizione agricola marchigiana a quella italiana. Si nota una certa ripresa

della produttività per occupato con delle rese superiori rispetto a quelle derivanti

dall’aumento della disponibilità di terra per addetto. Questa fase è stata definita

come il decennio d’oro per l’agricoltura marchigiana che ha fatto registrare gli

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217

incrementi di produzione più alti del secondo dopoguerra 378

e che in questo

capitolo verrà analizzata nel dettaglio.

6.1 PECULIARITA’ DELLO SVILUPPO AGRICOLO REGIONALE

Come è stato più volte ribadito, all’inizio degli anni Settanta l’agricoltura

marchigiana si distingueva da quella del resto dell’Italia Centrale per un forte

sbilanciamento in favore di capitale bestiame, lavoro e capitale circolante a

discapito degli investimenti nel capitale fondiario e nella meccanizzazione.

Partendo da questi presupposti l’unica evoluzione che si poteva aspettare era la

realizzazione di incremento produttivo mediante sistemi di investimenti labour-

intensive379. Questa ipotesi viene ampiamente smentita del fatto che nell’ultimo

periodo degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta si è verificato,

nell’agricoltura regionale, un regresso relativo al capitale bestiame ed una

ingente crescita della meccanizzazione. Come reazione alla inferiorità strutturale

relativa alla superficie per addetto si è avuto un vero e proprio esodo

occupazionale che ha fatto registrare valori di gran lunga superiori rispetto a

quelli delle zone confinanti380

378 A. Bartola – A. Fantini, Politica Agraria e specializzazione dell’agricoltura italiana, in La politica

economica del settore agricolo. Atti del XXII Convegno di Studi della Sidea, il Mulino, Bologna, 1986.

. L’analisi dei dati contenuti nella tabella che segue

conferma la teoria secondo la quale il settore agricolo marchigiano ha intrapreso

una via di sviluppo fondata su una notevole sproporzione tra tecnologia applicata

e disponibilità di risorse. Infatti, se si paragona la situazione relativa alle risorse

naturali regionali con quella delle regioni limitrofe le Marche sembrano soffrire

di una notevole penalizzazione, come fanno notare Bartola, Sotte, Fantini e

Zanili nello studio sopra citato “Plv e valore aggiunto per ettaro si collocano

379 F. Sotte- A. Quattrini – S. Ruspoli, Indagine sulle tipologie aziendali dell’agricoltura delle Marche, in “Rivista di Economia Agraria”, n.2, 1987.

380 A. Bartola - Fantini A., Politica Agraria e specializzazione dell’agricoltura italiana, cit.

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218

sempre ad un livello di circa 2/3 dei rispettivi valori riferiti alla

circoscrizione”381. Per sopperire a questa inferiorità e per cercare di perseguire

redditi per occupato il più vicino possibile a quelli delle altre regioni dell’Italia

Centrale si potevano percorrere due strade: la prima poteva ravvisarsi

nell’accrescimento della disponibilità di superficie per addetto e nell’aumento

della base produttiva oppure favorendo il fenomeno del part-time che da alcuni

anni stava già caratterizzando l’assetto agricolo regionale. Tra queste due

possibilità fu scelta sicuramente la prima che ebbe come conseguenza il forte

esodo dalle campagne e che in ambito locale non produsse provvedimenti

rilevanti volti a contrastarlo382. Infatti se da un lato nel corso degli anni Settanta

si è sviluppato un forte dibattito per quanto riguarda l’importanza della

programmazione economica in generale e agricola in particolare, non si è giunti

ad attuazioni concrete ed efficaci delle teorie proposte. Ciò fu dovuto sia alle

divergenze di carattere ideologico 383

381 A. Bartola - F. Sotte – A. Fantini – R. Zanili, L’agricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e

Politica agraria, cit, p.387.

sia al fatto che i sostenitori della

programmazione sottovalutarono i vincoli istituzionali che regolavano questa

382 A. Segrè – F. Ferretti (a cura di), L’ analisi economica dell’Agricoltura. Scritti in onore di Enzo di Cocco, Franco Angeli, Milano, 2009. Nei primi anni Sessanta l’Istituto di Studi per lo Sviluppo Economico delle Marche, voluto dagli enti locali, vide nel dibattito sulla programmazione regionale e sub-regionale uno strumento adatto a favorire un tipo di sviluppo economico integrato. La programmazione era considerata come un modo per razionalizzare le risorse e giungere a quella efficienza produttiva che in questo periodo era vista come l’unica possibilità per realizzare la crescita dei redditi agricoli. A questo tipo di riflessioni era sottesa una logica molto avanzata e in linea con le considerazioni che di lì a poco sarebbero state formulate a livello comunitario. Nonostante ciò, come le direttive contenute nel Piano Mansholt non ebbero gli effetti desiderati sulla Politica Agricola Comunitaria, così ogni volontà di programmazione subì uno stallo al momento della delega delle competenze all’Ente Regione. Soltanto nel 1980 si giunse alla formulazione di un programma agricolo regionale che tuttavia non era da considerarsi come un organico esempio di programmazione attiva ma piuttosto come un documento nato dalla necessità di calibrare i provvedimenti di carattere regionale con quelli previsti dalla L. 22/12/1977 n. 984.

383 Il dibattito concernente la programmazione economica regionale vide emergere in maniera più netta due tesi: da una parte le ragioni della sinistra legata ad una visione positiva del progresso e fautrice dei processi di industrialismo visti come i modi più idonei alla coscienza operaia per giungere alla piena emancipazione; dall’altra le teorie dei cattolici e dei democristiani che propugnavano un tipo di sviluppo legato alle consuetudini rurali e fortemente ancorato alla configurazione policentrica della realtà regionale. A questo proposito si veda G. Fuà, Industrializzazione nel Nord-Est e nel Centro, in G. Fuà - C. Zacchia (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Il Mulino, Bologna, 1983.

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219

materia384. Neanche i provvedimenti successivi385

tuttavia sono riusciti a dare

delle soluzioni valide per una organica riorganizzazione dell’agricoltura

regionale.

RAPPORTI INPUT/OUTPUT DEI VARI SISTEMI AGRICOLI (CONTENUTO DI FATTORE PER 100 MILIONI DI PLV A PREZZI ‘80)

1961 1967 1972 1975 1978 1981 1984 1987 Marche

Consumi intermedi (milioni) 22 29 31 30 34 34 33 32

Occupati (n.) 51 28 22 15 13 11 10 8 SAU (ha) 119 99 102 90 79 69 67 61 Macchine (hp) 53 134 251 292 350 392 452 475 Bestiame (n.capi) 82 69 61 59 54 49 40 30 Capitale fondiario (milioni) 241 176 209 195 177 204 147 124 Italia centrale

Consumi intermedi (milioni) 19 25 26 26 29 29 29 28

Occupati (n.) 40 22 15 12 10 9 8 7 SAU (ha) 133 109 94 83 76 66 65 63 Macchine (hp) 62 123 200 237 280 308 355 387 Bestiame (n.capi) 64 55 51 48 46 41 36 32 Capitale fondiario (milioni) 279 194 229 244 216 224 164 138 Nord Est - Centro

Consumi intermedi (milioni) 19 25 29 29 32 32 31 31

Occupati (n.) 31 17 12 9 8 7 6 6 SAU (ha) 99 79 63 56 50 44 43 41 Macchine (hp) 84 152 213 241 275 305 342 364 Bestiame (n.capi) 57 50 47 45 43 40 38 34 Capitale fondiario (milioni) 272 220 236 236 235 251 161 135

384 E. Deidda Gagliardo, Il sistema multidimensionale di programmazione a supporto della governance

locale, Giuffrè Editore, 2007.

385 Oltre alla già citata L.R.25/1980, che prevedeva l’attuazione, peraltro mai avvenuta, dei cosiddetti piani di settore e ai piani di sviluppo aziendale proposti nella L.R. 42/1977 come attuazione dei provvedimenti socio-strutturali voluti dalla Comunità Economica Europea ma ben presto risoltisi con un niente di fatto in questo caso ci si riferisce ai piani agricoli zonali (L.R. 6/1978) che dovevano costituire un modello per i piani di sviluppo aziendale a sua volta integrati all’interno dei piani di sviluppo economico da attuarsi a livello di comprensori ma, la mancata individuazione dei comprensori che avrebbe dovuto essere messa in atto con L.R. 10/1980 era dettata da logiche ben diverse da quelle per cui era stat formulata, portarono l’Ente Regione a trasformare la struttura di pianificazione zonale mediante l’approvazione della Legge Regionale 27/1981 privandola dell’originaria impostazione organica in grado di raccordare il settore agricolo al più generale contesto economico regionale..

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Italia

Consumi intermedi (milioni) 17 22 25 26 29 29 28 28

Occupati (n.) 33 19 14 12 11 9 8 7 SAU (ha) 102 90 64 58 53 49 47 45 Macchine (hp) 67 119 169 197 229 257 279 304 Bestiame (n.capi) 52 45 42 41 40 37 37 36 Capitale fondiario (milioni) 295 241 242 230 231 257 167 146

Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Soltanto nel 1987, con la Deliberazione del Consiglio Regionale 77/1987

attuativa a livello regionale delle disposizioni CEE contenute nel Regolamento

797/85 si delineano, seppur sotto forma di abbozzo, alcuni indirizzi per una

organica pianificazione aziendale. A tutto ciò va aggiunto che neppure la legge

di riorganizzazione dell’Ente di Sviluppo (L.R. 35/1988), che di per sé poteva

costituire una grande opportunità verso l’autonomia dall’Ente Regione, non ha

prodotto i risultati sperati in quanto i contrasti sorti tra l’Ente sviluppo e

l’assessorato all’agricoltura hanno finito per prevalere sulle finalità proprie di

una efficace programmazione economica e di settore. Occorre precisare, inoltre,

che se anche la legge relativa alla regolamentazione dei servizi di sviluppo

agricolo (L.R. 20/1985) prevedesse alcune modalità di decentramento e istituisse

un rudimentale sistema informativo agricolo con l’intento di realizzare centri di

contabilità agraria e di assistenza tecnica agli operatori del settore, essa non è

riuscita ad attuare una programmazione in grado di rispondere alle reali esigenze

del settore agricolo regionale in quanto spettava ancora alla giunta regionale la

facoltà di erogare finanziamenti e contributi. Di fronte ad un così difficile e

complicato stato di cose, in cui i conflitti tra Regione ed Ente sviluppo hanno

fatto sì che i provvedimenti strutturali più urgenti venissero rimandati, il settore

agricolo regionale ha visto sfuggire ogni possibilità di essere razionalmente ed

organicamente riformato. Tutto ciò ha originato grandi squilibri ravvisabili nella

forte anomalia interna ai sistemi produttivi agricoli regionale in cui si assiste ad

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una enorme diffusione della meccanizzazione a svantaggio di miglioramenti

fondiari.

6.2 AGRICOLTURA E INDUSTRIALIZZAZIONE

Come è stato appena ricordato l’agricoltura delle Marche ha privilegiato la

strada dello sfruttamento dei mezzi meccanici che lo sviluppo della tecnologia

aveva reso disponibili, piuttosto che l’attuazione di interventi di riorganizzazione

e miglioramento strutturale delle aziende. Uno dei possibili motivi che hanno

favorito questo processo può risiede senz’altro nella complessità e nelle

contraddizioni che hanno caratterizzato il delicato passaggio dalla mezzadria ad

altre forme di conduzione. All’interno delle aziende mezzadrili, per troppo tempo

si è verificato un forte stallo nell’adeguamento dei sistemi di conduzione alle

mutate esigenze sia di produzione che di mercato; tale blocco era dovuto da una

parte alle aspettative riposte in una legislazione volta a conseguire le modifiche

contrattuali che sia i concedenti che i mezzadri auspicavano fortemente, dall’altra

ai contrasti relativi alle modalità di suddivisione dei proventi. Gli indennizzi

conseguenti alla trasformazione delle aziende mezzadrili in imprese a conduzione

diretta e la derivante carenza di adeguate risorse finanziarie da parte dei nuovi

proprietari hanno impedito degli investimenti di carattere strutturale sui fondi.

Tuttavia questo fatto, se può essere considerato una valida giustificazione della

tendenza che ha caratterizzato lo sviluppo agricolo regionale fino ai primi anni

Settanta, non è da ritenersi idoneo per interpretare i cambiamenti intervenuti nel

settore dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta. Per comprendere

le dinamiche relative a questo periodo, infatti, occorre far riferimento al ruolo

che dall’inizio degli anni Settanta ha assunto l’industrializzazione all’interno

dell’ambito economico regionale. Le informazioni che sono state reperite in

merito, testimoniano che non sempre le caratteristiche dello sviluppo industriale

regionale hanno avuto ripercussioni positive sul settore agricolo. Il dato di fondo

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222

che emerge è che gli abitanti (ex mezzadri e nuovi piccoli proprietari) di luoghi

che per tanto tempo sono stati considerati anacronistici e incapaci di generare dal

loro interno le risorse atte a conseguire uno sviluppo di tipo moderno hanno visto

nella nuova industria nascente una possibilità, sia economica che di riscatto

sociale, che ha dato loro la spinta di abbandonare in modo permanente o semi-

permanente la campagna per andare ad ingrossare le fila della manodopera a

basso costo, tanto necessaria nei nuovi impianti industriali. Gli studi sulle

relazioni tra campagna e distretti industriali nelle Marche, fioriti durante gli anni

Novanta386, hanno dimostrato che oltre, a fornire manodopera flessibile a bassi

salari, la campagna ha visto progressivamente trasferire gran parte dei capitali,

che avrebbero dovuto essere destinati all’agricoltura, nei distretti industriali387. Il

fatto che l’occupazione agricola nelle Marche abbia mantenuto livelli alti rispetto

alle altre regioni dell’Italia centrale388 non deve trarre in inganno e merita una

accorta valutazione. Infatti, dai dati forniti da Bartola, Sotte, Fantini e Zanili, si

nota che il valore relativo all’occupazione agricola cresce nei periodi di

recessione per poi calare nelle congiunture di maggiore prosperità economica389

386 S. Brusco – S. Paba, Per la storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni

novanta, in Barca F. (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, 1997; A. De Bernardi, Città e campagna nella storia contemporanea, in R. Romano (a cura di), Storia dell’economia italiana, Vol.3, Torino, 1991; M. Bellandi, Terza Italia e distretti industriali dopo la seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia. Annali, 15, Torino, 1999; M. Moroni, L’Italia delle colline. Uomini, terre e paesaggi nell’Italia centrale (secoli XV-XX), cit.

.

Questo fenomeno fornisce molte spiegazioni sul ruolo svolto dal settore agricolo

regionale. Esso infatti, alla luce di quanto esposto, risulta esercitare una funzione

387 R. Finuola, La nuova pluriennale ed i finanziamenti pubblici per il settore primario: un quadro di sintesi, in “Cooperazione in agricoltura”, n. 4, 1990; F. Sotte - A. Quattrini - S. Ruspoli, Indagine sulle tipologie aziendali dell’agricoltura delle Marche, in “Rivista di Economia Agraria”, n. 2, 1987.

388 Nel 1987 l’occupazione agricola si aggirava intorno al 24%, rispetto al 20% delle altre variabili regionali. C’è da ricordare, però, che nonostante fosse ancora alta alla fine degli anni Ottanta tuttavia risultava diminuita rispetto al decennio precedente infatti nel 1972 tale valore si attestava intorno al 29%. A tal proposito si veda A. Bartola - F. Sotte - A. Fantini - R. Zanili, L’agricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e Politica agraria, cit.

389 A. Bartola - F. Sotte - A. Fantini - R. Zanili, L’agricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e Politica agraria, cit. Gli autori forniscono a titolo esemplificativo i seguenti dati: l’indice relativo all’occupazione per il 1984 (anno di recessione economica) risultava attesta intorno al 26,7% per poi scendere al 24% nel 1987 (anno di ripresa economica).

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di ammortizzatore procurando notevoli vantaggi alla crescita economica

generale. In conclusione, dunque, si può rettificare la convinzione di coloro che

vedevano nel modello industriale uno strumento indispensabile per lo sviluppo

agricolo. Infatti alla luce di questi semplici dati di carattere statistico emerge

chiaramente come sia più coerente pensare che l’agricoltura regionale abbia

avuto effetti positivi nell’affermazione del processo di industrializzazione. Come

ultima analisi, poi, bisogna tenere presente che malgrado l’elevata pressione

degli occupati sulla terra, rispetto alle regioni limitrofe, nel periodo in esame si

verifica un vero e proprio ridimensionamento della Superficie Agricola Utilizzata

che non è avvenuto soltanto nelle zone marginali ma che ha investito tra il 1970 e

1982 terreni sia collinari che pianeggianti rispettivamente per il 10% ed il

20%390

. Come conseguenza di quanto finora detto si può dedurre che l’utilizzo

massiccio della meccanizzazione in agricoltura sia derivante dal dilagare di

sistemi sia produttivi che occupazionali maggiormente affini con quelli che in

quegli anni hanno caratterizzato i modelli di industrializzazione diffusa e cioè il

part-time, la pluriattività e il possesso e/o utilizzo della terra per fini differenti da

quelli agricoli.

6.3 TIPOLOGIA AZIENDALE E REDDITIVITA’

Volendo analizzare le interrelazioni esistenti tra le dimensioni delle aziende,

l’attività part-time e il livello dei redditi agricoli nelle Marche, ci si accorge di un

fenomeno che sembra risolversi in una spirale in cui le tre componenti

considerate si condizionano a vicenda senza mai combinarsi in modo tale da

superare le contraddizioni che le caratterizzano. Infatti, è vero che le modeste

dimensioni delle imprese agricole marchigiane favoriscono l’espansione del part-

time ma è vero anche che esso pone dei forti limiti all’accrescimento aziendale

390 Ibidem.

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sia in termini di estensione che di sviluppo. Come si evince da quanto esposto

nella tabella che segue, relativa alla classificazione delle aziende sulla base dei

redditi standard, la parte occupata dalle imprese cosiddette micro si pone in linea

con la tendenza generale, ma si discosta fortemente se si considerano le notevoli

dimensioni di superficie che esse investono391

.

391 I dati riportati da Bartola, Sotte, Fantini e Zanili, basati sulle rilevazioni censuarie del 1982 stimano

che la superficie agricola utilizzata nella regione sia occupata per oltre il 40% dalle cosiddette micro-aziende, a tal proposito si veda: A. Bartola - F. Sotte - A. Fantini - R. Zanili, L’agricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e Politica agraria, cit.

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DATI STRUTTURALI DELL’AGRICOLTURA MARCHIGIANA. CLASSIFICAZIONE PER DIMENSIONE

ECONOMICA

(Reddito lordo standard) fino a 9.6 9.6 - 19.2 19.2 - 40 40 - 120 oltre 120 Totale milioni milioni milioni milioni milioni Superficie per azienda (ha) - Marche 03.05.00 12.08.00 28.3 67.3 154.3 7.0 - IC 02.05.00 12.04.00 25.4 72.7 170.2 6.2 - NEC 02.05.00 09.06.00 17.5 45.8 134.8 6.0 - Italia 02.05.00 10.05.00 20.7 47.7 144.5 5.6 Reddito lordo standard per azienda (milioni ú.)

- Marche 3.1 13.1 28.1 70.5 229.4 7.0 - IC 2.5 13.3 28.7 72.4 242.2 6.8 - NEC 2.7 13.5 29.0 70.8 256.9 8.6 - Italia 2.6 13.4 28.9 71.3 238.7 7.3 Reddito lordo standard per ha. (.000 ú)

- Marche 893 1022 991 1046 1486 1003 - IC 999 1077 1132 996 1423 1096 - NEC 1081 1407 1659 1546 1906 1445 - Italia 1060 1279 1397 1494 1653 1302 Numero Aziende - quota % Marche 82.8 11.2 4.5 1.2 0.4 100.0 - IC = 100 17.0 24.2 18.2 14.7 12.3 17.5 - NEC = 100 8.8 9.3 5.5 4.9 4.8 8.5 - Italia =100 2.8 3.7 2.4 2.0 2.1 2.9 Superficie - quota % Marche 41.8 20.6 18.2 11.2 8.2 100.0 - IC = 100 23.7 25.1 20.3 13.6 11.2 19.8 - NEC = 100 12.5 12.4 8.9 7.2 5.5 9.9 - Italia =100 4.1 4.5 3.2 2.8 2.3 3.6 Reddito lordo standard - Marche = 100 37.2 21.0 17.9 11.7 12.2 100.0 - IC = 100 21.2 23.9 17.8 14.3 11.7 18.2 - NEC = 100 10.3 9.0 5.3 4.8 4.3 6.9 - Italia =100 3.4 3.6 2.3 2.0 2.0 2.7 Superficie per azienda (ha) - Marche = 100 50 184 407 966 2214 100 - IC = 100 140 104 112 93 91 113 - NEC = 100 143 134 162 147 115 116 - Italia =100 143 123 137 141 107 124

Reddito lordo standard per azienda - Marche = 100 45 188 402 1008 3280 100 - IC = 100 125 98 98 97 95 104

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- NEC = 100 118 97 97 99 89 81 - Italia =100 121 98 97 99 96 96 Reddito lordo standard per ettaro - Marche = 100 89 102 99 104 148 100 - IC = 100 89 85 88 105 104 92 - NEC = 100 83 63 54 58 47 62 - Italia =100 84 80 71 70 90 77

Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Per quanto riguarda invece la condizione delle imprese medio-grandi, che

secondo i parametri puramente economici dovrebbero costituire l’elemento

portante di un efficiente sistema agricolo, esse mostrano non solo una forte

inferiorità numerica rispetto all’insieme considerato ma anche una minore

estensione di superficie occupata. Per quanto riguarda il tipo di conduzione la

conduzione diretta si configura come l’organizzazione aziendale più diffusa nella

regione occupando i 2/3 della superficie agricola utilizzata e i ¾ della forza-

lavoro con una produzione lorda vendibile pari al 70%392

. Tuttavia all’interno di

questo tipo di gestione aziendale si verificano alcune contraddizioni che meritano

di essere considerate ed analizzate. Le cifre che seguono, infatti, mostrano come

le aziende a conduzione diretta siano in grado si di conseguire maggiori quantità

di produzione per ettaro ma con un ingente spreco di lavoro.

392 Ibidem.

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DATI STRUTTURALI DELL’AGRICOLTURA MARCHIGIANA (RISULTATI PER FORMA DI CONDUZIONE - ANNO 1982)

CONDUZIONE DIRETTA CONDUZIONE IN ECONOMIA

COLONIA PARZIARIA ED ALTRA

TOTALE

TOTALE di cui: solo familiari extra

familiari preval. fam. prev.

PLV MARCHE TOT = 100 70.2 57.9 7.1 5.2 17.5 12.3 100.0

IC = 100 18.2 19.9 13.9 12.0 20.6 43.6 20.0 NEC = 100 6.4 7.6 3.4 4.5 6.8 22.2 7.1

ITALIA = 100 2.7 3.3 1.3 1.6 3.7 14.5 3.1 Ettari MARCHE TOT = 100 64.4 51.1 7.5 5.9 23.7 11.9 100.0

IC = 100 18.6 20.2 16.6 12.0 18.3 38.2 19.7 NEC = 100 8.7 9.6 6.4 6.7 10.3 25.8 9.9

ITALIA = 100 2.9 3.4 1.7 2.1 4.6 13.9 3.5 Giornate di lavoro MARCHE TOT = 100 74.7 65.2 6.7 2.8 9.1 16.2 100.0

IC = 100 18.2 19.1 14.5 12.1 19.3 40.2 20.1 NEC = 100 7.9 8.6 4.8 5.8 9.5 25.1 9.0

ITALIA = 100 3.0 3.6 1.6 1.3 4.2 17.4 3.6 Produzione per ettaro MARCHE TOT = 100 109 113 95 89 74 104 113

IC = 100 98 98 84 100 113 114 98 NEC = 100 74 79 53 67 66 86 79

ITALIA = 100 93 97 78 77 81 104 97 Produzione per giornata

MARCHE TOT = 100 94 89 106 188 191 76 89 IC = 100 100 104 96 99 107 108 104

NEC = 100 82 88 71 77 72 88 88 ITALIA = 100 88 92 82 120 89 83 92

Giornate per ettaro MARCHE TOT = 100 116 128 90 47 39 136 128

IC = 100 98 95 87 101 106 105 95 NEC = 100 90 90 85 87 93 97 90

ITALIA = 100 105 105 95 65 91 125 105

Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

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Se si considera, poi, che soltanto le imprese a conduzione esclusivamente

familiare riescono a conseguire maggiori produzioni per ettaro, dal momento che

quando ci si avvale di manodopera extra-familiare la situazione relativa alle

produzioni per unità di superficie si attesta sui valori che caratterizzano le

conduzioni capitalistiche, si comprende come la conduzione diretta non sia in

grado di realizzare quell’equilibrio di costi-benefici che ci si attenderebbe da

sistemi agricoli efficienti. A sostegno di quanto appena esposto intervengono i

dati relativi al peso che le varie tipologie di produzioni assumono all’interno dei

fatturati aziendali.

PRODUZIONE LORDA VENDIBILE DELL’AGRICOLTURA (RISULTATI PER FORMA DI CONDUZIONE E GRUPPI DI PRODOTTI - ANNO 1982)

Conduzione diretta

Conduzione in economia

Colonia parziaria ed altra TOTALE

MARCHE Coltivazioni erbacee 63 23 13 100 - cereali e ind. 59 28 13 100 - ortive e flor. 73 12 15 100 - altre erbacee 70 16 13 100 Legnose 70 28 2 100 Allevamenti 77 11 12 100 - carni 76 11 13 100 - latte 65 25 10 100 - altro 92 0 7 100 TOTALE 70 23 7 100

ITALIA Coltivazioni erbacee 84 13 2 100 - cereali e ind. 79 17 3 100 - ortive e flor. 88 10 2 100 - altre erbacee 84 13 3 100 Legnose 80 16 3 100 Allevamenti 83 15 3 100 - carni 80 18 3 100 - latte 91 7 2 100 - altro 76 23 1 100 TOTALE 83 15 3 100

Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

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Da tali elementi emerge chiaramente come le imprese condotte in economia

siano specializzate in produzioni che non necessitano di grandi volumi di lavoro,

come le colture industriali e cerealicole, mentre la conduzione diretta prediliga le

coltivazioni ortive e gli allevamenti. Per ciò che riguarda le produzioni arboree

ed in particolare la vite e l’olivo, si nota che fino alla metà degli anni Ottanta esse

sono state investite da un ampliamento della superficie adibita, ampliamento che

però ha subito uno stallo nella seconda parte del decennio. Facendo un bilancio

complessivo per tutti gli anni Ottanta si può affermare che soprattutto la

viticoltura ha guadagnato via via sempre maggiori posizioni sia per quanto

riguarda le superfici che per il fatturato prodotto.

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POTENZIALITÀ CONCORRENZIALI NELLE MARCHE. QUOTA DI INIZIO PERIODO E SUE VARIAZIONI DIFFERENZIALI IN MILLESIMI.

Prodotto: Vitiolivicoltura

Confronto con:

DESCRIZIONE DELLE COMPONENTI Altri prodotti regionali Stesso prodotto

nell’IC nel NEC in Italia Periodo 1971 - 87

QUOTA % DELLA PLV DI INIZIO PERIODO 153 130 59 22

VARIAZIONE DELLA QUOTA -6.7 28.5 12.08.00 3.3 COMPONENTE PREZZO 3.2 4.5 1.4 0.9 COMPONENTE QUANTITA’ -8.3 23.3 11.4 2.4 COMPONENTE SAU 62.3 83.3 39.8 11.0 COMPONENTE RESA -70.9 -59.7 -28.3 -8.6 Periodo 1971 - 87

QUOTA % DELLA PLV DI INIZIO PERIODO 153 130 59 22

VARIAZIONE DELLA QUOTA -1.7 21.0 14.2 2.6 COMPONENTE PREZZO -17.8 2.2 0.8 0.2 COMPONENTE QUANTITA’ 15.9 18.2 13.0 2.5 COMPONENTE SAU 73.1 71.7 35.3 10.0 COMPONENTE RESA -59.0 -53.2 -22.2 -7.5 Periodo 1971 - 87

QUOTA % DELLA PLV DI INIZIO PERIODO 152 151 73 25

VARIAZIONE DELLA QUOTA -5.1 7.5 -1.4 0.7 COMPONENTE PREZZO 21.3 2.5 0.6 0.8 COMPONENTE QUANTITA’ -26.5 5.1 -2.0 -0.1 COMPONENTE SAU -9.1 10.8 4.3 1.0 COMPONENTE RESA -14.6 -5.6 -6.3 -1.1

Fonte: A. Bartola – F. Sotte – A. Fantini – R. Zanolei L’gricoltura nelle Marche. Tendenze settoriali e politica agraria, in M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Tutto ciò risulta chiaramente in linea con le caratteristiche assunte dal mercato

in questo periodo dalle quali si evidenzia una inversione di tendenza per quanto

riguarda i gusti dei consumatori sempre più inclini a prediligere prodotti di

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qualità. L’attenzione dei consumatori per le qualità dei prodotti agroalimentari e

la salvaguardia delle risorse naturali si è manifestata con sempre maggiore vigore

già dagli anni Settanta quando la crisi petrolifera e il consolidarsi di pratiche

agricole basate su sistemi industriali avevano fornito importanti spunti di

riflessione in materia ambientale. L’impiego massiccio di macchine agricole, di

concimi chimici e di diserbanti, necessarissimi per ottenere rese elevate, è

divenuto la colonna portante di una agricoltura innaturale fondata su un tragico

paradosso: “il luogo dove si produce il nostro cibo è diventato uno degli ambiti

più inquinati della società post-industriale”393

393 P. Bevilacqua, I caratteri originali dell’agricoltura italiana, in U. Volli - C. Petrini (a cura di),

Cibo, gioco, festa, moda, Utet, Torino, 2009, p. 22.

. Con l’avvento degli anni Ottanta e

l’evidente fallimento della Politica Agricola Comunitaria queste tematiche

conoscono un periodo di grande diffusione. I consumatori, allarmati dagli effetti

nocivi dei veleni utilizzati in agricoltura, hanno iniziato a ricercare nei prodotti

agroalimentari quelle caratteristiche di naturalità e di salubrità sparite con

l’avvento dell’agricoltura industriale. A ciò si aggiunga che ormai, in tutta la

Penisola ma soprattutto nelle Marche dove le aree collinari e montuose

costituiscono la maggior parte del territorio regionale, l’espulsione dei contadini

dalla terra ha prodotto gravissime conseguenze di natura idroegeologica. Tali

questioni che hanno come fulcro l’inquinamento ambientale, la minaccia alla

salute umana e i dissesti idrogeologici hanno sensibilizzato le istituzioni e i

produttori più accorti verso l’attuazione di pratiche agricole maggiormente

rispettose delle caratteristiche ambientali. Il fatto che nel corso degli anni Ottanta

nelle Marche le superfici arboree e soprattutto quelle vitate abbiano guadagnato

estensione a scapito delle colture industriale sembra essere il segnale di una

mentalità che pian piano sta mutando verso una maggiore consapevolezza del

ruolo fondamentale che l’agricoltura assume sia per la salvaguardia ambientale

che per quella dalla salute umana.

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Il prossimo paragrafo sarà dedicato proprio agli effetti paesaggistico-

ambientali prodotti dalle pratiche agricole di tipo industriale nelle campagne

marchigiane.

6.4 VARIETA’ PAESAGGISTICHE E AGRICOLTURA

Come è avvenuto nelle campagne di Toscana e Umbria, anche nelle Marche il

sistema mezzadrile è stato per secoli il principale artefice dell’assetto colturale e

paesaggistico. Il territorio marchigiano, caratterizzato da rilievi montuosi e

collinari, ha necessitato dell’azione di pratiche colturali particolari atte a

mantenere i delicati equilibri geomorfologici dei suoli. Sergio Anselmi ha più

volte ricordato che nelle campagne marchigiane le popolazioni contadine hanno

creato una miriade di ecosistemi economici efficienti basati sia su un ingegnoso

sistema di governo delle acque sia sulla varietà colturale394

394 A tal proposito si vedano S. Anselmi, Agricoltura e mondo contadino, Il Mulino, Bologna, 2001e S.

Anselmi, Le regioni dall’unità a oggi. Le marche, cit.

. Certamente l’avvento

dell’agricoltura industriale ha prodotto dei mutamenti non dissimili a quelli

intervenuti nelle campagne di Toscana e Umbria. Le parole utilizzate da Piero

Bevilacqua nel descrivere il cambiamento conseguente alla “Grande

Trasformazione” della seconda metà del Novecento degli assetti agrari e

paesaggistici della regione mostrano chiaramente la rilevanza del fenomeno:

“L’accentramento delle attività produttive nelle poche attività produttive nelle

poche aree di pianura ha sottratto terra all’agricoltura, ma anche risucchiato flussi

di popolazione dalle aree agricole più montuose e marginali. Infatti, in montagna

dominano gli abbandoni, con il bosco e la macchia che avanza, la scomparsa di

vecchi castagneti, la dissoluzione di presidi abitativi e aziendali. Ma nelle stesse

basse colline, oltre che in pianura il paesaggio è stato violentemente semplificato

con l’estensione dei seminativi nudi del grano lavorati dai trattori, abolendo siepi,

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terrazzamenti e ciglioni”395 . Mauro Agnoletti nel volume relativo ai paesaggi

rurali storici ha individuato nelle Marche sei siti che ben illustrano le varie

tipologie paesaggistiche e l’impatto che i sistemi agricoli industriali hanno avuto

su di essi. Il primo sito è l’Altopiano di Macereto situato nel comprensorio dei

Monti Sibillini. Il valore di questo sito deriva dal fatto che in esso il paesaggio

riesce a conservare a tutt’oggi una elevata integrità. Infatti, i pascoli sono ancora

mantenuti integri dalle greggi che nel periodo estivo vi vengono trasferite e che si

vanno ad aggiungere alle altre 3.000 unità stanziali396

Il secondo sito individuato nell’opera di Agnoletti sono le Colline di Maiolati

Spontini. Questo sito rappresenta una delle aree meglio conservate dal punto di

vista paesaggistico dal momento che in esso è possibile ravvisare “la persistenza

storica di un mosaico caratterizzato dalla compresenza di campi coltivati con

. Un elemento interessante è

costituito dal fatto che qui si alleva ancora la pecora sopravissana, tale pratica,

però, è fortemente minacciata dal momento che questa razza ovina male si adatta

alla mungitura meccanica. Comunque sono presenti nell’Altopiano di Macereto

due allevamenti stanziali con certificazione biologica della razza sopravissana

che costituiscono una preziosissima testimonianza relativa alla pastorizia

tradizionale locale. Nonostante la permanenza di attività tradizionali legate alla

pastorizia, questo territorio presenta alcuni aspetti di vulnerabilità

indissolubilmente legati alle trasformazioni agricole della seconda metà del

Novecento. Dal punto di vista paesaggistico l’elemento che spicca maggiormente

è l’abbandono che si traduce nella quasi completa scomparsa di molti pascoli in

favore di nuove piante erbacee spontanee e nella prevalenza di legnose

secondarie come il ginepro che minacciano le faggete autoctone. Di fronte a un

tale stato di cose le popolazioni locali giustificano il fenomeno dell’abbandono

come la necessaria conseguenza della scarsa remuneratività connessa alle attività

silvo-pastorali.

395 P. Bevilacqua, Marche, in M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo

nazionale, cit. p. 329.

396 Ibidem.

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olivi, vite e grano, secondo il modello della mezzadria, e di piccoli boschi che

fanno parte dell’economia rurale, soprattutto per il taglio della legna” 397

Il terzo sito sono gli Oliveti della Coroncina in provincia di Macerata. Qui si

possono ancora scorgere olivi associati a boschi cedui di roverella e tracce di

antichi vigneti delimitati dalle siepi. Di notevole interesse risulta il fatto che dagli

anni Sessanta la varietà Coroncina è considerata come tipologia olearia prodotta

nella provincia di Macerata e “riportata come varietà di alto colle relativamente

al territorio di Caldarola e Camerino”

. La

caratteristica principale è dunque la persistenza dei tradizionali assetti agricoli

che si rispecchia in un paesaggio rurale che conserva una discreta integrità.

Questo fatto, tuttavia, non vuol dire che queste zone siano rimaste immuni dagli

effetti della trasformazione agricola; infatti, come nell’Altopiano di Macereto,

anche qui l’esodo agricolo ha avuto evidenti conseguenze sul piano

paesaggistico-ambientale. Tali conseguenze sono ravvisabili principalmente nei

fenomeni erosivi derivanti dall’intensivizzazione delle colture cerealicole e

viticole verificatesi nel corso degli ultimi due decenni del Novecento.

398

397 M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, cit. p. 334.

. Oggi questo olio è riconosciuto come

prodotto agroalimentare tradizionale dal Ministero delle Politiche Agricole

Alimentari e Forestali ed è molto ricercato nei mercati di nicchia in virtù della

specificità dell’ambiente di produzione contraddistinto da una scarsissima

intensivizzazione colturale. Le aziende che insistono su questo territorio sono

prevalentemente a conduzione familiare con una superficie esigua (da ½ ettaro a

2 ettari) coltivata con metodologie a bassissimo impatto ambientale e utilizzando

concimazioni organiche. Bisogna segnalare che nelle zone di coltivazione della

Coroncina dall’ultimo decennio del Novecento in avanti si è assistito ad un

aumento di aziende olivicole volte alla produzione di un prodotto di alta qualità

senza però dare origine a piantagioni intensive o alla messa a coltura dei pascoli.

398 Ibidem, p.337.

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Il quarto sito di interesse individuato nel volume di Agnoletti sono le Piagge di

Ascoli Piceno che costituiscono preziose testimonianze storiche inerenti sia alle

sistemazioni collinari che alla varietà colturale. Queste sono state fino alla metà

degli anni Sessanta zone di mezzadria Sul finire degli anni Cinquanta

l’olivicoltura della zona si è specializzata nella produzione delle cosiddette olive

ascolane che sono state inserite nella lista dell’Arca del Gusto di Slow Food399.

Accanto a questa tipologia colturale è possibile rintracciare le vestigia delle case

coloniche circondate da campi di modesti dimensioni delimitati da vegetazione

arbustiva che stanno a testimoniare i passati assetti mezzadrili. Nel volume

curato da Agnoletti sono stati riportati i risutati di una recente ricerca che ha

messo a confronto un catasto del 1835 con l’assetto paesaggistico attuale. Da tale

studio è emerso che in alcune zone delle Piagge è possibile individuare parti delle

antiche maglie poderali400

Il quinto sito comprende le Policolture di Loretello nei pressi di Ancona.

Ancora oggi, attraversando queste campagne si rimane colpiti dal disegno

geometrico formato dalla varietà delle colture e dalle sistemazioni agrarie in cui

prevale il ciglionamento. I campi ospitano perlopiù farro, mais, cicerchie, ulivo e

vite coltivati con sistemi a basso impatto ambientale e destinati ad un mercato di

alta qualità. Nel tempo anche questa area è andata incontro a fenomeni di esodo

rurale dovuti alle dinamiche relative ai vari prodotti agricoli ma non si può

trascurare l’inversione di tendenza iniziata alla fine del Novecento dovuta alla

. Anche qui il processo di intensificazione colturale

iniziata sul finire degli anni Sessanta, seppur di modesta portata, ha in qualche

modo inciso sugli assetti paesaggistici e insediativi tradizionali, soprattutto dopo

vari tentativi volti ad impiantare vigneti specializzati in terreni un tempo destinati

alle colture promiscue.

399 Slow Food è un’associazione fondata da Carlo Petrini nel 1986 con lo scopo di promuovere nel

mondo il cibo cosiddetto buono, pulito e giusto, di diffondere la cultura gastronomica e di educare al futuro. L’Arca del Gusto è un progetto di Slow Food che prevede la costituzione di un catalogo on-line volto alla segnalazione di prodotti dotati di eccezionali qualità organolettiche ma a rischio di estinzione. A tal proposito si veda www.fondazioneslowfood.it

400 M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, cit. p. 340.

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rivalutazione e alla diffusione di prodotti agricoli tradizionali legati a metodi di

coltivazione cosiddetti biologici401. Come è stato più volte ricordato nei paragrafi

precedenti, già nel corso degli anni Ottanta le distorsioni della Politica Agricola

Comunitaria apparivano evidenti e la logica della produzione ad ogni costo

risultava ormai deleteria soprattutto per le agricolture dei Paesi mediterranei.

Inoltre, i rischi per la salute derivanti dal massiccio utilizzo dei prodotti di sintesi

in agricoltura hanno indotto le istituzioni europee ad emanare una serie di

normative volte ad incoraggiare e sostenere pratiche agricole di tipo biologico,

che oltre ad essere meno dannose sulla salute non necessitano di concimi chimici

e di antiparassitari di sintesi402

L’ultimo sito di interesse paesaggistico individuato nel volume di Agnoletti

riguarda l’area di Sasso Simone e Simoncello a cavallo tra Marche e Toscana.

L’elemento paesaggistico rilevante è costituito dai boschi di cerri secolari che

tuttavia si trovano a convivere con formazioni boschive nuove impiantate a

seguito dell’esodo che ha coinvolto le zone marginali. Proprio quest’ultimo

aspetto rappresenta la principale causa di vulnerabilità.

.

Sebbene i luoghi sopra citati, e individuati nel volume curato da Agnoletti come

esempi di paesaggi rurali storici, mantengano ancora elementi caratteristici degli

assetti agricoli tradizionale è innegabile chei mutamenti intervenuti in agricoltura

negli ultimi cinquant’anni del Novecento abbiano avuto degli effetti di grande

portata in termini di inquiamento idrico, dissesto idrogeologico e di perdita di

biodiversità. La consapevolezza relativa a queste problematiche già dalla seconda

metà degli anni Settanta ha dato luogo ad un vivace dibattito animato 401 L’agricoltura biologica è una tecnica di coltivazione che non prevede l’utilizzo dei prodotti chimici

di sintesi. I produttori che intendono perseguire questo tipo di conduzione sono tenuti a rispettare un disciplinare di coltivazione stabilito dal Reg. CEE 2092/91. Nelle Marche già nei primissimi anni Ottanta un ristretto numero di aziende ha iniziato a sperimentare tecniche di coltivazione di tipo biologico, soprattutto per i cereali. Tali aziende nel corso degli anni Novanta sono cresciute notevolmente di numero e di esperienza. Nel favorire la diffusione di tale pratica colturale ha contribuito l’Ente Regione che con i Piani di Sviluppo Rurale ha stanziato fondi a sostegno delle coltivazioni biologiche.

402 A tal proposito si vedano: R. Zanoli, Le politiche per l’agricoltura biologica in Italia: i casi di studio nazionali e regionali, Franco Angeli, Milano, 2007 e G. Cicia - F. De Stefano, Prospettive dell’agricoltura biologica in Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2007.

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237

principalmete da figure come Sergio Anselmi e Giorgio Mangani che nel volume

dal titolo Il territorio dei beni culturali 403 hanno messo in luce gli effetti

devastanti che le trasformazioni delle pratiche agricole hanno avuto nelle colline

marchigiane. Nella maggior parte delle campagne marchigiane, ad esclusione

delle località di cui si è parlato prima, la semplificazione colturale e la volontà di

praticare una agricoltura sempre più meccanizzata al fine di ottenere rese

maggiori ha dato origine a preoccupanti e sempre più frequanti episodi di

smottamento e frane che, uniti all’impiego massiccio di fertilizzanti chimici e

antiparassitari ha determinato un radicale sconvolgimento sia da un punto di vista

paesaggistico che ambientale. Accanto a ciò occorre ricordare che, il fenomeno

dell’abbandono rurale ha coinvolto con intensità diverse tutta la campagna

marchigiana anche le aree che sono state annoverate come paesaggi rurali storici.

Il processo di esodo agricolo, soprattutto nelle aree caratterizzate da marginalità

economica, risulta molto preoccupante dal momento che ad esso è legato

indissolubilmente il dissesto idrogeologico. A livello comunitario i problemi

legati alla perdita della biodiversità e alla salvaguardia del territorio sono stati

affrontati per la prima volta in maniera organica con la Direttiva Habitat 404.

Particolarmene interessante risulta il fatto che la Direttiva Habitat non riguarda

soltanto la conservazione delle aree cosiddette naturali ma faccia riferimento

anche agli habitat secondari405

403 G. Mangani – S. Anselmi, Il territorio dei beni culturali. La tutela paesistica delle Marche, Ancona,

1979.

che, frutto dell’interazione millenaria tra uomo e

ambiente, rappresentano una testimonianza importantissima e varia di antichi

modi di gestione del territorio. L’Italia, caratterizzata da una estrema verietà

paesaggistica derivante da le differenti modalità con cui le comunità agricole

404 Direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche. Tale Direttiva stabilisce a livello europeo le line guida per la conservazione della biodiversità e costituisce Rete Natura 2000, un sistema di zone di salvaguardia della diversità biologica nel territorio europeo.

405 E. Biondi, Vegetazione e habitat prioritari, in C. Blasi - L. Boitani - S. La Posta - F. Manes - M. Marchetti (a cura di), Stato della biodiversità in Italia. Contributo alla strategia nazionale per la biodiversità, Palombi Editori, Roma, 2005.

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238

hanno gestito nel corso dei secoli il loro rapporto con il territorio, occupa un

posto rilevante all’interno di Rete Natura 2000; Edoardo Biondi nel saggio dal

titolo Biodiversità, agricoltura, paesaggi e politiche comunitarie riporta le cifre

relative agli habitat inseriti in Rete Natura 2000 individuati nelle Marche “Nelle

Marche sono stati individuati 80 Sic (Siti di importanza comunitaria) e 29 Zps

(Zone di Protezione Speciale) per un totale di 102 siti che coprono 146, 213 ha,

corrispondenti al 15,1 % dell’intero territorio marchigiano”406 . Come traspare dai

dati citati, nella regione sono state segnalate delle aree all’interno delle quali è

necessaria un’azione volta alla tutela della biodiversità e al ripristino degli

equilibri ambientali che l’agricoltura industriale ha gravemente alterato. Sulla

base di quanto stabilito dalla Direttiva Habitat nelle Marche è stata istituita la

Rete ecologica marchigiana che si configura come una vera e propria

pianificazione di tipo ambientale a carattere regionale407

. Questo provvedimento,

seppur tardivo rispetto alla gravità e ai tempi di formazione dei dissesti

idroegeologici e ecologici regionali, è la testimonianza di una importante

inversione di tendenza rispetto alle logiche produttivistiche che per decenni

hanno avuto la meglio su ecosistemi e tutela ambientale. La costituzione della

Rete ecologica marchigiana, infatti, è fondata su una nuova concezione di

sviluppo che assegna un ruolo fondamentale alla conservazione di ambienti e

specie che, se considerati da un punto di vista meramente economico, sarebbero

andati incontro all’estinzione.

406 E. Biondi, Biodiversità, agricoltura, paesaggi e politiche comunitarie, in “Proposte e ricerche”, n.

68, Ancona, 2012, p. 113.

407 Il progetto di definizione della Rete ecologica marchigiana avente come finalità la tutela dell’integrità dei processi ecologici e degli ecosistemi ad essi correlati è stato realizzato sulla base delle line guida adottate con deliberazione di Giunta Regionale n. 563 del 14 aprile 2008.

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Foto realizzata da Mario Giacomelli nelle campagne marchigiane sul finire degli anni ’50

del ‘900 in cui è possibile cogliere gli elementi caratterizzanti il paesaggio agrario

tradizionale prima dell’avvento dell’agricoltura industriale.

Fonte: http://www.mariogiacomelli.it.

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Foto realizzata da Mario Giacomelli nelle campagne marchigiane all’inizio degli anni ’70

del ‘900 in cui è possibile cogliere la trasformazione dei tradizionali assetti paesaggistici

verso una maggiore uniformità colturale.

Fonte: http://www.mariogiacomelli.it.

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241

7. IL SETTORE PRIMARIO UMBRO: EVOLUZIONE DEI

CARATTERI STRUTTURALI DAL SECONDO DOPOGUERRA

AGLI ANNI SETTANTA

7.1 GLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA: UNA VISIONE D’INSIEME

Come è noto, già durante il periodo bellico e soprattutto nell’immediato

dopoguerra, le presa di coscienza di costituire un elemento portante nel sistema

economico regionale da parte degli abitanti delle campagne umbre si è tradotto

nella concreta realizzazione di una rete organizzativa che mai si era vista prima

nell’Umbria rurale. Ciò fu possibile grazie ai continui contatti con la realtà

urbana che ha costituito una importante fonte di occasioni di riflessione e di

confronto. Come si è detto, parlando del caso della Toscana, sono la speranza di

raggiungere condizioni di via migliori e di vedere finalmente i salari agricoli

uniformarsi a quelli degli operai che spingono i giovani contadini, in un primo

tempo ad attuare sistemi che più si avvicinano ai modelli di conflitto urbano408

408 R. Corvino - G. Gallo, Le contraddizioni di un modello, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad

oggi. L’Umbria, Einaudi, 1987.

e

poi ad abbandonare in maniera permanente o semi-permanente la campagna. I

dati riportati da Renato Gallo e Giampaolo Corvino servono a dare una idea

molto chiara della situazione in cui versava il settore agricolo umbro nella metà

degli anni Cinquanta: “nel 1955 malgrado che le rese del grano per ettaro siano

solo di qualche punto sotto la media nazionale (Italia: 19,6 quintali; Umbria

19,3), che buoni siano i risultati della produzione olearia e di quella zootecnica,

che aumenti l’area destinata alle colture industriali, i valori del prodotto lordo

vendibile per ettaro risultano notevolmente più bassi della media delle regioni

dell’Italia centrale e di quella nazionale (Umbria: 103.400 lire; Italia centrale

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242

138.100; Italia 141.500)” 409. Accanto a questa difficile situazione economica

come si è visto, vi erano le aspirazioni dei giovani contadini ad ottenere livelli

retributivi pari a quelli degli operai che prestavano il loro lavoro nelle industrie

Infatti a questo proposito risulta particolarmente interessante il saggio

monografico delle autrici Loredana Capitani, Lucia Piras e Vanda Scaprelli in cui

le cifre riportate fanno toccare con mano quale sia stato il dislivello esistente tra

le retribuzioni nelle campagne e quelle degli operai di fabbrica 410 negli anni

Cinquanta infatti, le autrici mediante un paziente processo di rilevazione e

comparazione sono riuscite a stabilire che nel 1952 le retribuzioni delle

cosiddette tabacchine erano suddivisi in questo modo: 10.000 lire mensili per le

operaie delle concessioni speciali mentre 22.000 lire mensili per le lavoratrici

dipendenti dalle concessioni di manifesto, mentre il reddito annuo pro-capite

all’interno della famiglia colonica sfiorava a mala pena le 50.000 lire411

409 R. Corvino - G. Gallo, Le contraddizioni di un modello, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad

oggi, cit., p. 116-117.

. Alla

luce di quanto appena espresso si comprende molto chiaramente come la

gioventù nelle campagne sia attraversata da sentimenti di insofferenza e

disillusione che nel tempo hanno portato ad un impressionante esodo verso i

centri urbani ed industriali. La gravità di questo fenomeno era stata avvertita

all’interno dei partiti di sinistra attorno ai quali si era catalizzato il movimento

contadino, tuttavia ancora per tutto il corso degli anni Cinquanta si pensava che

una adeguata riforma dei patti agrari e la modernizzazione agricola sarebbero

stati la soluzione necessaria sia all’arresto dell’esodo dalle campagne sia alla

rinascita dell’economia regionale. Significativo in questo senso risultano le

dichiarazioni espresse in merito nella risoluzione della commissione politico-

410 L. Capitani - L. Piras - V. Scarpelli, ...è una storia lunga. Lotte e coscienza di tabacchine umbre negli anni ‘50 a Perugia, Regione dell’Umbria, Perugia, 1983.

411 Ibidem, p. 203.

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243

organizzativa dell’ VIII Congresso della Federazione perugina del Pci412 in cui si

ravvisa un chiaro auspicio di rinascita fondato su una seria riforma agraria tale da

poter condurre in modo agevole i mezzadri al possesso della terra, inoltre viene

ribadito il ruolo di grande importanza che i mezzadri rivestono nell’ambito

economico regionale413. Nonostante queste proposte di risanamento della realtà

rurale, come si vedrà più avanti, la crisi delle campagne umbre proseguì

inarrestabile negli anni successivi con effetti disastrosi sia dal punto di vista

economico che sul quello paesaggistico-ambientale, infatti Henri Desplanques414

nel corso degli anni Sessanta, nel suo lavoro sulle campagne umbre esprime in

modo molto vivido la condizione in cui versano le campagne in cui gli elementi

naturali presenti in essa vengono associati ad immagini di morte, di desolazione e

di abbandono 415 . Queste considerazioni di Desplanques delineano come si

presentava la campagna agli occhi di un attento osservatore nei primi anni

Sessanta, ma occorre ribadire che già dal decennio precedente erano ravvisabili i

primi segni della destrutturazione del sistema agricolo regionale. Come scrive

Giacomina Nenci nel suo saggio su proprietari e contadini nell’Umbria

mezzadrile416

412 A tal proposito si veda: Per la pace, la libertà e il lavoro. Risoluzione della commissione politico-

organizzativa dell’ VIII Congresso della Federazione perugine del Pci, Perugia 23-24-25 aprile 1964, in I comunisti umbri. Scritti e documenti 1944-1970, Perugia, 1977.

“Dai primi anni ‘50 comincia lo smottamento del sistema: prima

413 Nel documento queste convinzioni sono espresse a pag.160 con le seguenti parole: “Per andare avanti sulla strada della rinascita è indispensabile una seria riforma agraria che rinnovi i rapporti semifeudali esistenti nelle campagne, che trasformi la mezzadria avvicinando il mezzadro al possesso della terra (…). Dalla realizzazione delle rivendicazioni dei lavoratori nelle campagne, e in particolare dei mezzadri, dipende in definitiva lo sviluppo (…) dell’economia fondamentale della regione”.

414 Henri Desplanques (1911-1983) è stato un geografo francese che tra il 1953 e il 1973 raccolse 296 immagini fotografiche relative al paesaggio umbro che andarono a confluire nel volume Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale, Quaderni della Regione dell’Umbria, Edizioni Guerra, Perugia, 1975 e che ancora oggi rappresentano uno strumento utilissimo per lo studio dei mutamenti del paesaggio regionale.

415 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale, Quaderni della Regione dell’Umbria, Quattroemme, Perugia, 206, p. 556 “i pendii sembrano come morti, anche se qualche rado cespuglio o zolla erbosa visi abbarbica qua e là (…) oggi le colture sono sostituite da vegetazione stopposa”.

416 G. Nenci, Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi, cit.

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l’assottigliarsi della consistenza famigliare, poi, a ruota, la diminuzione delle

famiglie stesse. Il primo fenomeno è sempre più consistente del secondo, che ne

è il frutto. Alla fine del decennio, quando il più deve ancora accadere, nella

provincia di Perugia le unità mezzadrili sono calate del 34 per cento nella

provincia di Perugia e i nuclei del 21”417. Come si è già ribadito sono i giovani i

primi a subire il fascino della città e delle sue attrattive dal momento che,

paragonate alla vita della casa colonica, viene percepita come un baluardo di

modernità. Infatti, anche se il prodotto aziendale per ettaro nei terreni più vocati

raggiunge una quota superiore a 140.000 lire quasi molto spesso ciò non è

associato ad un sistema infrastrutturale e di servizi adeguato. Questo stato di cose

è testimoniato dallo studio di Cassano, relativo all’adattamento delle strutture

agricole nella media valle del Tevere per il periodo 1961-1964 418

, dal quale

risulta che nella zona compresa tra il comune di Torgiano e quello di Todi più

dell’ 83% delle case coloniche era sprovvisto di acquedotto, circa il 40% non

aveva l’elettricità e nella quasi totalità dei casi non erano presenti i servizi

igienici.

7.2 IL PESO DEI MOVIMENTI MIGRATORI SUL SETTORE PRIMARIO

REGIONALE NEGLI ANNI SESSANTA

A questo punto, viste le condizioni in cui versano gli abitanti delle zone rurali

e le speranze, che come si vedrà verranno nella maggior parte dei casi disilluse,

di riscatto che essi ripongono in una possibile introduzione di modernità

all’interno di un sistema agricolo considerato ormai cristallizzato entro schemi

troppo costrittivi ed arretrati, sembra opportuno prendere in considerazione le

417 Ibidem, p. 253.

418 C. Cassano, Il recente adattamento delle strutture agricole nella media valle del Tevere 1961-1964, Foligno, 1965.

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modalità con cui i nuovi contadini419 hanno reagito alle sfide lanciate dalle città e

dal loro potenziale di rinnovamento. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la città

costituisce un forte polo attrattivo soprattutto per la popolazione giovanile che

come afferma Giacomina Nenci è la prima “ad avviare un meccanismo di

disinnesto a spirale, cioè si parte dalle situazioni estreme dell’arco mezzadrile,

provocando in breve una mobilità generale che all’inizio degli anni ‘60 ha

toccato il 40 per cento dei nuclei colonici”420. Dalle ricerche condotte da Nora

Federici e Luigi Bellini421 risulta che nel primo periodo i movimenti migratori si

risolvono prevalentemente all’interno del contesto regionale e si mantengono

ancora nell’ambito agricolo infatti, vengono abbandonati i terreni situati in aree

marginali e ci si trasferisce in fondi migliori. Questa prima fase tuttavia, non si

esaurisce nel mero trasferimento da aree meno produttive verso zone più

produttive dal punto di vista agricolo ma costituisce un nuovo punto di partenza

verso una seconda ondata migratoria che questa volta vede come destinazione

definitiva i poli urbani regionali ed extraregionali422

419 Per nuovi contadini si fa riferimento alle figure di proprietari, soprattutto coltivatori diretti, derivate

dalla risoluzione dei patti di mezzadria.

. Alla fine degli Sessanta

come conseguenza di queste massicce emigrazioni si verifica un esito

demografico negativo a fronte di un saldo naturale positivo. A questo proposito

risulta utile citare il caso della Toscana anch’essa caratterizzata nello stesso

periodo da notevoli flussi migratori, ma capace di arginare l’emorragia di

popolazione mediante allettanti e variegate offerte di impieghi extra-agricoli

maggiormente redditizi. Il caso umbro è diverso anche da quello marchigiano in

cui l’esodo agricolo si risolve in tempi molto più brevi ed in maniera meno

420 G. Nenci, Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi, cit., p. 253.

421 N. Federici – L. Bellini, L’evoluzione demografica dell’Umbria dal 1861 al 1961, Vol. 2, Centro regionale per il piano di sviluppo economico dell’Umbria, Perugia, 1966.

422 A. Melelli, La recente dinamica demografica e l’evoluzione delle strutture agrarie ed industriali della valle umbra, in “Nuova Economia” n. 4, 1977.

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traumatica grazie alla specificità economica regionale caratterizzata da modelli di

industria diffusa, capaci di assorbire la forza-lavoro espulsa dalle campagne.

Come è ben comprensibile i risultati più evidenti e drammatici di questo

inarrestabile processo migratorio vedono coinvolte le aree rurali montane e

dell’alta collina. Le zone più colpite risultano quelle intorno a Gubbio e Norcia, i

Monti Martani e le colline che lambiscono il lago Trasimeno. Nell’arco di un

decennio gli insediamenti sparsi a guisa di ben saldi presidi territoriali si

svuotano contribuendo in maniera forte alla trasformazione del profilo agricolo e

paesaggistico della regione. Occorre precisare però che, stando ai dati riportati

nello studio di Luigi Cicoria e facenti riferimento al Censimento Generale

dell’Agricoltura del 1961,423

nonostante nel decennio in questione si consumi la

definitiva crisi dei sistemi mezzadrili (si consideri che la legge 15 settembre 1964

n. 756 vietava di stipulare nuovi contratti di mezzadria, colonia parziaria o

soccida) le aziende mezzadrili occupino ancora il 42% della superficie mentre

numericamente rappresentino più del 50% delle ditte.

DATI SUL 1° CENSIMENTO GENERALE DELL’AGRICOLTURA AL 15 APRILE 1961.

FORMA DI CONDUZIONE

DELLE AZIENDE

NUMERO ETTARI

Diretta del coltivatore 44.839 179.487

Con salariati e/o

compartecipanti

5.750 272.418

A colonia parziaria

appoderata

26.380 326.846

Altra forma 1.444 1.924

Totale 78.413 780.675

423 L. Cicoria, L’agricoltura dell’Umbria nella economia nazionale, Edizioni Guerra, Perugia, 1965.

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Il primo Censimento Generale dell’Agricoltura descrive in modo obiettivo,

mediante dati statistici, le dinamiche inerenti alle trasformazioni degli

ordinamenti produttivi nel delicato passaggio dalla mezzadria ad altre forme di

conduzione; si nota, infatti, che l’esodo dei coloni ha spinto verso il passaggio

alla conduzione con salariati, mentre la conduzione diretta ha assistito ad un forte

incremento in termini di numero di aziende, il 57% sul totale, seppur occupando

ancora una esigua estensione di superficie, pari a circa il 23% di quella

complessiva. Queste percentuali mettono in luce un’altra problematica legata a

questa delicatissima fase dell’agricoltura regionale: la polverizzazione dei fondi

rustici. Tale fenomeno ha costituito un serio limite per una razionale ed efficiente

utilizzazione dei terreni agricoli. Tutto ciò ha contribuito notevolmente

all’abbassamento delle rese per ettaro e di conseguenza a spingere i nuovi

contadini verso nuovi sbocchi lavorativi. Un altro fattore determinante, oltre la

scarsità dei redditi agricoli e le difficili condizioni di vita, di questo radicale

processo migratorio è costituito dall’introduzione delle macchine agricole424

. Le

tabelle che seguono servono a dare una idea del potenziale meccanico regionale

in rapporto a quello nazionale.

424 Giacomina Nenci, nel saggio G. Nenci, Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile, in Storia

d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi, cit., p.255, riporta alcuni dati interessanti relativi alla presenza dei mezzi meccanici nelle campagne umbre “le 800 trattrici dell’anteguerra sono diventate circa 5.000 nel 1960, ma tutte quelle macchine operatrici semoventi, che concorrono a completare con la loro energia quella dei motori delle trattrici sono pochissime. 6 le mietitrebbiatrici, 119 le motofalcaitrici, 87 i motocoltivatori, 21 le motozappatrici”.

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MACCHINE AGRICOLE

1955 1960 1962 Italia ‘62

Numero

Trattrici 2.883 4.727 5.801 304.893

Derivate 40 32 29 11.530

Motocoltivatori - 87 214 48.184

Motofalciatrici 119 564 150.045

Altre operatrici 60 46 167 25.444

Totale 2.983 5.013 6.775 540.096

Motori vari - 8.968 9.266 248.908

Trebbiatrici 1.509 1.311 1.120 27.997

Mietitrebbiatrici - 6 22 6.988

Sgranatrici 166 89 52 6.076

Fonte: L. Cicoria, L’agricoltura dell’Umbria nella economia nazionale, Edizioni Guerra,

Perugia, 1965.

Luigi Cicoria, nel delineare la situazione dell’agricoltura umbra nel più

generale contesto nazionale a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta425

425 L. Cicoria, L’agricoltura dell’Umbria nella economia nazionale, cit.

, utilizza

ancora delle prospettive auspicanti un tipo di sviluppo agricolo volto alla totale

ottimizzazione del rapporto mezzi/unità di superficie. Questa idea appare

chiaramente dalle parole che lo stesso Cicoria utilizza nell’illustrare il processo

di meccanizzazione delle campagne umbre: “anche se si registra un crescente

aumento delle macchine agricole, tuttavia la meccanizzazione dovrà ancora

essere ampiamente sviluppata con la ricomposizione fondiaria e con una

appropriata revisione delle colture. Al fine di rendere proficuo l’investimento

occorre mirare al massimo impiego dei mezzi; e ciò è in relazione all’ampiezza

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dell’azienda”426

. Nella visione di Cicoria, che poi ricalca il modo di pensare più

diffuso tra politici locali e addetti al settore per tutto il corso degli anni Sessanta,

è ancora possibile la ripresa del settore primario regionale grazie all’applicazione

congiunta di una efficace riforma fondiaria e delle opportunità offerte dalla

tecnologia. Tuttavia, nonostante questi positivi auspici, il quadro relativo ai

movimenti demografici regionali è bene esposto nelle tabelle che seguono e che

non lasciano dubbi in merito all’andamento dei flussi migratori. Oltre a ciò però,

viene fuori anche un altro aspetto interessante che parrebbe in contraddizione con

le dinamiche del fenomeno e cioè che, nonostante il massiccio trasferimento

della popolazione contadina verso luoghi diversi dalle campagne, la forza-lavoro

agricola sia ancora elevata rispetto a quella dell’industria e di altre attività. In

realtà questa contraddizione è solo apparente se si considera il fatto che nel

periodo in esame il settore industriale, ad eccezione del polo industriale di Terni,

e quello dei servizi all’interno della regione non hanno raggiunto uno sviluppo

tale da assorbire in maniera sistematica la popolazione espulsa dalle zone rurali.

426 Ibidem, p. 2.

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POPOLAZIONE RESIDENTE

Censimento 1951 Censimento 1961

Abitanti 803.794 794.745

Densità per Kmq. 97 94

MOVIMENTO NATURALE 1960 1962 Nati vivi 12.328 11.351

Morti 7.259 7.789

ECCEDENZA 5.069 3.562

Matrimoni 7.096 7.016

Fonte: L. Cicoria, L’agricoltura dell’Umbria nella economia nazionale, Edizioni Guerra,

Perugia, 1965.

ISCRIZIONI E CANCELLAZIONI ANAGRAFICHE DI PERSONE IN CONDIZIONE PROFESSIONALE

PER SETTORE DI ATTIVITA’ ECONOMICA.

ISCRITTI 1959 1961

Agricoltura 3.044 3.770

Industria 1.851 2.361

Altre attività 3.253 2.611

Totale 8.148 8.742

CANCELLATI

Agricoltura 3.222 4.224

Industria 2.514 4.667

Altre attività 4.343 5.033

Totale 10.079 13.924

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251

Per avere ulteriori conferme dei disagi vissuti dalla popolazione rurale in aree

piuttosto svantaggiate risulta interessante citare la lettera che gli abitanti di

Scalocchio, un borgo situato a circa un’ora da Città di Castello , hanno scritto nel

1955 al governo: “Senza luce, senza strada, senza scuola, senza servizi sanitari

siamo qui nel cuore dell’Italia e in mezzo all’Appennino Umbro-Tosco-

Marchigiano ad agonizzare. Il tutto perché occorrono ben 10 chilometri della più

orrida mulattiera per raggiungere questa nostra zona (…) il Comune di Città di

Castello ci ha dimenticati (…) nessuno vuole più stare qui in montagna (…) tutti

vogliono rifugiarsi in città o nel piano (…) Nella nostra agonia abbiamo scritto

l’acclusa lettera come ultimo appello per la nostra salvezza” 427

427 La lettera che gli abitanti di Scalocchio scrissero nel 1955 al governo italiano è riportata in H.

Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia Centrale, cit., p.1055.

. Negli anni

successivi alla data in cui fu scritta questa lettera la situazione logistica ebbe

qualche miglioramento: la luce elettrica arrivò, fu costruita una strada molto più

agevole rispetto alla mulattiera; tuttavia ciò non fu sufficiente a contrastare

l’ormai irreversibile processo di abbandono rurale. Tale stato di cose, però, non è

POPOLAZIONE RESIDENTE DI OLTRE 10 ANNI AL CENSIMENTO DEL 15 OTTOBRE 1961

ATTIVA Agricoltura 126.486

Industria 105.869 Altre attività 78.382

IN CERCA DI PRIMA OCCUPAZIONE 126.486 POPOLAZIONE NON ATTIVA 105.869

Totale 78.382 9.915

Fonte: L. Cicoria, L’agricoltura dell’Umbria nella economia nazionale, Edizioni Guerra,

Perugia, 1965.

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252

ravvisabile soltanto nelle zone marginali e quasi inaccessibili di alta montagna

ma investe anche la bassa collina, a titolo esemplificativo si possono citare i casi

delle colline di Sant’Egidio e di Ripa, aree in cui gli insediamenti e le attività

agricole sono stati sempre caratterizzati da una certa prosperità, che nel decennio

1951-1961 hanno visto una diminuzione della popolazione sparsa di circa 200

unità passando da 1462 a 1264 abitanti.

Come diretta conseguenza dell’esodo rurale risulta l’invecchiamento della

popolazione infatti dai dati a nostra disposizione, esposti schematicamente nella

tabella che segue, si evince in modo molto chiaro questo fenomeno. A questo

proposito emergono alcune contraddizioni all’interno delle diverse realtà

regionali a cui è molto difficile dare delle spiegazioni esaurienti sia per la

mancanza di fonti precise a riguardo sia per la complessità e specificità con cui

questo fenomeno si manifesta. Nonostante ciò si è ritenuto opportuno segnalare

queste situazioni che sfuggono alle più tradizionali logiche di causa effetto e che

esprimono variabili anomale non riportate dalle ufficiali fonti statistiche. Per

spiegare meglio quanto si è appena affermato occorre considerare che

tradizionalmente nelle famiglie mezzadrili, a causa del forte legame esistente tra

nucleo familiare e azienda, si registrava un tasso di iuvenilità di gran lunga

superiore a quello dei coltivatori diretti. Premesso ciò e considerato che nella

maggior parte dei casi il fenomeno migratorio era sintomo di un male profondo

caratterizzato da precarietà economica e disagio sociale, non stupisce il fatto che

l’esodo rurale e l’invecchiamento della popolazione sia avvenuto con maggiore

forza (7-10% della popolazione) nei comuni di Lisciano Niccone, Montefalco,

Gualdo Cattaneo e Giano, in questi ultimi comuni poi l’emigrazione è stata

causata dalla crisi mineraria relativa all’estrazione della lignite; stupisce, invece,

il fatto che comuni come Città della Pieve, Tuoro e Castiglione del Lago,

notoriamente caratterizzati da una prospera vocazione agricola e con presenza di

unità mezzadrili molto marcata, abbiano manifestato un alto indice di senilità tra

la popolazione agricola.

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253

PERCENTUALE DI POPOLAZIONE ATTIVA DI ETA’ SUPERIORE A 55 ANNI (PERCENTUALE

CALCOLATA SULLA BASE DEI DATI DEL CENSIMENTO DEL 1961

Settore agricolo 21,3%

Settore industriale 7,1%

Settore commerciale, ecc. 12,1%

Fonte: H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali

dell’Italia Centrale, Quattroemme, Perugia, 2006.

7.3 L’USO DEI SUOLI

Prima di esaminare la situazione relativa all’utilizzazione dei suoli agricoli

regionali tra gli anni Cinquanta e Sessanta va precisato che in Umbria fino al

tardo Novecento non si è avuta la nascita di un qualche tipo di agricoltura

intensiva a causa dell’azione congiunta di fattori di ordine produttivo e culturale.

Come osserva Desplanques “Né la messa in valore delle nuove terre, né la

diffusione della policoltura avevano avuto come conseguenza la nascita di

un’agricoltura intensiva” 428

428 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia Centrale,

cit., p. 657.

. Per lungo tempo il suggestivo paesaggio della

coltura promiscua, che talvolta si spingeva fino alle pendici calcaree, ha nascosto

una situazione di eccessivo sfruttamento dei terreni con conseguente

depauperamento dei terreni. Questo è avvenuto in seguito alle pressioni

demografiche che imponevano l’ampliamento dei fondi, senza tuttavia ricercare

terreni più convenienti, e un maggiore sfruttamento della terra. Inoltre, fino ai

primi anni Cinquanta i metodi di concimazione rappresentavano molto bene il

legame esistente tra allevamento e coltivazione in quanto ancora nel 1954 ci sono

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testimonianze che riferiscono di ovili con uno strato di letame poco inferiore a un

metro e destinato alle concimazioni annuali dei campi 429

. Una testimonianza

chiara della lentezza con cui le innovazioni sono state introdotte nelle campagne

umbre è costituita dall’utilizzo dei concimi, il bollettino dei servizi agricoli per

l’anno 1957 conferma il fatto che la media della regione nell’uso dei concimi

chimici è di molto inferiore alla media nazionale.

PERCENTUALE DI FERTILIZZANTI IMPIEGATI PER ETTARO IN OGNI REGIONE

Umbria Italia Media più alta Media più bassa

Concimi azotati

(kg per ettaro)

14,9 23,5 Vercelli 60 Sardegna 9,4

Concimi fosfatici 21,3 26,8 Napoli 66 Basilicata 12

Fonte: Annuario di statistica agraria, 1964.

Per quanto riguarda l’uso dei mezzi meccanici si osserva sia una certa

difficoltà nella loro applicazione nel contesto agricolo regionale sia una

differenziazione del loro impiego nelle diverse località umbre. A questo

proposito è singolare constatare come intorno alla metà degli anni Sessanta nelle

campagne perugine tradizione e modernità coesistano addirittura all’interno della

stessa azienda, infatti Desplanques riferisce che sul finire del mese di giugno del

1964 in un terreno di 16 ettari ha potuto osservare una potente mietitrebbiatrice

all’opera mentre soltanto qualche giorno dopo a soli sette chilometri da tale

appezzamento in un fondo di montagna si è trovato di fronte una situazione del

tutto differente in cui alcuni contadini mietevano il grano con il falcetto430

429 Ibidem.

. Tale

contraddizione, però non è una peculiarità della campagna perugina ma si

430 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia Centrale, cit.

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255

verifica anche nelle zone agricole intorno a Città di Castello, nei pressi della

valle del Tevere e nei terreni vicino Foligno. Sul finire degli anni Sessanta, però,

un tale stato di cose tende ad evolversi, i trattori e gli altri mezzi meccanici non

hanno definitivamente soppiantato gli attrezzi tradizionali ma si sono diffusi

gradualmente nelle campagne umbre. In questi anni in cui l’esodo rurale ha

raggiunto dimensioni imponenti non si può più fare a meno di aiuti meccanici per

dissodare terreni molto compatti e non solo, e anche in montagna vengono

utilizzati trattori leggeri di 20-40 cv. In alcuni casi l’utilizzo del trattore non

apporta un grande vantaggio in termini economici ma costituisce una necessità di

carattere socio-culturale divenendo simbolo di emancipazione. In un primo

momento soltanto la grande azienda con salariati beneficiava dei vantaggi della

motorizzazione mentre le piccole aziende a conduzione diretta, a causa della

penuria di mezzi finanziari e della limitata estensione degli appezzamenti, hanno

posticipato l’introduzione dei mezzi meccanici nei loro fondi.

7.4 LA VITE: DA COLTURA PROMISCUA A COLTURA SPECIALIZZATA

Per tutto il corso degli anni Cinquanta e gran parte degli anni Sessanta

l’agricoltura umbra ha visto nei sistemi promiscui di coltivazione le tipologie più

diffuse. In particolare va analizzato il caso della vite che, ad eccezione dei terreni

calcarei posti in montagna o alta collina, in Umbria è presente quasi ovunque. La

diffusione di questo tipo di coltura va considerata in base ai tradizionali rapporti

coltura promiscua-terre arabili che da lungo periodo hanno investito le campagne

regionali. Una domanda però sembra essere lecita: per quale motivo la vite ha

conosciuto una così ampia diffusione in tutta la regione andando a colonizzare

anche i pendii, certamente ben esposti, di versanti situati oltre i novecento

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256

metri 431

Un discorso a parte va riservato invece al vigneto specializzato che richiede

particolari condizioni ambientali. I dati Istat relativi agli anni 1955 e 1965

assegnano al vigneto specializzato una superficie rispettivamente di 1.521 e di

1.822 ettari. In Umbria l’introduzione dei vigneti specializzati si è articolata in

tre fasi: la prima si è compiuta tra la fine dell’800 e il 1930 e ne sono stati

protagonisti le campagne adiacenti a Montefalco; la seconda, come in gran parte

delle campagne dell’Italia centrale, è stata caratterizzata dalla piaga della

fillossera; nella terza fase, che ha preso avvio dal 1955, si è verificato un vero e

proprio processo di ristrutturazione che ha contribuito alla creazione di nuovi

impianti. Questa evoluzione è testimoniata dai dati che seguono i quali mostrano

molto chiaramente come in poco più di un decennio il vigneto in coltura

promiscua abbia perso notevoli unità di superficie mentre i vigneti specializzati

abbiano conosciuto un periodo di forte espansione.

? Sicuramente la principale causa di una così ampia espansione,

soprattutto in coltura promiscua, va ricercata nel fatto che i vigneti promiscui non

necessitano di particolari specificità pedologiche e quindi sono caratterizzati da

una grande adattabilità. A questo si aggiunga anche il fatto che il sistema

mezzadrile per lungo tempo ha influenzato gli assetti colturali regionali.

Vigneto in coltura promiscua Vigneto specializzato

1955 126.550 ha 1.520 ha

1962 124.000 1.561

1966 111.000 2.050

Fonte: H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia

Centrale, cit.

431 Ancora oggi sono visibilissimi le colture viticole che si snodano lungo i pendii di Colmontino (932

m.) e Onelli (953 m.), mentre intorno a Todiano di Preci si coltivava e si coltiva la vite in zone con pendenza superiore al 50%.

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257

In questo senso ha avuto un ruolo importante il Piano quinquennale per lo

sviluppo dell’agricoltura istituito con la legge n. 454 del 2 giugno 1961 che

prevedeva lo stanziamento di finanziamenti per il miglioramento dei settori

viticolo e olivicolo mediante il passaggio da impianti in coltura promiscua a

produzioni specializzate. Tutto ciò ha avuto ripercussioni non solo di natura

economica ma anche paesaggistica. A questo proposito risulta particolarmente

significativa la testimonianza di Desplanques che negli anni Sessanta sorvolò più

volte le campagne umbre per cogliere i mutamenti intervenuti negli assetti

colturali. Desplanques afferma: “Nel giugno del 1966 si poteva affermare che

nelle pianure soltanto il 30% della superficie rimaneva arborata” 432 . Questa

affermazione di Desplanques non è riferita solo al fatto che pian piano i vigneti

specializzati hanno preso il posto delle colture promiscue ma va interpretata

anche tenendo conto del processo di abbandono che ha coinvolto gran parte dei

terreni caratterizzati dal forte esodo rurale. Questo è confermato da ciò che

Desplanques esprime continuando nella descrizione del paesaggio che riesce a

contemplare dalla visione aerea “Le campagne ove dieci anni fa regnava ancora

incontrastata la coltura promiscua si trasformano in campagne aperte. Di anno in

anno si moltiplicano le grandi radure a seminativi nudi (…) Non si piantano più

viti alberate, ma si lasciano in piedi, fin tanto che produrranno, le vecchie piante

risparmiate dalle avversità o dalla fillossera. Per questo si possono osservare

filari incompleti, alberi che sembrano sperduti in mezzo ai cereali” 433

432 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia Centrale,

cit., p.744.

. In

conclusione si può affermare che le superfici vitate in coltura promiscua, ancora

molto presenti fino al 1955, appaiono oggi come sporadiche testimonianze di

un’epoca che, in conseguenza delle sollecitazioni operate dalle nuove tecniche

produttive di matrice industriale, volge ormai al tramonto. Alla definitiva eclissi

del paesaggio delle colture promiscue hanno concorso una serie di fattori che si

sono affermati nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta: l’apertura dei mercati,

433 Ibidem.

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258

la grande espansione delle colture foraggere e il definitivo declino del sistema

mezzadrile.

7.5 VERSO GLI OLIVETI SPECIALIZZATI

La presenza dell’olivo, spesso consociato ad altre colture, è una caratteristica

peculiare del paesaggio regionale. In Umbria, la coltivazione di questa pianta

riveste un’importanza particolare non tanto dal pinto di vista economico ma

soprattutto a causa delle complesse dinamiche che la uniscono alla realtà rurale

regionale. Per poter meglio cogliere gli sviluppi interni al settore, come per la

vite, anche per l’olivo è necessario operare una distinzione tra olivicoltura in

forma promiscua e oliveti specializzati. A rigor di logica parlando del primo tipo

si dovrebbero intendere quei terreni in cui l’olivo rappresenta soltanto una delle

molteplici tipologie di colture praticate, mentre nel secondo caso gli oliveti

dovrebbero configurarsi come monocolture. In realtà in Umbria molto spesso

quando si parla di oliveti specializzati si fa riferimento a terreni olivati in cui

però sono presenti anche altri tipi di colture, questo perché il criterio di

classificazione utilizzato dall’Istat fa riferimento all’estensione di superficie

ricoperta dalla chioma della pianta senza considerare se sotto di essa siano

praticate altre colture. Questo criterio di classificazione si applica, poi, in

maniera differente a seconda delle diverse aree agricole regionali, infatti nella

zona di Montefalco se in una unità di superficie, espressa in ettari, si coltivano 80

piante in pieno sviluppo o 120 di discreto sviluppo si può parlare di superficie

olivata, altrimenti si parlerà di seminativo arborato 434

434 Ibidem.

. Nonostante queste

precisazioni la coltura dell’olivo con sistema promiscuo rimane in Umbria quella

più diffusa, mentre gli oliveti specializzati, nel periodo considerato, sono

localizzate in ristrette zone facenti parte dei rilievi calcarei in particolare nei

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259

comuni di Spoleto e Foligno. La prima cosa che balza all’occhio osservando le

foto che ritraggono i campi olivati regionali è il fatto che man mano che si sale di

altitudine gli oliveti promiscui si diradano gradualmente cedendo il posto agli

oliveti specializzati. Dunque aldilà di ogni classificazione strumentale a

determinazioni empiriche, un elemento importante che contraddistingue gli

oliveti specializzati da quelli promiscui risiede nella loro localizzazione: più in

alto le colture specializzate più in basso quelle promiscue. Questo avviene

perché questo tipo di pianta è una delle poche capace di adattarsi a terreni

leggeri, ghiaiosi e calcarei. Infatti nelle terre poste più a valle, caratterizzate da

suoli umidi e fertili, vengono poste a coltura leguminose e produzioni foraggere

più adatte a tale tipo di terreni. Un altro fattore importante nella distinzione tra

oliveti specializzati e non consiste nel numero di piante per unità di superficie , le

stime interne alla regione considerano oliveti specializzati i terreni in cui siano

presenti 252 piante per unità di superficie mentre per i seminativi olivati sono

presenti 85 piante per ettaro. Con il passare degli anni, come dimostrano i dati

esposti nella tabella seguente, soprattutto sul finire degli anni Sessanta la volontà

di sfruttare ulteriormente i terreni ha spinto i contadini locali a intensificare le

piantagioni in modo eccessivo e talvolta controproducente sia per la pianta stessa

che per gli assetti idrogeologici.

Data Superfici (ha)

Coltura promiscua Coltura specializzata

1952 35.498 5.489

1965 35.700 6.480

Fonte: H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia

Centrale, cit.,

Infatti, all’olivo, come del resto alla vite, sono associati particolari assetti

idrogeologici, addirittura la stessa struttura delle piante diviene un elemento

fondamentale nella regolazione delle acque. Anche sotto questo punto di vista,

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260

però, occorre precisare che le colture associate all’olivo nelle forme promiscue

costituiscono un fattore talvolta nocivo in ragione delle quantità d’acqua che

assorbono; questo fatto, nelle annate di maggiore siccità influisce in maniera

determinante nelle produzioni olearie. Negli oliveti specializzati, come si è detto

prima, l’eccessiva concentrazione di piantoni può dar luogo, invece, a fenomeni

di eccessivo depauperamento degli elementi nutritivi presenti nel suolo.

Un altro elemento che differenzia gli impianti specializzati da quelli promiscui

è costituito dalle forme di conduzione. Per tutti gli anni Cinquanta e gran parte

degli anni Sessanta, gli oliveti specializzati erano presenti essenzialmente in due

tipologie di terreni che potremmo definire contrapposte, da una parte gli

appezzamenti di esigue dimensioni caratterizzati da poche decine di piante e

gestite da coltivatori diretti, dall’altra grandi proprietà con oltre 20.000 piante

coltivate dai cosiddetti “casengoli” che venivano ingaggiati dai proprietari in

cambio di determinati quantitativi di olio. Ciò che accomunava queste tipologie

di coltivazioni era il fatto che esse venivano gestite in modo diretto dal

proprietario o, nel caso delle proprietà più grandi, da un suo fattore senza però far

parte di una azienda agricola in senso stretto, dal momento che i terreni adibiti ad

oliveto specializzato non vi erano particolari ordinamenti colturali e non erano

presenti case coloniche. Al contrario, nelle aree mezzadrili erano presenti

essenzialmente oliveti consociati ad altre colture, questo perché la famiglia

mezzadrile non poteva basare il proprio sostentamento su un’unica produzione.

Tutto ciò costituisce uno dei motivi principali della persistenza dei seminativi

arborati in gran parte della campagna umbra.

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261

7.6 GLI ANNI SETTANTA NELLO SCENARIO AGRICOLO

REGIONALE

Riprendendo il discorso relativo all’organizzazione colturale della regione

abbiamo visto, nel caso della vite e dell’olivo, che le coltivazioni promiscue sono

andate progressivamente diradandosi lasciando il posto da una parte ai seminativi

nudi, in quei suoli più adatti alle colture estensive, e dall’altra agli impianti

specializzati nelle zone a maggiore vocazione produttiva. Nel corso degli anni

Settanta questa marcata tendenza alla specializzazione produttiva, riguardante

perlopiù la viticoltura, è stata fonte di disequilibri che, unitamente a fattori

contingenti come i freddi tardivi, hanno causato dei forti cali di produzione. In

particolare la diffusione di un tipo di malattia quale la clorosi ferrica della vite

nell’annata agraria 1975, seppur non legata all’andamento stagionale, è un chiaro

esempio di come il rapido incremento della coltura della vite anche in suoli

eccessivamente calcarei ha contribuito all’insorgenza di specifiche fisiopatie,

principali cause di sottoproduzione 435

. La tabella di seguito riportata mostra

chiaramente il calo di produzione subito dalle colture viticole nell’anno 1975 in

confronto al triennio precente

RESE UNITARIE PER ETTARO DELLE COLTURE DI VITE E OLIVO IN UMBRIA NEL 1975

1975 Media 1972-1974 Indice 1972-74=100 Vite (uva da vino) 42,9 45,7 94

Olivo (olive da olio) 10,4 8,2 127

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso

la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

435 La clorosi ferrica della vite, oltre all’eccessiva componente calcarea dei suoli, è causata ed aggravata

da pratiche agronomiche non appropriate quali ripetute lavorazioni dei terreni e sovrabbondanti concimazioni azotate; a tal proposito si veda: P. Violante, Chimica e fertilità del suolo, Il Sole 24 Ore Edagricole, 2013.

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Analizzando, invece, l’andamento del mercato dei principali prodotti agricoli

regionali si evidenzia un generale aumento dei prezzi ad eccezione di quello del

vino che ha subito un calo dell’8% per il bianco del 4% per il rosso.

PREZZI ALL’INGROSSO DEI PRINCIPALI PRODOTTI AGRICOLI IN UMBRIA AL 1975

Prodotti Media 1975 Media del triennio 1972-1974

Indice 1972-1974=100

CEREALI

grano tenero 11.010 8.603 128

Grano duro 17.061 12.277 139

Orzo 10.920 8.434 129

Avena 10.150 8.255 123

Mais ibrido 10.635 7.496 142

INDUSTRIALI

Tabacco bright 159.438 121.983 131

Tabacco kentocky 114.549 93.929 122

Barbabietola da

zucchero

184,80 106,05 174

PATATE 14.600 10.529 139

FIENO 3.715 2.236 166

VINO

Comune bianco 10.140 11.099 91

Comune rosso 12.865 13.102 98

OLIO DI OLIVA

Extra vergine 187.363 118.804 158

Sopraffino vergine 176.909 104.928 169

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso

la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

Questo fatto è da mettersi in relazione alle sfavorevoli condizioni sia del

mercato interno che di quello comunitario. Infatti, riallacciandoci a quanto già

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263

illustrato nei capitoli precedenti, la ristrutturazione del mercato del vino a cavallo

tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta436

Nel contempo si assiste ad un ingente innalzamento del prezzo dell’olio di

oliva che può essere riconducibile a diverse cause: il progressivo rialzo dei costi

di produzione conseguenza dell’aumento del costo della manodopera e del calo

di produzione della campagna olearia 1974-1975 a cui ha fatto seguito un

notevole incremento della domanda

, guidata dalla convinzione di dover

aumentare incondizionatamente le rese mediante la sostituzione del lavoro

umano con quello delle macchine, ha contribuito alla creazione di un eccesso

strutturale all’interno del mercato comunitario. Come è noto, le necessarie

conseguenze della ristrutturazione sono state l’aumento delle superfici vitate,

l’abbassamento del livello qualitativo dei vini di pregio e l’indebolimento della

posizione del vino all’interno del mercato europeo dei prodotti agro-alimentari.

437. Di particolare interesse risultano i dati

relativi al trend del salario annuo di un operaio a tempo indeterminato nel

periodo 1972-1975 da cui si evince che esso subisce un considerevole aumento

causato sia dall’andamento inflazionistico riguardante il contesto economico

nazionale sia dall’adeguamento dei salari agricoli con quelli extra-agricoli438

436 Cfr. Regolamenti CEE 816/70 e 817/70 relativi alle disposizioni complementari in materia di

organizzazione comune del mercato vitivinicolo e alle disposizioni particolari relative ai Vini di Qualità Prodotti in Regioni Determinate.

437 Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso la rete

contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980, p.8.

438 Ibidem.

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ANDAMENTO DEL SALARIO ANNUO DI OPERAIO A TEMPO INDETERMINATO IN UMBRIA AL

1975

Media 1975 Media del triennio 1972-1974

Indice 1972-1974=100

Salario annuo di operaio a t.i.

2.332,2 1.366,2 171

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso

la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

La forte inflazione che ha caratterizzato l’economia nazionale all’inizio degli

anni Settanta e l’impennata del prezzo del petrolio e delle fosforiti hanno avuto

forti ripercussioni sul settore agricolo regionale, soprattutto sul prezzo dei mezzi

tecnici. Ciò è chiaramente dimostrato dai dati di seguito riportati che sottolineano

come il perfosfato minerale e il gasolio agricolo siano tra i mezzi tecnici quelli

che hanno visto aumenti più marcati.

PREZZI ALL’INGROSSO DI ALCUNI PRINCIPALI MEZZI TECNICI IN UMBRIA AL 1975

Fattori produttivi Media 1975 Media del triennio 1972-1974

Indice 1972-1974=100

CONCIMI Urea agricola 46% 9.337 7.048 132

Nitrato ammonico 26-

27%

6.434 4.366 147

Perfosfato minerale 6.042 3.077 196

triplape 21.818 15.930 137

Solfato potassico 9.558 6.392 150

ANTIPARASSITARI E DISERBANTI

Solfato di rame 37.090 34.105 109

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265

Zolfo puro 13.045 8.566 152

Zolfo bagnabile 115.100 78.200 147

Ossicloruro di rame 65.500 41.266 159

CARBURANTI Gasolio agricolo 7.864 4.081 193

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso

la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

Dopo aver analizzato gli andamenti delle principali colture presenti nella

regione e dei relativi prezzi di mercato, si ritiene opportuno focalizzare

l’attenzione alle dinamiche legate al lavoro439

e ai capitali. Dall’esame dei dati

messi a disposizione dall’Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche

risulta evidente che le tipologie aziendali che assorbono maggiori quantitativi di

manodopera sono quelle ad indirizzo cerealicolo-colture industriali appartenenti

alla classe di ampiezza compresa tra i 5 e i 10 ettari. Queste aziende sono

perlopiù a conduzione familiare che per particolari colture come il tabacco

ricorrono a manodopera occasionale. Si registra, inoltre, un calo dell’utilizzo di

tale manodopera con l’aumentare della superficie aziendale; infatti, nelle aziende

comprese tra i 5 e i 10 ettari la forza-lavoro extra-aziendale è pari alle 0,31 U.L.

mentre in quelle comprese tra i 10 e i 20 ettari tale cifra scende alle 0,23 U.L. La

causa di questa tendenza è ravvisabile nel grado di meccanizzazione, molto più

elevato nelle aziende di grandi dimensioni e nel fatto che nelle aziende superiori

ai 10 ettari la superficie adibita a colture industriali non riveste un peso eccessivo

all’interno della SAU complessiva.

439 L’osservatorio economico per l’Umbria e le Marche ha determinato la forza-lavoro presente nelle

aziende in base agli attivi agricoli familiari e a quelli esterni espressi in unità lavorative CEE, considerando come unità lavorativa ogni persona che dedica al lavoro aziendale 2.380 ore annue o più e per frazione di unità lavorativa il totale delle ore fornite dall’unità non pienamente occupata diviso per 2.380.

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266

UNITA’ DI LAVORO IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI “NUCLEI” E CONTABILIZZATE IN UMBRIA

AL 1975 PER ORDINAMENTO PRODUTTIVO E CLASSE DI AMPIEZZA

% U.L.

familiari

sul totale

aziendale

U.L. Cee

Totali/ha

S.A.U.

S.A.U./U.L.Cee

totali Codice

Cee

Ordinamento

produttivo

Totali familiari Non

familiari

111 Cerealicolo-colture industriali

5-10 ha 3,42 3,11 0,31 90,90 0,37 2,73

10-20 ha 3,15 2,92 0,23 92,81 0,21 4,67

120 Erbaceo-Arboreo

5-10 ha 2,06 2,05 0,01 99,53 0,30 3,28

140 Erbaceo-allev. suino e/o avicolo

5-10 ha 2,19 2,18 0,01 99,55 0,27 3,66

10-20 ha 2,62 2,44 0,18 93,28 0,17 5,88

224 Viticolo

Fino a 5 ha 0,74 0,64 0,10 86,46 0,34 2,91

410 Zootecnico-Erbaceo

5-10 ha 1,65 1,64 0,01 99,24 0,24 4,09

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso

la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

Altri dati riferiti alle dinamiche interne alla forza-lavoro mettono in luce il

peso che all’interno delle aziende riveste il numero dei familiari stabilmente

occupati e le ore prestate nell’arco dell’anno dal titolare, dai suoi familiari e dai

salariati.

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267

ORE DI LAVORO IN AZIENDE AGRARIE COSTITUENTI “NUCLEI” E CONTABILIZZATE IN UMBRIA AL

1975 PER ORDINAMENTO PRODUTTIVO E PER CLASSE DI AMPIEZZA

Ore di lavoro annue Tot.ore

di

lavoro

annue

Ore di

lavoro

totale

per ha

S.A.U.

Ore di

lavoro

annue per

U.L.

familiare

perm.occup.

Codice

Cee

Ordinamento

produttivo

Numero dei

familiari

permanentemente

occupati

(compreso il

titolare)

Dei titolari e

dei familiari

perm.occup.

Della

famiglia

nel

complesso

Dei

salariati

111 Cerealicolo-colture industriali

5-10 ha 3,00 6.329 7.541 755 8.296 887 2.110 10-20 ha 3,42 6.458 7.076 548 7.624 518 1.888 120 Erbaceo-

Arboreo

5-10 ha 2,11 4.394 5.121 24 5.145 761 2.082 140 Erbaceo-allev.

suino e/o avicolo

5-10 ha 2,25 4.636 5.294 24 5.318 663 2.060 10-20 ha 2,83 5.554 5.929 427 6.356 412 1.963 224 Viticolo Fino a 5 ha 1,11 1.365 1.545 242 1.787 831 1.230 410 Zootecnico-

Erbaceo

5-10 ha 1,71 3.518 4.074 31 4.105 608 2.057

Fonte: Osservatorio economico per l’Umbria e le Marche, L’agricoltura dell’Umbria attraverso

la rete contabile: dati strutturali ed economici 1975, Inea, 1980.

Da questa tabella emerge un elemento interessante e cioè il fatto che il numero

delle ore di lavoro annue per ettaro sia per l’ordinamento cerealicolo-colture

industriali da 5 a 10 ettari e per quello viticolo risulta più elevato rispetto a quello

degli altri indirizzi. Ciò induce a fare una considerazione in merito alle modalità

con cui, ancora nelle metà degli anni Settanta, vengono gestiti gli appezzamenti

di piccole-medie dimensioni; infatti se è vero che la coltivazione della vite, per le

sue caratteristiche strutturali, richiede un impiego di lavoro maggiore rispetto ad

altre tipologie colturali è pur vero che questa prassi non è assimilabile a quella di

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268

produzione delle colture cerealicolo-industriali. Allora viene da chiedersi come

mai queste ultime, in particolar modo nelle aziende di piccole e medie

dimensioni (5-10 ha) assorbono un numero di ore di lavoro annue superiori

rispetto agli altri indirizzi? Una possibile risposta a questo quesito è da ricercarsi

nei sistemi di gestione di tali aziende che nonostante siano dotate di elevati valori

di capitale sia fondiario sia agrario, ancora rimangono caratterizzate da un basso

grado di intensità fondiaria. Come si è detto, questo fenomeno coinvolge

prevalentemente le aziende di piccole e medie dimensioni in cui ancora non si è

raggiunto un adeguato livello di ottimizzazione dei fattori produttivi. Al contrario

le aziende di maggiori dimensioni risultano caratterizzate da una maggiore

dinamicità.

Concludendo, la situazione che si delinea durante gli anni Settanta in Umbria

vede una moltiplicazione delle aziende di piccole e di grandi dimensioni a

scapito di quelle medie, ancora gestite nella maggior parte dei casi senza una

reale ottimizzazione delle risorse a disposizione. Una caratteristica che negli anni

a seguire diventerà una peculiarità dell’agricoltura regionale inizia in questi anni

a delinearsi in modo netto; prende avvio, infatti, una sorta di polarizzazione che

vede distinguersi due tipologie agricole prevalenti: da una parte nascono aziende

di tipo professionale, dotate di notevoli capacità di adattamento e in grado di

realizzare una agricoltura industriale mediante l’applicazione di processi

standardizzati e l’impiego massiccio di mezzi meccanici; dall’altra sono presenti

imprese, che Alberto Melelli definisce “di tipo accessorio”, la cui produttività

assume caratteristiche marginali ma contraddistinta ancora da sistemi

policolturali. Quest’ultimo tipo di aziende, come si vedrà nel prossimo capitolo,

sarà destinata nel corso degli anni Ottanta ad una evoluzione verso produzioni

tipiche, caratterizzata da elevati standard di qualità.

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269

8. EVOLUZIONE DEL SETTORE AGRICOLO UMBRO NEL CORSO

DEGLI ANNI OTTANTA

Volendo analizzare gli sviluppi che ha avuto l’agricoltura umbra nel corso

degli anni Ottanta un valido punto di partenza è costituito dall’esame dei dati

relativi alle tendenze evolutive della produzione che mostrano molto chiaramente

la diminuzione dell’apporto del settore agricolo all’economia della regione.

VALORE AGGIUNTO AL COSTO DEI FATTORI PER RAMO DI ATTIVITΑ ECONOMICA (VALORI MILIONI DI LIRE CORRENTI)

Anno

Agricoltura Industria Altre Totale

Attività

1970-1971

78.200 326.900 398.100 803.200

% 9,70 40,70 49,60 100

1980-1981

395.892 2.066.900 2.701.450 5.164.242

% 7,70 40 52,30 100

1987-1988

808.550 4.235.500 8.521.800 13.565.850

% 6 31,20 62,80 100

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Tale calo, però, si è verificato in maniera meno rapida rispetto al trend

nazionale, dal momento che nella regione il valore aggiunto dall’agricoltura si

attesta intorno al 6% mentre in Italia è del 4%440

440 F. Pennacchi - F. Ventura, Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M. Prestamburgo

La politica agraria delle regioni italiane, op. cit.

. Questo fatto induce a fare

alcune considerazioni che risultano però, contrastanti; infatti la maggiore

incidenza che l’agricoltura apporta all’economia regionale può essere sia il

sintomo della vivacità del settore sia il segno della condizione di stallo degli altri

settori produttivi. Le ipotesi appena esposte sembrano contenere entrambe una

parte di verità dal momento che se è vero che la coltivazione del tabacco bright

raggiunge in Umbria negli anni Ottanta uno sviluppo tale da trascinare le altre

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270

attività agricole441 è vero anche che nello stesso periodo si assiste alla crisi delle

piccole e medie imprese regionali e alla cessione delle industrie di maggiori

dimensioni alle multinazionali. Molti studiosi di economia agraria hanno

sottolineato in più occasioni l’importanza rivestita dalla tabacchicoltura nel

complesso dell’economia umbra. Tali considerazioni trovano conferma nelle

parole di Flaminia Ventura la quale afferma: “La peculiarità di questa coltura è

sempre stata, oltre alla sua capacità di creare occupazione, quella di distribuire

all’interno del territorio la gran parte del valore aggiunto prodotto. Questo ha

consentito uno sviluppo complessivo del territorio che in regioni come l’Umbria

è reso tangibile dalla localizzazione nelle aree di produzioni di attività

economiche che proprio nei proventi del tabacco hanno trovato risorse

finanziarie allo start-up: attività di diversificazione delle attività agricole

(allevamento, vivaismo, viticoltura)” 442

441 F. Paoletti, L’indotto agro-industriale del tabacco in Umbria, in “Quaderni dell’Istituto di Economia

e Politica Agraria”, n. 22, CNR RAISA, 1997.

. Certamente quanto detto da Flaminia

Ventura costituisce una visione ben chiara del forte potere di trascinamento che

le produzioni di tabacco esercitano sia all’interno dello stesso settore agricolo che

nell’ambito dell’economia regionale, però questo da solo non costituisce una

motivazione sufficiente a spiegare la percentuale, maggiore rispetto al contesto

nazionale, relativa al valore aggiunto dell’agricoltura nella regione. Per avere un

quadro, per quanto possibile, esaustivo a quanto appena esposto va aggiunto un

altro fattore ovvero la crisi che dalla fine degli anni Ottanta inizia a profilarsi

all’interno del settore industriale regionale in cui si è progressivamente insinuata

la mano delle multinazionali. A questo proposito Bruno Brancalente in uno

studio relativo allo sviluppo economico umbro delinea un quadro che illustra in

modo preciso la situazione dell’industrializzazione regionale nel corso degli anni

Ottanta affermando quanto segue: “Il ricordato raddoppio degli addetti ai settori

manifatturieri, che si è realizzato nel quindicennio di grande crescita

442 F. Ventura (a cura di), Sostenibilità della coltura del tabacco, Poligraf, Perugia, 2011, p.8.

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271

dell’industria umbra, non è stato infatti sufficiente a colmare l’intero divario di

industrializzazione che separava la regione dalle altre caratterizzate da sviluppo

di piccola e media impresa (per non parlare di quelle che furono protagoniste

della prima industrializzazione: Piemonte e Lombardia). Lo attesta il censimento

del 1981, che per quasi tutte le regioni italiane fotografa il massimo storico del

livello di industrializzazione, poiché subito dopo iniziava la transizione verso

l’economia dei servizi e la conseguente riduzione dell’incidenza dell’industria

nella economia nazionale e in quelle regionali. Quella fotografia ci mostra una

Umbria ancora caratterizzata, nel 1981, da un divario negativo di

industrializzazione valutabile tra due e tre punti in termini di addetti all’industria

manifatturiera per 100 residenti, rispetto ai livelli di Toscana, Marche, Emilia

Romagna e Veneto” 443

Anche sul fronte della forza-lavoro la situazione, nel decennio in esame, non

mostra di aver raggiunto un equilibrio, l’unica costante è costituita dalla

progressiva perdita di importanza dell’occupazione agricola; i dati a nostra

disposizione mostrano come nel corso degli anni Ottanta sono state espulse dal

settore 24 mila unità

.

444

.

443 B. Brancalente, Lo sviluppo economico umbro: i successi e i problemi irrisolti, in “Cronache Umbre

2000”, Anno II, 2007, p. 3.

444 F. Pennacchi – Ventura F., Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

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POPOLAZIONE RESIDENTE ED ATTIVA PER RAMO DI ATTIVITΑ (VALORI IN .000 DI UNITÀ)

1970 1975 1980 1985 1990 1 Popolazione residente 783 795 810 816 822 2 Totale forze di lavoro 292 287 331 338 336 3 = 2 / 1 0,37 0,36 0,41 0,41 0,41 4 Occupati agricoltura 72 51 50 33 26 5 = 4 / 2 0,25 0,18 0,15 0,10 0,08 6 Occupati industria 116 117 122 103 98 7 = 6 / 2 0,40 0,41 0,37 0,30 0,29 8 Occupati altre attivitα 96 107 133 159 181 9 = 8 / 2 0,33 0,37 0,40 0,47 0,54

10 Totale occupati 284 275 306 296 305

11 In cerca di occupazione 8 12 25 42 31

12 = 11 / 2 0,03 0,04 0,08 0,12 0,09 Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Occorre precisare che sul finire degli anni Ottanta e all’inizio degli anni

Novanta, nell’ambito relativo alla distribuzione della forza-lavoro in agricoltura,

iniziano a profilarsi due elementi contrastanti che si svilupperanno con maggior

vigore negli anni successivi: il primo consiste nella recessione che ha coinvolto

le imprese extra-agricole e che ha posto un freno al fenomeno di trasferimento

degli occupati dall’agricoltura agli altri settori; il secondo è ravvisabile nella

Politica Agricola Comunitaria che con la riforma MacSharry del 1992 contribuirà

in maniera significativa ad una ulteriore contrazione della forza-lavoro agricola.

Oltre a queste considerazioni di carattere generale, testimoniate dalle cifre

esposte nella tabella precedente, la realtà agricola regionale risulta molto più

complessa e articolata, dal momento che i dati del Censimento generale

dell’agricoltura del 1990 mostrano che in Umbria sulle oltre 58 mila aziende

sono presenti 175 mila persone imparentate in qualche modo con il conduttore e

di queste 45 mila affermano di non svolgere attività agricola all’interno

dell’azienda. Questo stato di cose fa emergere un fenomeno alquanto singolare in

quanto risultano 130 mila persone che in maniera differente e a vario titolo sono

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273

in relazione con l’attività agricola445

. Dietro a questa situazione, che potremmo

definire paradossale, sono celate alcune peculiarità del settore agricolo regionale

quali il lavoro part-time, la sottoccupazione e l’anzianità degli occupati in

agricoltura di cui già si è parlato.

8.1 LE AZIENDE AGRICOLE

Alcuni studi di natura economica considerano le aziende come l’elemento

strutturale meno dinamico del contesto agricolo regionale dal momento che,

come riportano alcune fonti a nostra disposizione, dalla seconda metà degli anni

Settanta fino ai primi anni Novanta la loro dimensione media sia nelle zone

collinari che in quelle montane non ha subito variazioni sostanziali.

445 Ibidem, p. 343.

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274

AZIENDE AGRICOLE E RELATIVA SUPERFICIE AGRICOLA TOTALE ED UTILIZZATA

1970 1982 1990

Aziende agricole Num. 62.267 61.171 58.551 di cui:

in Comuni di Collina Num. 47.943 48.091 45.790 in Comuni di Montagna Num. 14.324 13.080 12.761 Superficie agricola totale (sat) ha 729.897 706.396 685.060 di cui:

in Comuni di Collina ha 513.592 497.343 481.002 in Comuni di Montagna ha 216.303 209.053 204.058 Superficie agricola utilizzata (sau) ha 420.701 418.251 396.185 di cui:

in Comuni di Collina ha 305.779 299.544 280.936 in Comuni di Montagna ha 114.921 118.707 115.248 Media aziendale (sau) ha 11,72 11,55 11,70 di cui:

in Comuni di Collina ha 10,71 10,34 10,50 in Comuni di Montagna ha 15,10 15,98 15,99 % superficie totale aziendale in affitto % 4,97 8,46 11,66 di cui:

in Comuni di Collina % 4,78 6,58 - in Comuni di Montagna % 5,41 12,94 -

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Se ci si ferma alla mera osservazione delle dimensioni delle aziende non si può

non convenire con quanto appena esposto ma se si analizzano dettagliatamente

altri parametri interni al settore, sono ravvisabili segni di un certo dinamismo.

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275

AZIENDE E RELATIVA SUPERFICIE TOTALE PER FORMA DI CONDUZIONE

1970

1982

1990

Aziende

%

%

%

Conduzione diretta del coltivatore

46.686 75,0 55.800 91,2 55.498 94,8

Conduzione con salariati e/o compartecipanti 4.414 7,1 3.045 5,0 2.646 4,5 Altre forme di conduzione 11.167 17,9 2.326 3,8 407 0,7 TOTALE 62.267 100,0 61.171 100,0 58.551 100,0

Superficie totale

Conduzione diretta del coltivatore 258.995 35,5 388.046 54,9 405.740 59,2 Conduzione con salariati e/o compartecipanti 336.817 46,1 284.639 40,3 272.717 39,8 Altre forme di conduzione 134.085 18,4 33.711 4,8 6.603 1,0 TOTALE 729.897 100,0 706.396 100,0 685.060 100,0

Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Il primo segnale di evoluzione delle strutture aziendali è costituito dalla quasi

totale scomparsa della mezzadria, sia come numero di aziende che come

superficie interessata, soppiantata in prevalenza dalla conduzione diretta, che ha

contribuito in modo notevole a riversare nuovi investimenti in agricoltura446. Da

notare che un elemento di dinamicità lo si può individuare anche nell’affitto dei

fondi rustici che dagli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta si è esteso ad una

numero sempre più crescente di superfici aziendali. Tale fenomeno può essere

ricondotto alle aspettative suscitate dalla Legge 203/82 con cui veniva stabilita

una nuova regolamentazione dei patti agrari 447

446 F. Pennacchi, Un approccio valutativo del progresso tecnico per dati aggregati: il caso delle regioni

ex-mezzadrili, in “Rivista di economia agraria”, n. 1, 1985; P. Pierani - P. Rizzi, Produttività totale dei fattori e progresso tecnico dell’agricoltura italiana: un confronto Nord-Sud, in “La Questione Agraria”, n. 44, 1991.

. Questo provvedimento ha

447 Ci si riferisce alla Legge 3 maggio 1982, n. 203 “Norme sui contratti agrari” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 5 maggio 1982, n.121. Questa disposizione, proseguendo sulla linea di quanto stabilito dalla precedente legge n. 756 del 1964, ha sancito il definitivo tramonto dei contratti associativi, favorendo la trasformazione dei contratti esistenti in affitto.

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276

provocato immediatamente l’entusiasmo dei fittavoli in quanto attribuiva ad essi

poteri di iniziativa autonomi che non si configuravano più come concessione del

locatore ma diventavano l’espressione di una legittimazione legale che

riconosceva gli affittuari come elementi essenziali per l’attività produttiva. Come

si può ben comprendere tutto ciò non poteva certamente incontrare il favore dei

proprietari che hanno visto nella Legge 203/82 uno strumento atto a ledere

gravemente i loro diritti e le loro garanzie. Le forti resistenze dei proprietari-

locatori trovano conferma nella mole di sentenze pronunciate dalla Corte

Costituzionale alla fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta che

hanno di fatto inficiato la portata innovatrice di tale provvedimento448

Analizzando le dinamiche relative alla Superficie Agricola Utilizzata si nota

che nel decennio in esame il processo di polarizzazione, iniziato negli anni

Settanta, è divenuto una caratteristica strutturale del settore agricolo umbro; le

aziende con superficie superiore ai 20 ettari, dotate di notevole dinamismo,

hanno dimostrato una particolare capacità di adattamento agli indirizzi

comunitari in materia di politica agricola e hanno fatto registrare un aumento

delle Superficie Agricola Utilizzata, mentre nelle piccole aziende la contrazione

della Superficie Agricola Utilizzata si è accompagnata a difficoltà sempre più

gravi che hanno reso necessario l’affiancamento di altre tipologie di attività alle

pratiche agricole.

.

448 A tal proposito si vedano: G. Angiulli, Le questioni di costituzionalità della normativa sull’affitto di

fondi rustici nella sentenza n.153/1977 della Corte Costituzionale, in “Rivista si diritto agrario, n. 2, 1978; G. Bivona, Affitto di fondi rustici. Affitto a coltivatore diretto artt. 1628-1654, Giuffrè, 1995; L. Costato - E. Rock Basile, Trattato di diritto agrario, Vol. I, UTET Giuridica, 2011.

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277

SUPERFICIE AGRICOLA UTILIZZATA PER CLASSI DI SUPERFICIE TOTALE

1970

1982

1990 Classi

%

di superficie totale

Fino 1 16.162 26,0 17.984 29,4 17.058 29,1 1 - 4,99 22.578 36,3 23.608 38,6 22.936 39,2 5 - 19,99 17.787 28,6 13.808 22,6 12.987 22,2 20 - 49,99 3.932 6,3 3.635 5,9 3.454 5,9 50 - 99,99 936 1,5 1.139 1,9 1.136 1,9

> 100 872 1,4 997 1,6 980 1,7

0

Totale 62.267 100,0 61.171 100,0 58.551 100,0

Classi di SAU

Fino 1 20.062 32,2 23.399 38,3 22.715 38,8 1 - 4,99 23.344 37,5 22.691 37,1 21.812 37,3 5 - 19,99 15.803 25,4 11.563 18,9 10.550 18,0 20 - 49,99 2.148 3,4 2.277 3,7 2.228 3,8 50 - 99,99 512 0,8 719 1,2 735 1,3

> 100 398 0,6 522 0,9 511 0,9

Totale 62.267 100,0 61.171 100,0 58.551 100,0 Fonte: M. Prestamburgo (a cura di), La politica agraria delle regioni italiane. Caratteristiche

strutturali e tendenze evolutive, Franco Angeli, Milano, 2001.

Quest’ultimo aspetto, se da una parte ha impedito il radicale spopolamento

della campagna e ha favorito quelle pratiche di salvaguardia territoriale tanto

necessarie in aree continuamente minacciate da dissesti idrogeologici quali le

zone montane e alto-collinari, è una chiara dimostrazione del grado di

polverizzazione della produzione agricola.

Destinazione d’uso dei terreni e produzione agricola.

Nell’ambito del settore agricolo umbro gli anni Ottanta si caratterizzano per la

progressiva perdita di superficie agricola. I dati che si hanno a disposizione

possono indurre a sottovalutare il problema che invece sembra molto rilevante e

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foriero di importanti conseguenze per l’agricoltura regionale. Come è stato più

volte ricordato, in Umbria la presenza di aree marginali e di terreni lasciati incolti

costituisce un elemento costante ma la perdita di oltre il 6% di superficie

agricola449 tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta è il segno di forti squilibri

interni al settore primario. Tali squilibri risultano ancora più evidenti se si

considera che nel periodo in questione si assiste ad una larga diffusione delle

colture permanenti a scapito di quelle arboree. Certamente una parte importante

in tal senso è stata svolta dagli indirizzi di Politica Agricola Comunitaria che, in

particolar modo per le coltivazioni viticole450

449 F. Pennacchi - F. Ventura, Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M.

Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

, ha contribuito alla regressione e

poi alla scomparsa di impianti arborei con caratteristiche capaci di soddisfare le

richieste di mercato. In questo modo risulta molto chiara la posizione degli

imprenditori che, piuttosto che investire in impianti che richiedevano l’impiego

di cospicui mezzi finanziari per conseguire gli standard richiesti in ambito

comunitario, hanno preferito perseguire ordinamenti produttivi a basso impegno

finanziario; un altro elemento degno di interesse e strettamente collegato a

quanto è stato appena esposto risulta la notevole contrazione subita dalle

superfici con foraggere avvicendate. L’importanza di tale calo viene assumendo

maggior rilievo se si considera la stretta connessione tra foraggere avvicendate e

zootecnia, infatti, la drastica riduzione delle prime ha avuto notevoli

conseguenze anche nell’ambito dell’allevamento bovino e suino che nel corso

degli anni Ottanta ha avuto un trend negativo. Tutto ciò rappresenta in modo

chiaro il tipo di mentalità imprenditoriale maggiormente diffusa nella regione: si

è preferito attuare una agricoltura a basso rischio in cui una parte fondamentale è

450 Ci si riferisce soprattutto: ai Regolamenti CEE 1162/76 e 1163/76 che prevedevano rispettivamente l’adeguamento del potenziale produttivo ai bisogni del mercato e la concessione di un premio alle aziende che avrebbero estirpato vigneti atti a produrre vini di scarsa qualità; al Regolamento CEE 458/80 concernente un piano di aiuti indirizzati alla ristrutturazione dei vigneti nell’ambito di operazioni collettive; al Regolamento CEE 822/87 che doveva avere costituire una direttiva capace di disciplinare in modo organico il settore ma che in realtà si è configurata come un assemblamento delle direttive precedenti senza rilevanti innovazioni.

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stata svolta dalle colture industriali, che, nei processi di riconversione colturale,

garantivano una maggiore rapidità, rispetto agli impianti arborei. Accanto a ciò

non bisogna dimenticare le politiche di set-aside che negli anni Ottanta hanno

conosciuto il loro massimo sviluppo e che in Umbria hanno riscosso l’interesse e

la partecipazione di molti agricoltori; si pensi che dalla seconda metà degli anni

Ottanta fino al 1991 le domande di richiesta di set-aside giunte negli uffici della

Regione erano arrivate a 1.165 con una superficie interessata di 15.732451

Il ventennio 1970-1980 ha visto un forte aumento complessivo della

produzione agricola regionale che, come sottolineano Pennacchi e Ventura nel

saggio citato in precedenza, ha raggiunto +2,7% nel corso degli anni Settanta e

+0,9% durante gli anni Ottanta

. Come

si può ben vedere la pratica del set-aside viene ad assumere un ruolo di primaria

importanza nell’ambito della superficie agricola regionale e dimostra in maniera

lampante la generale crisi dell’agricoltura umbra e l’incapacità degli imprenditori

ad ottimizzare le risorse a loro disposizione senza snaturare la tradizionale

vocazione agricola regionale.

452

451 F. Pennacchi - F. Ventura, Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M.

Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

. Il rallentamento nell’ultimo decennio

considerato, nonostante non sia in controtendenza rispetto al trend nazionale, fa

sorgere alcuni interrogativi in merito agli sviluppi a cui è andato incontro il

settore primario umbro nel corso degli anni Ottanta. Precedentemente si è visto

come nel decennio in esame si siano diffuse in maniera quasi totalizzante le

superfici adibite colture industriali di tipo estensivo a scapito degli impianti

arborei. A tutto ciò occorre aggiungere anche che la preminenza che gli

allevamenti avevano negli anni Settanta è stata ben presto sostituita nel decennio

successivo dalle colture erbacee sensibilmente meno diffuse nel decennio

precedente. Concludendo si può affermare che per tuttoil corso degli anni Ottanta

l’agricoltura umbra è stata caratterizzata da scarso dinamismo produttivo dovuto

452 Ibidem.

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in gran parte ad una classe imprenditoriale che, declinando ogni assunzione di

rischio, si è dimostrata incapace di valorizzare le produzioni tipiche regionali.

8.2 DISPOSIZIONI COMUNITARIE E PROGRAMMAZIONE

REGIONALE: L’AGRICOLTURA TRA ECONOMIA E TUTELA

AMBIENTALE

Certamente ad acuire la situazione appena descritta hanno avuto un ruolo

importante le normative europee di cui si è parlato in precedenza, ma occorre

ricordare anche la funzione svolta dalle politiche regionali nel settore agricolo.

L’Ente Regione ha iniziato ad operare nel settore agricolo nel corso del 1978

all’indomani dei Decreti che hanno delegato alle regioni le funzioni

amministrative in materia di agricoltura453. Nella sua fase iniziale l’azione di

programmazione regionale è stata un sostanziale adattamento alle indicazioni

generali comunitarie e ciò non desta particolare meraviglia, visto che situazioni

analoghe si sono avute anche nel resto d’Italia. Quello che colpisce della

situazione umbra è il fatto che negli anni successivi l’Ente Regione sembra non

aver colto le opportunità offerte dalle deleghe ricevute e abbia continuato ad

attuare provvedimenti in materia agricola sulla scia delle norme comunitarie,

senza mettere in primo piano le esigenze regionali. Eppure la legge 984/77 (detta

legge Quadrifoglio), seppur con i limiti connessi ai vincoli finanziari 454

453 Si tratta del DPR 11/72 e del DPR 616/77. G. Crepaldi, La potestà regolamentare nell’esperienza

regionale, Giuffrè Editore, 2009.

, ha

offerto alle Regioni la possibilità di intervenire fattivamente nelle realtà locali

mediante lo strumento della programmazione. Le principali linee seguite dalla

Regione nella programmazione in agricoltura si possono ricondurre a due filoni

454 L’ostacolo più grande che impediva una piena autonomia nella programmazione agricola regionale risiedeva nel fatto che i finanziamenti erano strettamente vincolati a settori già determinati a livello centrale e pertanto la Regione si trovava impossibilitata a convogliare le erogazioni finanziarie verso settori diversi stabiliti a livello centrale. A tal proposito si vedano: AA.VV. L’Italia agricola nel XX secolo. Storia e scenari, Donzelli, 2000;

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principali: il primo riguarda la predisposizione di programmi settoriali

strettamente connessi con i piani agricoli nazionali; il secondo è riconducibile

alla formulazione e all’attuazione dei Piani regionali di sviluppo455. Un esempio

particolarmente significativo dell’azione dei programmi settoriali riguarda il

piano olivicolo predisposto nel periodo immediatamente successivo alla gelata

del 1985456 . Questo piano ha dato inizio ad un processo di ricostituzione del

settore, fondato sull’impianto di nuove produzioni specializzate capaci di

resistere anche alle temperature più basse457. Di notevole interesse, poi, risulta il

fatto che nell’ambito di tale programmazione vengono riconosciute

all’olivicoltura, oltre alle finalità di natura economica, finalità di carattere

ambientale. Restando nell’ambito della programmazione settoriale non si vuole

ignorare il Piano Integrato Mediterraneo 458

455 M. Boggia, Agricoltura e mercati in transizione. Atti del Convegno si studi (Assisi 7-9 settembre

2006), Franco Angeli, Milano, 2008; A. Arzeni - R. Esposti - F. Sotte, Politiche di sviluppo rurale tra programmazione e valutazione, Franco Angeli, Milano, 2003.

(Pim) che può essere considerato

come l’estremo tentativo di arginare il fenomeno dell’esodo rurale, divenuto

ormai irreversibile, dalle zone marginali. Anche se il Piano Integrato

Mediterraneo non è stato in grado di raggiungere pienamente gli obiettivi stabiliti

a monte lo si può considerare comunque uno strumento potenzialmente utile nel

monitoraggio e nella valutazione degli interventi operativi in quanto ha

consentito l’acquisizione dei dati relativi alla ricaduta economica, sociale e

456 F. Pennacchi - F. Ventura, Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit., p.355.

457 In particolare venne incentivato l’impianto di specifiche varietà olivicole come il Leccino e la Dolce Agogia capaci di resistere a lungo anche a temperature che scendono sotto lo zero, a tal proposito si vedano: Arsia (a cura di), Nuovi sistemi di coltivazione dell’olivo. Aspetti agronomici, economici e qualitativi, Regione Toscana, Firenze, 2001; G. Fontanazza, Il dopo-gelo: rinnovamento dell’olivicoltura su basi moderne, in “L’informatore agrario”, n.24, 1985.

458 Si vedano: Reg. CEE 2088/85 per le disposizioni generali e Regione Umbria, Legge Regionale n.22 del 19 luglio 1988 “Norme per l’attuazione del Piano Integrato Mediterraneo Umbria approvato con decisione della Commissione delle Comunità Europee del 19 maggio 1988”, pubblicato sul Bollettino Ufficiale n.47 del 26 luglio 1988 per il caso dell’Umbria. I provvedimenti relativi al settore agricolo perseguivano essenzialmente due finalità: il mantenimento dell’occupazione nelle aree rurali interne e l’introduzione e la diffusione di nuove tecnologie.

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282

ambientale delle misure adottate 459 . Sempre nell’ambito degli interventi di

programmazione regionale vanno citati anche i Piani regionali di Sviluppo . Tali

Piani vanno inseriti nell’ottica istituzionale di amministrare la politica economica

mediante azioni organizzate in Piani pluriennali di sviluppo regionale sancite

dalla Legge Regionale n.18 del 16 marzo 1973460. Gli obiettivi dei Piani regionali

rimandano alle principali impostazioni comunitarie in materia di sviluppo

agricolo 461 ma l’analisi dei tre obiettivi delineati nel Piano del 1988 462

è

rivelatrice del fatto che il settore agricolo umbro, strutturalmente debole, alla fine

degli anni Ottanta risulta ormai inserito in un sistema che lo ha privato della sua

funzione economica investendolo di altri compiti. A conferma della perdita

dell’identità economica del settore primario umbro c’è il fatto che una delle

finalità previste dal Piano del 1988 è costituita dalla integrazione tra agricoltura,

industria e ambiente. Concludendo, si può affermare che anche in una Regione di

modeste dimensioni e caratterizzata da sistemi agricoli tradizionali refrattari alle

innovazioni, si è imposto e ha trovato applicazione, non senza fortissime

distorsioni e forzature, il sistema agro-industriale in cui l’agricoltura costituisce il

campo di attuazione di sistemi di produzione industriali.

459 La caratteristica che consente il monitoraggio e la valutazione di quanto predisposto è data

dall’articolazione in progetti dei Piani Integrati Mediterranei. La novità dei Piani Integrati Mediterranei consiste nel superamento della impostazione settoriale in favore di una articolazione regionale e sub-regionale, questa caratteristica, però, ha fatto emergere in alcuni casi, come quello dell’Umbria, la necessità di un maggiore coordinamento di carattere globale. A tal proposito si veda, oltre le disposizioni regionali citate nella nota precedente, S. Peraglio, Agricoltura, sviluppo rurale e politica regionale nell’Unione Europea: profili concorrenti nella programmazione e nella pianificazione dei territori rurali, Franco Angeli, Milano, 2008.

460 F. Pennacchi - F. Ventura, Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

461 Si rimanda al Regolamento CEE 2088/85.

462 I tre obiettivi sono: 1) innalzamento degli standard qualitativi; 2) diffusione e potenziamento dei sistemi innovativi; 3) maggiore interconnessione tra agricoltura, ambiente e industria. A tal proposito si veda F. Pennacchi - F. Ventura, Nuovi orientamenti della Politica agraria in Umbria, in M. Prestamburgo, La politica agraria delle regioni italiane, cit.

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9. L’UMBRIA E I RISVOLTI AMBIENTALI DELL’AGRICOLTURA

INDUSTRIALE

9.1 DINAMICHE RELATIVE AL BOSCO

Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia descrive in maniera vivida la

condizione in cui appaiono le campagne umbre sul finire degli anni Cinquanta e

nel far ciò utilizza questa parole: “L’Umbria è terra di boschi; quello di

Monteluco è certo il più bello. Questo manto di lecci, duro, quasi metallico, d’un

verde nerastro, con a tratti riflessi ramati, ha i luccichii di un fossile, l’evidente

antichità di un monumento di pietra. Purtroppo è insidiato dall’assalto di recenti

villette dagli stili anarchici. Eppure la natura qui è opera d’arte come una chiesa o

un palazzo.” 463 Da questa breve riflessione emerge chiaramente il contrasto

esistente tra due fattori caratterizzanti l’ambiente umbro e non solo: la copertura

vegetale e le caratteristiche, sempre più invasive, degli insediamenti antropici.

Sulla scia di questa considerazione un decennio più tardi Henri Despalnques

inizierà il suo studio delle campagne umbre proprio dall’osservazione di due

lecceti, quello dell’Eremo delle Carceri vicino Assisi e quello di Monteluco464

che, seppur unici esemplari superstiti “del primordiale quadro naturale della

regione”465

463 G. Piovene, Viaggio in Italia, Arnoldo Mondadori Editore, 1958, p. 266.

, portano i segni evidenti della progressiva azione antropica volta al

diboscamento in favore di pratiche colturali sempre più pesanti ed invasive. Sul

finire degli anni Cinquanta e ancor più nel decennio successivo, gli effetti della

pressione antropica si sono manifestati in tutta la loro pericolosità. Le

problematiche connesse a decenni di intenso sfruttamento del patrimonio

464 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale, cit.

465 Ibidem, p.1.239.

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boschivo per scopi energetici, edilizi ed infrastrutturali diventano urgenti e

ineludibili. Non sembra superfluo ricordare che, secondo quanto riportato

dall’Inchiesta Jacini alla fine dell’Ottocento, in Umbria le fustaie occupavano

l’80% della superficie forestale totale, mentre un secolo più tardi tale valore

scende al 7%466. Il massiccio regresso delle superfici forestali ha avuto delle

conseguenze disastrose in una regione come l’Umbria caratterizzata perlopiù da

territori collinari e di media montagna. Per spiegare le dinamiche che hanno

caratterizzato le superfici forestali non si può prescindere dalle trasformazioni

intervenute all’interno delle aziende agrarie con il passaggio dalla mezzadria ad

altre conduzioni. Nell’ambito dei sistemi mezzadrili il bosco rivestiva una

particolare importanza sia in termini di approvvigionamento di legname sia come

strumento per ottenere un reddito complementare a quello dell’agricoltura. Certo

non bisogna trascurare il fatto che anche nelle suddette aziende molto spesso si

preferiva sacrificare parti di bosco a colture che apparivano di volta in volta più

convenienti. Tuttavia dalla seconda metà degli anni Cinquanta, con il progressivo

utilizzo delle macchine agricole e con la massiccia espansione delle terre

coltivate i problemi legati alla perdita del bosco divengono sempre più gravi.

Tale stato di cose ha indotto istituzioni ed esperti del settore ad elaborare delle

strategie volte al contenimento del fenomeno; infatti nel periodo che va dagli

anni Sessanta agli anni Novanta si assiste ad un incremento della superficie

boschiva che passa dal 22% dei primi anni Sessanta al 35,6% degli anni

Novanta.467 Questo aumento dell’estensione forestale è il frutto di una serie di

provvedimenti che soprattutto dalla seconda metà degli anni Ottanta hanno

investito il settore468

466 M. Frattegiani - F. Grohmann - P. Savini, Interventi colturali in una pineta di Pino Nero

dell’Umbria: risultati di una simulazione effettuata da “pro Silva Italia”, in “Sherwood”, III, n. 11, Arezzo, 1997.

. Non è un caso che le prime serie riflessioni riguardanti i

467 Regione Umbria, ARPA UMBRIA, AUR, 2004.

468 Si fa riferimento ai seguenti testi normativi: Legge 97/1994 Nuove disposizione per le zone montane, Legge 124/1994 Ratifica ed esecuzioni sulla biodiversità, legge 490/1999 Testo Unico in materia ambientale, L.R. 40/1995 Provvedimenti per lo sviluppo delle attività economiche della montagna e la tutela e la valorizzazione del territorio rurale.

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danni da diboscamento e da un utilizzo indiscriminato delle superfici agrarie

siano emerse solo nella seconda metà degli anni Ottanta. E’ questo il periodo in

cui la Politica Agricola Comunitaria mostra chiaramente i suoi limiti. Le logiche

di sostegno accoppiato, il modello intensivo di agricoltura e la crescita delle

spese di bilancio si sono rivelate fallimentari in quanto hanno generato una serie

di esternalità negative (inquinamento e riduzione della biodiversità) e di

eccedenze strutturali. L’evidenza di un siffatto stato di cose ha portato ad una

rivalutazione delle potenzialità offerte dalle foreste come elementi fondamentali

nella difesa idrogeologica e nella conservazione della biodiversità.

In Umbria negli ultimi quaranta anni hanno assunto un ruolo sempre più

significativo i prodotti non legnosi. Con il passare del tempo e con il mutare sia

degli assetti agricoli sia delle abitudini alimentari, la valorizzazione dei prodotti

non legnosi diviene più selettiva: si assiste al declino delle ghiande e all’ascesa di

castagne, funghi e soprattutto tartufi. Questa differenziazione va di pari passo con

l’evoluzione dei sistemi agrari e ciò è dimostrato dal fatto che la presenza delle

querce camporili, fondamentali nelle aziende mezzadrili sia per l’alimentazione

suina che per sostenere i versanti collinari, diviene sempre più rara. Di contro si

registra una particolare diffusione del tartufo che occupa una superficie superiore

ai 2.500 ettari di cui l’89% costituita da terreni naturalmente vocati.469

469 H. Desplanques, Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale,

cit.

Nel corso

degli anni Novanta in Umbria è stata attuata una progressiva opera di

rimboschimento che si è aggiunta alla massiccia messa a dimora di piante

miglioratrici della produttività del sottobosco. A ciò hanno contribuito in maniera

sostanziale le direttive comunitarie contenute nel Regolamento 2080/92 in cui

erano espresse le linee da seguire per incentivare l’impianto di boschi e la

salvaguardia di siepi nelle zone caratterizzate da agricoltura intensiva al fine di

attuare il controllo sulle produzioni agricole e salvaguardare il territorio. In

Umbria l’applicazione delle norme comunitarie ha condotto, nel periodo

1994/1999, al rimboschimento di 8.000 ettari di superficie con specie di latifoglie

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286

nobili come ciliegio e noce che ricoprono circa il 95% della superficie

convertita470

. Da quanto detto risulta chiaro come il settore agricolo viene ad

assumere un carattere polifunzionale e in questo senso il bosco costituisce un

elemento importantissimo. Esso con la sua varietà di prodotti può costituire una

risposta economica alle esigenza legate alla valorizzazione dei prodotti tipici e

all’agricoltura biologica, ma allo stesso tempo si configura anche come

ecosistema capace di assolvere importanti funzioni quali la protezione

idrogeologica e la salvaguardia paesaggistica.

9.2 L’EROSIONE DEL SUOLO

L’espansione delle aree coltivate verso altitudini sempre maggiori ha avuto

degli effetti negativi in un territorio come quello umbro, caratterizzato da

strutture morfologiche molto diversificate. Le pratiche agronomiche affermatesi

nella seconda metà del Novecento hanno avuto delle forti ripercussioni

ambientali in quanto sono andate a modificare in maniera massiccia il naturale

andamento dei declivi al fine di facilitare le pratiche agricole. Un esempio è

costituito dalle sistemazioni a rittochino 471

470 Regione Umbria, ARPA UMBRIA, AUR, 2004, pp. 293-298.

che, pur avendo una tradizione

secolare, con la diffusione della meccanizzazione hanno avuto un forte impulso.

Inoltre, occorre ricordare che con l’avvento della cosiddetta modernizzazione

agricola è andato man mano scomparendo il bagaglio di conoscenze e di

esperienze custodito dai mezzadri che per secoli hanno saputo rapportarsi con le

esigenze dei terreni a loro affidati. Questo fenomeno ha un riscontro visibile e

immediato nella configurazione che hanno assunto le campagne umbre in seguito

all’affermazione dei nuovi sistemi agricoli. Le tradizionali siepi, le alberate, le

471 Per rittochino si intende un particolare tipo di sistemazione agraria per cui le unità colturali seguono le linee di massima pendenza, a tal proposito si veda: R. Landi, Sistemazioni idraulico-agrarie in Italia. Atlante dei tipi geografici, Istituto Geografico Militare, 2004.

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287

già citate querce camporili hanno ceduto il posto ai seminativi nudi certamente

meno impegnativi nella coltivazione e più remunerativi da un punto di vista

economico. A tutto ciò si è accompagnata una “erosione idrica laminare” 472

dovuta alla parziale dismissione dei collettori di scolo. Questo processo ha

innescato tutta una serie di fenomeni che hanno portato all’impoverimento dei

terreni, dovuto alla perdita di ingenti strati di humus, e al dissesto idrogeologico.

Alcuni studi effettuati nel corso degli anni Novanta hanno messo in luce che in

Umbria i terreni posti nella fascia altimetrica compresa tra i 300 e i 650 metri

sono stati interessati ad una perdita di suolo annua oscillante tra 0,6 e 1,4

tonnellate per ettaro soprattutto nelle zone adibite a cereali o erbai e poste ad una

pendenza del 7%, nei terreni interessati da frutteti specializzati con pendenza del

14% tale valore poteva giungere fino a 7,3 tonnellate per ettaro, mentre una

macchia cespugliata oltre i 600 metri di altitudine andava incontro ad una

erosione di suolo pari a 1,8 tonnellate per ettaro 473

472 C. Pongetti, La sistemazione delle campagne, in H. Desplanques, Campagne Umbre. Contributo allo

studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale, cit., p. 1.254.

. Oltre alle pratiche

particolarmente invasive e all’abbandono della policoltura, un ruolo di primo

piano nel processo di degrado dei suoli umbri è stato svolto dai nuovi metodi di

coltivazione dei terreni. Soprattutto l’utilizzo dei potenti mezzi meccanici capaci

di arare in profondità ha esposto il suolo all’erosione sia eolica che idrica. Negli

ultimi decenni del Novecento poi, con l’espansione delle colture cerealicole, si è

diffusa la pratica di arare fino a 45 centimetri di profondità, in questo modo si è

verificata una consistente diluizione di sostanza organica che ha reso sempre

meno efficace la concimazione tradizionale basata sul letame e sull’impiego di

piante azoto-fissatrici quali le leguminose. La radicale trasformazione intervenuta

nelle campagne umbre nella seconda metà del secolo scorso ha contribuito,

dunque, ad accentuare la franosità dell’alta collina. Ciò è confermato dai dati che

473 A tal proposito si vedano: L. Scesi - M. Papini - P. Gattinoni, Fenomeni di erosione superficiale dei versanti in Geologia Applicata, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 2003 e C. Pongetti, La sistemazione delle campagne, in H. Desplanques, Campagne Umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale, cit., p. 1.254.

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mettono in relazione particolari assetti colturali con la perdita di suolo. Su questa

particolare problematica la Regione Umbria ha condotto uno studio474 che mostra

chiaramente come più dell’80% sul totale della superficie occupata da seminativi,

prati e pascoli è stata interessata, negli ultimi due decenni, dal fenomeno

dell’erosione. I mutamenti intervenuti nei sistemi di coltivazione, che come si è

visto hanno riguardato sia l’erosione del suolo che l’abbandono dei metodi

naturali di fertilizzazione, hanno favorito un impiego massiccio di fertilizzanti

con lo scopo di sostenere la redditività delle produzioni. Lo studio appena citato

mette in evidenza la progressiva crescita del consumo dei prodotti azotati che tra

la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta hanno subito un

incremento pari al 40%475

474 Regione Umbria, ARPA UMBRIA, AUR, 2004, p. 233.

. Occorre precisare che anche la concimazione naturale

ha subito nel periodo in questione un certo aumento, soprattutto dopo

l’attuazione dei provvedimenti agroambientali da parte della Regione, ma tale

incremento non è certamente paragonabile all’ascesa della concimazione

chimica. Da quanto finora esposto, possiamo affermare che le conseguenze

ambientali scaturite dalle nuove sistemazioni agrarie, nate dall’avvento

dell’agricoltura di tipo industriale, si possono ricondurre a due tipologie tra loro

interconnesse: l’erosione e la chimicizzazione dei suoli. Se è vero che

l’agricoltura industriale ha influito profondamente dul terrotorio umbro è vero

anche che sul finire del Novecento, accanto alle aree dove più incisiva è stata

l’azione dell’agricoltura industriale, nelle campagne umbre sono state riscoperte

le tradizionali sistemazioni a terrazze e ciglioni che nel corso dell’Ottocento

hanno avuto massima espansione. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del

Novecento tali sistemazioni sono state utilizzate soprattutto nei versanti calcarei

per l’impianto di vigneti e oliveti e ancora oggi conferiscono a questi declivi un

carattere distintivo. Soprattutto dopo la riscoperta del valore dei prodotti locali da

parte dei consumatori allarmati dai rischi di prodotti alimentari sempre più

475 Ibidem.

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scadenti, si è avuta una particolare attenzione sia da parte dei produttori che delle

istituzioni verso le produzioni tradizionali locali e metodi di coltivazioni a

minore impatto ambientale. In quest’ottica si comprende come soprattutto dalla

seconda metà degli anni Novanta muta la concezione dell’agricoltura: essa non è

più solo considerata un settore economico ma si cerca di ricollocarla all’interno

delle dinamiche ambientali dove era stata per secoli fino all’avvento

dell’agricoltura industriale.

9.3 LE CONSEGUENZE DEL DISSESTO IDROGEOLOGICO

Il territorio umbro è ricco di risorse idriche e ciò ha fatto sì che nel corso dei

secoli le popolazioni locali abbiano sviluppato peculiari rapporti con le acque.

Tali rapporti non sempre hanno avuto un carattere armonico ma spesso sono stati

contraddistinti da contrasti e disagi. Per secoli il territorio regionale è stato teatro

di anomalie di drenaggio che hanno portato alla formazione di aree stagnanti e

acquitrinose. Attualmente soltanto la toponomastica è rimasta ad attestare le

antiche presenze di acquitrini e zone umide poiché le comunità località si sono

adoperate per bonificare tali aree. Infatti, nei secoli scorsi la popolazione ivi

residente ha favorito sistemi di coltivazioni atti a far defluire velocemente le

acque proprio per evitare il rischio di ristagno idrico, tipico dei terreni umbri.

Queste pratiche agrarie, tra cui figura in maniera quasi esclusiva il rittochino,

hanno generato fenomeni di erosione che hanno accelerato i dilavamenti. Ancora

alla fine del Novecento il rittochino è stato il grande responsabile dei dissesti

idrogeologici nelle campagne umbre. La condanna di questa pratica agricola è

giunta in varie epoche da osservatori e agronomi sia umbri che toscani, i quali

hanno affermato che le bellissime colline umbre risultano dilavate dall’acqua il

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cui lavoro di distruzione è aiutato dalla pratica del rittochino476. Negli ultimi

decenni del Novecento al rittochino, ancora praticato nelle colline umbre, si è

aggiunta la drastica riduzione, nelle aree pianeggianti, della rete drenante per

facilitare le manovre delle macchine agricole. In questo modo i rischi connessi

con l’alluvionamento sono diventati, negli ultimi anni, sempre più una realtà. La

grande rapidità di deflusso, dovuta anche all’espansione dei centri urbanizzati, ha

fatto in modo che in Umbria i corsi d’acqua raggiungessero nel volgere di pochi

decenni alti livelli idrometrici potenzialmente pericolosi da un punto di vista

idrogeologico. La continua minaccia di eventi calamitosi ha spinto, nel corso

degli anni Ottanta, le istituzioni ad attuare una serie di provvedimenti volti alla

difesa del suolo. Con la legge nel 18 maggio 1989 n. 183 “Norme per il riassetto

organizzativo e funzionale della difesa del suolo” sono stati individuati come

bacini di rilievo nazionali quelli dell’Arno de del Tevere477. Tale provvedimento

aveva lo scopo di favorire il ripristino della sezione idraulica mediante la

rimozione di materiali terrosi e vegetali attuando una rettifica del profilo di fondo

e la semina di specie vegetali autoctone sugli argini478. Un elemento di novità

conseguente ai recenti sviluppi dell’agricoltura regionale è costituito

dall’introduzione di colture idroesigenti, come il mais, che hanno innalzato

notevolmente il consumo idrico per uso irriguo. Negli ultimi due decenni del

secolo scorso sul totale fabbisogno idrico regionale il settore primario ha

assorbito una percentuale molto elevata: il 46%479

476 A tal proposito si vedano: S. Jacini, I risultati della Inchiesta agraria: relazione pubblicata negli

Atti della Giunta per la Inchiesta agraria, Einaudi, 1976 e AA.VV., Sistemazioni di piano e di colle in G. Tassinari (a cura di), Manuale dell’agronomo, REDA, Roma, 1976.

. Il valore massimo di consumo

idrico per uso irriguo lo si raggiunge all’inizio degli anni Novanta con oltre 38

mila ettari di superficie con un incremento di quasi 2.000 aziende rispetto al

477 Legge 18 maggio 1989 n. 183 “Norme per il riassetto organizzativo e funzionale delle difesa del suolo” (Gazzetta Ufficiale n. 120 del 25/05/1989 – Supplemento Ordinario n. 38).

478 C. Pongetti, La sistemazione delle campagne, cit.

479 Ibidem.

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1979480. Come è stato prima accennato, in Umbria l’agricoltura industriale ha

introdotto particolari tipologie di colture definite idroesigenti poiché richiedono

l’utilizzo di ingenti quantità di acqua. Questo stato di cose è testimoniato dal

fatto che di tutta l’acqua riversata sulle campagne umbre il 92% è assorbita dalle

produzioni di barbabietola da zucchero, granoturco, granella, e tabacco. Il

tabacco, poi, può definirsi senza ombra di dubbio coltura idrovora, dal momento

che nell’area dell’alto e medio Tevere assorbe oltre il 50% del fabbisogno

irriguo 481 . Di particolare interesse risultano anche le differenze relative al

consumo di acqua in relazione alla variazione delle zone altimetriche infatti, nelle

aree pianeggianti, le esigenze idriche oscillano tra i 2.900 e i 3.450 m3, mentre in

collina, dove le produzioni richiedono meno acqua, tale valore si attesta intorno

ai 1.000 m3. Questo massiccio utilizzo di acqua ha, chiaramente, un forte impatto

sull’ambiente in particolar modo per quanto riguarda la percolazione nei terreni

delle acque reflue. Le ricerche svolte nel corso degli anni Ottanta hanno messo in

evidenza che i corsi d’acqua superficiali risultavano particolarmente ricchi di

sostanze quali azoto e fosforo: rispettivamente intorno alle 14.000 e 1.600

tonnellate annue, di cui oltre il 50% derivanti dall’agricoltura e dagli

allevamenti482

480 F. Pennacchi (a cura di), Sistemi locali e sviluppo rurale integrato in Umbria,

Dip.Sc.Econ.Est.Univ.Pg., Perugia, 2001.

. Molto interessante risulta il dato relativo alle coltivazioni di mais

e grano che immettono nel terreno oltre il 50% dell’azoto totale e quasi il 70%

del fosforo utilizzato per l’agricoltura. L’analisi condotta dall’ARPA UMBRIA

evidenzia il fatto che da uno studio relativo ai corpi idrici sotterranei delle oltre

8.000 tonnellate ricevute ogni anno quasi il 90% risulta proveniente

dall’agricoltura, mentre il maggior livello di immissione di fosforo deriva dalle

acque destinate all’uso civico. Questi dati non stupiscono se si considera che

dagli anni Sessanta agli anni Novanta si è verificato un continuo ampliamento

delle superfici servite da acqua a cui non ha però corrisposto un repentino

481 C. Pongetti, La sistemazione delle campagne, cit.

482 REGIONE UMBRIA, ARPA UMBRIA, AUR, 2004, pp.114-129.

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adeguamento e ammodernamento dei sistemi irrigui. Infatti, ancora alla fine degli

anni Novanta, i sistemi più diffusi di approvvigionamento idrico risultavano

essere la captazione mediante pozzi e l’emungimento delle acque dei corsi

d’acqua superficiali. I metodi di irrigazione più usati risultano a tutt’oggi quelli

dello scorrimento e dell’aspersione con notevole dispendio di risorse idriche.

Negli ultimi tre decenni del secolo scorso i problemi legati all’uso irriguo delle

risorse idriche si sono fatti via via più urgenti e hanno richiesto l’attuazione di

precise scelte sia di tipo strutturale, con la realizzazione di grandi invasi

artificiali, che puntiforme, con la creazione di piccoli laghetti collinari. Da questi

interventi il paesaggio ha subito delle modifiche profonde che hanno inciso

radicalmente sugli equilibri ambientali. Dagli anni Sessanta in poi è iniziata

l’opera di creazione di invasi artificiali nei territori umbri, sono alcuni esempi i

laghi di Corbara e di Alviano, adibiti alla produzione di energia idroelettrica, il

lago di Valfabbrica, creato dallo sbarramento del corso del Chiascio per fini

irrigui, il lago di San Liberato, situato sul Nera. Tutti i laghi dell’Umbria, ad

eccezione del Trasimeno, di qualsiasi origine essi siano risultano essere

caratterizzati da un elevato grado di inquinamento che come è stato detto sopra

deriva sia dagli agenti chimici utilizzati in agricoltura che dagli scarichi dei centri

abitati. Nel quadro delle azioni umane finalizzate alla raccolta e all’utilizzo

irriguo delle acque non si può omettere di illustrare il caso dei laghetti collinari.

Essi risultavano 48 agli inizi degli anni Cinquanta per arrivare a 570 nel 1965483

483 R. Riccardi, Memoria illustrativa della Carta della utilizzazione del suolo dell’Umbria, Roma,

1966, p. 72-74.

.

Il loro numero è salito ulteriormente nel decennio successivo grazie agli incentivi

forniti dallo Stato a coloro i quali intendevano costruire questo tipo di invaso

capace di irrigare dai 10 ai 20 ettari. Il successo riscosso da questi laghetti nel

corso degli anni Sessanta e Settanta risiedeva nel fatto che essi non erano soggetti

ad obblighi collettivi e, consentendo di ripartire l’acqua a seconda dei bisogni,

rendevano possibile pratica l’agricoltura intensiva, caratterizzata da foraggere e

colture industriali, anche in zone poste tra i 200 e i 600 metri di altitudine.

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Questo tipo di strutture, però, hanno manifestato nel corso degli anni molti

elementi di criticità legati soprattutto al mantenimento degli argini, in quanto

eccessivi diboscamenti al livello dei bacini di alimentazione hanno causato negli

anni episodi di colmamento .

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Campagne nei dintorni di Spoleto (PG). Esempio di “palombara” in cui sono ben visibili gli

elementi strutturali come il cornicione e le finestrelle dette “occhi” destinate all’ingresso dei

colombi. Da notare, inoltre, la presenza di elementi tipici del paesaggio mezzadrile in cui è

presente l’alberata.

Fonte: H. Desplanques, Campagne Umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali

dell’Italia centrale, Quattroemme, Perugia, 2006.

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Esempio di oliveti specializzati con sistemazione a lunette nelle campagne di Trevi (PG).

Fonte: H. Desplanques, Campagne Umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali

dell’Italia centrale, Quattroemme, Perugia, 2006.

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Esempio di degradazione del paesaggio nella montagna calcarea di Foligno (PG).

Fonte: H. Desplanques, Campagne Umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali

dell’Italia centrale, Quattroemme, Perugia, 2006.

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Piano di Santa Scolastica (Norcia). Organizzazione colturale secondo fasce altimetriche.

Sono evidenti i prati intervallati da colture cerealicole nelle aree più basse, mentre più in

alto predomina il bosco.

Fonte: H. Desplanques, Campagne Umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali

dell’Italia centrale, Quattroemme, Perugia, 2006.

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CONCLUSIONI

Come già esposto nella premessa, il presente studio ha cercato di analizzare le

varie realtà agricole interne a tre regioni dell’Italia Centrale accomunate dal fatto

di essere state per secoli terreno d’elezione della mezzadria. Partendo da questa

constatazione si è voluto andare a ricercare le peculiarità che hanno

contraddistinto i singoli contesti agricoli regionali, con lo scopo di evidenziare le

analogie e le differenze nelle modalità di superamento dei patti mezzadrili e

nell’adattamento a sistemi agricoli di carattere industriale. Come è noto dal

secondo dopoguerra in avanti l’economia in generale e di conseguenza anche

l’agricoltura sono stati inseriti in un processo che è sfociato nella cosiddetta

internazionalizzazione dei mercati che ha progressivamente condizionato fino ad

alterarne i caratteri originari il settore primario. In tutto ciò un ruolo di primo

piano è stato svolto dalla Comunità Economica Europea (CEE) che, con la

definizione della Politica Agricola Comunitaria, ha di fatto gestito in maniera

verticistica le scelte e gli indirizzi in materia di agricoltura. Dall’analisi dei

documenti reperiti è emerso chiaramente che l’Italia, pur essendo stato uno dei

Paesi fondatori, non ha saputo difendere in sede comunitaria le proprie

produzioni contribuendo ad innescare meccanismi distorsivi che ancora oggi

caratterizzano i sistemi agricoli nazionali. Questo costituisce un elemento

importantissimo per il presente studio dal momento che rappresenta il punto di

partenza di un’analisi dettagliata delle ricadute a livello locale di provvedimenti

sovranazionali. Ciò che mi ha indotto ad affrontare questo percorso di ricerca è

stata la volontà di constatare nel dettaglio come realtà agricole peculiari e

differenti, appartenenti ad un Paese che non sempre si è dimostrato determinante

nelle scelte di Politica Agricola Comunitaria, si siano adattate, cambiando in

alcuni casi fisionomia, ad attuare delle scelte imposte dall’alto e distanti dai

tradizionali sistemi agricoli fino ad allora praticati. Il fatto, poi, che tali

mutamenti di carattere politico-economico abbiamo influito fortemente con la

trasformazione degli assetti paesaggistici costituisce la dimostrazione

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dell’impatto della Politica Agricola Comunitaria a livello locale. Si è già detto

che in Toscana, nelle Marche e in Umbria il contratto mezzadrile, con le sue

articolazioni, è stato per secoli il più diffuso tra i patti agrari. Questo fatto però

non ha impedito che le suddette regioni sviluppassero caratteri rurali propri e

reagissero in modi differenti alle dinamiche di passaggio dalla mezzadria ad altre

forme di conduzione. I documenti analizzati hanno messo in luce che nel

passaggio dalla mezzadria alla proprietà l’agricoltura Toscana, pur non senza

alcune difficoltà iniziali, ha saputo inserirsi nei meccanismi di ammodernamento

imposti a livello europeo cercando di utilizzare al meglio il potenziale produttivo

offerto soprattutto dalle colture della vite e dell’olivo. Infatti i dati a disposizione

hanno evidenziato un particolare dinamismo del settore vitivinicolo nel periodo a

cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta che non ha interessato le altre due

regioni. Le cause di una siffatta situazione, come si è visto, riedono nel fatto che

l’Ente di sviluppo per la Toscana e il Lazio ha saputo ben indirizzare i

finanziamenti comunitari per la ricostruzione post-fillosserica e ha favorito la

diffusione delle innovazioni mediante l’attività dei consorzi. Un altro elemento

che ha contribuito in maniera determinante alla valorizzazione della vocazione

viticola toscana è da ricercarsi nell’istituzione della Denominazione di Origine

Controllata che ha permesso di raggruppare e tutelare vitigni e zone di

produzione con caratteristiche ben identificabili. Certamente le produzioni

vitivinicole toscane hanno dovuto affrontare le frequenti variazioni di mercato

ma nel fare ciò hanno mantenuto un certo dinamismo. Sorte diversa invece,

hanno avuto le agricolture di Marche e Umbria in cui la crisi dei sistemi

mezzadrili è sfociata in un progressivo esodo rurale che ha avuto gravi risvolti

negli assetti agricoli regionali. In queste due regioni, più che in Toscana, la

disparità di trattamento riservata alle categorie contadine, i criteri di concessione

delle provvidenze per la ristrutturazione e le direttive inerenti il set-aside e la

cessazione dell’attività agricola hanno fatto dell’agricoltura un settore statico al

servizio di altre attività. Non meraviglia, infatti, che nelle Marche ma soprattutto

in Umbria abbiano avuto una elevata diffusione le colture estensive a scapito di

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quelle intensive. Questo stallo si riflette anche nella mentalità degli imprenditori

che non volendo far fronte agli ingenti investimenti di ammodernamento di cui

necessitavano le colture arboree, hanno preferito rivolgere l’attenzione agli

impianti di tipo estensivo. Tutto ciò ha fatto sì che la tradizionale vocazione

agricola di piccole regioni come l’Umbria, in cui le colture promiscue avevano

un ruolo determinate, sia andata man mano scomparendo lasciando il posto a

distese di seminativi. L’avvento e la diffusione delle colture estensive ha

accentuato il processo di esodo rurale contribuendo ad avvicinare sempre di più

l’agricoltura all’industria sia nelle modalità di produzione che nei mezzi

impiegati. La logica conseguenza di tale stato di cose è costituita dal Piani di

Sviluppo Regionali varati dalla Regione Umbria e in generale dagli interventi di

programmazione che si sono susseguiti nel corso degli anni Ottanta in cui si

auspicava una maggiore interrelazione tra il settore agricolo e quello industriale

affidando, nel contempo, all’agricoltura uno specifico ruolo di tutela ambientale.

Il fatto di dover specificare la funzione di tutela ambientale, che per molto tempo

è stata una caratteristica intrinseca dell’agricoltura stessa, è la conferma che le

logiche produttive fino ad allora imperanti consideravano l’agricoltura come

qualcosa di avulso dal contesto ambientale su cui veniva praticata, ignorando le

conseguenze derivanti dall’esasperazione della produzione a tutti i costi. E’

proprio da questo modo di pensare che sul finire degli anni Sessanta e per buona

parte del decennio successivo sono state gettate le basi per gli squilibri e le

distorsioni del sistema agricolo. Il materiale utilizzato per la stesura del presente

lavoro è stato reperito presso gli archivi delle Camere di Commercio di Grosseto,

Firenze e Perugia, presso la Biblioteca dell’Istituto Nazionale di Economia

Agraria (Inea) e presso la Biblioteca del Ministero delle Politiche Agricole e

Forestali.

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