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SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA TESI DI DOTTORATO LA DIMENSIONE COSTITUZIONALE DELLA DIGNITÀ UMANA. DA CONCETTO FILOSOFICO A ELEMENTO NORMATIVO DI DIRITTO POSITIVO Facoltà di Giurisprudenza Dottorato di ricerca in “Diritto costituzionale e diritto pubblico generale” (XXVI Ciclo) Candidato Giuliano Sereno Matricola 1385587 Tutor Chiar.mo Prof. Giuseppe Ugo Rescigno A.A. 2014/2015

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SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA TESI DI DOTTORATO LA DIMENSIONE COSTITUZIONALE DELLA DIGNITÀ UMANA. DA CONCETTO FILOSOFICO A ELEMENTO NORMATIVO DI DIRITTO POSITIVO Facoltà di Giurisprudenza Dottorato di ricerca in “Diritto costituzionale e diritto pubblico generale” (XXVI Ciclo) Candidato Giuliano Sereno Matricola 1385587 Tutor Chiar.mo Prof. Giuseppe Ugo Rescigno A.A. 2014/2015

INDICE

Introduzione …………………………………………………………………………………… 1

CAPITOLO PRIMO

LA DIGNITÀ UMANA NEL PENSIERO FILOSOFICO: ORIGINI ED EVOLUZIONE DEL CONCETTO

1. Premessa ………………………………………………………………………………... 3 2. La dignità nel pensiero greco …………………………………………………………... 8 2.1. La virtù dell’eroe e la fierezza dell’uomo magnanimo nell’epica omerica e in

Aristotele …………………………………………………………………………..

8 2.2. Lo Stoicismo e la celebrazione della grandezza umana …………………………… 10 3. La dignitas nell’antica Roma …………………………………………………………... 15 3.1. La dimensione politica della dignità in Cesare e la polisemia del termine in

Cicerone …………………………………………………………………………...

15 3.2. La Stoa romana ……………………………………………………………………. 23 4. Il Cristianesimo e la dottrina dell’uomo come imago Dei ……………………………... 25 4.1. Il punto di partenza: i riferimenti biblici …………………………………………... 25 4.2. I Padri della Chiesa ………………………………………………………………... 28 4.3. Da Agostino di Ippona alla Scolastica medioevale ………………………………... 33 4.4. Un quadro d’insieme della dignità umana nella dottrina cristiana ………………… 35 5. La deificazione dell’uomo nell’Umanesimo rinascimentale …………………………… 37 5.1. Le nuove idee del pensiero umanistico ……………………………………………. 37 5.2. Giannozzo Manetti e l’eccellenza umana …………………………………………. 40 5.3. L’immortalità dell’anima in Marsilio Ficino ……………………………………… 42 5.4. L’Oratio di Giovanni Pico della Mirandola ……………………………………….. 44 6. Grandezza e miseria dell’uomo nel pensiero di Blaise Pascal …………………………. 46 7. Samuel Pufendorf e la dignità come presupposto dell’eguaglianza naturale fra gli

uomini …………………………………………………………………………………..

48 8. L’approccio antimetafisico di David Hume alla dignità umana ……………………….. 52 9. La dignità umana quale fondamento dell’etica kantiana ……………………………….. 52 10. Grazia e dignità nella riflessione di Friedrich Schiller …………………………………. 58 11. Gli sviluppi successivi: dalle proclamazioni dei diritti dell’uomo nelle dichiarazioni

settecentesche all’affermazione della dignità umana nelle carte costituzionali e internazionali del secondo dopoguerra ………………………………………………….

59 12. Conclusioni …………………………………………………………………………….. 65

CAPITOLO SECONDO

LA DIGNITÀ NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

1. La dignità nella Costituzione italiana …………………………………………………... 68 2. Dignità e diritti inviolabili ……………………………………………………………… 69 2.1. Principio personalista e dignità umana ……………………………………………. 69 2.2. Dignità e “nuovi diritti” …………………………………………………………… 77 3. Dignità umana e diritti sociali ………………………………………………………….. 92 4. La pari dignità sociale (art. 3, co. 1, Cost.) …………………………………………….. 103 4.1. Le azioni positive, tra pari dignità sociale ed eguaglianza sostanziale ……………. 110 5. La retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza

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libera e dignitosa (art. 36, co. 1, Cost.) ………………………………………………… 118 6. La dignità umana come limite all’iniziativa economica privata (art. 41, co. 2, Cost.) … 128 7. Esecuzione della pena e dignità umana (art. 27, co. 3, Cost.) ………………………….. 143 8. Rispetto della persona umana e trattamenti sanitari obbligatori (art. 32, co. 2, Cost.) … 153 8.1. Gli ambigui richiami al concetto di dignità nei provvedimenti giudiziari adottati

nel “caso Welby” e nel “caso Englaro” ……………………………………………

167 9. La giurisprudenza costituzionale sulla dignità umana …………………………………. 174 9.1. Rapporto tra dignità e buon costume come limite alla libertà di manifestazione del

pensiero (art. 21, co. 6, Cost.) ……………………………………………………...

178 9.2. Lesioni della dignità umana e misure restrittive della libertà personale …………... 180 9.3. Dignità umana e incidenza sul sistema delle fonti del diritto ……………………... 183 10. Conclusioni …………………………………………………………………………….. 191

CAPITOLO TERZO

LA DIGNITÀ UMANA NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

1. Premessa ………………………………………………………………………………... 193 2. La dignità nel diritto antidiscriminatorio ………………………………………………. 195 3. La dignità come limite delle libertà funzionali alla realizzazione del mercato interno ... 198 4. La dignità umana in ambito bioetico …………………………………………………… 203 5. Altri usi della dignità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia …………………… 208 6. Conclusioni …………………………………………………………………………….. 210

CAPITOLO QUARTO

LA DIGNITÀ UMANA NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI STRASBURGO

1. Premessa ………………………………………………………………………………... 212 2. Dignità e diritto alla vita (art. 2 CEDU) ………………………………………………... 213 3. Dignità umana e proibizione della tortura (art. 3 CEDU) ……………………………… 216 4. Tratta di esseri umani e violazione della dignità (art. 4 CEDU) ……………………….. 228 5. Dignità e ragionevole durata del processo (art. 6 CEDU) ……………………………... 228 6. Dignità umana e diritto all’autodeterminazione (art. 8 CEDU) ………………………... 228 6.1. La problematica del suicidio assistito ……………………………………………... 229 6.2. Diritto all’autodeterminazione e ricorso alla fecondazione assistita ………………. 231 6.3. Dignità e diritti delle persone transessuali ………………………………………… 233 7. La dignità come limite alla libertà di espressione (art. 10 CEDU) …………………….. 236 8. Dignità umana e discriminazione razziale (art. 14 CEDU) …………………………….. 241 9. Conclusioni …………………………………………………………………………….. 242

Considerazioni conclusive …………………………………………………………………….. 243 Bibliografia …………………………………………………………………………………….

246 Giurisprudenza ………………………………………………………………………………...

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INTRODUZIONE

La dignità umana è sempre più spesso oggetto di approfondite riflessioni dottrinali1 ed è richiamata in numerose pronunce giurisprudenziali. Non serve quindi soffermarsi sul motivo della scelta del tema.

Qualche parola deve essere invece spesa sull’impostazione della ricerca. A differenza degli studi finora pubblicati, la trattazione in esame si pone in un’ottica multidisciplinare e mira a ricostruire sia l’evoluzione della dignità come concetto filosofico sia le sue applicazioni come concetto giuridico. Da qui l’ideale suddivisione dello studio in due parti: la prima coincidente con il primo capitolo; la seconda corrispondente ai restanti capitoli. Si tratta però di due parti autonome, nel senso che si è esclusa una commistione tra aspetti filosofici e aspetti giuridici. Ciò deriva dalla tesi di fondo che la presente indagine intende dimostrare: la dignità umana, proprio per la molteplicità di accezioni che la caratterizzano2, non può essere ricostruita come un principio giuridico unitario. La seconda parte della trattazione è infatti dedicata all’esame della dignità nei singoli ambiti normativi in cui opera. L’ordine degli argomenti esaminati in questi capitoli è tradizionale e, nella prospettiva della tutela multilivello dei diritti, parte dall’ordinamento italiano per poi estendersi all’ordinamento dell’Unione europea e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

È chiaro a questo punto anche il metodo utilizzato, particolarmente attento allo studio del dato positivo e refrattario a una configurazione della dignità come clausola generale in grado di obliterare tale dato e di spostare in capo all’interprete la definizione del concetto e delle sue modalità applicative. Partendo da una simile opzione, si è cercato anche di evitare di ridurre la trattazione a un elenco di casi o di sentenze in cui è richiamata la dignità umana e quando ciò è stato inevitabile3 lo si è fatto proprio per dimostrare che gli usi della dignità sono così disparati e le soluzioni adottate dalle Corti così divaricate che è davvero difficile ricostruire in termini unitari la nozione de qua.

Sembrerebbe allora che la dignità, dispersa in mille rivoli, sia un concetto inutile e che si debba rinunciare a utilizzarla nel discorso giuridico. Così non è. Essa innanzitutto consente di far luce sulla storia e sui valori che fanno da sfondo a certe disposizioni costituzionali4. In secondo luogo, la ricognizione e la spiegazione delle ipotesi in cui dalla dignità possono trarsi specifiche conseguenze giuridiche serve a valorizzarne le potenzialità applicative. Uno svilimento deriverebbe invece dalla sua invocazione come

1 Limitando i riferimenti alle sole monografie, v. F. BARTOLOMEI, La dignità umana come concetto

e valore costituzionale. Saggio, Torino, 1987; A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, Roma, 2007; ID., La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, Napoli, 2012; P. BECCHI, Il principio dignità umana, Brescia, 2009; U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, Roma-Bari, 2009; M. DI CIOMMO, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, Firenze-Antella, 2010; F. POLITI, Diritti sociali e dignità umana nella Costituzione Repubblicana, Torino, 2011; C. PICIOCCHI, La dignità come rappresentazione giuridica della condizione umana, Padova, 2013.

2 E che sono analizzate nel primo capitolo. 3 Come nel terzo e nel quarto capitolo. 4 Senza però confondere il piano storico-filosofico con quello giuridico.

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knock down argument per risolvere sempre e comunque casi controversi5. Tale soluzione è infondata, essendo facilmente verificabile che l’argomento della dignità si presta a giustificare tesi opposte6.

In definitiva, l’indagine qui condotta segue la strada di un ridimensionamento del concetto di dignità, funzionale però ad un suo più preciso inquadramento giuridico.

Ovviamente la ricerca ha condotto a riflessioni solo iniziali, che in futuro dovranno essere necessariamente approfondite, soprattutto in una prospettiva comparatistica, qui limitata a brevi cenni. Lo studio va quindi valutato come un punto di partenza per mettere a fuoco alcuni problemi sul complesso e affascinante tema della dignità dell’uomo.

5 Cfr. F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, in S.P. PANUNZIO (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, 2005, 620 s.; W. HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana, in Ars Interpretandi, 2005, 130 s.; G. RESTA, La dignità, in S. RODOTÀ – M. TALLACCHINI (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto, vol. I del Trattato di biodiritto, diretto da S. RODOTÀ – P. ZATTI, Milano, 2010, 285 s.

6 La considerazione apparirà più chiara nel prosieguo della ricerca.

CAPITOLO PRIMO

LA DIGNITÀ UMANA NEL PENSIERO FILOSOFICO: ORIGINI ED EVOLUZIONE DEL CONCETTO

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La dignità nel pensiero greco. – 2.1. La virtù dell’eroe e la fierezza

dell’uomo magnanimo nell’epica omerica e in Aristotele. – 2.2. Lo Stoicismo e la celebrazione della grandezza umana. – 3. La dignitas nell’antica Roma. – 3.1. La dimensione politica della dignità in Cesare e la polisemia del termine in Cicerone. – 3.2. La Stoa romana. – 4. Il Cristianesimo e la dottrina dell’uomo come imago Dei. – 4.1. Il punto di partenza: i riferimenti biblici. – 4.2. I Padri della Chiesa. – 4.3. Da Agostino di Ippona alla Scolastica medioevale. – 4.4. Un quadro d’insieme della dignità umana nella dottrina cristiana. – 5. La deificazione dell’uomo nell’Umanesimo rinascimentale. – 5.1. Le nuove idee del pensiero umanistico. – 5.2. Giannozzo Manetti e l’eccellenza umana. – 5.3. L’immortalità dell’anima in Marsilio Ficino. – 5.4. L’Oratio di Giovanni Pico della Mirandola. – 6. Grandezza e miseria dell’uomo nel pensiero di Blaise Pascal. – 7. Samuel Pufendorf e la dignità come presupposto dell’eguaglianza naturale fra gli uomini. – 8. L’approccio antimetafisico di David Hume alla dignità umana. – 9. La dignità umana quale fondamento dell’etica kantiana. – 10. Grazia e dignità nella riflessione di Friedrich Schiller. – 11. Gli sviluppi successivi: dalle proclamazioni dei diritti dell’uomo nelle dichiarazioni settecentesche all’affermazione della dignità umana nelle carte costituzionali e internazionali del secondo dopoguerra. – 12. Conclusioni.

1. Premessa

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati

di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Con queste parole si apre l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata a New York il 10 dicembre 19481. La dignità umana è oggi uno dei temi principali del dibattito filosofico, giuridico, scientifico e religioso.

Sul piano del diritto positivo, numerose sono le dichiarazioni e le convenzioni internazionali che riconoscono l’importanza della dignità umana e le costituzioni nazionali che ne sanciscono la tutela o, ancor più esplicitamente, ne fanno la pietra angolare dell’ordinamento giuridico.

Tra le prime, possono ricordarsi il preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite2, che fa riferimento alla volontà di riaffermare la fede nei diritti fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana; il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che indica nel riconoscimento della dignità inerente a tutti i componenti della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; gli artt. 22 e 23, par. 3, della

1 Si ricordi che la Dichiarazione, non essendo stata approvata in forma di trattato, non è giuridicamente vincolante, pur avendo un elevato valore politico.

2 Adottato a San Francisco il 26 giugno 1945 ed eseguito in Italia con legge 17 agosto 1957, n. 848.

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medesima Dichiarazione, che rispettivamente affermano che «Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità» e che «Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale»; l’art. 10, par. 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici3, secondo cui «Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana»; l’art. 13, par. 1, del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali4, in virtù del quale «Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’istruzione. Essi convengono sul fatto che l’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e del senso della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali […]»; l’art. 23, par. 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo5, in base a cui «Gli Stati Parti riconoscono che i fanciulli mentalmente o fisicamente handicappati devono condurre una vita piena e decente, in condizioni che garantiscano la loro dignità, favoriscano la loro autonomia ed agevolino una loro attiva partecipazione alla vita della comunità»6; la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina)7, adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa, il cui art. 1, par. 1, dichiara che «Le Parti di cui alla presente Convenzione proteggono l’essere umano nella sua dignità e nella sua identità e garantiscono ad ogni persona, senza discriminazione, il rispetto della sua integrità e dei suoi altri diritti e libertà fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina».

3 Adottato a New York il 16 dicembre 1966. L’Italia ne ha disposto l’autorizzazione alla ratifica e

l’esecuzione con legge 25 ottobre 1977, n. 881. 4 Adottato a New York il 16 dicembre 1966. L’Italia ne ha disposto l’autorizzazione alla ratifica e

l’esecuzione con legge 25 ottobre 1977, n. 881. 5 Adottata a New York il 20 novembre 1989. L’Italia ne ha disposto l’autorizzazione alla ratifica e

l’esecuzione con legge 27 maggio 1991, n. 176. 6 Nella stessa convenzione, ulteriori riferimenti alla dignità sono contenuti negli artt. 28, par. 2 («Gli

Stati Parti adottano ogni adeguato provvedimento per vigilare affinché la disciplina scolastica sia applicata in maniera compatibile con la dignità del fanciullo in quanto essere umano ed in conformità con la presente Convenzione»), 37, lett. c («[Gli Stati Parti vigilano affinché] ogni fanciullo privato di libertà sia trattato con umanità e con il rispetto dovuto alla dignità della persona umana ed in maniera da tener conto delle esigenze delle persone della sua età […]»), 39 («Gli Stati Parti adottano ogni adeguato provvedimento per agevolare il riadattamento fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di ogni fanciullo vittima di ogni forma di negligenza, di sfruttamento o di maltrattamenti, di torture o di ogni altra forma di pene o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti, o di un conflitto armato. Tale riadattamento e tale reinserimento devono svolgersi in condizioni tali da favorire la salute, il rispetto della propria persona e la dignità del fanciullo») e 40, par. 1 («Gli Stati Parti riconoscono ad ogni fanciullo sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di illecito penale il diritto ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima»).

7 La convenzione è stata firmata dall’Italia il 4 aprile 1997, ma non è stata ancora ratificata.

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Nell’ambito dell’Unione europea, imprescindibile è il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea8, il cui preambolo stabilisce che l’Unione si fonda sui valori della dignità umana, della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà. Alla dignità è poi dedicato l’intero Capo I della carta e, in particolare, l’art. 1, ai sensi del quale «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».

Tra le costituzioni nazionali, l’esempio più chiaro è rappresentato dall’art. 1, Abs. I, della Legge fondamentale tedesca9, cui è evidentemente ispirato il citato art. 1 della Carta di Nizza e che così recita: «La dignità dell’uomo è intangibile (unantastbar). È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla»10.

Disposizioni analoghe si rinvengono negli ordinamenti nati dalle macerie di regimi autoritari o totalitari11. In proposito, possono menzionarsi l’art. 10, co. 1, della Costituzione spagnola del 1978, secondo cui «La dignità della persona, i diritti inviolabili che le sono connaturati, il libero sviluppo della personalità, il rispetto della legge e dei diritti altrui sono il fondamento dell’ordine politico e della pace sociale»; l’art. 2, co. 1, della Costituzione greca del 1975, in virtù del quale «Il rispetto e la protezione della dignità della persona umana costituiscono l’obbligo fondamentale dello Stato»; l’art. 1 della Costituzione portoghese del 1976, che individua nella dignità della persona umana il fondamento della Repubblica; l’art. 13 della medesima Costituzione, che afferma che «Tutti i cittadini hanno la stessa dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», previsione sostanzialmente identica a quella contenuta nell’art. 3, co. 1, della Costituzione italiana, in base al quale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»12.

8 Ai sensi dell’art. 6, par. 1, del Trattato sull’Unione europea, modificato dal Trattato di Lisbona del

2007, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati istitutivi.

9 La centralità della clausola della dignità umana nella Legge fondamentale tedesca è ben espressa da W. HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana, cit., 127, il quale, nel descrivere l’art. 79, co. 3, della Legge fondamentale (che vieta ogni forma di revisione costituzionale avente ad oggetto l’art. 1), afferma che «Questa è una legislazione coraggiosa e decisa, sì, una legislazione audace. La Costituzione mette in gioco se stessa, mette in considerazione la sua fine. Essa non vuole più aver vigore qualora principi che essa incorpora nella sua “garanzia di eternità” […] non possano sopravvivere. Essa lega la sua sorte a questi principi, rende la propria sopravvivenza dipendente dal loro sopravvivere, dispone di morire con essi. Un testo non può rendere sicuri dei principi in un modo più forte. Si percepisce la risolutezza di non voler più accettare per nessun motivo determinate esperienze, come per esempio la sistematica oppressione degli esseri umani».

10 Sul dibattito costituente dell’art. 1 della Legge fondamentale tedesca, cfr. F. BERARDO, «La dignità umana è intangibile»: il dibattito costituente sull’art. 1 del Grundgesetz, in Quad. cost., 2006, 387 ss.; C. WALTER, Human dignity in German constitutional law, in EUROPEAN COMMISSION FOR DEMOCRACY THROUGH LAW (VENICE COMMISSION), The principle of respect for human dignity. Proceedings of the UniDem Seminar organised in Montpellier, France, from 2 to 6 July 1998, in www.venice.coe.int, 15 s., che evidenzia come la problematica principale riguardasse il richiamo al diritto naturale quale fondamento della dignità umana, soluzione poi scartata. Sull’influenza del contesto storico sui contenuti della Legge fondamentale e perfino sulla data scelta per la sua approvazione, cfr. E. BENDA, The Protection of Human Dignity (Article 1 of the Basic Law), in S.M.U. Law Review, 2000, 445 s.

11 Per un esame delle ragioni che hanno indotto i costituenti di vari Paesi, e specialmente della Repubblica federale tedesca, ad introdurre nelle carte costituzionali puntuali richiami alla dignità umana, v. infra, § 11.

12 Si noti come nel caso dell’art. 3 della Costituzione italiana e dell’art. 13 della Costituzione portoghese non si faccia riferimento alla “dignità umana”, ma alla “dignità sociale”. Si tratta di concetti che hanno una portata differente, essendo la dignità sociale legata soprattutto alla posizione dell’individuo nella società.

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Anche nelle costituzioni di alcuni Paesi dell’Europa orientale vi sono specifici riferimenti al concetto di dignità. Ciò vale, ad esempio, per l’art. 3, co. 1, della Costituzione ucraina («L’individuo, la sua vita e la sua salute, il suo onore e la sua dignità, la sua inviolabilità e la sua sicurezza sono riconosciuti in Ucraina come il più alto valore sociale»); per l’art. 4, co. 2, della Costituzione bulgara («La Repubblica di Bulgaria garantisce la vita, la dignità e i diritti individuali e crea le condizioni favorevoli al libero sviluppo dell’individuo e della società civile»); per gli artt. 12, co. 1 («Gli uomini sono liberi ed eguali in dignità e diritti. I diritti e le libertà fondamentali sono irrinunciabili, inalienabili, imprescrittibili e inviolabili») e 19, co. 1 («Ognuno ha diritto a che sia preservata la propria dignità umana, l'onore personale, la buona reputazione e a che sia tutelato il proprio nome») della Costituzione slovacca; per l’art. 10 della Costituzione estone («I diritti, le libertà e i doveri stabiliti in questo titolo non precludono altri diritti, libertà e doveri che sorgano dallo spirito della Costituzione o siano conformi ad essa, e rispondenti ai principi della dignità umana e di uno Stato di diritto fondato sulla giustizia sociale e sulla democrazia»); per l’art. II della Costituzione ungherese («La dignità umana è inviolabile. Ogni persona ha diritto alla vita e alla dignità umana; la vita dell’embrione deve essere protetta sin dal momento del concepimento»); per l’art. 95 della Costituzione lettone («Lo Stato protegge l’onore e la dignità umana. Sono proibiti la tortura ed ogni altro trattamento crudele o degradante verso gli esseri umani. Nessuno può essere sottoposto a pene inumane o degradanti»); per l’art. 21, co. 2, della Costituzione lituana («La dignità di ogni essere umano è protetta dalla legge»); per l’art. 30 della Costituzione polacca («L’innata e inalienabile dignità dell’essere umano costituisce la fonte delle libertà e dei diritti dell’uomo e del cittadino. Essa è inviolabile, ed ogni pubblica autorità ha l’obbligo di rispettarla e di proteggerla»); per l’art. 1, co. 3, della Costituzione rumena («La Romania è uno Stato di diritto sociale e democratico, in cui la dignità umana, le libertà e i diritti dei cittadini, il libero sviluppo della personalità umana, la giustizia e il pluralismo politico sono garantiti e rappresentano valori supremi, nello spirito delle tradizioni democratiche del popolo rumeno e degli ideali della Rivoluzione del Dicembre 1989») e così via.

Estendendo la prospettiva oltre i confini del “vecchio continente”, è agevole poi notare come la dignità sia espressamente tutelata da numerose costituzioni. Tra queste, possono menzionarsi varie costituzioni di Stati sudamericani (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Messico, Nicaragua, Perù, Venezuela)13 e africani (Angola, Burundi, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gambia, Ghana, Guinea-Bissau, Guinea equatoriale, Kenya, Madagascar, Malawi, Mali, Marocco, Mozambico, Namibia, Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Sierra Leone, Sudan, Sudafrica, Swaziland, Tanzania, Togo, Uganda).

Nonostante l’attenzione crescente, a partire dal secondo dopoguerra, per la dignità umana, nessun documento internazionale o costituzionale ne fornisce una definizione14.

13 V. un dettagliato elenco in G. ROLLA, Profili costituzionali della dignità umana, in E. CECCHERINI (a cura di), La tutela della dignità dell’uomo, Napoli, 2008, 62; ID., Il valore normativo del principio della dignità umana. Brevi considerazioni alla luce del costituzionalismo iberoamericano, in Dir. pubbl. comp. eur., 2003, 1873.

14 Cfr. D. ROUSSEAU, Concluding report, in EUROPEAN COMMISSION FOR DEMOCRACY THROUGH LAW (VENICE COMMISSION), The principle of respect for human dignity. Proceedings of the UniDem Seminar organised in Montpellier, France, from 2 to 6 July 1998, cit., 71; R. ANDORNO, The paradoxical notion of human dignity, in Riv. int. fil. dir., 2001, 156, che spiega tale omissione alla luce di un approccio pragmatico che mira a favorire il raggiungimento di un accordo sul punto. Con riferimento specifico alla Legge fondamentale tedesca, cfr. H. HOFMANN, La promessa della dignità umana. La

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Si tratta di un’omissione facilmente comprensibile. Da un lato, infatti, è evidente come il concetto di dignità sia un tipico concetto giuridico indeterminato, la cui ricostruzione si rivela assai problematica15. Anzi, e più precisamente, sarebbe più corretto parlare di una nozione presupposta, cioè di un’idea che il diritto recepisce da altri ambiti culturali16. Dall’altro lato, vana, oltre che controproducente, sarebbe la pretesa dei legislatori nazionali e internazionale di irrigidire in una formula giuridica una nozione che riflette la tavola di valori e la visione antropologica di una civiltà, naturalmente soggette a cambiamenti nel corso del tempo17.

Dal concetto di dignità sono state desunte, nel corso dei secoli, implicazioni profondamente differenti e, anche oggi, la dignità umana assume una diversa dimensione in base al contesto culturale in cui è inserita. Come è stato efficacemente dignità dell’uomo nella cultura giuridica tedesca, in Riv. int. fil. dir., 1999, 624. L’Autore precisa che l’assenza di definizioni comporta tre vantaggi: evita che il concetto divenga inflazionato; è un argine all’invocazione della dignità come argomento per impedire discussioni su questioni eticamente sensibili; riduce il rischio che si accettino determinate visioni filosofiche o teologiche come le uniche valide.

15 Cfr. A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, cit., 13 ss. (con ampia bibliografia). L’Autrice sottolinea come la dignità rechi in sé un conflitto: da un lato, valore che riesce ad orientare la vita di un ordinamento proprio in virtù della sua complessità non riconducibile a formule fisse e immutabili; dall’altro, concetto indefinito, la cui indeterminatezza ne preclude un uso ancorato a criteri di certezza giuridica da parte degli operatori. Analogamente, S. RODOTÀ, Antropologia dell’«homo dignus», in Riv. crit. dir. priv., 2010, 557, che rileva la polisemia, l’intrinseca ambiguità e l’indeterminatezza del concetto; F.J. ANSUATEGUI ROIG, Diritti fondamentali e dignità umana, in Ragion pratica, 2012, 14, secondo cui la dignità è un open texture; G. AZZONI, Dignità umana e diritto privato, in Ragion pratica, 2012, 76, che parla addirittura di enantiosemia del concetto di dignità umana; G. ALPA, Dignità personale e diritti fondamentali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 21, che reputa la dignità umana un’opera aperta alla tessitura degli interpreti; G. AZZARITI, Intervento, in S.P. PANUNZIO (a cura di), I costituzionalisti e la tutela dei diritti nelle Corti europee. Il dibattito nelle riunioni dell’osservatorio costituzionale presso la LUISS «Guido Carli» dal 2003 al 2005, Padova, 2007, Riunione dell’11 aprile 2003 (La dignità umana), 67, che considera quello di dignità umana un concetto denso di ambiguità. Radicalmente critico V. FERRANTE, Dignità dell’uomo e diritto del lavoro, in Lav. e dir., 2011, 207, il quale ritiene che l’affermazione della dignità non possa in alcun modo fornire risposte univoche ai numerosi e difficili problemi civili e sociali del nostro tempo.

16 Cfr. F. BARTOLOMEI, La dignità umana come concetto e valore costituzionale. Saggio, cit., 10, secondo cui la dignità umana «se, da un lato, affonda le radici nell’ethos, nel costume, nel modo di essere e di vivere di un popolo, dall’altro lato, sul piano più strettamente giuridico-costituzionale informa e permea l’intera normazione dell’ordinamento giuridico»; P.P. PORTINARO, La dignità dell’uomo messa a dura prova, in A. ARGIROFFI – P. BECCHI – D. ANSELMO (a cura di), Colloqui sulla dignità umana. Atti del Convegno internazionale (Palermo, ottobre 2007), Roma, 2008, 226, che pone in risalto il ruolo di integrazione tra ambito della morale e ambito del diritto svolto dalla dignità; R. SPAEMANN, Sulla nozione di dignità dell’uomo, in ID., Natura e ragione. Saggi di antropologia, trad. it. a cura di L.F. TUNINETTI, Roma, 2006, 69, che definisce trascendentale la nozione di dignità; F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, cit., 586, che sottolinea i contenuti etici e le visioni filosofiche e religiose dell’uomo cui rimanda l’idea di dignità umana; F. VIOLA, I volti della dignità umana, in A. ARGIROFFI – P. BECCHI – D. ANSELMO (a cura di), Colloqui sulla dignità umana. Atti del Convegno internazionale (Palermo, ottobre 2007), cit., 102, secondo il quale la dignità umana si colloca «al di sopra degli ordinamenti giuridici, dei sistemi politici, delle dottrine morali, poiché questi traggono da essa la loro giustificazione ultima»; K. SEELMANN, La tutela della dignità umana: garanzia di status, divieto di strumentalizzazione, oppure divieto di umiliare?, in Ragion pratica, 2012, 46 s., che evidenzia le difficoltà derivanti dalla trasposizione nel campo del diritto di una categoria essenzialmente morale; J. ISENSEE, Menschenwürde: die säkulare Gesellschaft auf der Suche nach dem Absoluten, in Archiv des öffentlichen Rechts, 2006, 175 e 212, che, dopo aver rimarcato che in un ordinamento giuridico di valori relativi la dignità è l’unico valore assoluto, precisa che essa (rectius: i suoi impulsi) esprime una tendenza alla positivizzazione, ma nel contempo non si esaurisce nel diritto vigente, conservando un’eccedenza etica (ethisch Überhang).

17 Cfr. V. POCAR, Dignità e non-dignità dell’uomo, in Ragion pratica, 2012, 120.

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rilevato, già a livello linguistico i diversi termini usati per indicare la dignità – si pensi solo alla differenza tra il termine tedesco Würde e la famiglia di parole derivate da quella latina dignitas (dignity, dignité, dignidad) – denotano la pluralità di accezioni e soprattutto di radici culturali che caratterizzano la nozione in esame18.

Nella consapevolezza dell’arbitrarietà di qualsiasi tentativo di definizione della dignità umana19, sembra allora più opportuno ripercorrere la storia di quest’idea, evidenziandone i significati che ha assunto nel corso dei secoli, almeno nella tradizione culturale dell’Occidente; con l’avvertenza, peraltro, che l’indagine non aspira a fornire un quadro completo delle visioni antropologiche che si sono succedute nelle varie epoche e nei diversi contesti culturali, ma a cogliere i soli aspetti riconducibili, direttamente o indirettamente, al concetto di dignità umana.

2. La dignità nel pensiero greco 2.1. La virtù dell’eroe e la fierezza dell’uomo magnanimo nell’epica omerica e in Aristotele

Non è facile stabilire quando nasca, nella storia del pensiero, l’idea di dignità

umana. A un primo sguardo, sembra che nell’antica Grecia non esista il concetto di dignità, così come sarà poi elaborato dal mondo romano e dalla tradizione cristiana20. Non vi sono, infatti, parole in grado di esprimere quest’idea. Ciò nonostante, i termini αξία (axía) e αξίωμα (axíoma) indicano qualcosa di simile21. Più precisamente, essi indicano il valore, il prestigio, la reputazione.

Nell’epica omerica, άξιος (áxios) è l’uomo valoroso, che non viene mai meno ai doveri verso la collettività e verso la sua famiglia. Colui che più di tutti incarna tali

18 Cfr. P. RIDOLA, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale

europea, in ID., Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010, 81, anche per ulteriori riferimenti bibliografici. Interessante è la ricostruzione dell’etimologia del termine dignity effettuata da C. RUIZ MIGUEL, Human Dignity: History of an Idea, in Jahrbuch des öffentlichen Rechts, 50, 2002, 282 s., il quale evidenzia come la parola dignity derivi dalla radice indo-europea dek, verbo indicante le azioni del “ricevere”, “prendere”, “salutare”, “onorare”. Dal significato iniziale di “ricevere” o “ricevere bene” sono poi derivate altre accezioni, come “essere appropriato”, “corrispondere”, “essere adatto”, “rendere giustizia a qualcuno”, “insegnare”, “imparare”. In particolare, dalla radice dek la lingua latina ha tratto il verbo decet, decuit, -ere (“essere decoroso”, “essere adeguato”, “adornare”, “andar bene”), il sostantivo decus, -oris (“gloria”, “onore”, “dignità”) e l’aggettivo dignus (“che si addice”, “meritevole”, “degno”), da cui è derivato il termine dignitas. L’etimologia tradizionale, ora esposta, è oggetto di una profonda revisione critica da parte di M. DE FILIPPI, Dignitas tra repubblica e principato, Bari, 2009, 25 ss. Sul vocabolo tedesco Würde, cfr. invece J. LUTHER, Ragionevolezza e dignità umana, in A. CERRI (a cura di), La ragionevolezza nella ricerca scientifica ed il suo ruolo specifico nel sapere giuridico. Atti del Convegno di Studi (Roma, 2-4 Ottobre 2006), tomo II (La ragionevolezza nell’interpretazione e nel sindacato di costituzionalità), Roma, 2007, 187, nota 4, secondo cui esso si ricollega etimologicamente alla parola Wert (“valore”) e forse anche al termine arabo warida, che indica il sapere nascosto ricevuto dal creatore divino.

19 Cfr. E. RIPEPE, La dignità umana: il punto di vista della filosofia del diritto, in E. CECCHERINI, La tutela della dignità dell’uomo, cit., 13.

20 Cfr. P. BECCHI, Il doppio volto della dignità, in Riv. int. fil. dir., 2012, 588. 21 Cfr. V. PÖSCHL, Würde. I. ‘Würde’ im antiken Rom, in O. BRUNNER – W. CONZE – R.

KOSELLECK, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Band VII, Stuttgart, 1992, 637 s.; U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 8.

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valori è Ettore, l’eroe per eccellenza, che non indietreggia di fronte al pericolo e che combatte fino alla morte non solo per la sua gloria e per quella della sua famiglia, ma per il rispetto (αιδώς, aidós) che lo lega alla sua comunità. Ciò che anima Ettore non è (o non è soltanto) la ricerca della gloria mediante la vittoria in battaglia, ma il senso del dovere verso la sua patria; l’onore personale e la salvezza della propria comunità si uniscono così nei concetti di valore e di dignità, che sono tanto più grandi quanto più ardue sono le imprese che si è chiamati a compiere22.

Nel Protagora di Platone23, il termine αξίωμα (axíoma) è utilizzato per indicare la gloria e la fama dello spirito attico24.

In Aristotele, la dignità può essere identificata con la μεγαλοψυχία (megalopsuchía), che indica la grandezza di potenza25, la fierezza e la magnanimità26. Fiero è colui che è degno di grandi cose (περì μεγάλα, perì megála) e sa di esserlo; chi invece è degno di piccole cose (μικρων άξιος, mikron áxios) è temperante (σώφρων, sóphron), ma non fiero. Biasimevoli sono poi coloro che si ritengano degni di grandi cose, pur non essendolo, e coloro che, essendo effettivamente degni di grandi cose, non si considerino tali; nel primo caso si parlerà di vanità, nel secondo di meschinità d’animo. La fierezza è, quindi, intermedia tra i due stati indicati27.

Il valore della fierezza va riferito ai beni esterni e, tra questi, il più grande è l’onore (τιμή, timé): i grandi uomini si preoccupano soprattutto dell’onore e di esso si reputano degni28. La μεγαλοψυχία (megalopsuchía) è infatti definita da Aristotele anche come disposizione eccellente riguardo all’uso dell’onore e degli altri beni di pregio, non riguardando invece le cose utili29. Ne consegue che l’uomo fiero è un uomo superiore. In quanto tale, egli deve essere buono, coraggioso e giusto: non fuggirà mai di fronte al pericolo, né commetterà mai azioni turpi. In generale, poiché la fierezza è un ornamento e un accrescimento delle virtù30, l’uomo fiero dovrà eccellere in ogni virtù31. Egli, peraltro, curerà in special modo l’onore, ma avrà un atteggiamento misurato anche rispetto alla ricchezza, al potere e alla sorte. Da quest’ultimo punto di vista, non sarà eccessivamente felice nella buona fortuna, né disperato nella disgrazia. Non solo. Il μεγαλόψυχος (megalόpsuchos) non affronterà rischi inutili, ma se necessario fronteggerà anche i rischi più grandi, mettendo in pericolo la sua stessa vita, convinto che non sia indispensabile vivere ad ogni costo.

L’uomo fiero è naturalmente portato a recare benefici agli altri, ma non a riceverne; a prestare aiuto con prontezza, ma non a chiederlo; a compiere poche imprese, ma grandi e gloriose; ad essere sincero e a vivere secondo le proprie idee, invece di seguire come un servile adulatore le opinioni degli altri; a non meravigliarsi facilmente e a non

22 Cfr. U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 7 ss., che riporta un’ampia casistica tratta dall’epica omerica.

23 Cfr. PLATONE, Protagora, trad. it. a cura di F. ADORNO, Roma-Bari, 2003, 337e, 1. 24 Cfr. V. PÖSCHL, Würde. I. ‘Würde’ im antiken Rom, cit., 638. 25 Cfr. ARISTOTELE, Etica Eudemia, a cura di M. ZANATTA, Milano, 2012, III, 1232a, 28 ss. 26 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. NATALI, VII ed., Roma-Bari, 2010, IV, 1123a,

34 s. e 1123b, 1 ss. 27 Cfr. ARISTOTELE, Etica Eudemia, cit., III, 1233a, 10 ss.; in senso analogo, ID., Etica Nicomachea,

cit., IV, 1123b, 5 ss. 28 In Etica Eudemia, cit., III, 1232b, 9ss., Aristotele afferma ancor più esplicitamente che il

magnanimo è noncurante verso ogni cosa, eccetto l’onore. 29 Cfr. ARISTOTELE, Etica Eudemia, cit., III, 1233a, 4 ss. 30 In ARISTOTELE, Etica Eudemia, cit., III, 1232b, 25 ss., la fierezza è invece indicata come virtù

autonoma accanto alle altre. 31 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., IV, 1124a, 1 ss.

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serbare rancore; a non essere esigente nelle piccole cose della vita e a preferire cose belle e improduttive, piuttosto che produttive e utili. Lo contraddistinguono il passo lento, la voce profonda e il modo di parlare pacato32.

Due considerazioni possono farsi in merito alle accezioni della dignità finora descritte. Innanzitutto, ciò che emerge in maniera chiara è la dimensione pubblica e sociale della dignità. La dignità non è una qualità innata, non è una caratteristica dell’uomo in quanto tale; al contrario, essa sintetizza il rapporto di ciascun individuo con gli altri consociati e i doveri che gravano su ogni uomo nei confronti della collettività. In secondo luogo, e di conseguenza, la dignità va conquistata: non essendo una qualità ontologica, essa va conseguita. Identificandosi con il valore e con l’onore, può essere accresciuta o diminuita, in base alle azioni che si compiono. Così intesa, la dignità si configura come un concetto dinamico, suscettibile di graduazioni e di differenziazioni tra le persone, che possono allora essere distinte in virtù del loro maggiore o minore prestigio, con tutti gli effetti negativi che ne derivano ove questo parametro sia eretto ad unico criterio ordinatore della società33.

2.2. Lo Stoicismo e la celebrazione della grandezza umana Rispetto a quella ora esaminata, già nel pensiero greco si può rinvenire una

differente concezione della dignità, fondata sull’idea che essa caratterizzi l’uomo nella sua specificità e lo renda diverso da ogni altro essere vivente34. In questa visione, che trova qualche antecedente nella descrizione dell’uomo contenuta nell’Antigone di Sofocle35, nell’umanesimo di alcuni Sofisti, specialmente di Protagora e di Prodico36, e in quello socratico37, la dignità indica il proprium dell’uomo e, pertanto, non può che appartenere in egual misura a tutti gli uomini. Una simile visione sembra emergere, seppure in nuce, nella filosofia stoica38, anche in assenza di un termine che esprima il suddetto significato.

32 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., IV, 1124b e 1125a. 33 D’altronde, la giustificazione della schiavitù nel mondo antico ne è una sufficiente testimonianza.

Su questo, v. infra, nota 59 e § 3.2. 34 Distingue le due accezioni F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale

europeo”, cit., 586 s. 35 V. SOFOCLE, Antigone, trad. it. a cura di M. UNTERSTEINER, Modena, 1937, 332 ss., secondo cui

«Molte forze inquietanti vi sono, ma nessuna dell’uomo più inquietante esiste […]». Rilevano tale aspetto H. BAKER, The image of man. A study of the idea of human dignity in Classical Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, New York-Evanston-London, 1961, 23; P. CLITEUR – R. VAN WISSEN, Human Dignity as the Foundation for Human Rights. A discussion of Kant’s and Schopenhauer’s Work with Respect to the Philosophical Reflections on Human Rights, in Rechtstheorie, 35 (2004), 159 s.

36 Cfr. H. BAKER, The image of man. A study of the idea of human dignity in Classical Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, cit., 25 ss.; M. UNTERSTEINER, I sofisti, Milano, 1967, passim, spec. vol. I, 77 ss., 138 s. e vol. II, 15.

37 Cfr. H. BAKER, The image of man. A study of the idea of human dignity in Classical Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, cit., 34, il quale evidenzia che nella visione socratica l’importanza dell’uomo deriva dalla sua capacità di squarciare, grazie alla conoscenza, il velo delle apparenze e di attingere al mondo degli assoluti; questa capacità gli conferisce una nuova dignità e lo eleva sopra le altre creature.

38 Cfr. H. CANCIK, ‘Dignity of Man’ and ‘Persona’ in Stoic Anthropology: Some Remarks on Cicero, De officiis I, 105-107, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, The Hague-London-New York, 2002, 19; F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, cit., 587 s.; R. SPAEMANN, Sulla nozione di dignità dell’uomo, cit., 74.

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Per comprendere meglio la portata di questa dottrina, è opportuno illustrare brevemente il contesto storico in cui si sviluppa.

Lo Stoicismo39, il cui fondatore è Zenone di Cizio40, risente fortemente del periodo storico in cui ha origine e nel contempo riesce, più di ogni altra corrente filosofica, a dare risposta ai bisogni esistenziali degli uomini dell’epoca.

Alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.), l’impero macedone si disgrega in una serie di regni, che continuamente sorgono e si estinguono. La filosofia ellenistica, a differenza di quella attica, non può rivolgersi al cittadino quale membro della πόλις (pólis), ormai in declino. Abbandonato l’interesse per la cosa pubblica, ciò che l’uomo del tempo chiede alla filosofia è un sostegno spirituale, in grado di garantirgli la serenità pur in un’epoca di continui rivolgimenti politici41. In un contesto del genere, lo Stoicismo soddisfa quel bisogno con l’elaborazione di un pensiero assai originale e differente dalle altre dottrine. Per la prima volta, questa filosofia introduce l’idea della centralità dell’uomo e della sua diversità dagli animali e dagli altri esseri viventi. L’antropocentrismo non apparteneva fino a quel momento al pensiero greco e appare proprio con lo Stoicismo, per essere poi elaborato dalla filosofia cristiana a partire dalla sua visione dell’uomo come imago Dei42.

Gli Stoici sottolineano in modo netto la separazione dell’uomo dalle bestie nella catena degli esseri viventi. In questo elemento risiede un’importante differenza con l’altra grande corrente filosofica del tempo: l’Epicureismo. Epicuro ritiene che tra gli uomini e gli animali sussista una semplice diversità di grado e che la civiltà umana sia il

39 Il nome di questa corrente filosofica discende dalla Στοά ποικίλη (Stoá poikíle), il portico dipinto

di Atene in cui si tenevano le lezioni della scuola. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it. a cura di O. DE GREGORIO, vol. I, Firenze, 1967, 333, definisce lo Stoicismo «un movimento spirituale che, continuamente sviluppandosi e adattandosi ai tempi e alle individualità, ebbe un’influenza decisiva su quanto gli uomini pensarono, sentirono ed operarono per un mezzo millennio ed oltre».

40 Pensatore di origini fenicie che, nel 312-311 a.C., si trasferisce dalla sua isola natia, Cipro, ad Atene e qui crea la sua scuola. Dopo Zenone, sono Cleante di Asso, Aristone di Chio e Crisippo di Soli a continuare la tradizione della scuola e a dare un assetto compiuto alla dottrina stoica. Crisippo, in particolare, salva la scuola dal pericolo di dissoluzione e, grazie alla sua abilità dialettica e alla sua finezza di pensiero, riprende il pensiero di Zenone e ne fa un solido sistema, pur introducendo non poche innovazioni. Alla morte di Crisippo, tra il 208 e il 204 a.C., segue una fase in cui la Stoa è impegnata a difendersi dalle critiche delle altre scuole. Particolarmente intensa è la polemica suscitata dall’accademico Carneade, i cui attacchi non riescono però a scalfire la grandezza della filosofia stoica. Si tratta, però, di un’epoca di epigoni, che si limitano a riprodurre le teorie dei maestri del passato. Una nuova fase si apre, tra il II e il I secolo a.C., con Panezio e con Posidonio, la cui originalità sa adattare lo Stoicismo allo spirito dei tempi. Essi sono i principali esponenti della “Media Stoa”, anche se l’espressione è inadeguata, perché lascia intendere l’esistenza di un gruppo uniforme di filosofi, che invece non esiste, essendo questa fase caratterizzata dalle più diverse correnti di pensiero. La Stoa continua poi a vivere nel mondo romano, in particolare grazie a Cicerone e, più tardi, a Seneca, Musonio, Epitteto e Marco Aurelio. Si parla, in proposito, di “Nuova Stoa” o “Stoa romana”. Nella seconda metà del III secolo d.C. la dottrina stoica progressivamente scompare, ma il suo spirito continuerà a vivere e ad influenzare il pensiero successivo, in particolare quello cristiano.

41 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 17, secondo cui il fine della giusta disposizione interiore, della φρόνησις (phrónesis), diviene «quello di rendere l’individuo autosufficiente e di assicurargli la pace e la felicità anche nelle più avverse condizioni esterne. […] Esattamente per questo la filosofia non rimase circoscritta ad una aristocrazia dello spirito, ma divenne una forza viva, tale da offrire a vaste categorie l’unico sostegno interiore».

42 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 197 e 216, che attribuisce tale concezione alle origini semitiche del fondatore della scuola, Zenone, il quale porta con sé ad Atene l’idea della grandezza dell’uomo, efficacemente testimoniata nell’Antico Testamento.

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frutto dell’evoluzione da uno stadio iniziale semiferino. Zenone sostiene, invece, che i primi uomini avessero una natura quasi divina e che, in generale, l’uomo si distingua dagli animali per la sua essenza, determinata dalla ragione, dal λόγος (lógos)43. Più dettagliatamente, il λόγος (lógos) è il concetto fondamentale dello Stoicismo e rappresenta il principio spirituale che plasma l’universo secondo un ordine razionale e che determina il destino di ogni singola creatura44.

Al momento della nascita, il λόγος (lógos) esiste nell’uomo solo in forma elementare e la sua anima deve ancora formarsi. Con la crescita, però, la disposizione razionale impressa dal λόγος (lógos) fa sì che l’uomo, a differenza degli animali, non solo possieda l’attitudine a sviluppare dei concetti, ma abbia anche la capacità di rielaborarli grazie al suo pensiero45. Con l’aiuto della ragione l’uomo domina tutti gli animali; tutte le cose sono state create per l’uomo ed egli è il signore del mondo. La rilevanza del λόγος (lógos) è tale da avvicinare l’uomo alla divinità46.

La tesi della superiorità del genere umano ad ogni altra specie è sostenuta già da Zenone47. Ancor più chiaramente il suo successore Cleante afferma che «l’uomo si trova alla sommità e in posizione di predominio rispetto a quasi tutti gli animali terrestri e per doti fisiche e per qualità intellettuali»48. Crisippo sottolinea invece la familiarità tra esseri umani e divini, derivante dalla comunanza nella ragione49. Egli sostiene addirittura che gli uomini delle origini fossero simili agli dèi50. La specificità dell’uomo risiede nella sua ragione e da essa derivano la sua dignità51 e la sua preminenza rispetto

43 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 98. Un parziale accenno

si rinviene già in ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., I, 1098a, 7 s., secondo cui l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione.

44 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 53 ss. 45 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 175. 46 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 195. 47 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, Milano,

1998, 59, frammento [A]106a («Se il cosmo fosse eterno, anche gli esseri viventi sarebbero eterni e a maggior ragione il genere umano per la superiorità che vanta rispetto alle altre specie»). Il frammento è tratto da Filone di Alessandria (De aeternitate mundi, XXIV, 130), ma riflette il pensiero di Zenone. Ciò vale anche per i frammenti riportati nelle note successive, che esprimono il pensiero dei filosofi citati nel testo.

48 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 235, frammento [CA]529. Il frammento è tratto da Sesto Empirico (Adversus mathematicos, IX, 88 ss.).

49 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 615, frammento [B.f]528, in cui si sostiene che «Come infatti la città si dice in due sensi, come luogo di residenza e come sistema dei cittadini e degli abitanti, così anche il cosmo, al pari della città, è costituito di esseri divini e umani, e di questi i primi detengono il comando, mentre i secondi sono a loro sottoposti. E tuttavia c’è una familiarità fra i due esseri, in quanto ambedue, in ottemperanza alla legge di natura, hanno parte della ragione». Il medesimo concetto è espresso anche nel frammento [B.f]1121, in ID., Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 927 («Certo, gli dèi immortali ci hanno sempre voluto un gran bene, e ce ne vogliono tuttora: ci hanno conferito tutto l’onore possibile, collocandoci quasi alla loro altezza: tanto abbiamo ricevuto, di più non ne avremmo accolto»). Il primo frammento è tratto da Ario Didimo presso Eusebio (Praeparatio evangelica, XV, 15), il secondo da Seneca (De beneficiis, II, XXIX, 6).

50 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 927 ss., frammento [B.f]1122 («Se dunque il mondo s’è generato secondo la provvidenza e dio sovraintende a tutta la realtà, era necessario che la scintilla del genere umano avesse incominciato ad esistere grazie alla cura di esseri superiori, cosicché alle origini si verificò una mescolanza fra l’elemento divino e quello umano […]»). Il frammento è tratto da Origene (Contra Celsum, IV, 79).

51 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 943, frammento [B.f]1156 («Alcune cose che si generano hanno una particolare dignità, altre vengono di

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agli altri esseri viventi52. Tale preminenza si concretizza nella circostanza che tutti gli animali sono stati generati in funzione dell’uomo e al fine di servirlo53 e che, in generale, il mondo intero è stato creato per l’uomo54.

Per gli Stoici, tuttavia, l’uomo non è solo un essere razionale, ma un essere morale e questa moralità è la conseguenza precipua della sua razionalità. Solo all’uomo possono applicarsi i concetti di bene e di male, perché solo l’uomo, a differenza delle bestie, può scegliere tra l’uno e l’altro ed è pertanto responsabile delle sue azioni55. Per la prima volta, la filosofia stoica introduce il concetto di dovere (καθηκόν, kathekón), fino a quel momento estraneo al pensiero greco. La sua elaborazione si deve a Zenone, conseguenza da queste. Del primo tipo è l’animale razionale, mentre le mandrie e i frutti della terra sono in funzione di esso»). Il frammento è tratto da Ex Origene Selecta in Psalmos II.

52 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 943, frammento [B.f]1157 («Celso non si è reso conto che in tal modo si è messo contro i filosofi della Stoa, i quali giustamente hanno collocato l’uomo in posizione preminente e, in breve, hanno disposto la natura dotata di ragione sopra a quelle che ne sono prive, affermando che proprio per quella natura razionale la provvidenza ha creato ogni cosa. Ha un fondamento logico sostenere che gli esseri razionali, data la loro posizione predominante, mettono al mondo dei figli, e che invece gli esseri privi di ragione o senz’anima si riproducono per moltiplicazione della placenta»); ID., Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 1137, frammento [C.e]343 («Infatti, la ragione, che è il solo elemento che ci pone al di sopra delle bestie, e grazie alla quale sappiamo esprimere giudizi, fare argomentazioni, o confutazioni, o discussioni, oppure trarre conclusioni, è senz’altro in ultima analisi comune: diversa sì per quanto riguarda gli ambiti, ma identica per quanto concerne la capacità di imparare»). Il primo frammento è tratto da Origene (Contra Celsum, IV, 74), il secondo da Cicerone (De legibus, I, X, 30). Altrove, Cicerone attribuisce a Crisippo l’idea secondo cui l’uomo eccella per l’anima (De finibus bonorum et malorum, IV, XI, 28).

53 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 941 ss., frammento [B.f]1152 («Per Zeus, stando a Crisippo si dovrebbe credere che gli dèi hanno creato noi uomini per il proprio vantaggio, e gli animali a beneficio di noi uomini […]»), frammento [B.f]1153 («[…] ogni cosa, ad eccezione del cosmo nel suo complesso, si genera in funzione di un’altra: le messi e i frutti della terra a vantaggio degli animali; gli animali a vantaggio degli uomini: il cavallo per il trasporto, il bue per l’aratura, il cane per la caccia e per far la guardia. L’uomo poi, da parte sua, è nato per contemplare il mondo e per imitarlo…») e frammento [B.f]1155 («[…] riguardo a quegli animali che esistono per l’uso nel complesso non disprezzabile che ne fanno gli uomini e poi a quelli che, pur nella loro diversità, sono al servizio dell’uomo»). Il primo frammento è tratto da Porfirio (De abstinentia, III, 20), il secondo da Cicerone (De natura deorum, II, XIV, 37), il terzo da Origene (Contra Celsum, IV, 54).

54 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 891, frammento [B.f]1041 («Del resto ciò è ammesso in altri passi in cui si sostiene che il mondo è fatto apposta per l’uomo»); ID., Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 933, frammento [B.f]1131 («Qualcuno potrebbe dire: a favore di chi è stato creato il mondo? Ovviamente, per quegli esseri animati che hanno l’uso della ragione; ossia per gli uomini e per gli dèi, di cui certamente nessun essere è superiore, data l’assoluta superiorità della ragione. Così è lecito credere che il mondo con tutte le realtà che contiene sia destinato agli uomini e agli dèi…Dunque, all’inizio il mondo è stato fatto per gli dèi e per gli uomini, sicché tutto quello che vi si trova è destinato ad essere utile all’uomo, e in effetti così risulta essere. Il mondo è infatti in un certo senso una casa e una città condivisa da uomini e da dèi. Essi soli infatti hanno l’uso della ragione e vivono secondo il diritto e la legge»); ID., Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 945, frammento [B.f]1162 («Pertanto, la natura ha messo a disposizione dell’uomo per suo agio e per suo uso una tale quantità di beni, che tutto ciò che nasce sembra un dono appositamente riservato a noi e non frutto del caso: non solo quegli alimenti che le messi e le bacche profondono con la loro crescita, ma anche gli animali domestici: perché è evidente che in certi casi essi sono al servizio dell’uomo, in certi altri gli recano vantaggio, e talvolta servono a lui come cibo. E poi non si contano le arti che la natura ci ha insegnato: anzi, è proprio imitando abilmente la natura che la ragione ha prodotto le risorse necessarie alla vita»). Il primo frammento è tratto da Lattanzio (Divinae institutiones, VII, 3), il secondo e il terzo da Cicerone (rispettivamente dal De natura deorum, II, 133 e 154 e dal De legibus, I, VIII, 25 e 26).

55 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 175.

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ma è Crisippo a darne una compiuta formulazione: egli definisce il dovere un’azione coerente, ragionevole e in linea con gli insegnamenti della ragione56.

In definitiva, la rilevante novità ascrivibile alla dottrina stoica consiste nella sua visione dell’uomo, legata alla centralità della ragione e alla nozione di dovere, di cui solo l’uomo può essere portatore57. In quest’ottica, la dignità è una qualità ontologica che identifica l’uomo in quanto tale. Essa appartiene nello stesso modo a tutti gli individui, che sono allora per natura eguali58. Ciò determina, peraltro, il superamento del concetto di schiavitù, pacificamente ammesso invece da Aristotele59. Queste idee eserciteranno un’influenza determinante sulla filosofia cristiana e su tutto il pensiero successivo.

56 Cfr. R. RADICE (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit.,

1113, frammento [C.e]293 («Il dovere è un atto di vita coerente. La vita virtuosa è un insieme ordinato di azioni ragionevoli, ovvero è la realizzazione perfetta degli insegnamenti della ragione»); ID., Stoici antichi. Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, cit., 1237 ss., frammento [C.e]493 («Affermano anche che il dovere è un atto che gode di una giustificazione razionale, come ad esempio una vita coerente […]. Il primo ad introdurre il nome di dovere fu Zenone, traendolo dall’espressione “avvicinarsi a qualcuno”. Esso è pure un’azione in linea con la costituzione naturale»), frammento [C.e]495 («Il dovere è il risultato di una scelta razionale; come rendere onore ai genitori, ai fratelli, alla patria e frequentare gli amici. Contrario al dovere è ciò che la ragione non farebbe mai: ad esempio disprezzare i genitori, trascurare i fratelli, non venire in aiuto degli amici, disinteressarsi della patria, e simili. Né doveri né non-doveri sono quelle cose che la ragione né sceglierebbe né vieterebbe di fare, come raccogliere un fuscello, possedere uno stilo, o uno strigile o cose analoghe») e frammento [C.e]494 («La definizione del dovere è la seguente: ‘Il principio di coerenza nella vita, e un atto che può essere giustificato razionalmente’. In maniera opposta si definisce ciò che è contrario al dovere»). Il primo frammento è tratto da Clemente Alessandrino (Paedagogus, I, 13), il secondo e il terzo da Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VII, 107 e 108), l’ultimo da Stobeo (Ecloghe, II, 85, 13).

57 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, il quale sottolinea che «Estraneo allo spirito della grecità più antica è l’antropocentrismo che vuole che piante e animali siano stati creati esclusivamente in funzione dell’uomo. Infine col «Tu puoi» originariamente ellenico si fonde, nel concetto stoico di dovere, il «Tu devi», che ora entra per la prima volta nell’etica greca come un autonomo principio costitutivo». E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, trad. it. a cura di G. RUSSO, Torino, 2005, 11, con parole di forte valenza simbolica, descrive così la novità dello Stoicismo: «Va inoltre sottolineato come a partire da qui non fosse più la felicità a rappresentare il prestigio del saggio, che per così dire fa da pioniere agli altri, come per Epicuro, essa non fu più il biglietto di accesso ad una vita in dignità. È invece la felicità a derivare da una vita vissuta in dignità, e per di più non secondo una modalità sensibile e sensuale bensì piuttosto come l’orgoglio dell’esser-uomo. A partire dalla Stoa la dignità si è pertanto e a lungo distaccata dalla felicità, se ne è distaccata con quel passo che è necessario alla lotta».

58 Cfr. P. RIDOLA, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in R. NANIA – P. RIDOLA (a cura di), I diritti costituzionali, II ed., vol. I, Torino, 2006, 25 ss.

59 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 273 s. In Politica, a cura di W.D. ROSS, New York, 1990, I, 1253b ss., Aristotele sostiene che lo schiavo è uno strumento animato, utile per l’amministrazione domestica, e che può definirsi schiavo colui che per natura appartiene ad un altro uomo e che quindi è partecipe della ragione solo limitatamente, senza possederla. Questa “naturale” appartenenza deriva dal fatto che lo schiavo è oggetto di proprietà e si inserisce in una concezione più ampia secondo cui comandare e obbedire sono relazioni necessarie e utili, per cui alcuni uomini sono destinati a comandare ed altri ad obbedire. Per una panoramica sulla schiavitù nel mondo antico, v. J. ANDREAU – R. DESCAT, Gli schiavi nel mondo greco e romano, trad. it. a cura di R. BIUNDO, Bologna, 2009. In proposito, H. BAKER, The image of man. A study of the idea of human dignity in Classical Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, cit., 19 s., ritiene che la giustificazione della schiavitù da parte di Aristotele si spieghi alla luce della concezione, dominante nell’antica Grecia, della società come ordine statico, fondato su gradi gerarchici e ostile ad ogni forma di cambiamento.

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3. La dignitas nell’antica Roma 3.1. La dimensione politica della dignità in Cesare e la polisemia del termine in Cicerone

Assente nel greco antico, il termine dignitas compare per la prima volta nella lingua latina ed è usato prevalentemente in testi letterari e in opere filosofiche60, piuttosto che in testi giuridici61.

Il suo significato è legato principalmente alla sfera pubblica e politica62. In questa prospettiva, la dignità indica il prestigio, il rango sociale, l’onore del singolo o anche dell’intera repubblica. Cesare utilizza il termine dignitas con riferimento alla sua elevata posizione politica63, da cui deriva un ruolo di preminenza nella società e al quale bisogna conformare tutte le proprie azioni64. In quest’accezione sociale, la dignitas è il requisito indispensabile per ricoprire tutte le cariche pubbliche e ciò vale, secondo Cesare, anche per alcuni popoli stranieri65. Essendo legata alle azioni compiute, al proprio onore e, più in generale, alla sfera esterna, la dignitas, non diversamente dall’αξία (axía) dei Greci, può essere diminuita da comportamenti infamanti o viceversa accresciuta da imprese valorose66 ed è un criterio determinante per graduare l’influenza di ciascun cittadino, ma anche l’importanza e l’onore di un popolo alleato o avversario67.

60 Cfr. C. RUIZ MIGUEL, Human Dignity: History of an Idea, cit., 283. 61 Tra questi, possono ricordarsi i passi di Modestino e di Callistrato sulla testimonianza (Iustinianus

Augustus Digesta, XXII, V, 2 e 3). Modestino indica le qualità che devono essere esaminate in un testimone: dignitas, fides, mores, gravitas. Callistrato, citando un rescritto dell’imperatore Adriano, afferma che l’affidabilità di un testimone va desunta dalla sua dignitas e dalla sua existimatio. Sulla dignitas del testimone, v. l’approfondito saggio di J.PH. LEVY, Dignitas, gravitas, auctoritas testium, in AA.VV., Studi in onore di Biondo Biondi, vol. II, Milano, 1965, 27 ss. Per un’ampia disamina degli usi giuridici della parola dignitas, v. M. DE FILIPPI, Dignitas tra repubblica e principato, cit., 85 ss. Come osserva l’Autrice, nei testi giuridici la dignitas indica prevalentemente il grado sociale, non diversamente da quanto accade nelle opere letterarie e filosofiche.

62 Cfr. M. MINKOVA, Spostamento dei concetti politici nel lessico cristiano: dignitas in Boezio, in G. URSO (a cura di), Popolo e potere nel mondo antico. Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004, Pisa, 2005, 251.

63 Cfr. G.G. CESARE, Bellum civile, trad. ingl. a cura di A.G. PESKETT, Cambridge-London, 1990, I, 8, 3. Per tutte le opere latine sono stati utilizzati i volumi della Loeb Classical Library, editi da Harvard University Press, data la completezza della collana. A tali volumi si riferiscono la presente citazione e tutte quelle successive. Nondimeno si è tenuto conto, oltre che della traduzione inglese in essi contenuta, anche, ove disponibile, della traduzione italiana contenuta nei volumi della collana Utet. Nei casi in cui invece la citazione sia tratta da altri volumi, vi è l’indicazione specifica della traduzione usata.

64 Cfr. G.G. CESARE, Bellum gallicum, trad. ingl. a cura di H.J. EDWARDS, Cambridge-London, 1986, IV, 17, 1, in cui Cesare afferma che attraversare il Reno con le navi non era sicuro né conveniente per la sua dignità e per quella del popolo romano.

65 Cfr. G.G. CESARE, Bellum gallicum, cit., VI, 13, 9, che riferisce come il capo dei Druidi fosse scelto in base al suo prestigio sociale e al suo rango.

66 Cfr. G.G. CESARE, Bellum gallicum, cit., VII, 30, 3, in cui si descrive come il prestigio di Vercingentorige crescesse di giorno in giorno; ID., Bellum gallicum, cit., VII, 39, 1, in cui si narra come Cesare avesse elevato Viridomaro dalla sua umile condizione d’origine ad un’altissima dignità.

67 Cfr. G.G. CESARE, Bellum gallicum, cit., VI, 12, 7 e 9: in entrambi i passi si descrive l’importanza degli Edui, la cui autorità era massima tra i popoli della Gallia, seguita da quella dei Remi.

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Riferimento imprescindibile, nell’analisi della dignitas latina, è costituito dalle opere di Cicerone, che rivelano una maggiore complessità semantica del termine, rispetto ai significati rinvenibili nei due commentari di Giulio Cesare68.

Nondimeno, nella maggior parte dei casi la parola dignitas è usata da Cicerone con un significato analogo a quello indicato da Cesare e che può dirsi prevalente nella lingua latina. Di quest’accezione sono state evidenziate due varianti, una morale ed una sociale69.

Nella connotazione morale, la dignitas indica la virtù, la lealtà, la moderazione di un uomo. Essa è accostata al dovere, all’equità, al compimento di azioni rette, oneste e degne di autorità, come quella di esporsi ad ogni tipo di rischio pur di salvare la repubblica, fino al punto di morire per la patria70. Nella medesima ottica, è preferibile una morte dignitosa rispetto ad una vita da schiavo71.

In polemica con gli Epicurei, Cicerone contrappone la dignità e il bene morale (honestum) al piacere72. La dignità, intesa come grandezza morale, induce a dimenticare i propri interessi e a subordinare questi ultimi alla ricerca della virtù e dell’onestà73. In alcuni passi, Cicerone affianca alla dignitas l’honestum e il decus (l’onorabilità), che guidano l’uomo sulla via della moderazione e lo aiutano a lenire ogni dolore74. Anche nel pronunciare un’arringa o un discorso, l’esaltazione della propria dignità è considerata indispensabile per conquistare la benevolenza dell’ascoltatore75. La dignitas costituisce anche il parametro fondamentale cui è agganciata la definizione della giustizia, che consiste nell’attribuire ad ogni cosa ciò che le spetta in proporzione al suo valore (dignitas)76.

68 Cfr. P. BECCHI, Il dibattito sulla dignità umana: tra etica e diritto, in E. FURLAN (a cura di),

Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire dalla Convenzione di Oviedo, Milano, 2009, 115, che attribuisce a Cicerone il merito di aver individuato per primo entrambe le accezioni della dignità, sia quella connessa alla specificità dell’uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi – che l’Autore definisce universalistica –, sia quella derivante dal prestigio del singolo e dalla sua posizione in relazione agli altri consociati – qualificata dall’Autore particolaristica.

69 Cfr. J.PH. LEVY, Dignitas, gravitas, auctoritas testium, cit., 32 s., il quale aggiunge, con una considerazione che può essere estesa anche alla lingua italiana, che «Il en est au reste de même dans la langue française: ne dit-on pas: «avoir de la dignité, l’honneur et la dignité» et, de l’autre point de vue: «les hautes dignités»?».

70 Cfr. M.T. CICERONE, De finibus bonorum et malorum, trad. ingl. a cura di H. RACKHAM, Cambridge-London, 1983, II, XXIII, 76.

71 Cfr. M.T. CICERONE, In M. Antonium oratio philippica tertia, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, XIV, 35 e 36, in cui questa visione è ritenuta caratteristica del popolo romano.

72 Cfr. M.T. CICERONE, De finibus bonorum et malorum, III, I, 1; in senso analogo, ID., De oratore, trad. ingl. a cura di E.W. SUTTON – H. RACKHAM, Cambridge-London, cit., 1988 (libri I e II) e 1992 (libro III), III, XVII, 62, che evidenzia come gli Epicurei facessero dipendere tutto dal piacere. Diversa invece la posizione dei Peripatetici e degli Accademici, sostenitori della tesi della conciliazione del piacere con la virtù (ID., Pro M. Caelio, trad. ingl. a cura di R. GARDNER, Cambridge-London, 1987, XVII, 41).

73 Cfr. M.T. CICERONE, De finibus bonorum et malorum, cit., V, XXII, 64. 74 Cfr. M.T. CICERONE, Tusculanae disputationes, trad. ingl. a cura di J.E. KING, Cambridge-

London, 1989, II, XIII, 31. In Tusculanae disputationes, cit., II, XX, 46, Cicerone aggiunge ai beni indicati anche il merito (laus) e specifica che tutti questi termini in realtà esprimono un unico concetto: che l’uomo deve perseguire ciò che è desiderabile di per sé e che deriva dalla virtù o è insito nella virtù stessa.

75 Cfr. M.T. CICERONE, De partitione oratoria, trad. ingl. a cura di H. RACKHAM, Cambridge-London, 1992, VIII, 28.

76 Cfr. M.T. CICERONE (o CORNIFICIO), Rhetorica ad Herennium, trad. ingl. a cura di H. CAPLAN, Cambridge-London, 1989, III, II, 3 («Iustitia est aequitas ius uni cuique rei tribuens pro dignitate cuiusque»).

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Sul piano pratico, la dignità è un criterio di valutazione dei comportamenti pubblici e privati. La famiglia di Lucio Lucceio è ad esempio definita piena di onestà, di dignità e di coscienziosità, in contrapposizione a quella di Clodia77. Come già accennato, la dignità è determinante nel valutare la credibilità e l’autorevolezza di un testimone78, che può essere messa in dubbio dalle frequentazioni e dalla condotta riprovevole del teste79, dalla sua immoralità80, dalla sua appartenenza a un popolo che si è dimostrato sleale e crudele nei confronti di quello romano81. Analoga dignitas deve possedere chi intenda sostenere un’accusa in giudizio82.

Assai più diffusa nelle opere di Cicerone è l’accezione sociale del termine, in realtà strettamente connessa a quella morale. La variante sociale emerge in maniera chiara in una definizione che Cicerone dà della dignitas: «dignitas est alicuius honesta et cultu et honore et verecundia digna auctoritas»83. La dignità è quindi il «prestigio completo di una persona accompagnata da onore, venerazione, rispetto»84. In una definizione del genere la dignità è ricollegata alla posizione sociale di un cittadino, alla stima di cui gode e alla sua reputazione85.

In alcuni casi, essa fa riferimento ai meriti di una persona86, che non sono legati necessariamente alla nobiltà di stirpe, ma anche e soprattutto alle doti personali e alle

77 Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Caelio, cit., XXII, 55. 78 Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Fonteio, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992,

XIV, 32. 79 Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Caelio, cit., XXVI, 63, in cui vengono ridicolizzati i testimoni di

Clodia, per la frequentazione di quella donna malvagia e per essersi nascosti in un bagno pubblico. 80 Cfr. M.T. CICERONE, In P. Vatinium testem interrogatio, trad. ingl. a cura di R. GARDNER,

Cambridge-London, 1984, I, 1. 81 Cfr. M.T. CICERONE, Pro L. Flacco, trad. ingl. a cura di C. MACDONALD, Cambridge-London,

1989, XXVI, 61, che fa riferimento all’indegnità dei testimoni provenienti dall’Asia. 82 Cfr. M.T. CICERONE, Pro rege Deiotaro, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London,

1992, I, 2, in cui Cicerone depreca la bassezza del medico Fidippo, uno schiavo che aveva accusato il suo padrone (il re Deiotaro).

83 Così M.T. CICERONE, De inventione, trad. ingl. a cura di H.M. HUBBELL, Cambridge-London, 1976, II, LV, 166.

84 Questa è la traduzione proposta in M.T. CICERONE, L’invenzione retorica, trad. it. a cura di A. PACITTI, Milano, 1967, 304.

85 Numerosi sono i riferimenti a tale accezione nelle opere di Cicerone e in quelle di altri autori latini. Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Marcello, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992, IV, 10; ID., Pro Publio Sestio, trad. ingl. a cura di R. GARDNER, Cambridge-London, 1984, XXI, 48 e LVI, 119; ID., In C. Verrem actio prima, trad. ingl. a cura di L.H.G. GREENWOOD, Cambridge-London, 1989, X, 28; ID., Pro C. Rabirio perduellionis reo, trad. ingl. a cura di H. GROSE HODGE, Cambridge-London, 1990, V, 16 e VII, 20; ID., Pro L. Cornelio Balbo, trad. ingl. a cura di R. GARDNER, Cambridge-London, 1987, XXIII, 53; ID., Epistulae ad familiares, trad. ingl. a cura di W. GLYNN WILLIAMS, Cambridge-London, 1990 (libri I-VI), 1983 (libri VII-XII) e 1979 (libri XIII-XVI), I, VI, 2 e IV, III, 2 e ; ID., Pro C. Rabirio Postumo, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992, XVI, 44; ID., Pro Q. Ligario, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992, VI, 18 e 19; ID., In M. Antonium oratio philippica prima, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, XII, 31 e XIV, 34; ID., Epistulae ad Brutum, trad. ingl. a cura di M. CARY, Cambridge-London, 1989, III (II.2) e IX (I.5), 1; C. PLINIO CECILIO SECONDO (PLINIO IL GIOVANE), Epistulae, trad. ingl. a cura di B. RADICE, Cambridge-London, 1989 (libri I-VII) e 1976 (libri VIII-X), VI, XXXI, 4; C. SALLUSTIO CRISPO, Bellum Catilinae, trad. ingl. a cura di J.C. ROLFE, Cambridge-London, 1985, XXXV, 3 e 4; ID., Bellum Iugurthinum, trad. ingl. a cura di J.C. ROLFE, Cambridge-London, 1985, XLI, 5; G. SVETONIO TRANQUILLO, De vita Caesarum, trad. ingl. a cura di J.C. ROLFE, Cambridge-London, 1989 (libri I-IV) e 1992 (libri V-VIII), III, I, 1.

86 Cfr. M.T. CICERONE, De lege agraria oratio secunda contra P. Servilium Rullum tr. pleb. ad populum, trad. ingl. a cura di J.H. FREESE, Cambridge-London, 1984, II, 3; ID., In Q. Caecilium oratio

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attività compiute nel corso della carriera politica o militare. Nel difendere Lucio Licinio Murena, Cicerone, homo novus, sottolinea che l’oscurità dei natali non è determinante nel valutare il prestigio di un uomo; ciò che rileva è la capacità di agire, nella vita pubblica, nell’interesse dello Stato al fine di accrescerne la grandezza. La considerazione dei titoli di merito (cioè della dignitas) è decisiva per stabilire l’idoneità ad una determinata carica e per scegliere tra i diversi candidati87. Così intesa, l’accezione sociale della dignitas sostanzialmente coincide con la sua accezione morale. Ciò rende spesso difficile distinguere i due significati e consente di affermare che, nella maggior parte dei casi, le due varianti non sono altro che due sfumature della medesima concezione88. Esemplare, in tal senso, il passo in cui Cicerone afferma che non può esistere prestigio personale (dignitas) se non dove alberga la nobiltà morale (honestas)89.

Una precisazione si rende a questo punto necessaria. Il concetto di dignità finora descritto non veicola un’idea di eguaglianza o addirittura una forma di egualitarismo, come potrebbe sembrare dalle considerazioni sull’irrilevanza della nobiltà di nascita. Al contrario, Cicerone riconosce il prestigio e l’onore soltanto all’ordine senatoriale e a quello equestre90. La dignitas fonda la disuguaglianza tra i cittadini91. Non a caso, il

quae divinatio dicitur, trad. ingl. a cura di L.H.G. GREENWOOD, Cambridge-London, 1989, XXII, 73; ID., In C. Verrem actio secunda, trad. ingl. a cura di L.H.G. GREENWOOD, Cambridge-London, 1989 (libri I e II) e 1988 (libri III-V), V, XXXII, 84; ID., Pro C. Plancio, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1979, II, 6 e III, 7; ID., De provinciis consularibus, trad. ingl. a cura di R. GARDNER, Cambridge-London, 1987, XVI, 38; ID., In L. Calpurnium Pisonem, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992, XIX, 44; ID., Pro M. Aemilio Scauro, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992, XXII, 45. Questo aspetto è illustrato da T. PISCITELLI CARPINO, Dignitas in Cicerone. Tra semantica e semiologia, in Bollettino di studi latini, 1979, 254 s.

87 Cfr. M.T. CICERONE, Pro L. Murena, trad. ingl. a cura di C. MACDONALD, Cambridge-London, 1989, V, 11; VII, 15 e 16; VIII, 17 e 18.

88 Lo stesso Lévy sostiene che le due categorie sono intrecciate. Cfr. J.PH. LEVY, Dignitas, gravitas, auctoritas testium, cit., 32. Rimarca la complementarità tra aspetto sociale ed aspetto morale L. MAGANZANI, Appunti sul concetto di dignità umana alla luce della casistica giurisprudenziale romana, in Studia et documenta historiae et iuris, 2011, 532.

89 Cfr. M.T. CICERONE, Epistulae ad Atticum, trad. ingl. a cura di E.O. WINSTEDT, Cambridge-London, 1980 (libri I-VI), 1984 (libri VII-XI) e 1987 (libri XII-XVI), VII, XI, 1 («Ubi est autem dignitas nisi ubi honestas?»). Si sofferma su tale profilo M. MINKOVA, Spostamento dei concetti politici nel lessico cristiano: dignitas in Boezio, cit., 249.

90 Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Marcello, cit., V, 13; ID., De domo sua, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1979, XXVIII, 74, in cui l’ordine equestre viene indicato come immediatamente successivo alla dignità senatoria; ID., Pro Sexto Roscio Amerino, trad. ingl. a cura di J.H. FREESE, Cambridge-London, 1984, III, 8; ID., De lege agraria oratio prima contra P. Servilium Rullum tr. pleb. in senatu, trad. ingl. a cura di J.H. FREESE, Cambridge-London, 1984, IX, 27; ID., In C. Verrem actio secunda, cit., III, XLI, 94 e 95, che fa riferimento alla primazia della classe senatoria; ID., Pro A. Cluentio Habito, trad. ingl. a cura di H. GROSE HODGE, Cambridge-London, 1990, LV, 152, in cui i cavalieri sono considerati vicinissimi ai senatori per prestigio sociale; ID., In L. Calpurnium Pisonem, cit., XXVII, 64; ID., In M. Antonium oratio philippica quinta, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, I, 1; ID., In M. Antonium oratio philippica septima, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, V, 14; ID., In M. Antonium oratio philippica duodecima, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, II, 4; ID., Epistulae ad familiares, cit., I, VIII, 3 e 4; ID., Epistulae ad Atticum, cit., I, XVII, 9. Contra G. SVETONIO TRANQUILLO, De vita Caesarum, cit., VIII, IX, 2, che distingue l’ordine senatoriale e quello equestre proprio alla luce della diversa dignitas dell’uno e dell’altro («Atque uti notum esset, utrumque ordinem non tam libertate inter se quam dignitate differre […]»).

91 Cfr. M.T. CICERONE, Pro T. Annio Milone, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1992, VII, 17.

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vocabolo è utilizzato anche per indicare le classi più alte, contrapposte a quelle più basse (gli humiles) e, in relazione a tale distinzione, Cicerone aggiunge che nella lotta tra sillani – le prime – e mariani – le seconde – sarebbe stato scellerato non schierarsi al fianco dei sillani, la cui salvezza avrebbe assicurato allo Stato il prestigio all’interno e l’autorità all’estero92.

Una simile concezione è espressa in termini generali nel De re publica, in cui si afferma che quando tutto si fa per mezzo del popolo l’uguaglianza è ingiusta, poiché non comporta alcuna graduazione della dignità93, come accadeva, secondo l’oratore, nella democrazia ateniese, che non avendo specifiche distinzioni di dignità non era in grado di conservare il proprio decoro. Un concetto analogo è espresso da Plinio il Giovane, quando dice che se vengono meno le distinzioni tra i ceti e i gradi sociali, non c’è nulla di più diseguale di quella presunta eguaglianza94. In virtù di tale significato, Tacito traccia il discrimine tra dignitas e libertas: quest’ultima è un bene comune a tutti, mentre la prima ammette distinzioni tra le varie classi95.

Ne consegue che anche la legge è definita da Cicerone come il vincolo che deve assicurare la posizione sociale di ciascuno in seno allo Stato, oltre ad essere il fondamento della libertà e la fonte della giustizia96, a sua volta descritta come «l’abito mentale che garantisce ad ognuno la sua dignità non disgiunta dall’interesse comune»97. In questa definizione più accentuata è la connotazione sociale rispetto alla definizione in precedenza fornita (v. supra), in cui più marcata sembrava l’accezione morale.

L’identificazione della dignitas con il rango sociale e con l’influenza nella vita pubblica di un cittadino98 è tale che in varie occorrenze la parola indica il prestigio legato ad una carica99 o è direttamente sinonimo di “carica”, “incarico”, “ufficio”100.

92 Cfr. M.T. CICERONE, Pro Sexto Roscio Amerino, cit., XLVII, 136 («Quis enim erat, qui non

videret humilitatem cum dignitate de amplitudine contendere? Quo in certamine perditi civis erat non se ad eos iungere, quibus incolumibus et domi dignitas et foris auctoritas retineretur»).

93 Cfr. M.T. CICERONE, De re publica, trad. ingl. a cura di C.W. KEYES, Cambridge-London, 1988, I, XXVII, 43 («[…] cum omnia per populum geruntur quamvis iustum atque moderatum, tamen ipsa aequabilitas est iniqua, cum habet nullos gradus dignitatis»).

94 Cfr. C. PLINIO CECILIO SECONDO (PLINIO IL GIOVANE), Epistulae, cit., IX, V, 3 («A quo vitio tu longe recessisti, scio, sed temperare mihi non possum quominus laudem similis monenti, quod eum modum tenes ut discrimina ordinum dignitatumque custodias; quae si confusa turbata permixta sunt, nihil est ipsa aequalitate inaequalius»).

95 Cfr. C. TACITO, Annales, trad. ingl. a cura di J. JACKSON, Cambridge-London, 1979 (libri I-III), 1986 (libri IV-XII) e 1991 (libri XIII-XVI), XIII, XXVII, 2 («Non frustra maiores, cum dignitatem ordinum dividerent, libertatem in communi posuisse»).

96 Cfr. M.T. CICERONE, Pro A. Cluentio Habito, cit., LIII, 146 («Hoc enim vinculum est huius dignitatis, qua fruimur in re publica, hoc fundamentum libertatis, hic fons aequitatis»).

97 Così M.T. CICERONE, De inventione, cit., II, LIII, 160 («Iustitia est habitus animi communi utilitate conservata suam cuique tribuens dignitatem»). La traduzione riportata nel testo è tratta da M.T. CICERONE, L’invenzione retorica, cit., 300. Si realizza, così, la saldatura tra diritto naturale e diritto positivo, o meglio la conformità del secondo al primo. Nel descrivere la visione ciceroniana, J.-P. WILS, Fine della “dignità umana” in etica?, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, n. 3/1989, 68, afferma che «In quanto formulano le idee universali sul bene e sul male, quali sono contenute nella natura razionale dell’uomo, le leggi non sono fondate su acquisizioni e applicazioni esterne, ma sono ancorate nella natura stessa: dignità umana e diritto naturale vengono per la prima volta considerati nella loro reciproca funzione di fondamento. La dignitas, come caratterizzazione naturale dell’uomo, e la legge, in quanto sua garanzia incrollabile, non sono quindi attribuzioni arbitrarie: esse provano la forza normativa dell’antropologia del lógos» (corsivi dell’Autore).

98 Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Caelio, cit., II, 3; ID., Pro rege Deiotaro, cit., XV, 42; ID., De domo sua, cit., XVIII, 46; ID., Pro Publio Quinctio, trad. ingl. a cura di J.H. FREESE, Cambridge-London, 1984, VII, 28; ID., Pro Sexto Roscio Amerino, cit., I, 4; ID., Pro A. Cluentio Habito, cit., XLVI, 128; ID., Pro L.

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Tra le ipotesi in cui la dignità fa riferimento alla gloria e al prestigio vanno inoltre menzionate quelle, assai numerose, in cui il termine è associato ai municipi101, alle prefetture102, alle colonie103, alle province104 e soprattutto alla patria o al popolo romano105. In quest’ultimo caso, alla dignitas si accompagnano altri sostantivi volti a rimarcare la grandezza dello Stato: imperium (potere), nomen (nome, reputazione), maiestas (maestà), amplitudo (grandezza), existimatio (fama) e gloria.

Proprio l’accezione sociale risulterà prevalente nel latino medioevale106. Ne è prova la Notitia dignitatum et administrationum omnium tam civilium quam militarium, un documento che si fa risalire al tardo impero romano (IV-V secolo d.C.) e che contiene

Murena, cit., XXIII, 46; ID., Pro P. Sulla, trad. ingl. a cura di C. MACDONALD, Cambridge-London, 1989, I, 1; ID., Pro T. Annio Milone, cit., XIII, 34; ID., In M. Antonium oratio philippica undecima, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, VIII, 19; ID., In M. Antonium oratio philippica tertia decima, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, V, 12; ID., Epistulae ad Familiares, cit., V, IX, 1 e X, VI, 2; Id., Epistulae ad Atticum, cit., I, XVII, 6 e I, XIX, 6; C. TACITO, Historiae, trad. ingl. a cura di C.H. MOORE, Cambridge-London, 1992 (libri I-III) e 1979 (libri IV e V), I, I, 3; ID., Annales, cit., XIV, XLIII, 3; M. FABIO QUINTILIANO, Institutio oratoria, trad. ingl. a cura di H.E. BUTLER, Cambridge-London, 1989 (libri I-III), 1985 (libri IV-VI), 1986 (libri VII-IX) e 1979 (libri X-XII), III, VII, 13.

99 Cfr. M.T. CICERONE, Brutus, trad. ingl. a cura di G.L. HENDRICKSON, Cambridge-London, 1988, I, 1, in cui si fa riferimento al prestigio del collegio degli auguri; ID., In C. Verrem actio secunda, cit., III, XXXVIII, 87, che parla della dignità di propretore; ID., Post reditum in senatu, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1979, VII, 16, che si riferisce alla dignità consolare; ID., In L. Calpurnium Pisonem, cit., XI, 24, in cui si sottolineano la dignità e la grandezza di un console.

100 Cfr. M.T. CICERONE, De domo sua, cit., LI, 130; ID., De oratore, cit., III, II, 7; ID., De lege agraria oratio secunda contra P. Servilium Rullum tr. pleb. ad populum, cit., X, 25; ID., Pro L. Murena, cit., XXXI, 64; ID., In M. Antonium oratio philippica secunda, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, XLI, 105; ID., Epistulae ad familiares, cit., II, IX, 1 e IV, VI, 1; ID., Epistulae ad Quintum fratrem, trad. ingl. a cura di W. GLYNN WILLIAMS, Cambridge-London, 1989, I, I, III, 11 e I, I, VI, 18; G. SVETONIO TRANQUILLO, De vita Caesarum, cit., I, XLI, 2 e VIII, I, 3.

101 Cfr. M.T. CICERONE, Pro A. Cluentio Habito, cit., LXIX, 196, che riguarda il municipio di Larino; ID., Epistulae ad familiares, cit., XIII, VII, 3, in cui si sottolinea la nobiltà del municipio di Atella.

102 Cfr. M.T. CICERONE, Pro M. Aemilio Scauro, cit., XII, 27, che evidenzia l’onore della prefettura di Rieti.

103 Cfr. M.T. CICERONE, In M. Antonium oratio philippica tertia decima, cit., IX, 20, che concerne la colonia di Modena.

104 Cfr. M.T. CICERONE, In C. Verrem actio secunda, cit., II, I, 2 e II, XLV, 111, in cui si parla della nobiltà e del prestigio della Sicilia.

105 Cfr. M.T. CICERONE, Pro L. Flacco, cit., XXXVIII, 94; ID., De partitione oratoria, cit., XXX, 105; ID., Pro M. Marcello, cit., VIII, 24; ID., De domo sua, cit., I, 1 e II, 3; ID., De oratore, cit., I, XLIV, 196 e II, XXXIX, 164; ID., In M. Antonium oratio philippica tertia, cit., VIII, 19; ID., In M. Antonium oratio philippica quinta, cit., XVII, 46; ID., In M. Antonium oratio philippica octava, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, X, 28; ID., In M. Antonium oratio philippica decima, trad. ingl. a cura di W.C.A. KER, Cambridge-London, 1991, III, 7; ID., Pro Sexto Roscio Amerino, cit., XLVII, 136; ID., De lege agraria oratio prima contra P. Servilium Rullum tr. pleb. ad populum, cit., I, 2; ID., De lege agraria oratio secunda contra P. Servilium Rullum tr. pleb. ad populum, cit., XXVIII, 76; ID., In C. Verrem actio secunda, cit., IV, XI, 25 e V, LV, 144; ID., Pro lege Manilia, trad. ingl. a cura di H. GROSE HODGE, Cambridge-London, 1990, IV, 11 e VI, 14; ID., Oratio in L. Catilinam quarta, trad. ingl. a cura di C. MACDONALD, Cambridge-London, 1989, X, 20; ID., Pro L. Murena, cit., I, 1; ID., Post reditum ad Quirites, trad. ingl. a cura di N.H. WATTS, Cambridge-London, 1979, I, 4 e X, 25; ID., In L. Calpurnium Pisonem, cit., XXI, 48; ID., Pro M. Fonteio, cit., VII, 15 e XXI, 49; ID., Epistulae ad familiares, cit., I, VII, 4 e II, V, 2; ID., Epistulae ad Atticum, cit., X, IV, 4.

106 Cfr. U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 17.

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un elenco dettagliato di tutte le cariche (dignitates) civili e militari del tempo107. Anzi, la progressiva identificazione della dignità con la carica ricoperta si accompagnerà al completo distacco del termine dall’originaria accezione morale e dal legame con la virtù, come rileverà Boezio108.

Le opere filosofiche di Cicerone, tuttavia, dimostrano l’esistenza di un diverso modo di intendere la dignità, che si riallaccia alla tradizione dello Stoicismo. Pur nel suo eclettismo, infatti, il pensiero dell’Arpinate è sotto molti aspetti tributario della filosofia stoica. In particolare, l’oratore attenua il rigorismo e l’astrattezza della Stoa, adeguandola ai costumi romani; il suo intento, d’altronde, non è quello di elaborare un compiuto sistema filosofico, ma di introdurre il popolo romano alla pratica della filosofia, vista come una cura dell’anima e come un argine alla corruzione dei costumi109.

Stoica è la concezione ciceroniana dell’eccellenza dell’uomo e della sua superiorità rispetto agli animali. Nel De natura deorum, ad esempio, questa idea non passa attraverso l’utilizzo del termine dignitas, ma esprime comunque una visione antropologica riconducibile all’odierno significato della dignità umana. In proposito, Cicerone afferma che la natura umana supera quella di ogni altro essere vivente, dato che solo l’uomo è in grado di domare tutti gli elementi naturali, di sfruttare ogni vantaggio offerto dalla terra e di realizzare con le sue mani quasi una seconda natura110. La ragione umana è penetrata fino in cielo, nel senso che soltanto l’uomo ha cognizione del sorgere e del tramontare delle stelle, delle eclissi di sole e di luna e ha inventato la divisione in giorni, mesi ed anni111. In un passo del De legibus, Cicerone considera l’ingegno il segno della presenza nell’uomo di un elemento divino112.

La visione illustrata trova un’esaustiva esposizione nel De officiis, in cui per la prima volta la parola dignitas indica quella peculiarità che caratterizza ciascun uomo in quanto tale113. La derivazione stoica dell’opera è confermata dalla forte influenza esercitata dalle teorie di Panezio e di Posidonio sul pensiero dell’oratore romano. Lo

107 Cfr. J.PH. LEVY, Dignitas, gravitas, auctoritas testium, cit., 38 s.; C. RUIZ MIGUEL, Human

Dignity: History of an Idea, cit., 283. 108 Cfr. M. MINKOVA, Spostamento dei concetti politici nel lessico cristiano: dignitas in Boezio, cit.,

253 ss.; U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 18 s.; L. MAGANZANI, Appunti sul concetto di dignità umana alla luce della casistica giurisprudenziale romana, cit., 532 s. In particolare, Boezio evidenzierà sia che le cariche sono di solito esercitate dai peggiori («Ita cum pessimos plerumque dignitatibus fungi dubium non sit […]»), sia che gli onori concessi ai malvagi non valgono a renderli degni, ma al contrario ne mostrano l’indegnità («[…] et collata improbis dignitas non modo non efficit dignos, sed prodit potius et ostentat indignos»). Le citazioni sono tratte da S. BOEZIO, Philosophiae consolatio, a cura di C. MORESCHINI, Torino, 1996, II, VI, 14 e 18.

109 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. I, 560. 110 Cfr. M.T. CICERONE, De natura deorum, trad. ingl. a cura di H. RACKHAM, Cambridge-London,

1979, II, LX, 152. L’idea della superiorità dell’uomo agli altri esseri viventi è espressa anche in ID., De finibus bonorum et malorum, cit., II, XXXIII, 110.

111 Cfr. M.T. CICERONE, De natura deorum, cit., II, LXI, 153. 112 Cfr. M.T. CICERONE, De legibus, trad. ingl. a cura di C.W. KEYES, Cambridge-London, 1988, I,

XXII, 59. 113 Cfr. H. CANCIK, ‘Dignity of Man’ and ‘Persona’ in Stoic Anthropology: Some Remarks on

Cicero, De officiis I, 105-107, cit., 22, il quale precisa che forse il primo pensatore che propose tale concetto fu Panezio di Rodi, nella sua opera sui doveri (Περì καθηκόντων, Perì kathekónton); poiché, però, quest’opera è andata perduta e considerato che una simile idea non può essere espressa in greco antico, deve attribuirsi a Cicerone la prima formulazione di questa accezione della dignità umana.

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stesso Cicerone puntualizza di essersi in gran parte ispirato, nella stesura del suo trattato sui doveri, all’analoga opera di Panezio114.

Secondo Cicerone, l’uomo, che pure condivide molte capacità con altri esseri viventi, o addirittura ne possiede in misura minore (la forza, la velocità, la resistenza), tuttavia si distingue per due particolarità che lo rendono unico e superiore ad ogni altra creatura: la ragione e il linguaggio115. Mentre le bestie reagiscono ai loro impulsi naturali e percepiscono solo il presente, l’uomo, grazie al raziocinio e all’intelligenza, è in grado di indagare le cause dei fenomeni e di connettere il passato al futuro, programmando le proprie azioni e preparando ciò che è necessario per la sua vita. La sua prima attitudine è, quindi, quella di indagare e di ricercare la verità116. In secondo luogo, il linguaggio unisce ogni uomo a tutti gli altri uomini e realizza la sua naturale attitudine alla socialità. Riagganciandosi al pensiero degli Stoici, Cicerone sostiene che «tutte le cose che sono state generate sulla terra sono state create per l’uso degli uomini, mentre gli uomini sono stati generati per gli altri uomini, affinché possano giovarsi gli uni degli altri; in ciò dobbiamo seguire la natura come guida: nel mettere in comune tutto ciò che produce vantaggio, con lo scambio di prestazioni reciproche dovute, dando e ricevendo, sia con le arti, sia con le opere, sia con le ricchezze stringere insieme la società degli uomini tra gli uomini»117.

La natura ha rivestito l’uomo di quattro maschere (personae). La prima, comune a tutti gli esseri umani, consiste nella ragione e rende l’uomo superiore agli animali. Questa superiorità è espressa da Cicerone con i termini dignitas ed excellentia118. Essa impone all’uomo di comportarsi in maniera conforme alla sua natura, cioè di non prestare eccessiva attenzione alla voluptas: è vergognoso vivere nel lusso e perseguire esclusivamente il piacere, come le bestie; è invece morale vivere con abnegazione, temperanza e frugalità119. La ragione indica, pertanto, la via del dovere ed è fonte della moralità120. Meno rilevanti, ai fini della presente indagine, sono le altre tre maschere: la seconda riassume le inclinazioni che la natura imprime in ciascuno di noi; la terza è quella che le circostanze di tempo e di luogo ci assegnano; la quarta è quella che ogni individuo sceglie secondo il proprio giudizio121.

114 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, trad. ingl. a cura di W. MILLER, Cambridge-London, 1990, II,

XVII, 60. In tutta l’opera numerosi sono i richiami alla filosofia stoica: I, XIX, 62; I, XXVI, 90; I, XXVII, 93; I, XL, 142; I, XLV, 159; II, V, 16; II, X, 35; II, XIV, 51; II, XXIV, 86; III, II, 7; III, X, 42.

115 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, XVI, 50. 116 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, IV, 11-14 e I, VI, 18. 117 Così M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, VII, 22 («[…] quae in terris gignantur, ad usum

hominum omnia creari, homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi, communes utilitates in medium adferre, mutatione officiorum, dando accipiendo, tum artibus, tum opera, tum facultatibus devincire hominum inter homines societatem»). La traduzione riportata nel testo è tratta da M.T. CICERONE, De officiis. Quel che è giusto fare, a cura di G. PICONE – R.R. MARCHESE, Torino, 2012, 21. Sull’intrinseca socialità dell’uomo, v. anche L.A. SENECA, De beneficiis, trad. ingl. a cura di J.W. BASORE, Cambridge-London, 1989, IV, XVIII, 2-4; ID., Epistulae morales ad Lucilium, trad. ingl. a cura di R.M. GUMMERE, Cambridge-London, 1989 (libri I-LXV e XCIII-CXXIV) e 1991 (libri LXVI-XCII), XLVIII, 2-3 e XCV, 53.

118 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, XXX, 106. Si noti come gli stessi vocaboli comporranno il titolo della celebre opera dell’umanista fiorentino Giannozzo Manetti, De dignitate et excellentia hominis (su cui v. infra, § 5.2).

119 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, XXX, 105-106 e III, XXXIII, 119. 120 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, XXX, 107. 121 Cfr. M.T. CICERONE, De officiis, cit., I, XXXI, 113-114 e XXXII, 115.

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3.2. La Stoa romana

L’impronta stoica già presente in Cicerone è ancor più netta in Seneca, che più

volte dichiara la propria adesione a questa filosofia122, seppure con un atteggiamento critico che gli consente di trarre spunti anche da altre correnti filosofiche123.

Seneca, non diversamente da Cicerone, pone la ragione al centro della sua concezione antropologica124. L’uomo è un essere animato dotato di ragione125. La ragione appartiene soltanto all’uomo e, se da un lato lo colloca al di sopra degli animali126, dall’altro lo avvicina agli dèi127, con la sola differenza che in questi ultimi la ragione è perfetta, mentre negli uomini è perfettibile128. Il dovere dell’uomo risiede allora nel rifiuto del piacere, che è un bene animalesco129, e nel conseguimento di una ragione perfetta130, unico ed autentico bene con cui si identifica la felicità131.

Tale visione della dignità implica due importanti conseguenze. In primis, l’uomo è considerato un’entità sacra e ciò conduce Seneca a condannare tutte le forme di degradazione dell’uomo e la facilità con cui nella sua epoca un individuo potesse essere ucciso, anche solo per il divertimento del pubblico132. In secundis, l’istituto della schiavitù è oggetto di notevoli critiche, o più correttamente lo è l’atteggiamento con cui i padroni trattavano i loro servi. Seneca riconosce l’umanità dello schiavo e sottolinea la sua partecipazione alla comune natura del genere umano. Dice infatti che «‘Sono schiavi’. Sì, ma sono esseri umani. ‘Sono schiavi’. Sì, ma compagni sotto uno stesso tetto. ‘Sono schiavi’. Sì, ma anche umili amici. ‘Sono schiavi’. Sì, ma condividono con te la schiavitù, se consideri che la Fortuna esercita eguali diritti su entrambe le categorie: su di te e su di loro. Perciò rido di quei tali che ritengono sia uno scandalo cenare con il proprio schiavo»133. In un altro passo della stessa lettera, Seneca chiarisce il concetto con le seguenti parole: «Usami la cortesia di considerare che costui, che chiami tuo schiavo, è nato dalla stessa umana semenza, gode dello stesso cielo, respira esattamente come te, vive né più né meno come te, muore al tuo stesso modo! Puoi vederlo uomo libero come egli ti può vedere servo»134. Ovviamente il filosofo non

122 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., LXXXII, 10 e XCIX, 27. 123 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. II, 60. 124 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XXXVII, 4. 125 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XLI, 8. 126 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., LXXIV, 15-17 e LXXVI, 8-11. 127 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. II, 95. 128 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XCII, 27 e CXXIV, 14. 129 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XCII, 6-7 e CXXIII, 16. 130 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XLIX, 11. 131 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XCII, 2 e CXXIV, 8-14. 132 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XCV, 33. L’allusione è ai giochi

gladiatorî. 133 Così L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XLVII, 1-2 («“Servi sunt”. Immo

homines. “Servi sunt”. Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici. “Servi sunt”. Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos, qui turpe existimant cum servo suo cenare»). La traduzione riportata nel testo è tratta da L.A. SENECA, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. SOLINAS, Milano, 2011, 120.

134 Così L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XLVII, 10 («Vis tu cogitare istum, quem servum tuum vocas, ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! Tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum»). La traduzione riportata nel testo è tratta da L.A. SENECA, Lettere morali a Lucilio, cit., 122.

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intende propugnare l’abolizione della schiavitù135, ma vuole evidenziare che è sbagliato giudicare un uomo dalla sua condizione di libero o di servo e, più in generale, dal rango sociale, perché chiunque può aspirare al bene morale (honestum), ponendosi sulla via del dovere136.

Proprio uno schiavo era un altro maestro stoico, Epitteto, nel cui insegnamento si ritrovano interessanti riflessioni sull’essere umano. Secondo Epitteto, l’uomo si compone di due elementi contrapposti: la ragione, che è un dono divino, e il corpo, che è invece un elemento bestiale, un vincolo137. Solo la ragione e la moralità distinguono l’uomo dagli altri esseri viventi138 e lo rendono un fine in sé, un frammento della divinità139. Per adempiere la propria natura e realizzare la sua umanità, l’uomo deve fuggire i comportamenti sordidi, sconsiderati o che lo degradino ad animale e curare la sua facoltà raziocinante140.

Un cenno merita infine il pensiero di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo. Con lui lo Stoicismo salì al trono imperiale, anche se la necessità di fronteggiare guerre con i nemici, turbolenze politiche interne allo Stato ed epidemie che decimarono la popolazione impedì a Marco Aurelio di riformare l’impero sotto la guida della filosofia a lui cara141. In accordo con la tradizione stoica, egli sottolinea l’eccellenza e la perfezione dell’uomo142, che derivano dalla sua ragione, comune agli uomini e agli dèi143. Tutti gli altri esseri viventi, in quanto privi di ragione, sono inferiori all’uomo e sono stati creati per servirlo144. Poiché fornito di ragione, inoltre, l’uomo può autodeterminarsi e scegliere liberamente il suo ruolo nel corso degli eventi; la necessità invece conduce tutte le altre creature e le subordina agli accadimenti145. Come già sostenuto da Epitteto, l’uomo deve disprezzare il corpo e i piaceri146 e obbedire alla ragione, che gli comanda di prendersi cura di ogni uomo147. Se infatti la ragione unisce tutti gli esseri umani, allora ciascuno deve operare per giovare ai suoi fratelli e per il bene della comunità148.

135 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. II, 82; L. MAGANZANI, Appunti sul concetto di dignità umana alla luce della casistica giurisprudenziale romana, cit., 529 s. Sull’istituto della schiavitù nel diritto romano classico, v. G. RIZZELLI, Lo schiavo romano: immaginario sociale e diritto, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”, 1998-1999, 227 ss., secondo cui «Gli appelli di Seneca a favore degli schiavi costituiscono, in ultima analisi, istanze di razionalizzazione di un sistema che ci si propone di rafforzare». Queste considerazioni valgono per tutta la filosofia stoica, come sottolinea in modo forse troppo ingeneroso E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, cit., 15 s. Lo stesso Autore, peraltro, subito dopo ridimensiona quanto detto in precedenza, affermando che «Nonostante tutto, qui e a partire da qui fece la sua prima comparsa il pathos della dignità umana, secondo la sua figura specificamente giusnaturalistica; alla Stoa, la culla, è dovuto un sentito grazie».

136 Cfr. L.A. SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, cit., XXXI, 11 e XLVII, 16-17; ID., De beneficiis, cit., III, XXVIII, 1 ss.

137 Cfr. EPITTETO, Le diatribe e i frammenti, a cura di R. LAURENTI, Bari, 1960, I, III, 1 ss. e I, IX, 10-15.

138 Cfr. EPITTETO, Le diatribe e i frammenti, cit., I, VI, 12-22 e II, X, 1-3. 139 Cfr. EPITTETO, Le diatribe e i frammenti, cit., II, VIII, 6 e 11. 140 Cfr. EPITTETO, Le diatribe e i frammenti, cit., II, IX, 1-7 e III, I, 25-26. 141 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. II, 28. 142 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, trad. it. a cura di F. CAZZAMINI-MUSSI, Torino, 1968, VIII, 34. 143 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, cit., VI, 35 e VII, 11. 144 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, cit., V, 30 e VI, XXIII. 145 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, cit., X, 28. 146 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, cit., II, 2 e VIII, 19. Netta è la contrapposizione all’Epicureismo. 147 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, cit., II, 16 e III, 4. 148 Cfr. M. AURELIO, I ricordi, cit., V, 16 e IX, 1.

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Sarebbe riduttivo leggere nelle parole di Marco Aurelio una semplice sottolineatura della naturale socialità umana, d’altronde già chiaramente affermata secoli prima da Aristotele149. Si tratta invece di un vero e proprio cosmopolitismo: ogni uomo è cittadino del mondo e deve sentirsi legato, in virtù della comune ragione, a tutti gli altri uomini, verso i quali ha dei doveri150. In proposito, l’imperatore sostiene che «Se l’intelligenza è in noi comune, anche la ragione, per cui siamo ragionevoli, è in noi comune; se questo è vero, è comune anche la ragione che ordina cosa si debba, o non si debba fare. Esiste quindi una legge comune, quindi siamo tutti cittadini, quindi partecipiamo tutti ad una specie di governo, quindi il mondo è come una città; perché, di quale altra forma di Stato comune potremo dire che faccia parte l’umanità intera? Di qui, da questa comune città, derivano per noi l’intelligenza, la ragione, la legge»151.

È ben delineata, nel pensiero degli ultimi autori esaminati, un’idea della dignità umana come sintesi degli elementi che costituiscono e rendono unico l’essere umano152. In questa visione, la dignità, a differenza del concetto veicolato nella maggior parte dei casi dal termine dignitas, si pone non quale parametro di discriminazione tra gli uomini, ma al contrario quale principio che ne fonda l’uguaglianza153. Tale prospettiva è centrale nella dottrina cristiana dell’uomo come imago Dei, che non a caso recupera e rielabora molti aspetti dello Stoicismo154 e che è opportuno analizzare approfonditamente.

4. Il Cristianesimo e la dottrina dell’uomo come imago Dei 4.1. Il punto di partenza: i riferimenti biblici

Il pensiero cristiano domina la speculazione filosofica e teologica che si sviluppa nel periodo che va dal Basso Impero romano fino all’inizio del Rinascimento, coprendo così tutto il Medioevo.

Nel Cristianesimo il concetto di dignità è essenzialmente legato alla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio155. Per una sua esatta comprensione, è

149 V. ARISTOTELE, Politica, cit., I, 1253a, in cui si rileva che l’uomo è l’animale più socievole rispetto ad ogni altro e che per natura deve vivere in una comunità politica.

150 Cfr. M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, cit., vol. II, 153. Sul cosmopolitismo di Marco Aurelio e sui suoi riflessi sulle politiche dell’imperatore, v. G. GILIBERTI, The idea of empire and the stoic cosmopolis in Marcus Aurelius’ meditations, in Studia et documenta historiae et iuris, 2011, 395 ss.

151 Così M. AURELIO, I ricordi, cit., 45 (IV, 4). 152 Cfr. L. MAGANZANI, Appunti sul concetto di dignità umana alla luce della casistica

giurisprudenziale romana, cit., 534 ss., che definisce “orizzontale” una simile concezione della dignità, in contrapposizione alla “dignità verticale”, che sarebbe invece quella riassunta dal termine dignitas nella sua accezione prevalente. L’Autrice aggiunge, peraltro, che la “dignità orizzontale” si riscontrerebbe non soltanto nel pensiero stoico e cristiano, ma anche nella casistica dei giuristi romani.

153 Cfr. E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, cit., 12 e 14. 154 Per un’accurata disamina dell’influenza stoica sul Cristianesimo, v. M. POHLENZ, La Stoa. Storia

di un movimento spirituale, cit., vol. II, 261 ss. 155 Cfr. P. RIDOLA, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale

europea, cit., 83 ss.; P. BECCHI, La dignità umana nella società post-secolare, in Riv. int. fil. dir., 2010, 506; ID., Il dibattito sulla dignità umana: tra etica e diritto, cit., 115; A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, cit., 20 ss.; G.P. FLETCHER, In Search of Absolutes: Human Dignity and its Biblical Roots, in K. SEELMANN (hrsg.), Menschenwürde als Rechtsbegriff. Tagung der

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allora necessario analizzare alcuni passi biblici e soprattutto l’interpretazione che ne hanno fornito i Padri della Chiesa e la Scolastica. Naturalmente, non sarà possibile in questa sede riproporre tutte le sfumature di una riflessione assai complessa, ma si tenterà di coglierne le caratteristiche principali.

Cominciando dai dati biblici, v’è da precisare innanzitutto che nell’Antico Testamento i riferimenti alla concezione dell’imago Dei non sono numerosi; eppure, attorno a questi passi ruota la visione cristiana dell’uomo e della sua dignità156.

Il passo fondamentale, cui tutti gli altri si collegano, è quello riguardante la creazione dell’uomo. Com’è noto, il racconto di tale creazione è contenuto in due passi della Genesi: 1, 26-30 e 2, 5-7157. Solo nel primo l’uomo è definito immagine di Dio e la sua comparsa sulla terra è così descritta: «Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde ». E così avvenne»158.

La visione antropologica sottostante a questo racconto è abbastanza chiara159. L’uomo, legato inscindibilmente a Dio, viene creato dopo tutti gli altri esseri viventi ed

Internationalen Vereinigung für Rechts- und Sozialphilosophie (IVR), Schweitzer Sektion Basel, 25 bis 28. Juni 2003, Stuttgart, 2004, 66; M.G. ARDITA, Dignità dell’uomo, in S. LEONE – S. PRIVITERA (a cura di), Nuovo Dizionario di Bioetica, Roma, 2004, 306; D. RITSCHL, Can Ethical Maxims be Derived from Theological Concepts of Human Dignity?, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 95 s.; M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, in R. BIFULCO – M. CARTABIA – A. CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Bologna, 2001, 39; M. VIDAL, Per una «globalizzazione» della dignità umana, in Rassegna di teologia, 2001, 173 s.

156 Cfr. M. FLICK – Z. ALSZEGHY, L’uomo nella teologia, Modena, 1972, 49, che considerano il tema dell’immagine di Dio «il punto prospettico per la visione cristiana sull’uomo». Molto efficacemente, I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, Roma, 1990, 142, afferma, in relazione ai passi biblici sull’immagine divina, che «il loro numero è inversamente proporzionale all’importanza e alla centralità del tema nell’antropologia teologica». Accenti analoghi si rinvengono in W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo, in J. FEINER – M. LÖHRER (a cura di), Mysterium salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, ed. it. a cura di F. VITTORINO JOANNES, vol. IV (II/2), Brescia, 1970, 539 e in S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, in E. ANCILLI (a cura di), Temi di antropologia teologica, Roma, 1981, 244.

157 Il primo racconto è riconducibile alla c.d. tradizione sacerdotale, il secondo alla c.d. tradizione jahvista. Per una spiegazione di tale distinzione e per un confronto tra i due resoconti della creazione, v. G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, ed. it. a cura di M. BELLINCIONI, vol. I (Teologia delle tradizioni storiche d’Israele), Brescia, 1972, 169 ss.

158 La citazione contenuta nel testo e tutte le successive citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia di Gerusalemme, a cura di M. SCARPA, Bologna, 2009.

159 Difficile è invece stabilire l’origine del racconto e soprattutto i rapporti con i miti delle altre tradizioni orientali. Sul punto, v. W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo, cit., 539; M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Fondamenti di una antropologia teologica, Firenze, 1973, 62; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 146; G. VON RAD, L’uomo immagine di Dio nell’Antico Testamento, in G. FRIEDRICH (a cura di),

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è quindi il vertice o coronamento della creazione160. La conferma di ciò è in primis nella diversa modalità di creazione: tutti gli elementi naturali e le altre specie viventi scaturiscono direttamente dalla parola del Signore; la comparsa dell’uomo è invece preceduta da una deliberazione, cui allude il termine “facciamo”161. La seconda e decisiva riprova consiste nella subordinazione all’uomo di ogni animale. All’uomo, rappresentante di Dio sulla terra, è attribuita una vera e propria signoria sul creato162.

Riflettono la stessa concezione altri due passi biblici, che è opportuno riportare. Il primo è tratto dal Salmo 8, i cui versi 6-9 così recitano: «Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari». Il secondo è tratto dal Siracide (Ecclesiastico) 17, 2-3, in cui si descrivono i doni di Dio agli uomini e si dice che «Egli assegnò loro giorni contati e un tempo definito, dando loro potere su quanto essa contiene. Li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò».

La diversità di natura dell’uomo rispetto ad ogni altro essere vivente comporta anche una pena specifica per l’omicidio, che Dio comunica a Noè con le seguenti parole: «Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uomo» (Genesi 9, 6)163.

Nel Nuovo Testamento, la dottrina dell’imago Dei acquista una connotazione cristologica, come emerge specialmente dalle lettere di San Paolo. Nella Lettera ai Colossesi (1, 15), Paolo afferma che Cristo è «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione». Se Cristo è immagine perfetta di Dio, allora l’uomo non può che essere “immagine dell’immagine” o “secondo l’immagine”164. L’uomo è immagine

Grande lessico del Nuovo Testamento, ed. it. a cura di F. MONTAGNINI – G. SCARPAT – O. SOFFRITTI, vol. III, Brescia, 1967, 166; ID., Teologia dell’Antico Testamento, cit., 172 s.; H. WILDBERGER, Immagine, in E. JENNI – C. WESTERMANN (a cura di), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, ed. it. a cura di G.L. PRATO, vol. II, Casale Monferrato, 1982, 505.

160 Cfr. G. VON RAD, L’uomo immagine di Dio nell’Antico Testamento, cit., 165; ID., Teologia dell’Antico Testamento, cit., 171; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 143.

161 Cfr. G. VON RAD, L’uomo immagine di Dio nell’Antico Testamento, cit., 165; ID., Teologia dell’Antico Testamento, cit., 174; M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Fondamenti di una antropologia teologica, cit., 63, i quali aggiungono un’ulteriore notazione: nel manifestare l’approvazione di Dio per l’opera realizzata, il narratore usa l’espressione “molto buona” (Genesi 1, 31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»), mentre per tutte le altre opere si usa semplicemente la parola “buona”.

162 Cfr. G. VON RAD, L’uomo immagine di Dio nell’Antico Testamento, cit., 170; ID., Teologia dell’Antico Testamento, cit., 176 s.; M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Fondamenti di una antropologia teologica, cit., 63 s.; C. WESTERMANN, Uomo, in E. JENNI – C. WESTERMANN (a cura di), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, cit., vol. I, Torino, 1978, 41; H. WILDBERGER, Immagine, cit., 504; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 145.

163 Cfr. C. WESTERMANN, Uomo, cit., 44, che individua proprio nel passo citato un abbozzo del concetto moderno di dignità umana. Interessanti sono anche le implicazioni normative di Genesi 9, 6 nella legge rabbinica, accuratamente illustrate da Y. LORBERBAUM, Blood and the Image of God: On the Sanctity of Life in Biblical and Early Rabbinic Law, Myth and Ritual, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 55 ss. Sulla dignità umana nell’Ebraismo, v. anche A. MASTROPIETRO, Dignità umana – Parte etica (Ebraismo), in E. SGRECCIA – A. TARANTINO (diretta da), Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, vol. IV, Napoli, 2011, 283 ss.

164 Cfr. H. CROUZEL, Immagine, in A. DI BERARDINO (diretto da), Dizionario patristico e di antichità cristiane, vol. II, Casale Monferrato, 1983, 1758 s.

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imperfetta a causa del peccato165 e può giungere a perfezione solo grazie all’intermediazione di Cristo, la cui morte e risurrezione hanno redento l’umanità166. La mediazione di Cristo ha allora una funzione soteriologica ed escatologica: nell’imitazione di Cristo e nell’unità con lui, l’uomo vede restaurata l’imago Dei, secondo un processo dinamico che si compirà con la resurrezione finale167.

Nello stesso tempo, Paolo introduce un dualismo tra il corpo e la mente, nella misura in cui individua nel primo la propensione al peccato e nella seconda l’aspirazione al bene e alla salvezza. Tale visione è esemplificata dal seguente passo, tratto dalla Lettera ai Romani (7, 25): «Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato»168.

4.2. I Padri della Chiesa Rielaborando i dati finora illustrati, i Padri della Chiesa sviluppano, con una

ricchezza di spunti che non avrà eguali nel pensiero cristiano delle epoche successive, un’ampia riflessione sulla dottrina dell’imago Dei e sulla posizione dell’uomo nel mondo.

Sebbene il pensiero di ogni Padre presenti delle peculiarità, è possibile individuare una duplice tradizione esegetica dei passi biblici citati: da un lato, la tradizione asiatica, i cui massimi esponenti sono Ireneo e Tertulliano169; dall’altro, la tradizione alessandrina, che nasce ad Alessandria nel III secolo d.C. e si diffonde poi in tutto il mondo cristiano fino a prevalere sull’altra tradizione170, e che vede i suoi esponenti principali in Clemente, Origene, Atanasio e Cirillo.

La tradizione asiatica si caratterizza per l’importanza attribuita all’uomo nella sua interezza: l’immagine di Dio risiede non solo nell’anima, ma anche nel corpo, cui bisogna quindi riconoscere pari dignità171.

165 Cfr. la Lettera di San Paolo ai Romani 5, 12: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato».

166 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 250. 167 Cfr. G. KITTEL, L’uomo come immagine di Dio, in G. FRIEDRICH (a cura di), Grande lessico del

Nuovo Testamento, cit., 182; U. LUZ, L’immagine di Dio in Cristo e nell’uomo secondo il Nuovo Testamento, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, n. 10/1969, 103 ss.; W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo, cit., 541 s.; M. FLICK – Z. ALSZEGHY, L’uomo nella teologia, cit., 50; Id., Fondamenti di una antropologia teologica, cit., 64; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 152 s.; J.L. GARRETT, Image of God, in E. FERGUSON (editor), Encyclopedia of Early Christianity, II ed., New York-London, 1998, 560.

168 Numerosi sono i riferimenti alla carne come fonte di corruzione: Lettera ai Romani 7, 14-24; 8, 5-9 e 12-14; 13, 13-14; Lettera ai Galati, 5, 16-24.

169 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 257, il quale precisa che l’espressione “tradizione asiatica” fa riferimento ad un’area culturale, più che geografica, sebbene identificabile prevalentemente con l’Asia minore.

170 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 258. 171 In effetti questa sembra essere l’esegesi più corretta del testo biblico, che non limita l’imago Dei

ad una parte dell’uomo. Sul punto, cfr. W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo, cit., 540; S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 245; lievemente diversa è la posizione di G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, cit., 174, secondo cui l’immagine e la somiglianza «sono riferite all’uomo intero, e non alludono soltanto al suo essere spirituale, ma parimenti, se non addirittura in primo luogo, allo splendore della sua forma

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In polemica con gli gnostici, che contrapponevano l’anima al corpo e ritenevano quest’ultimo fonte di corruzione172, Ireneo di Lione sostiene che «l’uomo diviene a somiglianza di Dio: non una parte dell’uomo. Ora l’anima e lo spirito possono essere una parte dell’uomo, ma non tutto l’uomo. L’uomo perfetto è la mescolanza e l’unione dell’anima che ha ricevuto lo Spirito del Padre, e che è stata mescolata con quella carne che è stata plasmata ad immagine di Dio»173. Ireneo precisa però che vera immagine divina è il Verbo incarnato174; l’uomo è solo un’immagine imperfetta. L’imperfezione è dovuta al peccato originale, che ha offuscato l’immagine, senza tuttavia cancellarla175. Per ristabilire lo splendore dell’imago, l’uomo deve percorrere un cammino di salvezza improntato all’imitazione di Cristo. In tal senso, l’ingresso del peccato nel mondo e la cacciata dal giardino dell’Eden hanno una funzione quasi pedagogica e inseriscono l’uomo in un dinamismo che lo conduce sempre più alla perfezione di Cristo e, per essa, a quella del Padre176. Il miglioramento dell’uomo è possibile perché egli è dotato di libero arbitrio e, come può scegliere il male, così può anche tendere al bene. È proprio questa la cifra riassuntiva dell’uomo e della sua dignità. In proposito, il vescovo di Lione dice che «L’uomo fu fatto libero, arbitro delle sue azioni e con ciò stesso destinato da Dio a comandare su tutte le cose che sono sulla terra»177.

Sulla stessa linea di pensiero si pone Tertulliano178. In maniera ancora più marcata, egli afferma che Cristo è il volto visibile di Dio179 e che l’immagine risiede anzitutto nel fisica». H. WILDBERGER, Immagine, cit., 505, ritiene invece che l’immagine di Dio si riferisca alla partecipazione dell’uomo ai poteri divini.

172 Cfr. A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, ed. it. a cura di E. GIANNARELLI e trad. testi a cura di G. PINI, Milano-Torino, 1991, 21 s.; S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 273; J. DANIELOU, L’uomo a immagine e somiglianza di Dio in Ireneo, in ID., Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Bologna, 1975, 466 e 472; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 161.

173 Così IRENEO DI LIONE, Contro le eresie. Smascheramento e confutazione della falsa gnosi, a cura di A. COSENTINO, Roma, 2009, V, 6, 1.

174 Cfr. R. CANTALAMESSA, Cristo «immagine di Dio». Le tradizioni patristiche su Colossesi I, 15, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 1980, 183; S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 265; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 158.

175 Una conferma dell’incancellabilità dell’immagine può trarsi già dall’Antico Testamento, in particolare da Genesi 5, 1-3: «Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e diede loro il nome di uomo nel giorno in cui furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò un figlio a sua immagine, secondo la sua somiglianza, e lo chiamò Set». Proprio la permanenza dell’immagine consente ad Adamo di trasmetterla a suo figlio Set. In proposito, cfr. G. VON RAD, L’uomo immagine di Dio nell’Antico Testamento, cit., 171; ID., Teologia dell’Antico Testamento, cit., 177; G. KITTEL, La somiglianza fra l’uomo e Dio nell’interpretazione del giudaismo, in G. FRIEDRICH (a cura di), Grande lessico del Nuovo Testamento, cit., 172 s., il quale sottolinea che l’idea della persistenza dell’immagine è comune anche alla teologia rabbinica; W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo, cit., 540 s.; S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 245; R. AMMICHT-QUINN, La dignità di chi è inviolabile? Essere umano, macchina e il dibattito sulla dignità, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, n. 2/2003, 55.

176 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 292 ss.; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 169 s.

177 Così IRENEO DI LIONE, Esposizione della predicazione apostolica, 11, in A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 127 s.

178 Cfr. I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 159; A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 26.

179 Cfr. R. CANTALAMESSA, Cristo «immagine di Dio». Le tradizioni patristiche su Colossesi I, 15, cit., 187 ss.; S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 266 s.

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corpo dell’uomo180. Il teologo di Cartagine sottolinea, inoltre, che il proprium dell’uomo consiste nella sua libertà, come emerge dal seguente passo: «Libero, e dotato di proprio arbitrio e di proprio potere, io trovo che l’uomo è stato creato da Dio, non verificando in esso nessuna immagine e nessuna somiglianza con Dio più valida della conformazione nel medesimo stato»181. La libertà di scelta consente all’uomo di obbedire a Dio, ma anche di rifiutare la sua legge182.

Le idee di Ireneo e di Tertulliano saranno successivamente riprese, tra il IV e il V secolo d.C., dalla scuola antiochena, in particolare da Marcello d’Ancira, Teodoro di Mopsuestia e Nestorio183.

Assai più diffusa nella Patristica è la linea di pensiero riconducibile alla tradizione alessandrina, fortemente influenzata dalla filosofia medio-platonica di Filone184. Uno dei suoi primi esponenti è Clemente di Alessandria.

Clemente sostiene che immagine di Dio è il suo Λόγος (Lógos) e che l’uomo è, a sua volta, immagine dell’immagine185; specifica, però, che l’immagine non è nell’uomo intero, ma nel suo intelletto (νους, nous)186. Distingue, inoltre, tra immagine e somiglianza187: la prima è posseduta dall’uomo sin dalla nascita, mentre la seconda si acquisisce mediante la pratica della virtù188.

Questa visione trova pieno sviluppo e sistemazione in Origene, certamente il pensatore più significativo della tradizione alessandrina. Origene evidenzia innanzitutto che solo l’uomo è imago Dei, a differenza delle altre creature, e che per questo motivo gli è stato conferito il dominio sul mondo189. L’uomo non è, tuttavia, immagine diretta del Creatore, ma immagine di Cristo, che funge da mediatore tra gli uomini e Dio190. Sul modo di concepire l’immagine si registrano le due principali divergenze fra la tradizione alessandrina e quella asiatica. Per Origene, l’immagine non è il Cristo incarnato, ma il Verbo preesistente e invisibile191. In secondo luogo, l’immagine non è

180 Cfr. TERTULLIANO, La resurrezione dei morti, a cura di C. MICAELLI, Roma, 1990, V, 6-9. 181 Così TERTULLIANO, Contro Marcione, II, 5, 5, in ID., Opere scelte, a cura di C. MORESCHINI,

Torino, 1974, 360. 182 Cfr. TERTULLIANO, Contro Marcione, cit., II, 5, 7. 183 Per un esame del pensiero di questi Autori, v. R. CANTALAMESSA, Cristo «immagine di Dio». Le

tradizioni patristiche su Colossesi I, 15, cit., 362 ss. 184 Cfr. W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo,

cit., 543 s.; R. CANTALAMESSA, Cristo «immagine di Dio». Le tradizioni patristiche su Colossesi I, 15, cit., 207 ss.; A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 14.

185 Cfr. J. DANIELOU, Clemente Alessandrino, in ID., Messaggio evangelico e cultura ellenistica, cit., 477 e 482.

186 Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Protreptico ai Greci, a cura di A. PIERI, Alba, 1967, X, 98. 187 Tale distinzione è il risultato di una reinterpretazione del testo biblico da parte di Clemente.

Invero, i termini utilizzati in Genesi 1, 26 per indicare l’immagine (selem) e la somiglianza (demût) devono reputarsi sostanzialmente sinonimi o comunque intercambiabili. Sul punto, cfr. H. WILDBERGER, Immagine, cit., 503; E. JENNI, Essere uguale, in E. JENNI – C. WESTERMANN (a cura di), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, vol. I, cit., 394; F.-J. STENDEBACH, selem, in H.-J. FABRY – H. RINGGREN (a cura di), Grande lessico dell’Antico Testamento, ed. it. a cura di P.G. BORBONE, vol. VII, Brescia, 2007, 691.

188 Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromati. Note di vera filosofia, a cura di G. PINI, Milano, 1985, II, 131, 5.

189 Cfr. ORIGENE, Omelie sulla Genesi, a cura di M. SIMONETTI, Roma, 2002, I, 12. 190 Cfr. ORIGENE, Dal commento alla lettera ai Colossesi, in ID., Esegesi paolina. I testi

frammentari, a cura di F. PIERI, Roma, 2009; ID., Omelie sulla Genesi, cit., I, 13. 191 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 269; R.

CANTALAMESSA, Cristo «immagine di Dio». Le tradizioni patristiche su Colossesi I, 15, cit., 195; I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 159 s.

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nel corpo, ma nell’anima, e in essa risiedono la dignità e l’eccellenza dell’uomo. Con chiarezza Origene afferma che «Quest’uomo per altro, di cui si dice che è fatto a immagine di Dio, non lo intendiamo in quanto corporeo, perché non è la figura del corpo che contiene l’immagine di Dio […]. Questo, invece, che è stato fatto a immagine di Dio, è il nostro uomo interiore invisibile incorporeo incorruttibile immortale: in tali aspetti infatti si vede più convenientemente l’immagine di Dio»192.

Un elemento accomuna le due tradizioni esegetiche: l’inserimento dell’uomo nella storia della salvezza e la visione dinamica del suo perfezionamento. Nell’alessandrino, quest’idea passa attraverso la distinzione tra immagine e somiglianza, che viene così spiegata: «E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza; ed ha aggiunto: E Dio fece l’uomo: lo fece a immagine di Dio, li fece maschio e femmina e li benedisse. Il fatto che ha detto: Lo fece a immagine di Dio, e ha taciuto della somiglianza indica che l’uomo sin dalla prima creazione ha ottenuto la dignità dell’immagine, mentre la perfezione della somiglianza gli è stata riservata per la fine, nel senso che egli la deve conseguire, imitando Dio con la propria operosità; così, essendogli stata concessa all’inizio la possibilità della perfezione per mezzo della dignità dell’immagine, egli può alla fine realizzare la perfetta somiglianza per mezzo delle opere»193.

Temi analoghi si riscontrano in Lattanzio, Padre latino che si sofferma sul dualismo tra corpo e spirito e sulla subordinazione del primo al secondo194, nonché negli altri esponenti più significativi della tradizione alessandrina: Atanasio, Ilario di Poitiers195 e Cirillo di Alessandria. Più specificamente, Atanasio riprende l’idea dell’uomo immagine dell’immagine196. Oltre ad evidenziare questo punto197, Ilario sottolinea anche che l’imago è nell’anima e non nella carne198. Cirillo ritiene che la peculiarità dell’uomo consista nella sua razionalità e nella sua capacità di autodeterminarsi199.

La diffusione dei concetti esaminati è confermata dalla loro elaborazione anche da parte di alcuni Padri occidentali, tra cui Ambrogio, vescovo di Milano, che enfatizza la grandezza dell’anima in quanto portatrice dell’immagine divina e, di conseguenza, dell’uomo in quanto gloria di Dio200, e Girolamo, la cui riflessione si collega per alcuni versi alla speculazione di Ilario e per altri a quella di Ambrogio201.

192 Così ORIGENE, Omelie sulla Genesi, cit., I, 13. 193 Così ORIGENE, I principi, a cura di M. SIMONETTI, Torino, 1968, III, 6, 1 (corsivi dell’Autore). 194 Cfr. LATTANZIO, Le istituzioni divine, 7, 5, in A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di

Dio, cit., 146 ss. 195 Padre latino, il cui pensiero è però pienamente assimilabile a quello degli alessandrini. 196 Cfr. ATANASIO, Discorso contro i pagani, 2, in A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di

Dio, cit., 179 s.; ID., Trattati contro gli Ariani, a cura di P. PODOLAK, Roma, 2003, II, 59, 5. 197 Cfr. ILARIO DI POITIERS, Commento ai Salmi. Sul Salmo 118, a cura di A. ORAZZO, Roma, 2006,

10, 7. 198 Cfr. ILARIO DI POITIERS, Commento ai Salmi. Sul Salmo 129, a cura di A. ORAZZO, Roma, 2006,

4-6. In proposito, è interessante l’osservazione di S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 277 s., secondo cui Ilario, in un primo momento, accentua l’importanza del corpo. Dopo l’esilio, invece, il contatto con il pensiero orientale lo induce ad esaltare la centralità dello spirito.

199 Cfr. CIRILLO DI ALESSANDRIA, Glaphyria sulla Genesi, 1, 2, in A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 265 s.; ID., La soluzione dei dogmi, 368-369, in A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 274.

200 Cfr. AMBROGIO, Esamerone, a cura di G. BANTERLE, Roma, 1979, VI giorno, IX sermone, 8, 44-50.

201 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 278, 290 e 302.

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All’interno della tradizione alessandrina, un cenno particolare meritano i Padri cappadoci, i quali offrono una sintesi dei temi illustrati con alcuni spunti di originalità.

Basilio di Cesarea esprime la dignità umana con le seguenti parole: «Grande cosa è l’uomo, e degno di onore è l’uomo misericordioso; egli trae motivo di onore dalla stessa sua costituzione fisica. Quale altro essere terreno è fatto a immagine del suo Creatore? A chi è stato elargito il dominio e il primo posto sugli esseri terrestri, acquatici e dell’aria? Egli è di poco inferiore agli Angeli in onore […]»202. Oltre a collegare esplicitamente la dignità dell’uomo alla sua creazione ad immagine di Dio, Basilio distingue tra l’immagine, che l’uomo possiede in virtù della sua razionalità, e la somiglianza, che consiste nella piena assimilazione al Creatore e che va conquistata mediante una vita all’insegna del Vangelo203.

Ancor più rilevante è il pensiero di Gregorio di Nissa, definito il «teologo per eccellenza dell’uomo immagine e somiglianza»204. Innanzitutto, egli prende le distanze dalla filosofia greca e dalla sua visione dell’uomo come microcosmo, con una riflessione che ci consente di tracciare una linea di demarcazione tra il pensiero greco sulla dignità e quello cristiano, che pure sotto altri aspetti è tributario del primo. Gregorio si scaglia contro i filosofi pagani, i quali «hanno detto […] che l’uomo è un microcosmo composto degli stessi elementi del tutto e con questo splendore del nome hanno voluto fare l’elogio della natura dimenticando che in tal modo rendevano l’uomo simile ai caratteri propri della zanzara e del topo»205. A questa concezione viene contrapposta quella cristiana: «Ma in che cosa consiste, secondo la Chiesa, la grandezza dell’uomo? Non nella somiglianza con il cosmo, ma nell’essere ad immagine del Creatore della nostra natura»206.

Nell’illustrare la dottrina dell’imago Dei, il Nisseno ripropone la dicotomia tra corpo e anima. Il corpo non è oggetto di disprezzo, come in altri Padri della Chiesa207; anzi la statura eretta, che solo l’uomo possiede a differenza degli animali, è considerata un simbolo della sua potenza e della sua dignità208. Nello stesso tempo, però, Gregorio non ha dubbi sul fatto che l’anima sia portatrice dell’imago Dei; essa, infatti, «mostra dal di dentro ciò che è regale e sublime, di molto separata dalla privata povertà, e poiché è senza padrone e in suo arbitrio si comporta con padronanza di sé»209. In altre parole, il contenuto dell’immagine si identifica con la libertà umana210. La libertà consente però all’uomo di allontanarsi da Dio e di volgersi al peccato. Il peccato originale ha offuscato l’immagine, ma non l’ha cancellata; pertanto l’uomo può scegliere di “tornare” a Dio, mediante un processo di catarsi che purifichi l’anima211.

202 Così BASILIO DI CESAREA, Omelia sul salmo 48, 14, in ID., Omelie sui salmi, a cura di A. REGALDO RACCONE, Alba, 1965, 264.

203 Cfr. BASILIO DI CESAREA, L’origine dell’uomo. Omelie, 1, 15-18, in A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 208 ss.

204 Così A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 49. 205 Così GREGORIO DI NISSA, L’uomo (De hominis opificio), a cura di B. SALMONA, Roma, 1982,

16. 206 Così GREGORIO DI NISSA, L’uomo (De hominis opificio), cit., 16. 207 Cfr. R.C. DALES, A medieval view of human dignity, in Journal of the history of ideas, 1977, 560,

che però forse sopravvaluta il ruolo del corpo nella teoria di Gregorio, considerata nel suo complesso. 208 Cfr. GREGORIO DI NISSA, L’uomo (De hominis opificio), cit., 8. 209 Così GREGORIO DI NISSA, L’uomo (De hominis opificio), cit., 4. 210 Cfr. S. RAPONI, Il tema dell’immagine-somiglianza nell’antropologia dei Padri, cit., 328. 211 Cfr. J.T. MUCKLE, The Doctrine of St. Gregory of Nyssa on Man as the Image of God, in

Mediaeval Studies, 1945, 83.

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4.3. Da Agostino di Ippona alla Scolastica medioevale

Tra i Padri della Chiesa, un’attenzione specifica merita Agostino di Ippona, il cui

pensiero, che influenzerà profondamente la visione medioevale della dignità umana212, non è pienamente riconducibile alla classificazione delle due tradizioni esegetiche proposta in precedenza.

In Agostino la dottrina dell’imago Dei è oggetto di una dettagliata esposizione213. Secondo il vescovo di Ippona, l’immagine non può essere trovata nell’esteriorità dell’uomo, poiché essa è solo un vestigio della Trinità214. Più precisamente, dato che soltanto l’uomo, a differenza di ogni altra specie vivente, è stato creato ad immagine di Dio, tale immagine non può risiedere nel corpo, che l’uomo ha in comune con gli animali215. L’imago deve allora essere cercata in un elemento che contraddistingua l’essere umano nella sua unicità: la sua anima razionale ed intelligente216. Se l’uomo è stato creato ad immagine della Trinità217, allora pure l’anima è trinitaria, infatti in essa Agostino individua la triade memoria-intelligenza-volontà (o amore)218.

Quella descritta finora è la visione statica dell’immagine e va integrata con la sua dimensione soteriologica, che le imprime un intrinseco dinamismo. Il vescovo di Ippona, come altri Padri della Chiesa, ritiene che il peccato originale abbia oscurato e deturpato l’immagine, senza però cancellarla. La caduta dell’uomo nelle mani del diavolo lo ha reso mortale, ma non ha potuto eliminare la traccia indelebile di Dio presente in lui219. L’uomo può rinnovare l’immagine separandosi dalle cose temporali e dedicandosi a quelle eterne, cioè alla contemplazione di Dio220. Grazie a questo percorso di avvicinamento alla divinità, l’anima, che già all’origine era capax Dei, diviene particeps Dei221.

Il tema della dignità umana caratterizza anche la speculazione degli ultimi Padri della Chiesa; tra questi, si possono ricordare Papa Leone I, che esalta la grandezza

212 Cfr. W. SEIBEL, L’uomo come immagine soprannaturale di Dio e lo stato originale dell’uomo,

cit., 545 e 547; A.G. HAMMAN, L’uomo immagine somigliante di Dio, cit., 64. 213 Cfr. G. BORTOLASO, Teologia dell’immagine in Sant’Agostino e San Tommaso, in La civiltà

cattolica, vol. III, quad. 2813, 1967, 372. 214 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, trad. it. a cura di G. BESCHIN, Roma, 1973, XI, 1, 1 e XI, 5,

8. 215 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XII, 1, 1. 216 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XII, 7, 12 e XIV, 4, 6. 217 Proprio l’utilizzo del plurale in Genesi 1, 26 («Facciamo l’uomo a nostra immagine e

somiglianza») confermerebbe, secondo Agostino, che l’uomo è stato creato ad immagine del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XIV, 19, 25. In realtà, l’uso del plurale sembra alludere ad una sorta di consultazione tra Dio e la sua corte celeste. Questa è l’interpretazione suggerita da G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, cit., 175; H. WILDBERGER, Immagine, cit., 503 s.; F.-J. STENDEBACH, selem, cit., 691.

218 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XIV, 6, 8 e XV, 3, 5. 219 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XII, 8, 13 ss. e XIV, 4, 6. In proposito, M.T. CLARK,

Immagine, dottrina della, in A.D. FITZGERALD (ed.), Agostino. Dizionario enciclopedico, ed. it. a cura di L. ALICI – A. PIERETTI, Roma, 2007, 823, rileva un mutamento nel pensiero di Agostino, che inizialmente sostiene la perdita dell’immagine a causa del peccato originale; successivamente, nell’ambito della disputa contro i pelagiani, afferma la permanenza dell’imago.

220 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XIV, 17, 23 ss. 221 Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, La trinità, cit., XIV, 8, 11.

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dell’uomo222; Papa Gregorio I, secondo cui l’uomo è un essere intermedio tra gli animali e gli angeli223; e il Venerabile Beda, che celebra sia il corpo che lo spirito dell’uomo224.

Nel Medioevo, numerosi pensatori si interrogano sulla natura dell’uomo e sulla sua dignità, soprattutto sul rapporto tra anima e corpo, sulla differenza tra l’uomo e le altre creature e sul problema del libero arbitrio. Tali questioni sono oggetto di riflessione per Giovanni Scoto Eriugena, Onorio di Autun, Ugo di San Vittore, Guglielmo di Saint-Thierry, Alano di Lilla225.

Tra i vari esponenti della Scolastica226, certamente ha un rilievo particolare Tommaso d’Aquino, uno dei maggiori rappresentanti della teologia medioevale. Per Tommaso, l’uomo si distingue dalle altre specie viventi ed è il coronamento della creazione227, perché è un essere dotato di ragione228, e questa peculiarità consente di riconoscergli il titolo di “persona”, cioè di soggetto costituito in dignità229. Anche la libertà di scelta è fondata sulla ragione230. È naturale, allora, che l’immagine di Dio sia impressa nell’anima razionale dell’uomo, nella sua mente, che lo rende superiore alle altre creature231. Il medesimo divario esiste tra l’intelletto e le altre parti del corpo umano: solo il primo è imago Dei, mentre il resto del corpo è un semplice vestigio dell’immagine232.

Come Agostino233, il Doctor Angelicus interpreta l’immagine in senso trinitario234. Sul punto, Tommaso afferma che «l’immagine di Dio nell’uomo si può considerare sotto tre aspetti. Primo, in quanto l’uomo ha un’attitudine naturale a conoscere e ad amare Dio: e questa attitudine consiste nella natura stessa della mente, che è comune a tutti gli uomini. Secondo, in quanto l’uomo conosce e ama Dio in maniera attuale o abituale, però non in modo perfetto: e questa è l’immagine dovuta alla conformità della

222 Cfr. LEONE MAGNO, Il mistero del Natale (Sermoni), a cura di A. VALERIANI, Alba, 1972, settimo discorso (XXVII), IV, 6, che così parla dell’uomo: «Destati, o uomo, e riconosci la dignità della tua natura. Ricordati che sei stato fatto a immagine di Dio; e se tale somiglianza è stata deformata in Adamo, è stata pure restaurata in Cristo. Perciò usa delle creature visibili nel modo che si devono usare».

223 Cfr. G. PENCO, S. Gregorio e la teologia dell’immagine, in Benedictina. Fascicoli di studi benedettini, 1971, 37.

224 Cfr. E. GARIN, La “dignitas hominis” e la letteratura patristica, in La Rinascita: Rivista del Centro nazionale di Studi sul Rinascimento, 1938, 137.

225 Per una sintesi del pensiero degli Autori citati, v. E. GARIN, La “dignitas hominis” e la letteratura patristica, cit., 137 ss.

226 Per un esame più approfondito della filosofia scolastica, v. P. KONDYLIS, Würde. II. ‘Dignitas’ in der mittelalterlichen Theologie, in O. BRUNNER – W. CONZE – R. KOSELLECK, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, cit., 645 ss.; S. SCHAEDE, Würde – Eine ideengeschichtliche Annäherung aus theologischer Perspektive, in P. BAHR – H.M. HEINIG (hrsg.), Menschenwürde in der säkularen Verfassungsordnung. Rechtswissenschaftliche und theologische Perspektiven, Tübingen, 2006, 37 ss.

227 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, trad. it. a cura dei Domenicani italiani, vol. VI, Sancasciano, 1965, I, q. 93, proemio.

228 Cfr. A. RAMOS, The Dignity of Man and Human Action, in Acta philosophica, n. 2/2001, 315. 229 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, cit., vol. III, 1966, I, q. 29, art. 3, co. e ad 2. In

proposito, M.A. CATTANEO, Persona e Stato di diritto. “Discorsi alla Nazione Europea”, Torino, 1994, 28 s., sottolinea come tale concezione risalga a Boezio.

230 Cfr. S. VANNI ROVIGHI, L’antropologia filosofica di San Tommaso d’Aquino, Milano, 1972, 79. 231 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, cit., I, q. 93, art. 2, co. e art. 7, ad 1. 232 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, cit., I, q. 93, art. 6, co. e ad 3. 233 Sui rapporti tra il pensiero dell’Aquinate e quello di Agostino, v. J. WAWRYKOW, Tommaso

d’Aquino, in A.D. FITZGERALD (ed.), Agostino. Dizionario enciclopedico, cit., 1387 ss. 234 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, cit., I, q. 93, art. 5 co. e art. 9, arg. 3.

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grazia. Terzo, in quanto l’uomo conosce e ama Dio in maniera attuale e perfetta: e questa è l’immagine secondo la somiglianza della gloria»235. I tre gradi dell’imago indicano un cammino di perfezionamento dell’uomo236, poiché tutti gli uomini possiedono l’immagine per natura, i giusti la possiedono secondo la grazia, i beati secondo la gloria, e in tale ultimo stadio si realizza la piena unione con Dio237.

4.4. Un quadro d’insieme della dignità umana nella dottrina cristiana All’esito di questo excursus sul concetto di dignità nel Cristianesimo, è possibile

formulare alcune osservazioni di carattere generale. Un primo rilievo riguarda la peculiare concezione della dignità propugnata dalla

dottrina cristiana. Essendo legata alla creazione dell’uomo ad immagine di Dio, essa non può che essere riconosciuta a tutti gli uomini238. In quanto qualità ontologica, la dignità fonda l’uguaglianza fra gli uomini239. A questo aspetto statico si aggiunge un elemento dinamico, rappresentato dall’ingresso del peccato nel mondo e dal conseguente offuscamento dell’immagine, che impone all’uomo di purificarsi e di “avvicinarsi” a Dio. Anche in tal caso, si badi bene, la salvezza non è riservata solo ad alcuni; è promessa a tutti, indipendentemente dalla posizione economica, sociale e politica. Ciò che conta, ai fini della redenzione, è esclusivamente la fede. Tale notazione conduce a una seconda riflessione.

La valorizzazione del piano morale e spirituale rende completamente trascurabile la concretezza esistenziale del singolo individuo. Non diversamente dagli Stoici, i Cristiani non si pongono in contrasto con le istituzioni del tempo240. Anzi, esse non

235 Così TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, cit., I, q. 93, art. 4, co. Commentando questo

passo, J. PELIKAN, Imago Dei: An Explication of Summa theologiae, Part I, Question 93, in A. PAREL (a cura di), Calgary Aquinas Studies, Toronto, 1978, 39, fa notare che la reale distinzione sussisterebbe tra natura e grazia, mentre la distinzione tra grazia e gloria sarebbe meramente quantitativa.

236 Cfr. C. RUIZ MIGUEL, Human Dignity: History of an Idea, cit., 286, secondo cui la dignità non è per Tommaso una qualità data, un’affermazione ontologica, ma qualcosa che deve essere conquistato e può essere addirittura perduto.

237 Cfr. L. GORMALLY, La dignità umana: il punto di vista cristiano e quello laicista, in www.academiavita.org.

238 Cfr. K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, trad. it. a cura di G. COLLI, II ed., Torino, 1969, 515.

239 Cfr. M. NOVAK, Dignità umana, libertà personale, in Biblioteca della libertà, n. 143, 1998, 14, secondo cui «Seguendo in questo l’ebraismo, il cristianesimo rese la dignità umana un concetto di portata universale»; A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, trad. it. a cura di M. D’ALESSANDRO, Firenze, 1977, 8; J. ROBERT, The principle of human dignity, in EUROPEAN COMMISSION FOR DEMOCRACY THROUGH LAW (VENICE COMMISSION), The principle of respect for human dignity. Proceedings of the UniDem Seminar organised in Montpellier, France, from 2 to 6 July 1998, cit., 31. Una diversa interpretazione della visione stoica e cristiana della dignità e del concetto di eguaglianza che da essa deriva è fornita da J. WALDRON, How Law Protects Dignity, in The Cambridge Law Journal, 2012, 212 s., secondo cui lo Stoicismo e il Cristianesimo non determinerebbero un abbandono della nozione gerarchica di dignitas, legata al rango sociale, ma estenderebbero a tutti gli uomini l’idea dell’appartenenza al rango più alto, in base a un processo di livellamento verso l’alto. Tutti gli uomini sarebbero allora uguali non in quanto tali, ma perché partecipi del più elevato grado di dignitas concepibile.

240 Cfr. E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, cit., 33, il quale sostiene che «il diritto naturale medioevale, quello teologico, non incrinò l’ordine legale del suo tempo, o anzi lo incrinò ancor meno; nonostante le varie tensioni, la Chiesa e lo stato stavano sotto la stessa coperta». Simile è l’affermazione di L. HOGAN – J. D’ARCY MAY, Costruire l’umano. La dignità nel dialogo interreligioso, in Concilium.

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sono messe in discussione neanche sul piano teorico. Il messaggio cristiano, d’altronde, non mira al cambiamento delle istituzioni sociali e politiche esistenti241. Lo testimonia la posizione rispetto alla questione della schiavitù. Nella lettera a lui rivolta, San Paolo esorta Filemone ad accogliere nuovamente con sé e a non punire uno schiavo fuggitivo, ma non esprime alcun giudizio sull’istituto della schiavitù242. Anche nella Lettera ai Colossesi (3, 22-25) Paolo invita gli schiavi ad essere docili con i loro padroni e a servirli di buon grado. La spiegazione di un simile atteggiamento è fornita dallo stesso Paolo, quando dice che «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Lettera ai Galati 3, 26-29)243. L’uguaglianza davanti a Dio fa apparire inutile il superamento delle disuguaglianze sociali e politiche244.

Parzialmente diversa è la posizione di Tommaso d’Aquino, che considera la schiavitù un istituto di diritto positivo, che comunque non può pregiudicare alcuni diritti naturali. In generale, egli non contesta la schiavitù, ma sotto certi aspetti ne propone una mitigazione, in una prospettiva che è stata definita «cautamente progressista ma insufficientemente radicale»245.

L’ultima considerazione concerne la visione complessiva dell’uomo nel pensiero cristiano. Se, da un lato, l’uomo è un essere eccellente perché creato ad immagine e somiglianza di Dio; dall’altro, la sua dignità è intrinsecamente legata al suo Creatore e, al di fuori di questo rapporto, non può esistere. Non a caso, Tommaso precisa che «l’immagine di Dio è presente nell’anima in quanto questa ha Dio per oggetto»246. L’uomo è interlocutore di Dio ed è indissolubilmente legato a lui247. Non si tratta, però, di un rapporto accidentale o derivante dalla volontà umana; al contrario, è una relazione

Rivista internazionale di teologia, n. 2/2003, 106, secondo cui «ogni enunciazione dell’insegnamento filosofico e simbolico del cristianesimo sulla dignità umana dev’essere moderato dal riconoscimento che nel corso dei secoli le chiese cristiane sono anche state complici dell’istituzionalizzazione di varie forme di oppressione». Sul tema più ampio del rapporto ambivalente tra Cristianesimo e diritti umani, v. M. VENTURA, Cristianesimo e diritti umani, in M. FLORES (diretto da), Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Dizionario, vol. I, Torino, 2007, 244 ss.; M. FLORES, Storia dei diritti umani, Bologna, 2008, 24 s.

241 Cfr. J. ANDREAU – R. DESCAT, Gli schiavi nel mondo greco e romano, cit., 218 ss.; U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 21. Assai critica la posizione di E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, cit., 22 s., il quale, nel valutare il giusnaturalismo di matrice cristiana, che egli definisce “diritto naturale relativo”, afferma che quest’ultimo «rimase di molto dietro a quello della Stoa: esso sanzionò persino la schiavitù, sanzionò soprattutto l’autorità e la sua spada. Infatti la caduta di Adamo fece sì che il diritto naturale assumesse la nuova forma della punizione e di mezzo salvifico contro il peccato, legittimati dal peccato originale».

242 Cfr. G. RIZZELLI, Lo schiavo romano: immaginario sociale e diritto, cit., 238 s. 243 Un concetto analogo è espresso nella Prima Lettera ai Corinzi 12, 13. 244 Sull’atteggiamento ambivalente del Cristianesimo rispetto alle disuguaglianze, v. G. ZANETTI,

Eguaglianza, in A. BARBERA (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo. Lineamenti di filosofia del diritto costituzionale, VII ed., Roma-Bari, 2005, 50 s.

245 Così J. FINNIS, Aquinas. Moral, Political, and Legal Theory, Oxford, 1998, 175 («mildly liberal but insufficiently radical»).

246 Così TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, cit., I, q. 93, art. 8, co. 247 Cfr. N.M. LOSS, La dignità dell’uomo nella dottrina biblica, in G. CONCETTI (a cura di), I diritti

umani. Dottrina e prassi, Roma, 1982, 42 ss.

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necessaria, senza la quale non è possibile concepire l’uomo né la sua dignità248. Come è stato efficacemente detto, «L’uomo come tale non può essere caratterizzato né compreso, se la sua esistenza non è posta di fronte a Dio»249.

Partendo da questo paradigma, il Rinascimento darà inizio ad un processo di secolarizzazione del concetto di dignità umana, spostando l’attenzione sull’uomo e attenuando il legame con la divinità250.

5. La deificazione dell’uomo nell’Umanesimo rinascimentale 5.1. Le nuove idee del pensiero umanistico

Con il Rinascimento251, il paradigma cristiano della dignità umana subisce rilevanti trasformazioni e comincia a delinearsi una visione dell’uomo meno trascendente e soprattutto incentrata sulle sue attività mondane, piuttosto che sul suo rapporto con Dio. Naturalmente non si può parlare di una cesura netta rispetto al pensiero medioevale e cristiano252. Anzi, le argomentazioni degli autori rinascimentali sono profondamente influenzate dalla dottrina cristiana253. Eppure gli elementi di novità sono numerosi e consentono di affermare che con il Rinascimento «l’insistenza sull’uomo e la sua dignità diventi più duratura, esclusiva e in definitiva più sistematica di quanto era avvenuto durante i secoli precedenti e anche nell’antichità classica»254.

248 Cfr. I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana. Per un’antropologia a misura d’uomo, cit., 178

s. 249 Così C. WESTERMANN, Uomo, cit., 44, il quale aggiunge che «Anche questa dignità l’uomo non

l’ha da sé: essa è fondata sul fatto che Dio si prende cura di lui». Una tesi simile è sostenuta, con riferimento alla religione ebraica, da G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, ed. it. a cura di F. RONCHI, vol. II (Teologia delle tradizioni profetiche d’Israele), Brescia, 1974, 419.

250 Cfr. E. GARIN, La “dignitas hominis” e la letteratura patristica, cit., 146; E. CASSIRER, La posizione del Ficino nella storia del pensiero, in ID., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, saggi raccolti a cura di P.O. KRISTELLER, Firenze, 1967, 35 ss.; P. RIDOLA, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale europea, cit., 87 s.; C. RUIZ MIGUEL, Human Dignity: History of an Idea, cit., 289.

251 Per un’agile sintesi dei caratteri del Rinascimento, v. E. GARIN, L’uomo del Rinascimento, in ID. (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Roma-Bari, 2005, 1 ss.

252 Cfr. E. GARIN, Umanesimo e pensiero medioevale, in Rinascimento, 2006, 16 s.; H. BAKER, The image of man. A study of the idea of human dignity in Classical Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, cit., 203.

253 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, vol. 2, London, 1970, 763, secondo cui la prospettiva religiosa e quella laica sono inseparabili nel pensiero degli umanisti rinascimentali. In senso analogo, C. STARK, The Religious and Philosophical Background of Human Dignity and its Place in Modern Constitutions, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 182.

254 Così P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, in ID., Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, Firenze, 1978, 9. Ancor più netta è la posizione di K. BURDACH, Sull’origine dell’Umanesimo, in ID., Riforma – Rinascimento – Umanesimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, trad. it. a cura di D. CANTIMORI, Firenze, 1935, 97, a parere del quale «L’Umanesimo, il Rinascimento, han salvato i popoli del Medioevo da flutti selvaggi, che trascinavano all’autoannichilamento dell’Uomo. Questo è il loro eterno merito storico. La loro opera consiste in quella trasformazione dei delirii del sentimento religioso, che ne fece una forza affermatrice della vita da negatrice che erano. In quella trasformazione sta il punto di distacco delle epoche, qui si cela il mistero del sorgere dell’Umanismo e del Rinascimento, che noi possiamo solo intuire, ma non investigare».

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Questa nuova concezione dell’uomo si deve principalmente all’Umanesimo, la corrente iniziale e forse più importante del Rinascimento255. L’Umanesimo unisce alla riscoperta dei classici quella dell’uomo, che viene posto al centro di ogni discorso256. Si celebrano la potenza, il dinamismo e la versatilità dell’uomo, la sua capacità di modificare il mondo e di eguagliare Dio nell’attività creatrice257. Ne consegue anche un’esaltazione della libertà, che consente a ciascuno di modellare la propria natura e di decidere il proprio destino258. Accanto alla deificazione dell’uomo in quanto tale, vi è la scoperta del singolo individuo e del suo ingegno259. Nel complesso, si può parlare di un’immagine più laica dell’uomo260: sebbene nel pensiero degli umanisti sia ancora forte l’influsso della dottrina dell’imago Dei, come dimostrano i continui riferimenti agli scritti dei Padri della Chiesa, adesso Dio rimane sullo sfondo e l’interesse si concentra sull’uomo, che è considerato un dio mortale261.

Ovviamente la glorificazione dell’uomo non caratterizza tutti i pensatori rinascimentali. Emblematico è il caso di Montaigne, che così parla dell’uomo: «Consideriamo dunque per ora l’uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento del suo essere. Vediamo quanto egli possa resistere in questo bello stato. Che egli mi faccia capire con la forza del suo ragionamento su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla?»262.

255 Cfr. P.O. KRISTELLER, The place of classical Humanism in Renaissance thought, in ID., Studies

in Renaissance thought and letters, Roma, 1956, 12 s.; E. GARIN, Interpretazioni del Rinascimento, in ID., Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Roma-Bari, 2005, 88, che definisce l’Umanesimo «la parola più profonda di tutto il Rinascimento». Per una compiuta analisi del termine “Umanesimo” e dei suoi rapporti con il Rinascimento, v. K. BURDACH, Sull’origine dell’Umanesimo, cit., 80 ss.

256 Cfr. P.O. KRISTELLER, The philosophy of man in the Italian Renaissance, in ID., Studies in Renaissance thought and letters, cit., 261 ss.

257 Cfr. A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, cit., 12 ss. 258 Cfr. A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, cit., 656. 259 Cfr. P.O. KRISTELLER, Philosophical movements of the Renaissance, in ID., Studies in

Renaissance thought and letters, cit., 25; E. CASSIRER, L’originalità del Rinascimento, in ID., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., 8 s.; J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it. a cura di D. VALBUSA, Roma, 1994, 113, il quale specifica che nel Medioevo «l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di cui quasi interamente viveva la vita. L’Italia è la prima a squarciare questo velo e a considerare lo Stato e tutte le cose terrene da un punto di vista oggettivo; ma al tempo stesso si risveglia potente nell’italiano il sentimento di sé e del suo valore personale o soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo, e come tale si afferma» (corsivi dell’Autore).

260 Cfr. P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, cit., 4. 261 Tale concetto, di derivazione ciceroniana, è ripreso da Giannozzo Manetti nella sua opera De

dignitate et excellentia hominis. Sul punto, v. G. GENTILE, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, in ID., Il pensiero italiano del Rinascimento, III ed., Firenze, 2003, 112 s.

262 Così M. DE MONTAIGNE, Apologia di Raymond Sebond, in ID., Saggi, a cura di F. GARAVINI, vol. I, Milano, 1970, 580.

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In qualche modo, la grandezza e la miseria dell’uomo sono idee complementari e la prevalenza accordata ora all’una ora all’altra dipende spesso dall’inclinazione del singolo pensatore e soprattutto dal contesto in cui la sua riflessione matura263. Nondimeno, «che l’uomo si dimostri “grande” o “piccino”, resta pur sempre quell’essere relativamente autonomo che progetta il proprio destino, lotta contro il fato e plasma la propria esistenza»264.

Tra i primi fautori della nuova immagine dell’uomo, possono menzionarsi Francesco Petrarca, Coluccio Salutati e Lorenzo Valla.

Come riferisce in una sua lettera, Petrarca “scopre” l’importanza dell’uomo e della sua anima durante una salita sul Mont Ventoux, quando, giunto ormai sulla vetta, decide di leggere un brano tratto dalle Confessioni di Agostino, che ha portato con sé. Aprendo il libro a caso, la sua attenzione cade sul seguente passo: «E gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le vaste correnti dei fiumi, l’estensione dell’Oceano, le orbite degli astri, ma poi trascurano sé stessi […]»265. Dopo aver letto tali parole, così Petrarca descrive il suo atteggiamento: «Stupii, lo confesso; e detto a mio fratello, il quale desiderava ascoltare ancora, che non mi disturbasse, chiusi il libro, adirato contro me stesso per quella mia ammirazione delle cose terrene, quando da un pezzo avrei dovuto imparare anche dai filosofi pagani che niente è degno d’ammirazione fuorché l’anima, per la quale nulla è troppo grande»266. Nel pensiero di Petrarca la dignità umana ha ancora un fondamento religioso e l’uomo può salvarsi solo grazie a Dio, di cui anche la virtù è un dono267.

Non dissimile è la posizione di Coluccio Salutati, che unisce alla prospettiva umanistica le istanze teologiche della Scolastica del 1300268. Per Salutati, la volontà è l’elemento centrale dell’anima e su di essa si basa la dignità umana. Più precisamente, la dignità consiste nella libertà di volere e di agire, che a sua volta deriva dalla creazione dell’uomo ad immagine di Dio e che distingue l’uomo dalla natura inanimata269.

L’elemento religioso è ancor più evidente nel pensiero di Lorenzo Valla. L’umanista sottolinea che tutto è stato creato per l’uomo, il quale si eleva al di sopra degli animali; ma ciò è possibile solo per effetto della volontà divina270. Anzi, l’uomo, per onorare i doni che gli sono stati concessi con la creazione, ha l’obbligo di rifiutare i beni mondani e di innalzarsi verso cose superiori. Ciò può avvenire solo grazie alla fede, che trasforma ogni individuo in un uomo nuovo. In sintesi, se per natura l’uomo è

263 Cfr. P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, cit., 25 s. Non è casuale che Montaigne scriva in

una Francia devastata dalle guerre di religione. 264 Così A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, cit., 27. 265 Così AGOSTINO DI IPPONA, Confessioni, trad. it. a cura di G. CHIARINI, vol. IV, Milano, 1996, X,

VIII, 15. 266 Così F. PETRARCA, Le familiari, in ID., Prose, a cura di G. MARTELLOTTI – P.G. RICCI – E.

CARRARA – E. BIANCHI, Milano-Napoli, 1955, 841. La valenza simbolica dell’episodio è rimarcata da P.O. KRISTELLER, The philosophy of man in the Italian Renaissance, cit., 264 s.

267 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, cit., vol. 1, 45.

268 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, cit., vol. 1, 51.

269 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, cit., vol. 1, 80.

270 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, cit., vol. 1, 125.

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un animale, mediante l’azione divina egli diventa un dio e può modificare la realtà che lo circonda271.

Il nuovo concetto di dignità umana trova espressione soprattutto in tre autori, che meritano un’attenzione specifica: Giannozzo Manetti, Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola.

5.2. Giannozzo Manetti e l’eccellenza umana

L’umanista fiorentino Giannozzo Manetti celebra la grandezza dell’uomo nella sua opera De dignitate et excellentia hominis, scritta nel 1452. Manetti fu spinto a scrivere questo saggio dal re Alfonso d’Aragona, che in precedenza aveva affidato un compito analogo a Bartolomeo Facio (o Fazio). La dissertazione di Facio, intitolata De excellentia ac praestantia hominis, aveva però deluso il sovrano perché tutta concentrata sui doni divini dell’anima e sulla beatitudine celeste cui è destinato l’uomo272.

L’opera di Manetti realizza invece una sintesi originale tra l’immagine cristiana e quella rinascimentale dell’uomo273. Anzi, in molti punti la sua prospettiva è chiaramente secolare e anticipatrice delle riflessioni di Pico della Mirandola274.

Lo scritto di Manetti è articolato in quattro libri. Il primo libro è dedicato alla dimostrazione della perfezione del corpo umano, supportata da ampie citazioni tratte da Cicerone e da Lattanzio. Tale perfezione è simboleggiata innanzitutto dalla statura eretta dell’uomo275; essa riguarda poi ogni singola parte del corpo umano. Speciale rilevanza hanno le mani, che sono il segno tangibile della versatilità e della capacità umana di intervenire sul mondo276. In definitiva, non esiste una creatura più bella dell’uomo e non è un caso – fa notare Manetti – che gli antichi ritraessero gli dèi ad immagine dell’uomo e che i Greci lo definissero un microcosmo277.

Nel secondo libro l’umanista si occupa dell’anima, sostenendone la natura divina; Dio, infatti, ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli ha conferito un’anima dotata di ragione, di immortalità, di intelligenza, di memoria e di volontà, così che l’uomo potesse eccellere sugli animali e dominarli278. A questa affermazione segue una serie di argomenti addotti a favore della tesi dell’immortalità dell’anima279: l’uso del fuoco, caratteristico degli esseri umani; l’istintiva cura della vita e la preoccupazione per le generazioni future; l’aspirazione di ogni individuo alla felicità e il desiderio

271 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist

Thought, cit., vol. 1, 150 ss. 272 Cfr. E. GARIN, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-Bari, 2004,

72 s.; G. GENTILE, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, cit., 90 ss. La vicenda è narrata da Vespasiano da Bisticci.

273 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, cit., vol. 1, 231.

274 Cfr. G. GENTILE, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, cit., 92 s.; E. CASSIRER, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, trad. it. a cura di F. FEDERICI, Firenze, 1974, 135.

275 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, ed. a cura di E.R. LEONARD, Padova, 1975, 5 s.

276 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 24. 277 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 30. 278 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 47. 279 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 47 ss.

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innato di superare i limiti della propria condizione mortale. Se, infine, l’anima perisse col corpo, Dio sarebbe ingiusto, perché non potrebbe ricompensare i giusti e punire i malvagi. Manetti ricorda poi che la sua tesi è confermata da numerosi passi biblici, dalla testimonianza dei martiri, dagli scritti dei Padri della Chiesa, ma anche e soprattutto dalle opere dell’uomo, come la navigazione di Giasone e degli Argonauti, le piramidi egizie, l’arca di Noè, le costruzioni architettoniche di Brunelleschi, i dipinti di Giotto, le sculture di Prassitele, di Fidia e di Policleto. Non bisogna dimenticare neanche l’ingegno dei poeti, degli storici, degli oratori, dei giuristi, dei filosofi e soprattutto degli astronomi e dei teologi.

Nel terzo libro si evidenzia come tutto il mondo sia stato creato per l’uomo e come tutto sia stato posto sotto il dominio umano. Particolarmente importante è il passo in cui Manetti desume l’eccellenza dell’uomo dalle sue creazioni: «Nostra namque, hoc est humana, sunt quoniam ab hominibus effecta cernuntur: omnes domus, omnia opida, omnes urbes, omnia denique orbis terrarum edificia, que nimirum tanta et talia sunt, ut potius angelorum quam hominum opera ob magnam quandam eorum excellentiam iure censeri debeant […]. Nostra denique sunt omnia machinamenta, que admirabilis et pene incredibilis humani vel divini potius ingenii acies et acrimonia singulari quadam ac precipua solertia moliri fabricarique constituit»280. Ecco allora che l’uomo non è più solo creatura, ma anche creatore e ciò lo rende, come già detto, una sorta di dio mortale.

Nell’ultimo libro Manetti, partendo dalle argomentazioni esposte nei libri precedenti, confuta la tesi della miseria della condizione umana, sostenuta soprattutto da papa Innocenzo III nel suo De miseria humanae vitae. Innocenzo aveva considerato l’uomo un essere meschino, a causa della sua mortalità, della fragilità del suo corpo e della debolezza della sua anima.

La confutazione dell’umanista fiorentino è puntuale. Per quanto riguarda la mortalità, Manetti rievoca le opinioni dei dottori della Chiesa, secondo cui l’uomo è stato creato immortale e la sua mortalità è dovuta al peccato originale: se Adamo non avesse peccato, sarebbe vissuto in eterno nel giardino dell’Eden. In generale, tutti i mali che affliggono l’uomo non derivano dalla sua natura, ma dal peccato originale281.

È vero che il corpo dell’uomo è debole, perché esposto a malattie e ad ogni sorta di disgrazia; ma questo corpo, così debole, è il ricettacolo dell’anima. Come racconta la Genesi, l’uomo è tratto dal fango, ma le altre creature sono inanimate e appena dotate di senso; l’uomo può invece parlare, pensare e agire. L’umanista aggiunge poi che se tutto ciò che è stato creato è buono, come dice la Scrittura, a maggior ragione lo è l’uomo, l’opera più perfetta di Dio. A conferma della sua tesi Manetti cita un passo di Agostino: «Come infatti l’essere dotato di sensazione, anche quando soffre, è più perfetto della pietra che non può assolutamente soffrire, così la creatura ragionevole, anche se infelice, è più nobile di quella che è priva di pensiero e di sensazione ed è quindi incapace di infelicità»282.

Sulla debolezza dell’anima, Manetti risponde richiamando quanto ha sostenuto nel secondo libro, citando ulteriori passi tratti da Cicerone e ricordando che anche quando Socrate e Catone hanno disprezzato la vita a causa delle calamità cui è continuamente esposta, lo hanno fatto confidando nell’immortalità dell’anima283.

280 Così G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 77 s. 281 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 113. 282 Così AGOSTINO DI IPPONA, La città di Dio, trad. it. a cura di D. GENTILI, vol. II (Libri XI-XVIII),

Roma, 1988, XII, 1, 3. 283 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 123.

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Manetti si sofferma infine su alcune specifiche affermazioni di Innocenzo III: quella secondo cui la miseria dell’uomo è dimostrata dal fatto che egli nasca nudo e indifeso; quella secondo cui le piante producono fiori, frutti e profumi, mentre l’uomo solo fetori, escrementi e pidocchi; quella secondo cui la vita umana è troppo breve. Al primo argomento l’umanista risponde che l’uomo nasce nudo perché la sua bellezza non ha bisogno di essere nascosta; al secondo che il paragone proposto dal pontefice è assurdo, perché avrebbe dovuto prendere in considerazione il prodotto proprio dell’uomo e cioè le molteplici opere del suo ingegno; al terzo che la vita umana non è né troppo lunga né troppo breve, ma ha una durata adeguata ai compiti che ciascuno è chiamato a svolgere nell’esistenza terrena. In altri termini, tutte le ragioni addotte a sostegno della tesi della fragilità umana si rivelano, se esaminate con più attenzione, insignificanti, inconsistenti e infondate284.

In conclusione, il nucleo centrale dell’opera di Manetti sta nell’esaltazione delle opere dell’uomo. Il dinamismo umano si contrappone alla staticità della natura, che viene continuamente modificata e quasi ricreata dall’uomo grazie alle sue capacità285. L’uomo, sovrapponendo la sua creazione a quella originaria, determina la sua storia286.

È chiaro come l’umanista, pur attingendo agli autori classici e ancor di più a quelli cristiani, sia interessato prevalentemente alle attività mondane dell’uomo, che costituiscono il prodotto e il segno tangibile della sua ragione e della sua libertà287. Come è stato detto, secondo Manetti «L’uomo […] non ha il suo fine in Dio, ma in se stesso»288.

5.3. L’immortalità dell’anima in Marsilio Ficino A differenza di Manetti, Marsilio Ficino si concentra sul fondamento religioso

della dignità umana. Non è un caso che la sua opera principale si intitoli Teologia platonica. Il tentativo di Ficino è quello di costruire una teologia cristiana basata sulla filosofia platonica289. Ciò nonostante, l’opera dell’umanista si inserisce a pieno titolo nel processo di secolarizzazione che caratterizza il Rinascimento e può essere definita una sorta di reinterpretazione filosofica del Cristianesimo290. Quanto detto trova conferma proprio nella visione dell’uomo proposta da Ficino.

L’intera Teologia platonica è dedicata alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima. L’uomo si distingue da ogni altra creatura proprio grazie all’anima e in essa risiede la sua dignità. Anzi, l’uomo si identifica con la sua anima291. L’anima è stata

284 Cfr. G. MANETTI, De dignitate et excellentia hominis, cit., 116. 285 Cfr. E. CASSIRER, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, cit., 135. 286 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist

Thought, cit., vol. 1, 247. 287 Cfr. P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, cit., 12; E. GARIN, L’umanesimo italiano. Filosofia

e vita civile nel Rinascimento, cit., 74. 288 Così G. GENTILE, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, cit., 113. 289 Cfr. E. VITALE, Saggio introduttivo, in M. FICINO, Teologia platonica, trad. it. a cura di E.

VITALE, Milano, 2011, XII. 290 Cfr. A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, cit., 108 s., secondo cui «A questo punto non si tratta

più della secolarizzazione dei singoli problemi contenuti nella filosofia del Cristianesimo, ma della secolarizzazione del Cristianesimo stesso: nel momento in cui la teologia si trasforma in filosofia, il Cristianesimo diventa una questione filosofica secolare» (corsivo dell’Autrice).

291 Cfr. P.O. KRISTELLER, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze, 1953, 355.

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creata da Dio a sua immagine e somiglianza e conserva in sé la potenza del suo creatore, perciò è immortale292.

Nella gerarchia delle essenze, l’anima si colloca ad un livello intermedio: al di sotto di Dio e degli angeli, ma al di sopra della qualità e del corpo293. La sua eccellenza deriva, oltre che dalla partecipazione alla potenza divina, dalla capacità di collegare le cose terrene e quelle celesti. Come dice Ficino, «la terza essenza intermedia è tale da volgersi alle realtà superiori, senza allontanarsi da quelle inferiori, e così in essa le une si connettono alle altre»294. La posizione ricoperta determina la peculiare grandezza dell’anima umana, la quale «deve restare unita alle realtà divine e simultaneamente riempire quelle mortali. Mentre è unita alle prime, essa conosce, perché si unisce ad esse spiritualmente e l’unione spirituale genera la conoscenza. Mentre riempie i corpi, che muove dall’interno, li vivifica. È dunque lo specchio delle realtà divine, la vita di quelle mortali ed il nesso di entrambe»295. Ciò influisce naturalmente sul ruolo dell’uomo nell’universo: egli è nodo o imeneo del mondo, che tiene insieme e raccoglie in sé ciò che è superiore e ciò che è inferiore296. In breve, il primo aspetto della dignità umana consiste nella centralità e nell’universalità dell’uomo297.

Il secondo aspetto, strettamente collegato a quello precedente, concerne la tendenza dell’uomo a indiarsi. Mentre gli animali sono guidati dalla legge del fato, l’uomo è libero e, grazie al suo ingegno, può emulare la natura298. L’uomo si governa da sé ed è in grado di usare tutti gli elementi e di dominare tutte le bestie; non si dedica solo ai bisogni del corpo, ma anche ai piaceri e alle arti299. L’uomo non è solo l’immagine di Dio. Aspira ad esistere in eterno, perciò mira ad acquistare fama tra gli uomini e desidera l’immortalità300. Non è mai pago della sua condizione terrena, i cui limiti vuole costantemente superare301. Proprio qui sta la novità rispetto alla dottrina cristiana e nel contempo la secolarizzazione del concetto di dignità: l’uomo non si accontenta più di essere simile a Dio, ma vuole essere un dio302.

Tale prospettiva è mitigata in Ficino dal contesto cristiano in cui è inserita la nuova visione dell’uomo. Anche per Ficino, come per molti autori cristiani, il fine ultimo dell’uomo è la contemplazione di Dio303 e l’unione con lui tramite l’amore304. La conclusione del ragionamento nulla toglie, però, alla sua originalità e alla sua consonanza con i nuovi motivi dell’Umanesimo.

A uno sguardo d’insieme, si può sostenere che il pensiero di Ficino, diversamente da quello di Manetti, insista soprattutto sul significato cosmico dell’uomo e sulla sua

292 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 873 e 903. 293 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 225. 294 Così M. FICINO, Teologia platonica, cit., 227. 295 Così M. FICINO, Teologia platonica, cit., 229. 296 Cfr. E. GARIN, Immagini e simboli in Marsilio Ficino, in ID., Medioevo e Rinascimento. Studi e

ricerche, cit., 285. 297 Cfr. P.O. KRISTELLER, Ficino and Pomponazzi on the place of man in the universe, in ID.,

Studies in Renaissance thought and letters, cit., 285; ID., La dignità dell’uomo, cit., 14. 298 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 1225. 299 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 1227 ss. 300 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 1311 ss. 301 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 1331. 302 Cfr. C. TRINKAUS, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist

Thought, cit., vol. 2, 476. 303 Cfr. M. FICINO, Teologia platonica, cit., 1285. 304 Cfr. P.O. KRISTELLER, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, cit., 293 s.

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aspirazione ad essere un dio, piuttosto che sulle sue opere terrene305. Questo accento riflette però anche le mutate condizioni storiche e politiche che fanno da sfondo all’opera di Ficino. L’Umanesimo della fine del 1400 si caratterizza per una spiccata tendenza all’evasione dal mondo e il platonismo rappresenta lo sbocco naturale di tale propensione306. L’ascesa dei principi, che proteggono i letterati e i filosofi, modifica il ruolo dell’intellettuale, che diventa un cortigiano, proprio come Marsilio Ficino, che rappresenta la prima grande figura di filosofo di corte307. Il maggior interesse per la contemplazione non sminuisce comunque il valore della celebrazione dell’uomo che l’umanista realizza nella sua Teologia platonica.

5.4. L’Oratio di Giovanni Pico della Mirandola L’Oratio de hominis dignitate rappresenta il vero e proprio emblema della nuova

concezione dell’uomo308. All’inizio dell’opera Pico, citando fonti arabe e l’Asclepius di Ermete Trismegisto, afferma che non c’è nulla di più mirabile dell’uomo. Subito aggiunge, però, che le spiegazioni tradizionali circa l’eccellenza dell’uomo sono insoddisfacenti e non rendono ragione dell’ammirazione e dell’invidia che verso l’uomo nutrono non solo i bruti, ma anche le intelligenze celesti. Insufficiente risulta soprattutto la descrizione dell’essere umano come copula o imeneo del mondo. In quest’osservazione già si nota un superamento dell’eredità di Ficino.

Secondo Pico, la giustificazione della dignità umana va ricercata altrove; bisogna risalire al momento della creazione, quando Dio, attribuite tutte le qualità alle altre creature, decise quali doni conferire all’uomo. In un passo fondamentale per la comprensione del pensiero di Pico (e che è opportuno quindi citare per intero), la creazione dell’uomo è così descritta: «Stabilì infine l’ottimo artefice che a colui cui non si poteva dare nulla di proprio fosse comune quanto apparteneva ai singoli esseri. Prese perciò l’uomo, opera dall’immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: “Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare, affinché tu avessi e possedessi, come desideri e come senti, la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. La natura degli altri esseri, una volta definita, è costretta entro le leggi da noi dettate. Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, a decidere su di essa. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente, guardandoti attorno, osservare quanto è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai

305 Cfr. E. GARIN, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, cit., 74. 306 Cfr. E. GARIN, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, cit., 94. 307 Cfr. E. GARIN, Immagini e simboli in Marsilio Ficino, cit., 270. 308 Come precisa P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, cit., 14 s., originariamente il titolo

dell’opera non faceva riferimento alla dignità umana. L’espressione fu aggiunta in seguito dall’editore e rispecchia la prima parte del discorso. Sulle diverse redazioni del discorso e sulle vicende che hanno condotto Pico della Mirandola a comporlo, v. P.C. BORI, Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, testo latino, versione italiana e apparato testuale a cura di S. MARCHIGNOLI, Milano, 2000, 11 ss. Il volume contiene il testo integrale dell’Oratio e una sua traduzione in italiano, cui si attingerà nel prosieguo della trattazione.

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prescelto. Potrai degenerare negli esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini”»309.

Dal brano citato emerge innanzitutto che l’uomo ha in sé qualcosa di comune ad ogni altro essere vivente. Ciò appare con maggiore chiarezza quando Pico, poco dopo, dice che «Nell’uomo nascente il Padre infuse semi di ogni tipo e germi d’ogni specie di vita. Quelli che ciascuno coltiverà, in lui cresceranno e daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensuali, abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà»310. È il tema dell’universalità dell’uomo, già illustrato da Ficino e a sua volta influenzato dall’idea dell’uomo come microcosmo311. Nello stesso tempo, però, Pico va oltre tale visione. Egli sostiene che l’uomo non si risolve nei suoi elementi costitutivi. La vera caratteristica dell’uomo consiste nel non avere una natura predefinita; solo l’uomo, grazie al suo libero arbitrio, può decidere cosa diventerà, plasmando sé stesso. Mentre tutti gli altri esseri viventi sono avvinti alla legge della necessità, il regno umano è il regno della libertà, in cui l’uomo determina con la sua volontà la sua storia312. Egli non ha più un posto fisso al centro della gerarchia universale, come sostiene Ficino; è al di fuori della gerarchia, libero di scegliere la sua natura313. Proprio per questo motivo Pico definisce l’uomo un camaleonte314.

Una prospettiva del genere segna un elemento di novità rispetto alla dogmatica medioevale. Tale novità sta nell’ammirazione per la mutevolezza dell’uomo. L’instabilità e l’irrequietezza che inducono l’individuo a cambiare continuamente, fino a quel momento valutati negativamente e considerati un indice della precarietà dell’uomo, diventano adesso un segno della sua essenza e della sua eccellenza315.

Questa posizione ha due corollari. Il primo è quello dell’inversione del rapporto convenzionale tra essere ed agire: la condizione umana non è stabilita una volta per tutte, ma si modifica costantemente a causa dell’operato dell’uomo. Non è più, quindi, l’essere a determinare l’agire, bensì l’agire a modellare l’essere. Il concetto medesimo di “natura umana” diviene allora dinamico e non definibile a priori316. L’altra conseguenza concerne il rapporto tra genere e individuo: se negli animali le caratteristiche del genere sono invariabilmente riprodotte in ogni individuo, per l’uomo non è così. Nell’uomo non vi è coincidenza perfetta tra genere e individuo, nel senso che i caratteri del genere indicano solo ciò che è “umano”, ma non esauriscono le capacità e le qualità degli uomini, diverse per ciascun individuo e tali da rendere ogni uomo differente da tutti gli altri e, pertanto, unico317. Bisogna tuttavia precisare che

309 Così G. PICO DELLA MIRANDOLA, Oratio, in P.C. BORI, Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, cit., 103 ss.

310 Così G. PICO DELLA MIRANDOLA, Oratio, cit., 105. 311 Cfr. P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, cit., 17. 312 Cfr. E. GARIN, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, cit., 123 s.; G.

GENTILE, Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, cit., 74 s.; Q. SKINNER, The foundations of modern political thought, vol. 1 (The Renaissance), Cambridge, 1978, 97.

313 Cfr. P.O. KRISTELLER, The philosophy of man in the Italian Renaissance, cit., 268; ID., Ficino and Pomponazzi on the place of man in the universe, cit., 285.

314 Cfr. G. PICO DELLA MIRANDOLA, Oratio, cit., 105. 315 Cfr. E. CASSIRER, La filosofia di Pico della Mirandola e il suo posto nella storia universale delle

idee, in ID., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., 91 ss. 316 Cfr. E. CASSIRER, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, cit., 136 s. 317 Cfr. A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, cit., 665 s.

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quest’ultima conclusione non è sviluppata compiutamente nell’Oratio, ma solo adombrata318.

Meno innovativa è l’immagine della dignità umana espressa da Pico in una sua opera posteriore, l’Heptaplus, in cui la grandezza dell’uomo è legata soprattutto al suo essere sintesi di tutte le nature ed intermediario tra il mondo terreno e quello celeste319. Evidenti sono in quest’opera i punti di contatto con la prospettiva di Marsilio Ficino.

Un’ultima questione merita di essere sinteticamente affrontata. Nel pensiero di Pico la dignità non è più un dono, come lo era per la tradizione precedente, ma una conquista, la meta finale di un percorso in cui ogni individuo costruisce sé stesso in maniera diversa da tutti gli altri ma con il medesimo obiettivo320. L’uomo, opera dall’immagine non definita (indiscretae opus imaginis)321, esprime la sua grandezza nel costante superamento di sé322 e nell’esito imprevedibile dell’attività con cui modella la sua natura.

Conclusivamente, si può dire che l’Umanesimo, muovendosi nel solco della tradizione, dia però inizio ad un processo di profonda modificazione della concezione dell’uomo, che si svilupperà compiutamente nei secoli successivi323.

6. Grandezza e miseria dell’uomo nel pensiero di Blaise Pascal Certamente estranea al processo di secolarizzazione del concetto di dignità umana è

la visione di Blaise Pascal, che è opportuno analizzare per l’acume con cui essa concilia la miseria e la grandezza dell’uomo.

Secondo Pascal, l’uomo si trova in una condiziona mediana: è qualcosa, ma non è tutto324; non è angelo né bestia, è capace di poco e di molto, di tutto e di niente325. Questa condizione, al contrario di quanto ritenuto da alcuni umanisti, non può essere valutata positivamente, poiché denota come l’uomo non sia altro che una piccola

318 Il concetto sarà ripreso e sviluppato da Samuel Pufendorf. Sul punto, cfr. S. PUFENDORF, De jure

naturae et gentium, libri octo, Francoforte-Lipsia, 1744, II, I, VII, in cui si evidenzia come tutte le bestie della stessa specie presentino le medesime inclinazioni, per cui è sufficiente vederne una per conoscerle tutte; ciascun uomo, invece, è diverso da tutti gli altri per i sentimenti, i gusti, i desideri, secondo la massima quot capita, tot sensus.

319 Cfr. G. PICO DELLA MIRANDOLA, Heptaplus, trad. it. a cura di E. GARIN, Firenze, 1942, 264 ss. e 302 ss.

320 Cfr. P.O. KRISTELLER, La dignità dell’uomo, cit., 26 s. 321 Cfr. G. PICO DELLA MIRANDOLA, Oratio, cit., 103. In proposito, interessante è l’osservazione di

P.C. BORI, Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, cit., 37, che legge in tale definizione dell’uomo il richiamo al tema biblico dell’immagine, ma nello stesso tempo un allontanamento da esso, perché l’uomo non è più imago Dei.

322 Cfr. G.M. CHIODI, Sul concetto di dignità umana nella Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, in Riv. int. fil. dir., 2013, 232.

323 Più radicale è la posizione di A. HELLER, L’uomo del Rinascimento, cit., 668, che parla di una vera e propria rivoluzione del modo di concepire l’uomo. In senso opposto, G.M. CHIODI, Sul concetto di dignità umana nella Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, che pone l’accento sull’equilibrio umanistico tra sfera laica e sfera religiosa.

324 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, trad. it. a cura di A. BAUSOLA – R. TAPELLA, III ed., Milano, 1990, pensiero n. 84 (430). In parentesi è indicata la pagina del volume in cui è riportato il pensiero o la parte del pensiero cui si fa riferimento nel testo.

325 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 176 (464).

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creatura smarrita nell’universo infinito326. Significativa in tal senso è la seguente affermazione di Pascal: «Infine, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile, egualmente incapace di scorgere il nulla, da cui è tratto, e l’infinito in cui è inghiottito»327.

Una condizione del genere si evince anche dalle caratteristiche dell’uomo, che Pascal, sulla scia di Montaigne, non esita a passare in rassegna: l’uomo è lontano dalla verità e dalla giustizia e vive nell’errore328; la sua ragione è limitata ed è sufficiente la minima distrazione per distoglierlo dalla riflessione329; la sua principale facoltà intellettiva è l’immaginazione, maestra d’errore e di falsità330; il suo comportamento è dominato dall’amor proprio, dall’orgoglio, dalla vanità, dalla ricerca della gloria e ciò lo induce ad essere egoista nei confronti dei suoi simili331. Non solo. Il pensatore francese aggiunge che «L’uomo non è dunque che dissimulazione, menzogna e ipocrisia e in se stesso e verso gli altri. Non vuole che gli si dica la verità ed evita di dirla agli altri; e tutte queste disposizioni, così lontane dalla giustizia e dalla ragione, hanno una radice naturale nel suo cuore»332. In definitiva, l’uomo non può sfuggire alla sua meschinità e alla sua precarietà.

Sembrerebbe che non ci sia posto, in questa visione pessimistica, per l’idea di dignità umana. Eppure il concetto di dignità è chiaramente affermato da Pascal quando dice che «L’uomo è manifestamente fatto per pensare: in questo sta tutta la sua dignità; e tutto il suo valore e tutto il suo dovere stanno nel pensare come si deve»333. È vero che l’uomo vive in una condizione miserabile, ma grazie al pensiero è in grado di riconoscerla e in tale consapevolezza, sconosciuta agli altri esseri viventi, risiede la sua grandezza334. La sintesi tra la debolezza e la forza umane è mirabilmente realizzata nel pensiero che segue: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non dello spazio e della durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale»335.

326 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 84 (426 s.). 327 Così B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 84 (428). 328 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 92 (436) e pensiero n. 104 (445). 329 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 95 (438). 330 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 104 (440) e pensiero n. 108 (445). 331 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 130 (450 s.), pensiero n. 150 (457),

pensiero n. 151 (458), pensiero n. 153 (458), pensiero n. 276 (499 s.), pensiero n. 136 (455) e pensiero n. 138 (455).

332 Così B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 130 (453). 333 Così B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 210 (481). Il medesimo concetto è

espresso aforisticamente nel pensiero n. 257 (495). 334 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 255 (495), in cui dice che «La

grandezza dell’uomo sta in ciò, che si riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili; ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili».

335 Così B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 264 (496 s.). Di segno analogo è il pensiero n. 265 (497), in cui si sostiene che «Non è nello spazio che io devo cercare la mia dignità, ma nel

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L’apparente contraddizione tra l’esaltazione della miseria dell’uomo e la celebrazione della sua dignità è facilmente spiegabile se si tiene conto dell’obiettivo della filosofia di Pascal, consistente nella condanna di ogni vanità336 e nell’invito all’esercizio costante del pensiero e alla ricerca della verità e della virtù. Riferendosi all’uomo, Pascal afferma che «Se egli si esalta, io lo abbasso; se si abbassa, lo esalto; e lo contraddico sempre fino a che non comprenda che è un mostro incomprensibile»337. Per questo motivo, il filosofo rigetta sia la posizione di chi loda l’uomo sia quella di chi lo disprezza, stimando invece solo coloro che «cercano gemendo»338.

Un ultimo tassello completa il quadro delineato. Come è stato rilevato, nella riflessione pascaliana l’uomo è incomprensibile al di fuori della fede cristiana339. Se infatti l’uomo è conscio della sua condizione infelice, ciò è possibile soltanto grazie al Cristianesimo. Senza la fede, l’uomo permane in uno stato di ignoranza e non può conoscere né il vero bene né la giustizia340. La religione cristiana ha invece rivelato all’uomo la sua natura341 e gli ha mostrato come egli sia decaduto da uno stato di perfezione originaria342. Nel contempo, solo con l’aiuto della fede l’uomo può superare il suo stato di corruzione e conseguire la felicità, che si raggiunge esclusivamente in Dio343. Più precisamente, la grazia avvicina l’uomo a Dio, mentre in sua assenza l’uomo è simile a una bestia344.

La concezione di Pascal non si inserisce nel percorso, finora tratteggiato, che conduce ad una progressiva laicizzazione del concetto di dignità umana e soprattutto ad una sua trasposizione dalla sfera filosofica a quella giuridica, ma presenta profili di rilevante interesse nell’evoluzione complessiva della visione dell’uomo.

7. Samuel Pufendorf e la dignità come presupposto dell’eguaglianza naturale fra gli uomini

Con Samuel Pufendorf, uno dei principali esponenti del giusnaturalismo moderno,

si assiste non solo al compimento del processo di secolarizzazione del concetto di dignità cui prima si accennava, ma soprattutto all’uso di tale concetto come fondamento di specifici doveri giuridici.

Prima di esaminare il pensiero di questo autore, è utile soffermarsi brevemente sui cenni che alla dignità dedica Thomas Hobbes, il teorico dell’assolutismo cui Pufendorf

retto esercizio del mio pensiero. Non avrei alcuna superiorità, possedendo delle terre. Con lo spazio, l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto; con il pensiero, io lo comprendo».

336 Cfr. U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 26 s. 337 Così B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 330 (516). 338 Così B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 333 (517). 339 Cfr. A. BAUSOLA, Introduzione, in B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., 16 s. 340 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 367 (534) e pensiero n. 370 (534 s.). 341 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 426 (560) e pensiero n. 483 (590). 342 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 370 (535), pensiero n. 424 (559) e

pensiero n. 438 (565 ss.). 343 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 391 (544). 344 Cfr. B. PASCAL, Pensieri, opuscoli, lettere, cit., pensiero n. 438 (567).

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è vicino per molti versi, differenziandosene invece per altri345. Proprio in relazione alla visione dell’uomo è interessante operare un confronto tra i due filosofi.

Non c’è dubbio che la concezione hobbesiana dell’uomo sia pessimistica346 o, secondo un altro punto di vista, realistica347. A conferma di quanto detto, non è necessario richiamare le idee sull’innata asocialità dell’uomo e sulla guerra di tutti contro tutti che caratterizza lo stato di natura348. È sufficiente far riferimento all’analisi hobbesiana delle caratteristiche dell’uomo, volta ad evidenziare le differenze con gli animali, ma in una maniera che potremmo definire asettica, da vero e proprio “scienziato della natura umana”349, e sicuramente distante dai toni celebrativi della tradizione precedente350. Ciò vale anche per l’idea di dignità. Sul punto, Hobbes asserisce che «Il valore, o PREGIO di un uomo, è, come in tutte le altre cose, il suo prezzo, vale a dire, quanto si darebbe per l’uso del suo potere; non è perciò una cosa assoluta ma dipendente dal bisogno e dal giudizio altrui»351; subito dopo aggiunge che «Il pregio pubblico di un uomo, che è il valore attribuitogli dallo stato, è ciò che gli uomini chiamano comunemente DIGNITÀ. Questo suo valore è significato dallo stato con cariche di comando, di giudicatura, di pubblici impieghi, o con i nomi e i titoli introdotti per la distinzione di tale valore»352. Si tratta di una concezione laica, che nega ogni forma di sacralità dell’uomo, in questo distaccandosi sia dalla dottrina cristiana sia dall’esaltazione dell’eccellenza umana cara agli autori rinascimentali. Come per una comune merce, il valore dell’uomo si identifica con il suo prezzo, che si forma secondo le regole della domanda e dell’offerta353. Per quanto concerne poi la dignità, essa perde ogni carattere di assolutezza e si collega al prestigio sociale riconosciuto a un individuo e soprattutto alle cariche che gli vengono conferite354. In sostanza, la dignità non è espressiva del valore intrinseco di ogni persona, ma del dominio e della posizione di potere di alcune persone355.

Anche la visione di Pufendorf è secolare, ma con esiti profondamente diversi da quelli di Hobbes. La secolarizzazione risulta già dalla definizione del diritto naturale fornita dal filosofo tedesco: le massime del diritto naturale sono quelle che la retta ragione (recta ratio) giudica necessarie a garantire la socialitas tra gli uomini356. Si

345 Cfr. P. BECCHI, Samuel Pufendorf giurista della modernità, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2006, 30, che riporta le diverse tesi riguardanti il rapporto tra il pensiero di Pufendorf, da un lato, e quello di Hobbes e di Grozio, dall’altro.

346 Cfr. E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, cit., 42. 347 Cfr. N. BOBBIO, Thomas Hobbes, Torino, 1989, 43; G. SOLARI, La formazione storica e filosofica

dello Stato moderno, a cura di L. FIRPO, Napoli, 1974, 52, che parla sia di pessimismo sia di realismo. 348 V. T. HOBBES, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, Roma, 2012, 27 ss.; ID., Leviatano, trad.

it. a cura di G. MICHELI, Milano, 2011, 128 ss. 349 Sul metodo seguito da Hobbes, v. N. BOBBIO, Thomas Hobbes, cit., 33 ss. 350 V. T. HOBBES, Leviatano, cit., 25, 28, 45 s. e 57 s. 351 Così T. HOBBES, Leviatano, cit., 90. 352 Così T. HOBBES, Leviatano, cit., 91. 353 Cfr. O. NEGT, L’irripetibile: trasformazioni nel concetto culturale di dignità, in Concilium.

Rivista internazionale di teologia, n. 2/2003, 38, il quale rileva come in Hobbes «ciò che fornisce senso all’essere umano viene ordinato in un mondo oggettuale che, nelle sue determinazioni di valore, non colloca assolutamente più in una posizione particolare la persona umana».

354 Cfr. P. BECCHI, Il principio dignità umana, cit., 17 s. 355 Cfr. O. NEGT, L’irripetibile: trasformazioni nel concetto culturale di dignità, cit., 39; A. VICINI,

Dignità umana – Parte etica (Cattolicesimo), in E. SGRECCIA – A. TARANTINO (diretta da), Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, cit., 291.

356 Cfr. S. PUFENDORF, De officio hominis, et civis secundum legem naturalem libri duo, Francoforte-Lipsia, 1775, Praefatio auctoris, § II.

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tratta, quindi, di un diritto razionale, ben distinto dalla teologia morale. La prima differenza tra le due discipline deriva dalla fonte delle rispettive prescrizioni: il diritto naturale si fonda, come già detto, sulla ragione; la teologia morale sulla rivelazione divina contenuta nelle Sacre Scritture357. La seconda differenza concerne il fine: il diritto naturale serve a rendere l’uomo socievole (sociabilis) e si occupa, quindi, solo delle vicende terrene dell’uomo; la teologia morale mira a formare un buon cristiano e pertanto si interessa anche della salvezza della sua anima358. Ultima differenza riguarda l’oggetto: il diritto naturale regola esclusivamente le azioni esteriori degli individui; la teologia morale estende invece il suo campo d’azione anche all’interiorità dell’uomo359. In sintesi, Pufendorf opera una netta separazione tra la sfera laica e quella religiosa360.

In tale contesto si inserisce la nuova immagine dell’uomo. Secondo il pensatore tedesco, l’uomo è superiore agli animali grazie a due facoltà, l’intelletto e la volontà361. Particolare importanza riveste la volontà, in virtù della quale l’uomo si pone al di fuori del mondo naturale, dominato dalla legge della causalità, e si colloca invece nel regno della libertà e, di conseguenza, della moralità362. La libertà è il fondamento dell’agire morale363.

Fin qui non ci sono sostanziali novità rispetto alla visione dell’uomo elaborata nei secoli precedenti. Pufendorf non si ferma, però, all’affermazione della libertà dell’uomo. La dignità umana non risiede semplicemente nel libero arbitrio. Anzi, la libertà, se non guidata da una regola, sarebbe inutile e dannosa per la conservazione dell’uomo364. Proprio l’incapacità di osservare una regola rende le bestie solo limitatamente libere e, perciò, inferiori agli uomini365. La dignità dell’uomo esige invece che egli conformi le sue azioni ad una norma, senza la quale non sarebbe possibile ravvisare alcun ordine, bontà o convenienza366. Anticipando Kant, Pufendorf identifica la dignità con l’autonomia, cioè con la capacità dell’uomo di assoggettarsi ad una legge da lui formulata. Così intesa, la dignità assurge a nucleo fondativo del diritto naturale367.

357 Cfr. S. PUFENDORF, De officio hominis, et civis secundum legem naturalem libri duo, cit.,

Praefatio auctoris, §§ IV-V. 358 Cfr. S. PUFENDORF, De officio hominis, et civis secundum legem naturalem libri duo, cit.,

Praefatio auctoris, § VI. 359 S. PUFENDORF, De officio hominis, et civis secundum legem naturalem libri duo, cit., Praefatio

auctoris, § VII. 360 Cfr. F. TODESCAN, Socialitas e stato di natura in Pufendorf, in V. FIORILLO – F. VOLLHARDT (a

cura di), Il diritto naturale della socialità. Tradizioni antiche ed antropologia moderna nel XVII secolo. Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 24-25 ottobre 2003, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Torino, 2004, 147 s., che distingue questo tipo di secolarizzazione, detta “per separazione”, dalla “secolarizzazione per trasformazione”, consistente nella progressiva erosione dall’interno dei concetti teologici, il cui contenuto viene sostituito con nuovi argomenti laici.

361 Cfr. S. PUFENDORF, De officio hominis, et civis secundum legem naturalem libri duo, cit., I, I, II. 362 Cfr. V. FIORILLO, Tra egoismo e socialità. Il giusnaturalismo di Samuel Pufendorf, Napoli, 1992,

110 s. 363 Cfr. H. WELZEL, La dottrina giusnaturalistica di Samuel Pufendorf. Un contributo alla storia

delle idee dei secoli XVII e XVIII, a cura di V. FIORILLO, Torino, 1993, 47. 364 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., II, I, II. 365 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., II, I, IV. 366 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., II, I, V («Requirebat humanae

naturae dignitas, et praestantia, qua caeteras animantes eminet, ut certam ad normam ipsius actiones exigerentur; quippe citra quam ordo, decor, aut pulcritudo intelligi nequit»).

367 Cfr. H. WELZEL, La dottrina giusnaturalistica di Samuel Pufendorf. Un contributo alla storia delle idee dei secoli XVII e XVIII, cit., 77.

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Essa, infatti, non ha valore solo come concetto filosofico, ma pone capo a specifici obblighi giuridici.

L’elaborazione della dignità come categoria giuridica, cioè come fonte di doveri giuridici, è l’esito di un ragionamento che parte da una semplice constatazione: lo stesso vocabolo “uomo”, dice Pufendorf, reca con sé l’idea di uno speciale rispetto (dignatio), in virtù del quale ogni persona oltraggiata nella sua dignità è portata a rispondere “non sono un cane, ma un uomo come te”. Se allora tutti gli uomini hanno pari dignità, ciascuno ha l’obbligo di considerare e di trattare gli altri come naturalmente eguali a lui e questo è il contenuto della legge fondamentale del diritto naturale368.

Su questa uguaglianza naturale è opportuno fare una precisazione. Già Hobbes aveva sostenuto la tesi dell’eguaglianza degli uomini nello stato di natura, ma si trattava di un’uguaglianza assai diversa. Per Hobbes, tutti gli uomini sono uguali nel senso che ognuno può nuocere agli altri per assicurarsi la sopravvivenza369. Si tratta di un’uguaglianza basata sulla forza370 e che si muove sul piano fattuale dell’essere371. Al contrario, Pufendorf ritiene che sul piano antropologico ogni individuo sia differente da un altro, sia per le qualità fisiche sia per quelle spirituali. L’eguaglianza, cui il filosofo tedesco fa riferimento, è giuridica e appartiene alla sfera del dover essere, configurandosi come dovere di reputare gli altri uguali a sé sul presupposto di una comune natura e di una comune dignità372.

È delineata, nel pensiero di Pufendorf, l’idea della dignità umana come categoria giuridica, da cui deriva l’uguaglianza. Da questa scaturiscono a loro volta ulteriori massime che impongono alcuni obblighi di comportamento: il dovere di arrecare vantaggio agli altri; il dovere di riconoscere eguali diritti; il divieto di considerarsi superiori agli altri e di ingiuriarli373. Un’ultima rilevante conseguenza consiste nel rifiuto dell’assunto aristotelico secondo cui esisterebbero uomini nati per essere schiavi, assunto ritenuto dal filosofo tedesco in contrasto con il principio dell’eguaglianza naturale. Nell’ottica di Pufendorf, poiché tutti gli uomini godono di un’identica libertà naturale, è necessario il consenso dell’interessato per rendere legittimo un atto di assoggettamento e di rinuncia alla citata libertà374.

L’opera di Samuel Pufendorf ha il merito di aver introdotto un concetto secolare e giuridico di dignità umana, che sarà poi pienamente sviluppato da Kant, e di aver posto la dignità al centro della riflessione del giusnaturalismo moderno375.

368 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., III, II, I («Ut quisque alterum

hominem aestimet atque tractet, tanquam naturaliter sibi aequalem, seu ut aeque hominem»). 369 Cfr. T. HOBBES, Leviatano, cit., 127 s. 370 Cfr. N. BOBBIO, Studi lockiani, in ID., Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Napoli,

1965, 105. 371 Cfr. V. FIORILLO, L’altro, “ut aeque homo”: eguaglianza e “dignitas individui”

nell’antropologia politica di Samuel Pufendorf, in V. FIORILLO – F. VOLLHARDT (a cura di), Il diritto naturale della socialità. Tradizioni antiche ed antropologia moderna nel XVII secolo. Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 24-25 ottobre 2003, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, cit., 111 s.; N. BOBBIO, Thomas Hobbes, cit., 39.

372 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., III, II, II. Anche Locke intenderà l’uguaglianza naturale tra gli uomini in maniera giuridica e non come eguaglianza delle capacità. Cfr. J. LOCKE, Secondo trattato, § 4, in ID., Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. PAREYSON, III ed., Torino, 1982, 229.

373 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., III, II, IV-VII. 374 Cfr. S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium, libri octo, cit., III, II, VIII. 375 Cfr. M.A. CATTANEO, Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli, 2006, 17, che considera il

principio della dignità umana il nucleo essenziale del giusnaturalismo.

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8. L’approccio antimetafisico di David Hume alla dignità umana L’approccio del filosofo scozzese David Hume alla dignità umana si

contraddistingue non solo per il suo carattere secolare, ma anche per il rifiuto di ogni concezione metafisica376.

Nel suo saggio dedicato al tema della dignità, Hume nota innanzitutto come questo argomento abbia generato una netta contrapposizione tra filosofi, poeti e teologi: da un lato, coloro che esaltano l’uomo e lo paragonano ad un semidio; dall’altro, quelli che insistono sulla bassezza e sulla meschinità della natura umana377. Tra le due opinioni, Hume sostiene che la prima è da preferire per ragioni pratiche, perché incentiva la virtù nell’uomo, che con le sue azioni cercherà di corrispondere alla visione filosofica della sua eccellenza. Non si può poi negare come l’esperienza dimostri la superiorità umana rispetto agli animali: la ragione dell’uomo non ha limiti spaziali né temporali; è capace di cogliere le relazioni di causa ed effetto, di dedurre principi generali da fenomeni particolari e di correggere i suoi errori378.

Una simile conclusione è avversata, dice Hume, sulla base di una visione negativa della realtà, che punta ad evidenziare la fragilità umana; questa visione è però contraddetta dai menzionati dati empirici. Un altro modo per sminuire il valore della dignità umana consiste nel paragonare l’uomo ad esseri superiori, per rimarcarne la limitatezza delle capacità. Si tratta, secondo il filosofo scozzese, di un paragone insensato, così come non ha senso rilevare che molti uomini sono malvagi ed egoisti e che, anche coloro che agiscono secondo virtù, lo fanno per interesse o per vanità. A tale obiezione è agevole rispondere che non sono il piacere e l’interesse ad indurre azioni buone e virtuose, ma queste azioni a produrre piacere. Va quindi rovesciata l’opinione tradizionale. Come sostiene Hume, «È il sentimento o la passione virtuosa che produce il piacere, e non il sentimento o la passione che nascono dal piacere. Io provo piacere nel far del bene ad un amico, perché gli voglio bene; ma non è che gli voglia bene a causa di quel piacere»379. Per quanto riguarda l’altro movente delle azioni virtuose, la vanità, il filosofo replica che è quasi impossibile che un’azione virtuosa non sia mossa da un certo grado di vanità; ma in un’ottica pragmatica è inutile porre l’accento su quest’ultima per screditare una buona azione380.

In definitiva, è più utile sostenere la tesi della dignità umana, per gli effetti positivi che essa produce sugli uomini, rispetto alla tesi opposta. È chiaro che l’atteggiamento di Hume è pienamente laico, concreto e contrario a qualsiasi visione trascendente della dignità umana.

9. La dignità umana quale fondamento dell’etica kantiana

376 Cfr. C. RUIZ MIGUEL, Human Dignity: History of an Idea, cit., 292. 377 Cfr. D. HUME, Della dignità o bassezza della natura umana, in ID., Saggi e trattati morali,

letterari, politici e economici, a cura di M. DAL PRA – E. RONCHETTI, Torino, 1974, 265. 378 Cfr. D. HUME, Della dignità o bassezza della natura umana, cit., 266 s. 379 Così D. HUME, Della dignità o bassezza della natura umana, cit., 271. 380 Cfr. D. HUME, Della dignità o bassezza della natura umana, cit., 271.

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Nel pensiero di Immanuel Kant la dignità umana ha un ruolo essenziale: per la prima volta nella storia della filosofia, essa acquista una valenza sistematica ed assurge a fondamento della moralità; giunge così a compimento il processo di definizione della dignità come concetto etico e, nello stesso tempo, si “prepara il terreno” alla tutela giuridica dei diritti fondamentali381.

Prima di entrare nel merito dell’analisi, si può rilevare come Kant utilizzi il termine “dignità” anche nell’accezione di “carica politica”382, secondo la tradizione medioevale. Ovviamente ben diverso e assai più pregnante è il significato della dignità umana quale presupposto dell’etica, che è opportuno esaminare attentamente.

Secondo Kant, si può parlare di etica solo assumendo che l’uomo sia libero. In mancanza della libertà, non può esistere moralità. La libertà umana non è dimostrabile383; essa va assunta come tale, anche se è confermata dalla coscienza384. Bisogna però capire come vada intesa la libertà e quale sia il suo rapporto con la moralità. Sul punto, il filosofo di Königsberg specifica che «La libertà dell’arbitrio è l’indipendenza della sua determinazione da ogni impulso sensibile, e questo è il concetto negativo della libertà. Ed ecco il concetto positivo: la libertà è la facoltà della ragion pura di essere per se stessa pratica»385. La ragione è pura perché elabora categorie a priori, che prescindono cioè da dati empirici. Proprio in virtù di tale caratteristica Kant definisce la sua filosofia pratica una metafisica dei costumi e non una semplice dottrina della felicità, cioè una filosofia che non si occupa dell’esperienza, ma dei principi a priori della moralità386.

Bisogna ora precisare quando la ragione pura sia pratica. Kant lo fa subito dopo il passo citato, quando dice che «Ciò però non è altrimenti possibile che con l’assoggettamento della massima di ogni azione alla condizione di essere atta a diventare legge universale»387. La legge fondamentale della ragione pura pratica può essere allora così formulata: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale»388. In questa definizione, la ragione si connota come legislatrice: la legge, cui l’uomo si sottomette, non è eteronoma, ma proviene dall’uomo stesso. Analogamente alla prospettiva di Pufendorf389, la libertà kantiana deve essere quindi intesa come autonomia morale: l’uomo è assoggettato ad una legge, ma è libero perché quella legge è stata da lui elaborata.

Risulta adesso più chiaro il rapporto tra libertà e moralità, che può ritenersi di implicazione reciproca390. La libertà è la condizione della legge morale, nel senso che se l’uomo non fosse libero e le sue azioni fossero guidate dall’esterno, la moralità non potrebbe esistere e si dovrebbe allora parlare di necessità, come accade per i fenomeni

381 Cfr. P. RIDOLA, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale

europea, cit., 91 s. 382 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, trad. it. a cura di G. VIDARI, X ed., Roma-Bari, 2009,

145. 383 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di A.M. MARIETTI, V ed., Milano,

2010, 215 ss.; ID., Critica della ragion pratica, a cura di V. MATHIEU, III ed., Milano, 2010, 57. 384 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 207. 385 Così I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 14 (corsivi dell’Autore). 386 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 16 ss. 387 Così I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 14. 388 Così I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 87. 389 Cfr. P. BECCHI, Il principio dignità umana, cit., 20. 390 Cfr. M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano, 1981, 13 s.

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naturali. La libertà è allora la ratio essendi della moralità. A sua volta la legge morale, che si affaccia alla coscienza dell’uomo come un fatto non dimostrabile391, è la prova della sua libertà392. Ne è, per utilizzare la terminologia kantiana, la ratio cognoscendi393.

Un ulteriore aspetto va messo in luce: non ogni massima della volontà è idonea a divenire legge universale394 e, specularmente, non ogni massima è conforme alla legge oggettiva che la ragion pura pratica indica395. Ciò fa sì che la legge pratica debba (im)porsi alla massima nella forma dell’imperativo, cioè come comando che esprime un dovere incondizionato (Sollen)396. Gli imperativi sono ipotetici o categorici. L’imperativo è ipotetico quando prescrive una determinata azione come necessaria per il raggiungimento di un determinato fine. Da questo punto di vista, un’azione è buona se costituisce il mezzo adeguato per il conseguimento di uno scopo397. Tale azione non è ancora, però, un’azione morale. È morale solo l’azione conforme all’imperativo categorico. L’imperativo categorico, o imperativo della moralità, ordina un’azione come obiettivamente necessaria in sé, indipendentemente da ogni finalità398. Non avendo relazione con una mira da raggiungere, l’imperativo categorico non riguarda la materia dell’azione, ma solo la sua forma, che corrisponde alla legge fondamentale della ragion pratica. L’imperativo è infatti così formulato da Kant: «Agisci solo secondo quella massima mediante la quale tu puoi insieme volere che diventi una legge universale»399.

Da quanto esposto, emerge come l’etica kantiana sottintenda una visione dualista dell’uomo400. Come dice Kant, «L’uomo considerato nel sistema della natura (homo phaenomenon, animal rationale) è un essere di mediocre importanza e ha, come tutti gli altri animali che il suolo produce, un valore comune volgare (pretium vulgare) […]. Ma l’uomo considerato come persona, vale a dire come soggetto di una ragione moralmente pratica, è elevato al disopra di ogni prezzo, perché come tale (homo noumenon) egli dev’essere riguardato non come un mezzo per raggiungere i fini degli altri e nemmeno i suoi propri, ma come un fine in sé; vale a dire egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto), per mezzo della quale costringe al rispetto di se stesso tutte le altre creature ragionevoli del mondo, ed è questa dignità che gli permette di misurarsi con ognuna di loro e di stimarsi loro uguale»401. Solo nella misura in cui la massima

391 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 117. 392 Cfr. M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, cit., 19 s. 393 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 39, nota. 394 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 28, secondo cui «tu devi prima di tutto considerare

le tue azioni nel loro principio soggettivo; ma che esso abbia anche valore oggettivo lo riconoscerai da ciò che, sottomettendolo alla prova della tua ragione, cioè considerando te stesso come legislatore universale, esso si possa rivelare come un principio di legislazione universale».

395 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 159, il quale sottolinea che «poiché una volta consideriamo la nostra azione dal punto di vista di una volontà interamente conforme alla ragione, ma poi, un’altra volta, consideriamo proprio la medesima azione dal punto di vista di una volontà influenzata e affetta dall’inclinazione, ebbene, qui non sussiste realmente una contraddizione, bensì una resistenza dell’inclinazione contro la prescrizione della ragione (antagonismus) […]»

396 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 131 ss.; ID., Critica della ragion pratica, cit., 89 ss.

397 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 133 ss. 398 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 135 ss. 399 Così I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 151 (corsivo dell’Autore). 400 Cfr. P. KONDYLIS, Würde. VI. Die Auseinandersetzung der westeuropäischen und der deutschen

Aufklärung mit der Menschenwürde, in O. BRUNNER – W. CONZE – R. KOSELLECK, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, cit., 667 ss.; N. TEIFKE, Das Prinzip Menschenwürde. Zur Abwägungsfähigkeit des Höchstrangigen, Tübingen, 2011, 53.

401 Così I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 294 (corsivi dell’Autore).

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dell’azione è conforme alla legge della ragion pratica, l’uomo agisce come homo noumenon e rende omaggio alla sua dignità. La dignità è, pertanto, fondata sull’autonomia morale dell’uomo, cioè sulla sua capacità di elaborare una regola in grado di valere come legge universale e di sottomettersi ad essa402. In altre parole, l’uomo è un fine in sé perché è nel medesimo tempo autore della legge morale e soggetto ad essa403.

Dal riconoscimento che l’uomo è uno scopo in sé e non può essere utilizzato come mero mezzo, deriva un preciso dovere in capo a tutti gli uomini, riassunto nella seconda formulazione dell’imperativo categorico404: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, né mai come semplice mezzo»405. L’osservanza di una simile prescrizione rende l’uomo partecipe di quel regno dei fini, in cui «tutto ha o un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può anche essere sostituito da qualcos’altro, equivalente; invece ciò che non ha alcun prezzo, né quindi consente alcun equivalente ha una dignità»406. Nella concezione kantiana la dignità indica il valore assoluto della persona, su cui è costruita l’intera metafisica dei costumi. Proprio tale nucleo fondante determina il superamento dell’ottica esclusivamente formalistica della prima e della terza formula dell’imperativo categorico. Si noti, infatti, come entrambe le formulazioni caratterizzino l’imperativo categorico come forma pura407, nel senso che esso non indica il contenuto di un’azione, ma solo la condizione in base a cui l’azione può definirsi morale408. La seconda formula incrina invece il formalismo, perché esprime un contenuto consistente nel dovere di rispettare la dignità umana409.

Questo dovere costituisce il presupposto sia dell’etica sia della dottrina giuridica kantiana. In base alla seconda formulazione dell’imperativo categorico, infatti, ciascuno deve considerare come fine non solo l’umanità in sé stesso, ma anche negli altri e ciò comporta un obbligo (giuridico) di rispetto nei loro confronti410. Etica e diritto hanno, quindi, un’origine comune, anche se poi si differenziano per le diverse modalità di legislazione, perché la legislazione etica non può essere esterna, mentre quella giuridica può anche esserlo. Più precisamente, la legalità riguarda la semplice conformità dell’azione alla legge; la moralità erige invece il rispetto della legge a massima

402 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 187. 403 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 265. 404 Mentre nella Critica della ragion pratica Kant fa riferimento ad un’unica formula

dell’imperativo categorico, identificata con la legge fondamentale della ragione pura pratica, nell’opera precedente, la Fondazione della metafisica dei costumi, egli enuncia la formulazione generale dell’imperativo categorico (riportata nel testo) e poi desume da questa tre formule derivate, che in qualche maniera ne chiariscono le diverse implicazioni. Ciò vale soprattutto per la prima («Agisci come se la massima della tua azione mediante la tua volontà dovesse diventare legge universale di natura») e per la terza formula («Agisci solo in modo che la volontà possa insieme considerare sé stessa, con la propria massima, come universalmente legislatrice»), che rispettivamente pongono l’accento sull’universalizzabilità della massima e sulla volontà legislatrice. La seconda formula si concentra invece sulla dignità che consegue all’autonomia della persona e sul dovere che questa comporta. Sul rapporto tra la formula generale e le formulazioni derivate dell’imperativo categorico, v. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 187.

405 Così I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 169 ss. (corsivo dell’Autore). 406 Così I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 183 (corsivi dell’Autore). 407 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., 207; ID., Critica della ragion pratica,

cit., 227. 408 Condizione individuata nell’universalizzabilità della massima che dirige l’azione. 409 Cfr. M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, cit., 26 s. 410 Cfr. M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, cit., 44 ss.

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dell’azione, non ammettendo nessun tipo di impulso o motivo che induca al rispetto della legge se non l’idea del dovere411. Diverso è anche il concetto di libertà postulato dalla dottrina giuridica, come si deduce dalla definizione che Kant fornisce del diritto: «Il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà»412. In questo caso la libertà non è intesa come autonomia, ma, conformemente alla tradizione liberale, come facoltà di compiere o di non compiere ogni azione che non sia vietata dalla legge allo scopo di contemperare la libertà di tutti i consociati413. Non vi è, però, contraddizione con l’idea di libertà assunta nell’etica, dato che i due ambiti – la morale e il diritto – sono distinti alla luce del differente oggetto di disciplina – rispettivamente l’interiorità e l’esteriorità.

La separazione tra diritto e morale, peraltro, viene meno in relazione al diritto penale, nel quale la seconda formula dell’imperativo categorico produce dirette conseguenze giuridiche414. Il dovere di rispettare la dignità umana induce Kant a rigettare la concezione preventiva della pena, che strumentalizza il reo per finalità di difesa sociale e lo rende pertanto un mezzo nelle mani della società. Secondo Kant, la pena deve essere invece inflitta al colpevole solo ed esclusivamente perché egli ha commesso un delitto e non per scopi ulteriori. Questo perché la legge penale è un imperativo categorico e non deve servire a conseguire un vantaggio, neanche se si tratta di un vantaggio per la società415. Il reo merita la pena416, che va intesa allora come retribuzione per il crimine commesso e la cui determinazione non può che essere improntata al criterio dell’uguaglianza417.

Una delle conseguenze della condivisione, da parte del filosofo di Königsberg, della concezione retributiva della pena418 è la giustificazione della pena di morte. Sul punto, Kant critica la posizione di Cesare Beccaria, che considera viziata da un «affettato sentimentalismo umanitario (compassibilitas)»419. In realtà, proprio Beccaria aveva anticipato la riflessione kantiana sulla dignità umana420: seppure con un rapido cenno, aveva sostenuto che «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa […]»421. Non è possibile in questa sede approfondire la tematica; ci si può limitare a constatare che, se l’obiezione kantiana alla funzione preventiva della pena non è da sottovalutare, poco convincente

411 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 20 ss. 412 Così I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 34 s. 413 Cfr. N. BOBBIO, Kant e le due libertà, in ID., Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia,

cit., 156 s. 414 Cfr. M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, cit., 302, secondo cui

proprio la derivazione diretta del diritto penale dalla morale introduce una contraddizione intrinseca nella filosofia kantiana; P. BECCHI, Kant diverso. Pena, natura, dignità, Brescia, 2011, 36 ss.

415 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 164 s. 416 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 101. 417 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 165. 418 Interessante è l’analisi compiuta da P. BECCHI, Kant diverso. Pena, natura, dignità, cit., 17 ss., il

quale dimostra come la visione kantiana della pena, inizialmente orientata alla prevalenza della funzione preventiva, sia poi progressivamente approdata alla netta adesione alla tesi retribuzionista.

419 Così I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 168 s. 420 Cfr. R. MONDOLFO, Cesare Beccaria, Milano, 1960, 62 ss.; M.A. AIMO, Cesare Beccaria

letterato e riformatore, in I problemi della pedagogia, 1964, 722 ss.; M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, cit., 43 s.; A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, cit., 25 s.; P. BECCHI, Il principio dignità umana, cit., 22 s.

421 Così C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di F. VENTURI, Milano, 2010, 54 (corsivi dell’Autore).

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risulta invece la difesa della pena di morte, che dimostra la difficoltà di dedurre meccanicamente regole giuridiche da un principio etico422.

È opportuno esaminare un ultimo profilo. La qualificazione kantiana della dignità come valore assoluto, da riconoscere a tutti gli uomini, è stata messa in dubbio a causa del suo fondarsi sull’autonomia morale. Se l’uomo ha una dignità in virtù della sua capacità di essere legislatore e di sottomettersi alla legge da lui creata, tale dignità non dovrebbe spettare a quei soggetti che, per qualsiasi ragione, non sono in grado di usare le proprie facoltà intellettive e non hanno quindi autonomia423. Una lettura del genere non può essere condivisa, perché incorre in un equivoco di fondo. Quando Kant parla della dignità umana, non fa riferimento all’uomo sensibile, considerato nella sua concretezza empirica, ma all’uomo in quanto tale, come soggetto di una ragione moralmente pratica424. Ciò emerge palesemente dalla citata distinzione tra homo phaenomenon e homo noumenon. Non il primo, con i suoi limiti e la sua finitezza, deve essere ritenuto uno scopo in sé, ma il secondo425. Le malattie e le debolezze possono colpire l’homo phaenomenon e le sue facoltà mentali, ma non hanno alcuna rilevanza sul piano dell’homo noumenon426. Questo perché, per usare le parole suggestive di Kant, la prospettiva della legge morale «innalza infinitamente il mio valore, come valore di una intelligenza, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità, e perfino dall’intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all’infinito»427. Non c’è dubbio, quindi, che nell’ottica kantiana la dignità spetti a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle concrete condizioni individuali428. Con maggiore precisione, si può addirittura affermare che non è l’uomo, ma l’umanità nella sua persona ad essere degna di rispetto429.

422 Cfr. S. HENNETTE-VAUCHEZ, A Human Dignitas? The Contemporary Principle of Human

Dignity as a Mere Reappraisal of an Ancient Legal Concept, EUI Working Papers, LAW 2008/18, 18, nota 103, che rileva come i principi della filosofia morale non possano essere sic et simpliciter trasposti dalla sfera morale a quella giuridica.

423 Cfr. L. GORMALLY, La dignità umana: il punto di vista cristiano e quello laicista, cit.; R.E. GOODIN, Political Theory and Public Policy, Chicago-London, 1982, 82 s., secondo cui il pensiero di Kant è stato certamente frainteso, in relazione a tale problematica, ma ciò non toglie che lo stesso Kant ne sia in parte responsabile, perché la sua distinzione tra “mezzi” e “fini” presuppone l’identificazione della dignità con la capacità di scelta, con conseguente esclusione dei soggetti che ne siano privi; R. ANDORNO, The paradoxical notion of human dignity, cit., 162 s., che evidenzia come l’interpretazione dei testi kantiani non sia unanime e potrebbe quindi prestarsi alla negazione della dignità dei soggetti deboli, con esiti opposti agli intenti di Kant; P. VALADIER, La persona nella sua indegnità, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, n. 2/2003, 87 s., che sostiene la necessità di una reinterpretazione della tradizione kantiana, volta a recidere il legame tra dignità e autonomia morale, con conseguenze che sarebbero peraltro più coerenti con il proposito kantiano di ravvisare la dignità in ogni uomo.

424 Cfr. P. BECCHI, Kant diverso. Pena, natura, dignità, cit., 61 s. 425 Cfr. P. BECCHI, L’idea kantiana di dignità umana e le sue attuali implicazioni in ambito bioetico,

in P. BECCHI – G. CUNICO – O. MEO (a cura di), Kant e l’idea di Europa. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Genova, 6-8 Maggio 2004), Genova, 2005, 35 s.

426 Cfr. U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, cit., 38 s. 427 Così I. KANT, Critica della ragion pratica, cit., 319. 428 Cfr. M.A. CATTANEO, Discussione sul problema del valore tra Schmitt e Kant. A proposito della

recente traduzione della «Tyrannei der Werte», in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2009, 514; G.P. FLETCHER, Human Dignity as a Constitutional Value, in University of Western Ontario Law Review, 22 (1984), 176.

429 Cfr. I. KANT, La metafisica dei costumi, cit., 294.

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In conclusione, la dignità kantiana si configura come un concetto assoluto e universale430, idoneo a costituire il fondamento morale dei diritti dell’uomo431.

10. Grazia e dignità nella riflessione di Friedrich Schiller L’approccio di Friedrich Schiller al tema della dignità è fortemente influenzato dal

pensiero kantiano. Nel saggio dedicato a quest’argomento, Schiller distingue la grazia dalla dignità. La grazia è definita come «una bellezza che non è data dalla natura, ma che viene prodotta dal soggetto stesso»432, o ancora come «la bellezza della forma sotto l’influsso della libertà; la bellezza di quei fenomeni che la persona determina»433.

Al fondo di queste definizioni, vi è una visione dell’uomo che riecheggia la dicotomia kantiana tra homo phaenomenon e homo noumenon. Anche secondo Schiller, infatti, l’uomo non è solo un essere sensibile, ma una persona, cioè un essere libero che è causa di sé e che, superando il dominio della legge naturale della necessità, determina le sue manifestazioni fenomeniche434. La differenza tra gli animali e le piante, da un lato, e l’uomo, dall’altro, consiste proprio nel fatto che la natura indica nei primi la determinazione e la attua, mentre nel secondo la natura imprime solo i presupposti, spettando poi all’uomo stesso divenire effettivamente tale435. In altri termini, «i semplici esseri organici sono per noi rispettabili come creature; l’uomo può esserlo per noi solo come creatore (ossia come creatore del proprio stato). L’uomo non deve limitarsi, come gli altri esseri sensibili, a riflettere i raggi di una ragione estranea, foss’anche quella divina, ma deve, simile a un corpo solare, splendere di luce propria»436. Evidenti sono le affinità con le idee dell’Umanesimo.

In tale contesto, la grazia non si identifica con la semplice bellezza, cioè con il mero dato naturale, ma con l’azione morale, che è il prodotto della libertà umana437. Nel contempo, però, la ragione e la sensibilità devono collaborare per raggiungere l’obiettivo: solo dall’armonizzazione della parte sensibile con quella razionale e dalla conciliazione dell’inclinazione con il dovere sorge la grazia dell’anima bella, cioè dell’uomo che agisce conformemente alla sua umanità438. Questo esito denota un allontanamento dall’etica kantiana, il cui rigorismo Schiller spiega in base alla volontà di Kant di contrastare la corruzione morale dei suoi tempi439.

Il conflitto tra la razionalità e l’istinto riemerge tuttavia sul piano della dignità, così definita da Schiller: «Dominio degli istinti attraverso la forza morale è libertà dello spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno»440. La dignità è legata all’operato della volontà, che si trova a metà strada tra la legge di natura, che prescrive

430 Cfr. O. NEGT, L’irripetibile: trasformazioni nel concetto culturale di dignità, cit., 34. 431 Cfr. M.A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, cit., 54. 432 Così F. SCHILLER, Grazia e dignità, a cura di D. DI MAIO – S. TEDESCO, Milano, 2010, 16. 433 Così F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 26. 434 Cfr. F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 24. 435 Cfr. F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 35 s. 436 Così F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 40 (corsivi dell’Autore). 437 Cfr. F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 14 ss. 438 Cfr. F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 47 ss. 439 Cfr. F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 49, il quale, riferendosi a Kant, dice che «Egli divenne il

Dracone del suo tempo, poiché esso non gli appariva ancora idoneo e degno di un Solone» (corsivi dell’Autore).

440 Così F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 59 (corsivi dell’Autore).

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l’appagamento degli istinti animali, e la legge della ragione, che invece comanda la dominazione di quelle pulsioni. La volontà, in quanto facoltà sovrasensibile, non è sottomessa a nessuna delle due leggi ed è anzi libera di scegliere se obbedire all’una o all’altra; sarà, però, morale, e quindi agirà con dignità, soltanto se sceglierà di congiungersi alla legge della ragione. La dignità riassume, dunque, la resistenza della volontà agli appetiti naturali e la sua conformazione al comando della ragione. In proposito, Schiller afferma che «Solo spezzando la violenza della brama che incalza verso il proprio soddisfacimento e preferirebbe trascurare l’istanza della volontà, l’uomo palesa la propria indipendenza e si afferma come essere morale, che non deve mai puramente bramare o aborrire, ma sempre volere il proprio aborrimento e brama»441. La dignità, che trasforma l’anima bella in una sublime, si manifesta esteriormente attraverso la calma nel patire, che esprime il controllo dello spirito dell’uomo sulla sua parte sensibile442.

A questo punto sembra aprirsi una contraddizione tra grazia e dignità, ma la contraddizione si risolve considerando che esse operano in ambiti diversi e possono pertanto coesistere nella medesima persona: l’uomo deve compiere con grazia gli atti che rientrino nei limiti della sua umanità e con dignità gli atti che richiedano di andare oltre la sua umanità e di tendere al sublime443.

L’etica di Schiller e il suo concetto di dignità costituiscono in definitiva un approfondimento delle tesi kantiane e, contemporaneamente, un’attenuazione degli aspetti più rigoristici, nell’ottica di una conciliazione tra grazia e dignità444.

11. Gli sviluppi successivi: dalle proclamazioni dei diritti dell’uomo nelle dichiarazioni settecentesche all’affermazione della dignità umana nelle carte costituzionali e internazionali del secondo dopoguerra

Dopo Kant e Schiller, la dignità umana non è più oggetto di una compiuta

riflessione filosofica, né assurge a concetto giuridico fino al secondo dopoguerra445. Nello stesso tempo, però, essa riceve concreta tutela attraverso la proclamazione dei diritti dell’uomo nelle carte settecentesche446. La visione giusnaturalistica dell’uomo come titolare di diritti logicamente anteriori alla fondazione dello Stato, il cui fine è proprio quello di dare ad essi maggiore garanzia447, trova espressione sia nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 che nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789448. Nella Dichiarazione americana una simile idea è

441 Così F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 57 s. (corsivo dell’Autore). 442 Cfr. F. SCHILLER, Del sublime, in ID., Saggi estetici, a cura di C. BASEGGIO, Torino, 1951, 90. 443 Cfr. F. SCHILLER, Grazia e dignità, cit., 64 ss. 444 Cfr. C. RUIZ MIGUEL, Human Dignity: History of an Idea, cit., 296. 445 Cfr. P. BECCHI, Il doppio volto della dignità, cit., 593. 446 Cfr. A. PIROZZOLI, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, cit., 30 s.; M.

RUOTOLO, Appunti sulla dignità umana, in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, vol. IV, Napoli, 2011, 3128 s.

447 Cfr. J. LOCKE, Secondo trattato, cit., §§ 95 (297) e 123 ss. (318 ss.). 448 Cfr. N. BOBBIO, L’eredità della grande Rivoluzione, in ID., L’età dei diritti, Torino, 1997, 122,

secondo cui «Il punto di partenza comune è l’affermazione che l’uomo ha diritti naturali che in quanto naturali sono precedenti alla istituzione del potere civile e debbono quindi essere da questo riconosciuti,

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così proclamata: «Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli Uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando un qualsiasi Sistema di Governo diventa distruttivo di questi fini, è Diritto del Popolo di alterarlo o di abolirlo e di istituire un nuovo Governo, ponendone il fondamento su questi principi ed organizzandone i poteri in una forma tale che gli sembri la più adeguata per garantire la propria sicurezza e la propria Felicità»449. Analogo è il contenuto del primo, del secondo e del sedicesimo articolo della Dichiarazione del 1789; l’art. 1 sancisce che «Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune»; l’art. 2 stabilisce che «Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione»; l’art. 16 chiarisce infine che «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione»450.

Come è stato sostenuto, le due dichiarazioni segnano un rovesciamento nel modo di concepire il rapporto tra governanti e governati: la libertas precede ora la potestas e il rapporto politico non è più visto ex parte principis ma ex parte civium451. In generale, la Rivoluzione americana e quella francese, portando alla ribalta la protezione dei diritti individuali e la realizzazione del principio d’uguaglianza, segnano una cesura rispetto al costituzionalismo delle origini452.

Ovviamente ciò non significa che la nuova cultura dei diritti, figlia del giusnaturalismo e dell’Illuminismo, implichi la cancellazione di tutte le diseguaglianze e comporti il riconoscimento integrale della dignità di ogni uomo in quanto tale. Proprio nel momento in cui la Rivoluzione francese spazza via gli odiosi privilegi dell’Ancien Regime, altre contraddizioni si aprono e dimostrano che la strada per la piena attuazione dell’art. 1 della Dichiarazione del 1789 è ancora lunga; tra queste contraddizioni, si possono citare il problema della diseguaglianza delle donne rispetto agli uomini e la tolleranza della schiavitù453.

In secondo luogo, bisogna ricordare che il percorso per l’affermazione dei diritti non è lineare, ma al contrario tortuoso e caratterizzato da avanzamenti e arretramenti. In

rispettati e protetti»; C. MORTATI, Relazione sui diritti pubblici subiettivi, in ID., Raccolta di scritti, vol. I (Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato), Milano, 1972, 610; P. RIDOLA, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, cit., 59 s.; F. BARTOLOMEI, La dignità umana come concetto e valore costituzionale. Saggio, cit., 7, nota 2.

449 Il testo della Dichiarazione è tratto da M. FLORES (diretto da), Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Documenti, Torino, 2007, 118.

450 Il testo della Dichiarazione è tratto da M. FLORES (diretto da), Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Documenti, cit., 122 s.

451 Cfr. N. BOBBIO, L’eredità della grande Rivoluzione, cit., 123 ss. 452 Cfr. M. FIORAVANTI, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma-Bari,

2009, 7. Si intende per “costituzionalismo”, nei suoi termini essenziali, quel movimento volto alla progressiva limitazione legale del governo, secondo la definizione di C.H. MCILWAIN, Costituzionalismo antico e moderno, a cura di N. MATTEUCCI, Bologna, 1990, 44. In termini analoghi si esprime N. MATTEUCCI, Costituzionalismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II, Roma, 1992, 522, secondo cui «In prima approssimazione possiamo dire che il costituzionalismo (antico e moderno) non guarda tanto a “chi” deve governare, ma a “come” si deve governare, perché mira soprattutto a una limitazione dei poteri del governo attraverso il diritto: si può dire che esso sia la tecnica giuridica delle libertà».

453 Cfr. M. FLORES, Storia dei diritti umani, cit., 57.

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effetti, già nello Stato liberale ottocentesco il modo di intendere i diritti e la connessa garanzia assicurata dallo Stato cambia e al modello individualistico, prevalente nelle Rivoluzioni settecentesche, si sostituisce un modello essenzialmente statualistico454. Sul piano filosofico, un decisivo apporto alla costruzione di questo modello è dato da Friedrich Hegel, il cui pensiero segna l’apoteosi della soggettività e contemporaneamente il suo assorbimento nello Stato455. Per Hegel, come per Kant, la norma fondamentale del diritto astratto è riassunta dalla formula «sii una persona e rispetta gli altri come persone»456. Tale imperativo giuridico-formale è però soltanto il primo stadio della dialettica hegeliana. Hegel critica la teoria kantiana per il suo formalismo astratto457, sostenendo che «quanto più si resta fermi al punto di vista meramente morale e non si passa al concetto dell’Eticità, tanto più questo guadagno degrada in un vuoto formalismo, e la scienza morale scade nella retorica del dovere per il dovere»458. L’imperativo kantiano è allora solo il punto di partenza dello sviluppo dell’idea della volontà libera in sé e per sé, che, prendendo le mosse dal Diritto astratto e passando attraverso la Moralità, trova la sua sintesi nell’Eticità, in cui si realizza l’Idea nella sua esistenza universale in sé e per sé459. L’Eticità, a sua volta, si articola nei tre momenti dialettici della Famiglia, della Società civile e dello Stato; lo Stato è il fine ultimo e assoluto, il Razionale in sé e per sé, la realtà dell’idea etica460.

In altre parole, la libertà trova compimento nello Stato e in esso si “risolve”, poiché solo dallo Stato derivano tutto il valore dell’uomo e tutta la realtà spirituale461. Ciò non

454 Si fa qui riferimento ai tre approcci alla problematica delle libertà descritti da M. FIORAVANTI, Appunti di storia delle Costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, Torino, 1995, 17 ss., che individua tre modi di fondare teoreticamente le libertà: storicistico, individualistico e statualistico. Nella prospettiva storicistica, le libertà sono l’esito dell’evoluzione storica, che ha condotto alla progressiva emersione di sfere di autonomia del singolo, protette dall’invadenza dei poteri pubblici. Quest’approccio, che fa risalire alla tradizione medioevale una prima embrionale garanzia dei futuri diritti di libertà, vede nell’ordinamento inglese la sua piena realizzazione e privilegia l’aspetto delle libertà civili, intese come pretese all’astensione di ogni soggetto pubblico e privato. Il modello individualistico si basa al contrario sulla frattura rispetto al passato e sulla cancellazione dell’ordine cetuale del Medioevo. A quest’ordine viene contrapposta l’idea dell’originaria libertà di ogni individuo nello stato di natura, cui segue un patto stipulato tra gli uomini per assicurare una protezione più stabile alla loro libertà naturale mediante la creazione di una comunità politica. Al rifiuto dell’ordine medioevale si accompagna quindi la visione contrattualistica dell’associazione politica. La prospettiva individualistica ha il suo punto di riferimento nella Rivoluzione francese e, in generale, nelle dichiarazioni settecentesche. L’approccio statualistico pone al centro della sua costruzione lo Stato, da cui discendono l’esistenza dei diritti fondamentali e la loro tutela, inconcepibili al di fuori di esso. Un modello del genere, che esclude la preesistenza dei diritti umani, si concretizza soprattutto nello Stato liberale ottocentesco. Ovviamente nessuno di questi approcci, i cui caratteri sono stati accentuati a fini esemplificativi, può dirsi realizzato storicamente nella sua interezza; nella maggior parte dei casi elementi riconducibili ai tre modelli sono riscontrabili nella medesima esperienza. Nondimeno essi risultano distinguibili almeno concettualmente e ciò consente di stabilire la prevalenza, nelle diverse fasi storiche, di profili ascrivibili all’uno o all’altro.

455 Cfr. P. RIDOLA, La dignità dell’uomo e il “principio libertà” nella cultura costituzionale europea, cit., 92; A. BARBERA, Le basi filosofiche del costituzionalismo, in ID. (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo. Lineamenti di filosofia del diritto costituzionale, cit., 30; E. BLOCH, Diritto naturale e dignità umana, cit., 113.

456 Così G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. CICERO, II ed., Milano, 2010, § 36 (129) (corsivo dell’Autore).

457 Cfr. J.-P. WILS, Fine della “dignità umana” in etica?, cit., 75. 458 Così G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 135 (259) (corsivi dell’Autore). 459 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 33 (123). 460 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 257 s. (417). 461 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. BONACINA – L. SICHIROLLO,

IV ed., Roma-Bari, 2010, 35.

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vuol dire che lo Stato sia uno strumento per la soddisfazione della volontà del singolo: questa non è libertà ma arbitrio, cui lo Stato pone un limite. Sotto tale aspetto, Hegel contesta sia il contrattualismo che il liberalismo. Nella sua visione, lo Stato non può fondarsi su un contratto, perché altrimenti si trasferirebbero le determinazioni della proprietà privata e le categorie del diritto privato in una sfera totalmente differente e superiore, quella dell’Eticità462. Neanche il liberalismo può essere accettato, nella misura in cui affida le sorti dello Stato all’atomismo delle volontà individuali, minandone la stabilità463. Usando le parole di Hegel, «Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale. Lo Stato ha invece un rapporto completamente diverso con l’individuo. Lo Stato, infatti, è Spirito oggettivo, e l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità solo in quanto è un membro dello Stato»464.

Il dogma hegeliano della Stato sovrano465 e l’ossessione del liberalismo ottocentesco per la stabilità466 condussero all’affermazione dell’approccio statualistico alla tematica dei diritti. Sul piano giuridico, questa visione si tradusse nella teoria dei diritti pubblici soggettivi, elaborata dalla dottrina giuspositivistica di fine Ottocento. Nella sistemazione teorica di Georg Jellinek, i diritti sono il frutto di un’auto-limitazione o auto-obbligazione dello Stato e consistono nella libertà da costrizioni illegali, cui è collegato il potere di agire per far constatare la violazione delle norme giuridiche467. Quanto detto non implica la giustificazione di un potere arbitrario468; anzi il tentativo di Jellinek è proprio quello di mitigare lo statalismo autoritario tedesco e di conciliarlo con alcuni elementi della tradizione liberale469. Ciò nonostante, la riconduzione della garanzia dei diritti all’onnipotenza dello Stato470 reca in sé il rischio che i diritti, così come sono concessi dallo Stato, possano anche essere revocati o comunque svuotati di contenuto e non esclude, quindi, il pericolo di un’involuzione autoritaria o dispotica471.

Questo rischio si è rivelato assai concreto nella prima metà del Novecento. Nel primo dopoguerra esplodono le contraddizioni dei regimi liberali, la cui incapacità di fronteggiare le tensioni sociali derivanti dall’ingresso sulla scena politica di nuove classi sociali apre la via alla conquista del potere da parte del partito fascista in Italia e di

462 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 75 (179). 463 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., 366. 464 Così G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 258 (417 ss.). 465 Cfr. M. FIORAVANTI, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, cit., 42 s. 466 Cfr. M. FIORAVANTI, Appunti di storia delle Costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, cit.,

105. 467 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, 5 ss.; G.

BONGIOVANNI, Diritti inviolabili e libertà, in A. BARBERA (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo. Lineamenti di filosofia del diritto costituzionale, cit., 84.

468 Cfr. M. FIORAVANTI, Appunti di storia delle Costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, cit., 116.

469 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi, cit., 4. 470 Cfr. G. OESTREICH, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cura di G. Gozzi, III

ed., Roma-Bari, 2004, 119. 471 Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, III ed., Torino, 2011, 7; P.F.

GROSSI, I diritti di libertà ad uso di lezioni, II ed., Torino, 1991, 142 s.

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quello nazista in Germania472. Se in Italia i nuovi meccanismi della democrazia di massa hanno un effetto destabilizzante sulla tenuta del sistema liberale, in Germania a tale fattore si aggiunge l’effetto devastante della crisi economica del 1929, che determina un aumento della disoccupazione in tutto l’Occidente, con un dato pari al 43,7% nel 1932 in Germania473. Proprio negli stessi anni si registra la crescita del partito nazionalsocialista, il cui consenso elettorale passa dal 2,6% nel 1928 al 37,4% nel luglio 1932474. All’ascesa di Hitler al potere segue la costruzione di un regime totalitario, che eleva a sistema la negazione della dignità umana475. Non che prima di questo momento le violazioni dei diritti umani fossero episodiche; basti pensare ai crimini del colonialismo o alla comparsa dei primi campi di concentramento già alla fine del 1800476. Eppure solo nei regimi totalitari si realizza il radicale annullamento della dignità. Il primo passaggio che conduce a un esito del genere è l’individuazione di un “nemico oggettivo”, definito ideologicamente dal movimento totalitario prima della conquista del potere. La peculiarità di un simile concetto può essere così spiegata: «il “nemico oggettivo” differisce dal “sospetto” delle polizie segrete dispotiche in quanto la sua identità è determinata dall’orientamento politico del governo, e non dal suo desiderio di rovesciarlo»477. Tali sono gli Ebrei nella Germania nazista e la loro eliminazione, assieme a quella di oppositori politici, prigionieri di guerra, omosessuali, disabili, rom, residenti in territori occupati, è progettata e attuata scientificamente come un vero e proprio “massacro amministrativo”478.

I campi di concentramento e di sterminio rappresentano un’istituzione fondamentale del potere totalitario, perché inverano la pretesa di controllare in maniera assoluta ogni individuo e di disumanizzarlo479. Più precisamente, «l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell’animale umano […]. Distruggere l’individualità è distruggere la spontaneità, la capacità dell’uomo di dare inizio coi propri mezzi a qualcosa di nuovo che non si può spiegare con la reazione all’ambiente e agli avvenimenti. Allora non rimangono altro che sinistre marionette con volti umani, che si comportano tutte come il cane dell’esperimento di Pavlov, che reagiscono tutte con perfetta regolarità anche quando vanno incontro alla propria morte, e che si limitano a reagire»480. Da quanto detto emerge la differenza tra un regime totalitario e un regime dittatoriale: mentre quest’ultimo mira a governare in maniera dispotica gli uomini, il primo punta a renderli superflui mediante la cancellazione dell’individualità e la riduzione a esemplari della

472 Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, cit., 13. 473 Cfr. M. FLORES, Storia dei diritti umani, cit., 179 s. 474 Cfr. M. FLORES, Storia dei diritti umani, cit., 181. 475 Cfr. P. MOROZZO DELLA ROCCA, Il principio di dignità della persona umana nella società

globalizzata, in Dem. dir., n. 2/2004, 197; G. DOSSETTI, Introduzione, in L. GHERARDI, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno 1898-1944, VI ed., Bologna, 2014, 31.

476 V. M. FLORES, Storia dei diritti umani, cit., 147 ss. 477 Così H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, trad. it. a cura di A. GUADAGNIN, Torino, 2009,

580. Sui caratteri dei regimi totalitari, cfr. anche G. DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale comparato, vol. II, VI ed., Padova, 2004, 281 s.; P.F. GROSSI, I diritti di libertà ad uso di lezioni, cit., 112 ss.

478 Cfr. H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. a cura di P. BERNARDINI, XVIII ed., Milano, 2011, 291.

479 Cfr. H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, cit., 599 s.; G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, vol. I (Filosofia e teoria generale del diritto), Padova, 1950, 8.

480 Così H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, cit., 623.

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specie animale “uomo”481. I Lager costituiscono lo strumento più adatto per conseguire tale scopo.

Dopo il secondo conflitto mondiale, la dignità umana viene riaffermata. La reazione alla barbarie dei totalitarismi e agli orrori della guerra è all’origine della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948482, il cui preambolo pone al centro del nuovo ordine internazionale la dignità umana e la intende come fondamento dei diritti umani, della pace e della giustizia nel mondo (v. supra, § 1). In effetti, già prima della guerra vi erano stati richiami alla dignità in alcune costituzioni: in quella messicana del 1917, in quella della Repubblica di Weimar, nell’atto costituzionale finlandese del 1919, nella costituzione portoghese del 1933, in quella irlandese del 1937 e in quella cubana del 1940; si trattava però di riferimenti sporadici e marginali483. Nella Dichiarazione del 1948 la dignità ha invece un ruolo essenziale, come si evince sia dal preambolo sia dall’art. 1. L’inserimento di questo concetto è sicuramente legato all’analogo richiamo alla dignità contenuto nel preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite, adottato nel 1945484. Per quanto riguarda invece le sue radici filosofiche, bisogna precisare che le concezioni della dignità prevalenti nei primi anni ’40 erano ascrivibili a tre tradizioni di pensiero: il concetto ontologico di “persona”, formulato dalla dottrina cristiana e a sua volta risalente alla filosofia greca e alla teologia medioevale; la visione biblica dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio; la tradizione giusnaturalistica e illuministica485. Tali ascendenze filosofiche non si evincono tuttavia dal testo della Dichiarazione, il cui obiettivo era quello di fornire una base teoretica al riconoscimento dei diritti umani compatibile con i diversi modi di intendere i diritti stessi486. Sul punto vi erano infatti profonde divergenze tra i Paesi

481 Cfr. H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, cit., 625 s. 482 Cfr. Y. ARIELI, On the Necessary and Sufficient Conditions for the Emergence of the Doctrine of

the Dignity of Man and His Rights, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 1 s.; J. ECKERT, Legal Roots of Human Dignity in German Law, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 52; A. CHASKALSON, Human Dignity as a Constitutional Value, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 133 s.; S. CARMIGNANI CARIDI, Dignità umana – Parte giuridica, in E. SGRECCIA – A. TARANTINO (diretta da), Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, cit., 301 s.; R. ANDORNO, The paradoxical notion of human dignity, cit., 156 s., il quale sottolinea che la comprensione della dignità umana è spesso possibile solo attraverso l’esperienza dell’indegnità; G. CAPOGRASSI, La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e il suo significato, in ID., Opere, vol. V, Milano, 1959, 47, secondo cui «Legislazioni e pratiche, applicando e svolgendo il principio dell’individuo come puro mezzo, e dell’assoluta libertà dello Stato da ogni principio e da ogni verità avevano sottoposto l’individuo a implacabili regimi: viene la Dichiarazione e, articolo per articolo, condanna, una per una, tutte queste pratiche negatrici dell’individuo, della sua libertà e della sua dignità. La grande conquista e il profondo significato della Dichiarazione è proprio in questa condanna».

483 Cfr. C. MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, in The European Journal of International Law, 2008, vol. 19, n. 4, 664.

484 Cfr. C. MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, cit., 675. 485 Cfr. K. DICKE, The Founding Function of Human Dignity in the Universal Declaration of

Human Rights, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 113.

486 Ne è un esempio la sostituzione dell’originaria formulazione dell’art. 1, “Tutti gli esseri umani sono per natura liberi ed eguali”, con quella attuale (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali”), a causa dell’opposizione del delegato della Cina, che riteneva il richiamo alla natura troppo legato al linguaggio dell’Illuminismo francese e del pensiero giusnaturalistico. L’episodio è riportato da K. DICKE, The Founding Function of Human Dignity in the Universal Declaration of Human Rights, cit., 117.

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occidentali e quelli orientali487, che avrebbero potuto essere ricomposte solo grazie a una nozione di dignità umana che avesse le seguenti caratteristiche: fosse una sintesi dei molteplici diritti fondamentali e non una semplice somma dei medesimi; non avesse radici in una particolare regione del globo e fosse sensibile alle differenze culturali; conciliasse la dimensione individuale della persona con quella sociale; non derivasse da una concessione dello Stato, revocabile in ogni momento; fosse umanistica ma non correlata ad una specifica ideologia; fosse duratura ma capace di adattarsi ai mutamenti dei paradigmi culturali488. L’esito di questo compromesso trova espressione nella formulazione della Dichiarazione489, che, nonostante la non vincolatività e le difficoltà che ne hanno contraddistinto l’elaborazione, può essere considerata una nuova Magna Charta mondiale490, in grado di gettare le basi per il riconoscimento agli individui, e non più solo agli Stati, della qualità di soggetti del diritto internazionale491.

La condanna dei sistemi totalitari e l’intento di superare i limiti degli Stati liberali ottocenteschi animano anche le costituzioni democratiche del secondo dopoguerra492, in cui la dignità umana non è più solo un’idea filosofica ma un vero e proprio concetto giuridico posto a fondamento dell’ordinamento493. Prima di passare all’analisi della dignità umana come concetto giuridico nella Costituzione italiana e nelle carte sovranazionali di tutela dei diritti fondamentali, è opportuno illustrare alcune conclusioni che possono trarsi dall’excursus storico-filosofico delineato.

12. Conclusioni L’esame delle diverse accezioni filosofiche della dignità umana dimostra

l’esistenza di vari paradigmi: la dignità può essere intesa in senso morale, se riferita

487 Per una disamina delle concezioni non occidentali dei diritti fondamentali, v. J. DONNELLY, Human Rights and Human Dignity: An Analytic Critique of Non-Western Conceptions of Human Rights, in The American Political Science Review, vol. 76 (1982), 303 ss.

488 Cfr. C. MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, cit., 677. Analogamente, D.N. WEISSTUB, Honor, Dignity and the Framing of Multiculturalist Values, in D. KRETZMER – E. KLEIN (a cura di), The Concept of Human Dignity in Human Rights Discourse, cit., 263, che definisce la dignità un punto di convergenza umanistico e non ideologico.

489 Che si deve soprattutto ai giuristi René Cassin e John Humphrey. Più precisamente, Humphrey redasse la prima bozza della Dichiarazione, ma i riferimenti alla dignità umana furono suggeriti da Cassin. In proposito, cfr. C. MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, cit., 676 s., anche per l’ulteriore bibliografia.

490 Cfr. G. OESTREICH, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, cit., 141 s. Secondo C. AMIRANTE, Introduzione. Diritti dell’uomo e sistema costituzionale: un futuro dal cuore antico?, in E. DENNINGER, Diritti dell’uomo e Legge fondamentale, a cura di C. AMIRANTE, Torino, 1998, LII, «la Dichiarazione universale, al di là dei limiti politici e giuridici, ha rappresentato una svolta epocale proprio per le conseguenze culturali che ha prodotto sia sull’opinione pubblica internazionale che sugli stessi stati». Accenti analoghi si rinvengono in J.J. PAUST, Human Dignity as a Constitutional Right: a Jurisprudentially Based Inquiry into Criteria and Content, in Howard Law Journal, 1984, 146 s.; A.K. SEN, The Power of a Declaration, in The New Republic, 4 febbraio 2009.

491 Cfr. N. BOBBIO, Kant e la Rivoluzione francese, in ID., L’età dei diritti, cit., 152 s. N. MATTEUCCI, Costituzionalismo, cit., 534, considera la Dichiarazione del 1948 in qualche modo rivoluzionaria e simile alle carte settecentesche, perché volta a garantire i diritti degli individui anche contro gli Stati di appartenenza.

492 Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, cit., 15; P. RIDOLA, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, cit., 125.

493 Cfr. G. PIEPOLI, Dignità e autonomia privata, in Pol. dir., 2003, 56.

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all’uomo in quanto tale, oppure in senso sociale, se riguarda la posizione di ogni individuo rispetto a tutti gli altri; può essere vista come assoluta o al contrario come relativa; può fondare l’eguaglianza tra gli uomini o viceversa postularne la discriminazione. La distinzione più rilevante è però quella tra dignità come dote e dignità come prestazione494. Nella prima accezione la dignità è una qualità innata, che ciascuno possiede sin dalla nascita in quanto appartenente al genere umano e che non può essere accresciuta o diminuita. Nel secondo significato la dignità non è un dato acquisito, ma un risultato da raggiungere, il prodotto delle azioni umane. Le concezioni finora descritte non sono meccanicamente riconducibili ai paradigmi citati; se ad esempio la visione cristiana esprime chiaramente l’idea secondo cui la dignità è una qualità intrinseca a ogni uomo, non mancano tuttavia in questa concezione elementi di dinamismo, legati all’esperienza del peccato originale e alla conquista della salvezza da parte dell’uomo. In senso opposto, la dignitas romana indica la posizione dell’individuo nella società, ma non sono estranei a una simile visione connotati morali che sembrano attenuarne la relatività e sembrano conferire alla dignitas un certo grado di assolutezza.

Alle teorie descritte finora va aggiunta una teoria contemporanea della dignità, elaborata da Niklas Luhmann. Il corretto inquadramento della dignità umana nel pensiero del sociologo tedesco passa attraverso la ricognizione dell’immagine complessiva della persona. Tale immagine è intrinsecamente legata alla socialità dell’uomo, nel senso che la sua individualità diventa consapevole solo nel momento in cui egli si autorappresenta come membro dell’interazione sociale495. Alla luce di questa premessa, la dignità e la libertà si configurano come condizioni basilari dell’esito positivo del processo di autorappresentazione e, quindi, del processo di formazione della personalità individuale. La dignità non è però un dato connaturato all’individuo, ma un risultato da raggiungere. Essa è la sintesi delle autorappresentazioni che hanno avuto esito positivo. Non è, quindi, né una dotazione naturale, né una qualità innata, né tanto meno un valore di cui il soggetto sarebbe portatore in quanto essere umano. La dignità umana va conquistata. Si tratta di una conquista non semplice e che va continuamente rinnovata, mediante una costante cooperazione sociale. La delicatezza di tale conquista deriva dal fatto che anche una singola deviazione nel processo di autorappresentazione può annullare la dignità dell’individuo, non a caso considerata uno dei beni più sensibili dell’uomo496. Se l’autorappresentazione, che costituisce l’individuo nella sua umanità, fallisce, il soggetto si ritrae dal sistema comunicativo: «egli rinuncia alla libertà di scelta dei contatti e riconduce – per così dire – la sua libertà alla misura della sua dignità»497.

Dignità e libertà si influenzano vicendevolmente, essendo rispettivamente precondizioni interne ed esterne del processo di autorappresentazione. La libertà senza dignità conduce a comunicazioni prive di senso per l’individuo. La dignità senza libertà non può esplicarsi, venendo meno la scelta tra diverse rappresentazioni possibili; alla

494 Cfr. H. HOFMANN, La promessa della dignità umana. La dignità dell’uomo nella cultura giuridica tedesca, cit., 625.

495 Cfr. N. LUHMANN, I diritti fondamentali come istituzione, a cura di G. PALOMBELLA – L. PANNARALE, Bari, 2002, 110 s., il quale aggiunge che l’uomo costruisce la sua individualità soltanto nei rapporti sociali.

496 Questa sensibilità segna lo scarto tra la norma, che dichiara la dignità intangibile (“unantastbar”, secondo l’espressione utilizzata dall’art. 1 della Legge fondamentale tedesca), e il fatto, che vede quella stessa dignità compromessa in svariate occasioni e nei più diversi sistemi sociali. Cfr. N. LUHMANN, I diritti fondamentali come istituzione, cit., 120.

497 Così N. LUHMANN, I diritti fondamentali come istituzione, cit., 121.

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mancanza di scelta segue la fuga del soggetto verso etichette precostituite e ruoli sociali predefiniti. Entrambe, pertanto, meritano un’adeguata tutela da parte dello Stato. Pur essendo anteriori al riconoscimento statuale, esse si prestano a una giuridificazione. Ciò vale non solo per la libertà, per la quale non sussistono particolari dubbi, ma anche per la dignità, che pure si presta a una giuridificazione come diritto fondamentale. È importante, però, tenere presenti due condizioni: da un lato, la dignità non va sovraccaricata di pathos498; dall’altro lato, il giurista deve essere consapevole della natura metagiuridica del concetto di dignità, natura che non va però cercata nell’universo metafisico dei valori, ma nella realtà sociale499.

In definitiva, nel pensiero di Luhmann la dignità umana si definisce in virtù della socialità dell’individuo e questa socialità fa sì che la dignità non sia un dato acquisito o una qualità naturale, ma l’esito di un processo di autorappresentazione che il soggetto, consciamente o inconsciamente, pone in essere. La dimensione relazionale della dignità umana sottolineata da Luhmann consente di includere la sua teoria tra le c.d. teoriche della dignità come prestazione.

È chiaro a questo punto che le accezioni della dignità umana sono assai numerose e tra loro eterogenee. Dai presupposti filosofici della dignità umana non si può prescindere nell’analisi della medesima come concetto giuridico, con l’avvertenza però che è illusorio pensare di dedurre solo da essi la soluzione di casi concreti500, specie in ambiti delicati come quello bioetico501 o, più in generale, nelle ipotesi di potenziale conflitto tra libertà e dignità.

498 In proposito, N. LUHMANN, I diritti fondamentali come istituzione, cit., 127 s., afferma che «si

deve solo rinunciare a sovraccaricare di pathos le disposizioni di legge, poiché con le sole scomuniche non si vincono i processi».

499 Cfr. N. LUHMANN, I diritti fondamentali come istituzione, cit., 128. 500 Cfr. V. BALDINI, La dignità umana tra approcci teorici ed esperienze interpretative, in Rivista

AIC, n. 2/2013 (7 giugno 2013), 2, secondo cui la ricostruzione del concetto giuridico di dignità non può fondarsi direttamente sulle diverse posizioni filosofiche, che possono invece indirizzare l’attività interpretativa.

501 Cfr. F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, cit., 620 s.

CAPITOLO SECONDO

LA DIGNITÀ NELL’ORDINAMENTO ITALIANO SOMMARIO: 1. La dignità nella Costituzione italiana. – 2. Dignità e diritti inviolabili. – 2.1. Principio

personalista e dignità umana. – 2.2. Dignità e “nuovi diritti”. – 3. Dignità umana e diritti sociali. – 4. La pari dignità sociale (art. 3, co. 1, Cost.). – 4.1. Le azioni positive, tra pari dignità sociale ed eguaglianza sostanziale. – 5. La retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, co. 1, Cost.). – 6. La dignità umana come limite all’iniziativa economica privata (art. 41, co. 2, Cost.). – 7. Esecuzione della pena e dignità umana (art. 27, co. 3, Cost.). – 8. Rispetto della persona umana e trattamenti sanitari obbligatori (art. 32, co. 2, Cost.). – 8.1. Gli ambigui richiami al concetto di dignità nei provvedimenti giudiziari adottati nel “caso Welby” e nel “caso Englaro”. – 9. La giurisprudenza costituzionale sulla dignità umana. – 9.1. Rapporto tra dignità e buon costume come limite alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21, co. 6, Cost.). – 9.2. Lesioni della dignità umana e misure restrittive della libertà personale. – 9.3. Dignità umana e incidenza sul sistema delle fonti del diritto. – 10. Conclusioni.

1. La dignità nella Costituzione italiana

La Costituzione italiana non dedica alla dignità umana una disposizione di carattere generale, paragonabile all’art. 1 della Legge fondamentale tedesca. Nondimeno, tale concetto trova espressione sotto tre distinti profili. Innanzitutto, esso risulta strettamente collegato al principio personalista e alla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sanciti dall’art. 2 Cost. Tra questi diritti, particolare è il rapporto che intercorre tra la dignità e i diritti sociali, la cui protezione è indispensabile ai fini di una concreta realizzazione dell’idea di dignità umana1.

In secondo luogo, ad essa si fa esplicito riferimento in alcuni articoli della Costituzione. In particolare, l’art. 3, co. 1, Cost. proclama la pari dignità sociale di tutti i cittadini. L’art. 36, co. 1, Cost. assume la dignità quale parametro della retribuzione, che deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. L’art. 41, co. 2, Cost. indica la dignità umana come limite all’iniziativa economica privata. Come emerge dalla lettura delle disposizioni citate, soltanto l’art. 41 Cost. parla di dignità umana, mentre negli altri casi sembra accolta una diversa accezione del termine “dignità”. Ciò rende impossibile la ricostruzione di un concetto unitario di dignità e impone al contrario un’analisi particolareggiata dei singoli richiami, che ne illustri il significato e la portata applicativa2. Una simile operazione va condotta soprattutto con riguardo alla dignità

1 Cfr. G. ROLLA, Dignità, in M. FLORES (diretto da), Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della

persona nell’epoca della globalizzazione, Dizionario, vol. I, cit., 308. 2 Cfr. P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, in Dir. soc., 2008, 31.

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sociale di cui all’art. 3 Cost., allo scopo di coglierne le implicazioni giuridiche e il legame con la dignità umana.

Al concetto di dignità sembrano infine riferirsi implicitamente alcuni articoli della Carta costituzionale, che pure non menzionano il relativo termine. Restringendo il campo d’indagine alle sole norme che più chiaramente rilevano a tal fine, devono menzionarsi l’art. 27, co. 3, Cost., secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e l’art. 32, co. 2, Cost., in base al quale la legge che imponga un determinato trattamento sanitario non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana3. Questi richiami meritano un attento esame, che ne spieghi il collegamento con la dignità umana.

2. Dignità e diritti inviolabili Nell’analisi del nesso esistente tra dignità e diritti inviolabili, bisogna in primis

soffermarsi sul rapporto tra la garanzia della dignità umana e il principio personalista e poi capire se il collegamento tra la dignità e l’art. 2 Cost. produca specifiche conseguenze giuridiche, soprattutto in relazione alla problematica dei “nuovi diritti”.

2.1. Principio personalista e dignità umana L’attinenza della dignità umana al principio personalista deriva dal riconoscimento

dell’anteriorità della persona rispetto allo Stato4. Se l’uomo ha un valore insopprimibile, racchiuso nell’idea della sua dignità, questo valore deve essere riconosciuto dallo Stato e protetto mediante la garanzia di alcuni diritti fondamentali connaturati a tale valore. Il

3 Assai più ampio è l’elenco proposto da F. GAMBINI, Il principio di dignità, in P. CENDON (a cura

di), I diritti della persona. Tutela civile, penale, amministrativa, vol. I, Torino, 2005, 232, che rinviene rinvii impliciti al principio in esame negli articoli 2, 4, 6, 8, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 24, 27, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 36 e 47. In proposito, è opportuno un chiarimento: è condivisibile l’assunto per cui la dignità si pone quale antecedente logico o, a seconda dei punti di vista, quale fonte o fondamento di tutti i diritti fondamentali, come d’altronde evidenzia il suo legame con il principio personalista. Non si può invece concordare con l’Autore nella misura in cui quei richiami siano intesi come produttivi di specifiche conseguenze normative, che sicuramente non sussistono e che rischiano al contrario di rendere estremamente generico e quindi poco utile il concetto di dignità.

4 Cfr. D. BIFULCO, L’inviolabilità dei diritti sociali, Napoli, 2003, 124; G. SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona. Intervento al Convegno trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, tenutosi a Roma il 1º ottobre 2007, in www.archivio.rivistaaic.it, 14 marzo 2008, il quale aggiunge che «La dignità possiede pertanto un plusvalore, in quanto è il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il grande edificio del costituzionalismo contemporaneo»; ID., Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, 86; A. MATTIONI, Profili costituzionali della dignità umana, in Jus, 2008, 273 s.; M. DI CIOMMO, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, cit., 106 ss.; F. POLITI, La tutela della dignità dell’uomo quale principio fondamentale della Costituzione Repubblicana, in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, cit., vol. III, 2665 ss.; C. PICIOCCHI, La dignità come rappresentazione giuridica della condizione umana, cit., 238; G.M. FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Rivista AIC, n. 4/2014 (21 novembre 2014), 2 e 12; P. VERONESI, La dignità umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quad. cost., 2014, 341.

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principio personalista è consacrato nell’art. 2 Cost.5, la cui formulazione sottende una visione secondo cui «non l’uomo è in funzione dello stato ma quest’ultimo in funzione dell’uomo, nel senso che suo fine è di assicurare lo svolgimento della persona umana e di garantirne i diritti, e che pertanto questi sono inviolabili»6. In altri termini, la protezione dei diritti fondamentali presuppone la centralità della persona, assunta come fondamento dell’ordinamento7. La persona, peraltro, non è più intesa secondo il paradigma delle dichiarazioni dei diritti settecentesche: l’uomo non è più visto come astratto e isolato, ma nella sua concretezza esistenziale8 e soprattutto nel legame indissolubile con la società9. Ciò si desume sia dal riferimento, contenuto nell’art. 2 Cost., alle formazioni sociali in cui si svolge la personalità umana, sia dalla disciplina dei rapporti etico-sociali e dei rapporti economici, cui sono dedicati rispettivamente il secondo e il terzo titolo della parte prima della Carta. In generale, si può dire che la Costituzione non si limita a disciplinare i rapporti tra Stato e cittadini, ma regola anche i rapporti tra singolo e società10. Come ha evidenziato autorevole dottrina, nel concetto di “persona sociale” si realizza la composizione di individualismo e solidarismo11.

Questa concezione della persona e della sua anteriorità rispetto allo Stato trova riscontro nei lavori preparatori dell’art. 2 Cost. Pur nella consapevolezza della ridotta valenza di tali lavori nell’interpretazione di un testo giuridico12, essi tuttavia aiutano a comprendere il ruolo della dignità nella genesi dell’articolo menzionato13. Diversa è invece la deduzione di specifiche conseguenze di diritto positivo dal legame tra dignità e tutela dei diritti inviolabili, problema che sarà affrontato successivamente (v. infra, § 2.2).

Proprio intorno al primato della persona si forma l’accordo tra i cattolici e le sinistre nella prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione (c.d. Commissione dei 75), chiamata a elaborare la parte della Legge fondamentale

5 Cfr. C. MORTATI, Art. 1, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 7; R. D’ALESSIO, Art. 2, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 9; E. ROSSI, Art. 2, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino, 2006, 42; G. DI COSIMO, Art. 2, in S. BARTOLE – R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, II ed., Padova, 2008, 10.

6 Così C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, X ed., tomo I, Padova, 1991, 158. 7 Cfr. N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione. Unità di valori nella

pluralità di posizioni, rist., Milano, 1995, 5. In merito, A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, III ed., Padova, 2003, 7, precisa che «l’art. 2 Cost. proclama la centralità dei “diritti” umani, non la centralità della “persona umana” astrattamente (e genericamente) considerata». In effetti, la dignità della persona non è l’oggetto diretto dell’art. 2 Cost., ma ne rappresenta il presupposto.

8 Cfr. N. OCCHIOCUPO, Profili essenziali del «progetto di società e stato» delineato nella Costituzione repubblicana, in Dir. soc., 1987, 351 s.; V. OMAGGIO, Individuo, persona e Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, 91 s.

9 Cfr. L. BASSO, Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Milano, 1958, 188 s.; C. MORTATI, La persona, lo Stato e le comunità intermedie, II ed., Torino, 1971, 8, secondo cui «l’individuo si eleva a persona solo nella vita comunitaria, perché attraverso il contatto con l’altro, diverso da sé e tuttavia a lui simile, acquista esatta consapevolezza del proprio essere e della realtà in cui è immerso»; G. ROLLA, Dignità, cit., 305.

10 Cfr. V. CRISAFULLI, Individuo e società nella Costituzione italiana, in Dir. lav., 1954, parte I, 76 s.

11 Cfr. C. MORTATI, Dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana, in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1962, 222.

12 Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), II ed., Milano, 1971, 262 ss.

13 Cfr. N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione. Unità di valori nella pluralità di posizioni, cit., 34.

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riguardante i diritti e i doveri dei cittadini14. I protagonisti di questa intesa sono i deputati democristiani Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti e Aldo Moro, il socialista Lelio Basso e il comunista Palmiro Togliatti; marginale è invece il ruolo dei liberali15. Il punto di partenza del compromesso è la relazione del deputato democristiano Giorgio La Pira sui principi relativi ai rapporti civili, da cui prende avvio la discussione in seno alla prima Sottocommissione. La relazione chiarisce subito che il compito della nuova Costituzione deve essere quello di «riaffermare solennemente i diritti naturali – imprescrittibili, sacri, originari – della persona umana e costruire la struttura dello Stato in funzione di essi. Lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato: ecco la premessa ineliminabile di uno Stato essenzialmente democratico»16. Tale visione determina un rovesciamento del rapporto individuo-Stato delle costituzioni dei regimi totalitari17 e segna la cesura rispetto al recente passato. La relazione si sofferma poi sul fondamento giusnaturalistico dei diritti dell’uomo, sottolineando che solo sulla radice spirituale e religiosa dell’uomo può essere costruito l’edificio dei diritti dell’uomo18. La Pira specifica anche che la nuova Costituzione non può prevedere soltanto le tradizionali libertà civili e politiche, ma deve pure disciplinare i diritti sociali, in assenza dei quali la libertà e l’indipendenza della persona non sono effettivamente garantite19.

Nel dibattito successivo, i deputati comunisti Concetto Marchesi e Palmiro Togliatti e il socialista Giovanni Lombardi criticano i riferimenti religiosi contenuti nella relazione di La Pira20. In particolare, Togliatti21 stigmatizza l’eccesso di ideologia

14 Come rileva U. DE SIERVO, Rifondazione dello Stato e idea di Costituente, in V. ATRIPALDI (a

cura di), Costituente e Costituzione (1946-48), numero monografico di Diritto e cultura, Napoli, 1997, 106 s., un primo avvicinamento delle diverse posizioni sui contenuti costituzionali si realizza già nell’ambito della “Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato”, presieduta dal Prof. Ugo Forti e operante tra il 1945 e il 1946. La corrispondenza di molte soluzioni adottate nella Costituzione con i rapporti della “Commissione Forti” ne dimostra l’influenza sui lavori dell’Assemblea costituente. Sul punto, cfr. anche E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna, 1978, 23. I lavori della “Commissione Forti” possono leggersi in G. D’ALESSIO (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana. I lavori preparatori della “Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” (1945-1946), Bologna, 1979.

15 Cfr. E. ROSSI, Art. 2, cit., 40; P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna, 1979, 305; P. CIARLO, La Costituente: nascita di una costituzione, in Dem. dir., n. 4/1994-1/1995, 262 s.; F. PIZZOLATO, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Milano, 1999, 2 s.; E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., 43, che però fa notare come non sia invece estranea al dibattito l’ideologia liberale.

16 Così G. LA PIRA, Principi relativi ai rapporti civili, in AA.VV., La nuova Costituzione italiana. Progetto e relazioni, Roma, 1947, 78 (corsivo dell’Autore). Non è difficile scorgere nelle parole di La Pira l’eco del pensiero di Jacques Maritain, in cui è compiutamente delineata l’idea che lo Stato debba porsi al servizio della persona e non viceversa. Per un approfondimento, v. J. MARITAIN, I diritti dell’uomo e la legge naturale, in ID., Cristianesimo e democrazia. I diritti dell’uomo e la legge naturale, trad. it. di L. FRAPISELLI (Cristianesimo e democrazia) e di G. USELLINI (I diritti dell’uomo e la legge naturale), Milano, 1953; ID., L’uomo e lo Stato, trad. it. di A. FALCHETTI, Milano, 1964; ID., Umanesimo integrale, trad. it. di G. DORE, Roma, 1980. Decisiva è anche l’influenza del progetto di Costituzione redatto da Emmanuel Mounier, peraltro richiamato da La Pira nella sua relazione.

17 Cfr. V. ATRIPALDI, Il patto costituzionale in Assemblea costituente: i dati fisionomici del modello di struttura politica, in AA.VV., Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffia, tomo I, Milano, 1987, 13 s.

18 Cfr. G. LA PIRA, Principi relativi ai rapporti civili, cit., 79. 19 Cfr. G. LA PIRA, Principi relativi ai rapporti civili, cit., 80. 20 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di lunedì 9 settembre 1946, in CAMERA DEI DEPUTATI –

SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VI, Roma, 1971, 318 ss.

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e la volontà di La Pira di agganciare la Costituzione a una specifica ideologia, non solamente filosofica ma anche religiosa, con il rischio che si creino scissioni tra i consociati; a un simile eccesso il deputato comunista contrappone la necessità di elaborare una Carta semplice e accessibile ad ogni cittadino22. È Giuseppe Dossetti a comporre il contrasto, mediante la traduzione del progetto culturale di La Pira in ipotesi politica23: sottolinea che la Costituzione deve avere una base ideologica comune, ma ciò non implica l’imposizione di un’ideologia e tanto meno di un’ideologia cattolica. Secondo Dossetti, l’impostazione ideologica comune deve identificarsi con la negazione della tesi fascista della dipendenza del cittadino dallo Stato e con l’affermazione del principio antifascista dell’anteriorità della persona di fronte allo Stato24. Togliatti riconosce che le parole del deputato democristiano offrono un ampio terreno d’intesa, nella misura in cui anche il pensiero comunista mira alla promozione della personalità umana; la convergenza di posizioni è favorita anche dalla circostanza che, pur non essendo comune l’ideologia, condivisa è però l’esperienza politica di opposizione al fascismo25.

La sintesi è tradotta da Dossetti in un ordine del giorno presentato al termine della seduta del 9 settembre 1946 e che così recita: «La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.), e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che per ciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato»26.

L’accordo non è però ancora raggiunto. Nella seduta del giorno dopo, Lelio Basso contesta la prospettiva della priorità dell’uomo rispetto allo Stato, reputandola il frutto

21 Sulla visione complessiva di Costituzione propria di Togliatti, v. M. DOGLIANI, La concezione della costituzione in Togliatti, in V. ATRIPALDI (a cura di), Costituente e Costituzione (1946-48), cit., 109 ss.

22 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di lunedì 9 settembre 1946, cit., 319. 23 Cfr. V. ATRIPALDI, La dinamica dei rapporti tra società e stato nel dibattito alla costituente: il

contributo di Giuseppe Dossetti, in ID., Costituente e Costituzione (1946-48), cit., 414; ID., Il patto costituzionale in Assemblea costituente: i dati fisionomici del modello di struttura politica, cit., 20 ; F. PIZZOLATO, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, cit., 102 s. Il ruolo fondamentale di Dossetti nell’ambito della “Commissione dei 75” è rimarcato da P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 223. Sulle posizioni espresse da Dossetti in Assemblea costituente, v. F.P. CASAVOLA, Dossetti Costituente, in G. DOSSETTI, I valori della Costituzione, Napoli, 2005, 11 ss.

24 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di lunedì 9 settembre 1946, cit., 322. 25 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di lunedì 9 settembre 1946, cit., 323. 26 Così l’o.d.g. Dossetti, nel Resoconto sommario della seduta di lunedì 9 settembre 1946, cit., 323

s.

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di una concezione individualistica che svaluta la dialettica dei rapporti tra persona e collettività27. L’equivoco è chiarito da Dossetti, che precisa come la visione da lui espressa non sia individualistica e che al contrario la persona deve essere intesa nella sua dimensione sociale e nella solidarietà con i suoi simili28. Il concetto è ribadito da Aldo Moro, secondo cui «Occorre soprattutto affermare la dignità della persona umana, senza sminuire però l’autorità dello Stato, creando anzi uno Stato forte e realizzando una giustizia forte»29. Dato che le perplessità persistono e per evitare il riacutizzarsi del contrasto30, l’ordine del giorno proposto da Dossetti non viene votato e si decide invece di affidare a La Pira e a Basso il compito di procedere direttamente alla redazione di un articolato da presentare alla Sottocommissione31.

Nella seduta dell’11 settembre 1946 viene presentato il testo del futuro art. 2 Cost., che risulta così formulato: «La presente Costituzione, al fine di assicurare l’autonomia e la dignità della persona umana e di promuovere ad un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica e spirituale, in cui le persone debbono completarsi a vicenda, riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri all’uomo, sia come singolo sia come appartenente alle forme sociali, nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona»32. Con alcune lievi modifiche, l’articolo è rapidamente approvato. La disposizione subisce poi ulteriori cambiamenti a seguito dell’intervento del Comitato di redazione33 e diviene l’art. 6 del progetto presentato dalla “Commissione dei 75” alla Presidenza dell’Assemblea costituente il 31 gennaio 1947. L’articolo ora dispone che «Per tutelare i principi inviolabili e sacri di autonomia e dignità della persona e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale»34. Come si può notare, i diritti fondamentali non sono più definiti “inalienabili” e “sacri”, ma “essenziali”: è stato quindi espunto il riferimento a un fondamento giusnaturalistico e religioso dei diritti, che aveva suscitato polemiche nel dibattito in Sottocommissione35. La sacralità è invece riferita ai principi di autonomia e di dignità, ma con una valenza certamente più generica rispetto alla formulazione originaria. Fondamentale è il richiamo al principio di dignità, alla cui attuazione è strumentale la tutela dei diritti umani. Nella relazione tra dignità e diritti si traduce l’anteriorità della

27 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 10 settembre 1946, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VI, cit., 326.

28 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 10 settembre 1946, cit., 328. 29 Così il Resoconto sommario della seduta di martedì 10 settembre 1946, cit., 330. 30 Cfr. N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione. Unità di valori nella

pluralità di posizioni, cit., 40; V. ATRIPALDI, La dinamica dei rapporti tra società e stato nel dibattito alla costituente: il contributo di Giuseppe Dossetti, cit., 415.

31 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 10 settembre 1946, cit., 331. 32 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di mercoledì 11 settembre 1946, in CAMERA DEI

DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VI, cit., 333.

33 Un comitato composto da 18 membri dell’Assemblea costituente e che si occupa del coordinamento formale delle varie parti della Costituzione.

34 Il progetto elaborato dalla “Commissione dei 75” può essere letto in P. CALAMANDREI – A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, Firenze, 1950, XI ss., da cui è tratta la citazione dell’art. 6.

35 Questa circostanza conferma peraltro l’osservazione di E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., 31, che pone in risalto come il Comitato di redazione non abbia limitato la sua attività ai soli aspetti formali, ma abbia introdotto anche vere e proprie novità di carattere sostanziale.

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persona rispetto allo Stato, su cui si è formato l’accordo tra le diverse forze politiche nell’ambito della prima Sottocommissione36.

Nei lavori del plenum dell’Assemblea i termini dell’intesa rimangono sostanzialmente invariati. La centralità dell’istanza personalista è evidenziata sia dalla Relazione di Meuccio Ruini (Presidente della “Commissione dei 75”), presentata alla Presidenza dell’Assemblea costituente il 6 febbraio 194737, sia da alcuni interventi in aula. Più specificamente, nel corso del dibattito il deputato democristiano Umberto Tupini sostiene che l’uomo è il criterio uniformante della nuova Costituzione e che

36 Su un piano più generale, si può ritenere che l’intera Carta repubblicana sia il risultato di una

convergenza e di una sintesi dei valori rappresentati dagli esponenti democristiani, da un lato, e dagli esponenti socialisti e comunisti, dall’altro. In tal senso, L. BASSO, Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, cit., 124 s.; C. MORTATI, Dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana, cit., 221 s.; G. DOSSETTI, I valori della Costituzione. Preambolo dell’incontro di Napoli, in ID., I valori della Costituzione, cit., 20 s.; E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., 40 ss.; N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione. Unità di valori nella pluralità di posizioni, cit., 37; C. AMIRANTE, I principi fondamentali della costituzione tra assemblea costituente e teoria dell’interpretazione, in V. ATRIPALDI (a cura di), Costituente e Costituzione (1946-48), cit., 137 s.; N. BOBBIO, L’illusione della grande riforma, in V. ATRIPALDI (a cura di), Costituente e Costituzione (1946-48), cit., 10 s.; F. DE MARTINO, Una sintesi di valori, in V. ATRIPALDI (a cura di), Costituente e Costituzione (1946-48), cit., 16; F. PIZZOLATO, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, cit., 97 ss.; F. POLITI, La tutela della dignità dell’uomo quale principio fondamentale della Costituzione Repubblicana, cit., 2662 s. Esprimono valutazioni negative dell’accordo raggiunto in Assemblea costituente A. BARBERA, Art. 2, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, cit., 53 ss., che lo reputa arretrato rispetto ai problemi già emersi a quel tempo; P. CALAMANDREI, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in P. CALAMANDREI – A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, cit., CXXIX ss., che considera il contenuto della Costituzione il prodotto di una transazione fra partiti, caratterizzato in certi punti da una timidezza conservatrice. L’illustre Autore, per riassumere l’esito della citata transazione, aggiunge poi che «per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa» (corsivi dell’Autore). Già in Assemblea costituente giudizi del genere erano stati formulati ad esempio da Aldo Bozzi (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di martedì 4 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, Roma, 1970, 151), da Mario Cevolotto (cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di giovedì 6 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 210) e da Benedetto Croce (cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di martedì 11 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 338). Decisa è la replica a simili concezioni da parte di L. PALADIN, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 54 ss., che contesta in radice l’idea del compromesso, giudicandola grossolana e sottolineando che numerosi precetti costituzionali sono il frutto di larghissimi consensi. Analogamente, G. SILVESTRI, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, cit., 23. In Assemblea costituente avevano visto con favore l’accordo raggiunto Umberto Tupini (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 5 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 168 s.), Renzo Laconi (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 5 marzo 1947, cit., 192), Lelio Basso (cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di giovedì 6 marzo 1947, cit., 203 s.), Palmiro Togliatti (cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di martedì 11 marzo 1947, cit., 327 s.) e Meuccio Ruini (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 12 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 348).

37 Cfr. M. RUINI, Relazione al progetto di Costituzione, in AA.VV., La nuova Costituzione italiana. Progetto e relazioni, cit., 53.

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questa ne garantisce la libertà e la dignità38. Anche Lelio Basso evidenzia che lo scopo della nuova Costituzione è la difesa della dignità umana39. La Pira, nell’individuare nella persona la base teoretica della Carta fondamentale, ricorda come durante il fascismo «si resisteva sulla trincea della persona umana; ma non della persona umana considerata soltanto in astratto, come una questione di natura puramente celestiale ed eterea, ma come la pietra angolare dell’edificio politico»40. Togliatti apertamente indica nel paradigma della dignità umana come fondamento dei diritti dell’uomo il punto di confluenza della corrente socialista e comunista con quella solidaristica cristiana41. Aldo Moro descrive l’opera dei Costituenti come un impegno per l’affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale42 e puntualizza che «Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità»43.

Alla luce di queste premesse, l’esame del futuro art. 2 Cost. ha luogo nella seduta pomeridiana del 24 marzo 1947: subito dopo la lettura della disposizione il gruppo democristiano e il gruppo comunista presentano un identico emendamento che corrisponde all’attuale testo dell’art. 2 Cost. Raggiunta ormai l’intesa tra le principali forze politiche, l’articolo è speditamente approvato. Viene meno il richiamo al principio di dignità, ma l’eliminazione è dovuta a mere esigenze di natura formale, come spiega Moro44.

Dall’esame dei lavori preparatori della Costituzione è emerso un rapporto fondante della dignità rispetto ai diritti inviolabili, protetti dall’art. 2 Cost. Tale rapporto trova qualche conferma anche nella giurisprudenza costituzionale. In alcune sentenze la Corte riconduce all’art. 2 Cost. la garanzia della dignità umana45.

38 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 5 marzo 1947, cit., 169 ss. 39 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di giovedì 6 marzo 1947, cit., 204. 40 Così G. LA PIRA, nel Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di martedì 11 marzo 1947,

cit., 318. 41 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di martedì 11 marzo 1947, cit., 328. 42 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 13 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI –

SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 369 s.

43 Così A. MORO, nel Resoconto stenografico della seduta di giovedì 13 marzo 1947, cit., 372. 44 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di lunedì 24 marzo 1947, in CAMERA DEI

DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 593, in cui Moro, riferendosi all’inciso iniziale dell’articolo, dice che «Abbiamo riconosciuto che effettivamente queste espressioni possono apparire ridondanti e non confacenti alla natura stringata di un articolo di legge costituzionale».

45 Cfr. le pronunce nn. 248 del 1986 (in Giur. cost., 1986, parte I, 2112 ss.), in cui si fa riferimento alla personalità e alla dignità del lavoratore; 167 del 1991 (in Giur. cost., 1991, 1404 ss.); 368 del 1992 (in Giur. cost., 1992, 2935 ss., con osservazioni di F. RAMACCI, Libertà «reale» e «svalutazione» del buon costume, 3563 ss. e di R. ORRÙ, La «pubblicità» della condotta come «requisito essenziale» della nozione del buon costume ex art. 21 Cost. e come «vincolo» all’attività interpretativa dei giudici, 3566 ss.), in cui si parla di «principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco della persona (art. 2 della Costituzione)» (punto 2 del Considerato in diritto); 303 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 2503 ss., con osservazione di E. LAMARQUE, L’eccezione non prevista rende incostituzionale la regola (ovvero, il giudice minorile è soggetto alla legge, ma la legge è derogabile nell’interesse del minore, 2509 ss.); 334 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 2919 ss., con osservazioni di S. MANGIAMELI, Il giuramento decisorio tra riduzione assiologica e ideologizzazione dell’ordinamento, 2928 ss. e di G. DI COSIMO, La Corte, il giuramento e gli obiettori, 2935 ss.), in cui la Consulta considera la libertà di coscienza in materia religiosa un aspetto della dignità umana; 283 del 1997 (in Giur. cost.,

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Particolare interesse rivestono poi quelle pronunce in cui viene delineato un nesso specifico tra la dignità e determinati diritti. In proposito, può menzionarsi innanzitutto la sentenza n. 366 del 199146, che stabilisce uno stretto collegamento tra la dignità umana e la libertà e la segretezza delle comunicazioni, protette dall’art. 15 Cost. Questo legame è ribadito nella decisione n. 81 del 199347, in cui il Giudice delle leggi afferma, in relazione alla normativa sulle intercettazioni, che «Le speciali garanzie previste […] a tutela della segretezza e della libertà di comunicazione telefonica rispondono all’esigenza costituzionale per la quale l’inderogabile dovere di prevenire e di reprimere reati deve essere svolto nel più assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare un bene, l’inviolabilità della segretezza e della libertà delle comunicazioni, strettamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali (art. 2 della Costituzione)» (punto 2 del Considerato in diritto). Nella pronuncia n. 467 del 199148 la Consulta individua un rapporto tra la dignità e la libertà di coscienza, esplicitandolo nei seguenti termini: «quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine di garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.) o della propria fede religiosa (art. 19 Cost.) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana» (punto 4 del Considerato in diritto)49. Nelle sentenze n. 167 del 199950 e n. 251 del 200851 la Corte ravvisa nella dignità umana la base costituzionale dei diritti delle persone disabili52. 1997, 2564 ss., con osservazioni di G. DI CHIARA, Testimonianza dei «soggetti deboli» e limiti all’esame incrociato, 2569 ss.; L. SCOMPARIN, Infermità di mente e testimonianza dibattimentale: una deroga all’esame incrociato fondata sulla prevalenza dei diritti inviolabili della persona umana, 2989 ss.; L. MUZZIOLI, La sentenza n. 283 del 1997: un caso di «analogia» e non di «omogeneità»: ambiguità della distinzione e sue conseguenze, 2998 ss.), che ricava dall’art. 2 un imperativo costituzionale di rispetto e tutela della persona; 63 del 2005 (in Giur. cost., 2005, 596 ss., con osservazione di A. TASSI, La Corte estende l’audizione protetta all’infermo di mente, 605 ss.); 82 del 2011 (in Giur. cost., 2011, 1253 ss.), 313 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 5024 ss.), 115 del 2014 (in Giur. cost., 2014, 2049 ss.), 221 del 2014 (in Giur. cost., 2014, 3519 ss.) e 265 del 2014 (in Giur. cost., 2014, 4572 ss.).

46 In Giur. cost., 1991, 2914 ss. 47 In Giur. cost., 1993, 731 ss., con osservazioni di A. PACE, Nuove frontiere della libertà di

«comunicare riservatamente» (o, piuttosto, del diritto alla riservatezza)?, 742 ss. e di G.P. DOLSO, Ipotesi sulla possibilità di un diverso esito utilizzando il parametro della «ragionevolezza», 2111 ss.

48 In Giur. cost., 1991, 3805 ss., con osservazione di G. DI COSIMO, Coscienza individuale e momento di manifestazione dell’obiezione al servizio militare, 3818 ss.

49 Il concetto è ribadito nella citata sentenza n. 334 del 1996 (v. supra, nota 45). 50 In Giur. cost., 1999, 1607 ss., con osservazione di P. VITUCCI, Il passaggio coattivo e le persone

handicappate, 1615 ss. 51 In Giur. cost., 2008, 2931 ss. 52 Secondo C. COLAPIETRO, I principi-valori della “pari dignità sociale” e del “pieno sviluppo

della persona umana” quale fondamento costituzionale della tutela delle persone con disabilità, in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, cit., vol. II, 944, «il “riconoscimento” e la “garanzia” (art. 2 Cost.) dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella “pari dignità sociale” (art. 3 al. Cost.) che consenta il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 cpv. Cost.), trova un saldo fondamento proprio in quel parametro espansivo offerto dalla Costituzione e rappresentato dalla pienezza dello sviluppo della persona» (corsivi dell’Autore). Sulla tematica, v. anche ID., Diritti dei disabili e Costituzione, Napoli,

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In altre decisioni il Giudice costituzionale pone in relazione la dignità con la generalità dei diritti fondamentali. Più dettagliatamente, nella pronuncia n. 388 del 199953 si rileva che «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione […]: non solo per il valore da attribuire al generale riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo fatto dall’art. 2 della Costituzione, sempre più avvertiti dalla coscienza contemporanea come coessenziali alla dignità della persona […], ma anche perché, al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione» (punto 2.1 del Considerato in diritto). Nella sentenza n. 85 del 201354 le situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette sono invece considerate espressione, nel loro insieme, della dignità della persona.

È necessario a questo punto capire se la dignità, oltre ad essere il fondamento etico dei diritti inviolabili, produca direttamente conseguenze normative.

2.2. Dignità e “nuovi diritti” In dottrina si sostiene talora che la dignità umana non sia solo il presupposto dei

diritti tutelati dalla Costituzione, ma anche la fonte di nuovi diritti, non espressamente previsti dalla Carta repubblicana55.

2011; A. VENCHIARUTTI, I diritti delle persone disabili, in S. CANESTRARI – G. FERRANDO – C.M. MAZZONI – S. RODOTÀ – P. ZATTI (a cura di), Il governo del corpo, vol. II, tomo I del Trattato di biodiritto, diretto da S. RODOTÀ – P. ZATTI, Milano, 2011, 173 ss.; S. SCAGLIARINI, Diritti sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in www.gruppodipisa.it, 14 ss.; G. ARCONZO, La normativa a tutela delle persone con disabilità nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in M. D’AMICO – G. ARCONZO (a cura di), Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992, Milano, 2013, 17 ss.

53 In Giur. cost., 1999, 2991 ss., con osservazioni di C. PINELLI, La durata ragionevole del processo fra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 2997 ss. e di L. MONTANARI, Dalla Corte una conferma sul rango primario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: ma forse con un’inedita apertura, 3001 ss.

54 In Giur. cost., 2013, 1424 ss., con osservazioni di V. ONIDA, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente, 1494 ss.; D. PULITANÒ, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge ILVA, 1498 ss.; G. SERENO, Alcune discutibili affermazioni della Corte sulle leggi in luogo di provvedimento, 1511 ss.

55 Cfr. N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione. Unità di valori nella pluralità di posizioni, cit., 76, il quale sottolinea che «la nostra Costituzione, accogliendo la concezione ricordata, che privilegia su tutto il pieno sviluppo della persona umana, non ha inteso “cristallizzare”, con la formula contenuta nell’articolo 2, il catalogo dei diritti, ma ha voluto lasciare spazio ad altre libertà, ad altri valori, non espressamente contemplati nelle norme costituzionali, ma che alla persona si riconnettono nel continuo fluire della storia»; F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995, 63, secondo cui la dignità umana è «un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, la cui portata assiologica è tale da costituire il fondamento di una serie di diritti, anche non enumerati, ma ricostruibili secondo il metodo del confronto trasversale delle disposizioni costituzionali»; G.M. FLICK, Dignità umana e tutela dei soggetti deboli: una riflessione problematica, in E. CECCHERINI (a cura di), La tutela della dignità dell’uomo, cit., 46; ID., Elogio della dignità (se non ora, quando?), cit., 8 s.; A. MATTIONI, Profili costituzionali della dignità umana, cit., 287 ss.; F. PIZZOLATO, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, cit., 160 ss. che reputa però ammissibili solo quei “nuovi diritti” che siano coerenti con il fine dello sviluppo della persona umana e con la cornice assiologica dei principi fondamentali della Costituzione.

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Una tesi del genere pare essere stata accolta dalla Corte con riferimento al “diritto all’abitazione”56. Nella sentenza n. 217 del 198857 sembra delineata una sorta di correlazione tra la dignità e il “diritto alla casa”, nel passaggio in cui la Consulta afferma che «creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso» (punto 5.2 del Considerato in diritto)58.

In proposito, va in primo luogo precisato che la questione in esame non deve essere confusa con quella del (presunto) fondamento giusnaturalistico dei diritti. Ritenere che la protezione della dignità implichi l’anteriorità della persona rispetto allo Stato non equivale a sostenere che i diritti inviolabili abbiano un fondamento giusnaturalistico, tesi che deve essere invece scartata59. Si è visto d’altronde come nella prima Sottocommissione della “Commissione dei 75” proprio un simile riferimento abbia comportato un vivace dibattito e che la necessità di superare le polemiche e di trovare un punto di convergenza sia probabilmente60 all’origine della sostituzione

56 Sulla problematica ricostruzione del “diritto all’abitazione” e del suo fondamento costituzionale, v., con opinioni differenziate, T. MARTINES, Il «diritto alla casa», in N. LIPARI (a cura di), Tecniche giuridiche e sviluppo della persona, Roma-Bari, 1974, 391 ss.; ID., Diritto costituzionale, XIII ed., Milano, 2013, 565; D. SORACE, A proposito di «proprietà dell’abitazione», «diritto d’abitazione» e «proprietà (civilistica) della casa», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 1175 ss.; S. BELLOMIA, Necessità del locatore e «diritto alla casa» del conduttore, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1978, parte I, 323 ss.; G. ALPA, Equo canone e diritto all’abitazione, in Pol. dir., 1979, 155 ss.; F. MERUSI, Art. 47, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1980, 186, nota 10; G. BERTI, Il diritto dell’abitazione, in Jus, 1986, 71 ss.; G.F. FERRARI, L’aspettativa all’abitazione negli ordinamenti costituzionali contemporanei, in Dir. soc., 1986, 65 ss.; ID., «Diritto alla casa» e interesse nazionale, in Giur. cost., 1988, parte I, 842 ss.; M. TRAPÈ, Il diritto all’abitazione nell’edilizia pubblica, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1987, parte I, 277 ss.; A. SCALISI, Il «diritto» all’abitazione del convivente more uxorio nella successione del contratto locativo, in Dir. fam. pers., 1988, 1566 ss.; A. PACE, Il convivente more uxorio, il «separato in casa» e il c.d. diritto «fondamentale» all’abitazione, in Giur. cost., 1988, parte I, 1801 s.; ID., Problematica delle libertà costituzionali. Parte speciale, II ed., Padova, 1992, 216; A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, 27 s.; F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, cit., 58 ss.; E. BARGELLI, Interesse alla conservazione e all’acquisto dell’alloggio: profili applicativi del «diritto all’abitazione» nella nuova locazione abitativa, in Riv. dir. civ., 2001, parte II, 585 ss.; E. VENAFRO, Stato di necessità e diritto all’abitazione, in Dir. pen. e proc., 2004, 723 s.; P. URBANI, Le politiche abitative per le fasce più deboli: le nuove modalità per assicurare il servizio pubblico casa, in Rivista giuridica di urbanistica, 2006, parte II, 388 ss.; A. GIORGIS, Il diritto costituzionale all’abitazione. I presupposti per una immediata applicazione giurisprudenziale, in Quest. giust., 2007, 1129 ss.; G. GILARDI, Abitare: un diritto, non una semplice aspettativa, in Quest. giust., n. 1/2008, 111 ss.; P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, cit., 515 ss.; S. SCAGLIARINI, Diritti sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, cit., 8 ss.

57 In Giur. cost., 1988, parte I, 833 ss. con osservazione di G.F. FERRARI, «Diritto alla casa» e interesse nazionale, cit.

58 Accostamenti analoghi si rinvengono nelle decisioni nn. 404 del 1988 (in Giur. cost., 1988, parte I, 1789 ss., con osservazioni di A. PACE, Il convivente more uxorio, il «separato in casa» e il c.d. diritto «fondamentale» all’abitazione, cit., e di R. LENZI, La famiglia di fatto e la locazione della casa di abitazione, 1802 ss.), 169 del 1994 (in Giur. cost., 1994, 1507 ss.) e 119 del 1999 (in Giur. cost., 1999, 1004 ss.).

59 Cfr. P.F. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova, 1972, 25 ss.; ID., I diritti di libertà ad uso di lezioni, cit., 95 ss.; A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, 10 ss.; R. D’ALESSIO, Art. 2, cit., 10; E. ROSSI, Art. 2, cit., 43 s.;

60 L’uso dell’avverbio è d’obbligo, non essendo disponibili resoconti dei lavori del Comitato di redazione.

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dell’espressione “diritti inalienabili e sacri” con l’altra “diritti essenziali”, in un primo momento, e poi con la formula “diritti inviolabili”, nella versione definitiva dell’art. 2 Cost.61. Né può invocarsi, a sostegno della tesi avversata, l’utilizzo del verbo “riconosce” da parte dell’art. 2 Cost., che potrebbe essere inteso come un rinvio al diritto naturale. È facile obiettare che quel termine non ha un significato univoco nella Costituzione e che, almeno in alcuni casi, è usato con riferimento a istituti certamente non riconducibili al diritto naturale ma esclusivamente al diritto positivo, come la funzione sociale della cooperazione (art. 45 Cost.) e il diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione delle aziende (art. 46 Cost.)62.

In secondo luogo, all’idea della dignità come fonte di nuovi diritti possono muoversi le stesse critiche formulate alla tesi dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta”. Per comprendere adeguatamente i termini della questione, è opportuno riassumere brevemente il dibattito riguardante l’interpretazione dell’art. 2 Cost. e la configurazione di “nuovi diritti”, non previsti dalla Costituzione.

In base alla concezione dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta”, i diritti inviolabili richiamati dalla citata disposizione non sarebbero solo quelli disciplinati dalla Carta fondamentale, ma anche diritti non previsti, che entrerebbero nell’ordinamento proprio mediante l’art. 2 Cost. Tale teoria presenta al suo interno numerose sfumature. Si è ad esempio sostenuto che dalla norma in esame possa desumersi un principio generale che non si esaurisce integralmente nelle fattispecie di libertà previste e che consente all’interprete di ricavarne altre dal sistema, dando così riconoscimento formale a pretese che maturano nella società63. Secondo un’altra visione, la norma de qua opererebbe «un rinvio alla costituzione materiale e ai principi di regime, quali assunti dalla coscienza del giudice o dell’interprete»64.

Vi è poi chi qualifica i diritti emergenti non come “nuovi diritti”, ma come nuovi contenuti dei diritti esistenti: sarebbe lo stesso testo costituzionale ad autorizzare, nello stesso tempo ponendosi come limite estremo, interpretazioni volte a estrarre nuovi significati e nuove prospettive di tutela, impliciti, trasversali e strumentali, finalizzati alla garanzia del pieno sviluppo della persona. Questi contenuti non potrebbero definirsi “nuovi diritti”, ancorati a generici valori esterni alla Carta costituzionale, «ma nuove formulazioni, nuove proiezioni (di interessi, istanze, manifestazioni identitarie) di un materiale che è sempre e pienamente riconducibile alla Costituzione nel suo “volto” positivo ed espresso, nel suo essere forma che tuttavia presuppone (e perciò riconosce) una sostanza fluida e naturalmente espansiva, in quanto ha a che fare con i bisogni

61 Cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, X ed., tomo I, cit., 158. 62 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, cit., 10 s.; F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella

giurisprudenza costituzionale, cit., 6. 63 Cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., tomo II, Padova, 1976, 1036 ss.; G. DE

VERGOTTINI, Diritto costituzionale, III ed., Padova, 2001, 280; F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, XII ed., Milano, 2003, 651, secondo cui i diritti dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 Cost. «sono in larga misura disciplinati da ulteriori disposizioni costituzionali […] ma non può escludersi l’affermazione di altre posizioni inviolabili, sia integrando eventuali lacune sia interpretando le evoluzioni e gli sviluppi della coscienza sociale»; P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, II ed., Napoli, 1991, 197; ID., Profili del diritto civile, III ed., Napoli, 1994, 138; G.B. FERRI, Persona umana e formazioni sociali, in ID., Saggi di diritto civile, Rimini, 1983, 20 s., che reputa l’art. 2 Cost. una clausola generale, in grado di dare veste giuridica alle posizioni nuove che emergano dal rinnovarsi della realtà sociale.

64 Così A. BARBERA, Art. 2, cit., 85, che precisa come la costituzione materiale sia determinata dalle forze politiche e culturali in grado di affermare la loro egemonia. Simile è la posizione di A. PIZZORUSSO, Sistema istituzionale del diritto pubblico italiano, Napoli, 1988, 329 s.

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umani»65. In altre parole, l’attività di ampliamento della garanzia costituzionale a nuove situazioni non sarebbe un’attività di creazione o invenzione, ma di riconoscimento ed estrazione di nuovi elementi, che si giustapporrebbero a quelli esistenti e solleciterebbero nuovi bilanciamenti, comunque interni alla logica costituzionale e in relazione dialettica con il testo scritto. A incrementare il significato dei diritti tradizionali contribuirebbe una pluralità di fattori causali, legati alle nuove esigenze della convivenza civile, allo sviluppo tecnologico, all’emersione di modelli culturali eterogenei rispetto a quelli consolidati; lo stesso riconoscimento giuridico di alcune istanze si porrebbe, al contempo, come punto di arrivo di un processo evolutivo e come punto di inizio di un nuovo processo di approfondimento e arricchimento delle medesime istanze66.

Peculiare è la posizione di chi ritiene che l’art. 2 Cost. ammetta l’enucleazione di diritti nuovi e impliciti, ma solo ove essi siano rispondenti al quadro di riferimento valoriale presupposto dalla norma. Ciò consentirebbe di ridimensionare la discrezionalità dell’interprete nella configurazione di diritti diversi da quelli già protetti dalla Costituzione, perché la sua attività dovrebbe principalmente rivolgersi ai lavori dell’Assemblea costituente e alla cultura dei Padri costituenti67.

Non manca neppure chi reputa superfluo interrogarsi sulla natura dell’art. 2 Cost., di fatto riconducendo tutti i possibili “nuovi diritti” agli articoli 13 e seguenti, intesi come «formule suscettibili di applicazione talmente estensiva da erodere in pratica qualsiasi possibilità che esse frappongano ostacoli significativi alla libera esplicazione del valore di fondo (libertà positiva) che li giustifica»68. Ciò a patto di reinterpretare i precetti giuridici che tutelano i singoli diritti alla luce delle relazioni fondamentali assiomatiche ad essi sottostanti69.

Difficilmente classificabile è infine l’opinione di chi sostiene che l’art. 2 Cost. non sia fonte di nuovi diritti ma matrice e garante dei medesimi, così da autorizzare l’interpretazione estensiva dei singoli diritti di libertà70.

Si deve peraltro evidenziare che la giurisprudenza costituzionale ha finito per avallare la visione dell’art. 2 Cost. come “norma di apertura” a diritti non esplicitamente regolati dalla Carta fondamentale71.

65 Così A. D’ALOIA, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura

costituzionale, in ID. (a cura di), Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Milano, 2003, XVIII (corsivi dell’Autore).

66 Cfr. A. D’ALOIA, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura costituzionale, cit., XX ss.

67 Cfr. A. SPADARO, Il problema del «fondamento» dei diritti «fondamentali», in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, I diritti fondamentali oggi. Atti del V Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti. Taormina, 30 novembre – 1 dicembre 1990, Padova, 1995, 250 ss.

68 Così A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, cit., 18 s., il quale aggiunge che «Se si analizzano, sotto tale profilo, le disposizioni della nostra Costituzione relative ai diritti fondamentali, si può constatare che le loro potenzialità normative sono talmente ampie ed elastiche da ricomprendere qualsiasi ulteriore ipotesi che lo sviluppo della coscienza sociale o della civiltà o, come altri preferisce dire, la costituzione materiale propongano come “nuovi diritti”». La tesi in esame è ripresa da F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, cit., 2 ss.

69 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, cit., 19; F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, cit., 11 ss.

70 Cfr. P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 55 s., che pure critica la visione dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta”, considerandola priva di basi positive e fondata su principi generali e generici.

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Più precisamente, si può dire che inizialmente la Corte non ha aderito a tale concezione e ha anzi insistito sulla natura riassuntiva dell’art. 2 Cost. Nella sentenza n. 11 del 195672, ad esempio, si afferma che la Costituzione fa seguire alla generica formulazione contenuta nell’art. 2 una puntuale elencazione dei singoli diritti inviolabili. Ancor più netta è la pronuncia n. 29 del 196273, in cui la Corte dichiara che l’art. 2 Cost., «nel riconoscere e garantire in genere i diritti inviolabili dell’uomo, […] necessariamente si riporta alle norme successive in cui tali diritti sono particolarmente presi in considerazione» (punto 2 del Considerato in diritto). La decisione n. 1 del 196974 sottolinea che il principio di tutela dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. si esplica nelle garanzie costituzionalmente apprestate ai singoli diritti individuali di libertà. Di analogo tenore è la sentenza n. 37 del 196975, secondo cui l’art. 2 Cost. «enuncia, solo in via generale, la tutelabilità di quei diritti di base, che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana, mentre è nelle norme successive che quei diritti sono poi, singolarmente presi in considerazione e, come tali, in vario modo e misura, garantiti, tutelati e tutelabili» (punto 4 del Considerato in diritto); coerentemente si esclude che l’autonomia contrattuale riceva dalla Costituzione una tutela diretta, ricavabile solo indirettamente dagli artt. 41 e 42 Cost., che ne proteggono alcuni possibili oggetti (l’iniziativa economica e il diritto di proprietà). La sentenza n. 102 del 197576 ribadisce che l’art. 2 va necessariamente collegato alle altre norme costituzionali ai fini dell’identificazione dei vari diritti inviolabili e dei loro limiti. Particolarmente significativa, specie alla luce della successiva evoluzione in senso opposto della giurisprudenza costituzionale, è la pronuncia n. 252 del 198377, che nega l’esistenza di un diritto costituzionale all’abitazione e stabilisce che «Se, invero, i diritti inviolabili sono, per giurisprudenza costante, quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della personalità umana, non è logicamente possibile ammettere altre figure giuridiche, le quali sarebbero dirette a funzionare da “presupposti” e dovrebbero avere un’imprecisata, maggiore tutela» (punto 4 del Considerato in diritto). Non mancano, neanche in questa prima fase, oscillazioni giurisprudenziali78, ma prevalgono senza dubbio le decisioni in cui l’art. 2 Cost. è considerato una “fattispecie chiusa”79.

71 Cfr. R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, vol. LI del Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU – F. MESSINEO – L. MENGONI e continuato da P. SCHLESINGER, Milano, 2004, 304 ss.

72 In Giur. cost., 1956, 612 ss. 73 In Giur. cost., 1962, 225 ss., con osservazione di G. GIANZI, Particolari aspetti del diritto di

difesa giudiziaria e del principio di eguaglianza, 229 ss. 74 In Giur. cost., 1969, 1 ss., con osservazione di M. CHIAVARIO, La riparazione alle vittime degli

errori giudiziari in balia del legislatore ordinario?, 4 ss. 75 In Giur. cost., 1969, 461 ss., con osservazione di A. CERRI, Corrispondenza fra il chiesto ed il

pronunziato, principio di eguaglianza, pretesa tipicità del contenuto delle leggi, 465 ss. 76 In Giur. cost., 1975, 1182 ss., con osservazione di A. CERRI, Indeterminatezza della questione

sollevata con riferimento ai diritti inviolabili – Libertà di professione religiosa, 2661 ss. 77 In Giur. cost., 1983, parte I, 1516 ss. 78 Cfr. le sentenze nn. 98 del 1965 (in Giur. cost., 1965, 1322 ss., con osservazione di M.

MAZZIOTTI, Osservazione alla sent. 27 dicembre 1965, n. 98, 1329 ss.), in cui viene ricondotto all’art. 2 il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale, peraltro inutilmente, posto che tale diritto risulta specificamente garantito dagli artt. 24 e 113 Cost.; 27 del 1969 (in Giur. cost., 1969, 371 ss., con osservazione di G. PERA, Legittimità della tutela della lavoratrice contro il licenziamento disposto «a causa di matrimonio», 374 ss.), che include nell’art. 2 la libertà di contrarre matrimonio, invero assai più logicamente desumibile dall’art. 29 Cost.; 38 del 1973 (in Giur. cost., 1973, 354 ss., con osservazione di G. PUGLIESE, Diritto all’immagine e libertà di stampa, 355 ss.), che fa rientrare nell’art. 2 il diritto al decoro, all’onore, alla rispettabilità, alla riservatezza, all’intimità e alla reputazione, catalogo alquanto

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Sebbene ogni tentativo di periodizzazione sia semplicistico, può ritenersi che una nuova fase nella giurisprudenza costituzionale sia inaugurata da alcune sentenze adottate nel 198780. In effetti, è proprio il Presidente della Corte a indicare, nella conferenza stampa del 1988 sull’attività della Consulta nell’anno precedente, l’accoglimento della tesi dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta” e la conseguente accentuazione della tutela dei “diritti di solidarietà”81. Le prime ipotesi applicative del nuovo orientamento si rinvengono nelle sentenze n. 153 del 198782, in cui si fa riferimento a un preteso diritto all’informazione, senza che ne venga precisato il

eterogeneo; 27 del 1975 (in Giur. cost., 1975, 117 ss., con osservazioni di R. D’ALESSIO, L’aborto nella prospettiva della Corte costituzionale, 538 ss. e di C. CHIOLA, Incertezze sul parametro costituzionale per l’aborto, 1098 ss.), che colloca fra i diritti inviolabili dell’uomo protetti dall’art. 2 Cost. la situazione giuridica del concepito; 11 del 1981 (in Giur. cost., 1981, parte I, 44 ss., con osservazione di C. EBENE COBELLI, Le due adozioni nel giudizio della Corte, 434 ss.), nella quale la Corte usa l’art. 2 Cost. in combinato disposto con l’art. 30, primo e secondo comma, Cost. per sottolineare la rilevanza costituzionale dell’istituto dell’adozione. In quest’ultimo caso, però, pare che l’art. 2 Cost. sia invocato semplicemente ad abundantiam, per corroborare una tesi che sembra fondata già sulla base del solo art. 30 Cost.

79 Oltre a quelle già menzionate, cfr. anche le sentenze nn. 16 del 1968 (in Giur. cost., 1968, 369 ss.), in cui si esclude che «tra “i diritti inviolabili dell’uomo” si possa far rientrare quello relativo all’autonomia contrattuale degli imprenditori agricoli […], giacché tale diritto, operando nell’ambito di quelli più generali della libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà terriera, è specificamente tutelato […] da altre norme costituzionali» (punto 5 del Considerato in diritto); 122 del 1970 (in Giur. cost., 1970, 1529 ss., con osservazione di M. MAZZIOTTI, Diritto all’immagine e Costituzione, 1530 ss.); 147 del 1973 (in Giur. cost., 1973, 1465 ss.); 33 del 1974 (in Giur. cost., 1974, 123 ss.), in cui la Consulta afferma che «l’art. 2 proclama l’inderogabile valore di quei sommi beni che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana, rimettendone la tutela specifica ad altre norme costituzionali o a leggi ordinarie» (cpv. finale Considerato in diritto); 56 del 1975 (in Giur. cost., 1975, 704 ss.), nella quale si chiarisce che i diritti inviolabili dell’uomo sono tutelati dall’art. 2 Cost. solo in via generale e che comunque tra essi non rientra l’autonomia contrattuale; 238 del 1975 (in Giur. cost., 1975, 2853 ss.), che disconosce l’esistenza del “diritto all’abitazione”; 69 del 1976 (in Giur. cost., 1976, parte I, 432 ss.), che esclude che tra i diritti inviolabili della persona umana sia compreso il principio del ne bis in idem internazionale; 181 del 1976 (in Giur. cost., 1976, parte I, 1129 ss.), secondo cui la disciplina dei singoli diritti va desunta dagli artt. 13 ss. Cost. e non dall’art. 2; 98 del 1979 (in Giur. cost., 1979, parte I, 719 ss., con osservazione di S. BARTOLE, Transessualismo e diritti inviolabili dell’uomo, 1178 ss.), in cui il Giudice delle leggi ribadisce che «nella costante interpretazione della Corte, l’invocato art. 2 della Costituzione, nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, che costituiscono patrimonio irretrattabile della sua personalità, deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali […], quanto meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (punto 2 del Considerato in diritto); 188 del 1980 (in Giur. cost., 1980, parte I, 1612 ss.); 17 del 1981 (in Giur. cost., 1981, parte I, 87 ss.), in cui la Corte nega che dall’art. 2 Cost. possa dedursi l’esistenza di un diritto costituzionale alla pubblicità del dibattimento, pur non escludendo il rilievo costituzionale di un’esigenza del genere; 300 del 1984 (in Giur. cost., 1984, parte I, 2224 ss.), che non riconosce la possibilità di trarre dall’art. 2 Cost. un “diritto dell’offeso da un reato a vedere punito l’offensore”.

80 Invero si registra qualche precedente già nelle pronunce n. 132 del 1985 (in Giur. cost., 1985, parte I, 934 ss.) e n. 161 del 1985 (in Giur. cost., 1985, parte I, 1173 ss.): nella prima la Consulta esprime una posizione contraddittoria, perché sostiene che l’art. 2 Cost. non tutela situazioni soggettive non previste dalla Carta fondamentale, ma nel contempo fa discendere da esso il diritto al risarcimento del danno cagionato ad uno dei beni protetti dalla Costituzione; nella seconda viene desunto dagli artt. 2 e 32 Cost. il diritto all’identità sessuale.

81 Cfr. F. SAJA, La giustizia costituzionale nel 1987 (conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale), in Foro it., 1988, parte V, 127.

82 In Giur. cost., 1987, parte I, 1141 ss., con osservazione di A. PACE, Le trasmissioni radiotelevisive verso l’estero: dalla riserva allo Stato al regime di autorizzazione discrezionale, 1162 ss.

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fondamento costituzionale, e n. 210 del 198783, nella quale si parla della salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività84. A queste seguono numerose sentenze in cui l’art. 2 è utilizzato, da solo o in combinazione con altre disposizioni costituzionali, per enucleare “nuovi diritti”: il diritto alla frequenza scolastica del disabile (artt. 2, 34 e 38 Cost.)85, il diritto alla libertà sessuale (art. 2 Cost.)86, il diritto dell’adottato o affiliato a ottenere lo stato di figlio legittimo pleno iure (artt. 2 e 30, commi 1 e 2, Cost.)87, il diritto all’abitazione (artt. 2 e 47, co. 2, Cost.)88, il diritto all’indennità di disoccupazione (art. 2 e 38, co. 2, Cost.)89, il diritto di elettorato passivo (artt. 2 e 51 Cost.)90, il diritto alla privacy (artt. 2 e 15 Cost.)91.

Anche in tale fase si registrano eccezioni alla tendenza prevalente. Possono ad esempio ricordarsi le pronunce n. 283 del 198792 e n. 310 del 198993. Nella prima la

83 In Giur. cost., 1987, parte I, 1577 ss. 84 Si tratta, peraltro, di un’affermazione isolata, poiché l’ambiente viene di solito qualificato dalla

Consulta come bene o valore costituzionale. Cfr., ex plurimis, l’ordinanza n. 184 del 1983 (in Giur. cost., 1983, parte I, 977 ss.) e le sentenze nn. 94 del 1985 (in Giur. cost., 1985, parte I, 604 ss.), 359 del 1985 (in Giur. cost., 1985, parte I, 2522 ss.), 39 del 1986 (in Giur. cost., 1986, parte I, 317 ss.), 151 del 1986 (in Giur. cost., 1986, parte I, 1010 ss., con osservazione di A. ANZON, Principio cooperativo e strumenti di raccordo tra le competenze statali e regionali, 1039 ss.), 167 del 1987 (in Giur. cost., 1987, parte I, 1212 ss.), 617 del 1987 (in Giur. cost., 1987, parte I, 3688 ss.), 641 del 1987 (in Giur. cost., 1987, parte I, 3788 ss., con osservazione di S. MILETO, Giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica e interpositio del legislatore, 3802 ss.), 307 del 1992 (in Giur. cost., 1992, 2570 ss.), 194 del 1993 (in Giur. cost., 1993, 1320 ss., con osservazione di B. CARAVITA, Lo stoccaggio provvisorio di rifiuti tossici e nocivi tra vecchie e nuove direttive comunitarie e principi costituzionali in materia regionale e in materia penale, 2143 ss.), 407 del 2002 (in Giur. cost., 2002, 2940 ss., con osservazioni di F.S. MARINI, La Corte costituzionale nel labirinto delle materie «trasversali»: dalla sent. n. 282 alla sent. n. 407 del 2002, 2951 ss. e di G. PAGANETTO, Potestà legislativa regionale e «limiti» alle competenza esclusive statali, 3347 ss.), 367 del 2007 (in Giur. cost., 2007, 4075 ss., con osservazioni di D. TRAINA, Il paesaggio come valore assoluto, 4108 ss. e di E. FURNO, La Corte costituzionale «salva» la cogestione in materia paesaggistica, ma non scioglie il nodo del rapporto tra Stato e regioni, 4119 ss.), 62 del 2008 (in Giur. cost., 2008, 843 ss.), 104 del 2008 (in Giur. cost., 2008, 1318 ss.), 232 del 2008 (in Giur. cost., 2008, 2590 ss.), 12 del 2009 (in Giur. cost., 2009, 77 ss.), 226 del 2009 (in Giur. cost., 2009, 2666 ss.), 272 del 2009 (in Giur. cost., 2009, 3815 ss., con osservazione di S. CIVITARESE MATTEUCCI, Alcune riflessioni sulla potestà normativa statale e regionale a margine della recente giurisprudenza costituzionale sulla materia ambientale. L’ambiguo caso delle aree protette regionali, 5132 ss.), 315 del 2010 (in Giur. cost., 2010, 4419 ss.), 171 del 2012 (in Giur. cost., 2012, 2517 ss.), 275 del 2012 (in Giur. cost., 2012, 4360 ss., con osservazione di V. TAMBURRINI, Sull’applicabilità della normativa statale in tema di energie rinnovabili alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome, 4390 ss.), 278 del 2012 (in Giur. cost., 2012, 4411 ss.), 9 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 201 ss.), 145 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 2205 ss.), 188 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 2720 ss.) e 246 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 3749 ss.).

85 Cfr. Corte cost. n. 215 del 1987, in Giur. cost., 1987, parte I, 1615 ss., con osservazioni di R. BELLI, Servizi per le libertà: diritto inviolabile o interesse diffuso?, 1629 ss. e di C. MORO, L’eguaglianza sostanziale e il diritto allo studio: una svolta della giurisprudenza costituzionale, 3064 ss.

86 Cfr. Corte cost. n. 561 del 1987, in Giur. cost., 1987, parte I, 3535 ss., con osservazione di P. VITUCCI, Pensione di guerra a Ida e a Rosetta, 3542 ss.

87 Cfr. Corte cost. n. 183 del 1988, in Giur. cost., 1988, parte I, 687 ss. 88 Cfr. Corte cost. n. 217 del 1988, cit., n. 404 del 1988, cit., n. 252 del 1989 (in Giur. cost., 1989,

parte I, 1174 ss.) e n. 559 del 1989 (in Giur. cost., 1989, parte I, 2564 ss.). 89 Cfr. Corte cost. n. 497 del 1988, in Giur. cost., 1988, parte I, 2209 ss. 90 Cfr. Corte cost. n. 571 del 1989, in Giur. cost., 1989, parte I, 2635 ss. 91 Cfr. Corte cost. n. 139 del 1990 (in Giur. cost., 1990, 760 ss.) e n. 366 del 1991, cit. 92 In Giur. cost., 1987, parte I, 2209 ss.

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Corte sostiene che «l’art. 2 della Costituzione, nel tutelare i diritti inviolabili dell’uomo in via generale, si riferisce a diritti garantiti specificamente in altre norme della Costituzione […] e che, esclusa la violazione della norma della Costituzione che tutela specificamente ogni singolo diritto inviolabile, è automaticamente esclusa anche la violazione dell’art. 2» (punto 11 del Considerato in diritto); conseguentemente nega che tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. si collochi l’interesse del contribuente a una giusta imposizione fiscale. Nella seconda si esclude che il diritto reciproco dei conviventi alla successione mortis causa appartenga al novero dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.

Assai più numerose sono comunque le decisioni in cui l’art. 2 Cost. è qualificato come “fattispecie aperta”. In relazione a queste ultime, si deve notare che il richiamo all’art. 2 Cost. ha spesso una valenza meramente simbolica, se non addirittura “decorativa”, dato che il diritto individuato è interamente riconducibile alle altre norme costituzionali citate dalla Corte in combinato disposto con l’art. 2 Cost.94. Palese è il caso delle sentenze n. 766 del 198895 e n. 319 del 198996, in cui il Giudice delle leggi fa discendere dall’art. 2 Cost. la garanzia dell’integrità personale e della libertà personale, svalutando completamente la portata dell’art. 13 Cost. e reputandolo una mera specificazione dell’art. 2. In altri casi l’art. 2 Cost. è utilizzato per elevare al rango di diritti costituzionali istanze che, secondo l’interpretazione che pare preferibile, non sono esplicitamente accolte dalla Carta fondamentale, come il diritto alla riservatezza97, o che sono più propriamente ricostruibili in termini di interessi costituzionali e non di diritti, come il diritto all’abitazione98. In altri casi ancora il ricorso all’art. 2 Cost. serve per

93 In Giur. cost., 1989, parte I, 1400 ss., con osservazione di M. CARDUCCI, Infondatezza di

questione di legittimità costituzionale riguardante rapporti di fatto e limite agli interventi additivi della Corte, 1407 ss.

94 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 25 s. 95 In Giur. cost., 1988, parte I, 3659 ss. 96 In Giur. cost., 1989, parte I, 1442 ss. 97 Sembra corretto dire che non esista un autonomo diritto costituzionale alla riservatezza, ma profili

di tutela della sfera privata desumibili da singole disposizioni costituzionali. Partendo da questa tesi, si può sostenere che la Costituzione offra una garanzia solo all’aspetto per così dire negativo della riservatezza, consistente nel diritto a non divulgare determinate informazioni personali, il cui fondamento è rinvenibile negli artt. 14, 15 e 21 Cost. Deve escludersi, al contrario, che esista una garanzia costituzionale del profilo lato sensu positivo della riservatezza, anche definito come diritto all’autodeterminazione informativa, consistente nella facoltà del soggetto di controllare il flusso di dati che lo riguardano. Questo diritto esiste e trova riconoscimento nella normativa ora contenuta nel d.lgs. n. 196 del 2003 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”), ma non ha rango costituzionale, bensì di legge ordinaria. Non è neppure fondata, alla luce del testo della Costituzione, la possibilità di configurare un concetto di privacy, analogo a quello formulato dalla giurisprudenza nordamericana e comprensivo della libertà di coscienza, del diritto di morire, del diritto all’aborto e alla contraccezione e di altre manifestazioni della libertà individuale. Sulla concezione qui sostenuta, cfr. C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 39, nota 89; P.F. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, cit., 163; A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte speciale, II ed., Padova, 1992, 213 e 218; ID., Nuove frontiere della libertà di «comunicare riservatamente» (o, piuttosto, del diritto alla riservatezza)?, cit., 746; T. MARTINES, Diritto costituzionale, cit., 636.

98 Sicuramente l’abitazione è un «bene di primaria importanza il cui godimento il legislatore è costituzionalmente tenuto a facilitare ogni volta che, nell’ambito della tutela complessiva dei bisogni primari, si crea una situazione di grave disuguaglianza di fatto […] che rende estremamente difficoltosa, se non praticamente impossibile, la realizzazione degli standards minimi di una convivenza dignitosa per talune categorie di soggetti senza un intervento pubblico a garanzia dell’accesso nel mercato edilizio dei soggetti più deboli». Così A. BALDASSARRE, Diritti sociali, cit., 28. Ciò nondimeno, sembra poco corretto

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estendere la garanzia dell’inviolabilità a determinati diritti, pur previsti dalla Costituzione, come il diritto all’elettorato passivo.

A partire dagli anni ’90, si nota un’evoluzione dell’orientamento precedente, peraltro già annunciata in varie decisioni degli anni pregressi: viene confermata la possibilità di enucleare “nuovi diritti” dalla Costituzione, tuttavia questa operazione è compiuta non più sulla base del combinato disposto dell’art. 2 e di altri articoli della Costituzione, ma utilizzando il solo art. 2 Cost. Si impone, però, una precisazione al riguardo: se abbastanza netto appare il passaggio dal primo al secondo periodo, assai più sfumata è l’evoluzione suddetta, poiché in quest’ultima fase (o sottofase) si registrano ancora pronunce in cui l’art. 2 Cost. è richiamato in combinato disposto con altri articoli della Costituzione. In particolare, nelle sentenze adottate dagli anni ’90 in poi la Corte riconduce all’art. 2 Cost. una molteplicità eterogenea di diritti: la libertà di coscienza99, il diritto di abbandonare il proprio Paese100, la libertà personale101, il diritto all’identità personale102, il diritto alla riservatezza103, il diritto alla vita104, il diritto alla propria formazione culturale105, il diritto di agire in giudizio a difesa dei propri diritti106, il diritto allo status filiationis107. A una valutazione complessiva emerge come nella maggior parte dei casi si tratti di diritti già autonomamente protetti da altre norme costituzionali o, nel caso del diritto all’identità personale, di situazioni prive di garanzia costituzionale108. Un cenno meritano infine i “nuovi diritti” non ricondotti dalla Corte sostenere l’esistenza di un vero e proprio diritto all’abitazione, la cui struttura è alquanto indefinita. In tal senso, A. PACE, Il convivente more uxorio, il «separato in casa» e il c.d. diritto «fondamentale» all’abitazione, cit., 1801, che critica l’impostazione seguita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 404 del 1988, poiché «viene a dar corpo a diritti costituzionali (ex art. 2 Cost.) non aventi né una precisa natura giuridica, né una chiara struttura, né conseguentemente, un ben identificabile “contenuto” (quali mai “facoltà” e quali mai “poteri” derivano al diritto “fondamentale” di abitazione dall’art. 2 Cost.?), ma invocando i quali si può tuttavia pretendere di limitare corrispondentemente altri diritti costituzionalmente garantiti ma incompatibili con quelli creati “ex novo”». Pare allora più esatto parlare di un interesse costituzionalmente rilevante, il cui fondamento si rinviene nell’art. 42 comma 2 Cost., che impegna il legislatore a rendere la proprietà privata accessibile a tutti, e soprattutto nell’art. 47 comma 2 Cost., laddove afferma che la Repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione.

99 Cfr. Corte cost. n. 467 del 1991, cit. 100 Cfr. Corte cost. n. 278 del 1992, in Giur. cost., 1992, 2113 ss. 101 Cfr. Corte cost. n. 343 del 1993, in Giur. cost., 1993, 2668 ss. 102 Cfr. Corte cost. n. 13 del 1994 (in Giur. cost., 1994, 95 ss., con osservazione di A. PACE, Nome,

soggettività giuridica e identità personale, 103 ss.) e n. 297 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 2475 ss., con osservazione di G. FERRANDO, Diritto all’identità personale e cognome del figlio naturale, 2479 ss.).

103 Cfr. Corte cost. n. 463 del 1994, in Giur. cost., 1994, 3985 ss. 104 Cfr. Corte cost. n. 223 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 1918 ss., con osservazione di V. DELICATO,

Diritti assoluti e garanzia di non applicazione della pena di morte nell’estradizione, 1929 ss.) e n. 35 del 1997 (in Giur. cost., 1997, 281 ss.).

105 Cfr. Corte cost. n. 383 del 1998, in Giur. cost., 1998, 3316 ss., con osservazione di A. D’ATENA, Un’autonomia sotto tutela ministeriale: il caso dell’università, 3332 ss.

106 Cfr. Corte cost. n. 26 del 1999, in Giur. cost., 1999, 176 ss., con osservazioni di S. BARTOLE, I requisiti dei procedimenti giurisdizionali e il loro utilizzo nella giurisprudenza costituzionale, 190 ss.; E. FAZZIOLI, Diritti dei detenuti e tutela giurisdizionale, 199 ss.; M. RUOTOLO, La tutela dei diritti del detenuto tra incostituzionalità per omissione e discrezionalità del legislatore, 203 ss.; C. SANTORIELLO, Quale tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria?, 222 ss.

107 Cfr. Corte cost. n. 494 del 2002, in Giur. cost., 2002, 4058 ss., con osservazione di C.M. BIANCA, La Corte costituzionale ha rimosso il divieto di indagini sulla paternità e maternità di cui all’art. 278 comma 1 c.c. (ma i figli irriconoscibili rimangono), 4068 ss.

108 Come ricorda V. ZENO-ZENCOVICH, Identità personale, in Dig. IV ed., Disc. priv., Sez. civ., vol. IX, Torino, 1993, 294, l’espressione “identità personale” ha due significati: il primo, più risalente, è di

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all’art. 2 Cost. (o esclusivamente all’art. 2 Cost.): il diritto all’informazione, collegato all’art. 21 Cost.109; il diritto di passaggio coattivo sul fondo servente per esigenze di accessibilità da parte dei portatori di handicap, ricavato dagli artt. 2, 3 e 32 Cost.110; il diritto di contrarre matrimonio, desunto dagli artt. 2 e 29 Cost.111; il diritto alla riservatezza, il cui fondamento è indicato nell’art. 15 Cost.112, peraltro più correttamente rispetto alla fase precedente della giurisprudenza costituzionale. Singolare è invece la sentenza n. 50 del 1998113, in cui la Corte deduce dagli artt. 2, 17 e 18 Cost. una non meglio precisata libertà sociale dei cittadini114.

derivazione pubblicistica e designa l’insieme delle risultanze anagrafiche o contenute in pubblici registri, che servono a identificare il soggetto nei suoi rapporti con la p.a. e a distinguerlo dagli altri consociati. Il secondo significato, più recente, è stato elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza civilistiche e indica una rappresentazione complessiva dell’individuo, concernente non solo i suoi dati anagrafici, ma anche e soprattutto le sue posizioni culturali, professionali, ideologiche, religiose e sociali. In tale prospettiva, l’identità personale esprime, sinteticamente, la “storia” di una persona e vale a differenziarla dagli altri consociati in modo assai più specifico rispetto alle mere risultanze anagrafiche. Intesa in questo senso, deve escludersi che essa possa formare oggetto di un diritto costituzionale. Una soluzione del genere pare obbligata non solo alla luce dell’assenza di una specifica disposizione costituzionale, ma anche per l’incidenza che un simile diritto esplicherebbe ai danni della libertà espressamente tutelata dall’art. 21 Cost. La rilevanza costituzionale del diritto all’identità personale non può che essere desunta, allora, in via indiretta o negativa dai limiti che la Costituzione pone alla libertà di manifestazione del pensiero e, più precisamente, dalla possibilità costituzionalmente riconosciuta al legislatore di vietare il falso e di sanzionare le espressioni lesive dell’onore. Se così non fosse, d’altronde, il diritto all’identità personale verrebbe a qualificarsi come il diritto di un soggetto a ottenere che le sue convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali, sia precedenti che attuali, appaiano come egli, di volta in volta, gradisce, con conseguente incongrua limitazione dell’altrui libertà costituzionale di opinione e di critica. Al contrario, una volta che le posizioni e le convinzioni di un soggetto siano state esternate, e siano perciò “obiettivate”, l’interessato non ha un’autorità superiore a quella dei suoi critici; può chiederne la rettifica, ove ritenga che siano state riprodotte in maniera infedele, ma non ha il potere di fornirne, con effetto vincolante per i terzi, l’“interpretazione autentica”. A una siffatta ricostruzione del diritto all’identità personale osta, in definitiva, una constatazione di fondo: ciascuno di noi ha di sé un’immagine migliore rispetto a quella percepita dagli altri e pare davvero eccessivo, oltre che costituzionalmente non consentito, esigere che questa immagine sia imposta con forza dall’autorità. Né può sopperire una decisione del giudice, il quale affermi in via definitiva e con efficacia vincolante la corretta rappresentazione dell’identità personale di un individuo, posto che non può stabilirsi una volta per tutte qualcosa di intrinsecamente opinabile. La storia degli uomini e delle collettività viene scritta e riscritta, partendo da prospettive sempre nuove, per cui nessuna sentenza «può davvero sovrapporsi a questa incessante ricerca volta ad attingere un punto di vista sempre più pieno e comprensivo delle vicende umane (individuali e collettive)». Così A. CERRI, Identità personale, in Enc. giur., vol. XV, Roma, 1995, 3. Per le altre considerazioni espresse sul diritto all’identità personale, cfr. A. PACE, Il c.d. diritto all’identità personale e gli artt. 2 e 21 della Costituzione, in Giust. civ., 1980, parte II, 410; ID., Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 110 s.; ID., Nome, soggettività giuridica e identità personale, cit., 105; C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit., 36 ss.

109 Cfr. Corte cost. n. 112 del 1993, in Giur. cost., 1993, 939 ss., con osservazione di P.A. CAPOTOSTI, L’emittenza radiotelevisiva privata tra concessione e autorizzazione, 2118 ss. e di L. BIANCHI, La concessione radiotelevisiva tra riserva di legge e situazioni dei concessionari, 2122 ss.

110 Cfr. Corte cost. n. 167 del 1999, cit. 111 Cfr. Corte cost. n. 445 del 2002, in Giur. cost., 2002, 3634 ss., con osservazioni di G. BRUNELLI,

L’illegittimità derivata di norme analoghe come tecnica di tutela dei diritti fondamentali, 3644 ss. e di D. TEGA, L’addio al celibato (e nubilato) dei militari, 3652 ss.

112 Cfr. Corte cost. n. 390 del 2007, in Giur. cost., 2007, 4367 ss., con osservazione di V. GREVI, Sui limiti di utilizzabilità delle intercettazioni «indirette» (casuali e non casuali) operate nei confronti di un membro del Parlamento, 4385 ss.

113 In Giur. cost., 1998, 577 ss., con osservazioni di A. PACE, Violazione della «libertà sociale» o, piuttosto, restrizione irrazionale della «libertà individuale»?, 583 ss. e di G. GUZZETTA, Considerazioni

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Nonostante l’adesione della Corte e di una parte della dottrina alla tesi dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta”, il suo accoglimento è impedito da difficoltà insormontabili, che si estendono anche all’uso della dignità come surrogato dell’art. 2 Cost. e quindi come fonte di nuovi diritti.

È evidente che la configurazione dei “nuovi diritti”, affidata a parametri così generici come l’art. 2 Cost. o indeterminati come la dignità umana, è in definitiva rimessa all’interprete, con conseguente sacrificio del valore della certezza del diritto115. In effetti, i fautori della tesi “aperta” non considerano che l’art. 2, a differenza degli artt. 13 ss. Cost., non delinea la disciplina dei diritti inviolabili riconosciuti, per cui il suo utilizzo come strumento di positivizzazione di diritti non previsti può dare luogo alla conseguenza paradossale che i “nuovi diritti”, proprio perché inseriti nell’ordinamento in virtù dell’art. 2 Cost., sarebbero privi di limiti espressi, godendo così di un regime “privilegiato” rispetto ai diritti enumerati, oggetto al contrario di una disciplina e soprattutto di limiti specifici posti dalla Costituzione116. L’esito sembra di scarso rilievo, ma non lo è, se si rammenta che l’affermazione di un nuovo diritto non è un’operazione “a costo zero”117, perché ad essa segue inevitabilmente l’imposizione di un corrispondente obbligo a carico di un altro soggetto privato e la compressione di un suo diritto. Questa ipotesi si verifica ogniqualvolta la Costituzione riconosca a un diritto “efficacia orizzontale” (Drittwirkung), cioè un’efficacia nei rapporti interprivati. La questione non si poneva per le costituzioni ottocentesche, che attribuivano ai diritti un’area di operatività meramente “verticale”, cioè concernente i soli rapporti dei cittadini con lo Stato; pertanto la “creazione” giurisprudenziale di nuovi diritti limitava esclusivamente la sfera dei pubblici poteri118. Non è così per la vigente Costituzione e ciò comporta il sorgere di potenziali antinomie tra “vecchi” e “nuovi” diritti. D’altra parte, l’ipotesi del diritto all’identità personale ne è un esempio concreto119. Senza contare che l’estensione della tutela costituzionale ex art. 2 Cost. a “nuovi diritti” determina un irrigidimento nella loro configurazione, impedendo successivi interventi del legislatore ordinario, volti a bilanciare tali diritti con eventuali interessi contrastanti120; si pensi, ad esempio, alle delicate questioni che vengono in rilievo in materia di ambiente e di bioetica.

Il problema delle antinomie non cambia se i “nuovi diritti” sono dedotti dalla dignità umana, che è un concetto dai molteplici significati. In proposito, si è sufficientemente dimostrato (v. supra, cap. I) che di essa sono state elaborate nel corso

su di una sentenza in tema di c.d. «libertà sociale» in rapporto agli artt. 16, 17, 18 e 21 Cost. ed al regime costituzionale dei diritti di libertà, 585 ss.

114 Analogo riferimento è contenuto nella decisione n. 300 del 2003, in Giur. cost., 2003, 2585 ss., con osservazioni di G. ROSSI – G. GRUNER, Le fondazioni di origine bancaria tra pubblico e privato, 2606 ss. e di M. ATELLI, «Credito» e «risparmio» nella Costituzione riformata, 3949 ss.

115 In prospettiva comparatistica, tale problema è evidenziato da D. FELDMAN, Human Dignity as a Legal Value – Part I, in Public Law, 1999, 696 ss.

116 Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, cit., 175. 117 Cfr. M. LUCIANI, L’interprete della Costituzione di fronte al rapporto fatto-valore. Il testo

costituzionale nella sua dimensione diacronica, in Dir. soc., 2009, 20. 118 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 26 s. 119 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 27 s., che propone

anche il caso del “diritto ad essere informato”, che, se inteso in termini generali e non in termini specifici (cioè come diritto all’informazione del malato, del consumatore, dell’utente, rispettivamente ricavabili dagli artt. 32 e 41 comma 2 Cost.), può entrare in contrasto con la libertà d’informazione, estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).

120 Cfr. A. PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quad. cost., 2001, 44.

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dei secoli accezioni diametralmente opposte: se è intesa come dignitas, cioè quale sintesi della posizione sociale di un individuo, si pone come fattore di discriminazione tra gli uomini; al contrario, se è assunta come compendio delle caratteristiche che distinguono l’uomo da ogni altra creatura, diventa un fattore di uguaglianza121. Anche in ambito giuridico, la dignità si presta ad usi ambivalenti: non solo come strumento di ampliamento della libertà individuale, ma anche come motivo della sua limitazione. Tale aspetto apparirà più chiaro in seguito.

I dubbi permangono anche qualora i “nuovi diritti” siano ricollegati, come fanno alcune concezioni prima citate, alla coscienza sociale, alla costituzione materiale o ai principi di regime. Tutti questi parametri rappresentano punti di riferimento eccessivamente mutevoli e dal contenuto difficilmente accertabile, con conseguente estensione del margine di discrezionalità del giudice (e dell’interprete in genere), la cui attività viene in tal modo ancorata a criteri malsicuri. Invero la costituzione materiale e la coscienza sociale rischiano di trasformarsi in una sorta di “senso comune”, esposto a continui mutamenti e a ricostruzioni poco controllabili dell’interprete.

Ciò non vuol dire ovviamente che se si sostiene la tesi della natura riassuntiva dell’art. 2 Cost., secondo cui i diritti inviolabili da esso richiamati sono quelli compiutamente regolati dagli artt. 13 ss.122, si pretende di eliminare qualsiasi attività ermeneutica dell’articolato costituzionale. Nessuno oggi pensa ingenuamente che il giudice sia bouche de la loi123 e che debba limitarsi ad applicare la legge, senza comprenderla e spesso interpretarla124. Analogamente, il catalogo costituzionale dei

121 Cfr. A. PIROZZOLI, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, cit., 16 s.; G.M. FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), cit., 9.

122 Cfr. P.F. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, cit., 26; P. BISCARETTI DI RUFFIA, Diritto costituzionale. Istituzioni di diritto pubblico, XV ed., Napoli, 1989, 826, secondo cui deve escludersi che «i diritti stessi si dilatino […] anche a situazioni soggettive non contemplate espressamente dalla Costituzione». L’adesione alla tesi menzionata potrebbe indurre a ritenere che il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, operato dall’art. 2 Cost., sia sostanzialmente inutile o sia una mera affermazione politica, priva di valore giuridico. Non è mancato, invero, chi ha sostenuto in passato questa posizione e ha qualificato l’art. 2 Cost. una enunciazione di verità filosofiche, di massime astratte e di assiomi correnti, o tutt’al più una dichiarazione politica ed etica volta a illustrare i motivi e i principi ispiratori della Costituzione, ma in ogni caso non avente valore positivo. Cfr., ad esempio, M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, vol. I, Milano, 1970, 537, che definisce giuridicamente enfatica l’enunciazione sui diritti inviolabili; F. BATTAGLIA, Dichiarazioni dei diritti, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1964, 411, che considera retorica l’affermazione dell’art. 2 Cost. Nessuna di queste opinioni può essere accolta, perché la Costituzione non è un compendio di precetti morali o postulati filosofici, bensì un atto normativo e come tale va interpretato. Ne deriva un essenziale canone ermeneutico, in base a cui la Costituzione «deve essere intesa ed interpretata, in tutte le sue parti, magis ut valeat, perché così vogliono la sua natura e la sua funzione». Così V. CRISAFULLI, Introduzione, in ID., La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, 11. Ciò premesso, la garanzia dell’inviolabilità va intesa, secondo la tesi preferibile, come irrivedibilità costituzionale, nel senso che i diritti previsti dalla Costituzione, e complessivamente richiamati nell’art. 2, non si prestano a essere soppressi, neanche per mezzo della revisione costituzionale, giacché in caso contrario ne verrebbe alterato il nucleo essenziale della vigente forma di Stato. Cfr., per tutti, P.F. GROSSI, Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, II ed., Padova, 2008, 9.

123 Cfr. A. D’ATENA, Lezioni di diritto costituzionale, II ed., Torino, 2006, 22. Il riferimento è naturalmente alla celebre frase di Montesquieu, secondo cui «i giudici della nazione sono soltanto […] la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati, che non possono regolarne né la forza né la severità». Così C.-L. DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, libro XI, cap. VI, trad. it. a cura di B. BOFFITO SERRA, VII ed., Milano, 2011, 317.

124 La differenza tra comprensione e interpretazione è rilevante. Ove infatti s’intenda l’interpretazione come manipolazione del testo originario, diviene obbligatorio specificare che essa non sempre è necessaria per l’applicazione di un testo. Come precisa G.U. RESCIGNO, Interpretazione

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diritti non può essere “cristallizzato”, ma va interpretato alla luce del contesto e dell’evoluzione dei tempi. Ciò deve però avvenire mantenendo il vincolo al testo e capendo in quale misura una fattispecie nuova possa essere ricondotta ad una già prevista. Da questo punto di vista, la tesi dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta” risulta spesso inutile, perché la maggior parte dei “nuovi diritti” rientra nello spettro applicativo delle norme costituzionali relative a specifici diritti (e non dell’art. 2 Cost.)125. Non può escludersi, tuttavia, che la ricerca abbia come esito l’impossibilità di inquadrare la “nuova libertà” in altre già positivamente disciplinate, neanche ricorrendo a interpretazioni estensive, evolutive o analogiche126. In tal caso, bisogna riconoscere che l’interesse in esame è estraneo alla Costituzione e non merita, quindi, tutela costituzionale127. Nulla vieta, però, al legislatore costituzionale di aggiornare l’elenco dei diritti fondamentali, seguendo le procedure di cui all’art. 138 Cost. Non è poi necessario che ogni situazione soggettiva abbia rango di diritto costituzionale, potendo essere adeguatamente garantita anche con legge ordinaria.

L’adozione del metodo interpretativo illustrato consente anche di risolvere le antinomie tra diritti, nella misura in cui le disposizioni costituzionali offrono quasi sempre criteri di composizione dei diritti in potenziale contrasto. I sostenitori della natura “aperta” dell’art. 2 Cost. lasciano invece irrisolta la questione o la affrontano asserendo che «i diritti inviolabili, prima ancora di essere situazioni giuridiche soggettive, sono valori […] e che nella logica dei valori – che non è la logica del tutto o niente, del sì o del no – essi tendono alla relativizzazione reciproca, al bilanciamento e alla composizione, secondo le regole della fondazione, dell’opposizione e della complementarità»128.

Qui sta il vero nucleo della questione: tutti i fautori della tesi criticata adottano, più o meno consapevolmente, tecniche ermeneutiche ascrivibili all’interpretazione per valori o normativo-sostanziale129. Si rende allora necessario chiarire il motivo per cui è costituzionale e positivismo giuridico, in Dir. pubbl., 2005, 34, «è ben possibile concludere in qualche caso che, rispetto a quello specifico testo e in relazione a quella specifica domanda in relazione con quel testo, non si è mai data interpretazione, e cioè manipolazione del testo, e, sempre in riferimento alla medesima domanda, non si riesce al momento a vedere questa possibilità (in altre parole è vero che in claris non fit interpretatio, nel senso che se c’è comprensione del testo così come sta scritto non c’è manipolazione del testo)». Contra R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 263, che ritiene che ogni disposizione abbia un significato equivoco e indeterminato; M. LUCIANI, L’interprete della Costituzione di fronte al rapporto fatto-valore. Il testo costituzionale nella sua dimensione diacronica, cit., 10, nota 31.

125 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 24 ss., il quale sottolinea che, individuando il fondamento costituzionale dei “nuovi diritti” in disposizioni esistenti, si valorizzano le potenzialità interpretative della Costituzione scritta, invece di svilirle (come fa l’opinione che fa rientrare tutte le nuove fattispecie nell’art. 2 Cost.).

126 Cfr. P.F. GROSSI, I diritti di libertà ad uso di lezioni, cit., 201 ss. 127 Cfr. P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 55. 128 Così F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, cit., 3 s. 129 Cfr. A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. dir., 1991, 654, che propone di

rovesciare l’approccio normativo-formale di stampo kelseniano in un approccio normativo-sostanziale; G. ALPA, Trattato di diritto civile, vol. I (Storia, fonti, interpretazione), Milano, 2000, 228 ss.; G. BERTI, Interpretazione costituzionale. Lezioni di diritto pubblico, IV ed., Padova, 2001, 214 s., secondo cui «l’impianto delle fonti nella legittimazione popolare e nel rapporto di interazione tra società e stato toglie alquanta efficacia al regime formale delle fonti stesse. Attraverso l’interpretazione, deve essere fatto emergere il contenuto sostanziale delle disposizioni, e la loro applicazione sarà conseguenza della valutazione di coerenza di quanto disposto con le situazioni regolate. Il sistema formale delle fonti, che nel suo complesso si reggeva sull’organizzazione dello stato, non può pertanto reggere, quantomeno in via esclusiva, la dinamica normativa. Questa si appoggia invece alla sostanza delle disposizioni,

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importante tenere ferma la differenza tra diritti e valori, restando così fedeli al testo costituzionale. I diritti, in quanto situazioni giuridiche soggettive di vantaggio, sono il prodotto di norme, cioè di strutture prescrittive: la tutela dell’interesse del titolare del diritto è garantita mediante l’imposizione di un correlativo dovere od obbligo a carico di un altro soggetto, pubblico o privato. I valori, invece, non essendo strutture normative, non comportano un dover-essere; anzi, possono definirsi entità dinamiche, in continua evoluzione130. Non solo. Le norme giuridiche che prevedono i diritti, come tutte le altre del resto, sono di frequente il frutto di un compromesso, di un’attività di mediazione tra istanze diverse compiuta dal legislatore131. I valori, al contrario, tendono all’assolutezza, tendono cioè a imporsi a scapito di valori concorrenti132. Per prevenire un conflitto insanabile, è imprescindibile l’intervento del legislatore, chiamato a mediare tra valori contrastanti tramite regole misurabili e applicabili che impediscano «il terrore dell’attuazione immediata e automatica dei valori»133.

Quanto detto non implica che i valori siano irrilevanti per il giurista. Ogni diritto ha alla base un valore, ne è espressione; ma finché si rimane nella logica nei valori, si resta sulla soglia della prescrittività, per attingere la quale è necessario fare riferimento alle norme e ai principi costituzionali che traducono in regole giuridiche quei valori134. Sicuramente i giudizi di valore rivestono un ruolo notevole nelle scelte legislative e in quelle dell’interprete, così come è innegabile che la Costituzione presupponga una “tavola di valori”. Ciò nonostante, «È sempre pericoloso dissolvere le strutture prescrittive, per attingere ai valori sottostanti, pretendendo di risolvere ogni problema di applicazione della Costituzione in un problema di bilanciamento tra valori»135.

comunque siano formate e da qualunque soggetto provengano: compito del giurista e dell’interprete è pertanto rivelare questa sostanza».

130 Cfr. A. D’ATENA, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 21; V. BALDINI, Lo Stato multiculturale e il mito della Costituzione per valori, in www.archivio.rivistaaic.it, 5. Contra A. BALDASSARRE, Filosofie dei valori ed ermeneutica dei valori (a proposito del «pensare per valori»), in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, cit., vol. I, 164, che attribuisce anche ai valori il carattere della prescrittività.

131 Cfr. G. SCACCIA, Valori e diritto giurisprudenziale. Relazione al convegno Valori e Costituzione: a cinquant’anni dall’incontro di Ebrach (Roma, Luiss-Guido Carli, Facoltà di Giurisprudenza 26 ottobre 2009), in www.archivio.rivistaaic.it, 9, che evidenzia come, in assenza di mediazione legislativa, gravi sul giudice l’onere di prendere posizione non tra semplici opzioni ermeneutiche, ma tra vere e proprie visioni del mondo.

132 Cfr. C. SCHMITT, La tirannia dei valori, a cura di G. GURISATTI, Milano, 2008, 47 ss. 133 Così C. SCHMITT, La tirannia dei valori, cit., 67. 134 Cfr. A. D’ATENA, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 22. Contra F. MODUGNO, Interpretazione

costituzionale e interpretazione per valori, in Costituzionalismo.it, n. 3/2005 (8 luglio 2005), il quale sostiene che i valori sono immessi nell’ordinamento proprio grazie ai principi; G. ALPA, Trattato di diritto civile, cit., 228, secondo cui i valori non sono estrinseci al sistema giuridico, ma derivano da esso; A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, cit., 658, che considera i valori sostanziali (o materiali) gli elementi primi delle disposizioni costituzionali e il loro contenuto essenziale; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992, 189, che ritiene che i valori siano positivizzati attraverso le norme di principio. Intermedia è la posizione di A. LONGO, Valori, principi e Costituzione: qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, in Dir. soc., 2002, 120, che definisce il principio come «unità ibrida, normativa e assiologica insieme: una norma qualitativamente diversa dalle norme di tipo regolativo, non solo in virtù di una fattispecie più generale ma in relazione ad uno strutturale maggior contenuto di valore da cui deriva, funzionalmente, la capacità di produrre una infinità di fattispecie concretamente applicabili» (corsivi dell’Autore); e continua affermando che «è esattamente tale capacità di essere declinati in situazioni potenzialmente infinite, determinate non in virtù di criteri formali (cioè in base alla astratta previsione della fattispecie) ma in forza di criteri sostanziali, a rendere i principi determinanti nella realizzazione della tavola dei valori che sottende alla Costituzione».

135 Così A. D’ATENA, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 36.

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I valori non sono entità certe e perfettamente delineabili, per cui si prestano a manipolazioni che vanno oltre i confini della semplice ermeneutica136. In particolare, bisogna domandarsi chi e come estragga e interpreti questi valori, e soprattutto con quali garanzie di certezza del diritto137. La certezza e la prevedibilità sono funzionali anche all’inviolabilità e all’intangibilità dei diritti. Se questa attività di ricostruzione dei valori è affidata al legislatore, la soluzione può essere più o meno accettabile, pur con tutti i difetti e i limiti che essa comporta. Se invece tale compito è rimesso interamente ai giudici, sottratti al controllo democratico, vengono minate la certezza e la prevedibilità dei diritti stessi138. È perfettamente legittimo, ovviamente, che il giudice sia influenzato, nella sua attività ermeneutica, da opzioni di valore; così come non ci si può nascondere che in alcuni casi egli abbia una sorta di presupposizione del giudizio, cui adegua a posteriori gli strumenti interpretativi; è però fondamentale che tali strumenti siano esplicitati in una motivazione razionale e trasparente139, che l’interpretazione per valori non è sempre in grado di assicurare. In definitiva, il rischio consiste nella possibilità, neanche tanto remota, che il giudice costituzionale configuri questi valori in modo esasperatamente soggettivo140 e in nome di essi obliteri il testo costituzionale, magari anche quando esso offra chiare indicazioni per la risoluzione delle antinomie141.

Il rischio enunciato è una conseguenza naturale dell’interpretazione per valori, che non può, a causa della fluidità delle entità che manipola, affermare la correttezza o meno di una determinata interpretazione. Deve invece ricorrere alla logica del probabile, in cui il criterio di validazione di una soluzione interpretativa è dato dal grado di accettazione intersoggettiva della soluzione medesima da parte della comunità degli interpreti142. Non sfugge come un approccio del genere possa dar luogo a esiti poco verificabili143 e dimentichi che anche la certezza del diritto è un valore da perseguire144.

136 Cfr. P. VERONESI, La dignità umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, cit., 319.

137 Cfr. F. PIZZETTI, L’ordinamento costituzionale per valori, in Dir. eccl., 1995, parte I, 96, che rileva come la risposta a una domanda del genere comporti in fin dei conti il riconoscimento o meno del fondamento democratico dell’ordinamento.

138 Cfr. S. FOIS, Intervento, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, I diritti fondamentali oggi. Atti del V Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti. Taormina, 30 novembre – 1 dicembre 1990, cit., 130.

139 Cfr. C. AMIRANTE, Intervento, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, I diritti fondamentali oggi. Atti del V Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti. Taormina, 30 novembre – 1 dicembre 1990, cit., 141.

140 Cfr. G. SCACCIA, Valori e diritto giurisprudenziale. Relazione al convegno Valori e Costituzione: a cinquant’anni dall’incontro di Ebrach (Roma, Luiss-Guido Carli, Facoltà di Giurisprudenza 26 ottobre 2009), cit., 10.

141 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 38, che fa notare come la dottrina criticata finisca, a volte anche contro la volontà dei suoi sostenitori, per sminuire l’importanza degli enunciati normativi; M. PIAZZA, I limiti alla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, Padova, 2002, 16, il quale sottolinea la subordinazione al testo del giudizio di valore dell’interprete.

142 Cfr. F. MODUGNO, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, cit. 143 Cfr. A. PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, cit., 56, che parla addirittura di un

approccio “emotivo” o “impressionistico”, frutto di un’eccessiva fiducia nella capacità del giudice di individuare i valori costituzionali, una volta che questi siano slegati dal contesto normativo; F. BILANCIA, Emergenza, interpretazione per valori e certezza del diritto, in Giur. cost., 1993, 3014 e 3024 ss.

144 Cfr. F. RIMOLI, Costituzione rigida, potere di revisione e interpretazione per valori, in Giur. cost., 1992, 3777, secondo cui «superare il livello delle norme, sia pure delle norme-principio, per approdare alla dinamica di entità assiologiche non facilmente individuabili a priori sul piano del diritto

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Pare invece maggiormente condivisibile un metodo interpretativo che, pur riconoscendo che il diritto costituzionale si pone al confine tra il diritto e la società intera145, non rinunci a considerare le disposizioni costituzionali regole giuridiche e ad adottare quindi la logica bivalente del “conforme/difforme” (o “valido/invalido”)146. Questa posizione non implica una volontà anacronistica di resuscitare la teoria e l’ideologia positiviste, ma di preservarne le istanze di fondo147. Volendo essere più precisi, «questo modo di vedere l’interpretazione accoglie alcune esigenze sia del giusnaturalismo (quando riconosce le influenze che dal mondo sociale premono sulla interpretazione e la determinano) sia del positivismo giuridico (quando mantiene ferma la base costituita dalle parole del legislatore ufficiale)»148. Ciò equivale a dire che, se è sbagliato credere nella meccanica applicazione della legge, non è però neanche corretto propugnare una teoria ermeneutica apertamente discrezionalista149.

In conclusione, escluso che dalla dignità umana (o dall’art. 2 Cost.) possano ricavarsi “nuovi diritti”, bisogna ora valutare, nel rispetto della metodologia illustrata, le funzioni che la dignità svolge come concetto giuridico.

3. Dignità umana e diritti sociali Come anticipato, esiste uno stretto collegamento tra la dignità umana e i diritti

sociali150. Se l’individuo è considerato dalla Costituzione non come un essere astratto, positivo, valicando in modo più o meno palese il margine pur ampio dell’interpretazione potrebbe essere infine un elemento non trascurabile di ulteriore confusione, capace di minare, seppur in un’ipotesi estrema, la stessa certezza del diritto agli occhi dei singoli».

145 Cfr. G.U. RESCIGNO, Interpretazione costituzionale e positivismo giuridico, cit., 30. 146 Cfr. A. PACE, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in Costituzionalismo.it,

11 luglio 2006, 6 s.; F. RIMOLI, L’interpretazione “morale” della Costituzione. Brevi considerazioni critiche, in Rivista AIC, n. 3/2015 (18 settembre 2015), 12.

147 Cfr. A. PACE, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, cit., 13, sulla scorta della distinzione tra ideologia, teoria e metodo positivisti, proposta da N. BOBBIO, Il positivismo giuridico. Lezioni di Filosofia del diritto, a cura di N. MORRA, Torino, 1996, 245 ss.

148 Così G.U. RESCIGNO, Interpretazione costituzionale e positivismo giuridico, cit., 45. 149 Cfr. G. SCACCIA, Valori e diritto giurisprudenziale. Relazione al convegno Valori e Costituzione:

a cinquant’anni dall’incontro di Ebrach (Roma, Luiss-Guido Carli, Facoltà di Giurisprudenza 26 ottobre 2009), cit., 15.

150 Nell’ordinamento tedesco, questo collegamento è stato particolarmente valorizzato dal Bundesverfassungsgericht nella sentenza del 9 febbraio 2010 (BVerfGE 125, 175), che fa discendere dalla tutela della dignità umana (art. 1, Abs. 1, Grundgesetz) e dal principio dello Stato sociale (art. 20, Abs. 1, Grundgesetz) il diritto fondamentale alla garanzia di un minimo vitale dignitoso (das Grundrecht auf Gewährleistung eines menschenwürdigen Existenzminimums). In virtù di tale diritto, lo Stato deve assicurare a ogni persona bisognosa le condizioni materiali indispensabili alla sua esistenza e a un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica. La concretizzazione del diritto a un minimo vitale è tuttavia rimessa alla discrezionalità del Parlamento, che deve essere esercitata sulla base di un metodo di computo delle prestazioni adeguato, trasparente e aderente alla realtà, cioè al bisogno effettivo. Bisogna comunque ricordare che la Legge fondamentale tedesca non contiene, a differenza della Costituzione italiana, un ampio catalogo di diritti sociali e ciò giustifica l’operazione ermeneutica compiuta dal Bundesverfassungsgericht nella sentenza citata. Per un approfondimento, v. A. FISAHN – M. MÖLLER, Lo Stato sociale in Germania: il Tribunale costituzionale federale «parla» alla politica. Note sulla sentenza del Tribunale costituzionale del 9 febbraio 2010, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2010, parte II, 395 ss.; G. DELLEDONNE, Germania: «Minimo vitale» e Stato sociale in una recente pronuncia del Tribunale costituzionale, in Forum di Quad. cost., 17 aprile 2010; H. CAROLI CASAVOLA, Dignità della persona e diritto al minimo vitale nello Stato sociale tedesco, in Giorn. dir. amm., 2011, 298 ss.; M. MIDIRI, Diritti

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ma nella concretezza della sua esistenza, è evidente che solo un adeguato livello di protezione dei diritti sociali può inverare il principio di dignità e garantire effettivamente a tutti condizioni di vita dignitose. La dignità rappresenta allora il fondamento dei diritti sociali, assieme all’eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, co. 2, Cost.151.

Tale legame segna il carattere di novità delle costituzioni del secondo dopoguerra, in cui i diritti sociali ricevono un compiuto riconoscimento e una tutela specifica152. In queste carte, la dignità «non è più correlata soltanto alle condizioni formali e potenziali ma anche alle specifiche condizioni materiali in cui ciascuno può venirsi a trovare. Da qui, da una simile concezione dell’essere umano e del principio di dignità, il riconoscimento […] – accanto ai tradizionali diritti c.d. di libertà e di partecipazione politica – di una pluralità di diritti, detti appunto dalla prevalente dottrina “sociali”, che (considerati nel loro insieme) mirano a garantire condizioni di uguaglianza sostanziale, a orientare la produzione verso la realizzazione di determinati beni e servizi e, nel contempo, riflettono e tutelano i molteplici ambiti di vita sociale nei quali e attraverso i quali si compie il libero sviluppo della persona umana»153.

Data la sua genericità, la nozione di “diritti sociali” va meglio precisata. Con essa devono intendersi, secondo l’orientamento che sembra più corretto, i diritti a prestazioni nei confronti di soggetti privati o pubblici154, la cui attuazione pratica richiede nel secondo caso necessariamente l’intervento del legislatore155. In quest’ottica la discrezionalità legislativa non verte sull’esistenza dei medesimi, e quindi sulla vincolatività delle norme costituzionali che li prevedono156, ma solo sulle loro modalità di implementazione. La loro origine risiede nelle idee di sicurezza e di giustizia sociale e nella progressiva espansione dell’intervento statale, volto alla liberazione dal bisogno sociali e vincoli di bilancio nella giurisprudenza costituzionale, in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, cit., vol. III, 2242; M. RUOTOLO, Appunti sulla dignità umana, cit., 3155 s.; C. BITTNER, Human Dignity as a Matter of Legislative Consistency in an Ideal World: The Fundamental Right to Guarantee a Subsistence Minimun in the German Federal Constitutional Court’s Judgment of 9 February 2010, in German Law Journal, 2011, 1941 ss.

151 Cfr. D. BIFULCO, L’inviolabilità dei diritti sociali, cit., 127 ss.; G. SERGES, Anacronismo legislativo, eguaglianza sostanziale e diritti sociali, in Giur. it., 2000, 687 s.; F. POLITI, Diritti sociali e dignità umana nella Costituzione Repubblicana, cit., 58; C. SALVI, Libertà economiche, funzione sociale e diritti personali e sociali tra diritto europeo e diritti nazionali, in Europa e diritto privato, 2011, 456, secondo cui proprio il rapporto tra dignità e tutele sociali è essenziale per ricostruire il senso di una clausola altrimenti inafferrabile; A. BALDASSARRE, Diritti sociali, cit., 11, il quale precisa che, mentre l’uguaglianza sta a fondamento di molti diritti sociali, ma non di tutti (è escluso ad esempio il diritto alla salute), la dignità è idonea a fondarli tutti; P. VERONESI, La dignità umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, cit., 332; C. MARCHESE, Rimodulazione della spesa pubblica e tutela dei diritti sociali nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Alla ricerca dell’equilibrio, in Neldiritto, 2015, 850.

152 Fa eccezione la Costituzione di Weimar del 1919, che già riconosceva alcuni diritti sociali. 153 Così A. GIORGIS, Diritti sociali, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol.

III, Milano, 2006, 1904 s. 154 Cfr. P.F. GROSSI, Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, cit., 29 ss. 155 Qualora invece l’obbligo di prestazione gravi su un soggetto privato, come nel caso del diritto

del lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, co. 1, Cost.), esso sarà immediatamente esigibile (nel caso citato, nei confronti del datore di lavoro).

156 Di cui dubitava P. CALAMANDREI, L’avvenire dei diritti di libertà, in F. RUFFINI, Diritti di libertà, II ed., Firenze, 1946, XLI s., quando affermava che «l’apparizione dei diritti sociali nelle costituzioni è, più che il punto d’arrivo di una rivoluzione già compiuta, il punto di partenza di una rivoluzione (o di una evoluzione) che si mette in cammino».

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dei soggetti economicamente più deboli157. In altri termini, i diritti sociali, nati come rivendicazioni delle classi subalterne, sono un prodotto della questione sociale e si caratterizzano per la loro struttura di diritti a prestazione e per la loro funzione redistributiva158. Bisogna però precisare che molti diritti sociali, nati come diritti degli esclusi e dei sottoprotetti, sono stati reinterpretati dal legislatore in chiave universale ed estesi a tutti i consociati159, com’è accaduto per il diritto alle cure (totalmente o parzialmente) gratuite160.

Il collegamento tra l’erogazione di determinate prestazioni e la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa è individuato dalla Corte costituzionale con riferimento all’indennità di accompagnamento nelle sentenze n. 346 del 1989161 e n. 88 del 1993162. Più specificamente, la citata indennità è considerata nella pronuncia del 1993 «una particolare provvidenza in favore di soggetti non autosufficienti, al fine di porli in grado di far fronte alle esigenze di accompagnamento e di assistenza che quella condizione necessariamente comporta, consentendo loro condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana» (punto 2.1 del Considerato in diritto)163. Nella decisione n. 37 del 1985164 la Consulta stabilisce che «la previsione delle obbligazioni alimentari, limitata agli alimenti ex lege e non estesa perciò a quelle convenzionali (vitalizio alimentare, legato di alimenti), è diretta alla tutela dei beni essenziali della vita e della dignità dell’uomo: tutela dovuta, per ragioni di solidarietà, ai soggetti della comunità familiare i quali si trovino in istato di bisogno» (punto 3 del Considerato in diritto)165. La pronuncia n. 439 del 1991166 ritiene che l’integrazione salariale ordinaria in caso di sospensione o contrazione dell’attività produttiva, dovuta a temporanee situazioni di mercato, sia chiaramente ed univocamente diretta ad impedire l’estraneazione del lavoratore dall’organizzazione economica, sociale e politica del Paese e a salvaguardare la sua dignità umana. Nella sentenza n. 168 del 2014167 si afferma che «Dal complesso delle disposizioni costituzionali relative al rispetto della persona umana, della sua dignità e delle condizioni minime di convivenza civile, emerge […] con chiarezza che l’esigenza dell’abitazione assume i connotati di una pretesa volta a soddisfare un

157 Cfr. F. PERGOLESI, Alcuni lineamenti dei “diritti sociali”, Milano, 1953, 10 s., che richiama il

noto discorso sulle quattro libertà (libertà di parola e di espressione, libertà religiosa, libertà dal bisogno e libertà dalla paura), tenuto il 6 gennaio 1941 dal Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt al Congresso.

158 Cfr. M. BENVENUTI, Diritti sociali, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., Agg. V, Torino, 2012, 224. 159 Cfr. G. CORSO, I diritti sociali nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1981, 759 s. 160 Cfr. M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., in Enc. giur., vol. XXVII, Roma,

1991, 8, che evidenzia come, pur sussistendo una chiara distinzione tra diritto alle cure tout court e diritto alle cure gratuite, garantite dall’art. 32 Cost. solo agli indigenti, la considerazione dell’attuale assetto del Servizio sanitario nazionale, ispirato ai criteri della globalità delle prestazioni, dell’universalità dei destinatari e dell’uguaglianza di trattamento, induce a concludere che anche la prima situazione giuridica soggettiva indicata si traduca nel diritto a ottenere cure pagate prevalentemente con denaro pubblico.

161 In Giur. cost., 1989, parte I, 1586 ss. 162 In Giur. cost., 1993, 765 ss., con osservazione di R. ALESSE, La tutela assistenziale e il recupero

sociale degli invalidi: un nuovo e puntuale intervento della Corte costituzionale, 2924 ss. 163 Analogo riferimento si rinviene nelle decisioni nn. 193 del 1994 (in Giur. cost., 1697, ss.) e 382

del 1996 (in Giur. cost., 1996, 3514 ss.). 164 In Giur. cost., 1985, parte I, 145 ss. 165 Questa statuizione è richiamata nella sentenza n. 1041 del 1988 (in Giur. cost., 1988, parte I,

5120 ss.). 166 In Giur. cost., 1991, 3671 ss., con osservazione di S. NICCOLAI, Mercato come valore o mercato

come regola? Osservazioni minime su un tema importante, 3680 ss. 167 In Giur. cost., 2014, 2678 ss.

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bisogno sociale ineludibile, un interesse protetto, cui l’ordinamento deve dare adeguata soddisfazione, anche se nei limiti della disponibilità delle risorse finanziarie» (punto 2 del Considerato in diritto).

Nella giurisprudenza costituzionale il nesso tra dignità e diritti sociali svolge tuttavia anche altre due funzioni: nel bilanciamento tra esigenze economico-finanziarie e diritti sociali, alla dignità umana è ricollegato quel nucleo di prestazioni che il legislatore è costituzionalmente obbligato a garantire in ogni caso; lo stesso nucleo è invocato per estendere agli stranieri alcune prestazioni sanitarie.

Iniziando da quest’ultima funzione, va menzionata innanzitutto la sentenza n. 252 del 2001168, in cui il giudice costituzionale stabilisce che il «“nucleo irriducibile” di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso» (punto 2 del Considerato in diritto). Quest’affermazione è richiamata nella decisione n. 432 del 2005169, in cui però l’estensione della prestazione non deriva da un simile principio ma dall’intrinseca irragionevolezza della normativa regionale oggetto del sindacato170. L’asserzione contenuta nella pronuncia del 2001 ha invece un ruolo decisivo nelle sentenze n. 269 del 2010171, n. 299 del 2010172 e n. 61 del 2011173, con cui la Corte rigetta le questioni di legittimità costituzionale di normative regionali che avevano esteso agli stranieri irregolari le prestazioni fondamentali atte a garantire il diritto all’assistenza sanitaria, peraltro in linea di continuità con le previsioni di cui agli artt. 34 e 35 del testo unico in materia d’immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e s.m.i.)174. Queste sentenze, che

168 In Giur. cost., 2001, 2168 ss. 169 In Giur. cost., 2005, 4657 ss., con osservazioni di F. RIMOLI, Cittadinanza, eguaglianza e diritti

sociali: qui passa lo straniero, 4675 ss. e di M. GNES, Il diritto degli stranieri extracomunitari alla non irragionevole discriminazione in materia di agevolazioni sociali, 4681 ss.

170 Cfr. M. GNES, Il diritto degli stranieri extracomunitari alla non irragionevole discriminazione in materia di agevolazioni sociali, cit., 4684 ss.

171 In Giur. cost., 2010, 3224 ss., con osservazione di D. MORANA, Titolari di diritti, anche se irregolari: politiche regionali di integrazione sociale e diritto alla salute degli immigrati (note minime a Corte cost., sent. n. 269 del 2010), 3238 ss.

172 In Giur. cost., 2010, con osservazioni di F. GHERA, Regioni e accordi internazionali non stipulati dallo Stato, 3895 ss. e di G. BASCHERINI, Il riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di immigrazione al tempo del «pacchetto sicurezza». Osservazioni a margine delle sentt. nn. 269 e 299 del 2010, 3901 ss.

173 In Giur. cost., 2011, 783 ss., con osservazione di S. MABELLINI, La dimensione sociale dello straniero tra uniformità (sovranazionale) e differenziazione (regionale), 804 ss.

174 L’art. 35, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 dispone in particolare che «Ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva». Il comma citato elenca poi, in via esemplificativa, una serie di ambiti in cui l’erogazione delle prestazioni è assicurata anche agli stranieri irregolari: la tutela sociale della gravidanza e della maternità; la tutela della salute del minore; le vaccinazioni; gli interventi di profilassi internazionale; la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive, nonché l’eventuale bonifica dei relativi focolai. Il quinto comma dello stesso articolo precisa infine che «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano». Questa disciplina non è stata intaccata dal “pacchetto sicurezza” (l. 15 luglio 2009, n. 94), adottato per finalità di contrasto dell’immigrazione irregolare e clandestina. Com’è stato giustamente notato, però, «la previsione di nuove fattispecie di reato contro l’ingresso e il soggiorno

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di fatto svincolano il godimento dei diritti fondamentali dal requisito della cittadinanza175, denotano un uso della dignità nella direzione di un’espansione della portata dei diritti costituzionali (empowerment)176. Si può però osservare che un risultato del genere deriva già da un’interpretazione letterale della Costituzione. È banale constatare che l’art. 32 Cost. definisce la salute un fondamentale diritto dell’individuo (e non del cittadino), e consente quindi di ritenere che la sua titolarità spetti anche allo straniero177. Ciò vale anche per altri diritti sociali178.

Ridimensionata tale funzione, ci si deve ora soffermare sul ruolo della dignità nel rapporto tra esigenze finanziarie e diritti sociali. Anche in tal caso l’ambito privilegiato di applicazione è quello del diritto alla salute, ma la questione è ovviamente più ampia e chiama in causa la problematica del condizionamento finanziario dei diritti sociali179. In proposito, si può partire dalla sentenza n. 455 del 1990180, in cui la Corte stabilisce che «il diritto a ottenere trattamenti sanitari, essendo basato su norme costituzionali di carattere programmatico impositive di un determinato fine da raggiungere, è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento» (punto 3 del Considerato in diritto). Nella decisione n. 304 del 1994181 la Consulta aggiunge che «nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore deve compiere al fine di dare attuazione al illegale potrebbe rappresentare – come effetto collaterale – un insuperabile deterrente per l’ammalato a curarsi, proprio per non incorrere nelle maglie delle forze dell’ordine, con tutte le inevitabili ripercussioni per la sua salute e per quella della stessa comunità che lo circonda». Così L. CHIEFFI, La tutela della salute degli immigrati irregolari, in AA.VV., Scritti in onore di Alessandro Pace, vol. II, Napoli, 2012, 1234 s. Per un ulteriore approfondimento della tematica, v. G. BASCHERINI, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Napoli, 2007.

175 Cfr. F. RIMOLI, Cittadinanza, eguaglianza e diritti sociali: qui passa lo straniero, 4675 s. 176 Analogo uso della dignità si riscontra nella giurisprudenza del Tribunale costituzionale spagnolo,

che ha sostenuto la doverosità di un eguale trattamento tra stranieri e spagnoli nel godimento di tutti i diritti indispensabili ad assicurare la dignità umana. Sul punto, cfr. F. FERNÁNDEZ SEGADO, La dignità della persona come valore supremo dell’ordinamento giuridico spagnolo, in Riv. crit. dir. priv., 2007, 57.

177 Cfr. R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, in R. BALDUZZI – G. CARPANI, Manuale di diritto sanitario, Bologna, 2013, 27, secondo i quali l’art. 32 Cost. «rivela la tensione universalistica del diritto da esso tutelato, già nella scelta di non identificare il cittadino quale beneficiario della situazione soggettiva, ma direttamente l’individuo, rendendo superflua la necessità di un’interpretazione estensiva del disposto: è sufficiente un’interpretazione letterale per constatare che il soggetto titolare del fondamentale diritto è qualsiasi individuo, a prescindere che egli possieda la cittadinanza italiana»; D. MORANA, Titolari di diritti, anche se irregolari: politiche regionali di integrazione sociale e diritto alla salute degli immigrati (note minime a Corte cost., sent. n. 269 del 2010), cit., 3246 s.

178 Cfr. S. MABELLINI, La dimensione sociale dello straniero tra uniformità (sovranazionale) e differenziazione (regionale), cit., 812, che evidenzia come solo in poche occasioni la Costituzione limiti esplicitamente ai soli cittadini la titolarità soggettiva dei diritti e dei doveri contemplati; G.U. RESCIGNO, Note sulla cittadinanza, in Dir. pubbl., 2000, 761, il quale precisa che «la Costituzione italiana tutela i diritti fondamentali dell’uomo, e cioè diritti che spettano ad ogni essere umano a prescindere da qualunque altra sua qualità, ed in particolare a prescindere dalla cittadinanza: diritti quindi che la Costituzione tutela anche nei confronti degli stranieri».

179 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti sociali, cit., 30 ss., secondo cui la garanzia concreta dei diritti sociali “condizionati” è posta sotto la “riserva del possibile o del ragionevole” (der Vorbehalt des Möglichen oder des Vernünftigen), formula mutuata dall’ordinamento tedesco.

180 In Giur. cost., 1990, 2732 ss. 181 In Giur. cost., 1994, 2606 ss.

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“diritto ai trattamenti sanitari” (art. 32 della Costituzione) entra anche la considerazione delle esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica. Non v’è dubbio che, se queste ultime esigenze, nel bilanciamento dei valori costituzionali operato dal legislatore, avessero un peso assolutamente preponderante, tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all’inviolabile dignità della persona umana, ci si troverebbe di fronte a un esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa» (punto 5 del Considerato in diritto). Nella sentenza n. 309 del 1999182 il Giudice delle leggi riconduce a tale nucleo il diritto degli indigenti a usufruire di cure gratuite ex art. 32 Cost. Nella pronuncia n. 509 del 2000183 la Corte richiama i principi illustrati e aggiunge che essi impediscono la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano pregiudicare l’attuazione del diritto alla salute. Tale orientamento ha trovato applicazione in altri arresti successivi184 ed è stato richiamato anche dalla Corte di Cassazione185.

Bisogna a questo punto capire se effettivamente la ricostruzione di un “nucleo inviolabile del diritto alla salute connesso alla dignità umana” metta al riparo il diritto ai trattamenti sanitari – e, in generale, i diritti sociali – da confliggenti istanze di natura finanziaria. Inutile dire che il problema è drammaticamente attuale, se si considera che la crisi economico-finanziaria comporta «una profonda sofferenza dei sistemi di welfare nelle democrazie europee, che non di rado si traduce in una diffusa inadeguatezza a fronteggiare le situazioni di bisogno e di fragilità individuale»186. Questa situazione

182 In Giur. cost., 1999, 2500 ss., con osservazione di L. PRINCIPATO, Il diritto costituzionale alla

salute: molteplici facoltà più o meno disponibili da parte del legislatore o differenti situazioni giuridiche soggettive?, 2508 ss.

183 In Giur. cost., 2000, 4003 ss. 184 Cfr. le sentenze nn. 111 del 2005 (in Giur. cost., 2005, 999 ss.), 162 del 2007 (in Giur. cost.,

1515 ss.) e 354 del 2008 (in Giur. cost., 2008, 3906 ss., con osservazione di L. PRINCIPATO, Il contenuto minimo e la tutela cautelare del diritto alle cure mediche, in rapporto alle condizioni economiche del malato ed alle esigenze di bilancio dello Stato, 3915 ss.).

185 Cfr., ad esempio, Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 2012, n. 9969, in cui si afferma che «Il costante riferimento alla necessaria tutela della dignità della persona impone […] una lettura delle regole che sovrintendono alla erogazione dei servizi destinati a realizzare il pieno diritto alla salute che tenga conto – quando si tratti, come nella specie, di fruire di un progetto terapeutico non somministrato dal Servizio sanitario nazionale – del complesso oggetto della tutela che, conseguentemente, non può risolversi nel solo approntare il presidio terapeutico destinato al regresso della malattia, ma anche e soprattutto nell’offrire quant’altro sia utile a ripristinare nel soggetto colpito le condizioni per una decorosa convivenza con la condizione patologica o la disabilità. A questa conclusione si perviene, infatti, qualora, come doveroso, il diritto alla salute si legga unitamente a quello alla dignità umana. Da tali considerazioni deve ricavarsi il principio che il diritto alla salute ha nel nostro ordinamento una dimensione sicuramente più ampia di quanto non possa derivare dal mero diritto alla cura od alla assistenza, intesa nel senso tradizionale di accorgimenti terapeutici idonei a debellare la malattia od ad arrestarne l’evoluzione. Al contrario, il necessario riferimento alla tutela della dignità umana, consente di ritenere che le condizioni di salute oggetto della previsione costituzionale coincidano non solo con l’approntamento di mezzi destinati alla guarigione del soggetto colpito ma anche con quant’altro possa farsi per alleviare il pregiudizio non solo fisico ma, se si vuole, esistenziale dell’assistito, quantomeno in ragione di tutto ciò che manifesti concreta utilità ad alleviare la limitazione funzionale ancorché senza apprezzabili risultati in ordine al possibile regresso della malattia». Si noti come la Corte di Cassazione faccia riferimento alla dignità umana in quanto tale, al fine di estendere la portata del diritto alla salute, e non a un mero contenuto essenziale.

186 Così D. MORANA, I diritti a prestazione in tempo di crisi: istruzione e salute al vaglio dell’effettività, in Rivista AIC, n. 4/2013 (20 dicembre 2013), 1.

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incide profondamente sull’aspetto dell’effettività dei diritti sociali, sottoposti alla logica dei “tagli lineari”187 e alla conseguente riduzione delle tutele188.

Il rapporto tra esigenze di bilancio e attuazione dei diritti sociali deve essere riguardato alla luce di un duplice presupposto. Innanzitutto, come ricorda autorevole dottrina, «l’efficienza economica non è, in sé, un valore, e la disciplina dell’economia che la Costituzione vuole sia dettata dal legislatore ordinario, non può essere ispirata solo dall’intento di perseguire scopi immediatamente economici (aumento della produzione, equilibrio finanziario, ecc.), ma deve essere invece guidata dalla necessità di attivare e favorire il processo di trasformazione sociale le cui grandi linee sono tracciate dall’art. 3, 2º co.»189. Quanto detto non implica che il dato finanziario debba essere totalmente trascurato nella predisposizione dei meccanismi di realizzazione dei diritti sociali o che sia consentito al legislatore adottare qualsiasi scelta dagli effetti antieconomici190. Non è però in discussione il fatto che tra esigenze economico-finanziarie e ed esigenze sociali la Costituzione imponga un bilanciamento ineguale, o meglio una relazione di strumentalità delle prime rispetto alle seconde191. Tale conclusione potrebbe essere ribaltata192 dall’inserimento in Costituzione, ad opera della l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, del principio dell’equilibrio di bilancio. L’art. 81, co. 1, Cost. dispone ora che «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». Al secondo comma si precisa che «Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Nonostante i rischi di un’irreversibile contrazione della spesa sociale potenzialmente derivanti da questa formula, permane un margine di manovra per evitare che il rigore economico e l’austerità si trasformino in una drastica mortificazione delle politiche sociali193. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che il problema non consiste solo nell’ammontare complessivo delle risorse disponibili, ma anche nella distribuzione delle stesse, e pertanto pari rilevanza assume l’esistenza o meno della volontà politica di impiegare le entrare per la soddisfazione dei diritti sociali, piuttosto che per altri scopi194.

187 Cfr. L. MONTEFERRANTE, La dignità della persona umana tra istanze di tutela dei diritti sociali

ed esigenze di contenimento della spesa pubblica: prospettive a confronto, in G.C. DE MARTIN – D. MORANA (a cura di), Amministrazione e democrazia. Atti della Giornata di studi per il ventennale del Centro Vittorio Bachelet, Padova, 2013, 113. Contra C. MARCHESE, Rimodulazione della spesa pubblica e tutela dei diritti sociali nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Alla ricerca dell’equilibrio, cit., 851, che reputa più corretto parlare di razionalizzazione della spesa pubblica, piuttosto che di tagli indiscriminati.

188 Cfr. R. CALVANO, La tutela dei diritti sociali tra meccanismo europeo di stabilità e legalità costituzionale ed europea, in Costituzionalismo.it, n. 3/2013 (20 gennaio 2014), che parla di una vera e propria mannaia rappresentata dai decreti-legge della c.d. spending review.

189 Così M. LUCIANI, Economia nel diritto costituzionale, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. V, Torino, 1990, 378.

190 Cfr. M. LUCIANI, Economia nel diritto costituzionale, cit., 378. 191 Cfr. M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in Dem. dir., n. 4/1994-1/1995, 569 s. 192 Cfr. G. GRASSO, Il costituzionalismo della crisi. Uno studio sui limiti del potere e sulla sua

legittimazione al tempo della globalizzazione, Napoli, 2012, 112. 193 Cfr. G. GRASSO, Il costituzionalismo della crisi. Uno studio sui limiti del potere e sulla sua

legittimazione al tempo della globalizzazione, cit., 149. 194 Cfr. M. LUCIANI, I livelli essenziali delle prestazioni in materia sanitaria tra Stato e Regioni, in

E. CATELANI – G. CERRINA FERONI – M.C. GRISOLIA (a cura di), Diritto alla salute tra uniformità e

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Poste tali premesse, ci si deve chiedere se l’individuazione di un “nucleo irriducibile di tutela” sia in grado di elevare il livello di protezione dei diritti sociali o almeno di assicurare uno standard adeguato di garanzia degli stessi. Invero la risposta deve essere tendenzialmente negativa195, se si tiene conto di alcuni dati. Nella giurisprudenza costituzionale il nucleo in esame non sembra essere inteso come uno standard appropriato di tutela, ma come un contenuto minimo che il legislatore deve assicurare. Nella citata sentenza n. 111 del 2005, ad esempio, la Corte accosta il “nucleo inviolabile” a «esigenze minime, di carattere primario e fondamentale, del settore sanitario» (punto 6.2 del Considerato in diritto)196. In altre pronunce, come la n. 184 del 1993197, si fa invece espresso riferimento al contenuto minimo essenziale del diritto alla salute.

Si pone allora il problema di capire in cosa consista questo contenuto minimo o essenziale. La giurisprudenza costituzionale non offre indicazioni esaustive in merito198 e non è difficile comprenderne il motivo. L’espressione “contenuto essenziale” rimanda all’idea di Wesensgehalt, disciplinato dall’art. 19, Abs. II, della Legge fondamentale tedesca, ai sensi del quale «In nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto essenziale»199. Com’è stato rilevato, non è possibile trapiantare nell’ordinamento italiano un concetto del genere, perché «la Carta costituzionale italiana evita – per la verità assai saggiamente – il ricorso a locuzioni e dizioni che si richiamino a concetti così evanescenti»200. Né l’indeterminatezza dell’espressione diminuisce se si aggancia quest’ultima alla dignità umana: se già la dignità umana si rivela di difficile definizione, il collegamento ad essa di una nozione generica come quella del “contenuto essenziale” rischia di aumentare le incertezze. Sarebbe peraltro improprio ritenere che ogni limitazione, seppur intensa, di un diritto fondamentale si traduca sempre e comunque in una violazione della dignità201; rovesciando il ragionamento, si può poi osservare che una misura non lesiva della dignità non è, per ciò solo, in armonia con la Costituzione202. In definitiva, i due concetti non sono sovrapponibili203. Si consideri inoltre che l’intento garantistico204 sotteso all’operazione criticata, volto a sottrarre al legislatore una certa sfera di garanzia di un diritto, potrebbe paradossalmente produrre effetti opposti, poiché potrebbe indurre a sostenere che tutto

differenziazione. Modelli di organizzazione sanitaria a confronto, Torino, 2011, 14, in relazione al diritto alla salute, ma la considerazione è estendibile a tutti i diritti sociali.

195 Salvo quanto si dirà in conclusione sul rapporto tra “nucleo inviolabile” e livelli essenziali delle prestazioni ex art. 117, co. 2, lett. m), Cost.

196 La stessa formula ricorre nella sentenza n. 162 del 2007. 197 In Giur. cost., 1993, 1268 ss. 198 E neanche potrebbe, come sottolinea R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi

nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, 130 s. 199 Per un’ampia disamina della problematica, v. P. HÄBERLE, Le libertà fondamentali nello Stato

costituzionale, a cura di P. RIDOLA, Roma, 1993. 200 Così P.F. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana,

cit., 158. 201 Cfr. P.F. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana,

cit., 155 s. 202 Cfr. L. PRINCIPATO, Il diritto costituzionale alla salute: molteplici facoltà più o meno disponibili

da parte del legislatore o differenti situazioni giuridiche soggettive?, cit., 2511. 203 Sostiene invece l’identità dei due concetti E. CASTORINA, Riflessioni sul contenuto minimo del

diritto fondamentale alla salute: la sperimentazione «terapeutica» di farmaci ed il «rispetto della persona umana», in Giur. cost., 1998, 2557 ss.

204 Messo in risalto da P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, cit., 523.

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ciò che non è essenziale sia interamente rimesso alla discrezionalità legislativa205. Al contrario, la Costituzione italiana, nel regolare i singoli diritti fondamentali, non distingue tra aspetti essenziali e aspetti non essenziali; ciò significa che anche una legge ordinaria che limiti questi ultimi in modo non conforme alla Costituzione è illegittima206.

Non resta allora che abbandonare il tentativo di offrire una definizione valida una volta per tutte207 e procedere a un’analisi caso per caso208. Si deve però subito precisare che neanche un esame del genere conduce a risultati soddisfacenti, non essendo possibile individuare criteri sicuri che guidino la Corte costituzionale nell’inclusione o meno di una prestazione nel “nucleo essenziale”, con conseguente sottrazione alla prevalenza delle esigenze economico-finanziarie209. Proprio la giurisprudenza costituzionale in materia di diritto alla salute conforta una simile conclusione. Basti pensare che nella sentenza n. 354 del 2008 la Consulta esclude la lesione del “nucleo inviolabile” del diritto alla salute e con essa la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale del costo delle cure effettuate all’estero, in caso di gravità della malattia e di urgenza dell’intervento, da soggetti non indigenti. Nella decisione n. 267 del 1998210 il giudice costituzionale include invece nel nucleo suddetto il rimborso delle spese per l’assistenza indiretta per prestazioni di comprovata gravità e urgenza, quando non sia possibile ottenere la preventiva autorizzazione e sussistano le altre condizioni necessarie per il rimborso; dichiara dunque illegittima la normativa oggetto del controllo di costituzionalità. Nella pronuncia n. 185 del 1998211 il Giudice delle leggi addirittura afferma che, nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte alternative, dalla determinazione del legislatore di avviare la sperimentazione di un complesso di sostanze e dall’autorizzazione al loro impiego nei confronti di altri soggetti estranei alla sperimentazione scaturiscono aspettative comprese nel contenuto

205 Cfr. L. PRINCIPATO, La immediata precettività dei diritti sociali ed il «contenuto minimo del

diritto fondamentale alla salute», in Giur. cost., 1998, 3869, il quale rimarca che «Un processo interpretativo dei diritti costituzionali fondato sulla nozione di contenuto minimo suscita […] un fondato timore: ritenere, infatti, non «essenziali» – e dunque eliminabili senza contrasto alcuno con la Costituzione – un numero sempre maggiore di quelle facoltà o poteri che sostanziano i diritti costituzionali, non potrebbe condurre ad uno svuotamento di fatto del significato stesso della previsione espressa di un catalogo di situazioni giuridiche di rango costituzionale?».

206 Cfr. A. PACE, La garanzia dei diritti fondamentali nell’ordinamento costituzionale italiano: il ruolo del legislatore e dei giudici «comuni», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 686. Contra I. MASSA PINTO, Il contenuto minimo essenziale dei diritti costituzionali e la concezione espansiva della Costituzione, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO COMPARATO, I diritti fondamentali in Europa. XV Colloquio biennale (Messina-Taormina, 31 maggio-2 giugno 2001), Milano, 2002, 610 ss., secondo cui la teoria del contenuto essenziale non comporterebbe una deminutio nella tutela dei diritti fondamentali, essendo viceversa il corollario di una concezione forte ed espansiva della Costituzione.

207 Cfr. O. CHESSA, La misura minima essenziale dei diritti sociali: problemi e implicazioni di un difficile bilanciamento, in Giur. cost., 1998, 1175 s.

208 Come propone di fare D. MESSINEO, La garanzia del “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali. Dalla tutela della dignità umana ai livelli essenziali delle prestazioni, Torino, 2012, 78 ss.

209 Cfr. L. PRINCIPATO, Il contenuto minimo e la tutela cautelare del diritto alle cure mediche, in rapporto alle condizioni economiche del malato ed alle esigenze di bilancio dello Stato, cit., 3926.

210 In Giur. cost., 1998, 2076 ss. 211 In Giur. cost., 1998, 1510 ss., con osservazioni di A. ANZON, Modello ed effetti della sentenza

costituzionale sul caso Di Bella, 1528 ss.; T. GROPPI, La Corte costituzionale tra «fatto legislativo» e «fatto sociale», 2798 ss.; P. GIANGASPERO, Il diritto alla salute e la sperimentazione clinica in una «additiva di principio» anomala, 2805 ss.; L. PRINCIPATO, La immediata precettività dei diritti sociali ed il «contenuto minimo del diritto fondamentale alla salute», cit.

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minimo del diritto alla salute212. A fronte degli esempi citati, il nodo della questione non risiede nella condivisibilità o meno degli esiti cui giunge la Corte, ma nell’impossibilità di giustificare la soluzione in base alla nozione di “nucleo irriducibile”, con evidente pregiudizio per la certezza del diritto213. Il concetto è infatti invocato sia per dimostrare l’incostituzionalità delle norme che intacchino tale nucleo, sia per escluderla, nei casi in cui la Corte reputi che una prestazione non rientri nel nucleo214. Se però neanche l’analisi casistica consente di delineare criteri che orientino il bilanciamento (ineguale) tra diritti sociali ed esigenze finanziarie, allora la nozione di “nucleo essenziale connesso all’inviolabile dignità umana” si rivela sostanzialmente inutile215 e non aggiunge nulla alle premesse illustrate.

Più proficuo è invece comprendere se una certa pretesa sia riconducibile a una situazione giuridica soggettiva inclusa in un diritto sociale, così come configurato dalla Costituzione. Ciò vale soprattutto per il diritto alla salute, in virtù della sua complessità strutturale216. Una volta stabilito che una situazione soggettiva rientri nella garanzia costituzionale del corrispondente diritto sociale, si potrà predicarne la prevalenza rispetto alle esigenze finanziarie, mentre sarebbe arbitrario distinguere, all’interno della medesima situazione, tra facoltà essenziali e facoltà accessorie, queste ultime sacrificabili dal legislatore ai vincoli di bilancio217. I risultati anomali cui può condurre l’impostazione censurata sono palesi se si considera la sentenza n. 309 del 1999, in cui la Corte costituzionale afferma che «la tutela del diritto alla salute non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziare delle quali dispone; ma […] le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Ed è certamente a quest’ambito che appartiene il diritto dei cittadini in disagiate condizioni economiche, o indigenti secondo la terminologia dell’art. 32 della Costituzione, a che siano loro assicurate cure gratuite» (punto 3 del Considerato in diritto). Sembra quasi che la gratuità delle cure per gli indigenti debba essere garantita dal legislatore non perché obbligatoria ai sensi dell’art. 32 Cost., ma perché compresa nel nucleo essenziale del diritto alla salute. In qualche modo è la stessa

212 La portata dirompente dell’affermazione è poi ridimensionata dalla puntuale delimitazione degli effetti della sentenza nel punto 10 del Considerato in diritto.

213 Cfr. D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, II ed., Torino, 2015, 88. 214 Cfr. C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche

decisorie della Corte costituzionale a confronto, Torino, 2000, 129 s. 215 Cfr. C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche

decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit., 132. 216 Sulla struttura complessa del diritto alla salute e sulle sue diverse dimensioni, v. R. BALDUZZI –

D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 23 ss.; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 22 ss.; C. TRIPODINA, Art. 32, in S. BARTOLE – R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 321 ss.; R. BALDUZZI, Salute (diritto alla), in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. VI, Milano, 2006, 5394 ss.; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, cit., 658 ss.; A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 97 ss.; C.M. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), in Enc. dir., Agg. V, Milano, 2001, 1018 ss.; R. FERRARA, Salute (diritto alla), in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. XIII, Torino, 1997, 519 ss.; M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 4 ss.; B. CARAVITA, Art. 32, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 215 ss.; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. soc., 1983, 25 ss.

217 Cfr. L. PRINCIPATO, La immediata precettività dei diritti sociali ed il «contenuto minimo del diritto fondamentale alla salute», cit., 3868.

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Consulta a confermare l’aporia quando, nella sentenza n. 354 del 2008, si trova costretta, per fronteggiare un improprio richiamo della pronuncia del 1999 da parte del giudice a quo218, a chiarire che «la suddetta pronuncia è stata emessa sul fondamento che l’art. 32, comma primo, Cost. «garantisce cure gratuite agli indigenti» e in considerazione del fatto che, per costoro, l’insufficienza delle condizioni economiche, unitamente alla mancata previsione del diritto di ottenere il rimborso delle spese necessarie, potrebbe determinare l’impossibilità di procurarsi le indispensabili prestazioni sanitarie e risolversi, quindi, in un pregiudizio diretto e immediato del diritto alla salute» (punto 5 del Considerato in diritto).

Una maggiore determinatezza del concetto di “nucleo essenziale” potrebbe infine derivare dal suo collegamento con la nozione di “livelli essenziali delle prestazioni”, di cui all’art. 117, co. 2, lett. m), Cost. Una simile operazione, che pure si rivela assai problematica219, avrebbe un’utilità ove servisse a tutelare non un semplice contenuto minimo dei diritti sociali, ma un contenuto adeguato220. Ciò significa che, in tanto ha senso agganciare il nucleo ai LEP, in quanto questi ultimi siano intesi come livelli appropriati di erogazione delle prestazioni che il legislatore è tenuto a garantire su tutto il territorio nazionale. Nel settore sanitario221, ad esempio, si sostiene che i livelli essenziali delle prestazioni222 non debbano essere intesi come livelli minimi e che debbano essere invece parametrati sul bisogno di cure e sulla domanda di salute, in modo da assicurare l’appropriatezza e la necessità dei trattamenti223. Su tale punto non vi è tuttavia accordo in dottrina224 e nella giurisprudenza costituzionale non si riscontrano indirizzi chiari. Nella sentenza n. 282 del 2002225 si dice che, in base all’art.

218 Il giudice a quo aveva dedotto dal citato passaggio della decisione n. 309 del 1999 il principio

generale secondo cui, in caso di pericolo di lesione del nucleo essenziale del diritto alla salute, il cittadino italiano che si trovi all’estero avrebbe diritto a ottenere dal SSN, indipendentemente dalle ragioni dell’espatrio, il rimborso totale o parziale delle spese sostenute per prestazioni sanitarie.

219 Cfr. D. MORANA, Titolari di diritti, anche se irregolari: politiche regionali di integrazione sociale e diritto alla salute degli immigrati (note minime a Corte cost., sent. n. 269 del 2010), cit., 3248, che ritiene insuperabile la diversità di funzione dei due concetti; D. MESSINEO, La garanzia del “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali. Dalla tutela della dignità umana ai livelli essenziali delle prestazioni, cit., 274 ss., che reputa non sovrapponibili le due nozioni. Favorevoli invece a un collegamento E. CATERINI, Rapporto di assistenza, «contenuto minimo» e tutela della persona, in Rass. dir. civ., 2009, 365; R. BALDUZZI, Salute (diritto alla), cit., 5398; G. GRASSO, Il costituzionalismo della crisi. Uno studio sui limiti del potere e sulla sua legittimazione al tempo della globalizzazione, cit., 154 ss.; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 34 s.

220 Cfr. L. CHIEFFI, L’effettività del principio di eguaglianza negli ordinamenti policentrici: il sistema italiano, in AA.VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, vol. I, Torino, 2005, 711, il quale pensa che, nonostante il rischio di svuotamento nella concretizzazione legislativa dell’ambigua formula introdotta dalla riforma del titolo V, essa conservi comunque un’indubbia portata garantistica.

221 In cui la formula ha fatto la sua comparsa per la prima volta. Cfr. R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 33 ss.; R. BALDUZZI, Salute (diritto alla), cit., 5399.

222 Che in quell’ambito prendono il nome di LEA (Livelli essenziali di assistenza). 223 Cfr. F. GIGLIONI, I servizi sanitari, in L. TORCHIA (a cura di), Welfare e federalismo, Bologna,

2005, 32; R. BALDUZZI, Salute (diritto alla), cit., 5398 s.; ID., Il diritto alla salute e la manutenzione del sistema sanitario, in Monitor, n. 29/2012, 4; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 79.

224 Il dibattito è riassunto da L. TRUCCO, Livelli essenziali delle prestazioni e sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, in www.gruppodipisa.it, 11 ss.

225 In Giur. cost., 2002, 2012 ss., con osservazioni di A. D’ATENA, La Consulta parla…e la riforma del Titolo V entra in vigore, 2027 ss.; D. MORANA, La tutela della salute, fra libertà e prestazioni, dopo

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117, co. 2, lett. m), Cost., il legislatore statale è abilitato a «porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (punto 3 del Considerato in diritto). La decisione n. 115 del 2012226 parla di standard minimi determinati dalla legislazione statale, senza però spiegare meglio il concetto. Al di là di queste indicazioni, però, non vi sono altre precisazioni della Corte sull’entità dei LEP, sicché non è sbagliato sostenere che la formula dei LEP sia stata finora usata, com’era peraltro prevedibile227, soprattutto quale criterio di riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni228. Proprio in relazione ai LEP, la dignità umana è stata utilizzata nella sentenza n. 10 del 2010229 come strumento di “scardinamento” del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Per l’incidenza sul sistema delle fonti, questa sentenza merita un’autonomia trattazione, che sarà effettuata in seguito.

In definitiva, la specificazione delle prestazioni da erogare è sostanzialmente rimessa alla discrezionalità del legislatore, le cui scelte sono state finora sindacate dal giudice costituzionale solo in caso di manifesta irragionevolezza230, coerentemente con i criteri delineati nella sentenza n. 27 del 1998231, in cui si afferma che «alla Corte costituzionale non è dato sovrapporre le proprie valutazioni di merito a quelle che spettano e sono riservate al legislatore nelle determinazioni volte a predisporre i mezzi necessari a far fronte alle obbligazioni dello Stato nella materia dei cosiddetti diritti sociali» (punto 4.2 del Considerato in diritto).

Il giudizio conclusivo su questa funzione della dignità resta allora sospeso, mentre è assodato il rapporto fondativo della dignità umana rispetto ai diritti sociali.

4. La pari dignità sociale (art. 3, co. 1, Cost.) La dignità è espressamente menzionata in tre disposizioni costituzionali: l’art. 3,

co. 1, Cost. parla di pari dignità sociale dei cittadini; l’art. 36, co. 1, Cost. fa riferimento all’esistenza dignitosa, che deve essere in ogni caso assicurata dalla retribuzione; l’art. 41, co. 2, Cost. indica nella dignità umana un limite all’iniziativa economica privata. la riforma del Titolo V. A proposito della sentenza 282/2002 della Corte costituzionale, 2034 ss.; E. CAVASINO, I «vincoli» alla potestà legislativa regionale in materia di «tutela della salute» tra libertà della scienza e disciplina costituzionale dei trattamenti sanitari, 3282 ss.

226 In Giur. cost., 2012, 1671 ss., con osservazione di A. BRANCASI, L’obbligo della copertura finanziaria tra la vecchia e la nuova versione dell’art. 81 Cost., 1685 ss.

227 Cfr. R. FINOCCHI GHERSI – F. GIGLIONI, Conclusioni, in L. TORCHIA (a cura di), Welfare e federalismo, cit., 84.

228 Cfr. L. TRUCCO, Livelli essenziali delle prestazioni e sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, cit., 67.

229 In Giur. cost., 2010, 135 ss. con osservazioni di A. ANZON DEMMIG, Potestà legislativa regionale residuale e livelli essenziali delle prestazioni, 155 ss.; E. LONGO, I diritti sociali al tempo della crisi. La Consulta salva la social card e ne ricava un nuovo titolo di competenza statale, 164 ss.; F. SAITTO, Quando l’esigenza di tutela della dignità fonda, nell’emergenza economica, la competenza statale, 182 ss.

230 Cfr. M. LUCIANI, I livelli essenziali delle prestazioni in materia sanitaria tra Stato e Regioni, cit., 30 ss.; I. CIOLLI, I diritti sociali, in F. ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti del Convegno di Roma, 26-27 aprile 2012, Napoli, 2012, 101 ss.

231 In Giur. cost., 1998, 148 ss., con osservazione di O. CHESSA, La misura minima essenziale dei diritti sociali: problemi e implicazioni di un difficile bilanciamento, cit.

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I tre richiami espliciti meritano una specifica indagine, che può partire proprio dall’art. 3, co. 1, Cost.

Non c’è dubbio che si tratti di una formula «curiosa e nuovissima»232 e che non sia un inutile duplicato del principio di eguaglianza formale, sancito dallo stesso art. 3, co. 1, Cost.233. Assai complicato è invece stabilire in cosa consista, data la sua vaghezza234. Non è mancato chi ne ha messo in discussione il valore giuridico, ritenendola la traduzione di un’aspirazione prevalentemente etica235. Si è anche detto, in qualche modo accostando il concetto a quello di dignità umana, che la pari dignità sociale sta a fondamento dell’eguaglianza e «consente d’intenderne le implicazioni, in quanto espressione del pregio ineffabile della persona umana come tale, quale che sia la posizione rivestita nella società»236. L’assimilazione tra pari dignità sociale e dignità umana è particolarmente evidenziata da chi individua nell’art. 3, co. 1 Cost. il fondamento della tutela dell’onore, inteso come diritto di chiunque ad essere trattato come uomo dai suoi pari, indipendentemente dal rapporto sociale in cui si trovi237. Tale situazione giuridica si porrebbe come limite dei diritti privati e dei pubblici poteri, con specifico riguardo alla libertà di manifestazione del pensiero, alla libertà d’iniziativa economica privata, ai trattamenti sanitari obbligatori e alle modalità di esecuzione della pena238. Questa tesi non è pienamente condivisibile per due motivi: da un lato, la dignità umana ha un significato molto più ampio dell’onore e si identifica con esso solo in una delle sue possibili accezioni; dall’altro lato, è vero che esistono punti di contatto tra la dignità sociale e la dignità umana, ma una loro integrale equiparazione comporterebbe una svalutazione del dato costituzionale239. Riduttiva è anche la tesi secondo cui la pari dignità sociale sarebbe garantita dall’abolizione dei titoli nobiliari, prevista dalla XIV disp. trans. fin. Cost.240. Un collegamento tra il disconoscimento dei titoli nobiliari e la pari dignità sociale si rinviene nella sentenza n. 101 del 1967241.

232 Così L. PALADIN, Eguaglianza (dir. cost.), in Enc. dir., vol. XIV, Milano, 1965, 520. 233 Cfr. S. CARBONARO, I Rapporti Civili e i Rapporti Politici, in P. CALAMANDREI – A. LEVI

(diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, cit., 138; G.U. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, Annuario 1998. Principio di eguaglianza e principio di legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici. Atti del XIII Convegno Annuale (Trieste, 17-18 dicembre 1998), Padova, 1999, 84, il quale precisa che le due espressioni contenute nel primo comma dell’art. 3 Cost. né sono equivalenti né sono un’endiadi.

234 Cfr. B. CARAVITA, Art. 3, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 16.

235 Cfr. A.S. AGRÒ, Art. 3, 1º comma, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 161.

236 Così C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., tomo II, cit., 1017. V. anche ID., La persona, lo Stato e le comunità intermedie, cit., 46.

237 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 113 s., che riprende l’opinione di C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit., 44 s. In realtà, lo stesso Esposito intende la pari dignità sociale anche in un’accezione più ampia, come si vedrà in seguito.

238 Cfr. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, cit., 114 s. 239 Cfr. M. LUCIANI, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in G.

BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. III (Dei diritti e dell’eguaglianza), Napoli, 2009, 1066, che valuta positivamente la scelta dei Costituenti di ricorrere al «ben più preciso paradigma della (pari) dignità sociale, che […] è cosa assai diversa dalla astratta dignità umana ed esprime compiutamente la positiva determinazione e specificazione storica del concetto» (corsivi dell’Autore).

240 Cfr. P. BISCARETTI DI RUFFIA, Uguaglianza (Principio di), in Noviss. Dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, 1092; ID., Diritto costituzionale. Istituzioni di diritto pubblico, cit., 829; G. BALLADORE PALLIERI,

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Al di là della decisione citata, neanche nella giurisprudenza costituzionale si riscontra un utilizzo frequente242 e adeguato243 del concetto de quo, come si può desumere da un rapido esame delle pronunce in materia. La sentenza più importante è la n. 3 del 1957244, in cui si afferma che «il principio enunciato nel comma primo dell’art. 3 della Costituzione sta a significare, che devesi riconoscere ad ogni cittadino uguale dignità pur nella varietà delle occupazioni o professioni, anche se collegate a differenti condizioni sociali; perché ogni attività lecita è manifestazione della persona umana, indipendentemente dal fine cui tende e dalle modalità con cui si compie». A questa interessante definizione non seguono applicazioni di grande rilievo. Nella decisione n. 191 del 1970245 si precisa che la nozione di “dignità sociale” ha un identificabile valore positivo, che non viene però specificato. Nella sentenza n. 87 del 1975246 la nozione è invocata, unitamente all’uguaglianza, per dichiarare l’illegittimità costituzionale di una norma che rifletteva una visione della donna come giuridicamente inferiore all’uomo247. Anche nella pronuncia n. 179 del 1976248 la pari dignità sociale è richiamata in relazione al tema della parità dei sessi. La decisione n. 55 del 1979249 fa riferimento ai principi di eguaglianza e di pari dignità sociale per equiparare lo status successorio dei figli naturali a quello dei figli legittimi. La sentenza n. 137 del 1986250 considera l’art. 37, co. 1, Cost. una concretizzazione, nel settore del lavoro, della pari dignità sociale e dell’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di sesso. La sentenza n. 103 del 1989251 parla di dignità sociale del lavoratore, la cui garanzia è assicurata dallo Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300). In effetti, la tutela della dignità del lavoratore

Diritto costituzionale, XI ed., Milano, 1976, 447 s., secondo cui il riconoscimento della pari dignità sociale comporterebbe logicamente anche l’abolizione delle onorificenze, riconosciute invece dall’art. 87, ult. co., Cost. Il medesimo Autore aggiunge, peraltro, che, se si prescinde da questo limitato ambito d’applicazione, è pressoché impossibile dare un significato concreto all’inciso iniziale dell’art. 3, co. 1, Cost., non potendo derivare da una norma giuridica l’attribuzione o viceversa la menomazione della dignità sociale.

241 In Giur. cost., 1967, 1107 ss., con osservazione di M. BON VALSASSINA, La XIV disp. finale della Costituzione e una sua opinabile ricostruzione ermeneutica, 1110 ss.

242 Cfr. B. CARAVITA, Oltre l’eguaglianza formale. Un’analisi dell’art. 3, comma 2 della Costituzione, Padova, 1984, 2; G.P. DOLSO, Art. 3, in S. BARTOLE – R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 18.

243 Cfr. S. NICCOLAI, Principio di pari dignità sociale e giudizio di costituzionalità. Appunti per una ricerca, in AA.VV., Scritti in onore di Alessandro Pace, cit., vol. III, 2239.

244 In Giur. cost., 1957, 11 ss., con osservazione di C. MORTATI, In tema di competenza e di limiti del sindacato sugli eccessi di delega legislativa, 11 ss.

245 In Giur. cost., 1970, 2199 ss. 246 In Giur. cost., 1975, 807 ss., con osservazione di G. GAJA, Matrimonio e cittadinanza: aspetti

costituzionali, 2086 ss. 247 Si tratta dell’art. 10, co. 3, l. 13 giugno 1912, n. 555, che disponeva la perdita della cittadinanza

italiana della donna che sposasse uno straniero, ove quest’ultimo possedesse una cittadinanza che si comunicava alla donna in virtù del matrimonio.

248 In Giur. cost., 1976, parte I, 1095 ss., con osservazioni di A. FEDELE, «Possesso» di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del «cumulo», 2159 ss.; L. PERRONE, Il cumulo dei redditi familiari: costituzionalmente illegittimo o soltanto iniquo?, 2188 ss.; A.G. ZORZI, Ma il cumulo dei redditi è davvero illegittimo?, 2207 ss.

249 In Giur. cost., 1979, parte I, 527 ss. 250 In Giur. cost., 1986, parte I, 942 ss., con osservazione di A. CERRI, Divieto di differenziazione

normativa per ragioni di sesso e carattere «privilegiato» delle valutazioni del legislatore, 956 ss. 251 In Giur. cost., 1989, parte I, 544 ss., con osservazione di E. GHERA, Parità di trattamento e

principio di correttezza nel rapporto di lavoro: un nuovo orientamento della Corte costituzionale?, 549 ss.

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e la conseguente limitazione dei poteri del datore di lavoro sono riconducibili soprattutto all’art. 41, co. 2, Cost., come nota anche la Corte. Nella pronuncia n. 22 del 1991252 si accenna a un principio di pari dignità che deve presiedere alla regolamentazione dei rapporti fra militari che si svolgono fuori dal servizio e in ambito privato. Nella decisione n. 329 del 1997253 la Corte sostiene che ogni discriminazione tra confessioni religiose, basata soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti, incide sulla pari dignità della persona e sulla laicità dello Stato. La sentenza n. 78 del 2007254 afferma che il divieto di accesso dello straniero entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno alle misure alternative alla detenzione contrasta con i principi costituzionali dell’eguale dignità della persona e della funzione rieducativa della pena, cui è ispirato l’ordinamento penitenziario. Nella sentenza n. 494 del 2002 la Consulta reputa equivalenti l’uguaglianza e la pari dignità sociale. In tutti gli altri casi la pari dignità sociale non ha una sua autonomia e confluisce nel principio di uguaglianza e nel giudizio di ragionevolezza255, subendo un inevitabile ridimensionamento.

Bisogna allora provare a fornire un’interpretazione più comprensiva della clausola in esame e a farne discendere alcune conseguenze di diritto positivo. Per arrivare a un simile risultato, è necessario accennare rapidamente ai lavori preparatori della disposizione costituzionale, pur con le cautele indicate a proposito dell’interpretazione dell’art. 2 Cost. Già nei lavori della prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione emergono dubbi rispetto al testo proposto da La Pira e Basso, che recita così: «Gli uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di sesso, di razza, di classe, di opinione politica e di religione, sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad uguale trattamento sociale»256. Il deputato Mastrojanni rileva l’oscurità dell’inciso finale, mentre il deputato Lucifero ne sottolinea l’inutilità, poiché il diritto a un uguale trattamento sociale sarebbe compreso nell’eguaglianza di fronte alla legge257. Il senso della disposizione è chiarito da Togliatti e da Basso: secondo il deputato comunista, la formula esprime la tendenza della Costituzione ad incanalare lo sviluppo della società verso una maggiore uguaglianza; secondo il socialista, quelle parole riflettono l’insufficienza dell’eguaglianza formale e l’impegno della democrazia alla realizzazione dell’eguaglianza sociale258. Questo concetto è ribadito da Moro, che, rispondendo alle perplessità sollevate anche dal democristiano Caristia, mette in luce il dinamismo e la tendenza progressiva che quell’espressione imprime alla Repubblica259. Da tutti gli interventi traspare il legame tra il diritto a un eguale trattamento sociale e l’eguaglianza sostanziale.

252 In Giur. cost., 1991, 143 ss. 253 In Giur. cost., 1997, 3335 ss., con osservazione di F. RIMOLI, Tutela del sentimento religioso,

principio di eguaglianza e laicità dello Stato, 3343 ss. 254 In Giur. cost., 2007, 745 ss., con osservazione di F. DELLA CASA, Sconfessata in nome dell’art.

27 comma 3 Cost. una «debordante» interpretazione della normativa sull’espulsione del detenuto straniero, 756 ss.

255 Cfr. S. NICCOLAI, Principio di pari dignità sociale e giudizio di costituzionalità. Appunti per una ricerca, cit., 2226 ss.; ID., Versatilità dei principi “anticaste”. Riconsiderando la proposta interpretativa di Claudio Rossano in tema di pari dignità sociale, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, vol. I, Napoli, 2013, 409 s.

256 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di mercoledì 11 settembre 1946, cit., 333. 257 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di mercoledì 11 settembre 1946, cit., 337. 258 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di mercoledì 11 settembre 1946, cit., 338. 259 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di mercoledì 11 settembre 1946, cit., 339.

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L’inciso, inizialmente approvato dalla prima Sottocommissione, è soppresso dal Comitato di redazione260 e non compare nel testo che giunge all’esame del plenum dell’Assemblea costituente. Nella seduta del 24 marzo 1947 il gruppo democristiano e il gruppo comunista presentano tuttavia un identico emendamento, che sostanzialmente corrisponde all’attuale art. 3 Cost. La reintroduzione della formula eliminata in sede di revisione formale è spiegata dal deputato Laconi nel modo seguente: «Noi riteniamo che questo concetto debba essere mantenuto e, se anche la dizione «trattamento sociale» può o potrebbe prestarsi ad equivoci o risultare poco chiara, pensiamo che debba risaltare almeno il suo contenuto essenziale: il fatto, cioè, che ad ogni cittadino compete nell’ordinamento sociale italiano una pari dignità sociale, qualunque sia la sua condizione e l’attività che svolge. Si potrebbe osservare che questa «parità» di dignità sociale può essere in qualche modo compresa nella «eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». In realtà non è così e lo dimostra il fatto che, anche in altri punti del progetto di Costituzione, la “Commissione dei 75” ha ravvisato la necessità di prevedere il trattamento dovuto ai cittadini, come dove si parla del trattamento ai detenuti, stabilendo che sia a tutti dovuto un trattamento inspirato a criteri di umanità. Evidentemente non si ritiene che il principio di pura e semplice eguaglianza di fronte alla legge valga anche ad eliminare tutte le differenze di trattamento che corrispondono alla condizione del cittadino e al posto che egli occupa nella scala sociale. Per tutte queste ragioni, noi riteniamo che la pari dignità sociale debba essere introdotta accanto all’eguaglianza di fronte alla legge»261. Sulla sostituzione del diritto all’eguale trattamento con la pari dignità sociale concorda anche Meuccio Ruini, che però fa coincidere quest’ultima con la dignità umana262. Così formulato, l’art. 3 Cost. viene definitivamente approvato dall’Assemblea.

Si può ora provare a definire la pari dignità sociale. Con essa la Costituzione dimostra di non ignorare che nella società esistono disparità, anche profonde, tra i cittadini. Proprio per questo motivo il legislatore deve adoperarsi per rimuovere simili differenze e per far sì che davvero a tutti i cittadini sia riconosciuta eguale dignità sociale263. Come ricorda autorevole dottrina, «muovendosi dalla premessa che la dignità sociale dei cittadini, che in principio dovrebbe essere pari, in realtà è legata a condizioni e a presupposti materiali, con la proclamazione si impone allo Stato di operare contro situazioni economiche, culturali e morali degradanti, e che giustificherebbero che alcuni cittadini siano considerati indegni del trattamento sociale riservato alla generalità degli altri cittadini. In corrispondenza, il testo costituzionale, se vieta o consente di vietare ogni trattamento sociale in contrasto col principio della pari dignità dei cittadini, quando non ne esistano le premesse materiali, non impone però, finché tali situazioni materiali esistano, che sia da considerare raggiunta la pari dignità sociale dei cittadini. All’opposto essa invita lo Stato ad operare contro la miseria e contro la ignoranza e contro il delitto e contro gli altri mali che degradano la dignità sociale dei cittadini»264.

260 Cfr. A. CELOTTO, Art. 3, 1º co., Cost., in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di),

Commentario alla Costituzione, vol. I, cit., 72. 261 Così R. LACONI, nel Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di lunedì 24 marzo 1947,

cit., 598. 262 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di lunedì 24 marzo 1947, cit., 601. 263 Cfr. S. CARBONARO, I Rapporti Civili e i Rapporti Politici, cit., 139. 264 Così C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in ID., La Costituzione

italiana. Saggi, Padova, 1954, 62.

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Sebbene sottovalutata dalla giurisprudenza costituzionale e da alcune ricostruzioni dottrinali, la formula mantiene intatta la sua carica innovativa265, specie in una realtà in cui si moltiplicano le forme di esclusione sociale e di emarginazione266. Questo perché non può dirsi certo rispettato il monito, contenuto nell’affermazione della pari dignità sociale, a ricucire il fenomeno giuridico e la prassi sociale267.

Così riguardato, peraltro, l’inciso di cui all’art. 3, co. 1, Cost. pare accostabile più all’eguaglianza sostanziale che all’eguaglianza formale268. Nello stesso tempo, però, il suo significato non è completamente assorbito in quello del secondo comma dell’art. 3 Cost. Anzi, la pari dignità sociale è una sorta di “ponte” o di “cerniera” tra le due accezioni dell’uguaglianza269. Se infatti l’eguaglianza sostanziale si pone come elemento di tensione rispetto all’eguaglianza formale, la pari dignità sociale può funzionare come strumento di ricomposizione tra i due poli, legittimando e contemporaneamente limitando misure che possono avere un effetto destabilizzante rispetto alle logiche di cui all’art. 3, co. 1 Cost., come le azioni positive270 (v. infra, § 4.1).

A questo punto è anche più agevole individuare la differenza tra la dignità umana e la dignità sociale: la prima si riferisce all’uomo in quanto tale, a prescindere dalle concrete condizioni sociali; la seconda prende in considerazione tali differenze, ma, nella prospettiva dell’art. 3, co. 1, Cost., per escludere che ad esse possa corrispondere un diverso trattamento giuridico. Ribaltando il paradigma della dignitas latina271, la formula della pari dignità sociale nega valore alle disparità sociali272 e anzi, nel collegamento con il secondo comma dell’art. 3 Cost., impegna la Repubblica in un’opera di rimozione delle disparità di fatto che impediscono un eguale trattamento sociale273. Gli effetti della pari dignità sociale si apprezzano dunque sotto due profili: il disconoscimento delle differenze sociali ai fini del trattamento giuridico da riservare ad ogni cittadino; l’obbligo dello Stato di contrastare le disparità per far sì che la dignità di tutti i cittadini sia pari non solo in virtù di una proclamazione giuridica, ma anche nei

265 Cfr. P.F. GROSSI, Ancora in tema di eguaglianza giuridica e di parità sociale, in AA.VV., Studi

in onore di Claudio Rossano, vol. I, cit., 223, secondo il quale la pari dignità sociale risponde a un impulso dinamico e interventista, volto tuttavia alla sola rimozione delle differenze riguardanti i punti di partenza, e non anche quelle derivanti dall’impegno, dal talento, dall’operosità di ciascuno e che conducano a risultati diversificati all’arrivo.

266 Cfr. C. PINELLI, Introduzione, in ID. (a cura di), Esclusione sociale. Politiche pubbliche e garanzie dei diritti, Bagno a Ripoli, 2012, 7.

267 Cfr. F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Milano, 2002, 95. 268 Cfr. A.S. AGRÒ, Art. 3, 1º comma, cit., 161; M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, Milano, 1956,

108; G. RAZZANO, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali, in www.gruppodipisa.it, 11. 269 Cfr. G. FERRARA, La pari dignità sociale (Appunti per una ricostruzione), in AA.VV., Studi in

onore di Giuseppe Chiarelli, tomo II, Milano, 1974, 1104; M. LUCIANI, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983, 199; ID., Economia nel diritto costituzionale, cit., 382; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Padova, 2002, 274; S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 155 s.

270 Cfr. A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 272 ss.

271 Ma anche quello dell’individualismo liberale delle carte dei diritti ottocentesche, a favore della dimensione sociale dell’uomo, come rileva G. FERRARA, La pari dignità sociale (Appunti per una ricostruzione), cit., 1099.

272 Cfr. C. ROSSANO, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, Napoli, 1966, 376. 273 Cfr. M.R. MARELLA, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il

diritto europeo dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2007, 84 ss.

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fatti. Il primo profilo è legato alle logiche dell’eguaglianza formale; il secondo a quelle dell’eguaglianza sostanziale. Ecco allora la ragione per cui la pari dignità sociale funge da elemento di raccordo tra il primo e il secondo comma dell’art. 3 Cost.274.

Resta da chiarire quali conseguenze specifiche derivino dal riconoscimento costituzionale della pari dignità sociale di tutti i cittadini. Innanzitutto, da esso discendono la necessità di un sistema di sicurezza sociale, come quello prefigurato dall’art. 38 Cost., e soprattutto la garanzia dei diritti sociali275.

In secondo luogo, alla clausola di cui all’art. 3, co. 1, Cost. è attribuita da alcune tesi un’efficacia nei rapporti tra privati276 che solitamente non è ascritta al principio di eguaglianza formale277. Sebbene la questione sia problematica, l’ordinamento offre ormai numerosi esempi di limitazione dell’autonomia privata in funzione dell’assicurazione della parità di trattamento. Si pensi ai divieti di discriminazione che operano sia nel contesto del rapporto di lavoro sia nel settore dell’accesso e della fornitura di beni e servizi. Tra i primi può ricordarsi il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, attuativo della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale. Tra i secondi si possono menzionare gli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286/1998, che vietano la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, e il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, attuativo della direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; entrambe le normative citate si applicano non solo ai rapporti di lavoro, ma anche all’ambito dell’accesso a beni e servizi, all’istruzione, alla formazione professionale, all’assistenza sanitaria e ai servizi sociali.

Questi esempi inducono qualche riflessione ulteriore. Invero il diritto antidiscriminatorio non sembra riconducibile alla pari dignità sociale (o al principio di eguaglianza), ma direttamente alla dignità umana278: le discriminazioni violano la dignità della persona e ciò consente di vietarle anche quando siano espressione dell’autonomia privata. Il fondamento della limitazione dell’autonomia privata va individuato, per i rapporti di lavoro, nell’art. 41, co. 2, Cost., che esplicitamente indica la dignità umana tra i limiti all’iniziativa economica privata; al di fuori di tale campo, la limitazione va ricondotta alla protezione accordata alla dignità dal diritto dell’Unione

274 Parlano invece della pari dignità sociale come elemento di collegamento tra l’art. 2 e l’art. 3 Cost. M. DI CIOMMO, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, cit., 147 ss.; A. PIROZZOLI, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, cit., 79 s.

275 Cfr. M. BENVENUTI, Diritti sociali, cit., 236; I. CIOLLI, I diritti sociali, cit., 97; C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit., 24.

276 Cfr. L. PALADIN, Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano, 1965, 243 s.; C. ROSSANO, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, cit., 378; P.F. GROSSI, Ancora in tema di eguaglianza giuridica e di parità sociale, cit., 220 s.; A. PIROZZOLI, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, cit., 78 s.

277 Cfr. L. PALADIN, Il principio costituzionale d’eguaglianza, cit., 239 ss.; C. ROSSANO, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, cit., 390 ss.; P. RESCIGNO, Le società intermedie, in ID., Persona e comunità. Saggi di diritto privato, Padova, 1988, 364 ss. Contra C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., tomo II, cit., 1026 s.

278 Cfr. A. GENTILI, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 210 ss.; F. VARI, Prime note sull’affermazione del principio d’eguaglianza nei rapporti tra privati, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, vol. I, cit., 527; M. CENTINI, La tutela contro gli atti di discriminazione: la dignità umana tra il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazioni soggettive, in Giur. cost., 2007, 2435 s.

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europea e alla sua prevalenza sulle norme contrastanti di diritto interno, salvi solo i “controlimiti”279. In questo modo si superano i problemi legati all’efficacia nei rapporti tra privati della pari dignità sociale e del principio di eguaglianza. La trattazione di tali aspetti della dignità deve essere rinviata alle sedi opportune (v. infra, § 6).

La pari dignità sociale può essere infine considerata, assieme all’eguaglianza sostanziale, il fondamento costituzionale delle azioni positive, su cui è opportuno soffermarsi adeguatamente. 4.1. Le azioni positive, tra pari dignità sociale ed eguaglianza sostanziale

L’espressione “azioni positive” richiama la più ampia categoria dell’affirmative action policy280, elaborata nell’ordinamento statunitense, e indica approssimativamente un insieme di misure di vantaggio (preferential treatments) a favore di categorie sottoprotette281. Pur nella diversità di tipologie, le azioni positive hanno un comune presupposto e perseguono un obiettivo unitario: il presupposto è l’esistenza di disparità non derivanti dalla capacità o dalla volontà dei singoli, ma da caratteristiche strutturali del sistema socio-economico; il fine è la correzione di queste diseguaglianze e il conseguente aumento della consistenza numerica e dell’influenza di gruppi deboli e svantaggiati nei vari ambiti della vita economica, sociale e politica282. Da un punto di vista operativo, esse si distinguono dal divieto di discriminazione perché non si traducono in un obbligo di astensione, ma al contrario in un facere positivo283.

Nel nostro ordinamento il campo privilegiato di adozione delle azioni positive è quello del rapporto tra generi. In particolare, il primo intervento organico è rappresentato dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (“Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”), il cui art. 1 stabiliva che «Le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità». Lo scopo della legge era quello di superare la logica della formale parità di trattamento garantita dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903 (“Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”)284 e di promuovere l’eguaglianza sostanziale tra i sessi285. Il chiaro riferimento

279 Per una panoramica sulle fonti del diritto dell’Unione europea v., per tutti, F. SORRENTINO, Le fonti del diritto italiano, Padova, 2009, 140 ss.

280 Cfr. M. BARBERA, Discriminazioni indirette e azioni positive: riflessioni comparate dal caso nordamericano, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1984, parte I, 288 s.

281 Cfr. C. BARBATI, Le «azioni positive» tra Stato e Regioni, in Le Regioni, 1993, 1707; G.P. DOLSO, Il principio di eguaglianza, in P. CENDON (a cura di), I diritti della persona. Tutela civile, penale, amministrativa, vol. I, cit., 255.

282 Cfr. A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 114.

283 Cfr. M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, in Giur. cost., 1992, 594; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, in Pol. dir., 2002, 237.

284 Cfr. L. GAETA – L. ZOPPOLI, Verso un diritto diseguale senza diseguaglianze, in L. GAETA – L. ZOPPOLI (a cura di), Il diritto diseguale. La legge sulle azioni positive. Commentario alla L. 10 aprile 1991, n. 125, Torino, 1992, 1.

285 Cfr. T. TREU, La legge sulle azioni positive: prime riflessioni, in Riv. it. dir. lav., 1991, parte I, 109; M. BARBERA, La nozione di discriminazione, in Le nuove leggi civili commentate, 1994, 47 s.

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all’art. 3, co. 2, Cost. è indice dell’intento della legge di porsi come normativa di attuazione costituzionale286. Tale disciplina è confluita nel “Codice delle pari opportunità” (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198)287, il cui art. 42, co. 1, dispone che «Le azioni positive, consistenti in misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell’ambito della competenza statale, sono dirette a favorire l’occupazione femminile e realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro».

Gli scopi generali dell’aumento dell’occupazione femminile e della realizzazione dell’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne trovano poi specificazione in alcune finalità intermedie, sulla cui base è possibile classificare le azioni positive in tre tipi288. Un primo modello risponde ad una logica risarcitoria, in cui l’azione positiva serve a rimediare a una situazione di discriminazione. Un modello del genere è accolto dall’art. 37, co. 3, del codice, secondo cui, una volta accertate le discriminazioni, il giudice ordina all’autore di definire un piano di rimozione delle medesime. La seconda tipologia è proiettata nel futuro e si pone in un’ottica redistributiva: l’azione positiva non è collegata a singole discriminazioni, ma alla situazione generale di svantaggio delle donne nel mercato del lavoro e si propone di favorire le donne nell’accesso all’istruzione e alla formazione, nell’inserimento lavorativo o in specifici settori in cui sono sottorappresentate, nella progressione di carriera e nella vita lavorativa. Rientrano in questa prospettiva gli scopi indicati dall’art. 42, co. 2, del codice, ad eccezione di quelli previsti dalle lettere f) e f-bis), che fanno riferimento alle azioni positive volte rispettivamente a «favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi» e a «valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile». Tali misure rientrano in una terza tipologia che dà rilievo alle differenze e alle specificità del lavoro femminile, rifiutandone l’omologazione a quello maschile. Allo stesso paradigma sono riconducibili le misure a sostegno della flessibilità dell’orario di lavoro, «finalizzate a promuovere e incentivare forme di articolazione della prestazione lavorativa volte a conciliare tempo di vita e di lavoro» (art. 50 del codice, che rinvia all’art. 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53). In proposito, si è parlato di una sorta di «organizzazione del lavoro a misura di donna»289, i cui effetti positivi si riflettono però anche sugli uomini.

Un’altra distinzione riguarda il carattere coercitivo o meno della azioni positive. Sul punto, il “Codice della pari opportunità” privilegia un modello volontario di azioni positive, prevedendo piani obbligatori solo nelle pubbliche amministrazioni (art. 48).

286 Cfr. R. SANTUCCI – L. ZOPPOLI, Finalità della legge e questioni di costituzionalità, in L. GAETA –

L. ZOPPOLI (a cura di), Il diritto diseguale. La legge sulle azioni positive. Commentario alla L. 10 aprile 1991, n. 125, cit., 11.

287 Sui vizi del codice, poi in parte corretti con modifiche successive, v. F. AMATO – M. BARBERA – L. CALAFÀ, Codificazioni mancate: riflessioni critiche sul Codice delle pari opportunità, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, Milano, 2007, 227 ss.

288 Cfr. M.V. BALLESTRERO, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Una politica e i suoi strumenti. Eguaglianza sostanziale, pari opportunità, azioni positive, in Le nuove leggi civili commentate, 1994, 20 s.; S. SCARPONI – E. STENICO, Le azioni positive: le disposizioni comunitarie, le luci e le ombre della legislazione italiana, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, cit., 427 s.

289 Così M.V. BALLESTRERO, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Una politica e i suoi strumenti. Eguaglianza sostanziale, pari opportunità, azioni positive, cit., 20.

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Nel Codice è confluita anche la legge 25 febbraio 1992, n. 215, avente ad oggetto le azioni positive per l’imprenditoria femminile.

Da ricordare è anche la legge 12 luglio 2011, n. 120, che prevede che il riparto degli amministratori e dei membri del collegio sindacale delle società quotate in mercati regolamentati e delle società a controllo pubblico sia effettuato in base a un criterio che realizzi l’equilibrio tra i generi e comunque in misura tale da assicurare al genere meno rappresentato almeno un terzo delle posizioni citate. In questo caso l’obiettivo della parità di genere è conseguito mediante un meccanismo di quote.

Esistono poi numerosi altri esempi di azioni positive nel nostro ordinamento, non soltanto concernenti la parità di genere290. In effetti, le azioni positive hanno una virtualità espansiva che permette loro un’applicazione in vari settori dell’ordinamento e a favore di numerosi gruppi svantaggiati291. Nello stesso tempo, però, tale strumento ha sollevato e solleva critiche sia di opportunità che di legittimità costituzionale.

Si evidenzia, ad esempio, il rischio di paternalismo insito nelle azioni positive292: esse sarebbero espressione di una politica assistenziale che irrigidirebbe le differenze di genere, rendendo le donne una sorta di “categoria protetta”293 e offrendo loro determinati vantaggi come surrogato di una reale emancipazione femminile294. Ciò varrebbe soprattutto nel caso di adozione di meccanismi di quote, che attribuirebbero posti di lavoro o benefici in virtù della mera appartenenza al genere sottorappresentato295 e senza tener conto di requisiti di merito. In generale, le azioni costituirebbero un incentivo a nuove forme di corporativismo, in grado di acuire il conflitto sociale296. Un’altra critica, strettamente connessa a quella precedente, si rivolge al modo in cui lo strumento opera, sinteticamente rappresentato come una discriminazione che reagisce ad una discriminazione (reverse discrimination)297. In altre parole, per compensare le discriminazioni sistemiche subite da un certo gruppo si danneggerebbero singoli individui, i quali sarebbero a loro volta vittime di una “discriminazione alla rovescia”298.

Al primo gruppo di critiche si può obiettare che il rischio paventato dipende dal tipo di azione positiva e dalle modalità con cui è applicata: non ogni azione positiva comporta l’attribuzione diretta di un risultato, potendo consistere semplicemente in uno strumento di promozione della pari dignità sociale e dell’eguaglianza sostanziale di soggetti deboli299. Ciò peraltro non implica che le azioni positive di risultato (result-

290 Per una visione d’insieme, v. S. SCARPONI – E. STENICO, Le azioni positive: le disposizioni

comunitarie, le luci e le ombre della legislazione italiana, cit., 423 ss. 291 Cfr. U. ROMAGNOLI, L’uguaglianza delle opportunità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 958 s.;

M. AINIS, L’eccezione e la sua regola, in Giur. cost., 1993, 891 s.; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 247.

292 Cfr. A. GALOPPINI, Principio di eguaglianza e azioni positive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 1053.

293 Cfr. G. DE SIMONE, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Ancora su diritto diseguale ed eguaglianza sostanziale, in Le nuove leggi civili commentate, 1994, 23.

294 Cfr. M. AINIS, I soggetti deboli nella giurisprudenza costituzionale, in Pol. dir., 1999, 29. 295 O alla categoria sottorappresentata, qualora il modello sia esteso ad altri gruppi svantaggiati. 296 Cfr. L. GAETA – L. ZOPPOLI, Verso un diritto diseguale senza diseguaglianze, cit., 9. 297 Cfr. M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., 591. 298 Cfr. F. BORGOGELLI, La tipologia delle azioni positive, in L. GAETA – L. ZOPPOLI (a cura di), Il

diritto diseguale. La legge sulle azioni positive. Commentario alla L. 10 aprile 1991, n. 125, cit., 83; A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), in Enc. giur., vol. XXXII, Roma, 2005, 7.

299 Cfr. M.V. BALLESTRERO, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Una politica e i suoi strumenti. Eguaglianza sostanziale, pari opportunità, azioni positive, cit., 20.

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oriented) siano automaticamente inammissibili. Anche in questo caso bisogna ricordare che esistono diversi tipi di quote e che l’attribuzione del risultato può essere subordinato a requisiti minimi di merito o al possesso di una qualificazione equivalente300. La tesi secondo cui le azioni positive di risultato sarebbero in contrasto con criteri meritocratici sembra inoltre ignorare un dato di fondo: una delle ragioni a sostegno di trattamenti preferenziali consiste nell’assunto che «le realizzazioni passate (e già da altri valutate) e le capacità attuali (e non meramente potenziali) dei candidati a un posto, siano in misura non del tutto irrilevante dipendenti dai meccanismi di selezione e di valutazione propri di un sistema di dominio/oppressione tra gruppi, e funzionali al mantenimento di tale sistema. L’assunto è, insomma, che laddove una differenza-esclusione ci sia stata, è irragionevole supporre che non abbia esercitato influssi sulla differenza-merito»301. Un ulteriore fattore da non sottovalutare è la difficoltà di distinguere, in alcuni casi, tra “opportunità” e “risultati”, tra “punti di partenza” e “punti di arrivo”, potendo l’azione positiva produrre un effetto intermedio tra i due estremi302.

Anche il rischio del corporativismo e della “balcanizzazione sociale” va ridimensionato. Le azioni positive non ignorano le differenze esistenti tra gli appartenenti ad una categoria. Con riferimento specifico alle donne, esse non presuppongono che tutte le donne siano identiche e che siano banalmente assimilabili in una categoria303. Semplicemente si fa astrazione dalle particolarità per evidenziare l’elemento comune, in questo caso le discriminazioni che le donne subiscono in virtù della mera appartenenza al genere femminile304. Ecco allora che le azioni positive non intendono rimuovere o nascondere le differenze, trasformando le donne in un gruppo, ma solo rimuovere le conseguenze negative che l’appartenenza a quel gruppo comporta. In qualche modo, è la discriminazione a considerare le donne una categoria, mentre l’azione positiva intende eliminare gli svantaggi discendenti da tale considerazione.

In definitiva, non è corretto ritenere simili misure in sé inopportune o addirittura illegittime; è necessario valutare caso per caso, prestando attenzione alle loro modalità applicative e all’intensità della deroga apportata all’eguaglianza formale. Questa conclusione si collega al problema del fondamento costituzionale delle azioni positive e dei relativi limiti di legittimità costituzionale, di cui si dirà fra poco.

Per quanto riguarda le “discriminazioni rovesciate”, non si può negare che le azioni positive siano espressione di un “diritto diseguale”, cioè di interventi normativi che alterano la formale parità di trattamento mediante misure di favore nei confronti di soggetti appartenenti a categorie o gruppi svantaggiati305. Bisogna ora capire se il sacrificio imposto a colui che subisce le conseguenze negative dell’azione positiva sia

300 Cfr. L. GUAGLIANONE, Le azioni positive. Modelli e tipologie, in Le nuove leggi civili commentate, 1994, 39; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 243.

301 Così L. GIANFORMAGGIO, Politica della differenza e principio di uguaglianza: sono veramente incompatibili?, in Lav. dir., 1992, 196.

302 Cfr. A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 279 ss.

303 Cfr. T. TREU, La legge sulle azioni positive: prime riflessioni, cit., 115, il quale rimarca che “eguaglianza” non vuol dire “identità”.

304 Cfr. G. DE SIMONE, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Ancora su diritto diseguale ed eguaglianza sostanziale, cit., 24 ss.

305 Cfr. L. GAETA – L. ZOPPOLI, Verso un diritto diseguale senza diseguaglianze, cit., 3; G. DE SIMONE, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Ancora su diritto diseguale ed eguaglianza sostanziale, cit., 27; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 221 s.

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legittimo. Sul punto, si è detto che la vittima di una reverse discrimination non può rivendicare il diritto ad avvantaggiarsi di un sistema discriminatorio o, in maniera più esplicita, il diritto di approfittare del razzismo o del sessismo306. Sebbene tale affermazione sia in parte condivisibile, non si possono però far pagare al singolo le conseguenze di un sistema complessivamente discriminatorio. Si è anche rilevato che le “discriminazioni alla rovescia” non costituiscono un effetto inevitabile di ogni azione positiva, ma solo di alcune misure307. Ciò è sicuramente vero e contribuisce a sdrammatizzare i termini della questione. Nondimeno la legittimità delle azioni positive sussiste anche nelle residue ipotesi di impatto negativo sulle chance dei lavoratori. Per arrivare a un risultato del genere, si deve concentrare l’attenzione su un piano diverso e mettere in discussione la stessa espressione “discriminazione rovesciata”. Nel campo del diritto antidiscriminatorio il vocabolo “discriminazione” evoca non una qualsiasi differenziazione, ma una disparità di trattamento produttiva di effetti sfavorevoli e connotata da un giudizio negativo della vittima. Come è stato acutamente notato, «ciò che viene sanzionato non è l’impiego irrazionale di criteri particolari di distinzione, ma il misconoscimento del valore assoluto dell’eguale dignità sociale di ciascun essere umano»308. Se quanto detto è vero, allora le azioni positive non sono qualificabili come discriminazioni, perché la perdita di opportunità che esse possono comportare a danno del gruppo “forte” o “vincente” non è il risultato di uno stigma sociale, ma l’esito di una politica di redistribuzione delle chance309 e questa politica si basa su precisi parametri costituzionali: la pari dignità sociale e l’eguaglianza sostanziale.

Diventa quindi cruciale approfondire l’aspetto del fondamento costituzionale delle azioni positive. Secondo una tesi minoritaria, la legittimità delle azioni positive deriverebbe dal principio di eguaglianza formale, inteso però in senso “valutativo”; in questa accezione, eguaglianza vuol dire trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. A differenza della concezione “paritaria” dell’eguaglianza, che non ammette distinzioni, nell’ottica valutativa l’eguaglianza autorizzerebbe distinzioni ragionevoli310. Si è però obiettato che questa opzione è riduttiva, perché la funzione promozionale delle azioni positive non è riconducibile al paradigma delle differenziazioni ragionevoli e risulterebbe pertanto ingiustificata311.

Prevalente è invece il riferimento all’eguaglianza sostanziale, peraltro richiamata dall’art. 1 della l. n. 125/1991312. Le azioni positive mirano a rimuovere quegli ostacoli di ordine economico e sociale di cui parla l’art. 3, co. 2, Cost. e che impediscono agli appartenenti a categorie sottorappresentate di partecipare compiutamente alla vita

306 Cfr. M. AINIS, Cinque regole per le azioni positive, in Quad. cost., 1999, 361. 307 Cfr. G. DE SIMONE, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Ancora su diritto

diseguale ed eguaglianza sostanziale, cit., 24. 308 Cfr. M. BARBERA, La nozione di discriminazione, cit., 48. 309 Cfr. M. BARBERA, La nozione di discriminazione, cit., 51. 310 Cfr. R. SANTUCCI – L. ZOPPOLI, Finalità della legge e questioni di costituzionalità, cit., 26 ss.; F.

BORGOGELLI, La tipologia delle azioni positive, 83, che individua tale fondamento per le azioni positive di risultato; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 239 s.

311 Cfr. A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 242 s.

312 Cfr. L. GAETA – L. ZOPPOLI, Verso un diritto diseguale senza diseguaglianze, cit., 3; B. PEZZINI, Principio costituzionale di uguaglianza e differenza tra i sessi (a proposito della legge 125/1991 sulle azioni positive), in Pol. dir., 1993, 58; G. DE SIMONE, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Ancora su diritto diseguale ed eguaglianza sostanziale, cit., 21; L. RONCHETTI, Uguaglianza sostanziale, azioni positive e Trattato di Amsterdam, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 995.

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politica, economica e sociale del Paese313. Si tratta quindi di misure strumentali alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale314.

Le azioni positive si collocano però anche nell’orizzonte della pari dignità sociale. Se a quest’ultima, come si è fatto in precedenza, viene riconosciuta una duplice valenza – di irrilevanza giuridica delle disparità sociali e contemporaneamente di impegno dello Stato a rendere concreto ed effettivo il diritto a un eguale trattamento sociale – è inevitabile che le misure di “diritto diseguale” trovino in essa un sicuro aggancio costituzionale. I beneficiari delle azioni positive, pur essendo formalmente uguali agli altri consociati, subiscono infatti disparità sociali incompatibili con l’inciso iniziale dell’art. 3, co. 1, Cost.

Il congiunto operare dei due presupposti costituzionali emerge anche dalla sentenza con cui la Corte costituzionale ha escluso l’illegittimità delle azioni positive. La decisione n. 109 del 1993315 esamina varie disposizioni della l. n. 215/1992 e innanzitutto qualifica la normativa come un programma di «interventi di carattere positivo diretti a colmare o, comunque, ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell’occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d’azienda» (punto 2.2 del Considerato in diritto). In relazione al fondamento costituzionale, aggiunge poi che «le finalità perseguite dalle disposizioni impugnate sono svolgimento immediato del dovere fondamentale – che l’art. 3, secondo comma, della Costituzione assegna alla Repubblica – di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Le “azioni positive”, infatti, sono il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate – fondamentalmente quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel primo

313 Cfr. M. BARBERA, Discriminazioni indirette e azioni positive: riflessioni comparate dal caso nordamericano, cit., 306; T. TREU, Azioni positive e discriminazioni alla rovescia. Una importante sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti. Commento alla sentenza, in Lav. dir., 1988, 67; U. ROMAGNOLI, L’uguaglianza delle opportunità, cit., 958; F. BORGOGELLI, La tipologia delle azioni positive, 85, in relazione alle azioni positive che non attribuiscono direttamente un risultato, ma promuovono la parità di opportunità; M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., 595; ID., L’eccezione e la sua regola, cit., 892; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 248; A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), cit., 7; C. ROSSANO, Eguaglianza, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. III, cit., 2156 s.; V. ONIDA, Intervento, in S.P. PANUNZIO (a cura di), I costituzionalisti e la tutela dei diritti nelle Corti europee. Il dibattito nelle riunioni dell’osservatorio costituzionale presso la LUISS «Guido Carli» dal 2003 al 2005, Padova, 2007, Riunione del 12 dicembre 2003 (L’eguaglianza ed il principio di non discriminazione), 298; B. PEZZINI, L’uguaglianza uomo-donna come principio anti-discriminatorio e come principio anti-subordinazione, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. III (Dei diritti e dell’eguaglianza), cit., 1144.

314 Cfr. C. BARBATI, Le «azioni positive» tra Stato e Regioni, cit., 1723; M.V. BALLESTRERO, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Una politica e i suoi strumenti. Eguaglianza sostanziale, pari opportunità, azioni positive, cit., 13; L. GUAGLIANONE, Le azioni positive. Modelli e tipologie, cit., 32.

315 In Giur. cost., 1993, 873 ss., con osservazioni di A. ANZON, L’additiva «di principio» nei giudizi in via principale, 890 s. e di M. AINIS, L’eccezione e la sua regola, cit.

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comma dello stesso art. 3 […] – al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico» (punto 2.2 del Considerato in diritto).

Il richiamo alla pari dignità sociale è rintracciabile nel passaggio della motivazione in cui la Corte afferma che le azioni positive «sono dirette a superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale» (punto 2.2 del Considerato in diritto) e, ancora più esplicitamente, quando sottolinea che esse «presuppongono l’esistenza storica di discriminazioni attinenti al ruolo sociale di determinate categorie di persone e […] sono dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni personali (sesso) in ragione della garanzia effettiva del valore costituzionale primario della “pari dignità sociale”» (punto 2.2 del Considerato in diritto)316.

La pronuncia precisa anche che le azioni positive possono comportare una deroga al principio di eguaglianza formale sancito dall’art. 3, co. 1, Cost. In altre parole, la Corte accoglie il modello dell’eguaglianza sostanziale come fattore di potenziale contrasto rispetto all’eguaglianza formale317. In questa ricostruzione la pari dignità sociale può svolgere l’ulteriore compito di “conciliare” i due poli dell’eguaglianza318 e di porsi non solo come fondamento ma anche come limite delle azioni positive. Per rendere tollerabile lo shock che le azioni positive possono produrre sull’ordinamento319 e contenerne la carica eversiva rispetto alle logiche dell’eguaglianza formale320, la loro ragionevolezza deve essere valutata alla luce del criterio della pari dignità sociale. Più specificamente, bisogna stabilire se il concreto modo di operare dell’azione positiva sia giustificabile in base al parametro della pari dignità sociale. Ciò implica che «l’uguaglianza sostanziale di cui l’azione positiva costituisce una manifestazione viene concepita come strumentale al raggiungimento di un obiettivo ulteriore quale quello della pari dignità sociale. Una volta che si riuscisse ad attingere tale obiettivo, per quanto ideale esso possa sembrare, l’azione positiva non avrebbe più ragion d’essere»321.

Questo orientamento generale si traduce in una serie di elementi che devono caratterizzare l’azione positiva in vista della sua compatibilità costituzionale. Il primo requisito è la giustificabilità, nel senso che la sua adozione deve basarsi sull’esistenza di

316 Un cenno al rapporto tra misure di promozione della parità effettiva tra uomo e donna e pari dignità sociale è presente anche nella decisione n. 422 del 1995 (in Giur. cost., 1995, 3255 ss., con osservazioni di U. DE SIERVO, La mano pesante della Corte sulle «quote» nelle liste elettorali, 3268 ss.; G. BRUNELLI, Elettorato attivo e passivo (e applicazione estesa dell’illegittimità conseguenziale) in due recenti pronunce costituzionali, 3272 ss.; G. CINANNI, Leggi elettorali e azioni positive in favore delle donne, 3283 ss.), nel passaggio in cui si parla di misure «volte a promuovere l’eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta costituzionale» (punto 7 del Considerato in diritto).

317 Cfr. G.P. DOLSO, Il principio di eguaglianza, cit., 255 s.; M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., 597 ss.; ID., L’eccezione e la sua regola, cit., 893, il quale evidenzia che «il secondo comma dell’art. 3 Cost. consente ciò che il primo comma vieta: di trattare i due sessi in modo diseguale, sia pure al fine di ripristinare una condizione d’effettiva parità».

318 Cfr. A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 274.

319 Cfr. C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit., 63 s.

320 Cfr. U. ROMAGNOLI, L’uguaglianza delle opportunità, cit., 958 s.; M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., 604.

321 Così D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, Padova, 2008, 121.

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una reale disparità di un certo gruppo o categoria rispetto alla generalità dei consociati, da accertare anche con indagini empiriche e dati statistici322. Il secondo requisito è l’irretroattività della misura, che deriva dalla sua eccezionalità e dall’esigenza di tutelare l’affidamento dei singoli dagli effetti dirompenti che essa può produrre323. Il terzo elemento è la temporaneità o transitorietà dello strumento, che, essendo legato ad una condizione di sottorappresentazione di un gruppo, deve venir meno nel momento in cui cessi tale condizione324. Fanno eccezione le misure della terza tipologia prima descritta, cioè quelle volte ad adeguare l’organizzazione lavorativa alle specificità delle donne e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro325. L’ultimo elemento è la flessibilità: poiché la misura mira alla correzione di una disparità fattuale, deve possedere il grado di elasticità necessario per adattarsi alle peculiarità della fattispecie concreta. Questo requisito è espressione di un generale canone di proporzionalità e di gradualità che deve guidare l’elaborazione di un piano di azioni positive326.

Non è possibile soffermarsi in questa sede sulle azioni positive in materia elettorale327, sia perché la tematica presenta peculiarità derivanti dall’esigenza di

322 Cfr. M. AINIS, L’eccezione e la sua regola, cit., 894; ID., Cinque regole per le azioni positive, cit., 369; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 244.

323 Cfr. M. AINIS, L’eccezione e la sua regola, cit., 893; ID., Cinque regole per le azioni positive, cit., 368 s.; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 244.

324 Cfr. M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., 587; ID., Cinque regole per le azioni positive, cit., 370 s.; M.V. BALLESTRERO, Le azioni positive fra eguaglianza e diritto diseguale. Una politica e i suoi strumenti. Eguaglianza sostanziale, pari opportunità, azioni positive, cit., 17.

325 Cfr. T. TREU, La legge sulle azioni positive: prime riflessioni, cit., 118 s.; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 244.

326 Cfr. M. AINIS, Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., 587; ID., Cinque regole per le azioni positive, cit., 371 s.; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 244.; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 289 ss.

327 Per un approfondimento, v. L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza formale e sostanziale: il grande equivoco, in Foro it., 1996, parte I, 1961 ss.; B. BECCALLI (a cura di), Donne in quota. È giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, Milano, 1999; M. MONTALTI, La rappresentanza del genere femminile. Riflessioni comparative, in Dir. pubbl. comp. eur., 2000, 1509 ss.; C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit., 69 ss.; G. CHIARA, La “pari opportunità” elettorale dei sessi nella riforma degli Statuti regionali speciali, in Giur. cost., 2001, 839 ss.; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 359 ss.; E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, cit., 247 ss.; E. PALICI DI SUNI, Tra parità e differenza. Dal voto alle donne alle quote elettorali, Torino, 2004; G. BRUNELLI, L’alterazione del concetto di rappresentanza politica: leggi elettorali e «quote» riservate alle donne, in Dir. soc., 1994, 545 ss.; ID., Le «quote» riprendono quota? (A proposito di azioni positive in materia elettorale regionale), in Le Regioni, 2001, 531 ss.; ID., Donne e politica, Bologna, 2006; B. PEZZINI, Principio costituzionale di uguaglianza e differenza tra i sessi (a proposito della legge 125/1991 sulle azioni positive), cit., 59 ss.; ID., L’uguaglianza uomo-donna come principio anti-discriminatorio e come principio anti-subordinazione, cit., 1141 ss.; A. MARESCA, La promozione della rappresentanza di genere tra ipotesi di azioni positive e normative antidiscriminatorie, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2012 (15 gennaio 2012); M.C. GRISOLIA, Il difficile cammino delle pari opportunità nell’attuazione dell’art. 51 Cost., in AA.VV., Scritti in onore di Alessandro Pace, vol. II, cit., 1499 ss.; F. COVINO, Il principio delle pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive al vaglio della giurisprudenza costituzionale e amministrativa, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, cit., vol. II, 639 ss. La problematica è stata affrontata anche dalla Corte costituzionale, nelle sentenze nn. 422 del 1995, 49 del 2003 (in Giur. cost., 2003, 353 ss., con osservazioni di L. CARLASSARE, La parità di accesso alle cariche elettive nella sentenza n. 49: la fine di

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conciliare lo strumento in esame con la libertà di voto e con la problematica della rappresentanza politica328, sia perché esse potrebbero autonomamente fondarsi sugli artt. 51 e 117, co. 7, Cost.329, piuttosto che sulla pari dignità sociale.

5. La retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, co. 1, Cost.)

Il concetto di dignità funge da indice di commisurazione della retribuzione nell’art.

36, co. 1, Cost., ai sensi del quale «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa».

La norma configura un vero e proprio diritto a prestazione330, che il lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro. Non interessa in questa sede stabilire quale sia il rapporto tra i due criteri indicati dall’art. 36 Cost. per la determinazione della retribuzione: la proporzionalità e la sufficienza; se, cioè, la sufficienza debba essere considerata un mero correttivo della proporzionalità331, se al contrario prevalga su quest’ultima332, o se invece vi sia un rapporto di complementarità tra i due parametri333. Più rilevante è l’individuazione della specificità del criterio della sufficienza rispetto a quello della proporzionalità.

Innanzitutto, mentre la proporzionalità ha un carattere oggettivo ed è legata al valore della prestazione del lavoratore, la sufficienza introduce nella configurazione

un equivoco, 364 ss. e di S. MABELLINI, Equilibrio dei sessi e rappresentanza politica: un revirement della Corte, 372 ss.) e 4 del 2010 (in Giur. cost., 2010, 63 ss., con osservazioni di L. CARLASSARE, La legittimità della “preferenza di genere”: una nuova sconfitta della linea del Governo contro la parità, 81 ss.; M. OLIVETTI, La c.d. «preferenza di genere» al vaglio del sindacato di costituzionalità. Alcuni rilievi critici, 84 ss.; S. LEONE, La preferenza di genere come strumento per «ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva», 93 ss.).

328 Cfr. A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, cit., 359.

329 Cfr. B. PEZZINI, L’uguaglianza uomo-donna come principio anti-discriminatorio e come principio anti-subordinazione, cit., 1144 s.

330 Cfr. P.F. GROSSI, Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, cit., 30 s. Il diritto al salario sufficiente è qualificato come un diritto della personalità da C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, in ID., Raccolta di scritti, vol. III (Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana), Milano, 1972, 277 s.; L. MENGONI, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in AA.VV., Lavoro. La giurisprudenza costituzionale (1985-1986), vol. I (Saggi), Roma, 1987, 47. Tale qualificazione non contribuisce a una migliore ricostruzione del diritto in esame, ma esprime il retroterra culturale dell’art. 36, co. 1, Cost., che può essere descritto come «l’acquisizione costituzionale di un postulato dell’etica sociale contemporanea, che esalta la umanità del lavoro, contro la sua diffusa interpretazione di merce o strumento materiale, e vuole per conseguenza colui che lo presti circondato di rispetto e di tutela». Così A. BERTOLINO, L’attività economica, funzioni e forme organizzative del lavoro. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, in P. CALAMANDREI – A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, cit., 425.

331 Cfr. G. PERONE, Retribuzione, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, 45; M. DELL’OLIO, Retribuzione, quantità e qualità di lavoro, qualità di vita, in Arg. dir. lav., n. 2/1995, 9 s.

332 Cfr. W. CESARINI SFORZA, L’art. 36 della Costituzione e i poteri del giudice, in Mass. giur. lav., 1961, 414.

333 Cfr. G. ROMA, La retribuzione, Torino, 1993, 14; C. COLAPIETRO, Art. 36, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, cit., 745; S. BELLOMO, Retribuzione, I) Rapporto di lavoro privato, in Enc giur., vol. XXVII, Roma, 2009, 4.

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costituzionale della retribuzione una connotazione soggettiva, perché aggancia l’entità del compenso alla persona del lavoratore e alla necessità di assicurare a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa334.

In secondo luogo, la sufficienza è estranea alla prospettiva della corrispettività335 ed esprime il carattere sociale dell’obbligazione retributiva336. Più precisamente, essa comporta un’attenuazione del sinallagma che normalmente intercorre tra prestazione e sua remunerazione337, a favore della dimensione sociale della retribuzione338. La ragione di tale peculiarità risiede nella circostanza che la retribuzione è normalmente la fonte esclusiva di sostentamento per il lavoratore e ciò pone il prestatore in una condizione di netta inferiorità nei confronti del datore di lavoro339. In tal senso si è espressa anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 559 del 1987340, secondo cui «l’assumere che il principio di corrispettività nel rapporto di lavoro si risolve meccanicamente, salvo deroghe eccezionali, in una relazione biunivoca tra prestazione lavorativa e retribuzione urta contro il concetto di retribuzione assunto dall’art. 36 Cost., che non è […] mero corrispettivo del lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità e, insieme, mezzo normalmente esclusivo per sopperire alle necessità vitali del lavoratore e dei suoi familiari, che deve essere sufficiente ad assicurare a costoro un’esistenza libera e dignitosa» (punto 8 del Considerato in diritto).

La disciplina della retribuzione non può allora collocarsi esclusivamente nell’ottica contrattuale e deve invece assicurare al lavoratore un corrispettivo tale da garantirgli la libertà dal bisogno341. Come ha precisato la Consulta nella decisione n. 926 del 1988342, la retribuzione deve essere idonea a consentire il superamento della situazione di bisogno e deve garantire il soddisfacimento delle peculiari necessità di vita del lavoratore. Non solo. Nella stessa ottica si collocano le disposizioni che assicurano al lavoratore l’erogazione della retribuzione anche in ipotesi di sospensione dell’attività lavorativa, ad esempio per malattia o infortunio343. A esigenze del genere risponde il principio di sufficienza sancito dall’art. 36, co. 1, Cost., che mira a rimuovere un ostacolo che limita di fatto la libertà e l’eguaglianza del lavoratore e che ne impedisce il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economia e sociale del Paese. In definitiva, l’art. 36, co. 1, Cost. si collega strettamente sia all’art. 3, co. 2, Cost.344, sia all’art. 41, co. 2, Cost., che consente di limitare l’iniziativa economica privata proprio in funzione della libertà e della dignità umana345.

334 Cfr. G. PERA, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in

Mass. giur. lav., 1961, 417; C. TRIPODINA, Art. 36, in S. BARTOLE – R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 353.

335 Cfr. L. MENGONI, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, cit., 47. 336 Cfr. G. ZILIO GRANDI, La retribuzione. Fonti struttura funzioni, Napoli, 1996, 401. 337 Cfr. B. CARAVITA, Art. 36, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla

Costituzione, cit., 242; C. COLAPIETRO, Art. 36, cit., 745. 338 Cfr. L. ZOPPOLI, La corrispettività nel contratto di lavoro, Napoli, 1991, 279. 339 Cfr. G. PERONE, Retribuzione, cit., 41. 340 In Giur. cost., 1987, parte I, 3506 ss., con osservazione di E. GHERA, Cure termali e

retribuzione: contrasto nella giurisprudenza ordinaria ed intervento della Corte costituzionale, 3523 ss. 341 Cfr. M. DELL’OLIO, Retribuzione, quantità e qualità di lavoro, qualità di vita, cit., 10. 342 In Giur. cost., 1988, parte I, 4319 ss. 343 Cfr. G. PERONE, Retribuzione, cit., 47. 344 Cfr. G. PERA, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, cit.,

418; S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, cit., 239 s. 345 Cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., 277.

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Resta però da chiarire quale sia la misura della retribuzione adeguata a soddisfare il precetto costituzionale. Da questo punto di vista, la scelta dei Costituenti di utilizzare un parametro indeterminato come “l’esistenza libera e dignitosa” ripropone il problema della vaghezza del concetto di dignità346. In realtà, si tratta di una scelta voluta: il dibattito in Assemblea costituente evidenzia la superfluità e l’inopportunità di una maggiore determinatezza dell’espressione, anche per non pregiudicare l’intervento della contrattazione collettiva347. Se infatti è da escludere che la fissazione delle tariffe salariali sia riservata all’autonomia collettiva348, quest’ultima riveste comunque un ruolo centrale in materia349. Anzi, nella prassi si è registrata l’assoluta prevalenza del contratto collettivo nella determinazione della misura della retribuzione350. Ciò però non è avvenuto in virtù dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, stante la perdurante inattuazione dell’art. 39, ult. co., Cost. È stata la giurisprudenza a permettere il raggiungimento di un effetto equivalente, attraverso un meccanismo che ha dato immediata applicazione all’art. 36, co. 1, Cost.351, ma nello stesso tempo è stato definito uno dei «più vistosi esempi di creatività della nostra magistratura»352.

Il ragionamento che conduce all’applicazione diretta della norma costituzionale sulla retribuzione sufficiente è compiutamente delineato nella sentenza adottata dalla Corte d’Appello de L’Aquila il 24 ottobre 1950353 ed è stato poi confermato dalla giurisprudenza successiva, sia di merito che di legittimità354. La premessa del discorso è la precettività dell’art. 36 Cost.: esso riconosce al lavoratore un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile dinanzi al giudice qualora la retribuzione pattuita sia inferiore alla misura necessaria ad assicurare al lavoratore un’esistenza dignitosa. In proposito, autorevole dottrina ha sostenuto che «Una volta ammesso che ogni cittadino ha un diritto inviolabile a trarre dal lavoro i mezzi per l’espletamento integrale della sua personalità, che inoltre il salario rappresenta per il lavoratore l’unico mezzo per la soddisfazione delle proprie esigenze di vita e di sviluppo, che le condizioni in cui si

346 In questo caso affiancata alla libertà. La giustapposizione dei due termini non aiuta però a

chiarire la nozione di dignità. 347 Cfr. T. TREU, Art. 36, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-

Roma, 1979, 73 s. 348 Cfr. T. TREU, Art. 36, cit., 74; G. PERONE, Retribuzione, cit., 54; B. CARAVITA, Art. 36, cit., 241. 349 Cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., 272; T. TREU, Art. 36, cit., 75 ss.; L.

MENGONI, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, cit., 48; G. ZILIO GRANDI, La retribuzione. Fonti struttura funzioni, cit., 35; C. COLAPIETRO, Art. 36, cit., 741.

350 Cfr. G. PERONE, Retribuzione, cit., 53; M. DELL’OLIO, Retribuzione, quantità e qualità di lavoro, qualità di vita, cit., 5; ID., La retribuzione, in P. RESCIGNO (diretto da), Trattato di diritto privato, II ed., vol. 15, tomo I.1, Torino, 2004, 604.

351 Cfr. G. LOMBARDI, Potere privato e diritti fondamentali, Torino, 1970, 27 s., secondo cui la disposizione sarebbe rimasta in un limbo normativo se la giurisprudenza non le avesse riconosciuto l’operatività nei rapporti interprivati.

352 Così T. TREU, Art. 36, cit., 72. In senso analogo, G. PERONE, Retribuzione, cit., 57, che sottolinea la natura praeter legem dell’intervento giudiziale; G. ZILIO GRANDI, La retribuzione. Fonti struttura funzioni, cit., 35, che parla di uso creativo dell’art. 36 Cost.; C. GALIZIA, La giusta retribuzione tra punti fermi e questioni aperte, in Diritti lavori mercati, 2009, 599; E. GHERA – A. GARILLI – D. GAROFALO, Diritto del lavoro, Torino, 2013, 169.

353 Per un’analisi più approfondita della sentenza citata e per un suo inquadramento nell’ambito della problematica dell’immediata tutelabilità giurisdizionale dei diritti sociali, v. A. GIORGIS, La costituzionalizzazione dei diritti all’uguaglianza sostanziale, Napoli, 1999, 92 ss.

354 Per una rassegna della giurisprudenza in tema di retribuzione sufficiente, v. G. RICCI, Diritto alla retribuzione, in B. CARUSO – C. ZOLI – L. ZOPPOLI (a cura di), La retribuzione. Struttura e regime giuridico, vol. II (Repertorio di giurisprudenza), Napoli, 1994, 9 ss.

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svolge oggi il mercato del lavoro sono tali da determinare una situazione di inferiorità del prestatore di opera, che ancora lo Stato ha l’obbligo di intervenire per correggere siffatta situazione eliminando ogni speculazione sullo stato di bisogno tale da indurre il lavoratore a rinunciare al suo diritto o comunque a privarlo di ogni tutela preventiva, che infine tali interventi possono essere rivolti ad imporre che la proprietà e l’impresa privata si svolgano in conformità con l’utilità sociale ed in modo da non recare danno alla dignità umana, chiaramente discende la conseguenza che all’art. 36 non possa non attribuirsi una funzione limitatrice dell’autonomia privata»355.

L’insufficienza della retribuzione pattuita è desunta dal giudice dal confronto con i minimi retributivi stabiliti dai contratti collettivi nazionali di lavoro356. In caso d’inferiorità a questi indici, il giudice rileva il contrasto con l’art. 36, co. 1, Cost. ed applica l’art. 2099, co. 2, c.c., ai sensi del quale «In mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra del parere delle associazioni professionali». In questo modo la nullità della clausola sulla misura della retribuzione per violazione dell’art. 36, co. 1, Cost. è equiparata alla sua inesistenza, con conseguente applicazione della norma codicistica357. Non mancano, soprattutto in tempi più recenti, sentenze in cui al posto dell’art. 2099 c.c. è invocato l’art. 1419, co. 2, c.c., secondo cui «La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative»358. In ogni caso, una volta venuta meno la clausola contrattuale, il giudice stabilisce l’entità della retribuzione tenendo conto dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

È innegabile che l’operazione descritta abbia svolto e svolga tuttora una funzione di supplenza rispetto all’assenza di una legislazione sui minimi salariali e alla mancata attuazione dell’art. 39, ult. co., Cost.359. Dal punto di vista teorico, non si pongono problemi circa l’attuazione immediata dell’art. 36, co. 1, Cost. La legittimità del meccanismo è stata confermata anche dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 129 del 1963360 e soprattutto n. 156 del 1971361, in cui si afferma che «l’art. 36, primo comma, Cost. ha stabilito per il diritto alla retribuzione sufficiente una disciplina particolareggiata che ne rende possibile una diretta tutela per opera del giudice, anche all’infuori di apposite norme di legge applicative» (punto 3 del Considerato in diritto). Da ultimo, nella sentenza n. 51 del 2015362 si fa esplicita menzione, avallandolo, del «criterio, seguito dalla giurisprudenza nell’applicazione dell’art. 36 Cost., secondo cui il giudice valuta la conformità della retribuzione ai parametri del medesimo articolo,

355 Così C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., 277. 356 Cfr. G. PERONE, Retribuzione, cit., 56 s.; M. DELL’OLIO, La retribuzione, cit., 603. 357 Cfr. G. PERONE, Retribuzione, cit., 57; E. GHERA – A. GARILLI – D. GAROFALO, Diritto del

lavoro, cit., 170. 358 Cfr. C. GALIZIA, La giusta retribuzione tra punti fermi e questioni aperte, cit., 597. Questa

soluzione risulta peraltro già prefigurata da C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., 279. 359 Cfr. T. TREU, Art. 36, cit., 79; M. CINELLI, Retribuzione dei dipendenti privati, in Noviss. Dig. it.,

App. vol. VI, Torino, 1986, 658; G. PERONE, Retribuzione, cit., 57; P. LAMBERTUCCI, Determinazione giudiziale della retribuzione, minimi sindacali e condizioni territoriali, in Arg. dir. lav., n. 1/1995, 202 s.; E. GHERA – A. GARILLI – D. GAROFALO, Diritto del lavoro, cit., 167.

360 In Giur. cost., 1963, 1435 ss., con osservazione di L. PALADIN, Nuovi orientamenti della Corte Costituzionale in tema di erga omnes, 1440 ss. I principi espressi in questa decisione sono richiamati nelle pronunce n. 26 del 1967 (in Giur. cost., 1967, 200 ss.) e n. 57 del 1968 (in Giur. cost., 1968, 897 ss.).

361 In Giur. cost., 1971, 1691 ss., con osservazioni di P. SANDULLI, Minimi salariali ex lege 14 luglio 1959 n. 741 e potere di adeguamento della retribuzione ad opera del giudice, 1694 ss. e di G.C. PERONE, Retribuzione minima, retribuzione sufficiente e limite alla determinazione giudiziale, 1708 ss.

362 In www.cortecostituzionale.it.

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facendo riferimento ai CCNL applicabili alla categoria di appartenenza oppure ad una categoria affine, per poi determinare la retribuzione secondo equità, ai sensi dell’art. 2099 del codice civile» (punto 5.1 del Considerato in diritto).

I dubbi riguardano semmai l’uso giurisprudenziale dei contratti collettivi. In proposito, si può parlare di un’interpretazione riduttiva e minimalista, che ha spesso fatto ricorso ai contratti collettivi solo come indice, per poi fissare nel caso concreto la retribuzione ad una misura più bassa di quella del contratto collettivo363. In alcuni casi, peraltro, il meccanismo è stato utilizzato solo in presenza di uno scarto notevole tra il salario corrisposto e quello previsto dal contratto collettivo, di fatto ridimensionando il principio della sufficienza ex art. 36, co. 1, Cost. e ritenendo soddisfatto il richiamo all’esistenza dignitosa da un salario minimo biologico364.

Simili esiti non possono essere condivisi per due ragioni. In primis, perché lo scostamento dai parametri dei contratti collettivi si traduce nell’adozione dei criteri più disparati da parte della giurisprudenza, con il rischio di un eccessivo soggettivismo decisionale365. Basti citare quell’indirizzo che dava risalto alle condizioni socio-economiche territoriali per determinare al ribasso l’entità della retribuzione rispetto al CCNL. La validità di tale orientamento è stata poi sconfessata dalla Corte di Cassazione, in particolare nella sentenza n. 1903 del 25 febbraio 1994366. Non meno criticabile è l’impostazione seguita dalla Cassazione nella sentenza n. 1415 del 31 gennaio 2012, in cui si afferma che «In assenza di loro applicabilità diretta, i contratti collettivi di lavoro – siano essi aziendali o nazionali – costituiscono solo possibili parametri orientativi utilizzabili ai fini del combinato disposto degli artt. 2099 cpv. c.c. e 36 Cost. È pur vero che la retribuzione costituzionalmente garantita corrisponde, in linea generale, a quella determinata dai contratti collettivi […]; per quest’ultima, infatti, esiste in giurisprudenza una mera presunzione semplice di adeguatezza delle relative clausole economiche ai principi di proporzionalità e sufficienza […]. Tuttavia nell’ordinamento non vi è alcun criterio legale di scelta in ipotesi di pluralità di fonti collettive». Il concetto è ulteriormente precisato nel passo in cui la Corte sostiene che rientri nel potere discrezionale del giudice fondare la pronuncia, anziché sui parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva, «sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, persino su criteri meramente equitativi».

La conclusione del ragionamento evidenzia il secondo motivo di perplessità rispetto allo scostamento della giurisprudenza dalle determinazioni dell’autonomia collettiva, già accennato nelle riflessioni precedenti. Il giudice della nomofilachia ritiene infatti che «il giudice del merito è libero (previa idonea motivazione) di fare

363 Cfr. G. PERA, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, cit.,

418; M. CINELLI, Retribuzione dei dipendenti privati, cit., 658; L. ZOPPOLI, La corrispettività nel contratto di lavoro, cit., 288 ss.; C. ZOLI, Retribuzione (impiego privato), in Dig. IV ed., Disc. priv., Sez. comm., vol. XII, Torino, 1996, 431; C. TRIPODINA, Art. 36, cit., 356; S. BELLOMO, Retribuzione, I) Rapporto di lavoro privato, cit., 5; C. GALIZIA, La giusta retribuzione tra punti fermi e questioni aperte, cit., 599 s.

364 Cfr. T. TREU, Art. 36, cit., 81 s. 365 Cfr. P. LAMBERTUCCI, Determinazione giudiziale della retribuzione, minimi sindacali e

condizioni territoriali, cit., 206 s. 366 Per un approfondimento della tematica, v. P. LAMBERTUCCI, Determinazione giudiziale della

retribuzione, minimi sindacali e condizioni territoriali, cit., 201 ss.; G. ROMA, Le funzioni della retribuzione, Bari, 1997, 91 ss.; S. BELLOMO, Retribuzione, I) Rapporto di lavoro privato, cit., 5; C. GALIZIA, La giusta retribuzione tra punti fermi e questioni aperte, cit., 616 ss.

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riferimento, anziché al contratto collettivo nazionale, a quello aziendale, pur se peggiorativo rispetto al primo e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro di cui trattasi […]. È pur vero che l’esistenza d’un contratto collettivo vincolante fra le parti – anche a livello meramente aziendale – di per sé non esclude lo scrutinio di conformità delle relative retribuzioni al precetto dell’art. 36 Cost., ma per ritenerlo violato non basta che la fonte collettiva aziendale preveda retribuzioni inferiori a quello nazionale. Diversamente opinando, si introdurrebbe surrettiziamente un principio di inderogabilità del contratto collettivo nazionale ad opera di quello aziendale, inderogabilità che sussiste solo rispetto al contratto individuale (ex art. 2077 cpv. c.c.)».

È chiaro che, adottando tale ricostruzione, o comunque interpretando al ribasso le previsioni dei contratti collettivi, si svuota di contenuto la garanzia costituzione della retribuzione sufficiente. In altre parole, essa viene assimilata al riconoscimento di un minimo vitale, idoneo ad assicurare la mera sopravvivenza. Non sembra invece questo il senso dell’art. 36, co. 1, Cost. Anzi, proprio il riferimento all’idea di dignità dovrebbe far propendere per una configurazione della retribuzione come strumento che soddisfi non solo i bisogni immediati e materiali, ma che garantisca al lavoratore e alla sua famiglia un tenore di vita socialmente adeguato e permetta loro il pieno godimento dei diritti civili e politici367.

Se così non fosse, d’altronde, la norma costituzionale avrebbe richiamato la sola esistenza, senza i connotati di dignità e di libertà che ad essa si accompagnano nella formulazione dell’articolo368. Ancora una volta il ricorso ai lavori preparatori può aiutare a far luce sul senso della disposizione. L’argomento è oggetto di discussione sia nella prima che nella terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione. Partendo da quest’ultima, si deve ricordare che nella seduta del 12 settembre 1946 Amintore Fanfani propone un articolo che così recita: «Ogni lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, e, possibilmente, adeguata alle sue necessità personali e familiari. La Repubblica agevolerà il godimento di questo diritto con norme sulla determinazione, nei contratti di lavoro, delle retribuzioni vitali, previdenziali e familiari»369. Nel corso del dibattito Fanfani sottolinea l’importanza di provvedere alle necessità vitali del lavoratore e della sua famiglia e che il termine “vitali” va inteso in modo strettamente tecnico, cioè tenendo conto che nel linguaggio economico il salario vitale è quello indispensabile per assicurare un tenore normale di vita370. Fanfani non parla di semplice sussistenza, ma di un tenore normale. La seconda parte dell’articolo viene poi soppressa, perché reputata superflua.

367 Cfr. L. ZOPPOLI, La corrispettività nel contratto di lavoro, cit., 284 ss.; C. TRIPODINA, Art. 36,

cit., 353; ID., Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di cittadinanza, Torino, 2013, 58 s.; S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, cit., 157 s. e 239; E. GHERA – A. GARILLI – D. GAROFALO, Diritto del lavoro, cit., 165 s.

368 Cfr. G. ROMA, Le funzioni della retribuzione, cit., 53, secondo il quale «la norma costituzionale contiene una nozione di retribuzione non necessariamente coincidente con il salario sufficiente a garantire il sostentamento, ma ha un ambito più ampio poiché impone di considerare e soddisfare i bisogni del lavoratore in tutta la sua soggettività, bisogni non certo illimitati, ma ragionevolmente idonei a configurare la libertà e la dignità dell’esistenza».

369 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di giovedì 12 settembre 1946, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VIII, Roma, 1971, 2099 s.

370 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di giovedì 12 settembre 1946, cit., 2102.

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La questione è affrontata più ampiamente nei lavori della prima Sottocommissione. Nella seduta dell’8 ottobre 1946 Dossetti e Togliatti presentano il seguente articolo: «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare alle esigenze di una esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia»371. La versione precedente dell’articolo, proposta da Togliatti, faceva riferimento alle «necessità fondamentali dell’esistenza del singolo e della sua famiglia». Dossetti spiega la modifica dicendo che il testo precedente si muoveva in un orizzonte troppo limitato e lasciava aperta la strada a interpretazioni restrittive, assolutamente da evitare372. Aggiunge poi che fino a quel momento le esigenze fondamentali di vita sono state considerate in modo così riduttivo da impedire a vaste masse di lavoratori di ottenere un giusto compenso373. Al contrario, «risponde alla struttura economico-sociale del nostro sistema orientare l’economia verso retribuzioni del lavoro che non siano soltanto rispondenti alle esigenze della vita, quali possono essere quelle del vitto, della casa, del vestiario, ma anche alle esigenze dell’esistenza libera e perciò degna dell’uomo»374. Conclude infine il suo intervento rilevando che non si tratta di un’utopia, ma dell’esigenza di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro che realizzi la libertà e la dignità dell’uomo375. L’art. 36, co. 1, Cost. nasce dalla fusione dei due articoli approvati rispettivamente nella terza e nella prima Sottocommissione.

Alcuni arresti della Corte costituzionale confermano la tesi sostenuta. Nella pronuncia n. 51 del 1967376 la Consulta ha precisato che la dignità umana può essere offesa proprio dall’esiguità della retribuzione. L’art. 36, co. 1 fa il paio, peraltro, con l’art. 38, co. 2, Cost., secondo cui «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Anticipando quanto si dirà in seguito, è opportuno ricordare che la Corte costituzionale ha accomunato le esigenze cui è preordinata la pensione a quelle che trovano risposta nella retribuzione e ha precisato, nella sentenza n. 173 del 1986377, che «mezzi adeguati alle esigenze di vita da assicurare non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di appartenenza per effetto dell’attività lavorativa svolta» (punto 10 del Considerato in diritto).

Dall’analisi compiuta emerge nitidamente il ruolo propulsivo del concetto di dignità nel contesto del criterio costituzionale della sufficienza della retribuzione e tale ruolo induce a censurare l’orientamento giurisprudenziale prima descritto378. Non solo è da escludere che la misura della retribuzione possa essere fissata al di sotto dei minimi

371 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 8 ottobre 1946, in CAMERA DEI DEPUTATI –

SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VI, cit., 500.

372 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 8 ottobre 1946, cit., 501. 373 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 8 ottobre 1946, cit., 501. 374 Così G. DOSSETTI, nel Resoconto sommario della seduta di martedì 8 ottobre 1946, cit., 501. 375 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 8 ottobre 1946, cit., 501. 376 In Giur. cost., 1967, 323 ss. 377 In Giur. cost., 1986, parte I, 1329 ss. 378 Questo orientamento si inserisce peraltro in un processo più ampio di spostamento del baricentro

della contrattazione collettiva verso il livello aziendale, che ha l’effetto di relativizzare il criterio della retribuzione sufficiente. Cfr. E. ALES, Il lavoro di scarsa qualità, in C. PINELLI (a cura di), Esclusione sociale. Politiche pubbliche e garanzie dei diritti, cit., 221, anche per ulteriori riferimenti bibliografici.

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contrattuali; ma si può anzi sostenere che la sua entità debba essere, in base alle circostanze del caso concreto, perfino superiore alle previsioni dei contratti collettivi379 e non mancano pronunce che si sono attestate su una posizione del genere380. Ovviamente in questa seconda ipotesi permangono le perplessità sull’eccessiva discrezionalità dell’intervento giudiziale, ma quanto meno la soluzione è maggiormente conforme al disposto costituzionale.

Una precisazione va fatta: l’interpretazione proposta dell’art. 36, co. 1, Cost. non implica che in tale norma possa individuarsi il fondamento di un generale diritto all’esistenza e quindi di un reddito di cittadinanza che ne assicurerebbe il godimento, come suggerisce taluno381. Pur estendendo l’ambito di applicazione dell’art. 36 Cost. oltre i confini del lavoro subordinato, non si può però ignorare il dato testuale, che fa riferimento al lavoratore e non all’uomo in quanto tale382.

Un cenno merita infine la giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 36, co. 1, Cost. Oltre alle decisioni già citate, in numerose occasioni la Corte ha applicato il principio della retribuzione sufficiente.

Nella sentenza n. 30 del 1960383 il Giudice delle leggi fa notare come l’articolo in esame imponga una retribuzione sufficiente non solo a soddisfare le esigenze del lavoratore, ma anche quelle della sua famiglia, che vanno distintamente considerate e giustificano pertanto sperequazioni salariali tra lavoratori in base alla situazione familiare384.

Nella decisione n. 106 del 1962385 si rimarca che l’art. 36 Cost. forma un corpo unico con gli artt. 3, co. 2, 35 e 37 Cost., il cui obiettivo è di tutelare la dignità personale del lavoratore e il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato.

La pronuncia n. 124 del 1968386 applica il principio della sufficienza della retribuzione al trattamento pensionistico387, ferma restando la discrezionalità del legislatore nel definire la struttura e la commisurazione del medesimo388. Il concetto è sviluppato nella pronuncia n. 26 del 1980389, in cui si afferma che dagli artt. 36 e 38 Cost. scaturisce «una particolare protezione per il lavoratore, nel senso che il suo trattamento di quiescenza al pari della retribuzione in costanza di servizio, della quale costituisce sostanzialmente un prolungamento a fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, e deve in ogni caso

379 Cfr. A. PACE, Rilievi sulla determinazione giudiziale della retribuzione sufficiente, in Giur. cost.,

1961, 278. 380 Cfr. S. BELLOMO, Retribuzione, I) Rapporto di lavoro privato, cit., 5 s. 381 Cfr. S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, cit., 241. 382 Cfr. P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, cit., 40. 383 In Giur. cost., 1960, 524 ss. 384 Di tenore analogo è la sentenza n. 41 del 1962 (in Giur. cost., 1962, 324 ss.). 385 In Giur. cost., 1962, 1408 ss. con osservazioni di V. CRISAFULLI, Su alcuni aspetti problematici

della delega contenuta nella legge 14 luglio 1959 n. 741, e dei relativi decreti delegati, 1414 ss.; M. MAZZIOTTI, Osservazione alla sentenza della Corte Costituzionale 19 dicembre 1962 n. 106, 1423 ss.; M. CONTI, Legge e contratto collettivo nella disciplina delle condizioni di lavoro, 1434 ss.

386 In Giur. cost., 1968, 2161 ss. 387 Nella sentenza n. 14 del 1980 (in Giur. cost., 1980, parte I, 124 ss., con osservazione di M.

PERSIANI, La funzione della pensione di riversibilità nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, 494 ss.) il principio è applicato ancor più specificamente all’istituto della reversibilità della pensione.

388 Questa tesi è ribadita nella sentenza n. 57 del 1973 (in Giur. cost., 1973, 762 ss.). 389 In Giur. cost., 1980, parte I, 206 ss., con osservazione di M. PERSIANI, La funzione della

pensione di riversibilità nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, cit.

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assicurare al lavoratore medesimo ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle loro esigenze di vita, per un’esistenza libera e dignitosa. Proporzionalità ed adeguatezza, che non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta. Ma ciò non comporta automaticamente che, nella fase della liquidazione, il livello della pensione, in progressiva puntuale concomitanza con il servizio prestato, debba poter attingere il traguardo della integrale coincidenza con la retribuzione goduta all’atto della cessazione dal servizio» (punto 4 del Considerato in diritto)390. In generale, si può notare un certo self-restraint della Corte rispetto alle scelte legislative, specie se determinate da istanze di contenimento della spesa pubblica. Non è detto, comunque, che tali istanze prevalgano sempre sulle esigenze contrapposte. In quest’ottica, assai significativa è la recente sentenza n. 70 del 2015391, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, co. 25, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, che, in considerazione della contingente situazione finanziaria, riconosceva la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici392 soltanto per le pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100%, bloccandolo invece per tutte le altre. Nell’arresto la Corte afferma che «la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita». Subito dopo il Giudice delle leggi aggiunge che rientra nella discrezionalità del legislatore fissare il quantum di tutela, bilanciando le attese dei pensionati con le esigenze di controllo della spesa pubblica. Il bilanciamento deve però rispettare i criteri della ragionevolezza e della proporzionalità, che nel caso di specie risultano violati. In proposito, la Consulta sottolinea che «La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi» (punto 10 del Considerato in diritto). La Corte conclude dicendo che «L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione

390 Nella stessa prospettiva si collocano le decisioni nn. 349 del 1985 (in Giur. cost., 1985, parte I, 2408 ss.), 173 del 1986, 220 del 1988 (in Giur. cost., 1988, parte I, 862 ss. con osservazione di N. OLIVA, Indennità di buonuscita e indennità integrativa speciale mensile, 880 ss.), 501 del 1988 (in Giur. cost., 1988, parte I, 2361 ss., con osservazione di S. BARTOLE, Ancora sulla delimitazione degli effetti temporali di decisione di accoglimento (in materia di pensione di magistrati), 2370 ss.), 119 del 1991 (in Giur. cost., 1991, 1209 ss.), 226 del 1993 (in Giur. cost., 1993, 1670 ss.), 409 del 1995 (in Giur. cost., 1995, 2917 ss.), 30 del 2004 (in Giur. cost., 2004, 462 ss.) 316 del 2010 (in Giur. cost., 2010, 4432 ss.), 208 del 2014 (in Giur. cost., 2014, 3315 ss., con osservazione di F.F. PAGANO, La mancata previsione dell’errore di diritto tra i casi di modifica o di revoca del provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento pensionistico e la tutela del legittimo affidamento nell’ambito dei rapporti di durata, 3328 ss.).

391 In www.cortecostituzionale.it. 392 Si tratta di un meccanismo che serve ad adeguare le pensioni al mutato potere d’acquisto della

moneta, con l’obiettivo di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono a causa del loro carattere continuativo.

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previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio» (punto 10 del Considerato in diritto). La sentenza ha un rilievo notevole nel panorama della giurisprudenza costituzionale in tema di condizionamento finanziario dei diritti sociali, già esaminato in precedenza (v. supra, § 3).

Nella sentenza n. 82 del 1973393 l’art. 36 Cost. è usato come criterio in base a cui valutare se una determinata erogazione corrisposta al lavoratore debba qualificarsi o meno come “retribuzione”. Sul punto, la Corte rileva che «nella tutela costituzionale apprestata con l’art. 36, non si è voluto e non si può comprendere il diritto ad ogni e qualsiasi controprestazione a fronte di ogni e qualsiasi prestazione di lavoro, sibbene solo quelle controprestazioni che sinallagmaticamente collegate alle prestazioni servano nell’economia del rapporto, proporzionate alla quantità e qualità del lavoro prestato, ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (punto 3 del Considerato in diritto)394. Invero, si è visto che proprio il principio di sufficienza attenua il sinallagma intercorrente tra prestazione e retribuzione.

La sentenza n. 141 del 1979395 aggiunge un importante tassello in questo quadro, precisando che la sufficienza della retribuzione non va riferita alle singole voci retributive, ma alla globalità del salario396. Anche tale posizione, come quella concernente il trattamento pensionistico, è funzionale a un atteggiamento di prudenza del Giudice delle leggi rispetto all’esercizio della discrezionalità legislativa.

Nella sentenza n. 878 del 1988397 la Corte esclude che la pignorabilità di un quinto della retribuzione possa compromettere l’esigenza di garantire un’esistenza libera e dignitosa.

La sentenza n. 210 del 1992398 applica il principio della sufficienza della retribuzione alla collocazione temporale della prestazione lavorativa nel contratto di lavoro a tempo parziale. Nel dettaglio, la Corte asserisce che «le stesse ragioni che

393 In Giur. cost., 1973, 870 ss. 394 Ciò conduce la Corte ad escludere la natura retributiva dell’indennità di buonuscita. Queste

considerazioni sono richiamate nelle pronunce nn. 46 del 1983 (in Giur. cost., 1983, parte I, con osservazione di A. CERRI, Incertezze e contraddizioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale sulla natura dell’indennità di buonuscita, 180 ss.), 1089 del 1988 (in Giur. cost., 1988, parte I, 5316 ss.), 243 del 1993 (in Giur. cost., 1993, con osservazioni di A. ANZON, Un’additiva di principio con termine per il legislatore, 1785 ss.; C. PINELLI, Titano, l’eguaglianza e un nuovo tipo di «additiva di principio», 1792 ss.; M. D’AMICO, Un nuovo modello di sentenza costituzionale?, 1803 ss.; G. CATTARINO, Natura retributiva dei diversi trattamenti di fine rapporto e comparabilità degli stessi, 3137 ss.).

395 In Giur. cost., 1979, parte I, 1048 ss. 396 Tale affermazione trova applicazione nelle sentenze nn. 176 del 1980 (in Giur. cost., 1980, parte

I, 1530 ss.), 227 del 1982 (in Giur. cost., 1982, parte I, 2260 ss.), 229 del 1983 (in Giur. cost., 1983, parte I, 1404 ss.), 1 del 1986 (in Giur. cost., 1986, parte I, 3 ss.) 314 del 1987 (in Giur. cost., 1987, parte I, 2551 ss.), 164 del 1994 (in Giur. cost., 1994, 1230 ss., con osservazione di F. PROIETTI, L’indennità sostitutiva di mensa tra legge e contrattazione collettiva, 2292 ss.), 15 del 1995 (in Giur. cost., 1995, 197 ss., con osservazione di G. VERDE, Leggi interpretative e bilanciamento degli interessi, 2095 ss.), 330 del 1999 (in Giur. cost., 1999, 2633 ss.), 470 del 2002 (in Giur. cost., 2002, 3941 ss.), 87 del 2003 (in Giur. cost., 2003, 690 ss.), 287 del 2006 (in Giur. cost., 2006, 2966 ss.), 366 del 2006 (in Giur. cost., 2006, 3814 ss.), 304 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 4870 ss.), 310 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 4966 ss., con osservazione di L. PACE, La Corte costituzionale fa proprie le “ragioni della crisi” e rinnega se stessa, 4993 ss.), 154 del 2014 (in Giur. cost., 2014, 2462 ss.) e 178 del 2015 (in www.cortecostituzionale.it).

397 In Giur. cost., 1988, parte I, 4126 ss. 398 In Giur. cost., 1992, 1717 ss., con osservazioni di S. GRASSELLI, Problematiche della normativa

legale sul lavoro a tempo parziale, 1733 ss. e di E. CATERINI, Forma legale, nullità e «diritto vivente», 1735 ss.

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escludono il potere del datore di lavoro di variare unilateralmente la pattuita collocazione temporale della prestazione lavorativa ridotta, conducono altresì ad escludere l’ammissibilità di pattuizioni che attribuiscano al datore di lavoro un simile potere. Clausole di questo genere, infatti, farebbero venir meno la possibilità, per il lavoratore di programmare altre attività con le quali integrare il reddito lavorativo ricavato dal rapporto a tempo parziale. Tale possibilità […] deve invece essere salvaguardata, poiché soltanto essa rende legittimo che dal singolo rapporto il lavoratore possa ricevere una retribuzione inferiore a quella sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (punto 3 del Considerato in diritto).

Nella sentenza n. 459 del 2000399 la Consulta precisa che la garanzia di cui all’art. 36, co. 1, Cost. non riguarda solo l’entità della retribuzione, ma anche la puntualità della sua corresponsione, del pari essenziale al soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita del lavoratore e dei suoi familiari400.

Con la decisione n. 94 del 2015401 la Corte ha esteso ai crediti da lavoro subordinato il meccanismo di tutela previsto dall’art. 1, co. 198, della l. n. 228/2012 per i casi di confisca di prevenzione sui beni del debitore.

Dall’analisi compiuta emerge che la Corte costituzionale utilizza l’art. 36, co. 1, Cost. sia come criterio di classificazione di determinate erogazioni derivanti dal rapporto di lavoro sia come parametro di valutazione dell’idoneità della normativa in materia ad assicurare una retribuzione soddisfacente le esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia. Da quest’ultimo punto di vista, se da un lato il controllo è esteso a vari aspetti della retribuzione, come l’entità e le modalità di corresponsione, dall’altro lato è a volte poco incisivo, perché limitato alla censura delle sole scelte manifestamente irragionevoli del legislatore402.

In conclusione, il riferimento alla dignità contenuto nel primo comma dell’art. 36 Cost. rappresenta un importante strumento di garanzia del diritto sociale alla retribuzione, le cui potenzialità non sono sempre adeguatamente sviluppate dalla giurisprudenza ordinaria e costituzionale.

6. La dignità umana come limite all’iniziativa economica privata (art. 41, co. 2, Cost.)

399 In Giur. cost., 2000, 3619 ss. 400 Questa affermazione è richiamata nella sentenza n. 82 del 2003 (in Giur. cost., 2003, 663 ss., con

osservazione di C. PINELLI, Inadempimento dei crediti retributivi dei dipendenti pubblici e «peculiare connotazione» della pubblica amministrazione, 1733 s.), il cui esito è però opposto rispetto alla pronuncia precedente: in quest’ultima la Corte reputa la garanzia della puntualità della corresponsione del compenso non assicurata dalla normativa oggetto del giudizio e ne dichiara l’illegittimità costituzionale; nella decisione n. 82 del 2003, invece, la Corte ritiene assicurata la garanzia citata, trattandosi di normativa concernente il pubblico impiego, e rigetta la questione di legittimità costituzionale.

401 In www.cortecostituzionale.it. 402 In questi termini si esprime ad esempio la già citata sentenza n. 330 del 1999, in cui la Corte

sostiene che al legislatore «non è vietato di approvare norme le quali modifichino sfavorevolmente, senza che per questo solo sia vulnerato l’art. 36, primo comma, della Costituzione, la disciplina dei rapporti di durata neppure nel caso in cui riguardino diritti soggettivi perfetti, purché tali modifiche non trasmodino in un regolamento irrazionale o incidano arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti» (punto 4 del Considerato in diritto).

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Bisogna a questo punto analizzare un caso in cui la dignità umana non rafforza la tutela di un altro diritto, ma al contrario la limita: l’art. 41, co. 2, Cost. stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Si tratta, peraltro, dell’unica disposizione costituzionale che espressamente faccia riferimento alla dignità umana.

La rilevata indeterminatezza del concetto, al confine tra etica e diritto, rende particolarmente complessa l’interpretazione del testo e la difficoltà è aggravata dalla scarsa attenzione dedicata dalla giurisprudenza costituzionale e dalla dottrina alla seconda parte del capoverso in esame403. Non è corretto però rinunciare in partenza allo sforzo di fornire almeno alcune indicazioni sull’operatività del limite in esame, pur nella consapevolezza della sua elasticità404. Né si può ritenere inutile un tentativo del genere, in virtù del ridimensionamento che l’intero art. 41 Cost. ha subito per effetto della normativa dell’Unione europea405. In proposito, si è evidenziato che l’art. 41 Cost. «da norma costituzionale centrale delle politiche pubbliche di indirizzo dell’economia in funzione dell’affermazione della pari dignità sociale dei lavoratori e del programma di trasformazione sociale scritto nell’art. 3, co. 2, Cost. è diventata la norma costituzionale che legittima l’affermazione dell’economia di libero mercato, che misura la compatibilità della Carta costituzionale con l’esigenza, sempre più richiamata, di conformità ai principi del diritto comunitario»406. In realtà, la progressiva riduzione dell’intervento dello Stato nell’economia, anche per effetto delle norme dell’Unione europea, sembra incidere soprattutto sull’ambito di applicazione del terzo comma dell’art. 41 Cost., ma non elide l’importanza dei limiti indicati dal secondo comma della stessa disposizione. Non è un caso che perfino l’art. 3, co. 1, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, che si propone di eliminare le restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche, stabilendo a tal fine che «Comuni, Province, Regioni e Stato […] adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», consenta limitazioni proprio nell’ipotesi di danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e di contrasto con l’utilità sociale (art. 3, co. 1, lett. c)407. In

403 Cfr. V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959, 235; M. LUCIANI, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, cit., 187 s., che individua il motivo di tale atteggiamento nella maggiore utilizzabilità della clausola dell’utilità sociale, sia perché più familiare alla dottrina sia perché più facilmente manipolabile dalla Corte costituzionale; M. GIAMPIERETTI, Art. 41, in S. BARTOLE – R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 416.

404 Cfr. V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 241; M. GIAMPIERETTI, Art. 41, cit., 407; F. ZATTI, Riflessioni sull’art. 41 Cost.: la libertà di iniziativa economica privata tra progetti di riforma costituzionale, utilità sociale, principio di concorrenza e delegificazione, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, cit., vol. IV, 2244.

405 Cfr. G. DI PLINIO, Diritto pubblico dell’economia, Milano, 1998, 167 s.; R. NIRO, Art. 41, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, cit., 862 s.

406 Così F. ANGELINI, L’iniziativa economica privata, in F. ANGELINI – M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica. Atti del Convegno di Roma, 26-27 aprile 2012, cit., 124, che identifica la conclusione di un simile processo con l’adozione della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (“Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”).

407 Ciò non implica che la disciplina citata, che tenta surrettiziamente di riformulare i principi sanciti dell’art. 41 Cost. eliminando però il richiamo alla programmazione contenuto nel terzo comma, sia esente da vizi di legittimità costituzionale, puntualmente rilevati da G.U. RESCIGNO, Come i governanti hanno tentato furbescamente di aggirare la Costituzione e come la Corte ha risposto in modo debole e

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definitiva, il complessivo depotenziamento dell’art. 41 Cost. non può equivalere a una sua tacita abrogazione e non esime quindi da un approfondimento della tematica.

Nel fare ciò, è opportuno precisare in via preliminare che il secondo comma dell’art. 41 Cost. non può essere letto come una sorta di smentita del suo primo comma. La formulazione dell’art. 41 Cost. è stata ad esempio considerata contraddittoria, perché il principio affermato nel primo comma sarebbe limitato nel secondo comma e addirittura negato nel comma finale408. Secondo un’altra tesi, la norma sarebbe indeterminata nel suo nucleo essenziale, anfibologica perché attuabile in direzioni opposte ed eccessivamente esposta alle tensioni delle forze politiche, miranti ad attribuirle il senso più confacente ai rispettivi e divergenti obiettivi409. Non c’è dubbio che l’art. 41 Cost. sia la risultante dello sforzo di conciliare il riconoscimento dell’iniziativa economica privata con la sua limitazione per finalità sociali410. Così come è evidente che i limiti previsti siano particolarmente intensi, al punto da rendere peculiare lo statuto di questa libertà; essi però non determinano una negazione della libertà proclamata dal primo comma dell’art. 41 Cost.411, per cui la contraddizione non è insanabile412. Non si deve poi dimenticare che ogni disposizione costituzionale sui diritti di libertà prevede, accanto al riconoscimento della situazione giuridica soggettiva, una serie di limiti413. In questo caso i limiti sono assai penetranti per il ruolo chiave che l’iniziativa economica privata ha nell’assetto complessivo dell’ordinamento. In qualche modo, le ragioni della sua peculiare configurazione risultano anticipate nella relazione presentata da Amintore Fanfani alla terza Sottocommissione della “Commissione dei 75”, nella quale si dice che «il controllo mira ad impedire che per avere in fase finale un ottimo risultato quantitativo ed economico, si cominci col danneggiare la persona dei

inadeguato, in Giur. cost., 2012, 2940 ss. Il tentativo del legislatore di incidere con una fonte di rango ordinario sulla normativa costituzionale non è stato però censurato dalla Corte costituzionale, se non parzialmente e per ragioni diverse. Anzi, sulla problematica qui evidenziata la Corte ha affermato, in un obiter dictum della sentenza n. 200 del 2012 (in Giur. cost., 2012, 2910 ss. con osservazione di G.U. RESCIGNO, Come i governanti hanno tentato furbescamente di aggirare la Costituzione e come la Corte ha risposto in modo debole e inadeguato, cit.), che «Con la normativa censurata, il legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all’interno della cornice delineata dai principi costituzionali […]. Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale» (punto 7.3 del Considerato in diritto).

408 Cfr. M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, cit., 147. 409 Cfr. E. CHELI, Libertà e limiti all’iniziativa economica privata nella giurisprudenza della Corte

Costituzionale e nella dottrina, in Rass. dir. pubbl., 1960, parte I, 303 s. 410 Cfr. C.M. MAZZONI, Iniziativa economica privata, in Noviss. Dig. it., App. vol. IV, Torino, 1983,

271, secondo cui «L’affermazione del principio di libertà di iniziativa economica privata […] conosce le regole della sua effettività solamente attraverso la contemporanea enunciazione dei suoi limiti»; R. NIRO, Art. 41, cit., 848.

411 Cfr. A. PACE, L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, in AA.VV., Studi in memoria di Franco Piga, vol. II (Diritto civile, commerciale, economia e finanza, varie), Milano, 1992, 1595.

412 Cfr. V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 208; A. PACE, Iniziativa privata e governo pubblico dell’economia. Considerazioni preliminari, in AA.VV., Scritti in onore di Egidio Tosato, vol. II (Libertà e autonomie nella Costituzione), Milano, 1982, 531 s.

413 Cfr. S. NICCOLAI, Osservazioni sul problema dei limiti alle libertà economiche, in Giur. cost., 1990, 1720 ss., che evidenzia come la giurisprudenza costituzionale abbia determinato un avvicinamento tra le libertà economiche e le altre libertà, sotto il profilo dei limiti.

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produttori, menomandone la dignità con disposizioni e pratiche che la tengono in conto di bruto o di strumento, coartandone la libertà con ricatti iugulatori, sacrificandone l’espansione, con logorii eccessivi nel puro campo dello sforzo materiale. Per questo non può dirsi coerente ad un ordinamento personalistico un sistema economico preoccupato soltanto della massima produzione, né un sistema economico preoccupato soltanto della potenza. Solo un sistema organizzato in vista della piena espansione della personalità di tutti i consociati e della massima perfezione della intera collettività può ritenersi conforme ad un orientamento razionale dell’economia»414. Dalle parole citate emerge anche un primo significato del limite della dignità umana come divieto di degradazione del lavoratore a mero strumento dell’attività economica. D’altronde, questa è una conseguenza obbligata, ove si colleghi l’art. 41 Cost. con gli artt. 2 e 3 Cost.415.

Una seconda precisazione riguarda l’operatività del limite. Secondo un’autorevole tesi, i limiti menzionati dall’art. 41, co. 2, Cost. sarebbero rivolti al solo svolgimento dell’attività economica e non anche al momento d’impulso iniziale, qualificato come libero dal primo comma416. In realtà, il secondo comma è strettamente legato al primo, se si considera che lo svolgimento è riferito proprio all’atto d’iniziativa417. Anche a voler ammettere la differenziazione, risulta poi comunque impossibile scindere i due momenti nella prassi, che vede una continua successione di atti d’iniziativa e relativi svolgimenti418. È preferibile allora optare per una lettura unitaria dei due commi, in linea con l’indirizzo consolidato della Corte costituzionale419.

Va inoltre chiarito che, sebbene la Corte abbia definito “di ordine negativo” i limiti previsti dall’art. 41, co. 2, Cost.420, questi possono concretizzarsi sia in divieti sia in obblighi. L’esclusione dei secondi sarebbe arbitraria, perché i divieti altro non sono che obblighi di contenuto omissivo421. Entrambe le tipologie di misure sono quindi coperte dalla previsione costituzionale, perché entrambe potrebbero rivelarsi necessarie a

414 Così A. FANFANI, Controllo sociale dell’attività economica, in AA.VV., La nuova Costituzione

italiana. Progetto e relazioni, cit., 127. 415 Non si può tuttavia aderire alla tesi, formulata da M. LUCIANI, La produzione economica privata

nel sistema costituzionale, cit., 197 ss., secondo il quale il riferimento alla dignità umana andrebbe interpretato in collegamento con la pari dignità sociale di cui all’art. 3, co. 1, Cost. Come già detto (v. supra, § 4), la sovrapposizione dei due concetti comporta una svalutazione di entrambi.

416 Cfr. C. ESPOSITO, Note esegetiche sull’articolo 44 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, cit., 184 s.; M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, cit., 153; M. LUCIANI, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, cit., 15; ID., Economia nel diritto costituzionale, cit., 380.

417 Cfr. V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 234 s.; G. MORBIDELLI, Iniziativa economica privata, in Enc. giur., vol. XVII, Roma, 1989, 5.

418 Cfr. G. MORBIDELLI, Iniziativa economica privata, cit., 5; A. PACE, L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, cit., 1597 s., il quale aggiunge che non avrebbe comunque senso ipotizzare un’iniziativa economica a sé stante, cui non segua alcuno svolgimento.

419 Cfr. A. PACE, Iniziativa privata e governo pubblico dell’economia. Considerazioni preliminari, cit., 539; ID., L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, cit., 1597 s.; R. NIRO, Art. 41, cit., 852; M. GIAMPIERETTI, Art. 41, cit., 411 s.

420 Cfr. la pronuncia n. 78 del 1958 (in Giur. cost., 1958, 979 ss.). In dottrina, aderisce a tale tesi U. NATOLI, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro. I. Introduzione, Milano, 1955, 107.

421 Cfr. A. PACE, L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, cit., 1624; M. GIAMPIERETTI, Art. 41, cit., 412;

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tutelare la dignità umana e gli altri beni indicati dalla norma422. Si tratta comunque di un limite sensibile al mutamento della coscienza sociale, che lascia un’ampia discrezionalità al legislatore423.

Un altro interrogativo concerne i soggetti la cui dignità l’art. 41, co. 2, Cost. intende difendere: ci si chiede se la norma si riferisca ai lavoratori subordinati dell’impresa o alla generalità dei consociati. Non è difficile individuare nei lavoratori i principali destinatari della protezione accordata dall’art. 41, co. 2, Cost.424, come peraltro si ricava anche dalla relazione di Fanfani prima citata425. L’inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa comporta l’integrale coinvolgimento della sua persona, e non solo delle sue energie lavorative, al punto che un serio pregiudizio ad essa potrebbe derivare dallo svolgimento dell’iniziativa economica privata426. Nella sentenza n. 51 del 1967 la Corte ha affermato che la dignità umana può subire offesa dalla sconvenienza o durezza del luogo o delle condizioni di lavoro. La sua garanzia si estende però anche ad ogni altro soggetto la cui dignità sia posta in pericolo dall’iniziativa privata427. Da un punto di vista letterale, infatti, la disposizione parla di dignità “umana”, senza ulteriori specificazioni; anche da un punto di vista sistematico, ogni volta che la Costituzione usa il termine “uomo” o l’aggettivo derivato fa riferimento a tutti i consociati, indipendentemente dallo status sociale di ciascuno di loro428. Ovviamente non è possibile predeterminare i casi di potenziale contrasto tra l’iniziativa privata e la dignità di soggetti esterni all’impresa.

Deve essere infine affrontato il problema della precettività del limite della dignità umana. Secondo un orientamento dottrinale, infatti, l’art. 41, co. 2, Cost. conterrebbe un’implicita riserva di legge, con la conseguenza che sarebbe necessaria l’interpositio legislatoris per dare concretezza al limite in esame429. In tal senso si è espressa la Corte costituzionale nella sentenza n. 4 del 1962430, secondo cui l’esistenza della riserva di legge si desume «tanto dai principi generali informatori dell’ordinamento democratico,

422 Cfr. V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 256 s.; A. CERRI, Problemi generali della riserva di legge e misure restrittive della libertà economica, in Giur. cost., 1968, 2236

423 Cfr. V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 241; A. BALDASSARRE, Iniziativa economica privata, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, 600 s.; G. MORBIDELLI, Iniziativa economica privata, cit., 3; M. GIAMPIERETTI, Art. 41, cit., 406.

424 Cfr. G. SALERNO, Art. 41, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 292; U. NATOLI, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro. I. Introduzione, cit., 108.

425 Cfr. U. COLI, La proprietà e l’iniziativa privata, in P. CALAMANDREI – A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, cit., 364.

426 Cfr. R. CASILLO, La dignità nel rapporto di lavoro, in Riv. dir. civ., 2008, parte I, 597 s. 427 Cfr. P. BARILE, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, 131 ss.; A.

BALDASSARRE, Iniziativa economica privata, cit., 601 s. 428 Cfr. M. LUCIANI, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, cit., 190 ss.

Contra V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 237 ss.; F.S. MARINI, Il «privato» e la Costituzione. Rapporto tra proprietà ed impresa, Milano, 2000, 90.

429 Cfr. S. FOIS, Ancora sulla «riserva di legge» e la libertà economica privata, in Giur. cost., 1958, 1260 ss.; V. BACHELET, Criteri programmatici e fini sociali nelle leggi che limitano l’iniziativa economica privata, in Giur. cost., 1962, 641 ss.; A. CERRI, Problemi generali della riserva di legge e misure restrittive della libertà economica, cit., 2235 s.; F. GALGANO, La libertà di iniziativa economica privata nel sistema delle libertà costituzionali, in ID. (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. I (La Costituzione economica), Padova, 1977, 515; G. MORBIDELLI, Iniziativa economica privata, cit., 3 s.; R. NIRO, Art. 41, cit., 852 ss.

430 In Giur. cost., 1962, 31 ss., con osservazione di C. ESPOSITO, I tre commi dell’art. 41 della Costituzione, 33 ss.

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secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell’organo che trae da costoro la propria diretta investitura, quanto dall’esigenza che la valutazione relativa alla convenienza dell’imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro complessivo degli interventi statali nell’economia inserendolo armonicamente in esso, e, pertanto, debba competere al Parlamento, quale organo da cui emana l’indirizzo politico generale dello Stato» (punto 2 del Considerato in diritto). Questa posizione non può essere condivisa. Sicuramente l’intermediazione del legislatore può conferire maggiore determinatezza al limite in esame, data la sua genericità, e può realizzare un sistema normativo di tutela efficace della dignità umana dai pericoli derivanti dallo svolgimento dell’iniziativa privata. Nondimeno deve riconoscersi l’immediata precettività del limite, per cui esso può ricevere applicazione da parte dei giudici e dell’autorità amministrativa anche in assenza di una normativa apposita431.

Un esempio d’immediata applicazione dell’art. 41, co. 2, Cost. si rinviene nella sentenza del Pretore di Bologna del 20 novembre 1990, che, utilizzando congiuntamente l’art. 41, co. 2, Cost. e l’art. 2059 c.c., condanna un datore di lavoro a risarcire il danno non patrimoniale alla dignità umana derivante da un licenziamento illegittimo432. Nella sentenza il pretore afferma che per dignità deve intendersi «l’autocoscienza del singolo dei propri valori fondamentali come persona, quei valori, cioè, che ne guidano le azioni e che si tendono a trasmettere agli altri con contegni adeguati. Se questi valori possono diversificarsi secondo la strutturazione, anche culturale, di ciascun soggetto, un nucleo minimo e comune va ragionevolmente individuato in quei già richiamati pilastri fondamentali su cui si fonda il contratto sociale nello specifico momento storico. Ciò che equivale a dire: i diritti dell’individuo quali enunciati dalla Carta costituzionale e coi soli limiti degli identici diritti altrui». Il giudice accoglie quindi una visione della dignità come sintesi dei diritti costituzionali del singolo. Posta una simile premessa, considera il licenziamento de quo irrimediabilmente e gravemente offensivo della dignità dell’interessato, per forma, contenuto, tempi e modalità. Non si limita però a dichiararne l’illegittimità, ma condanna il datore di lavoro anche a risarcire il danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c. Quest’ultima disposizione impone il

431 Cfr. C. ESPOSITO, I tre commi dell’art. 41 della Costituzione, cit., 34 ss.; U. NATOLI, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro. I. Introduzione, cit., 97 s.; M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, cit., 156 s.; V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, cit., 241; M. LUCIANI, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, cit., 156 e 207 s., che tuttavia reputa l’immediata applicabilità del limite subordinata alla precettività delle singole situazioni giuridiche soggettive riassunte nel concetto di dignità umana; A. PACE, Iniziativa privata e governo pubblico dell’economia. Considerazioni preliminari, cit., 533; ID., L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, cit., 1616 ss.; G. ZILIO GRANDI, Anche la dignità umana ha un prezzo: licenziamento illegittimo e art. 41, 2º comma, Cost., in Giur. it., 1991, parte I, sez. II, 89; F.S. MARINI, Il «privato» e la Costituzione. Rapporto tra proprietà ed impresa, cit., 91 ss.

432 I dettagli della vicenda possono aiutare a comprendere meglio la decisione. Il licenziamento era stato intimato nei confronti di un lavoratore che viveva una particolare situazione familiare. Al figlio del lavoratore era stata diagnosticata una malattia mortale che richiedeva ricoveri ospedalieri periodici e cure continue. Per dedicarsi all’assistenza del figlio, il lavoratore era stato costretto a richiedere ripetutamente permessi non retribuiti e successivamente a trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in un rapporto part-time. L’impresa, che era stata messa a conoscenza dal lavoratore della situazione, aveva accolto le richieste. L’avanzare della malattia del figlio costringeva tuttavia il lavoratore ad assentarsi ulteriormente dal lavoro. L’impresa suggeriva quindi al lavoratore di chiedere una fase di aspettativa non retribuita. Il lavoratore, nel frattempo colpito anche dalla morte del padre, si diceva favorevole alla proposta, ma l’impresa, con una tempistica e con modalità poco chiare e corrette, risolveva il rapporto di lavoro.

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risarcimento del danno non patrimoniale nei soli casi determinati dalla legge. Secondo il pretore, il richiamo alla legge è soddisfatto nel caso di specie dall’art. 41, co. 2, Cost., che vieta all’iniziativa economica privata di arrecare danno alla dignità umana. Il combinato disposto della norma costituzionale e di quella codicistica consente al giudice di condannare l’impresa a risarcire il danno alla dignità causato dal licenziamento illegittimo. Si tratta di una condivisibile applicazione diretta del limite costituzionale, che ne conferma la precettività.

Nella pratica, comunque, la controversia sulla necessità dell’intermediazione legislativa ha ormai una scarsa rilevanza, poiché esiste un’ampia normativa il cui fondamento costituzionale si rinviene proprio nel limite di cui all’art. 41, co. 2, Cost.433. L’esame di questa normativa può contribuire a specificare il concetto di dignità umana e soprattutto a capire in quali settori e con quali modalità essa sia tutelata. Non essendo possibile offrire una panoramica completa, ci si soffermerà sui riferimenti di maggior rilievo.

Il primo di questi è addirittura anteriore alla Costituzione: l’art. 2087 c.c. stabilisce che «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Dalla norma si ricava un vero e proprio obbligo di protezione del datore di lavoro nei confronti del lavoratore434; tale obbligo non ha ad oggetto solo l’integrità fisica, ma anche la personalità morale del lavoratore, che può essere identificata con la dignità umana di cui parla la Carta fondamentale435. L’esistenza, in capo al datore di lavoro, di un generale dovere di protezione dei lavoratori, è stata sostenuta anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 312 del 1996436.

All’art. 2087 c.c. la giurisprudenza prevalente riconduce anche la tutela contro il mobbing437. Più specificamente, l’art. 2087 c.c. è invocabile nelle fattispecie di mobbing in cui ci sia l’avallo dell’imprenditore o che si fondino sul cattivo esercizio dei poteri di sovraordinazione gerarchica438. Nella decisione n. 359 del 2003439 la Consulta inquadra così il fenomeno: «È noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell’etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l’esistenza di uno o più soggetti attivi cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali comportamenti sia destinatario e vittima» (punto 4.1 del Considerato in diritto). Il

433 Cfr. M. GIAMPIERETTI, Art. 41, cit., 413. 434 Cfr. L. RIVA-SANSEVERINO, Art. 2087, in A. SCIALOJA – G. BRANCA (a cura di), Commentario

del Codice civile, VI ed., Bologna-Roma, 1986, 202; A. COCCHI, Art. 2087 c.c.: orientamenti giurisprudenziali sulla lesione della dignità del lavoratore, in Responsabilità civile e previdenza, 2012, 44.

435 Cfr. U. COLI, La proprietà e l’iniziativa privata, cit., 364 s.; M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, cit., 157, nota 16; M. MISCIONE, Art. 2087, in P. CENDON (diretto da), Commentario al Codice civile, vol. V, Torino, 1991, 73 s.; R. CASILLO, La dignità nel rapporto di lavoro, cit., 596 ss.; A. COCCHI, Art. 2087 c.c.: orientamenti giurisprudenziali sulla lesione della dignità del lavoratore, cit., 42.

436 In Giur. cost., 1996, 2575 ss. 437 Cfr. I. PICCININI, Sulla dignità del lavoratore, in Arg. dir. lav., 2005, 754 s. 438 Cfr. E. GRAGNOLI, Mobbing, in Dig. IV ed., Disc. priv., Sez. comm., Agg. II, Torino, 2003, 701. 439 In Giur. cost., 2003, 3709 ss., con osservazione di G.U. RESCIGNO, La Corte scambia i principi

fondamentali della materia per i principi fondamentali dell’oggetto, 3722 ss.

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mobbing lede il lavoratore sia nel suo diritto alla professionalità sia nella sua dignità440. Il collegamento con l’art. 41, co. 2, Cost. deriva dalla circostanza che il mobbing è spesso l’effetto di un certo modo di intendere l’organizzazione aziendale, caratterizzato da una visione autoritaria se non addirittura intimidatoria della vita in azienda441. Il problema è amplificato dalle nuove forme di organizzazione del lavoro, imperniate su fattori come la flessibilità e il decentramento produttivo, che aumentano l’insicurezza e la disparità tra le parti del contratto di lavoro e creano le condizioni per la diffusione del mobbing442.

Vengono poi in considerazione le disposizioni dello Statuto dei lavoratori che limitano e regolamentano le modalità di controllo della prestazione lavorativa da parte del datore di lavoro, con lo scopo di impedire che il vincolo di subordinazione superi la misura strettamente necessaria a soddisfare le esigenze dell’organizzazione produttiva443.

L’art. 2 St. lav. consente al datore di lavoro di impiegare guardie giurate solo per scopi di tutela del patrimonio aziendale, con la conseguenza che tali guardie non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono ai beni dell’azienda. Per lo stesso motivo le guardie giurate non possono essere adibite alla vigilanza sull’attività lavorativa, perciò non possono accedere ai locali in cui si svolge la prestazione lavorativa, durante l’espletamento di questa, salvo che per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di difesa del patrimonio aziendale.

L’art. 3 St. lav. dispone che i nominativi e le mansioni del personale di vigilanza dell’attività lavorativa siano comunicati ai lavoratori interessati. La norma ha lo scopo di evitare modalità subdole di controllo, lesive della dignità del lavoratore444.

L’art. 4 St. lav. vieta l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. È prevista un’eccezione per gli impianti richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro; qualora però simili apparecchiature consentano il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installate solo previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, la decisione spetta alle competenti sezioni delle direzioni regionali e provinciali del lavoro.

L’art. 5 St. lav. vieta al datore di lavoro di compiere accertamenti sull’idoneità e sull’infermità per malattia o infortunio del lavoratore: nel primo caso il controllo può essere effettuato solo da enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico; nel secondo dai servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti. Questo perché, ove l’accertamento fosse svolto dal datore o da personale medico di sua fiducia, l’esito potrebbe non essere imparziale e il lavoratore potrebbe trovarsi in una situazione d’inferiorità445.

Particolarmente invasive sono le visite personali di controllo sul lavoratore, che l’art. 6 St. lav. vieta tranne che nei casi in cui siano indispensabili per scopi di tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie

440 Cfr. R. CASILLO, La dignità nel rapporto di lavoro, cit., 615. 441 Cfr. E. GRAGNOLI, Mobbing, cit., 694. 442 Cfr. I. PICCININI, Mobbing (lavoro privato e pubblico), in Enc. giur., vol. XX, Roma, 2004, 9. 443 Cfr. A. CATAUDELLA, Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), in Enc. giur., vol. XI,

Roma, 2000, 2. 444 Cfr. A. CATAUDELLA, Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), cit., 3. 445 Cfr. A. CATAUDELLA, Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), cit., 6.

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prime o dei prodotti. In tali ipotesi la visita deve essere eseguita esclusivamente all’uscita dei luoghi di lavoro, con modalità in grado di salvaguardare la dignità e la riservatezza del lavoratore e con l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori. Si esclude, ad esempio, che la visita possa essere realizzata mediante palpazioni sulla persona del lavoratore, dovendo invece svolgersi tramite invito a esibire le cose portate addosso446. I casi in cui possono essere disposte le visite personali e le relative modalità devono comunque essere concordati dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore provvedono le competenti sezioni delle direzioni regionali e provinciali del lavoro. Chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale dell’art. 6 St. lav., nella sentenza n. 99 del 1980447 la Corte ha sostenuto che «Esso non è diretto a limitare la libertà, la dignità e l’onorabilità individuale del lavoratore nell’organizzazione aziendale, ma concorre a disciplinare l’attività collettiva dei facenti parte di tale organizzazione» (punto 3 del Considerato in diritto). Il rispetto della persona del lavoratore e della sua autonomia deriva dal carattere impersonale delle visite. La Consulta esclude quindi che si tratti di una compressione della libertà personale ricadente nell’ambito applicativo dell’art. 13 Cost., con la conseguenza che i controlli non possono mai essere imposti coattivamente, dovendo invece svolgersi con il consenso dell’interessato, soggetto, in caso di ingiustificato rifiuto, soltanto a responsabilità disciplinare.

Il bene della dignità umana è protetto anche dall’articolata disciplina antidiscriminatoria. In proposito si deve menzionare innanzitutto l’art. 43, co. 2, lett. e), del d.lgs. n. 286/1998, che vieta ogni atto o comportamento, compiuto dal datore di lavoro o dai suoi preposti, che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza a una razza, a un gruppo etnico o linguistico, a una confessione religiosa, a una cittadinanza. La disposizione precisa poi che «Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa».

In secondo luogo, va ricordato il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, attuativo della direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. L’ambito di applicazione di questa normativa è vasto e comprende, tra l’altro, le aree dell’accesso all’occupazione e al lavoro, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, l’occupazione e le condizioni di lavoro, inclusi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento (art. 3, co. 1, lettere a e b). L’art. 2 sancisce il principio della parità di trattamento, che si sostanzia nel divieto di qualsiasi discriminazione diretta e indiretta. La discriminazione diretta si verifica «quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga» (art. 2, co. 1, lett. a). La discriminazione è invece indiretta «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (art. 2, co. 1, lett. b). Ai sensi del terzo comma dell’art. 2 sono altresì considerate discriminazioni le molestie, ovvero

446 Cfr. A. CATAUDELLA, Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), cit., 7. 447 In Giur. cost., 1980, parte I, 765 ss.

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«quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante umiliante od offensivo». È infine ritenuto discriminatorio l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica (art. 2, co. 4). Il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, attuativo della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, detta identiche prescrizioni per contrastare le discriminazioni basate sulla religione, sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull’età e sull’orientamento sessuale.

Sostanzialmente analoghe sono le previsioni sul divieto di discriminazione in base al genere, ora contenute nel d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198. In particolare, l’art. 25 prevede che «Costituisce discriminazione diretta […] qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta […] quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Costituisce discriminazione […] ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti».

L’art. 26, che definisce le molestie, ricalca le disposizioni dei decreti legislativi citati, aggiungendo però alcune specificazioni. In primo luogo definisce anche le molestie sessuali, ovvero «quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» (art. 26, co. 2). In secondo luogo, precisa che si considerano discriminatori pure i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato le molestie o le molestie sessuali o di esservisi sottomessi (art. 26, co. 2-bis). Dispone infine che gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime di molestie o di molestie sessuali sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti vietati e che costituiscono discriminazioni anche i trattamenti sfavorevoli messi in atto dal datore di lavoro in reazione a un reclamo o a un’azione volta a ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne (art. 26, co. 3).

I divieti di discriminazione si applicano ai settori dell’accesso al lavoro, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, della formazione e dell’aggiornamento professionale (art. 27), delle condizioni retributive (art. 28), dell’attribuzione di qualifiche e mansioni e della progressione di carriera (art. 29)448.

448 Sono previsti altri settori, che però non sono riconducibili alle ipotesi di protezione della dignità

umana ex art. 41, co. 2, Cost.

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La normativa illustrata, pur nella varietà di sfumature determinate dai diversi motivi di discriminazione449, assume come bene da proteggere la dignità umana450. Ciò incide sulla stessa nozione di discriminazione, che non è più concepita come semplice violazione del principio di uguaglianza, ma come lesione diretta della dignità umana. La conseguenza ulteriore di questa evoluzione è il superamento del momento comparativo, che non è più condizione indefettibile del giudizio sull’accertamento della discriminazione. Questa conclusione è suffragata da alcuni elementi. Già nella nozione di discriminazione diretta, fornita dagli artt. 2 del d.lgs. n. 215/2003 e 2 del d.lgs. n. 216/2003, si prende quale parametro non soltanto l’attuale trattamento più favorevole di un lavoratore rispetto a quello discriminato, ma anche un trattamento passato o addirittura potenziale, come si deduce dall’espressione «sia stata o sarebbe trattata». La comparazione può allora essere non contestuale e perfino ipotetica e tale dato segna una prima innovazione nella struttura tradizionale della tutela antidiscriminatoria, che presupporrebbe il raffronto tra due soggetti al fine di rilevare il trattamento deteriore dell’uno rispetto all’altro451. In altre parole, è attenuato il carattere relazionale del concetto di discriminazione, consistente nel confronto tra il gruppo sociale maggioritario e l’individuo che sostiene di aver subito un trattamento diverso per motivi vietati dalla legge452. Una simile novità non si riscontra nella nozione di discriminazione diretta di cui all’art. 25, co. 1, del d.lgs. n. 198/2006, che parla di «situazione analoga»453.

Il giudizio sul ridimensionamento della comparazione è confermato dalla definizione di discriminazione indiretta, che in tutte le normative citate, ad eccezione dell’art. l’art. 43, co. 2, lett. e), del d.lgs. n. 286/1998, fa leva sulla natura potenziale dello svantaggio arrecato alla vittima della discriminazione, come si desume dalla locuzione «possono mettere»454. Ciò significa che il disparate impact, che connota comportamenti apparentemente neutri e dà origine alla discriminazione indiretta, può sussistere anche se gli appartenenti al medesimo gruppo sociale dell’individuo svantaggiato non abbiano subito in una specifica situazione un pregiudizio concreto455.

449 Cfr. M. BELL – L. WADDINGTON, Diversi eppure eguali. Riflessioni sul diverso trattamento delle

discriminazioni nella normativa europea in materia di eguaglianza, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2003, 377.

450 Cfr. F. GUARRIELLO, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2003, 344; A. GENTILI, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., 216; C. BALDASSARRE, Il principio di non discriminazione nella prassi giurisprudenziale: una rassegna critica, in Riv. crit. dir. priv., 2012, 343 s.

451 Cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2003, 411; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 95.

452 Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 92. Contra D. IZZI, Discriminazione senza comparazione? Appunti sulle direttive comunitarie «di seconda generazione», in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2003, 425 ss.

453 Cfr. L. CALAFÀ, Discriminazioni e molestie: il recepimento italiano della direttiva 2002/73, in Studium iuris, 2006, 844.

454 Cfr. S. ROSSI, Law in action: diritto antidiscriminatorio e politiche locali, in Responsabilità civile e previdenza, 2010, 2546.

455 Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 95.

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La comparazione è poi completamente assente nelle nozioni di molestie e di molestie sessuali, poste a garanzia immediata della dignità umana456. In tal caso, infatti, non è in gioco la parità di trattamento, ma l’idoneità dell’atto a ledere l’interesse protetto457. Questo perché le norme menzionate sembrano sottendere un’idea della dignità come diritto a essere diversi, invece che come diritto a un eguale trattamento. Tenendo conto di tali indicazioni, si può definire il bene protetto come il «diritto alla libera costruzione di sé e alla scelta delle proprie modalità di vita, in conformità all’appartenenza ad uno dei gruppi sociali svantaggiati che il legislatore tutela contro ogni discriminazione»458.

L’affievolimento del momento comparativo e l’utilizzo della dignità come criterio di selezione dei comportamenti sanzionati459 hanno l’indubbio vantaggio di ampliare la tutela della vittima, alleggerendone l’onere della prova, ma comportano anche effetti negativi. Come si è visto in altre occasioni, il ricorso a un concetto indeterminato quale la dignità umana accresce il margine di discrezionalità del giudice e può minare la certezza del diritto460. Ci si chiede, in particolare, se nel caso di molestie l’offesa alla dignità debba essere valutata dal punto di vista “soggettivo” della vittima o dal punto di vista “oggettivo” del giudice, che ricostruisce la nozione di dignità in base alle convinzioni diffuse nella comunità sociale cui appartiene461. Per superare la difficoltà e conciliare i due aspetti, si è proposto un test in due stadi: in una prima fase, il giudice dovrebbe valutare se il comportamento sia indesiderato nella prospettiva della vittima; in un secondo momento dovrebbe stabilire se il comportamento abbia leso la dignità, assumendo come parametro la ragionevolezza di un individuo medio appartenente al medesimo gruppo sociale del soggetto molestato462. Per ridurre l’incertezza la giurisprudenza ha elaborato una casistica, che ad esempio comprende tra le molestie sessuali gli apprezzamenti allusivi, le battute a sfondo sessuale, gli inviti a cena tendenziosi, le telefonate continue con accenti sessuali, gli approcci tramite baci e le proposte di approccio463.

456 Cfr. J. CRUZ-VILLALÓN, Lo sviluppo della tutela antidiscriminatoria nel diritto comunitario, in

Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2003, 355; A. BARACCHI, «Molestie» per ragioni di razza e normativa antidiscriminatoria, in Rivista critica di diritto del lavoro privato e pubblico, 2012, 494.

457 Cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, cit., 412; A. CAVALLO, La tutela del lavoratore contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, 270.

458 Così D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 97, il quale aggiunge che un approccio del genere suggerisce un mutamento culturale che induca a valutare la discriminatorietà di un atto in base al sistema di valori del gruppo svantaggiato e non di quello del gruppo sociale dominante.

459 Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 75.

460 Cfr. D. IZZI, Discriminazione senza comparazione? Appunti sulle direttive comunitarie «di seconda generazione», cit., 428 s.

461 Cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, cit., 415 s.

462 Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 276; F. FONTANA, Molestie sessuali sul luogo di lavoro e funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non patrimoniale, in Arg. dir. lav., 2013, 136, secondo cui bisogna prima accertare l’esistenza di un’ingiustificata afflizione patita dalla vittima e poi l’idoneità oggettiva della condotta a ledere la dignità.

463 Cfr. A. CAVALLO, La tutela del lavoratore contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, cit., 270.

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Nonostante questi accorgimenti, il rischio della scarsa prevedibilità delle decisioni giudiziarie permane almeno nei casi più controversi, essendo connaturato al concetto di dignità umana. Il giudizio complessivo sulla normativa analizzata è comunque positivo perché, ferma restando la necessità di perfezionare la disciplina, permette una tutela adeguata della dignità del lavoratore. Si ricordi, peraltro, che il datore di lavoro non solo deve astenersi da comportamenti discriminatori, ma, in virtù dell’art. 2087 c.c., deve adottare misure che consentano di prevenire atti del genere da parte dei lavoratori dell’impresa e sanzionarli qualora si verifichino464. In conclusione, il sistema delineato, adottato in attuazione della normativa comunitaria, si pone in linea con l’intento garantistico che anima l’art. 41, co. 2, Cost.465.

Una volta esaminate le diverse direzioni in cui si sviluppa il limite della dignità umana, si può dire che, in linea generale, si fondano sull’art. 41, co. 2, Cost. tutte le prescrizioni che tendano a “umanizzare” la prestazione lavorativa e a limitare, o in alcuni casi addirittura vietare, l’attività economica, in quanto lesiva della dignità dei lavoratori dell’impresa o di terzi che entrino in contatto con essa. All’art. 41, co. 2, Cost. sono state ricondotte anche le regole in tema di reintegrazione del lavoratore licenziato illegittimamente (c.d. tutela reale)466, ma la Corte costituzionale lo ha escluso nella sentenza n. 419 del 2000467, in cui si afferma che l’invocato parametro costituzionale, posto a tutela dei diritti fondamentali della persona nello svolgimento delle attività produttive, non si estende alla tutela del posto di lavoro.

Dalla giurisprudenza costituzionale possono ricavarsi ulteriori indicazioni sul concetto di dignità umana utilizzato dall’art. 41, co. 2, Cost. Invero la maggior parte delle decisioni riguarda gli altri limiti, soprattutto quello dell’utilità sociale, o i controlli di cui al terzo comma468, ma non mancano pronunce sul limite in esame.

464 Cfr. A. CAVALLO, La tutela del lavoratore contro le molestie sessuali sul luogo di lavoro, cit.,

272; A. COCCHI, Art. 2087 c.c.: orientamenti giurisprudenziali sulla lesione della dignità del lavoratore, cit., 43 e 49.

465 Cfr. M. CENTINI, La tutela contro gli atti di discriminazione: la dignità umana tra il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazioni soggettive, cit., 2448.

466 Cfr. C. DE FIORES, L’incoerente decisione della Corte costituzionale sulla libertà di licenziare. Osservazioni sulla sent. cost. n. 46/2000, in Giur. it., 2000, 1552.

467 In Giur. cost., 2000, 3117 ss., con osservazione di A. CELOTTO, La Corte costituzionale inspiegabilmente torna indietro di cinque anni (la conversione in legge torna a “sanare” ogni vizio proprio del decreto-legge!), 3152 ss.

468 V., ex plurimis, le sentenze nn. 29 del 1957 (in Giur. cost., 1957, 404 ss.), 33 del 1957 (in Giur. cost., 1957, 429 ss.), 50 del 1957 (in Giur. cost., 1957, 621 ss.), 103 del 1957 (in Giur. cost., 1957, 1001 ss.), 78 del 1958, 32 del 1959 (in Giur. cost., 1959, 394 ss.), 35 del 1959 (in Giur. cost., 1959, 667 ss.), 4 del 1962, 5 del 1962 (in Giur. cost., 1962, 40 ss., con osservazione di C. ESPOSITO, Gli articoli 3, 41, 43 della Costituzione e le misure legislative e amministrative in materia economica, 48 ss.), 54 del 1962 (in Giur. cost., 1962, 640 ss., con osservazione di V. BACHELET, Criteri programmatici e fini sociali nelle leggi che limitano l’iniziativa economica privata, cit.), 46 del 1963 (in Giur. cost., 1963, 177 ss., con osservazione di A. PREDIERI, In tema di pianificazioni agrarie e riserva di legge, 180 ss.), 144 del 1970 (in Giur. cost., 1970, 1650 ss., con osservazione di A. CASSESE, Principio di eguaglianza e assunzione al lavoro di stranieri, 1653 ss.), 20 del 1980 (in Giur. cost., 1980, parte I, 171 ss.), 229 del 1982 (in Giur. cost., 1982, parte I, 2274 ss.), 42 del 1986 (in Giur. cost., 1986, parte I, 330 ss.), 531 del 1990 (in Giur. cost., 1990, 3063 ss.), 63 del 1991 (in Giur. cost., 1991, 455 ss., con osservazione di S. NICCOLAI, Sull’utilizzo del principio dell’utilità sociale in una sentenza sulla panificazione, 472 ss.), 270 del 2010 (in Giur. cost., 2010, 3251 ss., con osservazione di M. LIBERTINI, I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza: il caso del «decreto Alitalia», 3296 ss.), 244 del 2011 (in Giur. cost., 2011, 3118 ss.).

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Nella sentenza n. 125 del 1963469 si ritiene conforme all’art. 41, co. 2, Cost. l’art. 110, commi terzo, quarto e quinto, del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (“Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”), che vietava di concedere licenze per l’uso, nei locali pubblici o aperti al pubblico, di apparecchi o congegni automatici da gioco o da trattenimento di qualsiasi specie470. Per spiegare la ratio della norma, la Corte precisa che essa ha radici in esigenze sociali: «non favorire il giuoco puramente aleatorio, anche se non d’azzardo nel senso accolto dal Codice penale; prevenire reati; tutelare le libertà cui accenna l’art. 41 della Costituzione, messe in pericolo dal diffondersi di quei reati; impedire che la dignità umana ricevesse offesa dallo sterile impiego dell’autonomia individuale» (punto 2 del Considerato in diritto). In un passo successivo il Giudice delle leggi ribadisce che la normativa risponde sia ad esigenze di prevenzione dei reati, che potrebbero essere il risultato di tendenze antisociali alimentate dagli apparecchi vietati, sia ad istanze di salvaguardia della moralità pubblica. Dalle parole della Corte emerge una concezione oggettiva della dignità umana, che ammette limitazioni dell’autonomia individuale e nel caso di specie dell’iniziativa economica privata471. In assenza di specificazioni da parte dell’art. 41 Cost. e di indicazioni ricavabili dai lavori preparatori della disposizione, la lettura oggettiva proposta dal giudice costituzionale sembra plausibile, purché sia ovviamente limitata al contesto dell’art. 41 Cost. Da rigettare è invece il richiamo alla moralità pubblica, nozione ancor più indeterminata della dignità umana e arbitrariamente ricostruibile dall’interprete.

469 In Giur. cost., 1963, 1393 ss. 470 L’intero art. 110 è stato poi sostituito dall’art. 22, co. 3, della l. 27 dicembre 2002, n. 289, che ha

subito a sua volta numerose modifiche. 471 Questa concezione oggettiva è emersa in maniera evidente negli ordinamenti tedesco e francese

nelle sentenze adottate in due noti casi, quello del “peep-show” e quello del “lancio dei nani”. Il “peep-show” è uno spettacolo erotico che si svolge in cabine i cui pannelli si aprono solo previo inserimento di gettoni o monete e consentono di vedere esclusivamente dall’esterno verso l’interno. Nonostante il consenso delle spogliarelliste, il Bundesverwaltungsgericht, nella sentenza del 15 dicembre 1981 (in Neue Juristische Wochenschrift, 1982, 664), ha ritenuto tale spettacolo obiettivamente degradante e in contrasto con la dignità umana, il cui rispetto s’impone anche al suo titolare ed è irrinunciabile. Il “lancio dei nani” è invece uno spettacolo consistente nell’utilizzo di persone affette da nanismo come “proiettili umani”, che vengono sparati da un cannone. Il nano è ovviamente consenziente ed equipaggiato con protezioni che escludono qualsiasi pericolo per la sua incolumità. Il Conseil d’État, nella sentenza del 27 ottobre 1995 (in Dalloz, 1996, jurisprudence, 177), ha considerato questo “gioco” offensivo della dignità umana e ha pertanto reputato legittimo il divieto disposto per motivi di ordine pubblico dai sindaci dei Comuni di Ville d’Aix-en-Provence e di Morsang-sur-Orge, nell’esercizio delle funzioni di polizia municipale. Secondo il Consiglio di Stato francese, la dignità umana è una componente dell’ordine pubblico e prevale anche sulla libertà di lavoro e su quella del commercio e dell’industria. In entrambi i casi, la dottrina ha rilevato il pericolo di un uso paternalistico del concetto di dignità. Per un approfondimento, v. G. RESTA, Disponibilità dei diritti fondamentali e commercializzazione: prime note sul «sistema» della Carta dei diritti, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DI DIRITTO COMPARATO, I diritti fondamentali in Europa. XV Colloquio biennale (Messina-Taormina, 31 maggio-2 giugno 2001), cit., 232 ss.; F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, cit., 607 ss.; L. BIANCHI, Dentro o fuori il mercato? «Commodification» e dignità umana, in Riv. crit. dir. priv., 2006, 510 ss.; G. PIEPOLI, Tutela della dignità e ordinamento della società secolare europea, in Riv. crit. dir. priv., 2007, 29; M.R. MARELLA, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, cit., 72 ss.; G. CRICENTI, Il lancio del nano. Spunti per un’etica del diritto civile, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 21 ss.; M. RUOTOLO, Appunti sulla dignità umana, cit., 3144 ss.; G. AZZONI, Dignità umana e diritto privato, cit., 94 s.; G. GEMMA, Costituzionalismo liberaldemocratico e dignità imposta, in Ragion pratica, 2012, 140 ss.; F. BELVISI, Dignità umana: una ridefinizione in senso giuridico, in Ragion pratica, 2012, 164 s.

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Una questione analoga è oggetto della decisione n. 12 del 1970472, riguardante il divieto di uso, nei luoghi pubblici o aperti al pubblico e nei circoli ed associazioni di qualunque specie, di apparecchi o congegni con ripetizione o prolungamento di partita. Confermando la sua precedente giurisprudenza, la Corte stabilisce che «La libertà di iniziativa economica privata (che nella specie si atteggia come libertà di costruire, vendere o noleggiare quegli apparecchi o congegni da giuoco) risulta legittimamente limitata con il divieto di usare codesti apparecchi o congegni. Appare, infatti, quanto mai opportuno o addirittura necessario che non venga favorito il giuoco aleatorio anche se non d’azzardo e che i cittadini ed in particolare i giovani non diano vita a situazioni o comportamenti (perdita di tempo e di denaro, dedizione all’ozio, vita in comune con persone disponibili anche per attività moralmente e socialmente riprovevoli, ecc.) non del tutto compatibili con il rispetto della stessa dignità umana. Ed è giustificato e razionale che il legislatore abbia sancito il ripetuto divieto, posto che l’uso degli apparecchi e congegni di cui si discute, avrebbe potuto determinare o comunque agevolare tendenze antisociali» (punto 5 del Considerato in diritto). Alle pronunce citate può essere accostata anche la n. 237 del 1975473, che reputa giustificata alla luce dell’art. 41, co. 2, Cost. la repressione penale del gioco d’azzardo.

Una riprova della visione oggettiva che la Corte ha della dignità umana si trae dalla sentenza n. 479 del 1987474, in cui si afferma che «il legislatore bene può imporre limitazioni all’iniziativa economica privata in vista della tutela della salute, della sicurezza e della dignità umana dello stesso soggetto esercente l’attività» (punto 3 del Considerato in diritto)475. Come già detto, l’affermazione è ammissibile, purché la dignità non diventi lo strumento per annullare l’iniziativa economica privata in ragione di una presunta morale comune, inevitabilmente esposta al rischio di un appiattimento sulle convinzioni dell’interprete. Si tratta, in altri termini, di una questione di ragionevolezza della misura adottata dal legislatore, da valutare caso per caso, non essendo possibile individuare criteri validi in astratto.

Alcune sentenze concernono infine diritti e istituti che tutelano la dignità umana. Rientrano in questa categoria la decisione n. 27 del 1969, in cui la nullità del licenziamento intimato per causa di matrimonio è considerata funzionale all’esigenza di proteggere la libertà e la dignità umana; la sentenza n. 309 del 1992476, che collega alla dignità umana la tutela contro il licenziamento intimato senza l’atto scritto, contro il licenziamento discriminatorio e contro il licenziamento disciplinare disposto senza l’osservanza di garanzie procedimentali previste dalla legge; le pronunce nn. 111 del 1974477 e 94 del 1976478, che reputano l’esigenza di proteggere la dignità alla base del diritto del lavoratore al riposo settimanale, invero già autonomamente riconosciuto dall’art. 36, co. 3, Cost.; le sentenze nn. 427 del 1989479 e 586 del 1989480, secondo le quali la protezione della libertà e della dignità del lavoratore rappresenta il fondamento delle garanzie previste dall’art. 7 St. lav. avverso l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, in realtà maggiormente riconducibili al diritto di difesa (art. 24

472 In Giur. cost., 1970, 105 ss. 473 In Giur. cost., 1975, 2236 ss. 474 In Giur. cost., 1987, parte I, 3248 ss. 475 Un precedente si rinviene nell’arresto n. 21 del 1964, in Giur. cost., 1964, 184 ss. 476 In Giur. cost., 1992, 2580 ss. 477 In Giur. cost., 1974, 789 ss. 478 In Giur. cost., 1976, parte I, 519 ss. 479 In Giur. cost., 1989, parte I, 1980 ss. 480 In Giur. cost., 1989, parte I, 2697 ss.

143

Cost.)481; l’ordinanza n. 186 del 1996482, in cui si dice che gli obblighi di comunicazione della quantità e qualità dei rifiuti prodotti o smaltiti trovano «specifico fondamento nell’art. 41, secondo comma, della Costituzione per il quale l’iniziativa economica privata deve svolgersi in modo da garantire “la sicurezza, la libertà e la dignità umana” da ricollegarsi anche alla tutela dell’ambiente»; la sentenza n. 113 del 2004483, in cui la Corte sottolinea l’importanza dell’art. 2103 c.c.484 ed evidenzia che il demansionamento del lavoratore può cagionare «danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell’ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo» (punto 4 del Considerato in diritto). In realtà pare che il demansionamento, quando non sia parte di una più ampia fattispecie di mobbing, arrechi pregiudizio alla dignità professionale del lavoratore e non alla sua dignità umana. La dignità professionale non riguarda l’uomo in quanto tale ma un suo status, in questo caso socialmente definito in virtù della professionalità esplicata485.

La disamina compiuta dimostra che il limite della dignità umana ex art. 41, co. 2, Cost., pur nella sua genericità e pur nel ridimensionamento complessivo subito dall’articolo de quo, non è privo di potenzialità applicative, a condizione però che non sia generalizzato e considerato un limite generale a tutti i diritti previsti dalla Costituzione.

7. Esecuzione della pena e dignità umana (art. 27, co. 3, Cost.) Come anticipato, il concetto di dignità è rintracciabile non solo nelle disposizioni

costituzionali che esplicitamente utilizzano il relativo termine, ma anche in alcune norme che implicitamente rimandano all’idea di dignità.

481 Cfr. anche le sentenze nn. 220 del 1995 (in Giur. cost., 1995, 1642 ss., con osservazione di A.

CERRI, Dalla garanzia del «giusto procedimento» in sede disciplinare al criterio della «proporzionalità»: spunti problematici e riflessioni a partire da un’interessante sentenza della Corte, 1648 s.) e 394 del 1998 (in Giur. cost., 1998, 3373 ss.), in cui si afferma che l’esercizio del potere disciplinare, essendo idoneo a incidere sulla dignità della persona nell’ambito della sua comunità di lavoro, deve sottostare a una serie di garanzie procedimentali.

482 In Giur. cost., 1996, 1719 ss. 483 In Giur. cost., 2004, 1167 ss. 484 Il primo periodo dell’art. 2103 c.c. stabiliva che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle

mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione». L’art. 2103 è stato, peraltro, recentemente riformulato dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 ed ora prevede che «Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi […]».

485 Cfr. R. CASILLO, La dignità nel rapporto di lavoro, cit., 605.

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Il primo riferimento da analizzare è contenuto nell’art. 27, co. 3, Cost., secondo cui «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Sebbene l’articolo parli di “senso di umanità” e non di dignità umana, le due espressioni possono ritenersi equivalenti: se l’idea di dignità riassume la specificità dell’essere umano, non vi è allora differenza concettuale tra il senso di umanità e il senso della dignità umana. La fungibilità dei due concetti è confermata anche dall’esame dei lavori preparatori della disposizione.

Nella seduta del 12 dicembre 1946 della seconda sezione della seconda Sottocommissione della “Commissione dei 75” viene approvato un articolo che così recita: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità della personalità umana»486. La formulazione è poi modificata dal Comitato di redazione, ma nella seduta antimeridiana del 25 gennaio 1947 della Commissione per la Costituzione, riunita in adunanza plenaria, i deputati Nobile e Terracini propongono un emendamento del seguente tenore: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana»487. L’emendamento non è approvato, tuttavia il Presidente Ruini precisa che nell’espressione “senso di umanità” è compreso anche il concetto di dignità umana488.

Nella seduta del plenum dell’Assemblea costituente del 26 marzo 1947 l’onorevole Bettiol chiarisce il senso della disposizione e afferma che «la pena deve umanizzarsi, che la pena, particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l’individuo»489. Nello stesso tempo Bettiol sottolinea come la situazione delle carceri italiane sia assai poco rispondente all’ideale dell’umanizzazione della pena; in senso analogo si esprimono, nella medesima seduta, il deputato Preziosi490 e, nelle sedute successive, i deputati Giovanni Leone491, Pietro Mastino492, Fusco493, Veroni494 e Tupini495. Si tratta di un problema protrattosi ben oltre l’entrata in

486 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di giovedì 12 dicembre 1946, in CAMERA DEI DEPUTATI

– SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VIII, cit., 1908.

487 Cfr. il Resoconto sommario della seduta antimeridiana di sabato 25 gennaio 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VI, cit., 181.

488 Cfr. il Resoconto sommario della seduta antimeridiana di sabato 25 gennaio 1947, cit., 182. 489 Così G. BETTIOL, nel Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 26 marzo 1947, in

CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 675.

490 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 26 marzo 1947, cit., 685, nella quale l’onorevole Preziosi dichiara che «in Italia vi è un sistema carcerario che non so quanti epiteti di vergogna meriterebbe».

491 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di giovedì 27 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 702.

492 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di giovedì 27 marzo 1947, cit., 712. 493 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di venerdì 28 marzo 1947, in CAMERA

DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 739.

494 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di sabato 29 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 750, in cui l’onorevole Veroni sottolinea, in relazione alla situazione delle carceri, che «le deficienze sono enormi e che le condizioni degli stabilimenti carcerari sono considerevolmente peggiori di quello che il Paese può sapere e conoscere».

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vigore della Costituzione e che è stato evidenziato nella sua drammaticità da alcune recenti condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v. infra).

Si delinea a questo punto il nodo centrale della tematica della pena conforme alla dignità umana: il divario esistente tra la proclamazione costituzionale e la realtà degli istituti penitenziari italiani496. Il significato dell’art. 27, co. 3, Cost. è infatti sufficientemente chiaro e dà origine a un vero e proprio principio di umanizzazione della pena497. Esso impone che, nonostante la restrizione della libertà personale connaturata al regime detentivo, la dignità del detenuto sia rispettata e rimanga integra498. Ciò, da un lato, esclude la legittimità di pene corporali e di tecniche di manipolazione della personalità499; dall’altro, esige che anche le pene compatibili con il disegno costituzionale, e in special modo la reclusione, siano eseguite in maniera tale da non arrecare al reo sofferenze ulteriori rispetto a quelle inevitabilmente connesse alla limitazione della libertà personale.

La Corte costituzionale, sebbene si sia pronunciata soprattutto sull’aspetto della finalità rieducativa della pena500 e sulla problematica dei diritti dei detenuti501, ha contribuito a definire il principio in esame. Innanzitutto, nella sentenza n. 12 del 1966502 ha sottolineato che l’umanità della pena e il suo scopo rieducativo devono essere letti congiuntamente, perché formano un contesto unitario e inscindibile. Più specificamente,

495 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di sabato 29 marzo 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI –

SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, cit., 905.

496 Cfr. I. NICOTRA, Pena e reinserimento sociale, in Rivista AIC, n. 2/2014 (30 maggio 2014), 6; G.M. FLICK, I diritti dei detenuti nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. soc., 2012, 187, che stigmatizza il contrasto tra gli obiettivi costituzionali di rieducazione, legalità e rispetto della dignità ed una realtà per nulla conforme a quelle finalità. Bisogna tuttavia precisare che di recente sono stati compiuti alcuni passi in avanti, come s’illustrerà in seguito.

497 Cfr. R. D’ALESSIO, Art. 27, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 196; M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, 6 s.; ID., Dignità e carcere, Napoli, 2011, 51.

498 Cfr. G. SILVESTRI, La dignità umana dentro le mura del carcere, in Rivista AIC, n. 2/2014 (30 maggio 2014), 1.

499 Cfr. P. PITTARO, Art. 27, in S. BARTOLE – R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, cit., 281, anche per ulteriori riferimenti bibliografici.

500 V., ex plurimis, le sentenze nn. 109 del 1997 (in Giur. cost., 1997, 1033 ss., con osservazione di G. RANALDI, Diversificare l’esecuzione penale per gli adulti dall’esecuzione penale per i minori: un’esigenza costituzionale, 2020 ss.), 324 del 1998 (in Giur. cost., 1998, 2355 ss.), 73 del 2001 (in Giur. cost., 2001, 473 ss., con osservazione di F. GIUNCHEDI, Partecipazione del responsabile civile e tutela sostanziale dell’imputato tra esigenze di sistema e reinterpretazione di scopi, 481 ss.), 78 del 2007. In dottrina, v., per tutti, G. FIANDACA, Art. 27, 3º comma, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1991, 222 ss.

501 V., ex plurimis, le decisioni nn. 414 del 1991 (in Giur. cost., 1991, 3540 ss., con osservazione di R. D’ALESSIO, Un passo indietro della Corte nel riconoscimento dell’obiezione di coscienza?, 3550 s.), 49 del 1992 (in Giur. cost., 1992, 277 ss.), 158 del 2001 (in Giur. cost., 2001, 1264 ss., con osservazione di A. MORRONE, Il diritto alle ferie per i detenuti, 1270 ss.), 341 del 2006 (in Giur. cost., 2006, 3377 ss., con osservazione di F. FIORENTIN, Tutela laboristica del detenuto e ruolo del magistrato di sorveglianza alla luce della sent. cost. n. 341 del 2006, 3385 ss.), 266 del 2009 (in Giur. cost., 2009, 3766 ss., con osservazione di C. RENOLDI, Una nuova tappa nella «lunga marcia» verso una tutela effettiva dei diritti dei detenuti, 3779 ss.), 135 del 2013 (in Giur. cost., 2013, 2073 ss., con osservazioni di M. RUOTOLO, The domestic remedies must be effective: sul principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, 2084 ss. e di C. FIORIO, Poteri dell’amministrazione penitenziaria e sindacato di giurisdizionalità, 2092 ss.). In dottrina, v., per tutti, M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, cit.

502 In Giur. cost., 1966, 143 ss., con osservazione di A. SIGISMONDI, Pene pecuniarie e funzione rieducativa, 146 ss.

146

la Corte ha affermato che «le due proposizioni sono congiunte non soltanto per la loro formulazione letterale, ma anche perché logicamente in funzione l’una dell’altra. Da un lato infatti un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato; dall’altro è appunto in un’azione rieducativa che deve risolversi un trattamento umano e civile, se non si riduca a una inerte e passiva indulgenza». Nella pronuncia n. 165 del 1996503 il Giudice delle leggi ha aggiunto che il criterio dettato dall’art. 27, co. 1, Cost. deve permeare tutta l’organizzazione carceraria e l’applicazione delle norme ad essa relative; nel medesimo arresto, però, la Corte specifica anche che «perché la stessa restrizione in carcere possa ritenersi contraria al senso di umanità deve verificarsi una situazione di vera e propria incompatibilità tra regime carcerario, comunque disciplinato, e condizioni soggettive del condannato» (punto 4 del Considerato in diritto). Nella sentenza n. 26 del 1999 la Consulta delinea il legame esistente tra la dignità del detenuto e i suoi diritti costituzionali, nel momento in cui evidenzia che «La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso – anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile – è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale» (punto 3.1 del Considerato in diritto). I due profili, sebbene inestricabilmente connessi504, si prestano a una trattazione separata. In questa sede non si può che limitare l’analisi alla questione della dignità della condizione detentiva.

Proprio in tale ambito si registra il menzionato contrasto tra la formula costituzionale e la realtà delle carceri italiane. In effetti, l’ordinamento penitenziario italiano ha vissuto diverse stagioni, in cui il principio di umanizzazione della pena è stato attuato o ridimensionato in base alle contingenti esigenze di politica criminale. Fino al 1975 è rimasto in vigore il “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena”, adottato con r.d. 18 giugno 1931, n. 787. Improntato alla logica autoritaria del regime fascista, il regolamento si soffermava soprattutto sulla dimensione organizzativa e sull’istanza di disciplina ad essa sottesa505. Il regolamento rifletteva inoltre un modello culturale fondato sull’utilizzo delle privazioni e delle sofferenze fisiche come strumenti di correzione del reo506.

Una svolta si realizza con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), che dà attuazione ai principi costituzionali e, in maniera anche più

503 In Giur. cost., 1996, 1519 ss., con osservazione di L. IANNUZZI, Detenzione domiciliare ed entità

della pena, 1527 ss. 504 Cfr. G. SORRENTI, La densità delle carceri: dalle condanne della Corte EDU alla decisione della

Corte costituzionale, fino al “seguito” legislativo interno, in Consulta online, 6 marzo 2014, 5; F. VIOLA, I diritti in carcere, in Rivista AIC, n. 2/2014 (30 maggio 2014), 1 ss.; I. NICOTRA, Pena e reinserimento sociale, cit., 7 s.; G.M. FLICK, I diritti dei detenuti nella giurisprudenza costituzionale, cit., 191 ss.; M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, cit., 6 ss.; ID., Dignità e carcere, cit., 69 s.

505 Cfr. V. GREVI – G. GIOSTRA – F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, Padova, 1997, 5.

506 Cfr. G. DI GENNARO – R. BREDA – G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione. Commento alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni, con riferimento al regolamento di esecuzione e alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, Milano, 1997, 3.

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incisiva dell’art. 27, co. 3, Cost.507, sancisce che «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona» (art. 1, co. 1). Il nuovo ordinamento penitenziario mette al centro la figura del detenuto e le sue esigenze di trattamento508. Le modalità del trattamento sono ispirate ai criteri indicati dall’art. 1: l’assoluta imparzialità e il divieto di discriminazione; il divieto di restrizioni non indispensabili a fini giudiziari; il principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva; lo scopo rieducativo della pena, che deve mirare al reinserimento sociale del reo; l’individualizzazione del trattamento. L’elenco di criteri è completato dalla regola dettata dal quarto comma dell’art. 1, secondo cui «I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome».

La novità rappresentata dalla legge del 1975 è nei fatti ridimensionata durante gli “anni di piombo”, a seguito della sostanziale cancellazione dei permessi di uscita per i detenuti, dell’introduzione delle carceri di massima sicurezza e della chiusura delle sezioni carcerarie, salvo le ridotte ore d’aria509. Nuovi spiragli di attuazione del principio di umanizzazione della pena si aprono con la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. legge Gozzini), che amplia e rafforza il regime delle misure alternative alla detenzione510. Un irrigidimento del regime carcerario si verifica invece nei primi anni ’90, in virtù dei provvedimenti adottati per contrastare la criminalità organizzata: il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, modifica l’art. 41-bis ord. penit. e introduce un regime detentivo speciale e più severo per gli appartenenti alla criminalità organizzata511. Sulla compatibilità costituzionale di un simile regime la Corte è stata chiamata più volte a pronunciarsi e ne ha fornito un’interpretazione costituzionalmente conforme512. Particolarmente interessante, ai fini della presente indagine, è la sentenza n. 376 del 1997513, in cui si precisa che il regime differenziato non può comportare misure restrittive contrarie al senso di umanità e soprattutto che non può determinare «la soppressione o la sospensione delle attività di osservazione e di trattamento individualizzato previste dall’art. 13 dell’ordinamento penitenziario, né la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della personalità, previste dall’art. 27 dello stesso ordinamento, le quali semmai dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalità idonee ad impedire quei contatti e quei collegamenti i cui rischi il provvedimento ministeriale tende ad evitare» (punto 7 del Considerato in diritto).

507 Cfr. G. DI GENNARO – R. BREDA – G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative

alla detenzione. Commento alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni, con riferimento al regolamento di esecuzione e alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, cit., 44.

508 Cfr. V. GREVI – G. GIOSTRA – F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, cit., 5.; M. D’AMICO, Art. 27, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, cit., 573; M. RUOTOLO, Obiettivo carcere: guardando al futuro (con un occhio al passato), in Quest. giust., n. 2/2015, 56.

509 Cfr. S. MARGARA, Sorvegliare e punire: storia di 50 anni di carcere, in Quest. giust., n. 5/2009, 94.

510 Cfr. S. MARGARA, Sorvegliare e punire: storia di 50 anni di carcere, cit., 95 s. 511 Per una disamina dettagliata di tale regime, v. M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione,

cit., 213 ss.; M. D’AMICO, Art. 27, cit., 575; F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, in Enc. dir., Annali II, tomo 2, Milano, 2008, 813 ss.

512 Per un’analisi approfondita della giurisprudenza costituzionale in materia, si rinvia a M. RUOTOLO, Quando l’emergenza diventa quotidiana. Commento alle modifiche agli artt. 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, in Studium iuris, 2003, 418 ss.

513 In Giur. cost., 1997, 3623 ss.

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Affini alla logica sottostante alla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario e alla “legge Gozzini” sono per contro la legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone), che estende le ipotesi di accesso alle misure alternative514 e il nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), che adegua le modalità trattamentali e di disciplina alla legge n. 354 del 1975, ma che non è stato ancora pienamente applicato515.

Al di là delle singole fasi dell’evoluzione normativa, si può dire che complessivamente vi è stato un adeguamento della normativa penitenziaria ai precetti costituzionali. Ben diversa è stata, almeno fino a qualche anno fa, la situazione effettiva delle carceri, che si è caratterizzata per una “rinnegazione” pratica dei principi espressi dalla legge n. 354 del 1975516. Tale rinnegazione è derivata specialmente dal drammatico problema del sovraffollamento, fattore di “spersonalizzazione” e di umiliazione della dignità del detenuto517. Quest’ultimo, costretto a trascorrere buona parte della sua giornata in uno spazio ristretto con altri detenuti, è privato di qualsiasi sfera d’intimità.

Il sovraffollamento è l’esito di un continuo aumento, a partire dagli anni ’90, della popolazione carceraria: se nel primo semestre del 1991 i detenuti erano 31.053, nel primo semestre del 2010 si è raggiunta la cifra abnorme di 68.258 detenuti518. Una situazione del genere è il risultato della richiesta diffusa di sanzioni detentive da parte dell’opinione pubblica519 e delle conseguenti politiche criminali di tipo securitario520. Esempi di una simile politica sono la legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. Bossi-Fini) in materia d’immigrazione, la legge 5 dicembre 2005, n. 151 (c.d. ex-Cirielli) sulla recidiva e la legge 21 febbraio 2006, n. 49 (c.d. Fini-Giovanardi) in tema di sostanze stupefacenti. Si tratta di normative definite “riempicarceri”521, che adottano la reclusione come strumento di reazione a fenomeni di esclusione sociale522 e che concepiscono il carcere come una sorta di discarica sociale523.

514 Cfr. M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, cit., 32 s. 515 Cfr. F. CORLEONE, La riforma penitenziaria e il fallimento del carcere, in Quest. giust., n.

2/2015, 43. 516 Cfr. M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, cit., 45. 517 Cfr. M. RUOTOLO, Dignità e carcere, cit., 46 s. 518 I dati sono tratti dalle statistiche elaborate dal D.A.P. (Dipartimento dell’amministrazione

penitenziaria) e pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it). 519 Cfr. L. PEPINO, Qualcosa di meglio del carcere, in Quest. giust., n. 2/2015, 136. 520 Cfr. M. RUOTOLO, Dignità e carcere, cit., 127; A. DELLA BELLA, Un quadro sul sistema delle

sanzioni penali, delle alternative alla pena detentiva e della situazione di sovraffollamento carcerario in Italia, in www.prisonovercrowding.eu, 1; L. UCCELLO BARRETTA, Il sovraffollamento carcerario tra protezione dei diritti fondamentali e discrezionalità legislativa (nota a Corte cost. n. 279/2013), in Osservatorio AIC, marzo 2014.

521 Cfr. S. MARGARA, Sorvegliare e punire: storia di 50 anni di carcere, cit., 99. 522 Cfr. L. PEPINO, Qualcosa di meglio del carcere, cit., 137; S. MARGARA, Sorvegliare e punire:

storia di 50 anni di carcere, cit., 102. 523 Cfr. G.M. FLICK, I diritti dei detenuti nella giurisprudenza costituzionale, cit., 189, secondo cui

l’allontanamento della prassi dagli scopi indicati dall’art. 27 Cost. è testimoniato da una serie di elementi: «l’aspirazione della collettività all’esclusione del diverso, in nome del bisogno di sicurezza (vero o presunto, o – più ancora – manipolato e strumentalizzato); la coincidenza fra il volto del carcere e quello del disagio sociale, della discarica sociale per clandestini e tossicodipendenti; la schizofrenia di una politica criminale che indulge alla domanda di carcere, come risposta talvolta solo mediatica all’insicurezza».

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Il costante aumento della popolazione carceraria ha reso strutturale e drammatica la questione del sovraffollamento524, come dimostrano alcuni dati: nel 2009 il tasso di sovraffollamento era del 147%525, nel 2010 del 151%526, nel 2011 del 146%527 e nel 2012 del 140%528. Non a caso si è scelto di indicare il tasso di sovraffollamento a partire dal 2009: proprio il 16 luglio 2009, con la nota sentenza “Sulejmanovic c. Italia” (ricorso n. 22635/03)529, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 3 CEDU530. Nella pronuncia, la Corte innanzitutto richiama alcuni principi consolidati della sua giurisprudenza in materia e ricorda che l’art. 3 CEDU impone allo Stato di assicurare condizioni detentive compatibili con il rispetto della dignità umana e tali da non arrecare al detenuto sofferenze ulteriori a quelle inevitabilmente connesse alla reclusione. Il giudice di Strasburgo aggiunge poi che non è possibile quantificare in termini assoluti lo spazio personale da garantire ad ogni detenuto, poiché questo dipende da numerosi fattori, come la durata della carcerazione, la facoltà di accesso alla passeggiata all’aria aperta, le condizioni mentali e fisiche del detenuto. È possibile tuttavia distinguere due ipotesi: nel caso limite in cui lo spazio individuale sia inferiore a 3 m², ciò costituisce di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU; ove invece lo spazio a disposizione del prigioniero sia superiore a 3 m², sarà necessario tener conto, per verificare il rispetto dell’art. 3 CEDU, di altri aspetti della situazione detentiva, come l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento, la possibilità di utilizzare riservatamente i servizi igienici e le condizioni sanitarie della cella. Nel caso di specie, il ricorrente aveva trascorso un periodo di oltre due mesi e mezzo in uno spazio di circa 2,70 m² e ciò induce la Corte a qualificare tale trattamento come inumano e degradante. L’interesse della pronuncia, che denota la gravità della situazione, risiede proprio nella circostanza che la condanna si basi esclusivamente sull’applicazione della proporzione numerica prima enunciata531.

524 Cfr. M. BORTOLATO, Sovraffollamento carcerario e trattamenti disumani o degradanti (La CEDU

condanna l’Italia per le condizioni dei detenuti), in Quest. giust., n. 5/2009, 118; F. VIGANÒ, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in www.penalecontemporaneo.it, 9 gennaio 2013; P. ZICCHITTU, Considerazioni a margine della sentenza Torregiani c. Italia in materia di sovraffollamento delle carceri, in Quad. cost., 2013, 161; F. ROMOLI, Il sovraffollamento carcerario come trattamento inumano o degradante, in Giur. it., 2013, 1191; C.L. VOLINO, La protezione diretta e indiretta dei diritti del detenuto. Considerazioni sistematiche alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 26 marzo 2013, 2; M. RUOTOLO, L’incidenza della CEDU sull’interpretazione costituzionale. Il “caso” dell’art. 27, comma 3, Cost., in Rivista AIC, n. 2/2013 (19 aprile 2013), 5; ID., Obiettivo carcere: guardando al futuro (con un occhio al passato), cit., 57.

525 64.791 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 44.073 posti. 526 67.961 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 45.022 posti. 527 66.897 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 45.700 posti. 528 65.701 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 posti. 529 Tutte le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono reperibili sul sito istituzionale

della Corte medesima. Numerose sentenze sono tradotte e pubblicate sulla Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, da cui sono tratte le citazioni in lingua italiana contenute nel cap. IV. Le sentenze pronunciate nei casi in cui è parte l’Italia sono tradotte e pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della Giustizia, da cui sono tratte le relative citazioni.

530 Il collegamento tra il concetto di dignità umana e il divieto della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti sarà approfondito in seguito (v. infra, cap. IV, § 3).

531 Cfr. M. BORTOLATO, Sovraffollamento carcerario e trattamenti disumani o degradanti (La CEDU condanna l’Italia per le condizioni dei detenuti), cit., 113; G. SORRENTI, La densità delle carceri: dalle

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Nonostante la condanna, il problema del sovraffollamento non è stato affrontato adeguatamente e si è anzi acuito, come dimostrano i dati citati, rendendo inevitabile una seconda condanna dell’Italia. Nella causa “Torreggiani e altri c. Italia” (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10), decisa con sentenza dell’8 gennaio 2013, il giudice di Strasburgo ha sottolineato il carattere ormai strutturale della questione e la sua radicale incompatibilità con il rispetto della dignità umana dei detenuti. In proposito, la Corte ha affermato che «la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone» (punto 88 della motivazione). In ragione di ciò, la Corte ha adottato la procedura della sentenza pilota e ha differito l’esame di tutti i ricorsi riguardanti la stessa problematica, assegnando contestualmente allo Stato il termine di un anno per l’attuazione di interventi strutturali volti ad eliminare il sovraffollamento carcerario. Ovviamente spetta alle autorità nazionali l’individuazione delle misure necessarie, ma nella decisione “Torreggiani” il giudice di Strasburgo ha offerto alcune indicazioni generali: una maggiore applicazione delle misure alternative alla detenzione; una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere; l’introduzione combinata di rimedi preventivi, finalizzati a far cessare rapidamente le lesioni dell’art. 3 CEDU, e di rimedi compensativi, tesi a garantire una riparazione per le violazioni subite.

L’intollerabilità della situazione è stata ribadita anche dal Presidente della Repubblica nel messaggio inviato alle Camere l’8 ottobre 2013532, in cui le violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo sono definite un «inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro Paese ha legato i suoi destini». In direzione analoga si è mossa la Corte costituzionale nella sentenza n. 279 del 2013533 che, in piena sintonia con la pronuncia “Torreggiani”534, ha evidenziato la gravità del problema. Le ordinanze di

condanne della Corte EDU alla decisione della Corte costituzionale, fino al “seguito” legislativo interno, cit., 7.

532 Il messaggio è consultabile sul sito istituzionale della Presidenza della Repubblica (www.quirinale.it).

533 In Giur. cost., 2013, 4514 ss., con osservazioni di F. DELLA CASA, Il monito della Consulta circa il «rimedio estremo» della scarcerazione per il condannato vittima di un grave e diffuso sovraffollamento, 4533 ss.; A. PUGIOTTO, L’urlo di Munch della magistratura di sorveglianza (statuto costituzionale della pena e sovraffollamento carcerario), 4542 ss.; M. RUOTOLO, Quale tutela per il diritto a un’esecuzione della pena non disumana? Un’occasione mancata o forse soltanto rinviata, 4549 ss.

534 Cfr. A. RUGGERI, Ancora una decisione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata (nota minima a Corte cost. n. 279 del 2013, in tema di sovraffollamento carcerario), in Consulta online, 27 novembre 2013, 1; E. MALFATTI, “Oltre le apparenze”: Corte costituzionale e Corte di Strasburgo “sintoniche” sull’(in)effettività dei diritti dei detenuti in carcere, in Forum di Quad. cost., 16 dicembre 2013; F. DELLA CASA, Il monito della Consulta circa il «rimedio estremo» della scarcerazione per il condannato vittima di un grave e diffuso sovraffollamento, cit., 4536 s.; R. BASILE, Il sovraffollamento carcerario: una problematica decisione di inammissibilità della Corte costituzionale (sent. n. 279/2013), in Consulta online, 20 febbraio 2014, 8 ss.; C. NARDOCCI, Il principio rieducativo della pena e la dignità del detenuto: prime risposte tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 279 del 2013, in Rivista AIC, n. 1/2014 (21 marzo 2014), 5; E. FRONTONI, Il sovraffollamento carcerario tra Corte EDU e Corte costituzionale, in Federalismi.it, n. 9/2014 (30 aprile 2014), 7.

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rimessione535 chiedevano alla Consulta di intervenire sull’art. 147 c.p. con una sentenza additiva, che consentisse il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena nell’ipotesi di condizioni detentive contrarie al senso di umanità. Prevedibilmente536 il Giudice delle leggi ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate, per la pluralità di soluzioni normative adottabili, rientranti nella discrezionalità legislativa. Nello stesso tempo, però, ha riconosciuto la sussistenza del vulnus denunciato dai giudici a quibus e ha anzi invitato il legislatore a porvi rimedio in tempi rapidi. È particolarmente interessante il modo in cui la Corte, rifacendosi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, abbia arricchito di nuovi significati il principio di umanizzazione della pena di cui all’art. 27, co. 3, Cost., includendovi il divieto di trattamenti inumani così come elaborato a livello sovranazionale537.

Il collegamento tra la sentenza n. 279 del 2013 e la decisione “Torreggiani” deriva anche dalla circostanza che entrambe non hanno ad oggetto norme che prevedono una pena illegale o disumana, ma una situazione di fatto in contrasto con i principi costituzionali e con l’art. 3 CEDU538. D’altronde, come rilevato più volte, proprio questa è la peculiarità dell’analisi dell’art. 27, co. 3, Cost.

A seguito di tutte le sollecitazioni ricevute, il legislatore ha infine affrontato la questione. Al fine di ridurre la popolazione carceraria, il d.l. 1 luglio 2013, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 94, e il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, hanno eliminato molte preclusioni all’accesso alle misure alternative previste per i recidivi reiterati. Sono state inoltre ampliate le possibilità di ottenimento di benefici penitenziari e di alcune misure alternative. È stato esteso l’ambito di applicazione della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva ex art. 656, co. 5, c.p.p. L’intento deflattivo ha animato soprattutto l’introduzione della liberazione anticipata speciale539. Nella medesima prospettiva si colloca la l. 28 aprile 2014, n. 67, che ha introdotto la sospensione del processo con messa alla prova per i maggiorenni540. Sul piano dei rimedi preventivi e compensativi indicati dalla sentenza “Torreggiani”, devono invece essere segnalati l’art. 35-bis ord. penit., aggiunto dal citato d.l. n. 146 del 2013, e l’art. 35-ter ord. penit., inserito dal d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 117. L’art. 35-bis ord. penit. disciplina il reclamo giurisdizionale al magistrato di sorveglianza e può essere usato dal detenuto in via

535 Emanate rispettivamente dal Tribunale di sorveglianza di Venezia e dal Tribunale di

sorveglianza di Milano. 536 Cfr. A. PUGIOTTO, L’urlo di Munch della magistratura di sorveglianza (statuto costituzionale

della pena e sovraffollamento carcerario), cit., 4547. 537 Cfr. A. RUGGERI, Ancora una decisione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata (nota

minima a Corte cost. n. 279 del 2013, in tema di sovraffollamento carcerario), in Consulta online, 27 novembre 2013, cit., 3.

538 Cfr. A. PUGIOTTO, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Rivista AIC, n. 2/2014 (30 maggio 2014), 14.

539 Su cui v. A. PUGIOTTO, Liberazione anticipata speciale e reati ostativi: problemi e soluzioni costituzionalmente orientate, in www.penalecontemporaneo.it, 30 gennaio 2015; M.V. VALENTINO, Esclusioni “eccellenti” in tema di liberazione anticipata speciale tra problemi di diritto intertemporale e dubbi di incostituzionalità, in www.penalecontemporaneo.it, 14 maggio 2015.

540 Su cui v. M. MIEDICO, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni. Sulla proposta di legge n. 331-927-B, approvata in via definitiva dalla Camera il 2 aprile 2014, in www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2014; ID., Sospensione del processo e messa alla prova per imputati maggiorenni: un primo provvedimento del Tribunale di Torino, in www.penalecontemporaneo.it, 25 giugno 2014.

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preventiva per chiedere la cessazione del trattamento inumano derivante dalla situazione di sovraffollamento541. L’art. 35-ter ord. penit. prevede un rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell’art. 3 CEDU542.

L’impianto delle misure deflattive sembra aver funzionato, come attestano i dati del sovraffollamento carcerario, pari al 131% nel 2013543, al 108% nel 2014544 e al 105% al 30 settembre 2015545. Anche la Corte di Strasburgo ha valutato positivamente i rimedi predisposti dall’Italia: con sentenza del 16 settembre 2014, “Gennaro Stella c. Italia” (ricorso n. 49169/09), è stata dichiarata l’irricevibilità di un ricorso concernente il sovraffollamento carcerario e la motivazione dell’arresto si fonda proprio sul richiamo ai provvedimenti adottati dalle autorità italiane546.

Non attinente alla tematica del sovraffollamento ma comunque rilevante ai fini dell’inveramento dell’imperativo costituzionale di una pena conforme alla dignità umana è il d.l. 31 marzo 2014, n. 52, convertito con modificazioni dalla l. 30 maggio 2014, n. 81, che ha determinato il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e ha sancito il passaggio definitivo da un approccio detentivo ad uno trattamentale e non segregante nei confronti degli infermi di mente autori di reato547.

Da ultimo, il Governo ha presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge (A.C. 2798) contenente, fra l’altro, una delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario. I principi e i criteri direttivi della delega, originariamente assai lacunosi548, sono stati in parte integrati dalla Commissione Giustizia, che ha elaborato un proprio testo, approvato dall’Assemblea con alcune modifiche il 23 settembre 2015549. Tra i criteri più esplicitamente riconducibili al principio di umanizzazione della pena possono menzionarsi i seguenti: la revisione delle modalità di accesso alle misure alternative, con lo scopo di facilitare il ricorso alle stesse; la revisione delle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo; il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate; la previsione di norme che considerino i diritti e i bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi specifici dei detenuti stranieri.

Come si può desumere dall’analisi compiuta, il concetto di dignità umana deve permeare in ogni momento l’esecuzione della pena: da esso deriva un vero e proprio obbligo costituzionale, che grava sia sul legislatore sia sugli altri soggetti chiamati concretamente ad applicare la pena. Tale obbligo, inizialmente avversato nella prassi, ha

541 Cfr. A. DELLA BELLA, Un quadro sul sistema delle sanzioni penali, delle alternative alla pena

detentiva e della situazione di sovraffollamento carcerario in Italia, cit., 15 s. 542 Sui dubbi interpretativi suscitati dalla formulazione della nuova disposizione, v. G. GIOSTRA, Un

pregiudizio “grave e attuale”? A proposito delle prime applicazioni del nuovo art. 35-ter ord. penit., in www.penalecontemporaneo.it, 24 gennaio 2015.

543 62.536 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 47.709 posti. 544 53.623 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.635 posti. 545 52.294 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.585 posti. 546 Cfr. A. MARTUFI, La Corte EDU dichiara irricevibili i ricorsi presentati dai detenuti italiani per

violazione dell’art. 3 CEDU senza il previo esperimento dei rimedi ad hoc introdotti dal legislatore italiano per fronteggiare il sovraffollamento, in www.penalecontemporaneo.it, 7 novembre 2014.

547 Cfr. A. CALCATERRA, La riforma delle misure di sicurezza e il necessario ripensamento del percorso di cura, in Quest. giust., n. 2/2015, 80 s.

548 Cfr. M. RUOTOLO, Obiettivo carcere: guardando al futuro (con un occhio al passato), cit., 59; G. GIOSTRA, Si schiude un nuovo orizzonte per l’esecuzione penale? Delega penitenziaria e Stati generali: brevi considerazioni a margine, in Quest. giust., n. 2/2015, 63.

549 Sia il testo proposto dal Governo sia quello elaborato dalla Commissione Giustizia e poi approvato dal plenum sono consultabili sul sito istituzionale della Camera dei deputati (www.camera.it).

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conosciuto un progressivo adempimento. Il cammino da compiere è certamente ancora lungo, come dimostrano i criteri direttivi della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, ma il legislatore pare aver imboccato la strada giusta.

8. Rispetto della persona umana e trattamenti sanitari obbligatori (art. 32, co. 2, Cost.)

Un altro riferimento implicito alla dignità umana si rinviene nell’art. 32, co. 2,

Cost., ai sensi del quale «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La formula del “rispetto della persona umana” esprime un imperativo di protezione della dignità, come limite all’imposizione di un trattamento sanitario550. La dignità può essere considerata la sintesi di ciò che contraddistingue l’uomo e lo differenzia da ogni altra creatura; non c’è quindi differenza sostanziale tra l’espressione usata dall’art. 32 Cost. e il concetto di dignità551.

Una conferma di quanto detto si trae anche dall’analisi dei lavori preparatori dell’articolo. In proposito, il testo approvato dalla Commissione per la Costituzione

550 Cfr. S. LESSONA, La tutela della salute pubblica, in P. CALAMANDREI – A. LEVI (diretto da),

Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, cit., 333; R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), in Dir. soc., 1981, 548 s.; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), in Arch. giur. “Filippo Serafini”, 1991, 114; S.P. PANUNZIO, Vaccinazioni, in Enc. giur., vol. XXXII, Roma, 1994, 2; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, Roma, 1995, 55; A. D’ATENA, In tema di principi e valori costituzionali, in Giur. cost., 1997, 3071, nota 26; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, in Pol. dir., 1997, 599; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, cit., 665; G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in Dir. pubbl., 2008, 104 s.; P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, cit., 32; G. SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona. Intervento al Convegno trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, tenutosi a Roma il 1º ottobre 2007, cit.; G. ROLLA, Profili costituzionali della dignità umana, cit., 73; P. BECCHI, Il dibattito sulla dignità umana: tra etica e diritto, cit., 121; ID., Il doppio volto della dignità, cit., 597; S. RODOTÀ, Antropologia dell’«homo dignus», cit., 551; M. RUOTOLO, Appunti sulla dignità umana, cit., 3136; G. MONACO, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, in Pol. dir., 2011, 59; F. POLITI, Diritti sociali e dignità umana nella Costituzione Repubblicana, cit., 150; A. PIROZZOLI, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, cit., 86; D. MESSINEO, La garanzia del “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali. Dalla tutela della dignità umana ai livelli essenziali delle prestazioni, cit., 40, nota 57, e 52 ss.; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 36 s.; G.M. FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), cit., 18; P. VERONESI, La dignità umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, cit., 323, nota 27.

551 Ritengono invece che la formula adoperata dall’art. 32 Cost. sia più ampia e più incisiva rispetto all’idea di dignità umana M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 10; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 53. Pare però che gli aspetti considerati da tali Autori non riconducibili alla dignità umana possano essere nondimeno ricompresi in essa, se si considera la ricchezza di significati del concetto, più volte evidenziata (v. supra, cap. I). Si deve peraltro precisare che, al di là della differente interpretazione della clausola del “rispetto della persona umana”, anche gli Autori citati traggono da essa conseguenze analoghe a quelle individuate dalla dottrina maggioritaria e che saranno illustrate in seguito.

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prevedeva esplicitamente il divieto di pratiche sanitarie lesive della dignità umana552. Come chiariscono Moro553 e Corsanego554, all’origine della norma vi è il ricordo delle orrende pratiche di sterilizzazione a fini eugenetici, imposte dal regime nazista agli Ebrei. La disposizione, contestata per la sua genericità e per la sua inutilità555, è poi approvata nella formulazione attuale; l’onorevole Tupini precisa però che il nuovo testo si distingue da quello precedente solo per una maggiore adeguatezza lessicale556.

L’implicito rinvio al concetto di dignità umana da parte del secondo comma dell’art. 32 Cost. è confermato anche dalla Corte costituzionale, nelle sentenze nn. 471 del 1990557 e 218 del 1994558, e trova ulteriore riconoscimento nell’art. 33, co. 2, della l. 23 dicembre 1978, n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale”), in base al quale «Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’art. 32 Cost., nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura».

Individuato il legame tra la dignità e il rispetto della persona umana, bisogna ora capire quale sia il significato della formula in esame, considerato il suo elevato grado di elasticità e di indeterminatezza559. Per farlo, è necessario innanzitutto accennare alle

552 Cfr. l’art. 26 del Progetto di Costituzione elaborato dalla “Commissione dei 75”, in P.

CALAMANDREI – A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, cit., XIV.

553 Cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 28 gennaio 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. VI, cit., 204.

554 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 17 aprile 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, cit., vol. II, Roma, 1970, 957.

555 Tale è l’opinione dei deputati Grassi (cfr. il Resoconto sommario della seduta di martedì 28 gennaio 1947, cit., 204), Giua (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 17 aprile 1947, cit., 957), Spallicci (cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di lunedì 21 aprile 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. II, cit., 1095 ss.), Cavallotti (cfr. il Resoconto stenografico della seduta pomeridiana di martedì 22 aprile 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. II, cit., 1133), Vittorio Emanuele Orlando (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di mercoledì 23 aprile 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. II, cit., 1159), Maffi (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 24 aprile 1947, in CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. II, cit., 1216), Gaetano Martino (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 24 aprile 1947, cit., 1221 s.) e Arata (cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 24 aprile 1947, cit., 1227).

556 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 24 aprile 1947, cit., 1225. 557 In Giur. cost., 1990, 2818 ss. 558 In Giur. cost., 1994, 1812 ss. 559 Cfr. S. LESSONA, La tutela della salute pubblica, cit., 336; C. MORTATI, La tutela della salute

nella Costituzione italiana, in ID., Raccolta di scritti, vol. III (Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana), cit., 441 s.; L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, in R. ALESSI (a cura di), Atti del Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione. L’ordinamento sanitario, vol. I (L’amministrazione sanitaria), Vicenza, 1967, 109 s. e 113; L. BRUSCUGLIA, Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), in Le nuove leggi civili commentate, 1979, 187; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 29; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e

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condizioni di ammissibilità dei trattamenti sanitari obbligatori. La prima caratteristica dei t.s.o. è la loro eccezionalità rispetto alla regola generale della volontarietà del trattamento560. Ciò si desume dal modo in cui è strutturato il primo periodo dell’art. 32, co. 2, Cost.: sia la formulazione in negativo sia l’espressa previsione di un intervento legislativo per l’imposizione di un trattamento sanitario lasciano intendere che l’obbligatorietà è una deroga alla regola generale della volontarietà561. In altre parole, il fondamento del trattamento sanitario è il consenso informato del paziente562 o la legge563. In assenza di un obbligo di legge, il medico non può, quindi, eseguire un

consenso (Il punto della situazione), cit., 112; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 51.

560 Cfr. L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, cit., 111; ID., Dignità della persona e libertà di cura, in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, cit., vol. I, 571; L. BRUSCUGLIA, Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), cit., 178 e 186; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, Padova, 1996, 2; A. ALGOSTINO, I possibili confini del dovere alla salute, in Giur. cost., 1996, 3215; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, Padova, 1998, 84 ss.; L. MEZZETTI – A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. XV, Torino, 1999, 337; E. CAVASINO, Trattamenti sanitari obbligatori, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. VI, cit., 5962; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 37; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, Milano, 2015, 250 s.; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 42.

561 Cfr. G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 256; R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 545 s.; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 596; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 256.

562 Sul consenso informato, v. A. OCCHIPINTI, Tutela della vita e dignità umana, Torino, 2008, 49 ss.; G. MONTANARI VERGALLO, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità, Milano, 2008; G. MARINI, Il consenso, in S. RODOTÀ – M. TALLACCHINI (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto, cit., 361 ss.; G. GRASSO, Consenso informato, libertà di scelta e disponibilità del proprio corpo, in Forum di Quad. cost., 2010; M. GRAZIADEI, Il consenso informato e i suoi limiti, in L. LENTI – E. PALERMO FABRIS – P. ZATTI (a cura di), I diritti in medicina, vol. III del Trattato di biodiritto, diretto da S. RODOTÀ – P. ZATTI, Milano, 2011, 191 ss.; C. CASONATO – F. CEMBRANI, Il rapporto terapeutico nell’orizzonte del diritto, in L. LENTI – E. PALERMO FABRIS – P. ZATTI (a cura di), I diritti in medicina, cit., 39 ss.; C. CASONATO, Introduzione al biodiritto, III ed., Torino, 2012, 206 ss.; E. ROSSI, Profili giuridici del consenso informato: i fondamenti costituzionali e gli ambiti di applicazione, in A. D’ALOIA (a cura di), Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, Napoli, 2012, 77 ss.; B. VIMERCATI, Consenso informato e incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, Milano, 2014; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 117 ss.; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 152 ss. Con la sentenza n. 438 del 2008 (in Giur. cost., 2008, 4945 ss., con osservazioni di R. BALDUZZI – D. PARIS, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, 4953 ss.; D. MORANA, A proposito del fondamento costituzionale per il «consenso informato» ai trattamenti sanitari: considerazioni a margine della sent. n. 438 del 2008 della Corte costituzionale, 4970 ss.; C. CORAGGIO, Il Consenso informato: alla ricerca dei principi fondamentali della legislazione statale, 4981 ss.), la Consulta ha riconosciuto la natura di diritto costituzionale del consenso informato, ancorandone il fondamento agli artt. 2, 13 e 32 Cost.

563 Cfr. R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 557; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), in Dir. soc., 1982, 304 e 321 s.; V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, in Dir. soc., 1982, 560; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 388; R. ROMBOLI, Art. 5, in F. GALGANO (a cura di), Commentario del Codice civile Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1988, 339; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 98 e 123; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 596; L. MEZZETTI – A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, cit., 338; N. VICECONTE, La sospensione delle

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trattamento che il paziente abbia rifiutato564. È fatta salva solo la facoltà del medico di intervenire in caso di necessità (art. 54 c.p.), quando l’interessato non abbia potuto esprimere il consenso perché caduto in stato d’incapacità565. La regola del consenso si riespande, tuttavia, nel momento in cui cessa lo stato di necessità e il paziente riacquista la capacità di manifestare il suo eventuale dissenso.

Tale interpretazione del dettato costituzionale è accolta anche dall’art. 33, co. 1, della l. n. 833/1978, a tenore del quale «Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari». Ampliando la portata del criterio della volontarietà, il quinto comma dell’art. 33 stabilisce che perfino il t.s.o. debba essere accompagnato da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione dell’interessato. Analogamente, l’art. 35, co. 2, del codice di deontologia medica del 18 maggio 2014 sancisce che «Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato». Nella medesima ottica si pone la Convezione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, stipulata a Oviedo il 4 aprile 1997, il cui art. 5 ha come rubrica l’espressione “regola generale” e dispone che «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso»566.

Se la volontarietà è la regola generale, la legge potrà allora imporre un trattamento sanitario solo nell’ipotesi in cui le condizioni dell’interessato possano mettere a rischio la salute della collettività, come nel caso di malattie contagiose567. A una conclusione

terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita tra testo costituzionale e applicazioni giurisprudenziali, in Dir. soc., 2011, 160.

564 Cfr. F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 321; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, in Giur. cost., 1982, parte I, 2475; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 386; A. VALLINI, Il valore del rifiuto di cure «non confermabile» dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, in Dir. pubbl., 2003, 195; G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, cit., 85 s.; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 286.

565 Cfr. F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 327; V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 564; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 389; C. SMURAGLIA, Trattamenti sanitari e tutela dei diritti fondamentali, in Quest. giust., 1989, 405; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 131; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 596; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 44 ss.

566 Si ricordi tuttavia che la Convenzione di Oviedo non è ancora entrata in vigore in Italia, perché, nonostante l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione disposti con legge 28 marzo 2001, n. 145, lo strumento di ratifica non è stato depositato. Sul punto, v. S. PENASA, Alla ricerca dell’anello mancante: il deposito dello strumento di ratifica della Convenzione di Oviedo, in Forum di Quad. cost., 2007; F.M. PALOMBINO, La rilevanza della Convenzione di Oviedo secondo il giudice italiano, in Giur. cost., 2011, 4811 ss.

567 Cfr. L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, cit., 110 s.; G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, cit., 256; A.M. SANDULLI, La sperimentazione clinica sull’uomo (Profili costituzionali), in Dir. soc., 1978, 517; S.P. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione (a proposito della disciplina delle vaccinazioni), in Dir. soc., 1979, 903 s.; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 312; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2469; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 30 e 63; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 386; C.

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del genere si giunge raccordando il secondo comma con il primo comma dell’art. 32 Cost., che qualifica la salute anche come interesse della collettività568. Questa formula si riferisce all’interesse della generalità dei consociati a tutelare la propria salute, che potrebbe essere messa a repentaglio da patologie che colpiscano uno o più individui569. Si potrebbe parlare, usando una locuzione ridondante, di un interesse collettivo alla salute collettiva, che si traduce nell’obbligo per il legislatore di predisporre un sistema adeguato di erogazione delle cure570 e nella facoltà specifica di imporre un t.s.o. qualora sia a rischio la salute collettiva571.

Questo risultato è contestato da chi sostiene che la legge possa disporre un trattamento sanitario anche in assenza di un pericolo per la collettività e con l’esclusiva finalità di preservare la salute del destinatario572. Si configurerebbe, così opinando, l’esistenza di un dovere generale dei singoli al mantenimento o addirittura al miglioramento della propria salute573. A parte il rischio di una dilatazione eccessiva e arbitraria delle condizioni di ammissibilità dei t.s.o.574, questa tesi non può essere condivisa per una serie di ragioni. In primis, l’art. 32 Cost. non parla di “salute individuale”, come oggetto dell’interesse della collettività, ma semplicemente di “salute”575. È assente, inoltre, qualsiasi riferimento a un presunto dovere; non bisogna infatti confondere l’interesse della collettività con un dovere dell’individuo576. Anche

SMURAGLIA, Trattamenti sanitari e tutela dei diritti fondamentali, cit., 401; M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 10; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 93; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 3; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 594 s.; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 89; G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, cit., 104; C. TRIPODINA, Art. 32, cit., 330; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 36; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 259 s.

568 Cfr. G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, cit., 256; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 91 s.

569 Cfr. C.M. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), cit., 1030; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 42 s.

570 Cfr. G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, cit., 255; R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 545; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 26; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 89.

571 Cfr. C. SMURAGLIA, Trattamenti sanitari e tutela dei diritti fondamentali, cit., 400. 572 Cfr. C. CASTRONOVO, Dignità della persona e garanzie costituzionali nei trattamenti sanitari

obbligatori, in Jus, 1990, 193; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 43 s. 573 Configurano l’esistenza di un dovere di curarsi C. MORTATI, La tutela della salute nella

Costituzione italiana, cit., 436 ss., che però limita a forme di coazione indiretta gli strumenti utilizzabili dall’ordinamento per ottenere l’adempimento di un simile dovere; E. CAPIZZANO, Vita e integrità fisica (Diritto alla), in Noviss. Dig. it., vol. XX, Torino, 1975, 1007; M. SANTILLI SUSINI, Rifiuto di trattamento sanitario per motivi religiosi, in Resp. civ. prev., 1977, 413; P. PERLINGIERI, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982, 1045; C. MONTANARO, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori (A proposito delle ordinanze sindacali impositive di trattamenti sanitari «non obbligatori»), in Giur. cost., 1983, parte I, 1174; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 21 ss. e 42 s.

574 Cfr. C. MONTANARO, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori (A proposito delle ordinanze sindacali impositive di trattamenti sanitari «non obbligatori»), cit., 1175, che pure aderisce all’orientamento criticato; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 35 s.; L. MEZZETTI – A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, cit., 338.

575 Cfr. D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 39. 576 Cfr. L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, cit., 109; G. GEMMA,

Sterilizzazione e diritti di libertà, cit., 255; R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari»

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dal punto di vista della sequenza delle parole, il diritto del singolo alla salute precede l’interesse della collettività577. Se a ciò si aggiunge la mancanza, nel testo dell’art. 32 Cost., di qualsiasi forma di funzionalizzazione del diritto alla salute578, è agevole concludere che la situazione giuridica soggettiva de qua è senza dubbio un diritto individualistico579. Diversamente, si arriverebbe al paradosso di rovesciare una libertà nel suo contrario, con effetti assai discutibili580.

La tesi dell’esistenza di un “dovere alla salute” è talora argomentata invocando altri due dati: l’art. 5 c.c. e la clausola del rispetto della persona umana. Entrambi i richiami meritano un approfondimento. L’art. 5 c.c. prevede che «Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume». Secondo un orientamento dottrinale, da questa disposizione si desumerebbe un dovere generale di salvaguardare la propria salute581. L’utilizzo dell’art. 5 c.c. deve in realtà reputarsi fuori luogo. Esso ha ad oggetto l’integrità fisica, che è un concetto ben diverso e più riduttivo rispetto alla salute582. Basti pensare che la reintegrazione delle condizioni di salute potrebbe derivare da una diminuzione dell’integrità fisica, ad esempio da un’operazione chirurgica di amputazione di un arto in cancrena. È altresì chiaro che l’art. 5 c.c. si rivolge agli atti positivi di disposizione del corpo e non anche alle mere omissioni583; non è quindi applicabile a chi rifiuti le cure. Vale poi (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 541; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 311; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 596.

577 Cfr. D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2466; C.M. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), cit., 1029; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 254.

578 Come è stato efficacemente rilevato, «Il riferimento all’interesse collettivo alla salute […] non vale a finalizzare ad esso, rendendolo funzionale, il diritto individuale, ma rappresenta esclusivamente un “contenimento esterno” per quest’ultimo». Così D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 38.

579 Cfr. F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 310; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 71; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 37 ss. La soluzione suggerita nel testo presuppone l’accettazione della distinzione tra diritti individualistici e diritti funzionali, autorevolmente delineata da C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit., 8.

580 Cfr. D. VINCENZI AMATO, Art. 32, 2º comma, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1976, 175; R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 540; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 386; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 336; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 595; A. VALLINI, Il valore del rifiuto di cure «non confermabile» dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, cit., 193 s.; N. VICECONTE, La sospensione delle terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita tra testo costituzionale e applicazioni giurisprudenziali, cit., 162 ss.; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 40 s.

581 Cfr. E. CAPIZZANO, Vita e integrità fisica (Diritto alla), cit., 1007; M. SANTILLI SUSINI, Rifiuto di trattamento sanitario per motivi religiosi, cit., 413.

582 Cfr. V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 561; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 45 e 50; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 235; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 124; A. MUSUMECI, Dal «potere» alla «libertà» di disporre del proprio corpo, in Giur. cost., 1991, 631; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 84; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 30.

583 Cfr. V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 561; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2474; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 237 s.; E. VARANI, I

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un’obiezione di fondo: non è corretto reinterpretare l’art. 32 Cost. alla luce di una fonte subordinata, in evidente contrasto con il criterio gerarchico di ordinazione delle fonti del diritto584. In generale, l’art. 5 c.c. riflette una visione patrimonialistica del corpo nettamente superata dalla Costituzione repubblicana585, che al potere di disporre dell’integrità fisica ha sostituito la libertà in materia di salute586. Né si può ritenere che l’art. 5 c.c. integri la riserva di legge di cui all’art. 32, co. 2, Cost., poiché la norma costituzionale richiede che il t.s.o. sia determinato, mentre la disposizione codicistica è assolutamente generica587.

Come già detto, un’altra tesi deduce invece il dovere di curarsi dalla formula del “rispetto della persona umana”. In questa prospettiva, l’individuo non potrebbe mai esercitare il diritto all’autodeterminazione in modo da ledere la sua salute o addirittura da mettere a rischio la sua vita588. Così facendo, violerebbe il rispetto della persona umana imposto dalla Carta costituzionale allo stesso titolare del diritto alla salute e del diritto alla vita589. Tale argomentazione si rifà a una visione oggettiva della dignità, concepita come valore supremo che neppure il suo portatore può intaccare e che anzi limita la sua autonomia590. Si tratta di una concezione paternalistica591, poco conforme al dettato dell’art. 32 Cost., che al contrario sembra aver accolto una nozione soggettiva di dignità592. In proposito, è sufficiente notare che il limite del rispetto della persona umana opera nei confronti del legislatore e non dell’individuo593; sarebbe pertanto illegittimo estenderlo a un destinatario non menzionato dall’art. 32 Cost. Per quel che possa valere, si consideri anche che in sede di approvazione della disposizione fu

trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 125; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 11; C.M. D’ARRIGO, Salute (diritto alla), cit., 1029 s.; C. TRIPODINA, Art. 32, cit., 329.

584 Cfr. A. VALLINI, Il valore del rifiuto di cure «non confermabile» dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, cit., 191.

585 Cfr. B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 51; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 83; N. VICECONTE, La sospensione delle terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita tra testo costituzionale e applicazioni giurisprudenziali, cit., 166; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 30.

586 Cfr. R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 229; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 83; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, cit., 659.

587 Cfr. V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 561 s.; C. MONTANARO, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori (A proposito delle ordinanze sindacali impositive di trattamenti sanitari «non obbligatori»), cit., 1172; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 340; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 111.

588 Cfr. G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 40 s. 589 Cfr. D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 16. 590 Cfr. E. CAPIZZANO, Vita e integrità fisica (Diritto alla), cit., 1007 s.; M. SANTILLI SUSINI, Rifiuto

di trattamento sanitario per motivi religiosi, cit., 412; P. PERLINGIERI, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, cit., 1045 s.; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 39 ss.

591 Cfr. G. GEMMA, Sterilizzazione e diritti di libertà, cit., 253; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 101; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 595.

592 Cfr. E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 95 ss.

593 Cfr. R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 547 s.; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 313 s.; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 342; A. VALLINI, Il valore del rifiuto di cure «non confermabile» dal paziente alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, cit., 193.

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respinto un emendamento, presentato dai deputati Codacci Pisanelli, De Maria, Capua, Caso, Del Curto e Cotellessa, che mirava a inserire nell’articolo il seguente comma: «Nessuno può disporre del proprio corpo in maniera incompatibile con la dignità umana»594. Seppure pensata per vietare la prostituzione, la formulazione denotava un’idea di dignità in senso oggettivo, non accolta però dalla maggioranza dell’Assemblea costituente. Si deve quindi propendere per un concetto di dignità come sinonimo del diritto del singolo ad autodeterminarsi in ordine alla propria salute e a rifiutare un trattamento sanitario, perfino se ciò può condurre alla morte595.

L’interpretazione della clausola del “rispetto della persona umana” offre un esempio concreto della tesi di fondo della presente indagine, cioè che la dignità è una nozione di per sé ambigua, la cui specificazione deve necessariamente passare attraverso una contestualizzazione nel dato positivo che la accoglie. Estrapolata dal riferimento implicito contenuto nell’art. 32 Cost., la dignità potrebbe alternativamente essere intesa in maniera oggettiva o soggettiva; ricostruita invece in base alla trama complessiva della norma costituzionale, non può che assumere una connotazione soggettiva.

L’analisi della formula del “rispetto della persona umana” ha condotto finora a un primo risultato ermeneutico, così sintetizzabile: in negativo, essa riconosce all’individuo il diritto di rifiutare le cure; in positivo, è il fondamento di un vero e proprio diritto all’autodeterminazione in relazione ai trattamenti sanitari596. Ciò consente di risolvere la questione del rifiuto di emotrasfusioni da parte dei Testimoni di Geova. Due profili rilevano in proposito. In primo luogo, nessuna legge prevede l’obbligo di ricevere trasfusioni di sangue. In secondo luogo, una legge impositiva di un simile trattamento sanitario sarebbe comunque costituzionalmente illegittima, perché dal rifiuto in esame non discende alcun pericolo per la salute collettiva597. In presenza di un dissenso informato, concreto e attuale il medico non può eseguire la trasfusione, né può ricorrere all’autorità giudiziaria per superare il dissenso del paziente598. Per affermare la liceità

594 Cfr. il Resoconto stenografico della seduta di giovedì 24 aprile 1947, cit., 1222. 595 Cfr. P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 388; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 342

s.; G. GEMMA, Vita (diritto alla), in Dig. IV ed., Disc. pubbl., vol. XV, Torino, 1999, 687; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 38 s.; F. RIMOLI, Bioetica. Diritti del nascituro. Diritti delle generazioni future, in R. NANIA – P. RIDOLA (a cura di), I diritti costituzionali, cit., vol. II, 548, il quale sottolinea che «il diritto a morire si pone come estrema espressione della dignità della vita umana, e come determinazione suprema di una scelta di libertà: il suo esercizio concreto dovrà ovviamente essere rimesso per intero al soggetto, finché questo sia in grado di decidere consapevolmente».

596 Cfr. M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 10; A. ALGOSTINO, I possibili confini del dovere alla salute, cit., 3214; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, cit., 665; G.U. RESCIGNO, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, cit., 105 ss.; C. TRIPODINA, Art. 32, cit., 328; N. VICECONTE, La sospensione delle terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita tra testo costituzionale e applicazioni giurisprudenziali, cit., 162; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 253.

597 Cfr. R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 550 e 554; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 315; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 355.

598 Cfr. R. D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti «sanitari» (a proposito dei Testimoni di Geova), cit., 552; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 319; V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 562 ss.; C. MONTANARO, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori (A proposito delle ordinanze sindacali impositive di trattamenti sanitari «non obbligatori»), cit., 1169; R. ROMBOLI, Art. 5,

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del rifiuto, non serve chiamare in causa la problematica della libertà religiosa599, essendo sufficiente il ricorso all’art. 32 Cost.

La situazione cambia qualora il soggetto bisognoso della trasfusione sia un minore e il dissenso sia manifestato dai genitori. In tal caso, i genitori non agiscono in quanto rappresentanti del minore, legittimati a esprimere il consenso o il dissenso in sua vece, ma come titolari di una potestà da esercitare nell’interesse del figlio600. Dato che l’omissione del trattamento può pregiudicare l’interesse del figlio e che l’art. 30 Cost. stabilisce il diritto-dovere dei genitori di mantenere i figli, prima ancora che di istruirli e di educarli, il dissenso sarà superabile mediante un intervento del giudice ai sensi dell’art. 333 c.c.601. Questa soluzione è stata avallata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 132 del 1992602, in cui si afferma che «La potestà dei genitori nei confronti del bambino è […] riconosciuta dall’art. 30, primo e secondo comma, della Costituzione non come loro libertà personale, ma come diritto-dovere che trova nell’interesse del figlio la sua funzione ed il suo limite. E la Costituzione ha rovesciato le concezioni che assoggettavano i figli ad un potere assoluto ed incontrollato, affermando il diritto del minore ad un pieno sviluppo della sua personalità e collegando funzionalmente a tale interesse i doveri che ineriscono, prima ancora dei diritti, all’esercizio della potestà genitoriale. È appunto questo il fondamento costituzionale degli artt. 330 e 333 cod. civ., che consentono al giudice – allorquando i genitori, venendo meno ai loro obblighi, pregiudicano beni fondamentali del minore, quali la salute e l’istruzione – di intervenire affinché a tali obblighi si provveda in sostituzione di chi non adempie» (cpv. finale del Considerato in diritto).

Tenendo conto di quanto detto, si possono inoltre avanzare dubbi di legittimità costituzionale sia della disciplina in tema di vaccinazione antitetanica sia della normativa sui t.s.o. in caso di malattia mentale. La vaccinazione antitetanica, inizialmente disposta come obbligatoria dalla legge n. 292/1963 solo per alcune categorie di lavoratori, è stata poi resa obbligatoria per tutti i nuovi nati dalla legge n.

cit., 353; B. CARAVITA, Art. 32, cit., 223; M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 11; N. VICECONTE, La sospensione delle terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita tra testo costituzionale e applicazioni giurisprudenziali, cit., 170. Contra G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 45.

599 Reputata invece centrale da A. PITINO, Salus del corpo o Salus dello spirito? Il rifiuto dei trattamenti sanitari per motivi religiosi, in A. D’ALOIA (a cura di), Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit., 259 s.

600 Cfr. L. BRUSCUGLIA, Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), cit., 183.

601 Cfr. V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 565 s.; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2481 s.; M. SANTILLI SUSINI, Rifiuto di trattamento sanitario per motivi religiosi, cit., 408 s.; C. MONTANARO, Considerazioni in tema di trattamenti sanitari obbligatori (A proposito delle ordinanze sindacali impositive di trattamenti sanitari «non obbligatori»), cit., 1161 s.; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 389; G. ALPA, Salute (Diritto alla), in Noviss. Dig. it., App. vol. VI, Torino, 1986, 921; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 350 ss.; B. CARAVITA, Art. 32, cit., 223; M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 11; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 134; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 19 s.; G. ALPA – A. ANSALDO, Le persone fisiche (Artt. 1-10), in P. SCHLESINGER (diretto da), Il Codice Civile. Commentario, Milano, 1996, 262; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 597 e 604 ss.; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 91; C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit., 118 s.; C. TRIPODINA, Art. 32, cit., 328; P.F. GROSSI, Il diritto costituzionale tra principi di libertà e istituzioni, cit., 7 e 137.

602 In Giur. cost., 1992, 1108 ss.

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166/1981. A differenza delle altre patologie per le quali sono previste vaccinazioni obbligatorie generali603, il tetano non è contagioso, per cui non sussiste un interesse della collettività604. Analogo ragionamento vale per la disciplina dei trattamenti obbligatori e coercitivi in materia di salute mentale, prevista originariamente dalla legge 13 maggio 1978, n. 180 (c.d. legge Basaglia) e poi confluita senza sostanziali modifiche negli artt. 33, 34 e 35 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Sebbene la “legge Basaglia” abbia determinato un cambio di paradigma nell’approccio alla malattia mentale, attuando il superamento dell’ottica custodialistica dei manicomi605, restano le perplessità sulla legittimità di trattamenti imposti in assenza di un pericolo per la salute collettiva606. Naturalmente non si può ovviare al problema sostenendo che in questo caso il t.s.o. serva a salvaguardare la sicurezza pubblica, perché il rispetto della persona umana esige che ogni trattamento sanitario sia imposto solo per motivi legati alla salute e non anche per altri scopi estranei alla logica dell’art. 32 Cost.607.

Il “rispetto della persona umana” non ha però esclusivamente l’effetto di circoscrivere l’area dei t.s.o. alle sole misure necessarie per proteggere la salute collettiva, ma ha anche implicazioni ulteriori. Un trattamento sanitario imposto per legge è infatti conforme alla Costituzione soltanto se, oltre a perseguire l’interesse della collettività, giovi contemporaneamente alla salute del destinatario, o quanto meno non la danneggi608. Sarebbe inammissibile strumentalizzare l’individuo a puro vantaggio

603 Si tratta della vaccinazione antidifterica, della vaccinazione antipoliomielitica e della vaccinazione antiepatite virale B. Per un approfondimento, v. S.P. PANUNZIO, Vaccinazioni, cit.; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 161 ss.; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 51 ss.

604 Cfr. S.P. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione (a proposito della disciplina delle vaccinazioni), cit., 905; ID., Vaccinazioni, cit., 3.

605 Cfr. G. ALPA, Salute (Diritto alla), cit., 919; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 206. Nella sentenza n. 211 del 1988 (in Giur. cost., 1988, parte I, 795 ss.), la Corte costituzionale rileva che con la legge n. 180/1978 «il trattamento dei malati di mente è stato trasformato da problema di pubblica sicurezza a problema essenzialmente sanitario o di reinserimento sociale del paziente» (punto 3 del Considerato in diritto).

606 Cfr. D. VINCENZI AMATO, Art. 32, 2º comma, cit., 192; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 69 s.; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 290 ss., il quale tuttavia risponde al dubbio avanzato identificando l’interesse collettivo con il miglioramento dello stato di salute del singolo. Tale identificazione sembra accolta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 180 del 1994 (in Giur. cost., 1994, 1603 ss.) e nell’ordinanza n. 49 del 2009 (in Giur. cost., 2009, 365 ss.), riguardanti rispettivamente l’obbligo di indossare il casco per i motociclisti e l’obbligo di allacciare le cinture di sicurezza. In questo modo si ricade però implicitamente nella tesi dell’esistenza di un dovere di curarsi, già contestata in precedenza. Gli obblighi esaminati nelle pronunce della Corte costituzionale non sono peraltro riconducibili al novero dei t.s.o., ma devono più correttamente essere qualificati come prestazioni personali imposte ai sensi dell’art. 23 Cost., come sottolinea D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 49 s.

607 Cfr. D. VINCENZI AMATO, Art. 32, 2º comma, cit., 173; ID., Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2468; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 386; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 56; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 599; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 93; L. MEZZETTI – A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, cit., 338; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 42; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 259.

608 Cfr. D. VINCENZI AMATO, Art. 32, 2º comma, cit., 173 s.; ID., Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2470; F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 313; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 30; M. LUCIANI, Salute, I) Diritto alla salute – Dir. cost., cit., 11; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 101 ss.; D. VALENTINI, I trattamenti e gli

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della collettività, rendendolo oggetto dell’intervento autoritativo statale609. Sotto questo profilo è palese il collegamento tra la formula usata dall’art. 32, co. 2, Cost. e il concetto di dignità umana. Nel suo significato più immediato e riconoscibile, di ascendenza kantiana (v. supra, cap. I, § 9), il rispetto della dignità si traduce nel divieto di degradare la persona a mera cosa nelle mani dello Stato. Il principio personalista che permea la Costituzione repubblicana trova puntuale espressione nell’art. 32, co. 2, Cost. e induce a interpretare restrittivamente i limiti di liceità dei t.s.o., con la conseguenza di rendere inammissibili non solo le pratiche eugenetiche prese in considerazione dai Costituenti nell’elaborazione dell’articolo610, ma anche ogni trattamento dannoso per la salute del destinatario.

Sul punto, la giurisprudenza costituzionale è netta. Nella sentenza n. 307 del 1990611 la Consulta rimarca che dal complesso dell’art. 32 Cost. e in particolare dalla formula del “rispetto della persona umana” «si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili» (punto 2 del Considerato in diritto).

Nell’imposizione di un trattamento sanitario si manifesta in tutta la sua drammaticità il conflitto tra il singolo e la generalità dei consociati612 e non è detto che nei fatti l’interesse del singolo sia sempre salvaguardato. Come precisa la sentenza n. 118 del 1996613 con riferimento alla vaccinazione antipoliomielitica, «la legge che

accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 15; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 598 e 601; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, cit., 668; C. TRIPODINA, Art. 32, cit., 331; M. CARTABIA, La giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 32, secondo comma, della Costituzione italiana, in Quad. cost., 2012, 458; R. BALDUZZI – D. SERVETTI, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, cit., 42; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 43; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 259.

609 Cfr. S.P. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione (a proposito della disciplina delle vaccinazioni), cit., 903; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2471; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 30; R. ROMBOLI, Art. 5, cit., 343; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 591; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 44; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 260 s.

610 Cfr. L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, cit., 111 ss.; A. DE CUPIS, I diritti della personalità, II ed., vol. IV del Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU – F. MESSINEO e continuato da L. MENGONI, Milano, 1982, 168; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 387; N. VICECONTE, La sospensione delle terapie salvavita: rifiuto delle cure o eutanasia? Riflessioni su autodeterminazione e diritto alla vita tra testo costituzionale e applicazioni giurisprudenziali, cit., 161; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 50.

611 In Giur. cost., 1990, 1874 ss., con osservazione di F. GIARDINA, Vaccinazione obbligatoria, danno alla salute e «responsabilità» dello Stato, 1880 ss.

612 Cfr. B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 65. 613 In Giur. cost., 1996, 1006 ss., con osservazione di A. ALGOSTINO, I possibili confini del dovere

alla salute, cit.

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impone l’obbligo della vaccinazione antipoliomielitica compie deliberatamente una valutazione degli interessi collettivi ed individuali in questione, al limite di quelle che sono state denominate “scelte tragiche” del diritto: le scelte che una società ritiene di assumere in vista di un bene (nel nostro caso, l’eliminazione della poliomielite) che comporta il rischio di un male (nel nostro caso, l’infezione che, seppur rarissimamente, colpisce qualcuno dei suoi componenti). L’elemento tragico sta in ciò, che sofferenza e benessere non sono equamente ripartiti tra tutti, ma stanno integralmente a danno degli uni o a vantaggio degli altri» (punto 4 del Considerato in diritto).

Qualora la salute dell’individuo sia danneggiata, come potrebbe accadere nell’ipotesi di vaccinazione, il rispetto della persona umana determina l’obbligo per il legislatore di prevedere una forma d’indennizzo. Si tratta evidentemente di un compromesso, perché in caso di danno alla salute l’interesse del singolo è soccombente614; ma è l’unico modo per evitarne il sacrificio totale e per scongiurare una completa funzionalizzazione della salute individuale a quella collettiva. In proposito, la citata pronuncia n. 307 del 1990 specifica che «Con riferimento […] all’ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri. Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute – e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell’imposizione del trattamento sanitario – implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l’essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito» (punto 2 del Considerato in diritto)615.

L’indennizzo de quo non va peraltro confuso con il diritto al risarcimento del danno derivante ex art. 2043 c.c. da una condotta colposa o addirittura dolosa del sanitario: mentre quest’ultimo è legato alla responsabilità di chi esegue il trattamento, l’indennizzo è dovuto all’interessato per il semplice fatto di aver contratto una patologia a causa del t.s.o. In attuazione del criterio individuato dalla Corte costituzionale, è stata adottata la legge 25 febbraio 1992, n. 210 (“Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati”), su cui la Corte è più volte intervenuta616 per

614 Cfr. D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 61. 615 Tale principio è ripreso nella decisione n. 118 del 1996, in cui si ribadisce che «nessuno può

essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri. La coesistenza tra la dimensione individuale e quella collettiva della disciplina costituzionale della salute nonché il dovere di solidarietà che lega il singolo alla collettività, ma anche la collettività al singolo, impongono che si predisponga, per quanti abbiano ricevuto un danno alla salute dall’aver ottemperato all’obbligo del trattamento sanitario, una specifica misura di sostegno consistente in un equo ristoro del danno» (punto 5 del Considerato in diritto).

616 Oltre agli arresti già menzionati, hanno ad oggetto la legge n. 210/1992 le sentenze nn. 27 del 1998, 226 del 2000 (in Giur. cost., 2000, 1773 ss.), 423 del 2000 (in Giur. cost., 2000, 3166 ss.), 38 del

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assicurare un’adeguata configurazione dell’indennizzo e per estendere l’obbligo del ristoro ai danni cagionati da vaccinazioni non obbligatorie, ma comunque incentivate e raccomandate dalla pubblica autorità. Su tale aspetto, la sentenza n. 226 del 2000 chiarisce che la ragione determinante del diritto all’indennizzo è l’interesse collettivo alla salute e non l’obbligatorietà del trattamento, che è soltanto lo strumento per il perseguimento dell’interesse suddetto.

Ricapitolando, un trattamento sanitario obbligatorio è legittimo se è preordinato alla tutela della salute collettiva e non lede la salute del destinatario. Il rispetto della dignità umana proibisce viceversa sia i trattamenti imposti con il solo fine di migliorare lo stato di salute individuale sia quelli volti a soddisfare esclusivamente l’interesse alla salute della generalità dei consociati. Da queste notazioni si desume anche che sarebbe in contrasto con l’art. 32 Cost. una legge particolare o singolare, che prescriva un trattamento sanitario in virtù di fattori diversi dalla malattia che intende curare; l’unico discrimine in materia è la patologia da arginare, mentre sarebbe illegittimo differenziare i destinatari in base ad altre condizioni personali617. La garanzia della dignità umana esige inoltre che, in caso di danno inevitabile cagionato dal t.s.o., l’interessato ottenga un equo indennizzo a carico della collettività.

La clausola del “rispetto della persona umana” richiede poi che la dignità del destinatario del t.s.o. sia preservata anche in relazione alle modalità di esecuzione del provvedimento618. Innanzitutto, l’obbligatorietà della misura non esonera i sanitari dal dovere di fornire all’interessato tutte le informazioni concernenti la misura619. In secondo luogo, il trattamento deve rispondere a criteri di appropriatezza scientifica620 e, qualora esistano più alternative di cura, deve essere scelta quella meno invasiva

2002 (in Giur. cost., 2002, 519 ss., con osservazioni di F. GIUFFRÈ, Concorrenza dei modelli di garanzia dei diritti fondamentali e «buon uso» della discrezionalità legislativa, 530 ss. e di M. ATELLI, Generalità delle parti per esteso o mere iniziali nell’attuazione degli adempimenti pubblicitari della Corte nell’ambito del giudizio incidentale di costituzionalità, 541 ss.), 476 del 2002 (in Giur. cost., 2002, 3975 ss.), 342 del 2006 (in Giur. cost., 2006, 3396 ss., con osservazione di M. ESPOSITO, Indennizzo per violazione del diritto alla salute o indennizzo per espropriazione?, 3403 ss.), 107 del 2012 (in Giur. cost., 2012, 1452 ss., con osservazione di R. CHIEPPA, Ancora una giusta solidarietà, questa volta per i danneggiati da somministrazione di vaccini semplicemente consigliata e promossa, ma nessuna iniziativa dello Stato nei confronti delle imprese farmaceutiche, 1461 ss.) e l’ordinanza n. 522 del 2000 (in Giur. cost., 2000, 4097 ss.).

617 Cfr. D. VINCENZI AMATO, Art. 32, 2º comma, cit., 177; S.P. PANUNZIO, Vaccinazioni, cit., 2; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 60; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 14 s.; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 258.; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 44.

618 Cfr. L. BRUSCUGLIA, Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), cit., 187; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2471; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, cit., 66; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 115; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 96; L. MEZZETTI – A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, cit., 338.

619 Cfr. L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 603; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, cit., 96; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, cit., 667; M. GRAZIADEI, Il consenso informato e i suoi limiti, cit., 267; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 132; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 277.

620 Cfr. C. MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, cit., 445; L. BRUSCUGLIA, Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), cit., 187; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 115; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 592 e 601; M. GRAZIADEI, Il consenso informato e i suoi limiti, cit., 267.

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dell’integrità individuale621. L’intervento deve essere anche preceduto da accertamenti che puntino a ridurre il rischio di complicanze e di effetti collaterali622. In materia di vaccinazioni, la sentenza n. 258 del 1994623 ha rivolto un monito al legislatore, «affinché, ferma la obbligatorietà generalizzata delle vaccinazioni ritenute necessarie alla luce delle conoscenze mediche, siano individuati e siano prescritti in termini normativi, specifici e puntuali, ma sempre entro limiti di compatibilità con le sottolineate esigenze di generalizzata vaccinazione, gli accertamenti preventivi idonei a prevedere ed a prevenire i possibili rischi di complicanze» (punto 6 del Considerato in diritto). Il trattamento deve infine essere attuato salvaguardando il pudore del destinatario e la riservatezza dei suoi dati sanitari624. Nella sentenza n. 218 del 1994 il Giudice delle leggi afferma che la dignità della persona «comprende anche il diritto alla riservatezza sul proprio stato di salute ed al mantenimento della vita lavorativa e di relazione compatibile con tale stato» (punto 2 del Considerato in diritto).

Le rilevate esplicazioni del concetto di dignità umana implicito nell’art. 32, co. 2, Cost. consentono di confutare la tesi secondo cui la formula in esame sarebbe una sintesi dei diritti inviolabili dell’uomo e assicurerebbe quindi la prevalenza delle opinioni e dei convincimenti del singolo sull’interesse collettivo alla salute625. Si tratta di una visione generica dell’idea di dignità, cui va contrapposta una prospettiva più restrittiva ma maggiormente agganciata al testo dell’art. 32 Cost.626. In quest’ottica, il rispetto della dignità si riferisce all’ambito del trattamento sanitario obbligatorio e soprattutto alla sua finalità627; sicché ove il t.s.o. sia disposto nell’interesse collettivo alla salute, non danneggi l’interessato e sia eseguito con modalità rispettose della sua

621 Cfr. L. BRUSCUGLIA, Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e

trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), cit., 187; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2471; C. SMURAGLIA, Trattamenti sanitari e tutela dei diritti fondamentali, cit., 402; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 115; D. VALENTINI, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, cit., 15; L. MEZZETTI – A. ZAMA, Trattamenti sanitari obbligatori, cit., 338; M. GRAZIADEI, Il consenso informato e i suoi limiti, cit., 267; S. ROSSI, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 258, secondo cui le modalità di attuazione del t.s.o. devono conformarsi ai principi di proporzionalità e di ragionevolezza.

622 Cfr. L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 602; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 62.

623 In Giur. cost., 1994, 2097 ss. 624 Cfr. C. MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, cit., 445; L. BRUSCUGLIA,

Commentario alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), cit., 187; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, cit., 2471; E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 116; G. PELAGATTI, I trattamenti sanitari obbligatori, cit., 56 e 61; L. CHIEFFI, Trattamenti immunitari e rispetto della persona, cit., 603 s.; A. SIMONCINI – E. LONGO, Art. 32, cit., 667; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 54.

625 Cfr. F. MODUGNO, Trattamenti sanitari «non obbligatori» e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), cit., 314, secondo il quale «Il rispetto della persona umana si sostanzia dunque nel rispetto delle opinioni, delle credenze, dei convincimenti dei singoli, che, più di ogni altro valore – pur nella loro storica mutevolezza e proprio anzi al precipuo fine di rendere possibile il movimento e lo sviluppo nell’attuazione della personalità (art. 3 cpv. Cost.) – rappresentano il patrimonio più geloso ed autentico del singolo e il contenuto della sua dignità».

626 Cfr. L. CARLASSARE, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, cit., 110. 627 Cfr. C. MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, cit., 442; B. PEZZINI, Il diritto

alla salute: profili costituzionali, cit., 29 e 65 s.; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 50 s.

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dignità, l’individuo non potrà opporre le sue convinzioni all’attuazione della misura628. Tale problematica è stata affrontata dalla Corte nell’ordinanza n. 134 del 1988629, che ha ad oggetto una questione di legittimità costituzionale fondata proprio sulla tesi criticata e sulla cui base il giudice a quo aveva dedotto il contrasto tra l’obbligo della vaccinazione antipoliomielitica e l’art. 32 Cost. La Consulta risolve il dubbio in maniera assai sbrigativa, dicendo che «le affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione sono sostanzialmente di carattere metagiuridico e non precisano i profili di un’effettiva violazione dell’art. 32 Cost. […], contrapponendo ad una legge palesemente intesa alla tutela della salute un generico e soggettivo convincimento della sua inopportunità». Nonostante la stringatezza della motivazione, risulta comunque confermata la ricostruzione qui accolta.

In conclusione, la dignità umana opera nell’art. 32, co. 2, Cost. come limite alla potestà pubblica impositiva di trattamenti sanitari e nello stesso tempo come fondamento del diritto di rifiutare le cure e del più generale diritto all’autodeterminazione in materia di salute. Se ne ricava una valenza eminentemente soggettiva della nozione, che si differenzia ad esempio dalla dimensione oggettiva riscontrata nell’analisi dell’art. 41, co. 2, Cost., almeno secondo l’interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale (v. supra, § 6).

8.1. Gli ambigui richiami al concetto di dignità nei provvedimenti giudiziari adottati nel “caso Welby” e nel “caso Englaro”

Si è già visto che la nozione di dignità è ambivalente e che, ove non sia interpretata

tenendo conto di tutti i dati desumibili dall’art. 32 Cost., può dar luogo a due risultati ermeneutici opposti: la dignità umana potrebbe essere intesa come principio oggettivo, da cui dedurre un obbligo dell’individuo di non peggiorare il suo stato di salute e di non porre conseguentemente a rischio la propria vita; viceversa la dignità umana potrebbe essere considerata in termini soggettivi, cioè come proiezione del singolo e del suo modo di concepire l’esistenza. Nel primo caso, sussisterebbe in capo ad ogni persona un “dovere alla salute”, che precluderebbe il rifiuto di terapie salvavita. Nel secondo caso, l’individuo sarebbe invece titolare di un diritto di rifiutare le cure, finanche nelle ipotesi in cui ciò possa condurre alla morte. Così ricostruita, la dignità umana costituirebbe il fondamento di un diritto all’autodeterminazione terapeutica limitabile solo nel caso di trattamenti sanitari obbligatori, che il legislatore potrebbe imporre esclusivamente in presenza delle condizioni desumibili dall’art 32 Cost. e che sono state prima analizzate (v. supra, § 8).

628 Cfr. V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, cit., 562, che include

nell’espressione del “rispetto della persona umana” la tutela della libertà di coscienza e di fede dell’individuo, ma aggiunge che, in caso di contrasto tra il principio di cui all’art. 19 Cost. e l’interesse collettivo alla salute, dovrebbe essere preferito quest’ultimo in quanto generale; D. MORANA, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, cit., 51 s. Contra E. VARANI, I trattamenti sanitari tra obbligo e consenso (Il punto della situazione), cit., 115; C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit., 116, che però considera comunque applicabili, in casi del genere, provvedimenti restrittivi della libertà personale o della libertà di circolazione e soggiorno.

629 In Giur. cost., 1988, parte I, 459 s.

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Tra le due interpretazioni, l’art. 32 Cost. sembra accogliere la seconda e in tal senso sono orientate la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza costituzionale. È interessante notare come la rilevata ambiguità caratterizzi i provvedimenti giurisdizionali adottati in due note e drammatiche vicende riguardanti l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale, il “caso Welby” e il “caso Englaro”. Negli atti giudiziari adottati in entrambi gli episodi il concetto di dignità è invocato talvolta nel suo significato oggettivo, talaltra nel suo significato soggettivo. Anche in questi casi trova conferma la conclusione suggerita, cioè che solo il riferimento all’art. 32 Cost. consente di dare univocità alla nozione in esame e di ritenere preferibile l’accezione soggettiva del termine.

Prima di procedere sono tuttavia necessarie una delimitazione del tema e una precisazione. In primis va chiarito che le pronunce giudiziarie saranno analizzate e valutate soltanto per l’utilizzo dell’idea di dignità; il giudizio non riguarderà quindi la soluzione complessiva del caso, ma solo l’uso del concetto de quo. In secundis va rilevato che la variante oggettiva della nozione di dignità ricorre negli atti giudiziari non solo nella prospettiva dell’esistenza di un “dovere alla salute”, ma anche in un’ottica opposta, secondo cui gravissime condizioni patologiche devono essere reputate obiettivamente degradanti e in contrasto con i canoni di un’esistenza dignitosa. Non cambia però il modo in cui opera la nozione di dignità: come concetto elaborato da soggetti diversi dal suo titolare – siano essi i medici, i familiari o i giudici – e che si impone a quest’ultimo, limitandone la facoltà di decidere sui trattamenti sanitari da praticare.

Iniziando dal “caso Welby”630, l’accezione soggettiva di dignità emerge chiaramente già nell’atto d’intervento del p.m. dell’11 dicembre 2006, in cui si considera acquisito «il principio secondo cui l’intervento medico è legittimato dal consenso valido e consapevole espresso dal paziente, in forza degli articoli 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto di autodeterminazione, lasciando a ciascuno il potere di scegliere autonomamente se effettuare, o meno, un determinato trattamento sanitario» (punto 2 dell’atto). Il p.m. continua dicendo che «Nel caso concreto per dare la massima effettività al diritto del paziente è necessario procedere alla sedazione richiesta, altrimenti il diritto diventerebbe solo astratto e il distacco dal respiratore senza sedazione violerebbe di fatto il rispetto del principio costituzionale della dignità della persona e del diritto di autodeterminazione» (punto 2 dell’atto). L’atto d’intervento pone in stretta correlazione la dignità umana e il diritto all’autodeterminazione. Questa visione è condivisa dall’ordinanza del Tribunale di Roma del 16 dicembre 2006, che

630 La vicenda è assai nota, per cui è sufficiente ricordare che il suo protagonista, Piergiorgio Welby, era affetto da distrofia facio-scapolo-omerale e aveva proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. per chiedere la cessazione dell’attività di sostentamento mediante ventilatore artificiale e la contestuale esecuzione di una terapia di sedazione terminale. Il ricorso era dichiarato inammissibile dal Tribunale di Roma con ordinanza del 16 dicembre 2006. Nei giorni successivi, il paziente individuava un medico anestesista disposto ad attuare il trattamento richiesto e il 20 dicembre 2006 il trattamento veniva effettuato, con conseguente decesso dell’interessato. Nei confronti del medico anestesista, imputato per la fattispecie di “omicidio del consenziente” (art. 579 c.p.), il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma pronunciava il 23 luglio 2007 sentenza di non luogo a procedere (art. 425 c.p.p.) per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). In questa sentenza sono analiticamente descritti la vita di Piergiorgio Welby, il decorso della patologia e le motivazioni alla base della sua richiesta. Basti qui evidenziare che la distrofia facio-scapolo-omerale non priva il malato delle facoltà intellettive e che Welby era capace di intendere e di volere fino al momento della sedazione terminale. Non ci sono dubbi, quindi, sull’effettiva provenienza dal paziente della richiesta d’interruzione della ventilazione artificiale e sulla corrispondenza alla sua volontà e ai suoi convincimenti interiori.

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sottolinea che «lo sforzo di attuazione del principio della libertà individuale e di elaborazione del “contenuto” del consenso per le scelte di trattamento medico di fine vita nei malati terminali, tema molto presente nella sensibilità culturale, scientifica, etica e religiosa generale, richiede necessariamente il superamento della impostazione formale della generale doverosità giuridica del mantenimento in vita del paziente e il leale ripensamento delle categorie distintive fra comportamenti passivi e comportamenti attivi del medico, in particolare valorizzando l’essenza e il rispetto della dignità umana, la qualità della vita e facendo ricorso ai concetti di futilità o inutilità del trattamento medico, di incurabilità della malattia, di insostenibilità della sofferenza e di condizioni degradanti per l’essere umano» (punto 4 della motivazione). Nello stesso tempo, il Tribunale considera troppo indeterminato il concetto di dignità e aggiunge che, in assenza di un intervento legislativo, il diritto del paziente ad ottenere l’interruzione di un trattamento medico non è suscettibile di attuazione pratica.

Oggettiva è invece la visione della dignità accolta dall’ordinanza del 7 giugno 2007, con cui il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma rigetta la richiesta di archiviazione formulata dal p.m. nei confronti del medico anestesista che aveva eseguito il trattamento richiesto da Piergiorgio Welby. Nell’ordinanza, il GIP sostiene che «il diritto alla vita, nella sua sacralità, inviolabilità e indisponibilità, costituisca il limite per tutti gli altri diritti che, come quello affermato dall’art. 32 Cost., siano posti a tutela della dignità umana». Tale conclusione è ribaltata dalla sentenza di non luogo a procedere del GUP, che, nel descrivere la situazione di Welby, parla di una «condizione di grande serenità, come di chi, fino a quel momento mai domato da ogni giro di vite che la malattia gli aveva imposto, sia ormai profondamente consapevole di avere esaurito ogni aspettativa di vita, di una vita che possa essere ancora chiamata tale e che abbia conservato la dignità coessenziale alla qualità di uomo». Il Giudice dell’udienza preliminare aggiunge poi che «era presente in lui anche una grande e serena determinazione, ancora più forte se raffrontata ad una prova così difficile; determinazione, che è figlia necessariamente di un vissuto pieno, come d’altra parte dimostrano i suoi scritti, che è figlia di una lucida consapevolezza del presente e del passo che sta per affrontare […] e che è figlia della sua tenace volontà di non voler abbandonare il ruolo di protagonista della propria vita, in quest’ultima preservando dignità e qualità».

Passando al “caso Englaro”631, si può anzitutto ricordare che il decreto del Tribunale di Lecco del 2 marzo 1999 evidenzia che «l’art. 2 della Costituzione tutela il

631 Anche tale episodio è conosciuto; basta quindi ricordare che Eluana Englaro era stata vittima di un incidente stradale il 18 gennaio 1992 ed era caduta in stato vegetativo persistente. Il padre (e tutore) aveva più volte proposto ricorso giurisdizionale per chiedere l’autorizzazione ad interrompere il trattamento artificiale di nutrizione e idratazione, che teneva in vita la figlia. Dopo numerosi rigetti, la Corte di Cassazione, con sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748, ha determinato una svolta nella vicenda, formulando il seguente principio di diritto: «Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino naso gastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e

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diritto alla vita come primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, la cui dignità attinge dal valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni anche disperate in cui si esplica la sua esistenza». Il decreto qualifica inoltre il diritto alla vita come indisponibile da parte del suo titolare632. Meno netta è invece la posizione tenuta dalla Corte d’Appello di Milano nel decreto del 31 dicembre 1999, che sembra oscillare tra una concezione oggettiva ed una soggettiva della dignità umana. La Corte chiarisce innanzitutto che la questione deve essere approfondita «alla luce dei principi costituzionali nell’ottica di evitare che il confine tra la vita e la morte sia reso evanescente da arbitrarie-emotive valutazioni in ordine alla dignità della vita o alla sua meritevolezza di essere vissuta». Subito dopo aggiunge che «La nostra Costituzione muove da una concezione personalistica, dal primato dell’uomo, come valore etico in sé «uomo-valore, uomo-persona, uomo-fine», con le sue componenti solidaristico-sociali di sviluppo, di rispetto e di dignità, che sono attributi integranti della persona che devono essere salvaguardati, con il categorico divieto di ogni strumentalizzazione del soggetto per alcun interesse extrapersonale». La nozione di “vita” va però precisata alla luce delle facoltà intellettive dell’uomo: secondo il giudice d’appello, «La vita dell’individuo va intesa non in senso biologico come un mero fatto meccanico suscettibile di prolungamenti artificiali, bensì come possibilità di relazione e di autorealizzazione, in riferimento alla personalità e alla soggettività dell’uomo, con la conseguenza che la perdita irreversibile della coscienza non può non costituire il limite di ogni trattamento medico, giacché segna il momento in cui cessa definitivamente la possibilità di una vita dignitosa». In questa prospettiva, l’autodeterminazione individuale riguadagna terreno. La visione oggettiva della dignità pare invece riaffiorare nel punto in cui il decreto dice che «Alla stregua delle nozioni scientifiche acquisite e unanimemente condivise secondo i protocolli e le linee-guida a livello internazionale deve essere riconosciuta ai medici la responsabilità di effettuare ragionevoli e socialmente convalidati giudizi di valore che portino a restringere le alternative offerte al paziente nel rispetto del principio costituzionale della dignità della persona umana». Tale affermazione sembra affidare al medico la decisione sulla compatibilità di un trattamento con il canone della dignità, decisione che dovrebbe invece spettare al

convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa». In applicazione di questo principio, la Corte d’Appello di Milano, con decreto del 9 luglio 2008, ha ritenuto soddisfatti entrambi i requisiti indicati dalla Suprema Corte ed ha accolto l’istanza di autorizzazione all’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale. Come si può constatare, rispetto al “caso Welby” c’è (almeno) una differenza di rilievo: Eluana Englaro, prima di cadere in stato d’incoscienza, non aveva potuto esprimere la propria volontà in ordine alle cure che avrebbe poi ricevuto. La sua volontà è stata ricostruita sulla base della pluralità di fattori enunciati dalla Corte di Cassazione.

632 Sostanzialmente analogo è il contenuto del decreto del Tribunale di Lecco del 20 luglio 2002, in cui si afferma che la tutela della vita non subisce eccezioni neanche «per i casi di esistenze costellate da sofferenze fisiche, da deformazioni somatiche, da stati di incoscienza del mondo esterno, fino a comprendere l’ipotesi – che qui direttamente rileva – dello stato vegetativo persistente (di perdurante disabilità) e permanente (perché irreversibile)». Escluso ovviamente qualsiasi potere di terzi sul diritto alla vita dell’individuo, tuttavia nemmeno quest’ultimo può disporne, se si accetta la logica sottesa al decreto citato. Il diritto alla vita si configura allora più propriamente come un “dovere alla vita”. Tale considerazione sarà approfondita nel prosieguo della trattazione.

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paziente, naturalmente sulla base di tutte le informazioni ricevute dal personale sanitario.

Un cenno all’accezione soggettiva si rinviene nel decreto della Corte d’Appello di Milano del 18 dicembre 2003, in cui si fa riferimento all’interesse «a morire una morte che il soggetto considera «dignitosa», o […] a lasciare un certo ricordo di sé nel mondo». Opposta è invece la prospettiva del decreto del Tribunale di Lecco del 2 febbraio 2006, in cui si afferma che «Una corretta interpretazione dei principi costituzionali porta ad escludere che si possa operare una distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute. Ciò a prescindere dalla impossibilità di individuare criteri oggettivi sulla base dei quali operare tale distinzione». Questa considerazione è sicuramente condivisibile nella misura in cui esclude che una persona diversa dall’interessato possa sindacare la natura dignitosa di un’esistenza e possa decidere in merito all’interruzione di terapie salvavita. Certamente non può farlo il medico, né tanto meno può farlo l’autorità pubblica. Diversamente, l’individuo sarebbe trattato dallo Stato come un oggetto e sarebbe violato il rispetto della persona umana che l’art. 32, co. 2, Cost. pone come limite invalicabile all’azione del legislatore. Ciò vieta qualsiasi intervento, da parte di un privato o dello Stato, volto a disporre l’interruzione di un trattamento sanitario per finalità eugenetiche. L’asserzione del Tribunale di Lecco lascia però intendere che neppure il paziente medesimo può chiedere la cessazione di una terapia di sostegno vitale e una simile conclusione pare in contrasto con l’art. 32 Cost., almeno secondo l’interpretazione preferibile. In effetti, il nodo problematico della tesi sostenuta dal giudice di prima istanza è proprio questo: essa non serve tanto ad arginare il pericolo di forme di eutanasia eugenetica, senza dubbio inammissibili in virtù dell’art. 32 Cost. e del principio personalistico che anima l’intera Carta fondamentale; serve invece soprattutto a restringere la libertà del singolo di decidere sulla sua salute, ove tale decisione si traduca nel rifiuto di cure salvavita.

La valutazione compiuta in primo grado è confermata dalla Corte d’Appello di Milano nel decreto del 16 dicembre 2006, che si sofferma ampiamente anche sulle argomentazioni della difesa del tutore, così riassunte: «Le considerazioni del tutore […] muovono dall’invasività del trattamento che lede l’integrità psicofisica e la dignità di E., perché la mantiene in vita senza alcuna speranza di miglioramento in uno stato vegetativo permanente, caratterizzato dalla mancanza di coscienza, ossia di contatto con il mondo, condizione che di per sé priva di dignità la vita (la cui essenza consiste appunto nella coscienza e nella capacità di relazionarsi). Si basano inoltre sulla convinzione che la vita umana – se priva di coscienza – è priva di dignità e che il diritto alla dignità e alla libertà di autodeterminazione (che passa anche attraverso il rifiuto di cure inutili) sono costituzionalmente garantite a tutti e quindi anche agli incapaci». A ben vedere, l’opinione del tutore non è molto diversa da quella del Tribunale di Lecco: sebbene tendente a un risultato opposto, cioè all’interruzione di terapie ritenute incompatibili con un’esistenza dignitosa, essa si fonda su una concezione della dignità umana che non proviene dal paziente e che gli viene al contrario imposta. In altri termini, anche in questa ricostruzione è un terzo a stabilire quali cure siano conformi all’idea di dignità e a decidere al posto dell’interessato, limitandone il diritto all’autodeterminazione. In tal caso si tratta del padre della paziente e il suo giudizio non può essere ignorato; ma l’art. 32 Cost. riconosce esclusivamente al titolare del diritto alla salute la libertà di rifiutare le cure, salvo le eccezioni prima esaminate633.

633 Anzi, proprio le eccezioni consentono di enucleare la regola della normale volontarietà del trattamento sanitario. È appena il caso di notare, con riferimento al “caso Englaro”, che nessuna legge

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La lettura proposta è pienamente accolta dalla Corte di Cassazione, nella sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748. In maniera appropriata, il giudice della nomofilachia riconduce l’intera questione nell’alveo dell’art. 32 Cost. e rileva anzitutto che «Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale» (punto 6.1 della motivazione). Poco dopo, la Corte ribadisce che «Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita» (punto 6.1 della motivazione). In un passaggio successivo, che è opportuno riportare integralmente, la Suprema Corte giustifica questa soluzione facendo esplicito riferimento all’art. 32 Cost.: «il collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva […]. Lo si ricava dallo stesso testo dell’art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma anzi sia utile alla salute di chi vi è sottoposto. Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire» (punto 6.1 della motivazione).

Le parole del giudice di legittimità riflettono una concezione soggettiva della dignità umana e correttamente collegano quest’ultima al diritto all’autodeterminazione634. Solo a tali condizioni la nozione in esame può essere invocata nel contesto dei trattamenti sanitari e può offrire soluzioni coerenti con l’art. 32 Cost. La Corte di Cassazione è anzi ferma nell’escludere la validità di posizioni volte ad imporre all’interessato determinate visioni della dignità, a prescindere dal fatto che esse siano dirette a impedire la cessazione delle terapie di sostegno vitale o viceversa a consentirla. In proposito, il giudice della nomofilachia specifica che «Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. La tragicità estrema di tale stato patologico – che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano – non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte» (punto 7.5 della motivazione). In questo modo, la Corte fuga ogni dubbio circa il rischio di abusi che potrebbero verificarsi ove l’interruzione dei trattamenti salvavita sia vista come uno strumento per far fronte all’incapacità dei parenti o del sistema sanitario di farsi carico delle esigenze di cura di un paziente in stato vegetativo persistente635. Una visione del genere sarebbe in radicale contrasto con

prevede come obbligatorie la nutrizione e l’idratazione artificiali; né potrebbe prevederlo, mancando qualsiasi interesse alla tutela della salute collettiva.

634 Cfr. M. RUOTOLO, Appunti sulla dignità umana, cit., 3149. 635 Rischio paventato, ad esempio, dal Tribunale di Lecco nel decreto del 2 marzo 1999, in cui si

afferma che «ogni forma di eutanasia appare non altro che un inaccettabile tentativo di giustificazione

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l’art. 32 Cost. Nello stesso tempo, la Corte sottolinea però che «accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza – c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno» (punto 7.5 della motivazione).

In sintesi, l’unico criterio in base al quale un trattamento sanitario può essere effettuato è la volontà del paziente, che sceglierà quali terapie ricevere e quali rifiutare secondo la propria idea di dignità e di esistenza dignitosa636. Sarebbe invece illegittimo sovrapporre a quella dell’interessato una diversa visione della dignità, riconducibile ad altri soggetti o alla pubblica autorità637, e in base a questa stabilire se interrompere o mantenere una terapia638. Distinta è la questione circa la possibilità di ricostruire in via presuntiva la volontà dell’interessato, sulla base della sua biografia e dei suoi convincimenti. Tale aspetto diventa cruciale quando, come nel caso di specie, il paziente non abbia espresso la sua volontà sulle cure da ricevere prima di cadere in stato d’incoscienza. Il secondo nucleo argomentativo della sentenza n. 21748 del 2007 ruota proprio intorno alle modalità di accertamento della volontà di Eluana Englaro, su cui non serve soffermarsi in questa sede.

All’esito dell’analisi del “caso Welby” e del “caso Englaro” si può ribadire la tesi illustrata inizialmente: il concetto di dignità non è in grado, se utilizzato indipendentemente dal dato positivo, di offrire soluzioni soddisfacenti in materia di autodeterminazione terapeutica639. Come si è visto, esso può essere astrattamente invocato sia per sostenere che il titolare del diritto alla vita non possa mai disporre di questa né possa sindacare il carattere dignitoso o meno della sua esistenza; sia, in prospettiva opposta, per ritenere che un’esistenza prolungata artificialmente non risponda al canone della dignità umana640. Entrambe le opinioni si muovono in una della tendenza della comunità, incapace di sostenere adeguatamente i singoli costretti a una misura di estrema dedizione nei confronti dei malati nella speranza di guarigione, a trascurare i diritti dei suoi membri più deboli e in particolare di quelli che non siano più nelle condizioni di condurre una vita cosciente, attiva e produttiva». Nella sentenza n. 21748 del 2007, la Corte di Cassazione si sofferma anche sul concetto di eutanasia e precisa che «Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale» (punto 6.1 della motivazione).

636 Il principio in esame è stato applicato in altri casi analoghi. V., ad esempio, il decreto del Tribunale di Sassari del 16 luglio 2007, in cui si rimarca che «il problema che l’ordinamento deve porsi non è quello di sostituire la volontà dell’infermo con la volontà di un terzo»; il decreto del Tribunale di Modena del 5 novembre 2008, in cui si afferma che «se sarebbe improprio l’assunto che l’art. 32 Cost. dia tutela al diritto alla morte, non lo è la constatazione che la norma garantisce il diritto che il naturale evento si attui con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale quale costruita dall’individuo nel corso della vita attraverso le sue ricerche razionali e le sue esperienze emozionali» (lett. e) della motivazione); il decreto del Tribunale di Firenze del 22 dicembre 2010.

637 Cfr. G. CRICENTI, Il diritto di non nascere, in Riv. crit. dir. priv., 2007, 112 s., seppure con riferimento a un differente tema bioetico; ID., I diritti della bioetica. Spunti dal dibattito nordamericano, in Riv. crit. dir. priv., 2010, 675.

638 Cfr. G. GEMMA, Dignità Umana: un disvalore costituzionale?, in Quad. cost., 2008, 381, che considera paternalistica una concezione del genere.

639 Cfr. V. BALDINI, La dignità umana tra approcci teorici ed esperienze interpretative, cit., 8. 640 Cfr. D. FELDMAN, Human Dignity as a Legal Value – Part I, cit., 685 e 688; M. LUCIANI,

Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, cit., 1063 s., secondo il quale «il richiamo alla dignità, non accompagnato dall’esame delle sue determinazioni normative, non consente

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dimensione oggettiva, in cui è possibile stabilire quale sia il contenuto della dignità umana nelle tematiche di fine vita e imporlo all’interessato. Si tratta tuttavia di punti di vista da respingere, alla luce delle norme costituzionali sulla libertà di salute. L’interpretazione che pare preferibile dell’art. 32 Cost. induce infatti a concludere che la nozione di dignità debba essere intesa in questo caso come sinonimo del diritto all’autodeterminazione dell’individuo, il quale è l’unico soggetto autorizzato dall’ordinamento a decidere se un trattamento sanitario sia o meno coerente con la sua idea di dignità.

9. La giurisprudenza costituzionale sulla dignità umana Esaurita l’analisi delle norme costituzionali che esplicitamente o implicitamente

richiamano il concetto di dignità, bisogna ora verificare se esistano applicazioni ulteriori di tale nozione, le quali superino i singoli riferimenti costituzionali e consentano di elaborare un generale principio di dignità umana. A tal proposito si rende necessario esaminare la giurisprudenza costituzionale, naturalmente prescindendo dalle decisioni che usano il concetto in esame perché contemplato da una specifica disposizione costituzionale.

Nonostante i limiti insiti in ogni tentativo di classificazione, è utile suddividere le sentenze in gruppi o categorie, che si distinguono per il modo in cui l’idea di dignità è richiamata o per le implicazioni che ne vengono tratte.

Un primo gruppo comprende le pronunce in cui la Corte individua normative, fatti o comportamenti lesivi della dignità umana.

Nella sentenza n. 44 del 1964641 si afferma che «Particolari ragioni di tutela della dignità umana hanno indotto il legislatore ad abolire la regolamentazione della prostituzione, la registrazione, il tesseramento e qualsiasi altra degradante qualificazione o sorveglianza sulle donne che esercitano la prostituzione» (punto 3 del Considerato in diritto). Emerge quella visione oggettiva della dignità umana di cui si è parlato prima.

La pronuncia n. 126 del 1968642, che dichiara l’illegittimità costituzionale del primo e del secondo comma dell’art. 559 c.p., sottolinea che «La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua dignità» (punto 6 del Considerato in diritto). La decisione n. 127 del 1968643 interpreta l’eguaglianza morale dei coniugi (art. 29, co. 2, Cost.) come pari dignità della moglie e del marito.

nemmeno il dialogo e obbliga al muro contro muro»; G. ALPA, Dignità personale e diritti fondamentali, cit., 34; C. PICIOCCHI, La dignità nel fine vita: un concetto dirimente?, in A. D’ALOIA (a cura di), Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit., 41 e 61; V. POCAR, Dignità e non-dignità dell’uomo, cit., 126; P. VERONESI, La dignità umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, cit., 324.

641 In Giur. cost., 1964, 569 ss. 642 In Giur. cost., 1968, 2175 ss., con osservazioni di G. GIANZI, L’adulterio alla luce di due

importanti sentenze della Corte costituzionale, 2178 ss.; F. MODUGNO, L’adulterio come delitto e come causa di separazione. (In margine al commento del Prof. Salvatore Satta alle sentenze n. 126 e 127 della Corte costituzionale), 2190 ss.; R. ZACCARIA, Adulterio: violazione dell’eguaglianza tra coniugi non «giustificata» dall’unità della famiglia, 2198 ss.

643 In Giur. cost., 1968, 2208 ss.

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Nella sentenza n. 561 del 1987 la Corte evidenzia che la violenza carnale arreca pregiudizio ai fondamentali valori di libertà e di dignità della persona. La dignità è in tal caso considerata un valore ed è accostata al diritto alla libertà sessuale.

La decisione n. 364 del 1988644 sancisce che il principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale è in contrasto con la libertà e con la dignità della persona, costretta a subire la pena anche per comportamenti non implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti dell’ordinamento, allorché la predetta ignoranza sia inevitabile.

Nella sentenza n. 15 del 1996645 la dignità è collegata alla protezione delle minoranze linguistiche; il Giudice delle leggi sostiene infatti che «la tutela dell’identità linguistica è personale, poiché solo la persona appartenente alla comunità di lingua diversa da quella dominante può avvertire come una menomazione della propria dignità l’imposizione, che fosse eventualmente stabilita nei rapporti con l’autorità, della lingua ufficiale di questa» (punto 4 del Considerato in diritto). In qualche modo, la dignità rappresenta quel diritto ad essere diversi che è alla base del più recente diritto antidiscriminatorio. La sentenza n. 268 del 1998646 menziona le leggi razziali e rimarca che le discriminazioni nei confronti degli Ebrei hanno violato i diritti fondamentali e la dignità delle persone coinvolte. Anche in tal caso vi è una connessione tra la discriminazione e la lesione della dignità umana.

Una seconda tipologia di pronunce ha ad oggetto diritti, istituti o principi che la Corte reputa funzionali alla garanzia della dignità umana.

Nella decisione n. 161 del 1985 si afferma che la legge 14 aprile 1982, n. 164 (“Norme in materia di rettificazione di attribuzioni di sesso”) si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori di libertà e di dignità della persona, che ricerca e protegge anche nelle situazioni minoritarie e anomale. Dall’esigenza di tutela della dignità deriva, quindi, il riconoscimento del diritto all’identità sessuale.

Nell’arresto n. 427 del 1995647 la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del condono edilizio, sostiene che «la normativa in esame risponde adeguatamente […] alla finalità di realizzare un contemperamento dei valori in giuoco, quelli del paesaggio, della salute, della conformità dell’iniziativa economica privata all’utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell’abitazione e del lavoro dall’altra» (punto 2.2 del Considerato in diritto)648. In questa sede la pronuncia non è tanto interessante per il “salvataggio” – giustamente criticato in dottrina649 – che la

644 In Giur. cost., 1988, parte I, 1504 ss., con osservazione di G. PUOTI, L’incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p.: considerazioni sulla sentenza n. 364 del 1988 nell’ottica del diritto tributario, 1534 ss.

645 In Giur. cost., 1996, 140 ss., con osservazione di D. MONEGO, Tutela dello sloveno nel processo civile e giurisprudenza costituzionale, 1222 ss.

646 In Giur. cost., 1998, 2083 ss. 647 In Giur. cost., 1995, 3320 ss., con osservazione di G. GEMMA, Condono edilizio e costituzione:

una compatibilità tutta da dimostrare, 4506 ss. 648 L’affermazione è richiamata nelle pronunce nn. 256 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 2297 ss.), 270

del 1996 (in Giur. cost., 1996, 2377 ss.), 302 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 2495 ss.), 85 del 1998 (in Giur. cost., 1998, 797 ss.) e 196 del 2004 (in Giur. cost., 2004, 1930 ss., con osservazioni di R. CHIEPPA, Prospettive per il condono edilizio, 2008 ss.; C. PINELLI, Le scelte della Corte sul condono edilizio e alcune loro problematiche conseguenze, 2012 ss.; P. STELLA RICHTER, Una grande occasione mancata, 2015 ss.).

649 Cfr. G. GEMMA, Condono edilizio e costituzione: una compatibilità tutta da dimostrare, cit., 4511, secondo cui «Se le finalità costituzionali potessero giustificare le deroghe di per sé, si aprirebbero

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Corte opera del condono, ancorandolo a finalità costituzionali, quanto per due aspetti: alla dignità sono ricondotti sia il diritto all’abitazione sia il diritto al lavoro; la dignità è considerata un valore, soggetto però al bilanciamento con altri valori concorrenti. Ciò priva di fondamento la tesi secondo cui la dignità sarebbe un valore supercostituzionale, funzionante come norma sostanziale di chiusura del sistema650. Sul punto bisogna intendersi: non c’è dubbio che la dignità, per il suo legame con il principio personalista, sia il fondamento valoriale dei diritti inviolabili (v. supra, § 2.1); non si può però qualificarla come principio di chiusura o come “bilancia”651 e trarre da essa la conseguenza giuridica di assicurare la prevalenza di un diritto su un altro. Questo perché la sua indeterminatezza impedisce di individuare criteri di soluzione del contrasto tra diritti, specie nelle ipotesi in cui entrambi i diritti in conflitto siano riconducibili alla dignità umana652. Non a caso si è scelta qui la strada di analizzare la dignità nel contesto delle singole disposizioni costituzionali in cui è richiamata, in modo da ricavarne specifici effetti giuridici. Per quanto riguarda invece il rapporto tra la dignità e singoli diritti, si rinvia a quanto detto in precedenza (v. supra, §§ 2.1 e 2.2).

La sentenza n. 390 del 1999653 evidenzia che nel lavoro si manifestano la dignità e la libertà di scelta della persona.

La pronuncia n. 263 del 2000654 pone in relazione la dignità e il principio di offensività in materia penale, con la seguente argomentazione: «L’art. 25, quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula […] un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale» (punto 3 del Considerato in diritto)655.

le porte all’arbitrio legislativo, all’introduzione di una serie indefinita di deroghe, con la concessione indiscriminata di privilegi o di favori. È, infatti, assai agevole rinvenire qualche fine costituzionale che possa legittimare il contenuto di leggi derogatorie, considerato di per sé. Per fare un esempio un po’ grossolano, una legge di favore, che sottraesse a sanzioni penali detentive alcuni imprenditori, autori di reati gravi, per evitare difficoltà o chiusura di aziende, ben potrebbe essere giustificata sulla base del diritto al lavoro e della finalità costituzionale di assicurare un’occupazione ai cittadini».

650 Cfr. A. RUGGERI – A. SPADARO, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 347 s.; A. RUGGERI, Sistema integrato di fonti, tecniche interpretative, tutela dei diritti fondamentali, in Pol. dir., 2010, 38.

651 Cfr. G. SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona. Intervento al Convegno trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, tenutosi a Roma il 1º ottobre 2007, cit., che definisce la dignità il criterio che orienta il bilanciamento; A. RUGGERI, Appunti per una voce di Enciclopedia sulla dignità dell’uomo, in www.dirittifondamentali.it, 15 aprile 2014, 8 s., che considera la dignità refrattaria, nella sua assolutezza, ad ogni forma di ponderazione.

652 Cfr. G. MONACO, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, cit., 70 s.

653 In Giur. cost., 1999, 3019 ss., con osservazione di A. GUAZZAROTTI, L’insostenibile precarietà dell’insegnante di religione, 3031 ss.

654 In Giur. cost., 2000, 2064 ss., con osservazioni di G.M. SALERNO, Il canone di efficienza ed il controllo sulla discrezionalità legislativa in materia penale, 2071 ss. e di I. FERRARA, Osservazioni sulla offensività della fattispecie di violata consegna (art. 120 c.p.m.p.). Appunti in calce alla sentenza della Corte costituzionale 11 luglio 2000, n. 263, 2077 ss.

655 Tale principio è invocato anche nelle decisioni nn. 354 del 2002 (in Giur. cost., 2002, 2653 ss., con osservazione di S. SILVANI, Definitivamente estromessa dal sistema penale l’ubriachezza manifesta,

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Nella sentenza n. 162 del 2014656 si afferma che «La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo, perché anch’essa attiene a questa sfera» (punto 6 del Considerato in diritto). Non è agevole tuttavia stabilire, in assenza di altre indicazioni da parte della Consulta, il nesso esistente tra tale sfera intima e intangibile e la dignità umana.

Una terza categoria di decisioni fa riferimento alla dignità professionale di appartenenti a diverse categorie: giornalisti657, avvocati658, magistrati659, medici660, dottori commercialisti661, biologi e chimici662, superiori gerarchici nell’ordinamento militare663, professionisti intellettuali in genere664. Questa categoria è poco rilevante, poiché la dignità professionale non va confusa con la dignità umana, come si è già detto (v. supra, § 6).

Nelle prime tre categorie di arresti esaminati la dignità non svolge una precisa funzione nel discorso giuridico, essendo utilizzata per rafforzare argomentazioni ed esiti già autonomamente fondati su altri parametri costituzionali. Più interessanti sono altre tipologie di sentenze.

Una quarta tipologia include le pronunce in cui la dignità è intesa come onore e reputazione e funge da limite alla libertà di manifestazione del pensiero o ad altri interessi, soprattutto nell’ambito del diritto processuale penale665. Come già visto (v. 2659 ss.) e 225 del 2008 (in Giur. cost., 2008, 2528 ss., con osservazione di V. MANES, La pervicace resistenza dei «reati di sospetto», 2539 ss.)

656 In Giur. cost., 2014, 2563 ss., con osservazione di C. TRIPODINA, Il “diritto al figlio” tramite fecondazione eterologa: la Corte costituzionale decide di decidere, 2593 ss.

657 Cfr. le sentenze nn. 11 del 1968 (in Giur. cost., 1968, 311 ss., con osservazioni di E. CHELI, In tema di legittimità costituzionale dell’Ordine e dell’albo dei giornalisti, 318 ss. e di G. ZAGREBELSKY, Questioni di legittimità costituzionale della l. 3 febbraio 1963 n. 69, istitutiva dell’ordine dei giornalisti, 330 ss.), 98 del 1968 (in Giur. cost., 1968, 1554 ss., con osservazioni di F. LEVI, In margine alla libertà del giornalista: sulla posizione del direttore del giornale, 1557 ss. e di C. MEZZANOTTE, Libertà di manifestazione del pensiero, libertà negativa di associazione e Ordine professionale dei giornalisti, 1561 ss.) e 71 del 1991 (in Giur. cost., 1991, 503 ss.).

658 Cfr. Corte cost. n. 114 del 1970, in Giur. cost., 1970, 1221 ss. 659 Cfr. le sentenze nn. 110 del 1981 (in Giur. cost., 1981, parte I, 843 ss., con osservazione di P.

GRASSO, Il principio nullum criminem sine lege e le trasgressioni disciplinari dei magistrati dell’ordine giudiziario ordinario, 845 ss.), 30 del 1991 (in Giur. cost., 1991, 186 ss.) e 380 del 1999 (in Giur. cost., 1999, 2924 ss.).

660 Cfr. le sentenze nn. 137 del 1984 (in Giur. cost., 1984, parte I, 896 ss.) e 308 del 1990 (in Giur. cost., 1990, 1882 ss.).

661 Cfr. Corte cost. n. 766 del 1988. 662 Cfr. Corte cost. n. 29 del 1990, in Giur. cost., 1990, 85 ss. 663 Cfr. Corte cost. n. 278 del 1990, in Giur. cost., 1990, 1682 ss. 664 Cfr. Corte cost. n. 17 del 1976, in Giur. cost., 1976, parte I, 73 ss., con osservazioni di V. GRECO,

Brevi note sulle società professionali, 225 ss. e di A. FANTOZZI, Note sulla liceità delle società tra professionisti dopo la sentenza della Corte costituzionale, 1600 ss.

665 Cfr. le sentenze nn. 18 del 1966 (in Giur. cost., 1966, 173 ss., con osservazione di V. BAROSIO, Il divieto di pubblicare atti o documenti relativi ad una istruzione penale e la sua compatibilità con gli artt. 3 e 21 Cost., 176 ss.), 122 del 1966 (in Giur. cost., 1966, 1669 ss., con osservazione di V. GREVI, Perdono giudiziale e diritto di difesa nell’istruzione minorile, 1671 ss.), 151 del 1967 (in Giur. cost., 1967, 1754 ss., con osservazione di O. DOMINIONI, Formule istruttorie di proscioglimento e «interesse alla difesa», 1756), 109 del 1968 (in Giur. cost., 1968, 1697 ss.), 28 del 1969 (in Giur. cost., 1969, 384 ss., con osservazioni di G. TRANCHINA, La sentenza della Corte costituzionale n. 28 del 1969: una decisione di legittimità o una valutazione di opportunità?, 386 ss. e di G. GALLI, Incostituzionalità dei

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supra, § 4), la tutela dell’onore può essere ricondotta al riconoscimento della pari dignità sociale (art. 3, co. 1, Cost.), che però ha una portata ben più ampia e non si esaurisce nella difesa della reputazione.

Vi sono infine tre gruppi di decisioni che richiedono un’autonoma trattazione e che riguardano rispettivamente il rapporto tra dignità e buon costume, il ricorso alla dignità come criterio di classificazione delle misure restrittive della libertà personale e l’incidenza della dignità sul sistema delle fonti del diritto.

9.1. Rapporto tra dignità e buon costume come limite alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21, co. 6, Cost.)

Alcune sentenze della Corte costituzionale pongono in relazione la dignità umana e

il buon costume, previsto come limite alla libertà di manifestazione del pensiero dall’art. 21, ult. co., Cost.

Nella sentenza n. 9 del 1965666, avente ad oggetto l’art. 553 c.p. (“Incitamento a pratiche contro la procreazione”), la Consulta sostiene che questa fattispecie tuteli il buon costume e sia pertanto riconducibile all’art. 21, ult. co., Cost. In proposito, afferma che «la figura del reato previsto dalla norma impugnata, si verifica quando l’azione del soggetto, che consiste nell’incitare o fare propaganda, illustrandone l’uso, di “pratiche”, vale a dire di operazioni meccaniche ed esterne contro la procreazione, si compia pubblicamente – cioè in luogo pubblico o aperto al pubblico –, e viola per ciò stesso gravemente il naturale riserbo o pudore del quale vanno circondate le cose del sesso e non rispetta l’intimità dei rapporti sessuali, la moralità giovanile e la dignità della persona umana, per la parte che si collega a questi rapporti» (punto 4 del Considerato in diritto). Al di là dell’effettiva giustificabilità della norma alla luce del limite del buon costume667, interessa qui rilevare l’identificazione tra la dignità e il pudore sessuale,

limiti della revisione in ordine alle condanne per contravvenzione, 390 ss.), 70 del 1971 (in Giur. cost., 1971, 641 ss., con osservazione di L. DAGA, Appunti sulla gratuità dell’ufficio e sulla indipendenza e imparzialità dei magistrati onorari, 642 ss.), 159 del 1973 (in Giur. cost., 1973, 1759 ss.), 224 del 1983 (in Giur. cost., 1983, parte I, 1362 ss.), 200 del 1986 (in Giur. cost., 1986, parte I, 1570 ss.), 37 del 1992 (in Giur. cost., 1992, 206 ss., con osservazione di R. NANIA, Spunti in tema di potere disciplinare e diritto alla difesa, 1513 ss.), 45 del 1992 (in Giur. cost., 1992, 267 ss.), 381 del 1992 (in Giur. cost., 1992, 3071 ss., con osservazione di G. SPANGHER, Brevi considerazioni in tema di limiti all’impugnazione agli effetti penali della parte privata per i reati di ingiuria e diffamazione, 3079 ss.), 235 del 1993 (in Giur. cost., 1993, 1718 ss., con osservazione di A. PACE, Procedimento giurisdizionale in materia disciplinare e deroga al principio di pubblicità, 1723 s.), 447 del 1995 (in Giur. cost., 1995, 3520 ss.), 379 del 1996 (in Giur. cost., 1996, 3439 ss., con osservazioni di M. MANETTI, Non sparate sui pianisti. La delega del voto in Parlamento e la rinascita degli interna corporis, 3460 ss. e di F. PETRANGELI, Il deputato che vota sostituendosi a un collega assente: una delicata questione tra sindacabilità giurisdizionale ed esercizio delle funzioni parlamentari, 3475 ss.).

666 In Giur. cost., 1965, 61 ss., con osservazioni di M.S. GIANNINI, Per una maggior ponderazione degli interventi del Presidente del Consiglio dei Ministri, 63 ss.; M. MAZZIOTTI, Incitamento a pratiche contro la procreazione e Costituzione, 67 ss.; F. SORRENTINO, L’art. 553 cod. pen. nell’interpretazione «adeguatrice» della Corte, 77 ss.

667 Non a caso tale conclusione è stata poi ribaltata nella sentenza n. 49 del 1971 (in Giur. cost., 1971, 525 ss., con osservazioni di A. PIZZORUSSO, Dalle «doppie pronunce» alle decisioni «overruling», 527 ss.; E. GRASSI, Ancora in tema di buon costume, politica demografica e altre cose, 531 s.; S. BELLOMIA, «Sei anni dopo», 552 ss.), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione. L’intero titolo X del libro II del codice penale, dedicato ai delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe,

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ancora più esplicita in un passo successivo del medesimo arresto, in cui si dice che «il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e […] può comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti» (punto 5 del Considerato in diritto). Il collegamento tra la dignità umana e il pudore sessuale serve a delimitare l’ambito applicativo del concetto di “buon costume”, la cui genericità può prestarsi a interpretazioni moralistiche e all’indebita limitazione della libertà di manifestazione del pensiero.

Questo principio è confermato nella sentenza n. 93 del 1972668 e soprattutto nella pronuncia n. 368 del 1992, che precisa che il buon costume «non è diretto ad esprimere semplicemente un valore di libertà individuale o, più precisamente, non è soltanto rivolto a connotare un’esigenza di mera convivenza fra le libertà di più individui, ma è, piuttosto, diretto a significare un valore riferibile alla collettività in generale, nel senso che denota le condizioni essenziali che, in relazione ai contenuti morali e alle modalità di espressione del costume sessuale in un determinato momento storico, siano indispensabili per assicurare, sotto il profilo considerato, una convivenza sociale conforme ai principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco tra le persone (art. 2 della Costituzione)» (punto 2 del Considerato in diritto). Sebbene i “contenuti morali” siano difficilmente individuabili, il riferimento congiunto alle modalità di espressione del costume sessuale consente di agganciare le nozioni indeterminate di dignità umana e quindi di buon costume a un parametro sicuro.

Non convince invece la decisione n. 293 del 2000669, concernente l’art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (“Disposizioni sulla stampa”), che sanziona penalmente l’utilizzo di stampati idonei a turbare il comune sentimento della morale. Secondo la Corte, quest’ultima espressione deve essere intesa come la «pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice» (punto 3 del Considerato in diritto).

Alla censura di scarsa tassatività della fattispecie e dei conseguenti usi arbitrari di cui è suscettibile, il giudice costituzionale risponde che «Solo quando la soglia dell’attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività, scatta la reazione dell’ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell’uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un’attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana» (punto 3 del Considerato in diritto). Subito dopo la Corte aggiunge che «La descrizione dell’elemento materiale del

è stato successivamente abrogato dall’art. 22 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”).

668 In Giur. cost., 1972, 1156 ss. 669 In Giur. cost., 2000, 2239 ss., con osservazione di A. ODDI, La riesumazione dei boni mores,

2245 ss.

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fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza. Quello della dignità della persona umana è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale» (punto 4 del Considerato in diritto)670.

Innanzitutto il Giudice delle leggi sembra ignorare che il limite previsto dall’art. 21, ult. co., Cost. è il buon costume e non la pubblica moralità, formula intenzionalmente scartata dai Costituenti per la sua vaghezza e per il pericolo che si trasformasse in una delega in bianco a favore del legislatore ordinario671. In secondo luogo, maldestro appare il tentativo di definire un concetto fumoso con un altro forse ancora più sfuggente. La stessa Corte ammette che si tratta di concetti elastici, per cui non è chiaro come il ricorso alla dignità umana possa essere d’aiuto. Il rischio è che la nozione si presti alla tutela di un ordine pubblico ideale che vada ben oltre la garanzia della civile convivenza e si estenda alle convinzioni dominanti in una determinata società, così come ricostruite dal giudice e imposte con lo strumento della sanzione penale672.

Il problema di fondo è che l’art. 21 Cost., a differenza dell’art. 41, non indica la dignità umana come limite e la distinzione deve essere positivamente apprezzata: l’aggressione alla dignità che può derivare dall’esercizio di un’attività economica è ben diversa e più grave di quella che può scaturire da un atto di manifestazione del pensiero. Mentre nel primo caso è legittimo un certo tasso d’indeterminatezza per proteggere adeguatamente la dignità, come si è visto nell’ipotesi delle molestie sul luogo di lavoro, nel secondo non lo è.

Si deve allora concludere che la dignità umana può limitare la libertà di manifestazione del pensiero solo nella misura in cui sia ricondotta a un limite già previsto esplicitamente o implicitamente dalla Costituzione, in particolare al buon costume, inteso come pudore sessuale, alla tutela dei minori ex art. 31, co. 2, Cost., e all’onore, desumibile dall’art. 3, co. 1, Cost.673. In tutti gli altri casi si tratterebbe di un’illegittima apposizione di un limite o nel trasferimento di un limite da un diritto a un altro, che svilirebbe la specifica disciplina costituzionale di ciascun diritto674.

9.2. Lesioni della dignità umana e misure restrittive della libertà personale Bisogna a questo punto analizzare le sentenze che collegano la dignità umana alla

garanzia della libertà personale (art. 13 Cost.)675.

670 Tale affermazione è richiamata nell’ordinanza n. 92 del 2002, in Giur. cost., 2002, 814 ss. 671 Cfr. A. ODDI, La riesumazione dei boni mores, cit., 2246. 672 Cfr. M. MANETTI – A. PACE, Art. 21, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione,

Bologna-Roma, 2006, 209 e 217. 673 Per un esame completo dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero v., per tutti, M.

MANETTI – A. PACE, Art. 21, cit., 97 ss. 674 Come ricorda C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano,

cit., 17, «una volta ammessa una pluralità di individuate libertà, anche le limitazioni apposte a ciascuna di esse debbono essere specifiche, sicché dai limiti dell’una niente può dedursi circa i limiti delle altre».

675 In dottrina, v. A. BARBERA, Pari dignità sociale e valore della persona umana nello studio del diritto di libertà personale, in Iustitia, 1962, 117 ss.

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La decisione n. 68 del 1964676 fa riferimento alla dignità come bene la cui violazione determina l’applicazione dell’art. 13 Cost.; sostiene infatti che «per aversi degradazione giuridica, come uno degli aspetti di restrizione della libertà personale ai sensi dell’art. 13 della Costituzione, occorre che il provvedimento provochi una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da potere essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio dell’habeas corpus» (punto 3 del Considerato in diritto). Sebbene sembri che la Corte consideri equivalenti la dignità e il prestigio, il successivo richiamo all’habeas corpus lascia intendere che la violazione cui si applica l’art. 13 Cost. colpisce la dignità umana dell’interessato e non semplicemente il suo onore. La lesione della dignità umana e la degradazione giuridica che ne deriva divengono quindi il criterio di classificazione di misure che incidano sulla persona: ove sussista la lesione citata, la misura ricadrà nel campo di applicazione dell’art. 13 Cost. e sarà assoggettata alla riserva di legge e alla riserva di giurisdizione; in caso contrario, tali garanzie non saranno necessarie. Così, secondo la Corte, non rientrano nella sfera di operatività dell’art. 13 Cost. l’obbligo di comparire davanti all’autorità di pubblica sicurezza677, l’obbligo per i gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricettive di fornire notizie all’autorità di pubblica sicurezza sul movimento delle persone678, il controllo sanitario da parte del datore di lavoro sui dipendenti ospedalieri679, il rimpatrio con foglio di via obbligatorio680 e l’accertamento tecnico preventivo sulla persona dell’istante681 o della controparte682, essendo questa ispezione eseguibile solo con il consenso dell’interessato e con modalità rispettose della sua dignità. Sono invece inclusi il “soggiorno cautelare”683, l’accompagnamento coattivo dello straniero e il suo trattenimento presso i centri di permanenza temporanea e assistenza684.

Più complessa è la questione per il prelievo ematico, dovendosi distinguere il prelievo coattivo disposto dal giudice penale dalla facoltà, riconosciuta agli agenti di polizia stradale, di far sottoporre ad accertamenti sanitari il conducente di veicolo che appaia sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. In quest’ultimo caso la Corte ha escluso che vi sia una limitazione della dignità e quindi della libertà personale, potendo l’interessato rifiutarsi in caso di ritenuto abuso di potere da parte dell’agente685. Sul prelievo coattivo la Consulta si è pronunciata nelle sentenze nn. 54 del 1986686 e 238 del

676 In Giur. cost., 1964, 715 ss. 677 Cfr. Corte cost. n. 52 del 1967, in Giur. cost., 1967, 328 ss., con osservazione di A. BARBERA,

Questioni sulla legittimità degli ordini di comparizione in rapporto alle garanzie costituzionali della libertà personale e dei limiti dell’imposizione di prestazioni personali, 329 ss.

678 Cfr. Corte cost. n. 144 del 1970. 679 Cfr. Corte cost. n. 22 del 1975, in Giur. cost., 1975, 99 ss. 680 Cfr. Corte cost. n. 210 del 1995, in Giur. cost., 1995, 1586 ss. 681 Cfr. Corte cost. n. 471 del 1990. 682 Cfr. Corte cost. n. 257 del 1996, in Giur. cost., 1996, 2306 ss., con osservazione di M. RUOTOLO,

Libertà di disporre del proprio corpo ed accertamento della verità processuale. Note a margine di un riuscito bilanciamento tra valori, 2310 ss.

683 Cfr. Corte cost. n. 419 del 1994, in Giur. cost., 1994, 3702 ss. 684 Cfr. Corte cost. n. 105 del 2001, in Giur. cost., 2001, 675 ss., con osservazioni di G. BASCHERINI,

Accompagnamento alla frontiera e trattenimento nei centri di permanenza temporanea: la Corte tra libertà personale e controllo dell’immigrazione, 1680 ss. e di D. PICCIONE, Accompagnamento coattivo e trattenimento dello straniero al vaglio della Corte costituzionale: i molti dubbi su una pronuncia interlocutoria, 1697 ss.

685 Cfr. Corte cost. n. 194 del 1996, in Giur. cost., 1996, 1767 ss. 686 In Giur. cost., 1986, parte I, 387 ss.

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1996687. Nella prima, premesso che «non potrebbe il giudice disporre mezzi istruttori che mettessero in pericolo la vita o l’incolumità o risultassero lesivi della dignità della persona o invasivi dell’intimo della sua psiche», si evidenzia che «il prelievo ematico, ormai di ordinaria amministrazione nella pratica medica, talché può essere persino effettuato da infermiere professionali, né lede la dignità o la psiche della persona, né mette in alcun modo in pericolo la vita, l’incolumità o la salute della persona, salvo casi patologici eccezionali che il perito medico-legale sarebbe facilmente in grado di rilevare». Nella seconda si precisa che «Il prelievo ematico comporta certamente una restrizione della libertà personale quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva perché la persona sottoposta all’esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo. E tale restrizione è tanto più allarmante – e quindi bisognevole di attenta valutazione da parte del legislatore nella determinazione dei “casi e modi” in cui può esser disposta dal giudice – in quanto non solo interessa la sfera della libertà personale, ma la travalica perché, seppur in misura minima, invade la sfera corporale della persona – pur senza di norma comprometterne, di per sé, l’integrità fisica o la salute (anche psichica), né la sua dignità, in quanto pratica medica di ordinaria amministrazione […] – e di quella sfera sottrae, per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è, sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla» (punto 3.2 del Considerato in diritto). In realtà, nonostante il contrario avviso del giudice costituzionale, pare che proprio la potenziale lesione della dignità imponga nell’ipotesi in esame l’attivazione delle garanzie previste dall’art. 13 Cost.

Bisogna tuttavia riconoscere che il criterio della violazione della dignità non è risolutivo per l’individuazione delle misure rientranti nell’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. Sia in dottrina che nella giurisprudenza costituzionale si registrano vistose oscillazioni e risulta spesso difficile rinvenire criteri sicuri che permettano di distinguere le misure restrittive della libertà personale dalle prestazioni personali imposte (art. 23 Cost.) e in alcuni casi anche dalle misure limitative della libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.)688.

Il rapporto tra dignità e libertà personale è poi richiamato nelle decisioni nn. 26 del 1966689 e 487 del 1989690 in relazione al principio di legalità delle pene (art. 25, co. 2, Cost.). Nella pronuncia del 1966 la Corte rimarca che «La dignità e la libertà personali sono, nell’ordinamento costituzionale democratico e unitario che regge il Paese, beni troppo preziosi perché, in mancanza di un inequivoco disposto costituzionale in tali sensi, si possa ammettere che un’autorità amministrativa, e comunque un’autorità non statale, disponga di un qualche potere di scelta in ordine ad essi» (punto 6 del Considerato in diritto). Nella pronuncia del 1989 il Giudice delle leggi asserisce che «Il diritto penale è sistema che, nell’atto in cui autorizza la difesa sociale attraverso le sanzioni più gravi per la libertà e dignità umana, limita la difesa stessa attraverso precise, puntuali determinazioni di scopi, modalità e contenuti di fattispecie. Il diritto penale è, particolarmente […] sistema di limiti sostanziali al legislatore; ed è mirato,

687 In Giur. cost., 1996, 2142 ss., con osservazioni di A. NAPPI, Sull’esecuzione coattiva della perizia ematologica, 2150 s.; M. RUOTOLO, Il prelievo ematico tra urgenza probatoria di accertamento del reato e garanzia costituzionale della libertà personale. Note a margine di un mancato bilanciamento tra valori, 2151 ss.; G.P. DOLSO, Libertà personale e prelievi ematici coattivi, 3222 ss.

688 Cfr. D. MORANA, Libertà costituzionali e prestazioni personali imposte. L’art. 23 Cost. come norma di chiusura, Milano, 2007, 162 ss.

689 In Giur. cost., 1966, 255 ss., con osservazione di G. AMATO, Riserva di legge e libertà personale in una sentenza che restaura l’art. 25, 262 ss.

690 In Giur. cost., 1989, parte I, 2267 ss.

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soprattutto, al rispetto di questi ultimi il monopolio statale nella produzione della legge penale, la riserva di legge penale» (punto 5 del Considerato in diritto).

Resta da esaminare un’ultima tipologia di sentenze riguardanti la dignità umana.

9.3. Dignità umana e incidenza sul sistema delle fonti del diritto

La categoria di decisioni che ci si appresta ad analizzare è del tutto peculiare, perché il richiamo alla dignità è funzionale, nel ragionamento della Corte, alla produzione di specifici effetti sul piano delle fonti del diritto. Ciò avviene in due direzioni, riguardanti rispettivamente il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni e l’attivazione dei “controlimiti”.

Il primo ambito è caratterizzato dall’uso della dignità come principio che radica la competenza statale a disciplinare misure di sostegno a soggetti economicamente disagiati.

Rientra in questo gruppo innanzitutto la sentenza n. 94 del 2007691, in cui il giudice costituzionale precisa che «la materia dell’edilizia residenziale pubblica si estende su tre livelli normativi. Il primo riguarda la determinazione dell’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti. In tale determinazione – che, qualora esercitata, rientra nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. – si inserisce la fissazione di principi che valgano a garantire l’uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale» (punto 4.3 del Considerato in diritto)692. In questa pronuncia la dignità non è espressamente menzionata e soprattutto la competenza statale è limitata alla sola fissazione dei principi. Tale punto è rilevante, se raffrontato alla successiva evoluzione giurisprudenziale, di cui si dirà fra poco.

Nello stesso solco si pone la sentenza n. 166 del 2008693, in cui la Corte stabilisce che «gli spazi normativi coperti dalla potestà legislativa dello Stato sono da una parte la determinazione di quei livelli minimali di fabbisogno abitativo che siano strettamente inerenti al nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana e dall’altra parte la fissazione di principi generali, entro i quali le Regioni possono esercitare validamente la loro competenza a programmare e realizzare in concreto insediamenti di edilizia residenziale pubblica o mediante la costruzione di nuovi alloggi o mediante il recupero e il risanamento di immobili esistenti. L’una e l’altra competenza (la prima ricadente nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, la seconda in quella concorrente) si integrano e si completano a vicenda, giacché la determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate» (punto 3 del Considerato in diritto). Simili considerazioni sono richiamate nella pronuncia n. 209 del 2009694 e rappresentano il naturale sviluppo di quelle già enunciate nella decisione del 2007.

691 In Giur. cost., 2007, 902 ss. 692 Un precedente si rinviene nella sentenza n. 49 del 1987, in Giur. cost., 1987, parte I, 244 ss. 693 In Giur. cost., 2008, 1999 ss. 694 In Giur. cost., 2009, 2419 ss.

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Profondamente diversa è invece la sentenza n. 10 del 2010, che ha ad oggetto l’art. 81, commi 29, 30 e dal 32 al 38-bis, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2008, n. 133. La normativa in esame ha istituito un fondo speciale destinato al soddisfacimento delle esigenze di natura alimentare, energetiche e sanitarie dei cittadini meno abbienti, disciplinandone il finanziamento e disponendo che «In considerazione delle straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle bollette energetiche, nonché il costo per la fornitura di gas da privati, al fine di soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di particolare bisogno e su domanda di queste, è concessa ai residenti di cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, individuati ai sensi del comma 33, una carta acquisti finalizzata all’acquisto di tali beni e servizi, con onere a carico dello Stato» (comma 32). Il comma 33 demanda a un decreto interdipartimentale del Ministero dell’economia e del Ministero del lavoro la definizione dei criteri e delle modalità di individuazione dei titolari del beneficio e il relativo ammontare. Si tratta della c.d. social card.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate da tre Regioni (Piemonte, Emilia-Romagna e Liguria) lamentavano la violazione della potestà legislativa residuale delle Regioni (art. 117, co. 4, Cost.) e del principio di leale collaborazione.

La Corte, nell’identificare il titolo competenziale cui ricondurre la misura citata, riconosce che le norme impugnate sono preordinate ad alleviare una situazione di estremo bisogno e difficoltà mediante un intervento di politica sociale attinente all’ambito materiale dell’assistenza e dei servizi sociali, oggetto di una competenza regionale residuale. L’intervento statale non è però reputato illegittimo, perché giustificabile in virtù dell’art. 117, co. 2, lett. m), Cost. Secondo la Corte, «la ratio di tale titolo di competenza e l’esigenza di tutela dei diritti primari che è destinato a soddisfare consentono di ritenere che esso può rappresentare la base giuridica anche della previsione e della diretta erogazione di una determinata provvidenza, oltre che della fissazione del livello strutturale e qualitativo di una data prestazione, al fine di assicurare più compiutamente il soddisfacimento dell’interesse ritenuto meritevole di tutela […], quando ciò sia reso imprescindibile, come nella specie, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa. Un tale intervento da parte dello Stato deve, in altri termini, ritenersi ammissibile, nel caso in cui esso risulti necessario allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana, soprattutto in presenza delle peculiari situazioni sopra accennate, deve potere essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo» (punto 6.3 del Considerato in diritto).

Nel passo immediatamente successivo la Corte rincara la dose e sostiene che «In applicazione di tali principi, va osservato che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Il complesso di queste norme costituzionali permette, anzitutto, di ricondurre tra i «diritti sociali» di cui deve farsi carico il legislatore nazionale il diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di

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estremo bisogno – in particolare, alimentare – e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una tale previsione possa pregiudicarlo. Inoltre, consente di ritenere che la finalità di garantire il nucleo irriducibile di questo diritto fondamentale legittima un intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli» (punto 6.4 del Considerato in diritto).

In sintesi, la Corte salva la social card facendo leva, in maniera non chiarissima695, su tre elementi: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, il nucleo inviolabile della dignità umana e l’emergenza derivante dalla situazione di crisi economico-finanziaria. In questa sede interessa sottolineare che la dignità è utilizzata come argomentazione che contribuisce a legittimare l’intervento statale derogatorio rispetto al riparto di competenze di cui all’art. 117 Cost.696, configurandosi pertanto come clausola di flessibilità del sistema697. Il riflesso sul piano delle fonti del diritto e più specificamente sul modo di concepire il riparto della potestà legislativa è immediato e desta invero notevoli perplessità: sconfessando un orientamento consolidato, la Corte trasfigura i LEP in uno strumento di attrazione di competenze regionali allo Stato698, che potrà non solo limitarsi a disciplinare i livelli essenziali delle prestazioni, ma anche erogarle direttamente. Di fatto, la competenza regionale in materia di assistenza e servizi sociali risulta completamente svuotata e la dignità umana diventa un criterio implicito di allocazione delle competenze699.

Le affermazioni della Corte aprono inoltre la via a pericolose generalizzazioni, nel senso di ritenere che, anche al di là della crisi economica, ogni qual volta sia necessario tutelare il nucleo irrinunciabile della dignità umana, sia legittimo accentrare in capo allo Stato tutte le decisioni in merito ad una prestazione700. Nella stessa ottica si è proposto, astraendo ulteriormente dal caso concreto, di utilizzare la dignità come criterio

695 Cfr. E. LONGO, I diritti sociali al tempo della crisi. La Consulta salva la social card e ne ricava

un nuovo titolo di competenza statale, cit., 167; F. PIZZOLATO, La «social card» all’esame della Corte costituzionale, in Riv. dir. sic. soc., 2010, 351.

696 Cfr. A. RUGGERI, “Livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti e ridefinizione delle sfere di competenza di Stato e Regioni in situazioni di emergenza economica (a prima lettura di Corte cost. n. 10 del 2010), in Forum di Quad. cost., 24 febbraio 2010, secondo cui «Forte è, a prima lettura, l’impressione che, quando – come qui – sono in gioco interessi pressanti e bisognosi di pronta ed adeguata regolazione, possa “saltare” (ed effettivamente “salti”) il riparto costituzionale delle competenze su basi materiali: come dire, insomma, che il fine giustifica il mezzo ed è perciò degno di ricevere il benevolo avallo da parte del massimo garante della legalità costituzionale».

697 Cfr. F. SAITTO, Quando l’esigenza di tutela della dignità fonda, nell’emergenza economica, la competenza statale, cit., 199 s.

698 Cfr. A. ANZON DEMMIG, Potestà legislativa regionale residuale e livelli essenziali delle prestazioni, cit., 157 ss.; E. LONGO, I diritti sociali al tempo della crisi. La Consulta salva la social card e ne ricava un nuovo titolo di competenza statale, cit., 168 ss.; L. TRUCCO, Livelli essenziali delle prestazioni e sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, cit., 65 s.

699 Cfr. C. PANZERA, I livelli essenziali delle prestazioni fra sussidiarietà e collaborazione, in Le Regioni, 2010, 952.

700 Cfr. C. PANZERA, I livelli essenziali delle prestazioni fra sussidiarietà e collaborazione, cit., 953.

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ordinatore delle fonti del diritto701, che verrebbero così ricostruite non più sulla base di una gerarchia formale ma di una gerarchia assiologico-sostanziale o secondo valore702.

Questa tesi non può essere condivisa perché il concetto di dignità è troppo generico per fungere da parametro di sistemazione delle fonti del diritto; in caso di antinomia sarebbe impossibile stabilire quale norma tuteli meglio la dignità e debba quindi prevalere, senza contare che la maggior parte delle norme dell’ordinamento ha poco o nulla a che fare con la dignità. Foriera di dubbi è anche l’idea che lo Stato, grazie ai LEP, possa accentrare in sé varie competenze per garantire adeguatamente la dignità umana. Si dimentica così che il riparto di competenze non ha solo una valenza tecnico-formale come criterio organizzativo della potestà legislativa e regolamentare, ma è anche strumentale all’attuazione del valore dell’autonomia, riconosciuto dall’art. 5 Cost. In secondo luogo, pur considerando l’autonomia subordinata all’esigenza di protezione della dignità umana, non è detto che l’accentramento delle competenze garantisca un risultato del genere. Come già anticipato (v. supra, § 3), l’identificazione del nucleo irriducibile con i LEP dovrebbe servire ad assicurare un’adeguata tutela della dignità, non una sua tutela minima. Sembra invece che proprio quest’ultimo sia l’esito nel caso di specie, con la conseguenza controproducente di escludere dalla garanzia della dignità tutto ciò che vada oltre il contenuto minimo.

Torniamo quindi alla social card, per capire se, messe da parte le ragioni dell’autonomia regionale, sia stata soddisfatta almeno l’istanza di adeguata tutela della dignità umana703. Invero la logica sottesa all’intervento legislativo pare ben lontana dal diritto al mantenimento e all’assistenza sociale sancito dall’art. 38, co. 1, Cost. e più vicina alla carità di Stato, simbolicamente evocata dai verbi “soccorrere” e “concedere” contenuti nell’art. 81, co. 32, del d.l. n. 112 del 2008. Non è solo una questione di termini. Come è stato acutamente osservato, «A differenza del diritto all’assistenza garantito ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere dall’art. 38 Cost., un «beneficio concesso» sarebbe sempre revocabile a piacimento del concedente. E più si generalizzerà l’accettazione di una misura del genere, più si assottiglieranno i margini di giustificazione del modello universalistico negli altri settori di protezione sociale»704. Anche se ci si sposta sul piano pratico dell’entità della misura e delle sue modalità di erogazione, si scopre che i parametri di individuazione dei destinatari, già irragionevoli nella previsione legislativa, sono divenuti ancor più restrittivi nei decreti attuativi, al punto da rendere la social card inefficace nel contrasto alla povertà705.

701 Cfr. A. RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale,

in Rivista AIC, n. 1/2011 (15 dicembre 2010), 9 s. 702 Cfr. A. RUGGERI, Sistema integrato di fonti, tecniche interpretative, tutela dei diritti

fondamentali, cit., 17; D. MESSINEO, La garanzia del “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali. Dalla tutela della dignità umana ai livelli essenziali delle prestazioni, cit., 30 ss.

703 Come sostiene C. PANZERA, I livelli essenziali delle prestazioni fra sussidiarietà e collaborazione, cit., 941, che, pur riconoscendo il colpo inferto alla competenza regionale, valuta positivamente la sentenza n. 10 del 2010 almeno sul piano dell’effettività dei diritti sociali.

704 Così C. PINELLI, «Social card», o del ritorno alla carità di Stato, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. III (Dei diritti e dell’eguaglianza), cit., 1188.

705 Cfr. F. PIZZOLATO, La «social card» all’esame della Corte costituzionale, cit., 353; F. PESARESI, La carta acquisti. Dossier sulla social card, in www.anoss.it, 27 gennaio 2009, 18 s., secondo il quale la carta acquisti non ha raggiunto gli obiettivi che il Governo si era prefisso.

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I principi affermati nella sentenza n. 10 del 2010 sono stati ribaditi dalla Corte nella pronuncia n. 62 del 2013706, avente ad oggetto l’art. 60, commi 1 e 2, del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con modificazioni dalla l. 4 aprile 2012, n. 35, che ha avviato una sperimentazione della social card nei Comuni con più di 250.000 abitanti al fine di valutarne la possibile generalizzazione come strumento di contrasto alla povertà assoluta.

In fin dei conti, ci si domanda se l’obliterazione del riparto di competenze realizzata dallo Stato fosse davvero necessaria e se non fosse possibile rispondere a situazioni di estremo bisogno conciliando la tutela della dignità umana con il rispetto del criterio di suddivisione delle competenze. Restano quindi le perplessità su quest’uso dirompente del concetto di dignità.

Di tutt’altro rilievo è il secondo ambito in cui si esprime l’incidenza della dignità umana sul sistema delle fonti del diritto. Tale ambito comprende una sola sentenza, ma di portata storica707: la n. 238 del 2014708. Pur nella diversità delle norme su cui si svolge il sindacato della Corte, il suo oggetto è sostanzialmente unitario e consiste nella consuetudine internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati per atti iure imperii. Preliminarmente va osservato che la Corte correttamente non ricostruisce tale consuetudine, ma la accetta così come delineata dalla Corte internazionale di Giustizia nella sentenza del 3 febbraio 2012, che è alla base della questione scrutinata dalla Corte costituzionale709. In proposito, la Consulta afferma che la consuetudine de qua è «una norma di diritto internazionale, dunque esterna all’ordinamento giuridico italiano, la cui applicazione da parte dell’amministrazione e/o del giudice, in virtù del rinvio operato nella specie dall’art. 10, primo comma, Cost., deve essere effettuata in base al principio di conformità, e cioè nell’osservanza dell’interpretazione che ne è data nell’ordinamento di origine, che è l’ordinamento internazionale. In questa occasione, la norma che interessa è stata interpretata dalla CIG, precisamente in vista della definizione della controversia tra Germania ed Italia, avente ad oggetto la giurisdizione del giudice italiano su atti imputabili alla RFG» (punto 3.1 del Considerato in diritto).

Nella decisione menzionata, la Corte internazionale di Giustizia ha stabilito che l’immunità dalla giurisdizione sussiste anche se gli atti iure imperii si traducono in gravi violazioni dei diritti umani e, più specificamente, in crimini di guerra e crimini contro

706 In Giur. cost., 2013, 937 ss., con osservazione di M. BENVENUTI, Brevi considerazioni intorno al

ricorso all’argomento della crisi economica nella più recente giurisprudenza costituzionale, 969 ss. 707 Cfr. P. PASSAGLIA, Una sentenza (auspicabilmente) storica: la Corte limita l’immunità degli

Stati esteri dalla giurisdizione civile, in www.diritticomparati.it, 28 ottobre 2014. 708 In Giur. cost., 2014, 3853 ss., con osservazioni di B. CONFORTI, La Corte costituzionale e i diritti

umani misconosciuti sul piano internazionale, 3885 ss.; C. PINELLI, Diritto alla difesa e immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera sul risarcimento per danni da crimini di guerra e contro l’umanità, 3891 ss.; M. BRANCA, Il punto sui “controlimiti”, 3899 ss.; R. CAPONI, Immunità dello Stato dalla giurisdizione, negoziato diplomatico e diritto di azione nella vicenda delle pretese risarcitorie per i crimini nazisti, 3908 ss.; F. RIMOLI, La Corte e la Shoah: osservazioni brevi su una sentenza coraggiosa, 3915 ss.

709 Cfr. C. PINELLI, Diritto alla difesa e immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera sul risarcimento per danni da crimini di guerra e contro l’umanità, cit., 3892; A. GUAZZAROTTI, Il paradosso della ricognizione delle consuetudini internazionali. Note minime a Corte cost. n. 238 del 2014, in Forum di Quad. cost., 5 novembre 2014; L. GRADONI, Corte costituzionale italiana “controvento” sull’immunità giurisdizionale degli Stati stranieri?, in Forum di Quad. cost., 17 novembre 2014; E. LAMARQUE, La Corte costituzionale ha voluto dimostrare di sapere anche mordere, in Quest. giust., n. 1/2015, 80.

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l’umanità. Non interessa qui ripercorrere tutte le tappe della vicenda, essendo sufficiente ricordare che essa ha avuto origine dalle richieste risarcitorie presentate da cittadini italiani contro la Repubblica federale tedesca per le atrocità commesse dalle truppe naziste nel periodo 1943-1945710.

Chiamato a pronunciarsi sulla questione, il Giudice delle leggi esclude che, così configurata, la consuetudine possa entrare nell’ordinamento italiano in virtù del rinvio operato dall’art. 10, co. 1, Cost. A tale ingresso si oppongono il diritto di agire e di resistere in giudizio a difesa dei propri diritti (art. 24 Cost.) e la dignità umana (art. 2 Cost.), entrambi principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano. Sul punto, la Consulta afferma che «Nella specie, il giudice rimettente ha non casualmente indicato congiuntamente gli artt. 2 e 24 Cost., inestricabilmente connessi nella valutazione di legittimità costituzionale chiesta a questa Corte. Il primo è la norma sostanziale posta, tra i principi fondamentali della Carta costituzionale, a presidio dell’inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, tra i quali, nella specie conferente a titolo primario, la dignità. Il secondo è anch’esso a presidio della dignità della persona, tutelando il suo diritto ad accedere alla giustizia per far valere il proprio diritto inviolabile» (punto 3.4 del Considerato in diritto).

Individuati i principi supremi che vengono in considerazione, la Corte costituzionale sostiene che «la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri, con la portata definita dalla CIG, nella parte in cui esclude la giurisdizione del giudice a conoscere delle richieste di risarcimento dei danni delle vittime di crimini contro l’umanità e di gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona, determina il sacrificio totale del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti delle suddette vittime: il che è peraltro riconosciuto dalla stessa CIG, che rinvia la soluzione della questione, sul piano internazionale, ad eventuali nuovi negoziati, individuando nella sede diplomatica l’unica sede utile […]. Né si ravvisa, nell’ambito dell’ordinamento costituzionale, un interesse pubblico tale da risultare preminente al punto da giustificare il sacrificio del diritto alla tutela giurisdizionale di diritti fondamentali (artt. 2 e 24 Cost.), lesi da condotte riconosciute quali crimini gravi» (punto 3.4 del Considerato in diritto).

La Corte aziona quindi l’arma dei “controlimiti” e impedisce alla consuetudine sull’immunità per gli atti iure imperii, nella parte riguardante gravi crimini internazionali, di produrre effetti nell’ordinamento italiano.

La dignità svolge in questa sentenza una funzione specifica: opera, in collegamento con il diritto al giudice, come “controlimite”; è una sorta di “ultima risorsa” del sistema, in grado di paralizzarne l’apertura all’ordinamento internazionale. Ciò però non implica che essa sia sottratta al bilanciamento con altri principi di rango costituzionale711. Come è stato evidenziato, la Corte ha accolto una visione “temperata” dei “controlimiti”, i quali possono tollerare un sacrificio minimo712. Nel caso in esame, la prevalenza è

710 L’intera vicenda è puntualmente descritta da R. DICKMANN, Il “Diritto al giudice” di cui all’art. 24 Cost. come principio supremo e limite al diritto internazionale generalmente riconosciuto (Nota a Corte cost., sent. n. 238 del 22 ottobre 2014), in Federalismi.it, n. 22/2014 (19 novembre 2014), 3 ss., cui si rinvia.

711 Cfr. R. DICKMANN, Il “Diritto al giudice” di cui all’art. 24 Cost. come principio supremo e limite al diritto internazionale generalmente riconosciuto (Nota a Corte cost., sent. n. 238 del 22 ottobre 2014), cit., 16.

712 Cfr. P. FARAGUNA, Corte costituzionale contro Corte internazionale di giustizia: i controlimiti in azione, in Forum di Quad. cost., 2 novembre 2014; A. RUGGERI, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte

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assicurata dalla circostanza che il vulnus arrecato ai diritti fondamentali è totale e non sorretto da un preminente interesse pubblico che lo legittimi. La conferma di quanto detto si rinviene non solo nel passo già citato, ma anche in altre affermazioni contenute nella sentenza. In particolare, la Consulta precisa che in caso di contrasto tra una consuetudine internazionale e un principio supremo «spetta al giudice nazionale, ed in particolare esclusivamente a questa Corte, una verifica di compatibilità costituzionale, nel caso concreto, che garantisca l’intangibilità di principi fondamentali dell’ordinamento interno ovvero ne riduca al minimo il sacrificio» e che «la possibilità della verifica di compatibilità resta intatta comunque, anche tra norme – come nella specie – entrambe di rango costituzionale, il bilanciamento rientrando tra le «ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 236 del 2011)» (punto 3.1 del Considerato in diritto). Poco più avanti, si specifica che nei rapporti con gli Stati stranieri il diritto alla tutela giurisdizionale può essere limitato, con l’avvertenza che «il limite deve essere giustificato da un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente su un principio, quale quello dell’art. 24 Cost., annoverato tra i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale […]; inoltre la norma che stabilisce il limite deve garantire una rigorosa valutazione di tale interesse alla stregua delle esigenze del caso concreto» (punto 3.4 del Considerato in diritto).

Procedendo oltre questi aspetti condivisibili della pronuncia, si deve sottolineare che la motivazione, a volte ridondante713, non è immune da vizi. Tra i numerosi segnalati dalla dottrina, due paiono insuperabili. In primis, il sindacato di legittimità costituzionale può essere esercitato, ai sensi dell’art. 134 Cost., sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. La consuetudine internazionale non rientra nelle categorie enunciate, sia perché non è equiparabile a una legge sia perché non è attribuibile né allo Stato né alle Regioni714. La Corte supera quest’obiezione rimarcando che, sul piano logico e sistematico, l’art. 134 Cost. mira a sottrarre al sindacato esclusivamente gli atti che hanno un rango e una forza inferiori rispetto alla legge. Un’interpretazione del genere sarebbe anche accettabile, soprattutto nell’ottica dell’eliminazione progressiva di “zone d’ombra” sottratte al giudizio di legittimità costituzionale715, se non fosse che nel caso in esame il problema è più radicale, perché la consuetudine internazionale è una fonte-fatto immessa nel nostro ordinamento grazie all’art. 10, co. 1, Cost. Se però la consuetudine è entrata nell’ordinamento italiano ed è in contrasto con i principi fondamentali, la Corte, non potendo sindacare direttamente la norma di un ordinamento esterno, avrebbe dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, co. 1, Cost. in parte qua. Tale soluzione sarebbe stata estremamente rischiosa e non a caso è stata scartata dal Giudice delle leggi716, che invece ha parlato di mancato ingresso della consuetudine nell’ordinamento.

Neanche una simile conclusione è esente da criticità. Se infatti si ritiene che la consuetudine non sia entrata, se ne dovrebbe trarre la conseguenza che non è all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), in Consulta online, 17 novembre 2014, 7 s.; T. GROPPI, La Corte costituzionale e la storia profetica. Considerazioni a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, in Consulta online, 2015, 3.

713 Cfr. F. RIMOLI, La Corte e la Shoah: osservazioni brevi su una sentenza coraggiosa, cit., 3915; T. GROPPI, La Corte costituzionale e la storia profetica. Considerazioni a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, cit., 6.

714 Cfr. M. LUCIANI, I controlimiti e l’eterogenesi dei fini, in Quest. giust., n. 1/2015, 86. 715 Cfr. G. SILVESTRI, Sovranità vs. Diritti fondamentali, in Quest. giust., n. 1/2015, 60 s. 716 Cfr. M. LUCIANI, I controlimiti e l’eterogenesi dei fini, cit., 87 s.

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logicamente possibile un conflitto con i principi supremi e, prima ancora, che non esista una norma su cui effettuare lo scrutinio di costituzionalità717. La difficoltà si riflette sull’impianto argomentativo della decisione, che continuamente oscilla tra il piano dell’invalidità e quello del mancato ingresso, per poi propendere per quest’ultimo718.

La medesima ambiguità si proietta sul dispositivo della sentenza, la cui erroneità è stata da più parti rilevata719. Accedendo alla tesi del mancato ingresso della consuetudine nell’ordinamento, la Consulta avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità della questione e non la sua infondatezza, come invece ha fatto. Il motivo è facilmente comprensibile: una declaratoria d’inammissibilità avrebbe implicato il riconoscimento della spettanza dell’accertamento sul mancato ingresso di una consuetudine internazionale al giudice comune, nelle cui attribuzioni rientra ovviamente la ricognizione della normativa da applicare al caso di specie. Proprio questa ipotesi è recisamente negata dal giudice costituzionale nella motivazione, in cui si dice che «In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali» (punto 3.2 del Considerato in diritto).

Non c’è dubbio allora che la Consulta abbia voluto decidere la questione, nonostante numerosi ostacoli vi si opponessero720. La ragione di ciò va probabilmente ricercata nella dimensione fortemente simbolica del caso721 e tale valenza riporta il discorso al suo punto di partenza: la centralità della dignità umana, che si afferma come paradigma di civiltà proprio come reazione agli orrori nazisti. A differenza della pronuncia n. 10 del 2010, qui davvero vengono in gioco i valori fondanti dell’ordinamento e non meramente il sistema delle fonti del diritto722. Nonostante le perplessità suscitate dal percorso argomentativo seguito dal giudice costituzionale, si può allora conclusivamente dire che in questo caso – e solo in questo caso – «le obiezioni sulle tecniche adottate, o sull’opportunità del ruolo assunto dalla Corte sul piano sistemico-funzionale, o sul “costo” che la sentenza comporterebbe rispetto alla classificazione delle tecniche decisorie, pur in sé plausibili, paiono quasi sbiadire davanti all’assoluta peculiarità della vicenda»723.

717 Cfr. A. RUGGERI, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto

singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), cit., 2.

718 Cfr. C. PINELLI, Diritto alla difesa e immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera sul risarcimento per danni da crimini di guerra e contro l’umanità, cit., 3892 s.

719 Cfr. A. RUGGERI, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), cit., 2 s.; C. PINELLI, Diritto alla difesa e immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera sul risarcimento per danni da crimini di guerra e contro l’umanità, cit., 3893 s.; T. GROPPI, La Corte costituzionale e la storia profetica. Considerazioni a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, cit., 4; M. LUCIANI, I controlimiti e l’eterogenesi dei fini, cit., 88 s.

720 Cfr. A. RUGGERI, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), cit., 1.

721 Cfr. F. RIMOLI, La Corte e la Shoah: osservazioni brevi su una sentenza coraggiosa, cit., 3920 s.; E. LAMARQUE, La Corte costituzionale ha voluto dimostrare di sapere anche mordere, cit., 80.

722 Cfr. T. GROPPI, La Corte costituzionale e la storia profetica. Considerazioni a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, cit., 1.

723 Così F. RIMOLI, La Corte e la Shoah: osservazioni brevi su una sentenza coraggiosa, cit., 3921 s.

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10. Conclusioni

Traendo le conclusioni dall’excursus normativo e giurisprudenziale sul concetto di dignità nell’ordinamento italiano, si può sostenere che esso svolga varie funzioni: a volte opera come elemento di rafforzamento di altri diritti o come argomento retorico usato dalla Corte costituzionale per corroborare una decisione già autonomamente fondata su precisi parametri costituzionali; altre volte funge da limite ad altri diritti724. Alcuni usi sono condivisili, altri decisamente meno, come nel caso della dignità come fonte di “nuovi diritti” o come strumento di superamento del riparto di competenze tra Stato e Regioni.

In generale, non esiste un principio unitario di dignità, ma tante accezioni a seconda del contesto in cui la dignità è invocata725. Anzi, solo riconducendo la dignità alle norme in cui è richiamata è possibile precisarne il significato e utilizzarla come concetto giuridico726. Si deve quindi preferire una ricostruzione analitica della dignità umana, che ne valorizzi le molteplici potenzialità applicative727. Volendo tentare un parallelismo, si potrebbe ricordare che analoghe considerazioni valgono per la libertà: la Costituzione italiana non tutela la libertà in generale, ma disciplina singoli diritti di libertà, che formano un sistema complessivo di protezione della persona728. L’assunto può valere probabilmente per tutte le nozioni che si collocano al confine tra etica e diritto, o meglio che nascono come principi etici e subiscono poi un processo di “giuridificazione”. Nel discorso giuridico, un’idea etica sarebbe di per sé inutilizzabile, poiché esposta a soggettive ricostruzioni dell’interprete; può essere invece adoperata se da essa si traggono specifiche e delimitate implicazioni giuridiche. Ciò vale soprattutto per la dignità, che è il sostrato valoriale di numerosi – o forse di tutti i – diritti costituzionalmente previsti729, ma necessita poi di una puntuale traduzione in termini giuridici.

Rappresenta una parziale eccezione al quadro delineato la sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale, in cui la dignità, seppure in collegamento con il diritto alla tutela giurisdizionale, opera direttamente come “controlimite” e impedisce l’ingresso nel nostro ordinamento di una consuetudine internazionale. Come anticipato, però, la deroga è parziale, perché la dignità è comunque agganciata al diritto proclamato dall’art. 24 Cost. e soprattutto è pienamente giustificabile alla luce dell’assoluta particolarità del caso concreto. Se infatti si tiene conto che la vicenda da cui ha avuto origine la pronuncia della Consulta è legata ai crimini internazionali commessi dall’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale e che proprio in reazione alla barbarie nazista la dignità è entrata nei documenti costituzionali, non v’è dubbio che in quest’ipotesi – e in qualunque modo s’intenda la dignità – essa sia stata gravemente

724 Questa varietà di funzioni si riscontra anche in prospettiva comparatistica. In proposito, v. C.

MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, cit., 680 ss.; A. SPERTI, Una riflessione sulle ragioni del recente successo della dignità nell’argomentazione giudiziale, in Costituzionalismo.it, n. 1/2013 (18 giugno 2013).

725 Cfr. P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, cit., 31. 726 Cfr. M. LUCIANI, I controlimiti e l’eterogenesi dei fini, cit., 91. 727 Cfr. M. OLIVETTI, I diritti fondamentali. Lezioni, Foggia, 2015, 147. 728 Cfr. P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, cit., 33 s. 729 Cfr. A. D’ATENA, In tema di principi e valori costituzionali, cit., 3071.

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violata, se non addirittura annullata, e meritava pertanto di essere riaffermata con coraggio730.

730 Cfr. F. RIMOLI, La Corte e la Shoah: osservazioni brevi su una sentenza coraggiosa, cit., 3920 s.

CAPITOLO TERZO

LA DIGNITÀ UMANA NELL’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La dignità nel diritto antidiscriminatorio. – 3. La dignità come limite delle

libertà funzionali alla realizzazione del mercato interno. – 4. La dignità umana in ambito bioetico. – 5. Altri usi della dignità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. – 6. Conclusioni.

1. Premessa

L’ordinamento dell’Unione europea conosce un vasto uso dell’idea di dignità umana. L’art. 2 del Trattato sull’Unione europea (TUE), modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sancisce che «L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».

L’art. 21, par. 1, TUE, riguardante l’azione esterna dell’Unione, dispone che «L'azione dell'Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l'allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale».

La dignità umana svolge dunque un duplice ruolo, come valore fondante dell’Unione e come principio che ne guida l’operato sul piano internazionale. Fondamentale è poi il riferimento alla dignità contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata la prima volta a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a seguito dell’adozione del Trattato di Lisbona. Ai sensi dell’art. 6, par. 1, TUE, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. Nella Carta la dignità è richiamata in numerose occasioni. Innanzitutto, il preambolo proclama che «l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà». Alla dignità sono poi dedicati il titolo I e soprattutto l’art. 1, secondo cui «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Altri riferimenti si rinvengono nell’art. 25, in virtù del quale «L’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale»; nell’art. 31, par. 1, in base a cui «Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose»; nell’art.

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34, par. 3, che prevede che «Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali».

Gli artt. 25, 31 e 34 si collocano nell’ottica del collegamento tra la dignità e i diritti sociali, mentre l’art. 1 parla esplicitamente di “dignità umana”. Proprio su tale articolo è indispensabile soffermarsi adeguatamente. La formulazione riprende chiaramente quella di cui all’art. 1 della Legge fondamentale tedesca e, come questa, intende proteggere l’uomo quale valore assoluto, riscoperto dal costituzionalismo del secondo dopoguerra e posto al centro dell’ordinamento come monito contro le atrocità del nazifascismo1. Le radici culturali della norma affondano, da un lato, nella tradizione cristiana e, dall’altro, nel pensiero illuministico e specificamente nell’imperativo categorico kantiano di trattare ogni essere umano anche come fine e mai solo come mezzo (v. supra, cap. I)2. D’altronde, il preambolo del Trattato sull’Unione europea apertamente menziona le «eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello Stato di diritto».

Da un punto di vista giuridico, l’inclusione dell’art. 1 in un titolo interamente dedicato alla dignità lascia intendere che essa trovi specificazione nei singoli diritti e divieti ivi riconosciuti3: il diritto alla vita (art. 2), il diritto all’integrità fisica, psichica e genetica (art. 3), il divieto della tortura e di trattamenti inumani o degradanti (art. 4), la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato (art. 5). Queste disposizioni ricalcano gli artt. 2, 3 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

Ciò non implica comunque che la dignità umana sia in toto assorbita dalle norme citate e che l’art. 1 non abbia un autonomo significato4. Al contrario le spiegazioni redatte sotto la responsabilità del Praesidium5 definiscono la dignità non soltanto un diritto fondamentale, ma la base stessa dei diritti fondamentali6 e aggiungono che «nessuno dei diritti sanciti nella presente Carta può essere usato per recare pregiudizio alla dignità altrui». Ne deriva la configurazione della dignità non tanto come diritto soggettivo, quanto come principio oggettivo7 in grado di limitare diritti in contrasto con

1 Cfr. M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, cit., 38 s. 2 Cfr. M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, cit., 39 s.; J. JONES, Human Dignity in the EU Charter of

Fundamental Rights and its Interpretation Before the European Court of Justice, in Liverpool Law Review, 2012, 284.

3 Cfr. R. BIFULCO, Dignità umana e integrità genetica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in AA.VV., Scritti in memoria di Livio Paladin, vol. I, Napoli, 2004, 238; J. JONES, Human Dignity in the EU Charter of Fundamental Rights and its Interpretation Before the European Court of Justice, cit., 284 ss.

4 Cfr. G. PIEPOLI, Tutela della dignità e ordinamento della società secolare europea, cit., 7; J. JONES, Human Dignity in the EU Charter of Fundamental Rights and its Interpretation Before the European Court of Justice, cit., 287.

5 Consultabili in Europa e diritto privato, 2001, 1 ss. 6 Cfr. P. COSTANZO, Il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali, in P. COSTANZO – L.

MEZZETTI – A. RUGGERI, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, III ed., Torino, 2010, 387.

7 Cfr. M. GUGLIELMETTI, I diritti bioetici e la Carta, in R. TONIATTI (a cura di), Diritto, diritti, giurisdizione. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Padova, 2002, 168; F. POCAR, Dignità – giustizia, in L.S. ROSSI (a cura di), Carta dei diritti fondamentali e Costituzione dell’Unione europea, Milano, 2002, 87, che parla di principio guida che non tollera eccezioni e che costituisce un presupposto per l’applicazione di tutti gli altri diritti enunciati nella Carta.

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essa e nello stesso tempo non limitabile da nessun diritto8. In altri termini, la norma sembrerebbe assicurare alla dignità umana uno status di superiorità rispetto ai singoli diritti, che la sottrarrebbe ad operazioni di bilanciamento e ponderazione9. Una conferma si potrebbe trarre dall’utilizzo dell’aggettivo “inviolabile”, che suggerisce la primazia della dignità rispetto ai diritti successivamente elencati10. L’uso del condizionale è d’obbligo, perché tale soluzione ermeneutica non è stata accolta dalla Corte di Giustizia, come si vedrà in seguito (v. infra, § 2.2).

Rilevante è anche l’uso dei verbi “riconoscere” e “tutelare”, da cui derivano due conseguenze: la protezione della dignità non comporta solo un dovere di astensione, puntualmente tradotto negli artt. 2, 3, 4 e 5, ma anche un obbligo di facere, cui si collegano direttamente gli artt. 25, 31 e 34; la tutela della dignità s’impone sia nei rapporti (verticali) tra cittadino e Stato sia in quelli (orizzontali) tra privati11.

L’art. 1 lascia infine irrisolto il nodo della definizione dell’idea di dignità umana e, come già detto, non potrebbe essere altrimenti. L’indeterminatezza del concetto induce allora ad usare con cautela la norma in esame, in maniera residuale rispetto a tutti i diritti disciplinati dalla Carta12. In sintesi, l’art. 1 ha sicuramente un’autonoma prescrittività, che deve essere però invocata solo ove non sia possibile individuare una disposizione che in maniera più specifica si attagli al caso concreto. Proprio in questo modo è stato applicato dalla Corte di Giustizia, che ne ha fatto un uso complessivamente limitato13. Bisogna ora procedere all’analisi di tale giurisprudenza, che peraltro rivelerà come l’assolutezza della dignità e la sua sottrazione alle tecniche di bilanciamento siano state in un certo senso ridimensionate nella prassi.

Per agevolare l’esposizione, si possono raggruppare le sentenze in quattro categorie, relative al divieto di discriminazione, alla limitazione di libertà funzionali alla realizzazione del mercato interno, a problematiche bioetiche e infine ad usi ulteriori non riconducibili alle ipotesi precedenti.

2. La dignità nel diritto antidiscriminatorio Prima di esaminare il rapporto tra dignità e divieti di discriminazione nelle

pronunce della Corte di Giustizia, si deve ricordare che una relazione del genere è ora

8 Cfr. P.F. GROSSI, Alcuni interrogativi sulle libertà civili nella formulazione della Carta di Nizza, in A. D’ATENA – P.F. GROSSI (a cura di), Diritto, diritti e autonomie. Tra Unione europea e riforme costituzionali (in ricordo di Andrea Paoletti), Milano, 2003, 72 ss.

9 Cfr. M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, cit., 43; F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto costituzionale europeo”, cit., 598 s.; G. PIEPOLI, Tutela della dignità e ordinamento della società secolare europea, cit., 8.

10 Cfr. P.F. GROSSI, Dignità umana e libertà nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in M. SICLARI (a cura di), Contributi allo studio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Torino, 2003, 44 s.; R. BIFULCO, Dignità umana e integrità genetica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., 240 s.; J. JONES, Human Dignity in the EU Charter of Fundamental Rights and its Interpretation Before the European Court of Justice, cit., 287.

11 Cfr. M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, cit., 44 s.; P.F. GROSSI, Dignità umana e libertà nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., 45 s.

12 Cfr. M. OLIVETTI, Art. 1. Dignità umana, cit., 44. 13 La considerazione è invero valida per l’intera Carta dei diritti fondamentali dei diritti dell’Unione

europea, come rilevano M. DI CIOMMO, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, cit., 228 s.; A. PIROZZOLI, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, cit., 164.

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presupposta dalla normativa dell’Unione europea. Nel capitolo precedente (v. supra, cap. II, § 6) si è visto che nelle direttive comunitarie “di seconda generazione”14 l’assunzione della dignità quale bene da tutelare incide indirettamente sulla nozione di discriminazione, mediante l’attenuazione del giudizio comparativo e la conseguente selezione dei comportamenti vietati, e direttamente sulla definizione di molestie e molestie sessuali. Va ora precisato che il campo d’applicazione del nuovo diritto antidiscriminatorio non è circoscritto ai settori del lavoro e della formazione professionale. L’art. 3 della direttiva 2000/43/CE stabilisce infatti che il principio della parità di trattamento si applica anche ai seguenti ambiti: all'affiliazione e all'attività in un'organizzazione di lavoratori o di datori di lavoro o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni (lett. d); alla protezione sociale, comprese la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria (lett. e); alle prestazioni sociali (lett. f); all’istruzione (lett. g); all'accesso a beni e servizi che sono a disposizione del pubblico e alla loro fornitura, incluso l'alloggio (lett. h)15. L’art. 4 della direttiva 2004/113/CE e il capo II, titolo II, della direttiva 2006/54/CE estendono invece il principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne all’accesso e alla fornitura di beni e di servizi e ai regimi professionali di sicurezza sociale16.

Facendo un passo indietro, bisogna rilevare che il concetto di dignità è emerso nella giurisprudenza comunitaria proprio in collegamento con il divieto di discriminazione17.

Un primo riferimento è contenuto nella sentenza del 13 luglio 1983 (causa C-152/82, “Forcheri”)18, in cui la Corte richiama il quinto considerando del regolamento (CEE) n. 1612/6819 e precisa che «il diritto di libera circolazione esige, per poter essere esercitato in una situazione obiettiva di libertà e di dignità, che sia garantita, in fatto ed in diritto, la parità di trattamento per tutto ciò che si riferisce allo stesso esercizio di

14 Cfr. D. IZZI, Discriminazione senza comparazione? Appunti sulle direttive comunitarie «di

seconda generazione», cit., 423. 15 A livello nazionale la relativa normativa è contenuta nel d.lgs. n. 215 del 2003. 16 A livello nazionale la normativa di attuazione delle direttive citate è raccolta nel “Codice delle

pari opportunità” (d.lgs. n. 198 del 2006). 17 Per un’analisi della progressiva emersione, nell’ordinamento comunitario, di un generale

principio di non discriminazione, anche per effetto della giurisprudenza della Corte di Giustizia, v. F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003, 85 ss.; C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, Bologna, 2008, 183 ss.; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello “europeo” dell’antidiscriminazione, cit., 232 ss.; L. CAPPUCCIO, Il principio di non discriminazione nella giurisprudenza comunitaria tra espansione dei diritti e tecniche di decisione, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. III (Dei diritti e dell’eguaglianza), cit., 875 ss.; P. ZIOTTI, Il principio di eguaglianza/non discriminazione nell’ordinamento comunitario, in relazione alla portata del principio nell’ordinamento italiano, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. III (Dei diritti e dell’eguaglianza), cit., 1235 ss.; G. PORRO, Riflessioni sui principi di uguaglianza e non discriminazione nel sistema di governante dell’Unione europea, in G. VENTURINI – S. BARIATTI (a cura di), Diritti individuali e giustizia internazionale. Liber Fausto Pocar, Milano, 2009, 753 ss.; M. BELL, The principle of equal treatment: widening and deepening, in P. CRAIG – G. DE BÚRCA (edited by), The evolution of EU law, II ed., Oxford-New York, 2011, 611 ss.

18 Tutte le pronunce della Corte di Giustizia sono consultabili sul sito istituzionale della Corte stessa.

19 Successivamente abrogato e sostituito dal regolamento (UE) n. 492/2011.

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un’attività dipendente e all’accesso all’abitazione, come pure che siano eliminati gli ostacoli che ostano alla mobilità dei lavoratori, in particolare per quanto riguarda il diritto per il lavoratore di farsi raggiungere dalla famiglia, e le modalità d’integrazione di questa famiglia nell’ambiente del Paese ospitante» (punto 12 della motivazione)20.

Considerazioni analoghe sono svolte nella sentenza del 13 novembre 1990 (causa C-308/89, “Carmina di Leo c. Land Berlin”), in cui la Corte sostiene che la libera circolazione dei lavoratori richiede, affinché «venga garantita nel rispetto della libertà e della dignità, condizioni ottimali d’integrazione della famiglia del lavoratore comunitario nell’ambiente del Paese ospitante. Affinché questa integrazione possa realizzarsi è indispensabile che il figlio del lavoratore comunitario che risiede con la famiglia nello Stato membro ospitante abbia la possibilità di scegliere i propri studi alle stesse condizioni che valgono per il figlio di un cittadino di detto Stato» (punto 13 della motivazione).

Le affermazioni relative al regolamento (CEE) n. 1612/68 sono richiamate anche nella sentenza dell’11 aprile 2000 (causa C-356/98, “Arben Kaba”) e nella sentenza del 17 settembre 2002 (causa C-413/99, “Baumbast”).

Nelle decisioni illustrate la dignità è semplicemente citata e non ha un ruolo specifico nell’argomentazione giudiziale. Assai più rilevante è la sentenza del 30 aprile 1996 (causa C-13/94, “P. c. S. e Cornwall County Council”), avente ad oggetto un’ipotesi di licenziamento dovuto a un cambiamento di sesso21. La questione pregiudiziale sollevata dal giudice della causa principale riguardava la sfera di applicazione della direttiva 76/207/CEE, sulla parità di trattamento tra gli uomini e le donne in relazione all’accesso e alle condizioni di lavoro, nonché alla formazione professionale22. In particolare, l’Industrial Tribunal di Truro si chiedeva se il caso al suo esame rientrasse nelle previsioni della normativa comunitaria. Secondo la Corte di Giustizia, il licenziamento de quo deve essere valutato in base all’art. 5, n. 1, della direttiva, che stabiliva che «L’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso». Nonostante il tenore letterale della disposizione, che sembrerebbe escludere l’applicabilità al caso di specie, la Corte ricorda che la direttiva è espressione del principio di uguaglianza, qualificato come principio fondamentale del diritto comunitario, e aggiunge che il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona. Muovendo da simili premesse, il giudice comunitario sostiene che «la sfera d’applicazione della direttiva non può essere ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Tenuto conto del suo scopo e della natura dei diritti che mira a proteggere, la direttiva può applicarsi anche alle discriminazioni che

20 Un rapido cenno al quinto considerando del regolamento (CEE) n. 1612/68 è in realtà presente già

nella sentenza del 3 luglio 1974 (causa C-9/74, “Casagrande”). 21 P., ricorrente nella causa principale, lavorava in qualità di amministratore presso un istituto

d’insegnamento, dipendente dal Cornwall County Council, autorità amministrativa territorialmente competente. Agli inizi del 1992, un anno dopo l’assunzione, P. comunicava a S., direttore didattico e gestionale dell’istituto, la sua intenzione di sottoporsi a un ciclo di trattamenti per il cambiamento di sesso. Nel mese di settembre 1992, dopo aver subito un intervento chirurgico di secondaria importanza, P. riceveva un preavviso di licenziamento con scadenza fissata al 31 dicembre 1992. L’operazione chirurgica definitiva avveniva prima che il licenziamento producesse effetti.

22 Questa normativa è stata successivamente abrogata e sostituita dalle direttive prima esaminate.

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hanno origine, come nella fattispecie, nel mutamento di sesso dell’interessata» (punto 20 della motivazione).

Subito dopo la Corte menziona esplicitamente la dignità ed evidenzia che «Il tollerare una discriminazione del genere equivarrebbe a porre in non cale, nei confronti di siffatta persona, il rispetto della dignità e della libertà al quale essa ha diritto e che la Corte deve tutelare» (punto 22 della motivazione). La Corte riconosce quindi che il bene tutelato dal divieto di discriminazione è la dignità umana23 e soprattutto giustifica alla luce di tale bene un’estensione della portata applicativa della direttiva. È palese che la Corte non si sia limitata in questo caso a interpretare la disciplina comunitaria, ma abbia utilizzato il richiamo alla dignità per legittimare la sua attività creatrice24. La dignità ha operato pertanto come strumento di rafforzamento del principio di non discriminazione.

3. La dignità come limite delle libertà funzionali alla realizzazione del mercato interno

Bisogna ora soffermarsi su un uso della dignità non come elemento di ampliamento

di principi o diritti derivanti dalla normativa comunitaria, ma al contrario come limite delle libertà funzionali all’esistenza del mercato interno.

Un primo cenno si rinviene nella sentenza del 9 luglio 1997 (cause riunite C-34/95, C-35/95, C-36/95, “De Agostini”), in cui la Corte di Giustizia, richiamando l’art. 12 della direttiva 89/552/CEE25, ricorda che la pubblicità televisiva non deve vilipendere la dignità umana.

Fondamentale è la sentenza del 14 ottobre 2004 (causa C-36/02, “Omega”), riguardante una misura restrittiva della libera prestazione dei servizi garantita dall’art. 49 del Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE)26. La restrizione consisteva nel divieto imposto dal Sindaco di Bonn alla società “Omega” di esercitare nel suo impianto, detto “laserdromo”, un gioco consistente nella simulazione di omicidi mediante dispositivi di puntamento a raggi laser simili a pistole mitragliatrici, utilizzati per colpire i sensori posti sui giubbotti degli avversari. Il provvedimento inibitorio era stato adottato perché l’uccisione simulata, seppure in un contesto ricreativo, era stata ritenuta pericolosa per l’ordine pubblico in quanto lesiva dei valori etici fondamentali della collettività tedesca27. Il divieto, impugnato dalla società “Omega”, veniva confermato nei diversi gradi di giudizio fino ad arrivare all’esame del Tribunale amministrativo federale, che, concordando con il giudice di prime cure, reputava il gioco effettivamente in contrasto con la dignità umana, protetta dall’art. 1 della Legge fondamentale tedesca, perché idoneo a suscitare o a rafforzare nei partecipanti

23 Il legame tra dignità umana e principio di non discriminazione è individuato dall’avvocato

generale Poiares Maduro nella causa C-303/06 (“S. Coleman c. Attridge Law”): nelle conclusioni generali egli sostiene che «La dignità umana ricomprende, come contenuto minimo indispensabile, il riconoscimento del fatto che ogni essere umano ha uguale valore. La vita ha valore per il semplice fatto di appartenere a un essere umano, e non vi è vita che abbia più o meno valore di un’altra» (§ 9).

24 Cfr. L. CALAFÀ – A. RIVERA, La sentenza P.: una nuova frontiera dell’eguaglianza?, in Lav. dir., 1996, 586; M.V. BALLESTRERO, Transparità. Ovvero transessualismo e discriminazione, in Ragion pratica, 1996, 275.

25 Poi abrogata e sostituita dalla direttiva 2010/13/UE. 26 Ora art. 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). 27 Cfr. R. CONTI, La dignità umana dinanzi alla Corte di Giustizia, in Corr. giur., n. 4/2005, 488.

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un’attitudine a negare il diritto fondamentale di ogni persona ad essere riconosciuta e rispettata28. Nello stesso tempo, però, il Tribunale rilevava una potenziale incompatibilità del divieto con la libera di prestazione di servizi sancita dall’art. 49 TCE e proponeva quindi una questione pregiudiziale.

In primis la Corte di Giustizia stabilisce che il provvedimento adottato dall’autorità amministrativa tedesca limita la libera prestazione di servizi. Ricorda, tuttavia, che in linea generale l’art. 46 TCE (ora art. 52 TFUE) autorizza misure restrittive delle libertà previste dal Trattato per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Nel caso in esame il divieto era fondato proprio su ragioni di ordine pubblico. Ciò ovviamente non legittima una deroga indiscriminata alla normativa comunitaria. La Corte precisa infatti che «la nozione di «ordine pubblico» nel contesto comunitario e, in particolare, in quanto giustificazione di una deroga alla libertà di prestazione dei servizi dev’essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni comunitarie […]. Ne deriva che l’ordine pubblico può essere invocato solamente in caso di minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività» (punto 30 della motivazione).

Nel passo successivo il giudice di Lussemburgo corregge parzialmente le affermazioni precedenti e sottolinea che le circostanze integranti il concetto di ordine pubblico possono variare da un Paese all’altro e da un’epoca all’altra e soprattutto che è necessario lasciare alle autorità nazionali un certo margine discrezionale.

A questo punto la Corte introduce una nuova argomentazione, rimarcando che i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto di cui il giudice comunitario deve garantire l’osservanza, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e alle convenzioni internazionali in materia. Con riferimento specifico alla dignità umana, la Corte sottolinea quanto segue: «l’ordinamento giuridico comunitario è diretto innegabilmente ad assicurare il rispetto della dignità umana quale principio generale del diritto. Non vi sono dunque dubbi che l’obiettivo di tutelare la dignità umana è compatibile con il diritto comunitario, non essendo rilevante a tale proposito che, in Germania, il principio del rispetto della dignità umana benefici di uno status particolare in quanto diritto fondamentale autonomo. Poiché il rispetto dei diritti fondamentali s’impone, in tal modo, sia alla Comunità sia ai suoi Stati membri, la tutela di tali diritti rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato, quale la libera prestazione dei servizi» (punti 34 e 35 della motivazione)29.

La prevalenza della dignità umana o di un diritto fondamentale non è comunque incondizionata, perché la restrizione di una libertà prevista dal Trattato è ammissibile a

28 Cfr. i punti 11 e 12 della motivazione della sentenza della Corte di Giustizia. 29 La dignità umana ha un ruolo centrale anche nelle conclusioni presentate nel caso “Omega”

dall’avvocato generale Stix-Hackl. Più precisamente, l’avvocato generale afferma che «La «dignità umana» esprime la suprema pretesa al rispetto e alla considerazione che deve spettare all’essere umano in quanto tale. Si tratta della tutela e del rispetto dell’essenza o natura dell’essere umano in sé considerato, della «sostanza» di quest’ultimo. Nella dignità umana si riflette perciò l’essere umano stesso, essa rappresenta ciò che lo contraddistingue […]. In quanto espressione fondamentale di ciò cui l’essere umano ha diritto già per il solo fatto di essere tale, la dignità umana rappresenta il substrato e la premessa di tutti i diritti umani, i quali si diversificano proprio a partire da essa, ed è al contempo il punto di fuga prospettico dei singoli diritti umani, in vista del quale questi devono essere compresi e interpretati» (§§ 75 e 76).

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condizione che sia indispensabile a salvaguardare l’interesse protetto e che non si possa ottenere il medesimo risultato con una misura meno restrittiva. Non è invece necessario che la misura rispecchi una visione condivisa da tutti gli Stati membri circa le modalità di tutela della dignità o di un diritto fondamentale. Proprio le simulazioni vietate dal Sindaco di Bonn sono oggetto di differenti regolamentazioni nei vari Stati membri.

In sintesi, il giudice di Lussemburgo avalla la ricostruzione del Tribunale amministrativo federale tedesco e consente la limitazione della libera prestazione dei servizi da parte della dignità, intesa come principio oggettivo ricostruito dal giudice30. La pronuncia è di particolare importanza, nella misura in cui esalta il ruolo dei diritti fondamentali in funzione di argine alle libertà economiche31, con conseguente ridimensionamento della prospettiva economicista originariamente prevalente nella normativa comunitaria32. Sotto quest’aspetto la decisione si pone nel solco tracciato dalla sentenza del 12 giugno 2003 (causa C-112/00, “Schmidberger”), che aveva giudicato lecita una restrizione alla libera circolazione delle merci derivante dall’esercizio del diritto di espressione e del diritto di riunione33. In quell’arresto la Corte aveva riconosciuto che la tutela dei diritti fondamentali potesse giustificare una deroga alla libera circolazione delle merci, sebbene all’esito di un bilanciamento tra interessi contrastanti e nel rispetto del criterio di proporzionalità delle restrizioni adottate.

La sentenza “Omega” riprende tale principio e lo applica alla dignità umana. In realtà, la situazione è più complessa perché l’apparato motivazionale della sentenza non è lineare e oscilla tra due linee argomentative in reciproca contraddizione. Da un lato, la dignità opera come limite a una libertà protetta dal Trattato in quanto principio generale del diritto comunitario34, secondo la logica propria della sentenza “Schmidberger”. Dall’altro lato, la Corte sembra introdurre un elemento di novità rispetto alla giurisprudenza pregressa, quando dice che l’interesse o il diritto in grado di limitare una libertà tutelata dal Trattato può essere anche inteso diversamente dai vari Stati membri e può pertanto essere salvaguardato con intensità e modalità differenti. Con una considerazione del genere, il giudice di Lussemburgo pare realizzare un’apertura alla

30 Questo modo d’intendere la dignità è criticato da F. SACCO, Note sulla dignità umana nel “diritto

costituzionale europeo”, cit., 609 ss., che vi intravede il rischio di un suo utilizzo quale veicolo per imporre modelli valoriali di comportamento.

31 Cfr. E. PELLECCHIA, Il caso Omega: la dignità umana e il delicato rapporto tra diritti fondamentali e libertà (economiche) fondamentali nel diritto comunitario, in Europa e diritto privato, 2007, 181 e 186, secondo cui la sentenza è espressione di una progressiva espansione del sistema di tutela dei diritti fondamentali e di una corrispondente erosione delle libertà economiche; P. MENGOZZI, Il principio personalista nel diritto dell’Unione Europea, Padova, 2010, 209, che parla di un rafforzamento dell’approccio personalista della Corte; R. MASTROIANNI, Diritti dell’uomo e libertà economiche fondamentali nell’ordinamento dell’Unione europea: nuovi equilibri?, in Dir. Un. Eur., 2011, 328.

32 Cfr. M. LUCIANI, Il lavoro autonomo della prostituta, in Quad. cost., 2002, 399, che stigmatizza l’originaria prevalenza della prospettiva economicista.

33 Si trattava in quell’occasione di una manifestazione ambientalista, non vietata dalle autorità austriache, che aveva bloccato l’autostrada del Brennero il 12 e il 13 giugno 1998, causando un pregiudizio economico alle imprese di trasporto.

34 Cfr. E. PELLECCHIA, Il caso Omega: la dignità umana e il delicato rapporto tra diritti fondamentali e libertà (economiche) fondamentali nel diritto comunitario, cit., 190 ss., che rileva come la dignità transiti dal singolo ordinamento al piano dei principi generali dell’ordinamento comunitario. Invero questa conclusione è valida solo in parte, come si dirà fra poco.

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discrezionalità degli Stati membri nel determinare le restrizioni alle libertà funzionali all’esistenza del mercato interno35.

Un simile atteggiamento di self-restraint non ha comunque una portata generale ed è anzi smentito nelle sentenze dell’11 dicembre 2007 (causa C-438/05, “Viking”) e del 18 dicembre 2007 (causa C-341/05, “Laval”)36. In particolare, nel caso “Viking” la Corte sostiene che azioni collettive, finalizzate a indurre un’impresa stabilita in un certo Stato membro a sottoscrivere un contratto collettivo di lavoro con un sindacato avente sede nello stesso Stato e ad applicare le clausole previste da tale contratto ai dipendenti di una società controllata da tale impresa e stabilita in un altro Stato membro, costituiscono restrizioni del diritto di stabilimento riconosciuto dall’art. 43 TCE (ora art. 49 TFUE) e demanda al giudice nazionale la verifica della sussistenza di una ragione imperativa d’interesse generale atta a giustificare le restrizioni, nel rispetto del principio di proporzionalità. In questo caso il self-restraint è però apparente, perché nella motivazione la Corte effettua direttamente il bilanciamento tra gli interessi confliggenti e in qualche modo prefigura il risultato cui dovrà pervenire il giudice nazionale, quando dice che «Per quanto riguarda […] le azioni collettive finalizzate a garantire la realizzazione della politica perseguita dalla ITF, si deve sottolineare che, se tale politica produce il risultato di impedire agli armatori di immatricolare le proprie navi in uno Stato diverso da quello di cui sono cittadini i proprietari effettivi delle navi stesse, le restrizioni alla libertà di stabilimento derivanti da tali azioni non possono essere obiettivamente giustificate» (punto 88 della motivazione).

Ancor più esplicitamente, nella sentenza “Laval” la Corte afferma che la disciplina comunitaria sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi osta a che un’organizzazione sindacale possa, mediante un’azione collettiva sotto forma di blocco dei cantieri, tentare di costringere un prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro ad avviare con essa una trattativa sulle retribuzioni da pagare ai lavoratori distaccati, nonché a sottoscrivere un contratto collettivo del quale talune clausole stabiliscano condizioni più favorevoli di quelle derivanti dalle disposizioni legislative vigenti. In secondo luogo, gli artt. 49 e 50 TCE (ora artt. 56 e 57 TFUE) sulla libera prestazione di servizi ostano a che, in uno Stato membro, il divieto imposto alle organizzazioni sindacali di intraprendere un’azione collettiva allo scopo di abrogare o modificare un contratto collettivo concluso da parte di terzi sia subordinato al fatto che l’azione riguardi condizioni di lavoro e di occupazione alle quali si applica direttamente la legge nazionale37.

35 Cfr. M.E. GENNUSA, La dignità umana vista dal Lussemburgo, in Quad. cost., 2005, 176 s.; R.

CONTI, La dignità umana dinanzi alla Corte di Giustizia, cit., 492; R. MASTROIANNI, Diritti dell’uomo e libertà economiche fondamentali nell’ordinamento dell’Unione europea: nuovi equilibri?, cit., 328 s.; J. JONES, Human Dignity in the EU Charter of Fundamental Rights and its Interpretation Before the European Court of Justice, cit., 292 s.

36 Entrambi i casi riguardano azioni collettive intraprese da sindacati per contrastare fenomeni di dumping sociale.

37 In parte assimilabile al medesimo modello decisionale è anche la sentenza del 3 aprile 2008 (causa C-346/06, “Rüffert”), in cui si afferma che la normativa comunitaria in materia di libera prestazione dei servizi osta ad un provvedimento legislativo, emanato da un’autorità di uno Stato membro, che imponga agli enti pubblici aggiudicatori di attribuire gli appalti relativi a lavori edili esclusivamente alle imprese che, all’atto della presentazione delle offerte, s’impegnino per iscritto a corrispondere ai propri dipendenti, impiegati per l’esecuzione dei lavori oggetto di appalto, una retribuzione non inferiore a quella minima prevista dal contratto collettivo vigente nel luogo dell’esecuzione dei lavori in questione. In questa decisione, tuttavia, la logica della ponderazione tra

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L’atteggiamento di self-restraint della Corte è invece nuovamente rintracciabile, in una versione molto attenuata, nella sentenza del 14 febbraio 2008 (causa C-244/06, “Dynamic Medien”), riguardante una normativa tedesca che, in funzione di tutela dei minori, limita la libera circolazione delle merci38. Nella causa il Governo tedesco aveva rilevato il collegamento esistente tra la tutela dei minori e il rispetto della dignità umana39. La Corte di Giustizia non si sofferma su tale nesso e assume la tutela dei minori quale autonomo interesse idoneo a limitare la libera circolazione delle merci e a giustificare restrizioni quantitative, in principio vietate dall’art. 28 TCE (ora art. 34 TFUE). In proposito, la Corte richiama la sentenza “Omega” e sottolinea, in relazione al modo di concepire la tutela dei minori, che «Poiché tale concezione può variare da uno Stato membro all’altro in funzione, in particolare, di considerazioni di carattere morale o culturale, si deve riconoscere agli Stati membri un margine discrezionale certo» (punto 44 della motivazione). La portata dell’affermazione è però subito ridimensionata, sia perché la Corte ricorda che la misura restrittiva deve rispettare il principio di proporzionalità, sia perché questo rispetto è direttamente verificato dalla Corte stessa con uno scrutinio penetrante. Non a caso il giudice di Lussemburgo risolve la questione pregiudiziale stabilendo che una normativa come quella tedesca non è in contrasto con l’art. 28 TCE, salvo che risulti che la procedura di controllo, classificazione e contrassegno di supporti video prevista da una normativa del genere non sia facilmente accessibile, ovvero non possa concludersi entro termini ragionevoli, ovvero il diniego non possa formare oggetto di ricorso esperibile in via giurisdizionale. In altre parole, la Corte di Giustizia fissa precise condizioni di legittimità della misura restrittiva, mentre nella sentenza “Omega” si era limitata ad affermare la necessità del carattere proporzionale della misura e aveva sostanzialmente accettato il controllo già effettuato dal giudice nazionale.

Un ultimo punto merita di essere rimarcato. Nelle sentenze “Omega”, “Viking” e “Laval” il giudice di Lussemburgo precisa che il rispetto della dignità umana non esula dall’ambito applicativo del Trattato, ma deve essere conciliato con le esigenze sottese ai diritti tutelati dal Trattato stesso e deve essere comunque conforme al principio di proporzionalità. Ciò vuol dire che la dignità non è superiore alle libertà economiche, ma è sottoposta alla logica del bilanciamento e la sua prevalenza è legata alla proporzionalità delle misure in concreto adottate. Risulta allora sconfessato quanto detto a proposito dell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali, che sembra attribuire un valore assoluto e non ponderabile alla dignità umana.

Questa conclusione può essere generalizzata e si può sostenere che nella giurisprudenza comunitaria non è rintracciabile una gerarchia tra diritti fondamentali e libertà economiche, che assicuri sempre la prevalenza degli uni o delle altre, né esiste un paradigma codificato di bilanciamento40. La soluzione è individuata dalla Corte di

diritti fondamentali e libertà economiche rimane sullo sfondo, sebbene l’esito della vicenda si traduca in un sacrificio del diritto dei lavoratori coinvolti nella fattispecie ad un salario minimo.

38 Si tratta di una normativa che vieta la vendita e la cessione per corrispondenza di supporti video non sottoposti al controllo e alla classificazione, ai fini della tutela dei minori, da parte della competente autorità nazionale, e sprovvisti dell’indicazione, proveniente da tale autorità, dell’età a partire dalla quale ne è consentita la visione.

39 Cfr. il punto 37 della motivazione. 40 Cfr. R. MASTROIANNI, Diritti dell’uomo e libertà economiche fondamentali nell’ordinamento

dell’Unione europea: nuovi equilibri?, cit., 329 e 354.

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Giustizia caso per caso41, secondo modalità che potrebbero definirsi equitative. Un simile risultato discende dall’assenza di coordinamento tra la Carta di Nizza e i Trattati: le due fonti sono semplicemente giustapposte, avendo eguale valore giuridico, e i possibili contrasti tra i diversi diritti sono rimessi alla valutazione giudiziale, a differenza di quanto accade nelle Costituzioni nazionali, che indicano almeno nella maggior parte dei casi i criteri di soluzione dei conflitti, mediante un articolato sistema di limiti puntuali apposti ai diritti proclamati.

4. La dignità umana in ambito bioetico

Un settore delicato in cui il concetto di dignità umana è largamente impiegato è la bioetica. Più precisamente, la dignità è invocata come limite a determinate pratiche scientifiche e commerciali. Sebbene la dignità operi in tali casi in maniera analoga a quanto visto nel paragrafo precedente, la peculiarità del tema impone una trattazione autonoma.

La Corte di Giustizia si è occupata di problematiche bioetiche in relazione alla disciplina delle invenzioni bioteconologiche, contenuta nella direttiva 98/44/CE42. La direttiva consente, con una serie di limiti, la brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche e richiama l’idea di dignità umana nel sedicesimo e nel trentottesimo considerando. Il considerando n. 16 asserisce che «il diritto dei brevetti dev’essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali che garantiscono la dignità e l’integrità dell’uomo» e che «occorre ribadire il principio secondo cui il corpo umano, in ogni stadio della sua costituzione e del suo sviluppo, comprese le cellule germinali, la semplice scoperta di uno dei suoi elementi o di uno dei suoi prodotti, nonché la sequenza o sequenza parziale di un gene umano, non sono brevettabili». Il considerando n. 38 dichiara che è importante «inserire nel dispositivo stesso della presente direttiva un elenco indicativo di invenzioni escluse dalla brevettabilità, per fornire ai giudici e agli uffici nazionali dei brevetti orientamenti di massima ai fini dell’interpretazione del riferimento all’ordine pubblico o al buon costume» e che «questo elenco non può certo essere considerato esauriente»; aggiunge infine che «i procedimenti la cui applicazione reca pregiudizio alla dignità umana, come ad esempio i procedimenti per la produzione di esseri ibridi risultanti da cellule germinali o totipotenti umane o animali, devono ovviamente essere esclusi anch’essi dalla brevettabilità».

Gli aspetti eticamente più sensibili della direttiva e che sono stati oggetto delle sentenze della Corte di Giustizia sono regolati dagli artt. 5 e 6. L’art. 5 dispone che «Il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi elementi, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili. Un elemento isolato dal corpo umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione brevettabile, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un elemento naturale.

41 Cfr. M. CARTABIA, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in ID. (a cura di), I diritti

in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, 44. 42 Sui contrasti che hanno preceduto l’adozione della direttiva, v. R. ROSSOLINI, La tutela

dell’embrione umano nelle invenzioni biotecnologiche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia nel caso Brüstle, in Riv. dir. ind., 2012, parte I, 133 s.

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L’applicazione industriale di una sequenza o di una sequenza parziale di un gene dev’essere concretamente indicata nella richiesta di brevetto». L’art. 6 prescrive che «Sono escluse dalla brevettabilità le invenzioni il cui sfruttamento commerciale è contrario all’ordine pubblico o al buon costume; lo sfruttamento di un’invenzione non può di per sé essere considerato contrario all’ordine pubblico o al buon costume per il solo fatto che è vietato da una disposizione legislativa o regolamentare. Ai sensi del paragrafo 1, sono considerati non brevettabili in particolare: a) i procedimenti di clonazione di esseri umani; b) i procedimenti di modificazione dell’identità genetica germinale dell’essere umano; c) le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali; d) i procedimenti di modificazione dell’identità genetica degli animali atti a provocare su di loro sofferenze senza utilità medica sostanziale per l’uomo o l’animale, nonché gli animali risultanti da tali procedimenti».

Le disposizioni citate specificano le previsioni dell’art. 3, par. 2, della Carta di Nizza, ai sensi del quale «Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani». La norma è stata considerata una concretizzazione attualissima della dignità in ambito genetico43, ma contemporaneamente se ne sono evidenziate l’ambiguità e la conseguente difficoltà di stabilire quali pratiche siano lecite e quali vietate44. In particolare, si è rilevato che l’espressione “in quanto tali” parrebbe escludere la commerciabilità del corpo e di sue parti solo nella forma di materiali grezzi e non invece se siano il risultato di manipolazioni e trasformazioni45. Da questo punto di vista la norma sembra aver tenuto conto proprio dell’art. 5, par. 2, della direttiva 98/44/CE, che ammette la brevettabilità di elementi isolati dal corpo umano mediante procedimenti tecnici.

Tale questione è stata analizzata con riferimento al parametro della dignità umana nella sentenza del 9 ottobre 2001 (causa C-377/98, “Regno dei Paesi Bassi c. Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea”), chiamata a pronunciarsi su una richiesta di annullamento della direttiva 98/44/CE, proposta dai Paesi Bassi. Uno dei motivi a sostegno della domanda riguardava la brevettabilità di elementi isolati dal corpo umano ex art. 5, par. 2, che i Paesi Bassi ritenevano equivalente a una strumentalizzazione del materiale umano vivente, lesiva della dignità dell’uomo46. Nella decisione, il giudice di Lussemburgo chiarisce innanzitutto che «Spetta alla Corte, in sede di verifica della conformità degli atti delle istituzioni ai principi generali del diritto comunitario, di vigilare sul rispetto del diritto fondamentale alla dignità umana ed all’integrità della persona» (punto 70 della motivazione). Nel merito, risponde che la dignità umana è salvaguardata dall’art. 5, par. 1, della direttiva, che vieta la

43 Cfr. R. BIFULCO, Art. 3. Diritto all’integrità della persona, in R. BIFULCO – M. CARTABIA – A. CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., 51 s.

44 Cfr. P.F. GROSSI, Dignità umana e libertà nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., 50 s.; R. BIFULCO, Dignità umana e integrità genetica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., 256 ss.; P. COSTANZO, Il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali, cit., 394 s.

45 Cfr. G. RESTA, Disponibilità dei diritti fondamentali e commercializzazione: prime note sul «sistema» della Carta dei diritti, cit., 210.

46 Cfr. il punto 69 della motivazione della sentenza.

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brevettabilità del corpo umano e di sue parti; possono invece costituire oggetto di una domanda di brevetto esclusivamente le invenzioni che associno un elemento naturale a un processo tecnico che consenta di isolare elementi del corpo e di produrli ai fini dello sfruttamento industriale. In altre parole, un elemento del corpo umano non può essere oggetto di nessuna appropriazione nel suo ambiente naturale.

Il giudice comunitario applica poi la distinzione suddetta alle attività di ricerca sulla sequenza del patrimonio genetico umano e sottolinea che la brevettabilità concerne solo il risultato di un’invenzione scientifica o tecnica, comprensiva di dati biologici esistenti allo stato di natura nell’essere umano solo in quanto indispensabili alla realizzazione e allo sfruttamento di un prodotto industriale.

La Corte ricorda inoltre che un’ulteriore protezione discende dall’art. 6, che indica come contrari all’ordine pubblico o al buon costume, e quindi non brevettabili, i procedimenti di clonazione di esseri umani, di alterazione dell’identità genetica germinale dell’uomo e di utilizzo di embrioni umani a fini industriali o commerciali. Questo elenco non è peraltro tassativo, come si desume dal trentottesimo considerando, perciò tutti i procedimenti potenzialmente lesivi della dignità umana devono ritenersi non brevettabili. Secondo la Corte, «Da queste disposizioni deriva che, per quanto concerne il materiale vivente di origine umana, la direttiva delimita il diritto dei brevetti in modo sufficientemente rigoroso affinché il corpo umano resti effettivamente indisponibile ed inalienabile e che venga così salvaguardata la dignità umana» (punto 77 della motivazione).

In sostanza, il giudice comunitario reputa adeguata la soglia di tutela della dignità apprestata dalla direttiva. Ovviamente non è possibile stabilire quale sia il livello corretto di protezione del corpo solo facendo riferimento al concetto di dignità umana. In astratto, si potrebbe anzi ritenere che la difesa della dignità imponga un’integrale indisponibilità del corpo, come sostenuto dai Paesi Bassi nel caso in esame. Il giudice di Lussemburgo non ha aderito a questa tesi e ha indirettamente confermato, seppure in un contesto diverso da quello in precedenza descritto, l’idea della conciliazione tra la dignità e interessi contrapposti, in tal caso valutando favorevolmente il punto d’equilibrio individuato dalle istituzioni comunitarie.

Orientata nel senso di una netta prevalenza della dignità umana sugli interessi contrapposti47 è invece la sentenza del 18 ottobre 2011 (causa C-34/10, “Brüstle c. Greenpeace”), che affronta una questione ancor più complessa e lasciata irrisolta dalla direttiva: la definizione di “embrione”. Rilevata la necessità di una nozione uniforme, valida in tutta l’Unione, e precisato che la questione verte sull’interpretazione giuridica delle disposizioni della direttiva, e non sulla risoluzione di delicate problematiche di natura medica ed etica48, la Corte afferma che «dal preambolo della direttiva emerge che, se è vero che quest’ultima mira a incoraggiare gli investimenti nel settore della

47 Cfr. R. ROMANO, La brevettabilità delle cellule staminali embrionali umane, in La nuova

giurisprudenza civile commentata, 2012, parte II, 249; P. STAZI, La sentenza Brüstle e la brevettabilità di invenzioni implicanti l’utilizzo di cellule staminali embrionali umane, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2012, 492 s.; G. CARAPEZZA FIGLIA, Tutela dell’embrione e divieto di brevettabilità: un caso di assiologia dirimente nell’ermeneutica della Corte di Giustizia, in Dir. fam. pers., 2012, 32 ss., secondo cui la Corte di Giustizia, nella sentenza “Brüstle”, ha reinterpretato in maniera assiologica la direttiva 98/44/CE, alla luce del principio personalista.

48 Secondo L. MARINI, Brevetto bioteconologico e cellule staminali nel diritto comunitario, in Giur. comm., 2013, parte I, 600, la neutralità medica ed etica della sentenza è solo apparente, perché la Corte avrebbe in realtà dato credito ad orientamenti che sono espressione solo di una parte della comunità scientifica.

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biotecnologia, lo sfruttamento del materiale biologico di origine umana deve avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali e, in particolare, della dignità umana» (punto 32 della motivazione). Specifica poi che «Il contesto e lo scopo della direttiva rivelano […] che il legislatore dell’Unione ha inteso escludere qualsiasi possibilità di ottenere un brevetto quando il rispetto dovuto alla dignità umana può esserne pregiudicato. Da ciò risulta che la nozione di «embrione umano» ai sensi dell’art. 6, n. 2, lett. c), della direttiva deve essere intesa in senso ampio» (punto 34 della motivazione).

Da tale assunto la Corte ricava una serie di conseguenze. Innanzitutto, deve essere considerato un embrione, pertanto non brevettabile, qualsiasi ovulo umano sin dalla fase della sua fecondazione, perché la fecondazione dà avvio al processo di sviluppo di un essere umano. Per la stessa ragione devono essere qualificati come embrioni l’ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e l’ovulo umano non fecondato indotto a dividersi e a svilupparsi attraverso partenogenesi. Per quanto riguarda infine le cellule staminali ricavate da un embrione umano nello stadio di blastocisti, spetta al giudice nazionale stabilire, tenendo conto degli sviluppi della scienza, se esse siano tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano, rientrando quindi nella definizione di “embrione umano”. Sintetizzando le conclusioni del giudice comunitario, si può dire che nel momento in cui inizia il processo di sviluppo di un essere umano scattano l’applicazione della nozione di “embrione” e la connessa esigenza di protezione della dignità49.

Risolta la questione definitoria, la Corte si sofferma sulle altre due domande pregiudiziali, riguardanti il dubbio sull’inclusione nel divieto di sfruttamento industriale e commerciale delle attività di ricerca scientifica finalizzate a una domanda di brevetto e il problema della brevettabilità di un insegnamento tecnico che comporti la previa distruzione di embrioni umani50. Sulla prima questione il giudice di Lussemburgo risponde che «anche se lo scopo di ricerca scientifica deve essere distinto dai fini industriali e commerciali, l’utilizzazione di embrioni umani a fini di ricerca che sia oggetto della domanda di brevetto non può essere scorporata dal brevetto medesimo e dai diritti da esso derivanti» (punto 43 della motivazione). Se ne deduce l’estensione del divieto di brevettabilità anche all’attività di ricerca scientifica collegata a una domanda di brevetto, con esclusione soltanto dell’uso di embrioni per finalità terapeutiche o diagnostiche. In relazione alla seconda questione, la Corte stabilisce che la brevettabilità è proibita anche se le rivendicazioni del brevetto non vertono sull’utilizzo di embrioni umani, ove l’attuazione dell’invenzione richieda la distruzione di embrioni umani. Questo perché «Il fatto che tale distruzione abbia luogo, eventualmente, in una fase ben precedente rispetto all’attuazione dell’invenzione, come nell’ipotesi della produzione di cellule staminali embrionali ricavate da una linea di cellule staminali la cui creazione, di per sé, ha comportato la distruzione di embrioni umani è, al riguardo, irrilevante» (punto 49 della motivazione).

Come emerge dalla pronuncia, l’effetto preclusivo derivante dall’istanza di tutela della dignità umana è estremamente ampio51. Non convince però che una soluzione del

49 Cfr. P. STAZI, La sentenza Brüstle e la brevettabilità di invenzioni implicanti l’utilizzo di cellule staminali embrionali umane, cit., 490.

50 Per un inquadramento giuridico della problematica della ricerca sulle cellule staminali, v. S. PENASA, La questione delle cellule staminali. Il quadro giuridico, in S. CANESTRARI – G. FERRANDO – C.M. MAZZONI – S. RODOTÀ – P. ZATTI (a cura di), Il governo del corpo, cit., 1101 ss.

51 Cfr. L. VIOLINI, Il divieto di brevettabilità di parti del corpo umano: un uso specifico e non inutile del concetto di dignità umana, in Quad. cost., 2012, 146, che condivide la scelta della Corte. Analogamente, P. CAVANA, Europa: due importanti pronunce in materia bioetica (Corte di giustizia UE

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genere sia ricavata dalla Corte solo facendo affidamento sulla dignità e mettendo invece consapevolmente da parte le risultanze delle acquisizioni scientifiche52. I limiti di questa impostazione emergono nella sentenza del 18 dicembre 2014 (causa C-364/13, “International Stem Cell Corporation”), in cui il giudice di Lussemburgo è costretto a tornare sulla questione e a correggere il tiro delle sue precedenti affermazioni. La domanda formulata dal giudice del rinvio concerne un’ipotesi già esaminata e risolta positivamente nella sentenza “Brüstle”, cioè la classificazione come embrioni di ovuli umani non fecondati, stimolati a dividersi e a svilupparsi attraverso la partenogenesi.

Per fornire una risposta alla questione pregiudiziale, la Corte anzitutto richiama il criterio secondo cui si può parlare di “embrione umano” quando l’ovulo non fecondato ha la capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano. Subito però ne rimodula la portata, specificando che «nell’ipotesi in cui un ovulo umano non fecondato non soddisfi tale condizione, il solo fatto che tale organismo inizi un processo di sviluppo non è sufficiente per considerarlo un «embrione umano», ai sensi e ai fini dell’applicazione della direttiva 98/44» (punto 29 della motivazione).

Passando all’esame del caso concreto, la Corte ricorda che «Nella causa che ha dato luogo alla sentenza Brüstle […], dalle osservazioni scritte presentate dinanzi alla Corte risultava che un ovulo umano non fecondato che, attraverso la partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi, aveva la capacità di svilupparsi in essere umano» (punto 31 della motivazione). Poco dopo aggiunge che «Tuttavia, nella presente causa, il giudice del rinvio […] ha sottolineato in sostanza che secondo le conoscenze scientifiche di cui dispone, un partenote umano, per effetto della tecnica usata per ottenerlo, non è in grado in quanto tale di dare inizio al processo di sviluppo che conduce ad un essere umano» (punto 33 della motivazione). Conclude quindi sancendo che «l’articolo 6, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 98/44, deve essere interpretato nel senso che un ovulo umano non fecondato il quale, attraverso la partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi non costituisce un «embrione umano», ai sensi della suddetta disposizione, qualora, alla luce delle attuali conoscenze della scienza, esso sia privo, in quanto tale, della capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare» (punto 38 della motivazione).

sulla nozione di embrione umano, O. Brüstle c. Greenpeace e V; Corte europea dei diritti sul divieto di fecondazione eterologa, S.H. ed altri c. Austria), in Quad. dir. pol. eccl., 2011, 621 s.; P. DE PASQUALE, Sull’utilizzazione di embrioni umani a fini industriali o commerciali, in Dir. pubbl. comp. eur., 2012, 218 ss.; G. CARAPEZZA FIGLIA, Tutela dell’embrione e divieto di brevettabilità: un caso di assiologia dirimente nell’ermeneutica della Corte di Giustizia, cit., 35 ss.; M. CASINI, La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ed il superamento della c.d. “teoria del preembrione”, in Dir. fam. pers., 2012, 39 s. e 52; R. ROMANDINI, La sentenza Brüstle sulla tutelabilità delle cellule staminali embrionali: implicazioni pratiche e giuridiche, in Riv. dir. ind., 2012, parte II, 344; S. VEZZANI, Invenzioni bioteconologiche e tutela dell’ordine pubblico e della morale nel diritto europeo dei brevetti: il caso Brüstle, in Dir. um. dir. int., 2012, 448 ss., seppure con alcune perplessità sulla scelta della Corte di includere le cellule staminali nella nozione di “embrione”. In senso critico si esprime invece A. SPADARO, La sentenza Brüstle sugli embrioni: molti pregi e… altrettanti difetti (in dialogo con Lorenza Violini), in Quad. cost., 2012, 440, che parla di un “eccesso di precauzione”.

52 Sul rapporto tra scienza e attività giurisdizionale, v. S. JASANOFF, La scienza davanti ai giudici. La regolazione giuridica della scienza in America, trad. it. a cura di M. GRAZIADEI, Milano, 2001; M. TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 665 ss.; G. SILVESTRI, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, in Dir. pubbl., 2004, 411 ss.

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In effetti, già prima della pronuncia della Corte di Giustizia la dottrina aveva evidenziato che le acquisizioni scientifiche successive alla sentenza “Brüstle” avrebbero potuto condurre a una differente valutazione del partenote umano53. Così è stato e la Corte saggiamente è tornata sui suoi passi. Non può infatti dedursi soltanto dal concetto di dignità umana, di per sé indeterminato, la sfera di applicazione del divieto di brevettabilità, ignorando il dato scientifico. Quest’ultimo deve al contrario essere il presupposto sulla cui base poi considerare le esigenze di protezione della dignità umana e fissare il limite alle pratiche utilizzabili. Com’è stato detto, la scelta della Corte di Giustizia di definire “l’embrione umano” determina poi l’onere procedurale di adeguare la nozione all’evoluzione delle conoscenze scientifiche54.

In conclusione, di fronte a problematiche bioetiche assai delicate e complesse è illusorio pensare di trarre regole certe dall’idea di dignità umana. La dignità dovrebbe essere parte di un ampio processo di ponderazione degli interessi in campo, alla luce di considerazioni etiche, scientifiche e giuridiche. Tale operazione non può essere caricata sulle spalle di un giudice, come accade quando la normativa non detta un sistema preciso di regole e ricorre a clausole generiche come la dignità; dovrebbe essere invece compiuta dal legislatore, data la sua natura eminentemente politica.

5. Altri usi della dignità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Restano da analizzare alcune pronunce in cui si fa ricorso al concetto di dignità in

settori differenti da quelli finora presi in considerazione. Nella sentenza del 5 aprile 2011 (causa C-119/09, “Société fiduciaire nationale

d’expertise comptable”) si fa riferimento all’indipendenza, alla dignità e all’integrità della professione di dottore commercialista e di esperto contabile. Il riferimento non richiede particolari approfondimenti, perché si è visto che la dignità professionale è ben diversa dalla dignità umana e non va confusa con essa (v. supra, cap. II, §§ 6 e 9).

Più rilevanti sono le sentenze in materia di rimpatrio di stranieri che soggiornino irregolarmente sul territorio di uno Stato membro e di accoglienza dei richiedenti asilo.

La prima decisione da esaminare è del 28 aprile 2011 (causa C-61/11, “Hassen El Dridi”), riguardante la compatibilità dell’art. 14, co. 5-ter, del d.lgs. n. 286/1998 con la direttiva 2008/115/CE, che individua procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. La citata norma del diritto italiano prevedeva l’irrogazione della pena della reclusione per lo straniero che permanesse senza giustificato motivo nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine di allontanamento impartito dal questore55. Per stabilire la compatibilità di tale articolo con la disciplina comunitaria, la Corte richiama il secondo considerando della direttiva 2008/115/CE e ricorda che questa «persegue l’attuazione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità» (punto 31 della motivazione). La tutela della dignità

53 Cfr. S. PENASA, Opening the Pandora box: la Corte di giustizia nuovamente di fronte alla definizione di “embrione umano”, in Forum di Quad. cost., 4 giugno 2013.

54 Cfr. S. PENASA, Opening the Pandora box: la Corte di giustizia nuovamente di fronte alla definizione di “embrione umano”, cit.

55 La disposizione è stata successivamente modificata, proprio in osservanza della sentenza della Corte di Giustizia, e la sanzione della reclusione è stata sostituita con una multa.

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umana impone in un simile contesto la proporzionalità delle misure adottate e, in particolare, che l’allontanamento dello straniero sia attuato con i provvedimenti meno coercitivi possibili. Sul punto, la Corte sottolinea che la direttiva 2008/115/CE «subordina espressamente l’uso di misure coercitive al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti. Ne consegue che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo […] una pena detentiva, come quella prevista all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale. Essi devono, invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti» (punti 57 e 58 della motivazione).

In questa sentenza la dignità non svolge un ruolo specifico e si converte nella previsione del principio di proporzionalità delle misure adottate. In altri termini, l’esigenza di difesa della dignità è tradotta in una specifica regola giuridica codificata dalla direttiva 2008/115/CE.

La seconda pronuncia su cui soffermarsi è del 27 settembre 2012 (causa C-179/11, “Cimade e GISTI”) e verte sull’interpretazione della direttiva 2003/9/CE, recante norme minime sull’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri56. Nella sentenza il giudice di Lussemburgo precisa che «L’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2003/9 deve […] essere effettuata alla luce dell’economia generale e della finalità di quest’ultima nonché, come stabilito dal considerando 5 di detta direttiva, nel rispetto dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti, segnatamente, dalla Carta. A mente di tale considerando, la direttiva mira in particolare a garantire il pieno rispetto della dignità umana e a promuovere l’applicazione degli articoli 1 e 18 della Carta. Pertanto, il rispetto di tali prescrizioni si impone non soltanto nei riguardi dei richiedenti asilo che si trovano nel territorio dello Stato membro competente in attesa della decisione di quest’ultimo in merito alla loro domanda di asilo, ma anche nei confronti dei richiedenti asilo in attesa della determinazione dello Stato membro competente ad esaminare tale domanda» (punti 42 e 43 della motivazione). Più avanti la Corte ribadisce che «l’economia generale e la finalità della direttiva 2003/9 nonché il rispetto dei diritti fondamentali – e segnatamente delle prescrizioni dell’articolo 1 della Carta, a norma del quale la dignità umana deve essere rispettata e tutelata – ostano […] a che un richiedente asilo venga privato – anche solo per un periodo temporaneo dopo la presentazione di una domanda di asilo, e prima che egli venga effettivamente trasferito nello Stato membro competente – della protezione conferita dalle norme minime dettate dalla citata direttiva» (punto 56 della motivazione).

Dalla sentenza si deduce che la tutela della dignità, garantita dall’art. 1 della Carta di Nizza e menzionata dal quinto considerando della direttiva 2003/9/CE, orienta l’interpretazione di quest’ultima in senso espansivo dei diritti dei richiedenti asilo. La dignità è pertanto strumentale a un potenziamento della protezione dei diritti fondamentali.

Analoga funzione si rinviene nella sentenza del 27 febbraio 2014 (causa C-97/13, “Federal agentschap voor de opvang van asielzoekers”), relativa all’interpretazione

56 La direttiva è stata in seguito abrogata e sostituita dalla direttiva 2013/33/UE.

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dell’art. 13, par. 5, della direttiva 2003/9/CE, ai sensi del quale «Le condizioni materiali di accoglienza possono essere fornite in natura o in forma di sussidi economici o buoni o mediante una combinazione di queste misure. Qualora gli Stati membri forniscano le condizioni materiali di accoglienza in forma di sussidi economici o buoni, l’ammontare dei medesimi è fissato in conformità dei principi stabiliti nel presente articolo». Per interpretare la portata della disposizione, la Corte richiama espressamente le considerazioni formulate nell’arresto “Cimade e GISTI” e aggiunge che «Risulta […] dal considerando 7 della medesima direttiva che essa è intesa a stabilire norme minime in materia di accoglienza dei richiedenti asilo che siano normalmente sufficienti a garantire loro un livello di vita dignitoso e condizioni di vita analoghe in tutti gli Stati membri. Ne discende che, sebbene l’importo dell’aiuto finanziario concesso sia determinato da ciascuno Stato membro, esso deve essere sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso e adeguato per la salute nonché il sostentamento dei richiedenti asilo» (punti 39 e 40 della motivazione). Tale concetto è ulteriormente rafforzato dalla Corte nel passaggio in cui dice che «qualora uno Stato membro abbia scelto di fornire le condizioni materiali di accoglienza in forma di sussidi economici, tali sussidi devono essere sufficienti a garantire un livello di vita dignitoso e adeguato per la salute nonché il sostentamento dei richiedenti asilo, consentendo loro, in particolare, di disporre di un alloggio, se del caso, nell’ambito del mercato privato della locazione» (punto 42 della motivazione).

Anche in questo caso il ricorso all’idea di dignità determina un’interpretazione estensiva della normativa de qua in funzione di garanzia di un diritto sociale: il diritto del richiedente asilo a condizioni di vita dignitose.

6. Conclusioni La disamina della normativa dell’Unione europea e della giurisprudenza della

Corte di Giustizia dimostra come anche in ambito comunitario la dignità sia invocata in contesti molto differenti e con funzioni diverse; non è quindi possibile ricostruirla come principio unitario.

Essa opera secondo schemi così riassumibili: in collegamento con il principio di non discriminazione, o meglio come fattore di penetrazione di quest’ultimo nei rapporti tra privati; nel bilanciamento tra diritti fondamentali e libertà economiche previste dai Trattati, come limite a queste ultime; a tutela dell’integrità genetica dell’uomo e in funzione di restrizione della ricerca scientifica e dello sfruttamento industriale e commerciale di parti del corpo; come garanzia del diritto dei richiedenti asilo a condizioni di vita dignitose, con conseguente imposizione in capo agli Stati membri dell’obbligo di erogare determinate prestazioni.

Si tratta di un quadro estremamente variegato, in cui dalla dignità derivano di volta in volta obblighi di astensione oppure obblighi di fare, gravanti in capo a singoli individui o agli Stati membri. Tale eterogeneità di contenuti suggerisce che, anche a livello dell’Unione europea, è preferibile una visione analitica della dignità piuttosto che una sintetica57.

57 Come evidenzia l’avvocato generale Stix-Hackl nelle citate conclusioni presentate nel caso

“Omega”, «la dignità umana assume un contenuto più concreto soltanto per effetto della configurazione e della formulazione attribuitele nei singoli diritti fondamentali, ed in rapporto a questi funge da criterio

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valutativo e interpretativo. Il concetto di dignità umana è infatti esso stesso – al pari del concetto di essere umano, cui esso direttamente rinvia – un concetto di genere, che come tale non è suscettibile di una classica definizione giuridica o di una interpretazione in senso proprio; al contrario, esso può essere specificato nel singolo caso, in ordine al suo contenuto, soprattutto mediante accertamenti giudiziali. La scelta di codificare e di applicare le garanzie relative a singoli, concreti diritti fondamentali, anziché ricorrere direttamente al principio della dignità umana, appare quindi ovvia dal punto di vista dell’azionabilità delle pretese e del metodo giuridico in generale» (§§ 85 e 86).

CAPITOLO QUARTO

LA DIGNITÀ UMANA NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E NELLA GIURISPRUDENZA

DELLA CORTE DI STRASBURGO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Dignità e diritto alla vita (art. 2 CEDU). – 3. Dignità umana e proibizione

della tortura (art. 3 CEDU). – 4. Tratta di esseri umani e violazione della dignità (art. 4 CEDU). – 5. Dignità e ragionevole durata del processo (art. 6 CEDU). – 6. Dignità umana e diritto all’autodeterminazione (art. 8 CEDU). – 6.1. La problematica del suicidio assistito. – 6.2. Diritto all’autodeterminazione e ricorso alla fecondazione assistita. – 6.3. Dignità e diritti delle persone transessuali. – 7. La dignità come limite alla libertà di espressione (art. 10 CEDU). – 8. Dignità umana e discriminazione razziale (art. 14 CEDU). – 9. Conclusioni.

1. Premessa

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)1, a differenza della Carta di Nizza, non menziona esplicitamente la dignità umana. Un riferimento è presente solo nell’annesso Protocollo n. 132, relativo all’abolizione della pena di morte in tutte le circostanze e il cui preambolo esprime la convinzione che «il diritto di ogni persona alla vita sia un valore fondamentale in una società democratica, e che l’abolizione della pena di morte sia essenziale per la protezione di tale diritto e per il pieno riconoscimento della dignità inerente a tutti gli esseri umani».

L’assenza di richiami nel testo della CEDU non va tuttavia sopravvalutata, perché la tutela della dignità è uno degli obiettivi essenziali della Convenzione3 e affiora quindi dall’insieme del documento e in particolare da alcuni suoi articoli, rispettivamente dedicati al diritto alla vita (art. 2), al divieto della tortura (art. 3) e al divieto di schiavitù e del lavoro forzato (art. 4)4. La nozione è poi emersa abbondantemente nella

1 Firmata a Roma il 4 novembre 1950. L’Italia ne ha disposto l’autorizzazione alla ratifica e

l’esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848. 2 Adottato a Vilnius il 3 maggio 2002. L’Italia ne ha disposto l’autorizzazione alla ratifica e

l’esecuzione con legge 15 ottobre 2008, n. 179. 3 Come afferma la Corte europea dei diritti dell’uomo in due sentenze del 22 novembre 1995, rese

nei casi “C.R. c. Regno Unito” (ricorso n. 20190/92) e “S.W. c. Regno Unito” (ricorso n. 20166/92), nonché nelle sentenze del 27 gennaio 2015, “Rohlena c. Repubblica Ceca” (ricorso n. 59552/08); dell’8 luglio 2014, “Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria” (ricorsi nn. 15018/11 e 61199/12); del 24 luglio 2014, “Husayn (Abu Zubaydah) c. Polonia” (ricorso n. 7511/13); del 3 febbraio 2015, “Hutchinson c. Regno Unito” (ricorso n. 57592/08).

4 Cfr. M. DI CIOMMO, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, cit., 233 s.; A. PIROZZOLI, La dignità

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giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo5, che vi ha fatto ricorso soprattutto nell’applicazione del citato art. 3, come si vedrà in seguito (v. infra, § 3).

Riprendendo la scelta metodologica seguita nel precedente capitolo, si analizzeranno le sentenze della Corte di Strasburgo raggruppandole per aree tematiche, in questo caso sostanzialmente coincidenti con gli articoli della CEDU assunti come parametri nei vari giudizi6. In particolare, ci si soffermerà sul diritto alla vita (art. 2), sulla proibizione della tortura (art. 3), sul divieto di schiavitù e del lavoro forzato (art. 4), sulla ragionevole durata del processo (art. 6), sul diritto al rispetto della vita privata (art. 8), sui limiti della libertà di espressione (art. 10) e sul divieto di discriminazione (art. 14).

2. Dignità e diritto alla vita (art. 2 CEDU) La Corte europea ha posto in relazione il diritto alla vita e la dignità umana nella

sentenza dell’8 luglio 2004, “Vo c. Francia” (ricorso n. 53924/00). In realtà, la decisione non riguarda l’applicazione testuale dell’art. 2 CEDU7, ma la possibilità di estenderne la tutela alla vita prenatale.

La pronuncia trae origine dalla vicenda di una donna di origine vietnamita, la quale, scambiata per una donna dal cognome simile, era stata vittima di un procurato aborto. La donna e il suo compagno avevano sporto denuncia contro il medico responsabile dell’accaduto, ma la mancanza di una specifica previsione che sanzionasse penalmente l’ipotesi e l’inapplicabilità della fattispecie di omicidio colposo avevano condotto al proscioglimento del medico, la cui condotta negligente era stata peraltro accertata da periti. La donna aveva allora proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, denunciando la violazione dell’art. 2 CEDU per l’assenza, nella legislazione penalistica francese, di una sanzione per l’omicidio colposo di un feto.

Nella sentenza, la Corte evidenzia innanzitutto che l’art. 2 della Convenzione non definisce il termine “persona”. Richiamando la sua giurisprudenza, aggiunge anzi che il nascituro non è protetto direttamente dall’art. 2 e che il suo diritto alla vita è

dell’uomo. Geometrie costituzionali, cit., 164 s.; J. JONES, Human Dignity in the EU Charter of Fundamental Rights and its Interpretation Before the European Court of Justice, cit., 285 s.

5 Per una raccolta dei principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione a ciascun articolo della CEDU, v. M. DE SALVIA, Compendium della CEDU. Le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, trad. it. a cura di M. FUMAGALLI MERAVIGLIA – G. LISOTTA, Napoli, 2000; S. BARTOLE – B. CONFORTI – G. RAIMONDI (a cura di), Commento alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001; S. BARTOLE – P. DE SENA – V. ZAGREBELSKY (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012.

6 Tale criterio sostanzialmente coincide con quello adottato da M. DI CIOMMO, Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, cit., 233 ss.

7 L’art. 2 CEDU stabilisce che «Il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge. Non può essere volontariamente inflitta la morte ad alcuno, eccetto che in esecuzione di una sentenza capitale, pronunziata da un tribunale nel caso in cui un delitto è punito dalla legge con questa pena. La morte non è considerata come data in violazione di questo articolo nel caso in cui fosse determinata da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per difendere ogni persona da una violenza illegittima; b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente arrestata; c) per reprimere, conformemente alla legge, una sommossa o una insurrezione».

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implicitamente limitato dai diritti e dagli interessi della madre. Nulla vieta, comunque, agli Stati contraenti di prevedere in determinate circostanze forme di tutela della vita prenatale, bilanciando i diversi interessi in gioco. Nella fattispecie, peraltro, non c’è contrasto tra la posizione del feto e quella della madre, poiché quest’ultima intendeva portare a termine la gravidanza. Bisogna invece stabilire se l’assenza di una sanzione penale per il procurato aborto rappresenti una violazione dell’art. 2.

Il giudice di Strasburgo rileva che la questione dello status giuridico del feto e dell’embrione è estremamente controversa a livello europeo, non esistendo un consenso diffuso sul momento a partire dal quale si configuri il diritto alla vita. Il margine di apprezzamento degli Stati è quindi ampio. Nondimeno, esistono in vari Paesi forme di tutela della vita prenatale e di connessa limitazione dell’ingegneria genetica, della procreazione medicalmente assistita e della sperimentazione sugli embrioni. Tale quadro consente di affermare che, tutt’al più, esiste un comune riconoscimento dell’appartenenza dell’embrione e del feto al genere umano: l’attitudine di questi a diventare persona richiede protezione nel nome della dignità umana, senza però che si possa parlare di una vera e propria persona e di un diritto alla vita ex art. 28.

Successivamente la Corte precisa che nella vicenda esaminata, anche ammettendo che la tutela della vita prenatale rientri nella sfera di applicazione dell’art. 2, la legislazione francese non è censurabile perché prevede modalità di protezione del feto. Dall’art. 2 non discende, inoltre, un obbligo di articolare la tutela mediante lo strumento penalistico. La ricorrente, in effetti, avrebbe potuto intentare un’azione giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni causati dal procurato aborto; perciò non sussiste l’ipotizzata violazione dell’art. 2.

In definitiva, la Corte ha utilizzato il concetto di dignità umana per collegarvi la tutela della vita prenatale, senza però giungere alla conclusione più radicale dell’esistenza di un diritto alla vita del feto e dell’embrione ai sensi dell’art. 29. La conclusione è condivisibile, se si considerano le divergenze presenti nel dibattito scientifico e bioetico. La nozione di dignità è invece evocata nella dissenting opinion del giudice Mularoni, cui aderisce anche il giudice Strážnická, per sostenere la necessità di estendere l’art. 2 alla vita prenatale. Secondo il giudice Mularoni, l’art. 2 deve essere interpretato in maniera evolutiva, per fronteggiare i crescenti pericoli derivanti dalla manipolazione genetica e per evitare che i risultati della ricerca scientifica siano usati per insidiare la dignità e l’identità dell’essere umano. Come già detto, preferibile appare la cautela mostrata dalla Corte.

La dignità è poi collegata al diritto alla vita nella joint partly dissenting opinion formulata dai giudici Hajiyev, Šikuta, Tsotsoria, De Gaetano e Gritco nel caso “Lambert e altri c. Francia” (ricorso n. 46043/14), deciso con sentenza del 5 giugno 2015. Si tratta di un contesto molto diverso da quello precedente e riguardante la delicata problematica del suicidio assistito e dell’accanimento terapeutico, che sarà analizzata in seguito in relazione al diritto all’autodeterminazione e all’art. 8 CEDU (v. infra, § 6.1).

Nel caso in esame, i ricorrenti sostenevano che la decisione delle autorità francesi di permettere l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali di un

8 Come sostiene la Corte, «At best, it may be regarded as common ground between States that the

embryo/foetus belongs to the human race. The potentiality of that being and its capacity to become a person […] require protection in the name of human dignity, without making it a “person” with the “right to life” for the purposes of Article 2» (punto 84 della motivazione).

9 Cfr. P. DE STEFANI, Corte europea dei diritti umani: sentenza della Grande Camera nel caso Vo c. Francia, 8 luglio 2004. Nota, in Pace diritti umani, n. 3/2004, 156.

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paziente in stato vegetativo persistente violasse l’art. 2 CEDU10. Nella sentenza, la Corte ricorda che dall’art. 2 non deriva per lo Stato solo un obbligo negativo, ma anche il dovere di proteggere la vita delle persone soggette alla sua giurisdizione11. La Corte precisa inoltre che nella fattispecie non si può parlare di eutanasia, ma di interruzione di trattamenti necessari per il mantenimento in vita del paziente. In materia, gli Stati godono di un certo margine di valutazione, sottoposto comunque al controllo del giudice di Strasburgo. La Corte rileva anche che non c’è consenso a livello europeo su come affrontare la questione, ma un elemento comune consiste nella centralità della volontà del paziente nel processo decisionale, in qualunque modo essa sia accertata. Ne deriva l’esigenza di bilanciare il diritto alla vita del paziente con il suo diritto al rispetto della vita privata e dell’autonomia personale12. Invero la contrapposizione indicata dalla Corte fa pensare, più che al diritto alla vita, alla sua rinunziabilità o all’esistenza di un dovere di vivere.

In ogni caso, dopo un’approfondita analisi del quadro normativo francese e delle decisioni giurisdizionali che hanno preceduto la presentazione del ricorso, la Corte esclude la violazione dell’art. 2. In particolare, la Corte afferma di essere dolorosamente consapevole dell’importanza delle questioni sollevate dal caso in esame, le cui implicazioni mediche, etiche e giuridiche sono estremamente complesse. Aggiunge poi che il compito di accertare la volontà del paziente e di verificare la compatibilità dell’interruzione dei trattamenti con la normativa nazionale e con la Convenzione spetta in prima istanza alle autorità nazionali; la Corte deve invece accertare che lo Stato abbia adempiuto agli obblighi positivi derivanti dall’art. 2. Evidenza infine che il quadro legislativo francese risponde ai requisiti imposti dall’art. 2 e che il processo decisionale è stato condotto meticolosamente. Analogo giudizio si estende ai rimedi giudiziari garantiti ai ricorrenti, che hanno consentito un approfondito esame della questione e la considerazione di tutti i punti i vista e di tutti gli aspetti medici ed etici. Tenuto conto del margine di apprezzamento, la decisione delle autorità francesi è quindi rispettosa dell’art. 213.

Nella partly dissenting opinion menzionata si contesta che Vincent Lambert14 sia in fin di vita e si sottolinea che la sua fondamentale dignità umana, la quale non può venire meno a causa della condizione in cui si trova, impone di somministrargli i trattamenti

10 Per una completa ricostruzione della vicenda e della normativa francese, v. C. CASONATO, Un diritto difficile. Il caso Lambert fra necessità e rischi, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2015, parte II, 489 ss.

11 Sugli obblighi positivi che derivano dall’art. 2 CEDU, v. C. RUSSO – A. BLASI, Art. 2 (Diritto alla vita), in S. BARTOLE – B. CONFORTI – G. RAIMONDI (a cura di), Commento alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., 40 ss.

12 La possibilità di un bilanciamento del genere è fortemente contestata da G. RAZZANO, La sentenza CEDU sul caso Lambert: la Corte di Strasburgo merita ancora il titolo di The Conscience of Europe?, in Forum di Quad. cost., 17 luglio 2015, che sottolinea come l’art. 15 CEDU proclami l’inderogabilità del solo diritto alla vita (art. 2) e non anche del diritto al rispetto della vita privata (art. 8). Pare tuttavia che il richiamo all’inderogabilità sia improprio e non consenta di far prevalere il diritto alla vita sul diritto al rispetto della vita privata: l’art. 15 si riferisce alle deroghe che gli Stati contraenti possono apportare agli standard di protezione dei diritti imposti dalla CEDU, non anche ai modi in cui il diritto sia esercitato dal suo titolare. In altre parole, un conto è che lo Stato limiti il diritto alla vita in maniera non consentita dalla Convenzione; ben diverso è il caso in cui invece lo stesso titolare intenda limitarlo, o addirittura rinunciarvi, facendo prevalere il diritto all’autodeterminazione. A fronte di una simile rinuncia, l’inderogabilità di cui all’art. 15 CEDU non offre indicazioni per valutarne l’ammissibilità.

13 Secondo C. CASONATO, Un diritto difficile. Il caso Lambert fra necessità e rischi, cit., 499, difficilmente la Corte europea dei diritti umani sarebbe potuta giungere a conclusioni diverse.

14 Il paziente in stato vegetativo persistente.

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necessari, comprese l’alimentazione e l’idratazione15. I giudici dissenzienti precisano che la Corte non è un giudice di grado ulteriore e che il principio di sussidiarietà deve essere rispettato, ma non fino al punto di astenersi dall’affermare il valore della vita e della dignità di ogni persona, perfino se in stato vegetativo16. In realtà il richiamo alla dignità fatto dai giudici dissenzienti, sebbene importante, non è dirimente, perché può essere utilizzato in senso opposto per giustificare la pretesa di una morte dignitosa17. La stessa partly dissenting opinion fa riferimento al legame tra dignità e diritto all’autodeterminazione individuato dalla Corte nel caso “Pretty c. Regno Unito” (v. infra, § 6.1). In effetti, la tesi divergente dei giudici citati non è costruita solo sul concetto di dignità, ma anche – e soprattutto – sulla problematica dell’accertamento della volontà del paziente. Ciò dimostra una volta di più che l’argomento della dignità non è risolutivo in casi controversi come quello deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e, in generale, in ambito bioetico.

3. Dignità umana e proibizione della tortura (art. 3 CEDU) L’art. 3 CEDU sancisce che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o

trattamenti inumani o degradanti». La norma, che consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche18, intende garantire quel nucleo intangibile della persona, che non può essere compresso neanche in ipotesi di restrizione della libertà personale, secondo una logica affine a quella sottostante all’art. 13, co. 4, della Costituzione italiana19. Tale profilo è evidenziato con chiarezza dalla giurisprudenza della Corte europea. Le sentenze che fanno applicazione dell’art. 3 sono numerosissime e non è ovviamente possibile analizzarle tutte, per cui ci si limiterà a segnalare gli aspetti più rilevanti di questa giurisprudenza.

I leading case in materia sono essenzialmente due: “Irlanda c. Regno Unito” (ricorso n. 5310/71), deciso con la pronuncia del 18 gennaio 1978, e “Tyrer c. Regno Unito” (ricorso n. 5856/72), deciso con sentenza del 25 aprile 1978.

La prima decisione ha ad oggetto una serie di misure adottate dal Regno Unito nell’Irlanda del Nord, nel periodo compreso tra agosto del 1971 e dicembre del 1975, per contrastare gli attacchi terroristici dell’IRA (Irish Republican Army). Tali misure

15 Secondo i giudici dissenzienti, «a person in Vincent Lambert’s condition is a person with fundamental human dignity and must therefore, in accordance with the principles underpinning Article 2, receive ordinary and proportionate care or treatment which includes the administration of water and food» (punto 7).

16 Più specificamente, essi affermano che «It is true that this Court should not act as a fourth-instance court and that the principle of subsidiarity must be respected, but not to the point of refraining from affirming the value of life and the inherent dignity even of persons who are in a vegetative state, severely paralysed and who cannot communicate their wishes to others» (punto 8).

17 Cfr. I. RIVERA, Il caso Lambert e la tutela della dignità umana come diritto a vivere (e a morire), in Forum di Quad. cost., 2 settembre 2015, che fa notare come la dignità umana rappresenti rispettivamente un argomento a favore del diritto a morire, nella decisione della Corte, e un argomento a favore del diritto a vivere, nella partly dissenting opinion.

18 In questi termini si esprime la Corte europea dei diritti dell’uomo nel punto 119 della motivazione della sentenza del 6 aprile 2000, “Labita c. Italia” (ricorso n. 26772/95), riguardante maltrattamenti che il ricorrente asseriva di aver subito durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa.

19 Il punto è efficacemente sintetizzato da P.F. GROSSI, La dignità nella Costituzione italiana, cit., 33, secondo cui «si può […] mantenere integra ed inalterata la propria dignità, pur soffrendo limitazioni anche pesanti nella libertà, e persino nel godimento di quella fisica e di ordine materiale».

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consistevano principalmente in provvedimenti stragiudiziali di arresto e detenzione preventiva, posti in essere dalle forze di polizia senza l’intervento dell’autorità giurisdizionale. Nella sentenza la Corte in primis precisa che i maltrattamenti (ill-treatment) ricadono nell’ambito applicativo dell’art. 3 CEDU solo se raggiungono un livello minimo di gravità (minimum level of severity). La fissazione di questa soglia è relativa, perché bisogna valutare tutte le circostanze del caso, come la durata del trattamento, i suoi effetti fisici e mentali e talvolta il sesso, l’età, lo stato di salute della vittima ed altri fattori non predeterminabili20. Ininfluente è invece la condotta della vittima, perché l’art. 3 proibisce la tortura e i trattamenti o le pene disumani o degradanti in maniera assoluta.

Nel caso di specie, la Corte ritiene che non si configuri un’ipotesi di tortura, ma di trattamento inumano e degradante, perché le tecniche usate hanno causato nelle vittime sentimenti di paura, angoscia e inferiorità, capaci di umiliarle, mortificarle e potenzialmente intaccarne la resistenza fisica o morale. Sul piano generale, la tortura si distingue dalle altre previsioni di cui all’art. 3 per l’intensità della sofferenza inflitta; in qualche modo, è una forma aggravata di trattamento inumano21, che comporta uno stigma speciale e cagiona sofferenze molto serie e crudeli.

Questa posizione è criticata dalla separate opinion del giudice Evrigenis, che reputa troppo restrittiva la nozione di tortura fornita dalla Corte. Secondo Evrigenis, i redattori della Convenzione, aggiungendo le ipotesi di trattamenti inumani o degradanti a quella di tortura, intendevano estendere il divieto dell’art. 3 a categorie di atti implicanti patimenti intollerabili o lesivi della dignità umana, piuttosto che espungere dall’idea tradizionale di tortura atti apparentemente meno gravi al fine di includerli nel concetto di trattamento inumano o degradante. In altri termini, Evrigenis accusa la Corte di aver utilizzato l’ipotesi di trattamento inumano o degradante per ridimensionare la portata della nozione di tortura. Al di là della correttezza della censura mossa nella separate opinion, interessa qui evidenziare che il concetto di dignità, assente nelle argomentazioni della Corte, emerga nel discorso di Evrigenis e sia associato ai trattamenti inumani o degradanti, individuati proprio in virtù della loro attitudine ad offendere la dignità umana.

Ancor più interessante è la sentenza del 25 aprile 1978, in cui la Corte analizza il caso di Anthony Tyrer, condannato a tre frustate per un’aggressione nei confronti di un suo compagno di scuola22. Il giudice di Strasburgo innanzitutto esclude che nella fattispecie ricorrano gli estremi della tortura o del trattamento inumano o degradante. Esclude altresì che la sanzione in esame sia qualificabile come pena inumana, per configurare la quale è necessario che le sofferenze patite dalla vittima raggiungano un

20 L’affermazione è richiamata nella sentenza del 28 luglio 1999, “Selmouni c. Francia” (ricorso n.

25803/94), in cui la Corte però aggiunge che «il crescente livello di sensibilità in materia di protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali implica, parallelamente e ineluttabilmente, una maggiore fermezza nella valutazione delle lesioni dei valori fondamentali delle società democratiche» (punto 101 della motivazione).

21 Cfr. M. DE SALVIA, Compendium della CEDU. Le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 33; A. ESPOSITO, Art. 3 (Proibizione della tortura), in S. BARTOLE – B. CONFORTI – G. RAIMONDI (a cura di), Commento alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., 57.

22 La pena era prevista dal par. 56 del Petty Sessions and Summary Jurisdiction Act del 1927. Le sanzioni corporali sono state abolite nel 1948 in Inghilterra, Scozia e Galles e nel 1968 nell’Irlanda del Nord, ma all’epoca dei fatti erano ancora previste nell’Isola di Man, luogo in cui era stato commesso il reato.

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certo livello23. La Corte passa quindi alla verifica della sussistenza di una pena degradante e precisa che una persona potrebbe sentirsi umiliata dal mero fatto della condanna penale, ma tale umiliazione è irrilevante in base all’art. 3. Ciò però non va inteso nel senso che, essendo ogni sanzione penale intrinsecamente umiliante, sia di conseguenza precluso ogni controllo sulla compatibilità con l’art. 3. Al contrario, il divieto posto da questa norma è assoluto e non ammette eccezioni ex art. 15 CEDU24.

Si deve allora concludere che una pena è degradante ai sensi dell’art. 3 quando l’umiliazione o lo svilimento cagionato raggiunga un particolare grado di intensità e si distingua dalla componente di umiliazione connaturata a qualsiasi sanzione penale25. Una valutazione del genere deve tener conto di tutte le circostanze del caso, con speciale riguardo al tipo di pena, al contesto in cui è inserita e alle modalità di esecuzione. Nonostante queste precisazioni, nel caso “Tyrer” la violazione dell’art. 3 sembra derivare dalla pena in sé e non dalle circostanze della fattispecie26. Se ne trae conferma dalle successive affermazioni della Corte.

Il giudice di Strasburgo sottolinea che la funzione deterrente non può giustificare una pena degradante. Aggiunge poi che l’assenza di pubblicità nell’esecuzione della sanzione non esclude la violazione dell’art. 3, perché è sufficiente che la vittima – e non anche gli altri consociati – avverta il senso di umiliazione. Nel valutare la sanzione non si può inoltre prescindere da un confronto con le procedure degli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa, così da individuare uno standard in materia di esecuzione penale.

Ciò che però risulta determinante nel giudizio della Corte è che le pene corporali autorizzino un essere umano ad esercitare violenza fisica su un altro essere umano. Le tre frustate sono una forma di violenza legalizzata. Non importa, quindi, che gli effetti sul corpo di Anthony Tyrer siano stati più o meno gravi. Rileva invece che la sanzione, in virtù della quale il reo è stato degradato ad oggetto dalla pubblica autorità, abbia determinato una lesione del bene che l’art. 3 mira primariamente a tutelare, cioè la dignità della persona e la sua integrità fisica27. Senza dimenticare che, al di là delle conseguenze fisiche, la pena potrebbe aver inciso sulla sfera psichica del soggetto.

23 Come dice la Corte, «it remains true that the suffering occasioned must attain a particular level

before a punishment can be classified as “inhuman” within the meaning of Article 3» (punto 29 della motivazione).

24 L’art. 15 prevede che «In caso di guerra o in caso di altre pubbliche calamità che minaccino la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può prendere misure che deroghino agli obblighi previsti da questa Convenzione, nello stretto limite richiesto dalla situazione e a condizione che esse non siano in contrasto con altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. La precedente disposizione non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo per il caso di morte derivante da atti di guerra conformi alle convenzioni, e gli artt. 3, 4 (paragrafo 1) e 7. Ogni Alta Parte contraente, che esercita il diritto di deroga, comunica al Segretario Generale del Consiglio d’Europa le misure prese e i motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario Generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure sono revocate e le disposizioni della Convenzione ritornano nuovamente e pienamente in vigore».

25 Nelle parole della Corte, «in order for a punishment to be “degrading” and in breach of Article 3 (art. 3), the humiliation or debasement involved must attain a particular level and must in any event be other than that usual element of humiliation referred to in the preceding subparagraph» (punto 30 della motivazione).

26 La valutazione delle circostanze concrete conduce invece la Corte ad escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, pur in presenza di una punizione corporale, nel caso “Costello-Roberts c. Regno Unito” (ricorso n. 13134/87), deciso con sentenza del 25 marzo 1993.

27 È opportuno riportare integralmente il passo della sentenza: «The very nature of judicial corporal punishment is that it involves one human being inflicting physical violence on another human being. Furthermore, it is institutionalized violence that is in the present case violence permitted by the law,

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Nella sentenza de qua la dignità umana è quindi considerata l’interesse difeso dall’art. 3 CEDU e la sua violazione determina l’illegittimità della misura sanzionatoria28.

Dall’art. 3 deriva anche l’obbligo per gli Stati di adottare tutte le misure idonee ad impedire che le persone soggette alla loro giurisdizione siano sottoposte a torture o a pene o trattamenti inumani o degradanti, anche se inflitti da privati cittadini29. Il dovere di protezione statale è particolarmente intenso nei confronti dei minori e di soggetti deboli, a garanzia dei quali devono essere apprestate misure di prevenzione efficaci contro pericoli all’integrità della persona30.

Il giudice di Strasburgo ha poi precisato che l’art. 3 vieta allo Stato di espellere uno straniero, qualora sussista il rischio che questi sia sottoposto nel suo Paese d’origine a trattamenti lesivi della sua dignità umana31.

Un altro profilo da esaminare riguarda la differenza tra restrizione della libertà personale e violazione della dignità, che è netta nella sentenza del 16 dicembre 1997, “Raninen c. Finlandia” (ricorso n. 20972/92)32, in cui la Corte afferma che l’ammanettamento normalmente non dà luogo a una questione rilevante ai sensi dell’art. 3, ove la misura derivi da un arresto o da una detenzione legittimi e non comporti l’uso della forza o l’esposizione al pubblico, né ecceda il grado di coercizione necessario secondo le circostanze. Da questo punto di vista, è rilevante stabilire se sussista un pericolo di fuga, di resistenza all’arresto, di condotta violenta o di soppressione delle prove33.

ordered by the judicial authorities of the State and carried out by the police authorities of the State […]. Thus, although the applicant did not suffer any severe or long-lasting physical effects, his punishment – whereby he was treated as an object in the power of the authorities – constituted an assault on precisely that which it is one of the main purposes of Article 3 (art. 3) to protect, namely a person’s dignity and physical integrity» (punto 33 della motivazione).

28 Nella sua separate opinion il giudice Fitzmaurice critica il ragionamento della Corte e il riferimento alla dignità, ritenendoli tautologici e inidonei a centrare il nocciolo della questione. Secondo Fitzmaurice, il problema non è stabilire se una pena sia fisicamente violenta o addirittura lesiva della dignità del colpevole, perché ogni sanzione penale lo è, ma capire se sia degradante alla luce dell’art. 3. In questa operazione i concetti usati dalla Corte, e specialmente quello di dignità, sarebbero inutili.

29 Cfr. la sentenza del 29 aprile 1997, “H.L.R. c. Francia” (ricorso n. 24573/94). 30 Cfr. la sentenza del 23 settembre 1998, “A. c. Regno Unito” (ricorso n. 25599/94). 31 Cfr. le sentenze del 28 febbraio 2008, “Saadi c. Italia” (ricorso n. 37201/06); del 24 febbraio

2009, “Ben Khemais c. Italia” (ricorso n. 246/07); del 24 marzo 2009, “Darraji c. Italia” (ricorso n. 11549/05); del 24 marzo 2009, “Soltana c. Italia” (ricorso n. 37336/06); del 24 marzo 2009, “Ben Salah c. Italia” (ricorso n. 38128/06); del 24 marzo 2009, “C.B.Z. c. Italia” (ricorso n. 44006/06); del 24 marzo 2009, “Bouyahia c. Italia” (ricorso n. 46792/06); del 24 marzo 2009, “Abdelhedi c. Italia” (ricorso n. 2638/07); del 24 marzo 2009, “Hamraoui c. Italia” (ricorso n. 16201/07); del 5 maggio 2009, “Sellem c. Italia” (ricorso n. 12584/08); del 13 aprile 2010, “Trabelsi c. Italia” (ricorso n. 50163/08).

32 Riguardante la detenzione di un obiettore di coscienza al servizio militare. Il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 per essere stato arrestato e tenuto in manette per circa due ore, nel trasporto dalla prigione a un ospedale militare.

33 Nella fattispecie, peraltro, la Corte ha escluso la violazione dell’art. 3, nonostante l’ammanettamento fosse avvenuto nel contesto di un arresto illegale e non fosse necessario alla luce della condotta della vittima. Più precisamente, la Corte ha sostenuto che l’ammanettamento non avesse come obiettivo l’umiliazione dell’interessato. In prima istanza le stesse circostanze erano invece state valutate in senso opposto dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo, che aveva parlato di svilimento della dignità umana del ricorrente.

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La distinzione citata va presa in considerazione anche nella valutazione delle condizioni detentive34, che, seppur necessariamente limitative della libertà personale, non devono ledere la dignità umana. In altre parole, né la finalità cautelare né l’esecuzione della pena giustificano un surplus di sofferenze rispetto a quelle inevitabilmente derivanti dalla detenzione35.

Il concetto è ampiamente sviluppato nella giurisprudenza del giudice di Strasburgo. Nella sentenza del 27 agosto 1992, “Tomasi c. Francia” (ricorso n. 12850/87)36, la Corte rimarca che «Per quanto possano apparire relativamente leggere, le lesioni riscontrate evidenzierebbero l’uso della forza fisica su una persona privata della libertà e dunque in uno stato di inferiorità; tale trattamento rivestirebbe un carattere al tempo stesso inumano e degradante» (punto 113 della motivazione); aggiunge poi che «Le necessità dell’inchiesta e le innegabili difficoltà della lotta contro la criminalità, in particolare in materia di terrorismo, non possono determinare una limitazione della protezione dovuta all’integrità fisica della persona» (punto 115 della motivazione).

Analogamente, nella decisione del 4 dicembre 1995, “Ribitsch c. Austria” (ricorso n. 18896/91)37, la Corte sottolinea che «nei confronti di una persona privata della sua libertà, ogni uso della forza fisica che non sia reso strettamente necessario dal comportamento della persona stessa, lede la dignità dell’uomo e costituisce, in linea di principio, una violazione del diritto garantito dall’art. 3» (punto 38 della motivazione)38.

34 Ai fini della presente indagine non interessa che la detenzione sia disposta per finalità cautelari o in esecuzione di una pena, per cui le due ipotesi saranno trattate unitariamente.

35 Cfr. A. ESPOSITO, Art. 3 (Proibizione della tortura), cit., 62. 36 In cui il ricorrente si doleva della violazione dell’art. 3 per aver subito da alcuni poliziotti

incaricati degli interrogatori, durante un fermo di polizia durato circa quaranta ore, sevizie di vario tipo, come schiaffi, calci, pugni, colpi di manganello, posizione eretta prolungata senza appoggio e con le mani legate dietro la schiena, sputi, denudamento totale dinanzi a una finestra aperta, assenza di cibo, minaccia con un’arma.

37 In cui il ricorrente affermava di aver subito, durante la sua custodia cautelare presso l’ufficio di sicurezza della direzione della polizia federale di Vienna, maltrattamenti incompatibili con l’art. 3.

38 Il principio è richiamato, ad esempio, nelle sentenze del 9 giugno 1998, “Tekin c. Turchia” (ricorso n. 22496/93); del 28 luglio 1999, “Selmouni c. Francia”; del 6 aprile 2000, “Labita c. Italia”; dell’11 aprile 2000, “Sevtap Veznedaroğlu c. Turchia” (ricorso n. 32357/96); dell’11 luglio 2000, “Dikme c. Turchia” (ricorso n. 20869/92); del 10 ottobre 2000, “Satik e altri c. Turchia” (ricorso n. 31866/96); del 20 luglio 2000, “Caloc c. Francia” (ricorso n. 33951/96); del 20 giugno 2002, “Berliński c. Polonia” (ricorsi nn. 27715/95 e 30209/96); del 24 aprile 2003, “Aktaş c. Turchia” (ricorso n. 24351/94); del 13 novembre 2003, “Elci e altri c. Turchia” (ricorsi nn. 23145/93 e 25091/94); del 16 dicembre 2003, “Kmetty c. Ungheria” (ricorso n. 57967/00); del 19 maggio 2004, “Toteva c. Bulgaria” (ricorso n. 42027/98); del 3 giugno 2004, “Bati e altri c. Turchia” (ricorsi nn. 33097/96 e 57834/00); del 20 luglio 2004, “Balogh c. Ungheria” (ricorso n. 47940/99); del 5 aprile 2005, “Afanasyev c. Ucraina” (ricorso n. 38722/02); del 12 aprile 2005, “Shamayev e altri c. Georgia e Russia” (ricorso n. 36378/02); del 29 settembre 2005, “Mathew c. Paesi Bassi” (ricorso n. 24919/03); del 9 marzo 2006, “Menesheva c. Russia” (ricorso n. 59261/00); del 2 novembre 2006, “Matko c. Slovenia” (ricorso n. 43393/98); del 7 dicembre 2006, “Sheydayev c. Russia” (ricorso n. 65859/01); del 18 gennaio 2007, “Chitayev e Chitayev c. Russia” (ricorso n. 59334/00); del 10 aprile 2007, “Barta c. Ungheria” (ricorso n. 26137/04); del 12 aprile 2007, “Dzwonkowski c. Polonia” (ricorso n. 46702/99); del 10 maggio 2007, “Stefan Iliev c. Bulgaria” (ricorso n. 53121/99); del 24 maggio 2007, “Zelilof c. Grecia” (ricorso n. 17060/03); del 12 giugno 2007, “Nevruz Koç c. Turchia” (ricorso n. 18207/03); del 31 luglio 2007, “Diri c. Turchia” (ricorso n. 68351/01); del 6 settembre 2007, “Kucheruk c. Ucraina” (ricorso n. 2570/04); del 20 novembre 2007, “Hasan Döner c. Turchia” (ricorso n. 53546/99); dell’8 gennaio 2008, “Ercolano c. Italia” (ricorso n. 9870/04); del 7 febbraio 2008, “Trajkoski c. ex Repubblica iugoslava di Macedonia” (ricorso n. 13191/02); del 15 maggio 2008, “Dedovskiy e altri c. Russia” (ricorso n. 7178/03); del 24 giugno 2008, “Foka c. Turchia” (ricorso n. 28940/95); del 24 luglio 2008, “Vladimir Romanov c. Russia” (ricorso n. 41461/02); dell’8 gennaio 2009, “Barabanshchikov c. Russia” (ricorso n. 36220/02); del 13 gennaio 2009,

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Particolarmente significativo è il caso “Yankov c. Bulgaria” (ricorso n. 39084/97), concernente un’ipotesi di rasatura totale dei capelli di un detenuto, disposta non per ragioni igieniche ma come forma di punizione per le critiche rivolte dal ricorrente alle guardie carcerarie in relazione alla situazione detentiva. Nella sentenza dell’11 dicembre 2003, la Corte ricorda anzitutto che, per stabilire se un trattamento sia degradante ai sensi dell’art. 3, bisogna capire se il suo scopo fosse l’umiliazione o la mortificazione della vittima e se abbia negativamente inciso sulla personalità dell’interessato, fermo restando che l’assenza dello scopo citato non esclude automaticamente la violazione dell’art. 3. Con riferimento al caso de quo, il giudice di Strasburgo sottolinea che la rasatura coattiva dei capelli è un cambiamento forzato dell’aspetto della vittima, che presumibilmente proverà un senso di inferiorità per aver visto il suo aspetto fisico alterato contro la sua volontà. La rasatura è inoltre un marchio che immediatamente differenzia l’interessato dagli altri detenuti e lede la sua dignità. Si deve allora concludere che la rasatura forzata dei capelli può svilire la dignità umana e può suscitare un sentimento di inferiorità in grado di umiliare e mortificare la vittima39; “Lewandowski e Lewandowska c. Polonia” (ricorso n. 15562/02); del 15 gennaio 2009, “Sharomov c. Russia” (ricorso n. 8927/02); del 29 gennaio 2009, “Polyakov c. Russia” (ricorso n. 77018/01); del 5 febbraio 2009, “Khadisov e Tsechoyev c. Russia” (ricorso n. 21519/02); del 19 febbraio 2009, “Suptel c. Ucraina” (ricorso n. 39188/04); del 24 febbraio 2009, “Protopapa c. Turchia” (ricorso n. 16084/90); del 24 febbraio 2009, “Pieniak c. Polonia” (ricorso n. 19616/04); del 19 marzo 2009, “Polonskiy c. Russia” (ricorso n. 30033/05); del 31 marzo 2009, “Wiktorko c. Polonia” (ricorso n. 14612/02); del 2 aprile 2009, “Muradova c. Azerbaijan” (ricorso n. 22648/05); del 12 maggio 2009, “Mrozowski c. Polonia” (ricorso n. 9258/04); del 23 giugno 2009, “Stojnšek c. Slovenia” (ricorso n. 1926/03); del 28 luglio 2009, “Rachwalski e Ferenc c. Polonia” (ricorso n. 47709/99); del 30 luglio 2009, “Yevgeniy Kornev c. Russia” (ricorso n. 30049/02); del 30 luglio 2009, “Gladyshev c. Russia” (ricorso n. 2807/04); del 30 luglio 2009, “Vladimir Fedorov c. Russia” (ricorso n. 19223/04); dell’1 ottobre 2009, “Toporkov c. Russia” (ricorso n. 66688/01); del 15 ottobre 2009, “Antipenkov c. Russia” (ricorso n. 33470/03); del 22 ottobre 2009, “Isayev c. Russia” (ricorso n. 20756/04); del 3 novembre 2009, “Staszewska c. Polonia” (ricorso n. 10049/04); del 26 novembre 2009, “Dolenec c. Croazia” (ricorso n. 25282/06); del 22 dicembre 2009, “Palushi c. Austria” (ricorso n. 27900/04); del 14 gennaio 2010, “Galotskin c. Grecia” (ricorso n. 2945/07); del 18 marzo 2010, “Maksimov c. Russia” (ricorso n. 43233/02); dell’8 aprile 2010, “Lotarev c. Ucraina” (ricorso n. 29447/04); del 21 ottobre 2010, “Maryin c. Russia” (ricorso n. 1719/04); del 21 dicembre 2010, “Kuzmenko c. Russia” (ricorso n. 18541/04); del 25 gennaio 2011, “Lipencov c. Moldavia” (ricorso n. 27763/05); del 10 maggio 2011, “Popandopulo c. Russia” (ricorso n. 4512/09); del 21 giugno 2011, “Isayev e altri c. Russia” (ricorso n. 43368/04); del 7 luglio 2011, “Hellig c. Germania” (ricorso n. 20999/05); del 19 luglio 2011, “Đurđević c. Croazia” (ricorso n. 52442/09); del 18 ottobre 2011, “Shuvalov c. Russia” (ricorso n. 38047/04); del 3 maggio 2012, “Salikhov c. Russia” (ricorso n. 23880/05); del 29 maggio 2012, “Julin c. Estonia” (ricorsi nn. 16563/08, 40841/08, 8192/10 e 18656/10); del 31 luglio 2012, “Makhashevy c. Russia” (ricorso n. 20546/07); del 2 ottobre 2012, “Virabyan c. Armenia” (ricorso n. 40094/05); del 2 ottobre 2012, “Najafli c. Azerbaijan” (ricorso n. 2594/07); del 13 dicembre 2012, “El-Masri c. ex Repubblica iugoslava di Macedonia” (ricorso n. 39630/09); del 12 febbraio 2013, “Austrianu c. Romania” (ricorso n. 16117/02); del 28 marzo 2013, “Korobov e altri c. Estonia” (ricorso n. 10195/08); del 30 aprile 2013, “Tymoshenko c. Ucraina” (ricorso n. 49872/11); del 15 ottobre 2013, “Gutsanovi c. Bulgaria” (ricorso n. 34529/10); del 13 febbraio 2014, “Tali c. Estonia” (ricorso n. 66393/10); del 15 aprile 2014, “Djundiks c. Lettonia” (ricorso n. 14920/05); del 3 giugno 2014, “Habimi e altri c. Serbia” (ricorso n. 19072/08); del 30 settembre 2014, “Anzhelo Georgiev e altri c. Bulgaria” (ricorso n. 51284/09); del 19 febbraio 2015, “M.S. c. Croazia (II)” (ricorso n. 75450/12); del 7 maggio 2015, “Ilievska c. ex Repubblica iugoslava di Macedonia” (ricorso n. 20136/11); del 28 settembre 2015, “Bouyid c. Belgio” (ricorso n. 23380/09).

39 Come dice la Corte, «A particular characteristic of the treatment complained of, the forced shaving off of a prisoner's hair, is that it consists in a forced change of the person's appearance by the removal of his hair. The person undergoing that treatment is very likely to experience a feeling of inferiority as his physical appearance is changed against his will. Furthermore, for at least a certain period of time a prisoner whose hair has been shaved off carries a mark of the treatment he has undergone. The

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peraltro, anche se l’obiettivo non era questo, la rasatura imposta in mancanza di una specifica giustificazione contiene in sé un elemento di arbitrarietà e può determinare nella vittima la convinzione che sia stata disposta per sottometterla.

Rilevante è anche il caso “Iwańczuk c. Polonia” (ricorso n. 25196/94), riguardante un detenuto costretto a denudarsi, per una perquisizione, davanti a un gruppo di guardie carcerarie, che peraltro lo insultavano e lo deridevano. La palese mancanza di rispetto della dignità umana del detenuto è sottolineata dalla sentenza del 15 novembre 2001, in cui si precisa che le perquisizioni sui detenuti, necessarie per garantire la sicurezza del carcere e per prevenire eventuali disordini, devono essere condotte in maniera appropriata40. La sentenza del 12 giugno 2007, “Frérot c. Francia” (ricorso n. 70204/01) aggiunge che una persona sottoposta a perquisizione potrebbe avvertire questa procedura come in sé lesiva della sua intimità e della sua dignità, specialmente quando comporti l’obbligo di svestirsi davanti ad altre persone o di assumere posture imbarazzanti41.

Il rispetto della dignità del detenuto si estende alle cure mediche da assicurare in costanza del regime carcerario. La pronuncia del 26 ottobre 2000, “Kudła c. Polonia” (ricorso n. 30210/96)42 specifica che «Le misure privative di libertà ordinariamente sono accompagnate da […] sofferenze e umiliazioni. Tuttavia, non si può ritenere che una sottoposizione a custodia cautelare ponga, di per sé, una questione sotto il profilo dell’art. 3 della Convenzione. Del pari, tale articolo non può essere interpretato nel senso che preveda un obbligo generale di rimettere in libertà un detenuto per motivi di salute o di ricoverarlo in un ospedale civile per consentirgli di usufruire ivi di un particolare tipo di trattamento sanitario. Tuttavia, l’art. 3 della Convenzione impone allo Stato di accertarsi che ogni persona reclusa sia detenuta in condizioni che siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in maniera adeguata, in particolare attraverso la somministrazione delle cure mediche necessarie» (punti 93 e 94 della motivazione)43. mark is immediately visible to others, including prison staff, co-detainees and visitors or the public, if the prisoner is released or brought into a public place soon thereafter. The person concerned is very likely to feel hurt in his dignity by the fact that he carries a visible physical mark. The Court thus considers that the forced shaving off of detainees' hair is in principle an act which may have the effect of diminishing their human dignity or may arouse in them feelings of inferiority capable of humiliating and debasing them» (punti 112-114 della motivazione).

40 Questo criterio è ad esempio richiamato nelle sentenze del 26 settembre 2006, “Wainwright c. Regno Unito” (ricorso n. 12350/04); del 22 febbraio 2007, “Wieser c. Austria” (ricorso n. 2293/03); del 10 maggio 2007, “Atici c. Turchia” (ricorso n. 19735/02); del 31 marzo 2009, “Wiktorko c. Polonia”.

41 Tale considerazione è richiamata, ad esempio, nella sentenza del 13 novembre 2007, “Schiavone c. Italia” (ricorso n. 65039/01).

42 In cui il ricorrente adduceva la violazione dell’art. 3 per non aver ricevuto un idoneo trattamento psichiatrico durante la sua detenzione nell’istituto penitenziario di Cracovia.

43 L’affermazione è ripresa in numerose sentenze: del 24 luglio 2001, “Valašinas c. Lituania” (ricorso n. 44558/98); del 15 luglio 2002, “Kalashnikov c. Russia” (ricorso n. 47095/99); del 14 novembre 2002, “Mouisel c. Francia” (ricorso n. 67263/01); del 29 aprile 2003, “Poltoratskiy c. Ucraina” (ricorso n. 38812/97); del 4 febbraio 2003, “Van der Ven c. Paesi Bassi” (ricorso n. 50901/99); del 4 febbraio 2003, “Lorsé e altri c. Paesi Bassi” (ricorso n. 52750/99); del 29 aprile 2003, “Nazarenko c. Ucraina” (ricorso n. 39483/98); del 29 aprile 2003, “Dankevich c. Ucraina” (ricorso n. 40679/98); del 29 aprile 2003, “Aliev c. Ucraina” (ricorso n. 41220/98); del 29 aprile 2003, “Khokhlich c. Ucraina” (ricorso n. 41707/98); del 29 aprile 2003, “McGlinchey e altri c. Regno Unito” (ricorso n. 50390/99); dell’11

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marzo 2004, “Iorgov c. Bulgaria” (ricorso n. 40653/98); dell’11 marzo 2004, “G.B. c. Bulgaria” (ricorso n. 42346/98); del 6 aprile 2004, “Ahmet Özkan e altri c. Turchia” (ricorso n. 21689/93); dell’8 luglio 2004, “Ilaşcu e altri c. Moldavia e Russia” (ricorso n. 48787/99); del 27 luglio 2004, “Slimani c. Francia” (ricorso n. 57671/00); del 14 dicembre 2004, “Gelfmann c. Francia” (ricorso n. 25875/03); del 18 gennaio 2005, “Kehayov c. Bulgaria” (ricorso n. 41035/98); del 20 gennaio 2005, “Mayzit c. Russia” (ricorso n. 63378/00); del 5 aprile 2005, “Nevmerzhitsky c. Ucraina” (ricorso n. 54825/00); del 7 aprile 2005, “Karalevičius c. Lituania” (ricorso n. 53254/99); del 2 giugno 2005, “Novoselov c. Russia” (ricorso n. 66460/01); del 16 giugno 2005, “Labzov c. Russia” (ricorso n. 62208/00); del 21 luglio 2005, “Rohde c. Danimarca” (ricorso n. 69332/01); del 13 settembre 2005, “Ostrovar c. Moldavia” (ricorso n. 35207/03); del 29 settembre 2005, “Mathew c. Paesi Bassi”; del 4 ottobre 2005, “Becciev c. Moldavia” (ricorso n. 9190/03); del 4 ottobre 2005, “Sarban c. Moldavia” (ricorso n. 3456/05); dell’8 novembre 2005, “Alver c. Estonia” (ricorso n. 64812/01); del 2 febbraio 2006, “Iovchev c. Bulgaria” (ricorso n. 41211/98); del 2 marzo 2006, “Devrim Turan c. Turchia” (ricorso n. 879/02); del 9 marzo 2006, “Cenbauer c. Croazia” (ricorso n. 73786/01); del 28 marzo 2006, “Melnik c. Ucraina” (ricorso n. 72286/01); del 4 luglio 2006, “Ramirez Sanchez c. Francia” (ricorso n. 59450/00); del 10 agosto 2006, “Dobrev c. Bulgaria” (ricorso n. 55389/00); del 12 ottobre 2006, “Dvoynykh c. Ucraina” (ricorso n. 72277/01); del 27 marzo 2007, “Istratii e altri c. Moldavia” (ricorsi nn. 8721/05, 8705/05 e 8742/05); del 24 maggio 2007, “Navushtanov c. Bulgaria” (ricorso n. 57847/00); del 14 giugno 2007, “Novak c. Croazia” (ricorso n. 8883/04); del 19 giugno 2007, “Ciorap c. Moldavia” (ricorso n. 12066/02); del 21 giugno 2007, “Bitiyeva e X. c. Russia” (ricorsi nn. 57953/00 e 37392/03); del 28 giugno 2007, “Malechkov c. Bulgaria” (ricorso n. 57830/00); del 12 luglio 2007, “Testa c. Croazia” (ricorso n. 20877/04); del 19 luglio 2007, “Trepashkin c. Russia” (ricorso n. 36898/03); del 26 luglio 2007, “Andrei Georgiev c. Bulgaria” (ricorso n. 61507/00); dell’8 novembre 2007, “Mironov c. Russia” (ricorso n. 22625/02); dell’8 novembre 2007, “Štitić c. Croazia” (ricorso n. 29660/03); del 6 dicembre 2007, “Bragadireanu c. Romania” (ricorso n. 22088/04); del 18 dicembre 2007, “Dybeku c. Albania” (ricorso n. 41153/06); del 17 gennaio 2008, “Pilčić c. Croazia” (ricorso n. 33138/06); del 29 gennaio 2008, “Kubik c. Polonia” (ricorso n. 12848/03); del 7 febbraio 2008, “Kostadinov c. Bulgaria” (ricorso n. 55712/00); del 7 febbraio 2008, “Mechenkov c. Russia” (ricorso n. 35421/05); del 12 febbraio 2008, “Kafkaris c. Cipro” (ricorso n. 21906/04); del 6 marzo 2008, “Gavazov c. Bulgaria” (ricorso n. 54659/00); del 27 marzo 2008, “Korobov e altri c. Russia” (ricorso n. 67086/01); del 15 maggio 2008, “Gusev c. Russia” (ricorso n. 67542/01); del 15 maggio 2008, “Dedovskiy e altri c. Russia”; del 20 maggio 2008, “Gülmez c. Turchia” (ricorso n. 16330/02); del 27 maggio 2008, “Rodić e altri tre c. Bosnia ed Erzegovina” (ricorso n. 22893/05); del 12 giugno 2008, “Vlasov c. Russia” (ricorso n. 78146/01); del 12 giugno 2008, “Shchebet c. Russia” (ricorso n. 16074/07); del 24 luglio 2008, “Vladimir Romanov c. Russia”; del 9 ottobre 2008, “Moiseyev c. Russia” (ricorso n. 62936/00); dell’8 gennaio 2009, “Barabanshchikov c. Russia”; del 20 gennaio 2009, “Wenerski c. Polonia” (ricorso n. 44369/02); del 20 gennaio 2009, “Sławomir Musiał c. Polonia” (ricorso n. 28300/06); del 27 gennaio 2009, “Ramishvili e Kokhreidze c. Georgia” (ricorso n. 1704/06); del 3 febbraio 2009, “Kaprykowski c. Polonia” (ricorso n. 23052/05); del 19 febbraio 2009, “Malenko c. Ucraina” (ricorso n. 18660/03); del 19 febbraio 2009, “A. e altri c. Regno Unito” (ricorso n. 3455/05); del 24 febbraio 2009, “Protopapa c. Turchia”; del 10 marzo 2009, “Paladi c. Moldavia” (ricorso n. 39806/05); del 12 marzo 2009, “Vergelskyy c. Ucraina” (ricorso n. 19312/06); del 12 marzo 2009, “Aleksandr Makarov c. Russia” (ricorso n. 15217/07); del 9 aprile 2009, “Grigoryevskikh c. Russia” (ricorso n. 22/03); del 23 aprile 2009, “Gubkin c. Russia” (ricorso n. 36941/02); del 25 giugno 2009, “Bakhmutskiy c. Russia” (ricorso n. 36932/02); del 2 luglio 2009, “Kochetkov c. Estonia” (ricorso n. 41653/05); del 7 luglio 2009, “Feliński c. Polonia” (ricorso n. 31116/03); del 9 luglio 2009, “Generalov c. Russia” (ricorso n. 24325/03); del 30 luglio 2009, “Pitalev c. Russia” (ricorso n. 34393/03); del 30 luglio 2009, “Vladimir Fedorov c. Russia”; del 30 luglio 2009, “Alekhin c. Russia” (ricorso n. 10638/08); del 17 settembre 2009, “Enea c. Italia” (ricorso n. 74912/01); del 15 ottobre 2009, “Buzhinayev c. Russia” (ricorso n. 17679/03); del 15 ottobre 2009, “Antipenkov c. Russia”; del 22 ottobre 2009, “Orchowski c. Polonia” (ricorso n. 17885/04); del 22 ottobre 2009, “Isayev c. Russia”; del 27 ottobre 2009, “Karapetyan c. Armenia” (ricorso n. 22387/05); del 10 dicembre 2009, “Koktysh c. Ucraina” (ricorso n. 43707/07); del 22 dicembre 2009, “Skorobogatykh c. Russia” (ricorso n. 4871/03); del 7 gennaio 2010, “Onofriou c. Cipro” (ricorso n. 24407/04); del 19 gennaio 2010, “Z.N.S. c. Turchia” (ricorso n. 21896/08); dell’11 febbraio 2010, “Salakhutdinov c. Russia” (ricorso n. 43589/02); del 23 febbraio 2010, “Đermanović c. Serbia” (ricorso n. 48497/06); dell’1 aprile 2010, “Gultyayeva c. Russia” (ricorso n. 67413/01); dell’1 aprile 2010, “Akhmetov c. Russia” (ricorso n. 37463/04); dell’8 aprile 2010, “Lutokhin c. Russia” (ricorso n. 12008/03); dell’8 aprile 2010, “Lotarev c. Ucraina”; del 13 aprile 2010, “Charahili c. Turchia” (ricorso n. 46605/07); del 13 aprile 2010,

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Questo profilo è approfondito nella sentenza del 29 novembre 2007, “Hummatov c. Azerbaijan” (ricorsi nn. 9852/03 e 13413/04), in cui la Corte, dopo aver ricordato che l’art. 3 si applica solo se i maltrattamenti raggiungono un certo livello di gravità, usualmente consistente in effettivi danni fisici o in intensi patimenti fisici o mentali, precisa che, anche in assenza di simili conseguenze, la misura deve reputarsi degradante ove denoti una mancanza di rispetto della dignità umana della vittima. Nella fattispecie, tale svilimento discende dall’assoluta inidoneità delle cure mediche prestate al detenuto nell’arco di diversi anni. L’insufficienza del trattamento medico è desunto da una serie di circostanze: il ricorrente, nonostante le numerose patologie di cui soffriva, non veniva visitato regolarmente da un medico e le visite erano realizzate solo dopo le sue lamentele; le terapie prescritte erano meramente sintomatiche e non invece parte di una complessiva strategia terapeutica, volta a curare le malattie del detenuto; i farmaci necessari non erano erogati dall’istituto penitenziario, ma erano forniti al ricorrente dai

“Tehrani e altri c. Turchia” (ricorsi nn. 32940/08, 41626/08 e 43616/08); del 20 aprile 2010, “Slyusarev c. Russia” (ricorso n. 60333/00); del 29 aprile 2010, “Khristoforov c. Russia” (ricorso n. 11336/06); del 2 settembre 2010, “Iorgov (II) c. Bulgaria” (ricorso n. 36295/02); del 30 settembre 2010, “Pakhomov c. Russia” (ricorso n. 44917/08); del 28 ottobre 2010, “Boris Popov c. Russia” (ricorso n. 23284/04); del 16 dicembre 2010, “Trepashkin (II) c. Russia” (ricorso n. 14248/05); del 21 dicembre 2010, “Gladkiy c. Russia” (ricorso n. 3242/03); del 21 gennaio 2011, “M.S.S. c. Belgio e Grecia” (ricorso n. 30696/09); del 10 febbraio 2011, “Kharchenko c. Ucraina” (ricorso n. 40107/02); del 31 maggio 2011, “Khodorkovskiy c. Russia” (ricorso n. 5829/04); del 7 giugno 2011, “Csüllög c. Ungheria” (ricorso n. 30042/08); del 27 settembre 2011, “Alim c. Russia” (ricorso n. 39417/07); del 4 ottobre 2011, “Goginashvili c. Georgia” (ricorso n. 47729/08); dell’11 ottobre 2011, “Khatayev c. Russia” (ricorso n. 56994/09); del 15 dicembre 2011, “Veniosov c. Ucraina” (ricorso n. 30634/05); del 10 gennaio 2012, “Vladimir Vasilyev c. Russia” (ricorso n. 28370/05); del 10 gennaio 2012, “Ananyev e altri c. Russia” (ricorsi nn. 42525/07 e 60800/08); del 10 gennaio 2012, “Sakhvadze c. Russia” (ricorso n. 15492/09); del 10 gennaio 2012, “Arutyunyan c. Russia” (ricorso n. 48977/09); del 12 gennaio 2012, “Ustyantsev c. Ucraina” (ricorso n. 3299/05); del 17 gennaio 2012, “Stanev c. Bulgaria” (ricorso n. 36760/06); del 17 gennaio 2012, “Fetisov e altri c. Russia” (ricorsi nn. 43710/07, 6023/08, 11248/08, 27668/08, 31242/08 e 52133/08); del 24 gennaio 2012, “Feraru c. Moldavia” (ricorso n. 55792/08); del 24 gennaio 2012, “Valeriy Samoylov c. Russia” (ricorso n. 57541/09); del 16 febbraio 2012, “Belyaev e Digtyar c. Ucraina” (ricorsi nn. 16984/04 e 9947/05); del 28 febbraio 2012, “Melnītis c. Lettonia” (ricorso n. 30779/05); del 5 aprile 2012, “Jirsák c. Repubblica Ceca” (ricorso n. 8968/08); del 10 aprile 2012, “Shchebetov c. Russia” (ricorso n. 21731/02); del 10 aprile 2012, “Babar Ahmad e altri c. Regno Unito” (ricorsi nn. 24027/07, 11949/08, 36742/08, 66911/09 e 67354/09); del 17 aprile 2012, “Piechowicz c. Polonia” (ricorso n. 20071/07); del 17 aprile 2012, “Horych c. Polonia” (ricorso n. 13621/08); del 22 maggio 2012, “Idalov c. Russia” (ricorso n. 5826/03); del 24 luglio 2012, “Iacov Stanciu c. Romania” (ricorso n. 35972/05); del 9 ottobre 2012, “X c. Turchia” (ricorso n. 24626/09); del 27 novembre 2012, “Dirdizov c. Russia” (ricorso n. 41461/10); dell’8 gennaio 2013, “Reshetnyak c. Russia” (ricorso n. 56027/10); del 12 febbraio 2013, “Austrianu c. Romania”; del 12 marzo 2013, “Zarzycki c. Polonia” (ricorso n. 15351/03); del 30 aprile 2013, “Tymoshenko c. Ucraina”; del 25 giugno 2013, “Grimailovs c. Lettonia” (ricorso n. 6087/03); del 27 giugno 2013, “Yepishin c. Russia” (ricorso n. 591/07); del 24 settembre 2013, “Epistatu c. Romania” (ricorso n. 29343/10); del 9 gennaio 2014, “Gorelov c. Russia” (ricorso n. 49072/11); del 14 gennaio 2014, “Lindström e Mässeli c. Finlandia” (ricorso n. 24630/10); del 6 febbraio 2014, “Semikhvostov c. Russia” (ricorso n. 2689/12); del 18 marzo 2014, “Öcalan c. Turchia (II)” (ricorsi nn. 24069/03, 197/04, 6201/06 e 10464/07); dell’1 aprile 2014, “Enache c. Romania” (ricorso n. 10662/06); del 3 luglio 2014, “Georgia c. Russia (I)” (ricorso n. 13255/07); del 17 luglio 2014, “Svinarenko e Slyadnev c. Russia” (ricorsi nn. 32541/08 e 43441/08); del 17 luglio 2014, “Kim c. Russia” (ricorso n. 44260/13); del 27 novembre 2014, “Amirov c. Russia” (ricorso n. 51857/13); del 27 gennaio 2015, “Neshkov e altri c. Bulgaria” (ricorsi nn. 36925/10, 21487/12, 72893/12, 73196/12, 77718/12 e 9717/13); del 3 febbraio 2015, “Apostu c. Romania” (ricorso n. 22765/12); del 10 marzo 2015, “Varga e altri c. Ungheria” (ricorsi nn. 14097/12, 45135/12, 73712/12, 34001/13, 44055/13 e 64586/13); del 12 marzo 2015, “Muršić c. Croazia” (ricorso n. 7334/13).

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suoi familiari. In sintesi, l’autorità non aveva predisposto tutte le condizioni indispensabili per assicurare un adeguato trattamento dell’interessato.

In generale la Corte ha affermato, nella sentenza del 22 dicembre 2008, “Aleksanyan c. Russia” (ricorso n. 46468/06), che lo standard di cure adeguato deve essere valutato con sufficiente flessibilità, in modo da bilanciare la protezione della dignità umana del detenuto con le esigenze pratiche della carcerazione44.

La giurisprudenza della Corte europea si è soffermata anche sul problema del sovraffollamento carcerario. Nella pronuncia del 19 aprile 2001, “Peers c. Grecia” (ricorso n. 28524/95), la Corte considera non rispettosa della dignità la condizione di un prigioniero, sistemato con un altro detenuto in una cella in grado di ospitare una sola persona e obbligato pertanto a trascorrere gran parte della sua giornata a letto e ad utilizzare i servizi igienici in presenza del compagno di cella. La cella, peraltro, non aveva finestre né sistemi di ventilazione ed il periodo di reclusione aveva coinciso con i mesi più caldi dell’anno. Nella decisione dell’1 giugno 2006, “Mamedova c. Russia” (ricorso n. 7064/05), il giudice di Strasburgo evidenzia che la ridotta disponibilità di spazi è fondamentale per stabilire se le condizioni detentive siano conformi all’art. 3. In particolare, quando un detenuto è costretto a vivere, a dormire e a utilizzare i servizi igienici con molti altri compagni di cella, è esposto a sofferenze e privazioni di intensità eccedente il disagio intrinsecamente connesso alla detenzione. Questa situazione genera in lui un senso di angoscia e di inferiorità, che lo umilia e lo mortifica. È compito dello Stato, indipendentemente dalle ragioni del sovraffollamento e dalle difficoltà finanziarie e logistiche, organizzare il proprio sistema penitenziario in modo che sia garantito il rispetto della dignità dei detenuti45. Si è già visto come tali principi siano stati applicati nei confronti dell’Italia (v. supra, cap. II, § 7).

Un altro aspetto delineato dalla giurisprudenza in esame verte sull’obbligo dello Stato di indagare adeguatamente sui maltrattamenti lamentati dai detenuti, al fine di

44 Il principio in esame è ad esempio applicato nelle sentenze del 15 ottobre 2009, “Okhrimenko c.

Ucraina” (ricorso n. 53896/07); del 14 gennaio 2010, “Moskalyuk c. Russia” (ricorso n. 3267/03); del 30 settembre 2010, “Pakhomov c. Russia”; del 21 ottobre 2010, “Petukhov c. Ucraina” (ricorso n. 43374/02); del 16 dicembre 2010, “Kozhokar c. Russia” (ricorso n. 33099/08); del 21 dicembre 2010, “Gladkiy c. Russia”; del 4 ottobre 2011, “Goginashvili c. Georgia”; dell’11 ottobre 2011, “Khatayev c. Russia”; del 10 gennaio 2012, “Vladimir Vasilyev c. Russia”; del 10 gennaio 2012, “Sakhvadze c. Russia”; del 10 gennaio 2012, “Arutyunyan c. Russia”; del 24 gennaio 2012, “Valeriy Samoylov c. Russia”; del 10 aprile 2012, “Shchebetov c. Russia”; del 27 novembre 2012, “Dirdizov c. Russia”; dell’8 gennaio 2013, “Jashi c. Georgia” (ricorso n. 10799/06); dell’8 gennaio 2013, “Reshetnyak c. Russia”; del 4 aprile 2013, “Ivakhnenko c. Russia” (ricorso n. 12622/04); del 30 aprile 2013, “Tymoshenko c. Ucraina”; del 9 gennaio 2014, “Gorelov c. Russia”; del 27 novembre 2014, “Amirov c. Russia”.

45 Considerazioni del genere sono richiamate, ad esempio, nelle sentenze dell’1 marzo 2007, “Belevitskiy c. Russia” (ricorso n. 72967/01); del 29 marzo 2007, “Andrey Frolov c. Russia” (ricorso n. 205/02); del 10 maggio 2007, “Benediktov c. Russia” (ricorso n. 106/02); del 7 giugno 2007, “Igor Ivanov c. Russia” (ricorso n. 34000/02); del 18 ottobre 2007, “Babushkin c. Russia” (ricorso n. 67253/01); del 15 novembre 2007, “Grishin c. Russia” (ricorso n. 30983/02); del 15 novembre 2007, “Bagel c. Russia” (ricorso n. 37810/03); del 27 marzo 2008, “Sukhovoy c. Russia” (ricorso n. 63955/00); del 27 marzo 2008, “Korobov e altri c. Russia”; del 15 maggio 2008, “Gusev c. Russia”; del 29 gennaio 2009, “Antropov c. Russia” (ricorso n. 22107/03); del 5 marzo 2009, “Bychkov c. Russia” (ricorso n. 39420/03); dell’8 ottobre 2009, “Bordikov c. Russia” (ricorso n. 921/03); del 15 ottobre 2009, “Buzhinayev c. Russia”; del 22 ottobre 2009, “Orchowski c. Polonia”; del 17 dicembre 2009, “Shilbergs c. Russia” (ricorso n. 20075/03); del 22 dicembre 2009, “Skorobogatykh c. Russia”; del 14 gennaio 2010, “Melnikov c. Russia” (ricorso n. 23610/03); del 21 dicembre 2010, “Gladkiy c. Russia”; del 10 gennaio 2012, “Ananyev e altri c. Russia”; del 28 febbraio 2012, “Melnītis c. Lettonia”; del 27 giugno 2013, “Yepishin c. Russia”; del 10 marzo 2015, “Varga e altri c. Ungheria”.

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individuare e punire i responsabili46. La sentenza del 28 ottobre 1998, “Assenov e altri c. Bulgaria” (ricorso n. 24760/94)47 rileva che «quando un individuo afferma in modo sostenibile di aver subito dalla polizia o da altri servizi analoghi dello Stato gravi sevizie illecite e contrarie all’art. 3, tale disposizione, combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’art. 1 della Convenzione di riconoscere «ad ogni persona soggetta alla (sua) giurisdizione i diritti e le libertà definiti (… nella …) Convenzione» richiede altresì che vi sia un’indagine ufficiale effettiva. Tale obbligo, come quello derivante dall’art. 2, deve poter portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili […]. Se non fosse così, nonostante la sua fondamentale importanza, il divieto legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace nella pratica e, in taluni casi, sarebbe possibile ad agenti dello Stato calpestare i diritti di coloro che sono sottoposti al loro controllo, godendo di una quasi impunità» (punto 102 della motivazione)48.

La tutela della dignità umana è anche il criterio in base a cui valutare la durata della pena. Con riferimento all’ergastolo, la sentenza del 9 luglio 2013, “Vinter e altri c. Regno Unito” (ricorsi nn. 66069/09, 130/10 e 3896/10) sottolinea che una pena perpetua è compatibile con l’art. 3 solo se offre sia una possibilità di liberazione sia una possibilità di riesame.

Il rispetto della dignità umana deve essere altresì garantito nell’ambito del servizio militare. La sentenza dell’11 febbraio 2010, “Kayankin c. Russia” (ricorso 24427/02) evidenzia che lo Stato ha il dovere di assicurare che le condizioni di espletamento del servizio di leva siano compatibili con il rispetto della dignità umana e che le procedure e i metodi dell’allenamento militare non determinino sofferenze più intense di quelle inevitabilmente derivanti dalla disciplina militare; in particolare, devono essere assicurate tutte le cure necessarie a salvaguardare la salute e il benessere dei militari di leva49.

L’obbligo positivo dello Stato di proteggere la dignità sussiste pure in relazione alla problematica dell’accoglienza dei migranti. Nella sentenza dell’1 settembre 2015, “Khlaifia e altri c. Italia” (ricorso n. 16483/12)50 si afferma che «La Corte non sottovaluta i problemi che gli Stati contraenti incontrano in presenza di ondate migratorie eccezionali […]. Essa è consapevole della molteplicità di obblighi che pesavano sulle autorità italiane, costrette a prendere delle misure per garantire al tempo stesso il salvataggio in mare, la salute e l’accoglienza dei migranti e il mantenimento dell’ordine pubblico su un’isola abitata da una piccola comunità di persone. Questi fattori non possono tuttavia esonerare lo Stato convenuto dal suo obbligo di garantire che ogni persona che, come i ricorrenti, viene ad essere privata della sua libertà possa godere di condizioni compatibili con il rispetto della sua dignità umana» (punti 127 e 128 della motivazione).

46 Cfr. A. ESPOSITO, Art. 3 (Proibizione della tortura), cit., 61. 47 Riguardante un’ipotesi di sevizie che il ricorrente aveva subito durante un fermo di polizia. 48 Tali affermazioni sono ad esempio riprese negli arresti del 6 aprile 2000, “Labita c. Italia”, e del

20 luglio 2000, “Caloc c. Francia”. 49 Questo criterio è applicato anche nelle sentenze del 24 ottobre 2013, “Baklanov c. Ucraina”

(ricorso n. 44425/08); del 21 gennaio 2014, “Placì c. Italia” (ricorso n. 48754/11); del 12 marzo 2015, “Lyalyakin c. Russia” (ricorso n. 31305/09); del 13 ottobre 2015, “Akkoyunlu c. Turchia” (ricorso n. 7505/06).

50 Concernente le modalità di accoglienza dei migranti sbarcati a Lampedusa nel mese di settembre del 2011.

227

Il concetto di dignità umana è stato infine usato, in relazione all’art. 3, in ipotesi di discriminazioni talmente gravi da risolversi in trattamenti degradanti. Il riferimento è alla sentenza del 10 maggio 2001, “Cipro c. Turchia” (ricorso n. 25781/94), che dichiara in contrasto con l’art. 3 le condizioni di vita imposte dalle autorità turche ai Ciprioti greci della regione del Karpas (nel Nord di Cipro). Secondo il giudice di Strasburgo, «Le condizioni nelle quali tale popolazione è condannata a vivere sono avvilenti e collidono con la nozione stessa di rispetto della dignità umana dei suoi membri. A giudizio della Corte, nel periodo in esame, la discriminazione ha raggiunto una tale soglia di gravità da costituire un trattamento degradante» (punti 309 e 310 della motivazione). In questo caso la violazione della dignità è l’elemento di collegamento tra le discriminazioni e i trattamenti degradanti51. Analogo collegamento è presente nel caso “Moldovan e altri (II) c. Romania” (ricorsi nn. 41138/98 e 64320/01), riguardante le politiche discriminatorie adottate dalle autorità rumene nei confronti di alcuni cittadini di etnia rom. Nella sentenza del 12 luglio 2005 la Corte rileva che le condizioni di vita dei ricorrenti e la discriminazione razziale a cui essi sono stati pubblicamente sottoposti, derivante dal modo in cui le autorità hanno trattato i loro reclami, costituiscono un’interferenza con la loro dignità umana. Tale interferenza, tenuto conto delle speciali circostanze del caso, equivale ad un trattamento degradante ai sensi dell’art. 3 CEDU.

Un ultimo punto va chiarito: la tutela della dignità non si prolunga oltre la morte dell’individuo, perciò l’art. 3 non può essere invocato in caso di profanazione di un cadavere. La Corte sostiene questa tesi nella sentenza del 27 febbraio 2007, “Akpinar e Altun c. Turchia” (ricorso n. 56760/00)52, in cui sottolinea che la dignità umana53 si estingue con la morte e, pertanto, il divieto di trattamenti degradanti non si applica ai cadaveri. Tale conclusione è contestata dalla partly dissenting opinion del giudice Fura-Sandström, secondo cui la profanazione di un cadavere, al di fuori di test scientifici autorizzati da un giudice, costituisce un palese attacco alla dignità umana, in violazione dell’art. 3. Fura-Sandström attribuisce la prudenza della Corte alla circostanza che non esiste a livello europeo una concezione condivisa della morte e delle sue implicazioni filosofiche, etiche, e religiose; aggiunge però che la Corte ha perso un’importante occasione per estendere la protezione della dignità umana ex art. 3.

A conclusione di questo esame, si può dire che l’offesa alla dignità umana sia utilizzata dalla Corte come criterio per stabilire la sussistenza di trattamenti o di pene inumani o degradanti. Dall’art. 3 derivano infatti in capo allo Stato sia l’obbligo di astenersi dal violare la dignità umana sia il dovere positivo di proteggerla con tutti i mezzi necessari.

51 Invero tale collegamento era già stato individuato dalla Commissione europea dei diritti umani nel

rapporto adottato il 14 dicembre 1973 nel caso “Asiatici dell’Africa orientale c. Regno Unito” (ricorsi nn. 4403/70-4419/70, 4422/70, 4423/70, 4434/70, 4443/70, 4476/70-4478/70, 4486/70, 4501/70 e 4526/70-4530/70). Nel punto 207 del rapporto si rileva che la discriminazione razziale di un gruppo di persone può, in determinate circostanze, costituire una speciale forma di offesa alla dignità umana e tradursi quindi in un trattamento degradante ai sensi dell’art. 3. Questa considerazione è ripresa nel punto 113 del rapporto adottato il 12 maggio 1983 dalla Commissione nel caso “Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito” (ricorsi nn. 9214/80, 9473/81 e 9474/81).

52 In cui la violazione dell’art. 3 era individuata dai ricorrenti nella mutilazione di due cadaveri. 53 In realtà la Corte parla di human quality, ma l’espressione può essere ritenuta equivalente.

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4. Tratta di esseri umani e violazione della dignità (art. 4 CEDU) L’art. 4, par. 1, CEDU dispone che «Nessuno può essere tenuto in schiavitù né in

servitù». Il divieto posto dalla norma si estende alla tratta di esseri umani. Proprio in relazione a tale ipotesi la dignità umana è stata invocata nella sentenza del 7 gennaio 2010, “Rantsev c. Cipro e Russia” (ricorso n. 25965/04)54.

Nella pronuncia la Corte afferma che il traffico di esseri umani minaccia la dignità e le libertà fondamentali delle vittime e non può essere considerata compatibile con una società democratica e con i valori accolti dalla Convenzione. Per sanzionarla, non è necessario stabilire se essa rientri nel concetto di schiavitù, di servitù o di lavoro obbligatorio o forzato. Questo perché il traffico in sé ricade nella sfera di applicazione dell’art. 4 ed è pertanto vietato55.

La dignità umana è quindi parte della definizione di tratta di esseri umani e impone il contrasto efficace di tale degradante fenomeno.

5. Dignità e ragionevole durata del processo (art. 6 CEDU) Un riferimento alla dignità è contenuto, nel contesto della problematica della

ragionevole durata del processo, nella decisione del 29 marzo 1989, “Bock c. Germania” (ricorso n. 11118/84)56.

La sentenza rileva che, nel caso di specie, il ricorrente non solo ha dovuto attendere nove anni per veder concluso il procedimento di divorzio, ma per lo stesso lasso di tempo ha subito sofferenze a causa della continua messa in discussione della sua salute mentale. Questa circostanza ha determinato una serie di procedimenti, attivati su richiesta della moglie, che hanno poi dimostrato l’infondatezza dei dubbi. La sequela di procedimenti rappresenta una grave violazione della dignità umana del ricorrente.

In questo caso la lesione della dignità concorre, assieme all’irragionevole durata del procedimento di divorzio, alla configurazione della violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

6. Dignità umana e diritto all’autodeterminazione (art. 8 CEDU)

54 Riguardante la morte a Cipro, in circostanze sospette, di una giovane donna di nazionalità russa. 55 Come sostiene la Corte, «There can be no doubt that trafficking threatens the human dignity and

fundamental freedoms of its victims and cannot be considered compatible with a democratic society and the values expounded in the Convention. In view of its obligation to interpret the Convention in light of present-day conditions, the Court considers it unnecessary to identify whether the treatment about which the applicant complains constitutes “slavery”, “servitude” or “forced and compulsory labour”. Instead, the Court concludes that trafficking itself […], falls within the scope of Article 4 of the Convention» (punto 282 della motivazione).

56 Concernente un procedimento di divorzio durato circa nove anni. In proposito, va ricordato che il primo periodo dell’art. 6, par. 1, CEDU stabilisce che «Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei».

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Un altro ambito in cui la dignità umana è richiamata è quello dell’art. 8 CEDU, che prevede che «Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può aversi interferenza di una autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del Paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri». Partendo da tale disposizione, ispirata all’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo57, la Corte ha enucleato un vero e proprio diritto all’autodeterminazione, strumentale alla realizzazione della dignità. Il nesso tra autonomia e dignità è riscontrabile in contesti molto diversi, sostanzialmente riconducibili a tre settori: il suicidio assistito, la procreazione assistita e il transessualismo.

Ciascun ambito deve essere distintamente analizzato.

6.1. La problematica del suicidio assistito Come anticipato, il primo ambito da considerare concerne la delicata problematica

del suicidio assistito. La sentenza del 29 aprile 2002, “Pretty c. Regno Unito” (ricorso n. 2346/02) analizza la richiesta di una cittadina britannica, affetta da sclerosi laterale amiotrofica (SLA)58, che intendeva scegliere il momento e le modalità della sua morte per sottrarsi ad intollerabili sofferenze e, di conseguenza, chiedeva alle competenti autorità di consentire al marito di aiutarla nel gesto estremo, non incriminandolo.

Il giudice di Strasburgo innanzitutto esclude che il divieto del suicidio assistito contemplato dal diritto inglese contrasti con il diritto alla vita sancito dall’art. 2 CEDU. Secondo la Corte, l’art. 2 impone allo Stato l’obbligo di proteggere la vita e «non può, senza distorsione di linguaggio, essere interpretato nel senso che conferisce un diritto diametralmente opposto, vale a dire un diritto di morire; non può nemmeno far nascere un diritto all’autodeterminazione nel senso che darebbe ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita» (punto 39 della motivazione). Per analoghe ragioni, non sussiste una violazione dell’art. 3 CEDU, che, in negativo, vincola gli Stati ad astenersi dall’infliggere lesioni gravi alle persone sottoposte alla loro giurisdizione e, in positivo, li obbliga ad approntare tutte le misure idonee ad impedire che le suddette persone siano sottoposte a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti, anche inferti da privati. L’accoglimento del ricorso equivarrebbe a far gravare in capo allo Stato il dovere di approvare gli atti volti a interrompere la vita e un dovere del genere non può essere dedotto dall’art. 3.

La Corte passa quindi all’esame dell’art. 8 CEDU e sostiene che, sebbene in nessun arresto precedente la disposizione sia stata collegata al diritto all’autodeterminazione, la nozione di autonomia personale è comunque sottesa ad esso. Il giudice di Strasburgo prende poi atto degli effetti devastanti e del progressivo deterioramento che la patologia è in grado di determinare sulle condizioni di salute della ricorrente ed evidenzia

57 Cfr. V. ZENO-ZENCOVICH, Art. 8 (Diritto al rispetto della vita private e familiare), in S. BARTOLE – B. CONFORTI – G. RAIMONDI (a cura di), Commento alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., 307.

58 La SLA è una malattia neurodegenerativa incurabile, che comporta la paralisi dei muscoli e conduce alla morte per soffocamento.

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l’importanza del collegamento tra autonomia e dignità. Afferma infatti quanto segue: «La dignità e la libertà dell’uomo sono l’essenza stessa della Convenzione. Senza negare in nessun modo il principio della sacralità della vita protetto dalla Convenzione, la Corte rileva che è sotto il profilo dell’art. 8 che la nozione di qualità della vita si riempie di significato. In un’epoca in cui si assiste a una crescente sofisticazione della medicina e a un aumento delle speranze di vita, numerose persone temono di non avere la forza di mantenersi in vita fino a un’età molto avanzata o in uno stato di grave decadimento fisico e mentale agli antipodi con la forte percezione che hanno di loro stesse e della loro identità personale» (punto 65 della motivazione). La negazione della facoltà di ricorrere al suicidio assistito è allora potenzialmente in conflitto con l’art. 8. La violazione tuttavia non sussiste perché la proibizione in esame è proporzionata, non essendo «arbitrario che il diritto rispecchi l’importanza del diritto alla vita vietando il suicidio assistito e prevedendo un sistema di applicazione e di valutazione da parte della giustizia che consente di valutare in ciascun caso concreto tanto l’interesse pubblico ad introdurre procedimenti quanto le esigenze legittime e adeguate della retribuzione e della dissuasione» (punto 76 della motivazione).

A prescindere dall’esito, la decisione è importante per il nesso rilevato tra dignità, qualità della vita e diritto all’autodeterminazione59.

Parzialmente simile è il caso “Haas c. Svizzera” (ricorso n. 31322/07), deciso con sentenza del 20 gennaio 2011. Il ricorrente, affetto da sindrome bipolare, tentava più volte di suicidarsi e, dopo vari insuccessi, si rivolgeva a numerosi psichiatri per ottenere la prescrizione di pentobarbitale sodico, una sostanza in grado di causare la morte in maniera indolore. Nessun medico acconsentiva tuttavia alla prescrizione e i dinieghi erano impugnati dinanzi all’autorità giurisdizionale, sempre con esito negativo. L’interessato proponeva allora ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la violazione dell’art. 8.

La Corte, ampliando la portata dei principi affermati nel caso “Pretty c. Regno Unito”60, sostiene che il diritto dell’individuo di decidere in quale modo e in quale momento la sua vita terminerà, a condizione che sia capace di prendere liberamente tale decisione, è uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8. Sussistono però delle differenze rispetto al caso “Pretty”: la Corte osserva che il ricorrente non lamenta solo il carattere doloroso della sua vita, ma anche la circostanza che, senza l’assunzione del pentobarbitale sodico, il suo suicidio non sarebbe dignitoso. Il ricorrente, inoltre, non è nello stadio terminale di una patologia degenerativa che gli impedisca di togliersi la vita.

Dopo aver evidenziato le peculiarità del caso de quo, il giudice di Strasburgo esclude la violazione dell’art. 8, sia perché in materia il margine di apprezzamento degli Stati è ampio, sia perché la normativa svizzera, nel prevedere come obbligatoria la prescrizione medica della sostanza in questione, persegue lo scopo legittimo di proteggere la persona da decisioni affrettate e di prevenire abusi, assicurando soprattutto che un paziente incapace d’intendere e di volere non si procuri una dose letale di pentobarbitale sodico. In conclusione, anche ammettendo che lo Stato abbia l’obbligo

59 Auspica un più frequente ricorso al concetto di dignità in collegamento con il diritto

all’autodeterminazione B. BARBISAN, Sacralità della vita e bilanciamenti nella giurisprudenza inglese ed in quella della Corte europea di Strasburgo, in Foro it., 2003, parte IV, 67.

60 Cfr. I.A. COLUSSI, Quando a Strasburgo si discute di fine vita… Casi e decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di eutanasia e suicidio assistito, in A. D’ALOIA (a cura di), Il diritto alla fine della vita. Principi, decisioni, casi, cit., 453 s.

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positivo ex art. 8 di adottare misure che facilitino un suicidio dignitoso, le autorità svizzere non hanno violato quest’obbligo nel caso di specie.

In entrambi gli arresti la Corte coniuga il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, cui sono da ricondurre le decisioni in materia di fine vita, e la discrezionalità degli Stati nel conformare tale diritto61.

6.2. Diritto all’autodeterminazione e ricorso alla fecondazione assistita L’idea di dignità ricorre anche in alcune sentenze riguardanti la fecondazione

assistita. La prima di queste è la sentenza del 10 aprile 2007, “Evans c. Regno Unito”

(ricorso n. 6339/05), in cui la ricorrente lamentava il contrasto con l’art. 8 CEDU della normativa inglese che consente la revoca dell’autorizzazione all’utilizzo di embrioni congelati fino al momento dell’effettivo impiego dei medesimi.

Nella pronuncia, la Corte sottolinea che la questione è eticamente delicata e che a livello europeo non esiste un approccio uniforme sulla fissazione del momento in cui diviene irrevocabile il consenso all’utilizzo di embrioni per la fecondazione assistita. Il margine di discrezionalità degli Stati contraenti è pertanto ampio. In particolare, il rispetto della dignità umana impone un equo bilanciamento tra gli interessi in gioco e la decisione della normativa britannica di far prevalere, nel caso di specie, la revocabilità del consenso sul diritto a diventare genitore non eccede il margine di valutazione rimesso allo Stato. È esclusa, quindi, la violazione dell’art. 8. Questo esito è contestato dalla joint dissenting opinion dei giudici Türmen, Tsatsa-Nikolovska, Spielmann e Ziemele, che reputano sproporzionato il bilanciamento realizzato dalla legislazione inglese. Secondo tali giudici, il diritto di una delle parti a diventare genitore sarebbe completamente sacrificato e contrasterebbe con lo scopo della Convenzione di proteggere la dignità umana e l’autonomia personale.

Un’altra decisione rilevante è quella pronunciata il 3 novembre 2011 nel caso “S.H. e altri c. Austria” (ricorso n. 57813/00), sul divieto di fecondazione eterologa. Chiamata ad esprimersi sulla compatibilità di un simile divieto con la Convenzione, la Corte ricorda anzitutto che la nozione di vita privata di cui all’art. 8 CEDU è ampia e comprende ad esempio il diritto ad instaurare relazioni con altri esseri umani, il diritto allo sviluppo della personalità, il diritto all’autodeterminazione e il diritto a veder rispettata la decisione di avere o meno un figlio. L’art. 8 include anche il diritto di una coppia a concepire un figlio mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita. Sui limiti della possibilità di ricorrere a questa pratiche non c’è però consenso tra gli Stati contraenti.

In secondo luogo, bisogna stabilire se la problematica debba essere inquadrata come un’interferenza nella vita privata o come il mancato adempimento di un obbligo positivo da parte dello Stato. Dall’art. 8, infatti, si possono enucleare sia il divieto per la pubblica autorità di interferire nella sfera privata dell’individuo, sia l’obbligo per lo Stato di adottare le misure indispensabili per assicurare il rispetto della vita privata e familiare. In entrambi i casi, gli interessi in gioco devono essere adeguatamente ponderati. Nella fattispecie, la Corte rileva che, nonostante l’ambivalenza della questione, è preferibile assumere la prospettiva dell’interferenza, fermo restando che i

61 Cfr. R. BIFULCO, Esiste un diritto al suicidio assistito nella Cedu?, in Quad. cost., 2003, 166 ss.

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principi applicabili sono analoghi a quelli invocabili nella prospettiva degli obblighi positivi.

Ciò premesso, il giudice di Strasburgo ribadisce che, ai sensi dell’art. 8, par. 2, un’ingerenza nella vita privata è legittima se è prevista dalla legge e se persegue in maniera proporzionata uno degli scopi contemplati dalla norma. Il divieto di fecondazione eterologa è disposto da una legge austriaca ed è funzionale alla protezione della salute e della morale, nonché dei diritti e delle libertà degli altri. Resta da capire se tali scopi siano perseguiti in maniera ragionevole. Sul punto, la Corte precisa che a livello europeo la normativa in materia non è uniforme e che il carattere controverso della problematica giustifica l’ampia discrezionalità degli Stati. Il margine di apprezzamento è tale che non solo lo Stato può autorizzare o meno la fecondazione assistita, ma può anche stabilire a quali condizioni sia lecita. Le soluzioni individuate sono comunque soggette al controllo della Corte. Nel caso in esame, l’utilizzo di gameti esterni alla coppia è estremamente discusso nell’opinione pubblica austriaca, perché solleva complessi problemi etici e chiama in causa valori e interessi come la dignità umana, il benessere del figlio concepito con simili tecniche procreative e la necessità di prevenire eventuali abusi. Secondo la Corte, la scelta adottata dalle autorità austriache non può allora ritenersi sproporzionata, anche tenendo conto del fatto che il divieto non è esteso alla fecondazione omologa.

Ribaltando la decisione resa in primo grado62, il giudice di Strasburgo stabilisce quindi che il margine di apprezzamento non è stato superato e che l’art. 8 non è stato violato. Precisa però che il Parlamento austriaco non ha ancora valutato approfonditamente la questione e che, in questa materia, è necessario un esame costante da parte degli Stati contraenti, in ragione dell’evoluzione del dibattito scientifico e giuridico.

Su quest’ultimo aspetto, diametralmente opposto è il punto di vista del giudice De Gaetano, che nella sua separate opinion sostiene che il riconoscimento del valore della dignità di ogni persona deve segnare il limite delle pratiche consentite63. Si potrebbe dire che non è il concetto di dignità a doversi adeguare all’evoluzione scientifica, ma quest’ultima a doversi modellare in base all’esigenza di rispetto della dignità umana. La tesi del giudice De Gaetano pare riporre eccessiva fiducia nel concetto di dignità, la cui polisemia non è idonea ad indicare un confine preciso in ambito bioetico. Ciò non vuol dire che esso sia totalmente inutile in un contesto del genere, ma semplicemente che non può essere l’unico criterio-guida.

Un’ultima sentenza da considerare è quella del 28 agosto 2012, “Costa e Pavan c. Italia” (ricorso n. 54270/10). L’arresto analizza la compatibilità con l’art. 8 CEDU delle

62 Con sentenza dell’1 aprile 2010 la prima sezione della Corte europea aveva ritenuto violato l’art.

14 CEDU in combinato disposto con l’art. 8 CEDU per l’illegittima discriminazione, derivante dalla legislazione austriaca, tra coppie in grado di avere un figlio mediante tecniche omologhe e coppie impossibilitate ad avere un figlio per il divieto della fecondazione eterologa. In particolare, la prima sezione aveva rilevato che le preoccupazioni di ordine morale e legate all’accettabilità sociale della fecondazione eterologa non fossero sufficienti a giustificare una proibizione assoluta della medesima; di conseguenza, il divieto assoluto era considerato sproporzionato e in contrasto con la Convenzione.

63 Secondo il giudice De Gaetano, «Irrespective of the advances in medicine and other sciences, the recognition of the value and dignity of every person may require the prohibition of certain acts in order to bear fitness to the inalienable value and intrinsic dignity of every human being. Such a prohibition – like the prohibitions against racism, unjust discrimination and the marginalization of the ill and the disabled – is not a denial of fundamental human rights but a positive acknowledgement and advancement of the same».

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disposizioni della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”) che consentivano solo alle coppie sterili o non fertili di accedere alla fecondazione assistita e vietavano la diagnosi preimpianto64. In particolare, i ricorrenti, portatori sani della fibrosi cistica, lamentavano la violazione dell’art. 8 CEDU perché l’unica via percorribile per generare figli non affetti dalla patologia citata era iniziare una gravidanza naturale e poi procedere all’interruzione della stessa in caso di riscontro della patologia nel feto.

In proposito, la Corte afferma che il desiderio dei genitori di far nascere un figlio non affetto dalla fibrosi cistica, ricorrendo a tal fine alla fecondazione assistita e alla diagnosi preimpianto, rientra nel campo d’applicazione dell’art. 8. Il divieto posto dalla normativa italiana si configura quindi come un’ingerenza nella vita privata, legittima solo alle condizioni previste dall’art. 8, par. 2. Sul punto, il Governo italiano aveva giustificato la proibizione con l’esigenza di tutelare la salute del figlio e della donna, nonché la dignità e la libertà di coscienza delle professioni mediche e l’interesse ad evitare il rischio di pratiche eugenetiche.

La Corte respinge tali argomentazioni e stigmatizza la mancanza di coerenza del sistema legislativo italiano, che da un lato vieta l’impianto dei soli embrioni sani e dall’altro autorizza la madre ad abortire proprio perché il feto è affetto da fibrosi cistica. Inconsistenti appaiono poi, secondo la Corte, il richiamo alla dignità e alla libertà di coscienza delle professioni mediche e il paventato rischio di pratiche eugenetiche. Il divieto previsto dalla disciplina italiana è pertanto sproporzionato e contrasta con l’art. 8 CEDU.

Nel caso esaminato la dignità ha uno scarso rilievo, essendo collegata alla professione medica, senza peraltro una chiara spiegazione da parte del Governo italiano circa il senso del riferimento.

In conclusione, si può dire che nelle sentenze citate il giudice di Strasburgo faccia un uso moderato dell’idea di dignità e che le soluzioni adottate siano prudenti e sostanzialmente rispettose della discrezionalità degli Stati nel regolare complesse questioni bioetiche. In questo panorama non costituisce un’eccezione l’ultima sentenza citata, perché la condanna dell’Italia è legata alla palese irragionevolezza del divieto contenuto nella legge n. 40 del 2004.

6.3. Dignità e diritti delle persone transessuali L’ultimo settore da esaminare è quello dell’identità sessuale e del mutamento di

sesso65. La Corte ha affrontato per la prima volta la tematica nella sentenza del 17

64 La limitazione è venuta meno a seguito della sentenza n. 96 del 2015 (in

www.cortecostituzionale.it), con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, co. 1, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, co. 1, lett. b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche. Nella sentenza, la Corte menziona esplicitamente la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo.

65 Per un approfondimento sulla condizione giuridica dei transessuali a livello europeo, v. L. TRUCCO, Il transessualismo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla luce del diritto comparato, in Dir. pubbl. comp. eur., 2003, 371 ss.; A. ANSELMO, I transessuali hanno diritto di sposarsi … e di ottenere la pensione di reversibilità, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali,

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ottobre 1986, “Rees c. Regno Unito” (ricorso n. 9532/81), avente ad oggetto una richiesta di rettifica del certificato di nascita a seguito del cambiamento di sesso del ricorrente. Il diniego opposto dalle autorità britanniche è alla base della ritenuta violazione dell’art. 8. In proposito, la Corte ricorda che, nonostante l’art. 8 comporti essenzialmente un divieto di interferenze della pubblica autorità nella vita privata dei consociati, possono comunque ricavarsene obblighi positivi. Il problema è stabilire quale sia la portata di questi obblighi. Nel caso di specie, il margine di apprezzamento dello Stato è ampio e nel bilanciamento tra i diritti del transessuale e gli interessi contrapposti – non ben identificati dalla Corte – i citati obblighi positivi non si spingono fino al punto di imporre allo Stato di rettificare i dati anagrafici contenuti nell’atto di nascita. Va pertanto esclusa la violazione dell’art. 8. La Corte lascia però aperto uno spiraglio a futuri ripensamenti, perché sottolinea la serietà del problema e dei disagi patiti dai transessuali e aggiunge che la Convenzione va interpretata alla luce dell’evoluzione scientifica e sociale.

La questione torna all’esame del giudice di Strasburgo nel caso “Cossey c. Regno Unito” (ricorso n. 10843/84), deciso con sentenza del 27 settembre 1990. La fattispecie è identica a quella del caso “Rees c. Regno Unito” e la Corte precisa che «Nel determinare se esiste o meno un obbligo positivo si deve aver riguardo al giusto equilibrio che deve sussistere fra l’interesse generale della comunità e l’interesse dell’individuo, essendo la ricerca di tale equilibrio inerente all’intera Convenzione» (punto 37 della motivazione). Aggiunge poi che nel frattempo non sono intervenuti sviluppi scientifici che spieghino le cause del transessualismo o che permettano ai transessuali di acquisire tutte le caratteristiche biologiche del sesso opposto a quello originario. Non si riscontra neanche un mutamento sociale, perché le normative degli Stati sono ancora largamente divergenti e questo è il segno che il margine di discrezionalità è ancora ampio. Il ricorso viene quindi rigettato.

La sentenza, come nel caso precedente, non contiene riferimenti alla dignità, presenti invece nell’opinione dissenziente del giudice Martens. In un passaggio centrale della sua opinion, Martens sottolinea che «Il principio cardine dei diritti dell’uomo, che sottende tutti i diversi diritti specifici enunciati nella Convenzione, è il rispetto della dignità e della libertà dell’uomo. Questi due elementi implicano che un uomo deve essere libero di autodeterminarsi e di scegliere il destino che gli sembri più adatto alla sua personalità. A questo scopo affronta un lungo, pericoloso e doloroso trattamento medico per adattare, per quanto possibile, i suoi organi sessuali al sesso cui è convinto di appartenere. Dopo questa prova, si rivolge alla legge in qualità di transessuale operato e chiede che sia riconosciuto il fatto compiuto che egli ha determinato. Chiede di essere riconosciuto e trattato dalla legge come un membro del sesso che ha acquisito. Aspira ad essere trattato senza discriminazione, sullo stesso piano di altri individui di sesso femminile o, secondo i casi, maschile» (punto 2.7 dell’opinion). Il giudice Martens fa notare inoltre che non ci sono stati, rispetto al 1986, progressi scientifici, ma sicuramente c’è stata un’evoluzione sociale, testimoniata sia dalla comprensione crescente che la società mostra nei confronti del transessualismo sia dal fatto che quattordici Stati membri del Consiglio d’Europa hanno permesso, in un modo o nell’altro, il riconoscimento giuridico del cambio di sesso.

Simili considerazioni rimangono estranee anche all’arresto del 30 luglio 1998, “Sheffield e Horsham c. Regno Unito” (ricorsi nn. 22985/93 e 23390/94). Ancora una 2004, 719 ss.; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Recenti orientamenti di diritto europeo in materia di discriminazione dei transessuali, in Europa e diritto privato, 2004, 989 ss.

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volta il giudice di Strasburgo conferma il suo orientamento pregresso, ma ammette che, pur non essendosi verificata un’evoluzione scientifica, l’accettazione sociale del fenomeno è aumentata e che la questione deve essere quindi sottoposta a un esame permanente da parte degli Stati. In questo caso si rafforza però anche il dissenso all’interno della Corte. La joint partly dissenting opinion dei giudici Bernhardt, Thór Vilhjálmsson, Spielmann, Palm, Wildhaber, Makarczyk e Voicu rileva che il bilanciamento imposto dalla Convenzione inclina decisamente a favore del diritto al rispetto della sfera privata (right to privacy) dei transessuali e che il margine di apprezzamento non può essere più invocato dagli Stati per osteggiare soluzioni rispettose della dignità dei transessuali. I giudici menzionati rimarcano altresì che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte, si sono verificati progressi scientifici e che pertanto i tempi sono maturi per ritenere che l’art. 8 imponga agli Stati l’obbligo positivo di consentire l’adeguamento dei certificati di nascita ai mutamenti di sesso. Interessante è anche la dissenting opinion del giudice Van Dijk, che evidenzia che il diritto all’autodeterminazione non è espressamente previsto dalla Convenzione, ma è riconducibile agli articoli 5 e 8. Tale diritto è un elemento essenziale di quella dignità inerente (inherent dignity) ad ogni membro della famiglia umana che, secondo il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.

L’overruling si compie con la sentenza dell’11 luglio 2002, “Christine Goodwin c. Regno Unito” (ricorso n. 28957/95). Secondo la Corte è ormai avvenuta l’evoluzione sociale prima menzionata e «Vi è conflitto tra la realtà sociale e il diritto che pone il transessuale in una situazione anomala, suscitandogli sensazioni di vulnerabilità, di umiliazione e di angoscia» (punto 77 della motivazione). Il progresso scientifico non è tuttora in grado di spiegare l’eziologia del transessualismo, ma il doloroso percorso che conduce un transessuale al mutamento di sesso e il livello di determinazione e di convinzione richiesti per cambiare il proprio ruolo sessuale nella società non lasciano dubbi sulla serietà delle motivazioni del transessuale. In quest’ottica, il dibattito scientifico sul transessualismo perde importanza.

A questo punto la Corte introduce il richiamo alla dignità umana e afferma che «la dignità e la libertà dell’uomo costituiscono il nocciolo della Convenzione. In particolare, nel contesto dell’art. 8 della Convenzione, dove la nozione di autonomia personale riflette un importante principio sotteso all’interpretazione delle garanzie di tale disposizione, la sfera personale di ciascun individuo è protetta, compreso il diritto per ciascuno di decidere i particolari della propria identità di essere umano […]. Nel XXI secolo, la facoltà per i transessuali di godere pienamente, al pari dei loro concittadini, del diritto allo sviluppo personale e all’integrità fisica e morale non può essere considerata una questione controversa che richiede del tempo per poter comprendere più chiaramente i problemi in gioco. In sintesi, la situazione insoddisfacente dei transessuali operati, che vivono tra due mondi perché non appartengono effettivamente né ad un sesso né all’altro, non può più durare» (punto 90 della motivazione). In relazione agli inconvenienti pratici che possono derivare dall’adeguamento dei registri delle nascite e dai conseguenti effetti nei vari settori dell’ordinamento, la Corte specifica che si può ragionevolmente esigere dalla società che tolleri alcuni svantaggi onde assicurare a ciascuno di vivere nella dignità e nel rispetto, conformemente all’identità sessuale conseguita al prezzo di grandi patimenti e

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difficoltà66. La Corte esclude infine che lo Stato possa evocare un margine di valutazione in materia e conclude dichiarando la violazione dell’art. 867.

La sentenza dell’11 settembre 2007, “L. c. Lituania” (ricorso n. 27527/03) precisa che dal dovere dello Stato di assicurare il rispetto della vita privata, della dignità umana e della qualità della vita deriva anche l’obbligo di consentire l’operazione chirurgica di modificazione del sesso, mediante una compiuta regolamentazione della medesima.

Diverso, anche se attinente alla tematica del transessualismo, è il caso “Van Kück c. Germania” (ricorso n. 35968/97), deciso con sentenza del 12 giugno 2003. In questo caso la ricorrente lamentava la violazione dell’art. 8, sostenendo che le autorità giurisdizionali tedesche non avessero rispettato la sua identità sessuale68. Secondo la ricorrente, le corti tedesche avevano ricostruito in maniera arbitraria il suo transessualismo e su tale base avevano respinto la sua richiesta di ottenere dalla società di assicurazione il rimborso delle spese mediche sostenute per la terapia ormonale e per l’operazione chirurgica.

La Corte in primis richiama la sua giurisprudenza e ricorda che l’essenza della Convenzione risiede nel rispetto della dignità umana, la cui protezione impone di riconoscere ai transessuali il diritto allo sviluppo della personalità e alla sicurezza fisica e morale. In secondo luogo, stabilisce che nella fattispecie è in gioco la libertà della ricorrente di definirsi donna, aspetto fondamentale dell’autodeterminazione. Sul punto, il giudice di Strasburgo ritiene che effettivamente le autorità giurisdizionali tedesche abbiano considerato in modo inadeguato il transessualismo, come si desume da una serie di circostanze: il Tribunale regionale aveva invitato la ricorrente a sottoporsi a sedute di psicoterapia, come mezzo meno radicale per trattare la sua condizione; nonostante la chiara raccomandazione degli esperti e senza assumere informazioni ulteriori, sia il Tribunale regionale che la Corte d’Appello di Berlino avevano inoltre sindacato la necessità dell’operazione chirurgica; la Corte d’Appello aveva infine sostenuto, senza avvalersi di consulenze mediche, che la ricorrente avesse deliberatamente provocato la sua transessualità. La Corte europea dei diritti dell’uomo reputa questo atteggiamento sproporzionato, nella misura in cui i giudici hanno sostituito la loro visione, non fondata su cognizioni scientifiche, a quella della ricorrente. Ciò implica una scorretta ponderazione tra l’interesse della transessuale e quello della compagnia di assicurazione, con conseguente violazione dell’art. 869.

In definitiva, nella giurisprudenza illustrata la dignità rappresenta il fondamento del diritto all’autodeterminazione ed è strumentale all’estensione della portata applicativa dell’art. 8, al fine di ricavarne un obbligo positivo a carico dello Stato.

7. La dignità come limite alla libertà di espressione (art. 10 CEDU)

66 Questa considerazione è richiamata nella sentenza del 16 novembre 2004, “Ünal Tekeli c.

Turchia” (ricorso n. 29865/96). 67 Identica è la motivazione di una sentenza pubblicata in pari data, resa nel caso “I c. Regno Unito”

(ricorso n. 25680/94). 68 La ricorrente lamentava anche la violazione dell’art. 6 CEDU, su cui non serve soffermarsi. 69 Questa conclusione è censurata dai giudici Cabral Barreto, Hedigan e Greve, che nella loro

dissenting opinion sostengono che il caso non riguardava il rispetto della dignità e del diritto all’identità sessuale dei transessuali, ma il modo in cui i giudici tedeschi si erano pronunciati in merito all’applicazione di alcune clausole del contratto di assicurazione medica, che escludevano il rimborso di cure superflue o riguardanti malattie provocate dallo stesso assicurato.

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La dignità è emersa quale limite alla libertà d’espressione soprattutto in alcune

concurring o dissenting opinion. Preliminarmente va precisato che l’art. 10 CEDU dispone che «Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alla nazionalità. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre le imprese radiotelevisive e di cinema ad un regime di autorizzazioni. L’esercizio di queste libertà, che importano dei doveri e delle responsabilità, può essere subordinato a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni, previste dalla legge, che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la sicurezza pubblica, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei delitti, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti di altri, per impedire la diffusione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». L’elenco dei limiti è molto ampio e la dignità è stata in alcune occasioni richiamata in connessione con la reputazione.

Un primo riferimento si rinviene nella concurring opinion del giudice Thomassen nel caso “Chauvy e altri c. Francia” (ricorso n. 64915/01), deciso con sentenza del 29 giugno 2004. La vicenda riguardava la pubblicazione da parte di Gérard Chauvy di un libro intitolato “Aubrac, Lione 1943”, in cui due esponenti della Resistenza francese, Raymond e Lucie Aubrac, erano tacciati di tradimento. Chauvy, condannato dalle autorità giurisdizionali francesi per il contenuto diffamatorio della sua opera, proponeva ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo ritenendo lesa la sua libertà di espressione. La Corte rigetta il ricorso, sostenendo che le decisioni dei giudici francesi hanno indiscutibilmente difeso la reputazione di Raymond e Lucie Aubrac, scopo legittimo ai sensi dell’art. 10, par. 2, CEDU. Nella sua concurring opinion il giudice Thomassen aderisce a questa conclusione, precisando che il volume di Chauvy non è solo un insieme di congetture ma un’aggressione diretta all’integrità e all’identità di Raymond e Lucie Aubrac, idonea a violare la loro dignità. Aggiunge che è necessario riaffermare il rispetto della dignità umana quale valore primario della Convenzione, da incoraggiare anche con opere storiografiche.

Un secondo riferimento alla dignità è presente nelle dissenting opinion formulate nel caso “Vereinigung Bildender Künstler c. Austria” (ricorso n. 68354/01), deciso con una pronuncia del 25 gennaio 2007, concernente il divieto di esposizione di un quadro che rappresentava diversi personaggi pubblici in atteggiamenti sessuali70. La sentenza sottolinea che il dipinto conteneva solo le foto dei volti dei personaggi pubblici e che questi erano rappresentati in maniera irrealistica ed esagerata. Rileva inoltre che la rappresentazione caricaturale aveva un intento palesemente satirico, finalizzato a colpire il ruolo pubblico dei personaggi raffigurati e non la loro vita privata. La Corte ritiene quindi che il provvedimento inibitorio sia sproporzionato rispetto alla tutela della reputazione del signor Meischberger e non giustificabile ex art. 10, par. 2. Questo esito è contestato dal giudice Loucaides, che nella sua dissenting opinion sostiene che il dipinto non è né artistico né satirico; non trasmette alcun messaggio perché è solo un’insensata combinazione di immagini oscene, che umiliano e ridicolizzano le persone ritratte. Secondo Loucaides, così come la libertà di parola non può comprendere gli insulti, allo

70 Tra i personaggi raffigurati vi erano Madre Teresa, il cardinale austriaco Hermann Groer e alcuni politici, tra cui Jörg Haider e il signor Meischberger. Quest’ultimo aveva chiesto e ottenuto dalle autorità giurisdizionali austriache il divieto di esposizione del dipinto.

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stesso modo la libertà dell’arte non può legittimare dipinti che minino la reputazione o la dignità delle persone, specialmente se non veicolino nessun messaggio e si risolvano in immagini ripugnanti e insensate. Nel caso di specie, il giudice Loucaides evidenzia che il quadro ha leso la reputazione e la dignità del signor Meischberger, in assenza di qualsiasi forma di giustificazione. Di tenore analogo è la joint dissenting opinion dei giudici Spielmann e Jebens, secondo i quali il carattere eccessivo della raffigurazione deriva proprio dal suo attacco alla dignità delle persone rappresentate. Non si tratta, dicono i giudici, di un concetto astratto e indeterminato di dignità umana, che può condurre a frettolose limitazioni dei diritti fondamentali, ma del concetto concreto della “fondamentale dignità personale degli altri”, centrale nel caso in esame71. In sintesi, Spielman e Jebens reputano che le considerazioni addotte dalla Corte debbano essere subordinate al rispetto della dignità umana, che s’impone in ogni occasione e indipendentemente dalla maggiore o minore notorietà del personaggio interessato.

Tali principi sono ribaditi dal giudice Loucaides nella concurring opinion formulata nel caso “Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c. France” (ricorsi nn. 21279/02 e 36448/02), deciso con sentenza del 22 ottobre 200772. Loucaides ritiene che la protezione accordata alla libertà d’espressione sia talvolta così eccessiva da privare il soggetto diffamato di rimedi efficaci. Ribadisce poi che la dignità di una persona richiede una tutela più estesa e diretta contro le accuse false che possono distruggere la sua reputazione.

Interessante è anche la sentenza del 12 settembre 2011, “Palomo Sánchez e altri c. Spagna” (ricorsi nn. 28955/06, 28957/06, 28959/06 e 28964/06)73, in cui la Corte rileva che la libertà d’espressione incontra un limite nel rispetto della dignità e dell’onore e che deve essere tracciata una chiara distinzione tra la critica e l’insulto, essendo quest’ultimo suscettibile di sanzioni.

Nella sentenza e nelle opinion menzionate la dignità ha un ruolo ben diverso da quello svolto nelle altre sentenze, perché opera come fattore di limitazione di altri diritti. Essa è sostanzialmente intesa come reputazione, la quale è esplicitamente indicata come limite alla libertà d’espressione dall’art. 10 CEDU. Si è visto, peraltro (v. supra, cap. II, § 4), che la tutela dell’onore è solo uno degli aspetti della dignità, legato ad un’accezione specifica e che non pone particolari problemi interpretativi.

La dignità è intesa invece in maniera più ampia nella concurring opinion del giudice Zupančič nel caso “PETA Deutschland c. Germania” (ricorso n. 43481/09),

71 Come affermano Spielmann e Jebens, «In our opinion, it was not the abstract or indeterminate

concept of human dignity – a concept which can in itself be dangerous since it may be used as justification for hastily placing unacceptable limitations on fundamental rights – but the concrete concept of “fundamental personal dignity of others” which was central to the debate in the present case, seeing that a photograph of Mr Meischberger was used in a pictorial montage which he felt to be profoundly humiliating and degrading» (punto 9 dell’opinion).

72 Il caso riguarda la condanna per diffamazione dell’autore e dell’editore del romanzo intitolato “Jean-Marie Le Pen a processo”. Nella sentenza la Corte esclude che la condanna abbia violato l’art. 10, avendo tutelato in maniera proporzionata la reputazione di Jean-Marie Le Pen e del Front National.

73 La vicenda concerne il licenziamento di sei lavoratori che avevano pubblicato nella newsletter di un sindacato una vignetta ed alcuni articoli, in cui accusavano due colleghi di aver “venduto” gli altri lavoratori sostenendo le posizioni del datore di lavoro. In particolare, la vignetta rappresentava il direttore delle risorse umane seduto ad una scrivania, sotto la quale c’era una persona carponi; la vignetta raffigurava inoltre due lavoratori della società, che assistevano alla scena e attendevano il loro turno per soddisfare il direttore delle risorse umane. I licenziamenti erano stati ritenuti legittimi dai giudici nazionali. La Corte conferma questo giudizio e precisa che, tenuto conto delle circostanze del caso, la misura del licenziamento non è manifestamente sproporzionata o eccessiva.

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deciso con sentenza dell’8 novembre 2012. La sentenza ha ad oggetto la conformità all’art. 10 del divieto, pronunciato dall’autorità giudiziaria tedesca, di affiggere e diffondere sette manifesti realizzati dall’organizzazione “PETA Deutschland” per promuovere la difesa dei diritti degli animali. I manifesti accostavano immagini di animali allevati in batteria ad immagini di prigionieri dei campi di concentramento nazisti.

Ai fini della risoluzione del caso, la Corte prende in considerazione sia il contesto in cui si inserisce il provvedimento inibitorio sia la sua natura: il recente passato della Germania impone una particolare sensibilità nel valutare immagini che richiamino la Shoah e giustifica l’ingiunzione adottata dalle autorità tedesche; se a ciò si aggiunge che la misura non è una sanzione penale, ma un semplice divieto di pubblicazione, si deve allora propendere, secondo la Corte, per la legittimità dell’ingiunzione. Nel suo ragionamento, il giudice di Strasburgo non fa riferimento alla dignità umana, che è invece invocata dal giudice Zupančič. Nella sua opinion, cui aderisce il giudice Spielmann, si critica l’eccessiva indulgenza della Corte verso i manifesti in esame. Secondo Zupančič l’esito del giudizio è fondato su una relativizzazione della questione, nel senso che la misura interdittiva è ritenuta ammissibile solo in virtù di tutti i fattori indicati dalla Corte. La concurring opinion evidenzia invece che i manifesti censurati strumentalizzano le vittime dei Lager e ne violano la dignità umana. Non importa, quindi, che l’ingiunzione sia stata emanata da tribunali tedeschi o che le persone rappresentate siano Ebrei; la Corte avrebbe dovuto considerare quei manifesti un esercizio abusivo della libertà d’espressione, a prescindere da tutte le altre circostanze.

In realtà, il richiamo del giudice Zupančič alla dignità umana è troppo generico e poco idoneo a fungere da limite alla libertà d’espressione. Sebbene l’art. 10 CEDU parli, con formula ampia, di “protezione della reputazione o dei diritti di altri”, è difficile ricondurvi tale accezione della dignità. Ove la dignità, come limite alla libertà di manifestazione del pensiero, sia slegata dalla protezione dell’onore di singoli individui e sia invece ancorata ad una morale comune o ad un ordine pubblico ideale, diventa difficile controllarne gli usi ed aumenta conseguementemente il rischio di interpretazioni eccessivamente soggettive. Questo problema, già esaminato in relazione all’ordinamento italiano (v. supra, cap. II, § 9.1), induce a dubitare della correttezza della tesi sostenuta nella concurring opinion e ad apprezzare viceversa la prudenza della Corte.

La clausola della “protezione dei diritti di altri” è invece invocata a tutela della dignità umana degli Armeni nella sentenza del 15 ottobre 2015, “Perinçek c. Svizzera” (ricorso n. 27510/08), riguardante un caso di negazionismo74. Nel 2005 Doğu Perinçek,

74 Per un approfondimento della tematica, v. E. FRONZA, Profili penalistici del negazionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1034 ss.; ID., Il reato di negazionismo e la protezione penale della memoria, in Ragion pratica, 2008, 27 ss.; F. GERMINARIO, Estranei alla democrazia. Negazionismo e antisemitismo nella destra radicale italiana, Pisa, 2001; M. MANETTI, Libertà di pensiero e negazionismo, in M. AINIS (a cura di), Informazione, potere, libertà, Torino, 2005, 41 ss.; G. BRAGA, La libertà di manifestazione del pensiero tra revisionismo, negazionismo e verità storica, in M. AINIS (a cura di), Informazione, potere, libertà, cit., 101 ss.; A. DI GIOVINE, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, in Dir. pubbl. comp. eur., 2006, XIII ss.; C. CARUSO, Tra il negare e l’istigare c’è di mezzo il giustificare: su una decisione del Tribunale Costituzionale spagnolo, in Quad. cost., 2008, 635 ss.; E. STRADELLA, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e “prassi”, Torino, 2008; C. VISCONTI, Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, 2008; L. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, Padova, 2009; A. MERLI, Democrazia e diritto penale. Note a margine del dibattito sul cosiddetto negazionismo, Napoli, 2009; P. LOBBA, L’espansione del reato di negazionismo in Europa: dalla protezione dell’Olocausto a quella di tutti i crimini internazionali.

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il ricorrente, aveva dichiarato in tre eventi pubblici che il genocidio degli Armeni era una bugia internazionale, creata dalle potenze imperialiste per dividere l’impero ottomano. Condannato alla sanzione penale del pagamento di una multa, sostituibile con una pena detentiva, Perinçek adiva la Corte di Strasburgo per far constatare la violazione della sua libertà d’espressione e ottenere la condanna delle autorità svizzere. Nell’esaminare la questione, il giudice europeo chiarisce che la condanna di Perinçek costituisce un’interferenza nel suo diritto alla libertà d’espressione e che questa violazione non può essere giustificata dal Governo svizzero invocando la finalità di prevenire disordini o delitti ai sensi dell’art. 10, par. 2, CEDU. Tale scopo deve essere infatti interpretato restrittivamente e va riferito a ipotesi di rivolte o tumulti, che certamente le affermazioni incriminate non erano idonee a provocare.

La condanna è invece riconducibile alla “protezione dei diritti di altri” e precisamente alla difesa della dignità degli Armeni e dei loro antenati, comprensiva dell’identità costruita anche in relazione al genocidio subito a partire dal 1915. Tale posizione è protetta anche dall’art. 8 CEDU, per cui la Corte deve bilanciare la libertà d’espressione con il diritto al rispetto della sfera privata della comunità armena. Per fare ciò, una volta accertata la legittimità dell’obiettivo perseguito dalle autorità svizzere, bisogna verificare che la misura fosse realmente necessaria e proporzionata al perseguimento del fine indicato. Nel compiere uno scrutinio del genere, il giudice di Strasburgo si sofferma dettagliatamente su tutte le circostanze del caso concreto.

La decisione rileva innanzitutto che l’asserzione di Perinçek s’inserisce nel dibattito storico e politico su un argomento d’interesse pubblico e gode, quindi, di una tutela rafforzata ex art. 10. Il ricorrente, peraltro, non ha istigato all’odio né ha manifestato disprezzo verso le vittime del genocidio; non ha qualificato gli Armeni come bugiardi o in altri modi disdicevoli; ha anzi evidenziato che i Turchi e gli Armeni sono vissuti in pace per secoli, prima di essere strumentalizzati dalle potenze imperialiste. Va poi considerato il contesto nel quale le affermazioni sono state pronunciate. Su quest’aspetto, la Corte sottolinea che non c’è collegamento tra la situazione svizzera e gli eventi accaduti dal 1915 in poi nell’impero ottomano e che in Svizzera non si registrano attriti tra la comunità turca e quella armena. Un altro elemento da considerare è il lungo lasso di tempo trascorso dal genocidio: a distanza di quasi novanta anni le vittime di quel crimine, che si sarebbero potute sentire direttamente offese dal discorso del ricorrente, sono ormai pochissime o sono tutte scomparse. Ulteriore fattore di cui tener conto è la portata del danno arrecato da Perinçek alla dignità degli Armeni. Sul punto, la decisione ritiene che la violazione dell’identità degli Armeni non fosse così grave da richiedere sanzioni penali e che non abbia avuto un forte impatto, essendo limitata a tre interventi pubblici. Si deve inoltre ricordare che a livello europeo la problematica del negazionismo è oggetto di discipline molto diverse e che, a differenza di quanto sostenuto dal Governo convenuto, la Svizzera non era obbligata da trattati o da consuetudini internazionali a sanzionare penalmente la negazione di un genocidio. La sentenza sottolinea infine che la pena applicata al ricorrente è particolarmente intensa, potendo comportare la carcerazione.

Osservazioni sulla decisione quadro 2008/913/GAI, in www.eurostudium.uniroma1.it; C. PICIOCCHI, La dignità come rappresentazione giuridica della condizione umana, cit., 68 ss.; M. DELLA MALVA, La storia oggetto del diritto: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero e protezione della democrazia, in www.gruppodipisa.it; M. CAPUTO, La “menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. La criminalizzazione del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di umanità, in www.penalecontemporaneo.it, 7 gennaio 2014.

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In virtù di tutte le circostanze esaminate, e considerato che il comportamento di Perinçek non è classificabile come incitamento all’odio o alla discriminazione, la Corte reputa la sanzione penale comminata al ricorrente sproporzionata rispetto al fine di proteggere la dignità degli Armeni e condanna perciò la Svizzera per la violazione dell’art. 10.

In questa pronuncia la dignità è esplicitamente inclusa tra i beni che giustificano una limitazione della libertà d’espressione, anche se non si tratta di un interesse riferibile a un individuo ma a un gruppo. Al di là delle difficoltà che possono sorgere nel momento in cui la dignità è collegata a un soggetto collettivo75, identificandosi sostanzialmente con l’identità di questo, è condivisibile che il giudice europeo abbia analizzato tutti gli elementi del caso76 e si sia concentrato specialmente sulla concreta offensività della condotta incriminata. Ancor più corretta è la scelta di censurare l’uso dello strumento penalistico per sanzionare un discorso molto diverso da forme di istigazione all’odio razziale o etnico. Il rischio è che il diritto penale diventi il veicolo per l’imposizione di una “verità di Stato”77 o di un ordine pubblico ideale78 e che siano incriminate affermazioni che, per quanto ripugnanti, sono inidonee a determinare pericoli per la sicurezza pubblica, in contrasto con i principi fondanti degli ordinamenti liberali. Da questo punto di vista, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è mossa nella direzione giusta.

8. Dignità umana e discriminazione razziale (art. 14 CEDU) Si è già visto, nelle pronunce “Cipro c. Turchia” e “Moldovan e altri (II) c.

Romania”, il collegamento tra dignità umana, discriminazione e trattamento degradante. Bisogna ora esaminare un arresto in cui la dignità è direttamente richiamata in riferimento all’art. 14 CEDU, che sancisce che «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, sui beni di fortuna, nascita o ogni altra condizione».

Nella sentenza del 6 luglio 2005, “Nachova e altri c. Bulgaria” (ricorsi nn. 43577/98 e 43579/98), la Corte pone in relazione la violazione della dignità umana e la discriminazione. Questa decisione ha ad oggetto l’uccisione di due cittadini bulgari di origine rom da parte della polizia militare, che tentava di arrestarli.

75 Cfr. M. MANETTI, Libertà di pensiero e negazionismo, cit., 49. 76 Come, d’altronde, in altri casi concernenti discorsi negazionisti o di odio. Cfr. M. OETHEIMER,

Art. 10 (Libertà di espressione), in S. BARTOLE – P. DE SENA – V. ZAGREBELSKY (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., trad. it. a cura di E. MARTINELLI, 414.

77 Cfr. M. MANETTI, Libertà di pensiero e negazionismo, cit., 45, secondo cui «La conservazione della memoria, che finora è stata affidata ad iniziative culturali ed educative (sempre meno sentite), viene così catapultata nella dimensione penalistica, quasi a sancire una “verità di Stato” insuscettibile di contestazione; adducendo a giustificazione la natura condivisa di questa verità, suffragata dalle risultanze storiche e resa vincolante dal diritto internazionale».

78 Cfr. M. MANETTI, L’incitamento all’odio razziale tra realizzazione dell’eguaglianza e difesa dello Stato, in AA.VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, cit., vol. II, 519; L. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, cit., 81.

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Su un piano generale, il giudice di Strasburgo evidenzia che la discriminazione consiste nel trattare diversamente, senza un motivo obiettivo e ragionevole, persone che si trovino in situazioni notevolmente similari; in particolare, la discriminazione razziale è un’aggressione alla dignità umana, foriera di pericolose conseguenze e che richiede perciò un’attenzione speciale e una vigorosa reazione delle istituzioni. Queste devono utilizzare tutti i mezzi disponibili per combattere il razzismo e la violenza razzista, così da rafforzare l’idea democratica di una società in cui la diversità non sia percepita come una minaccia ma come una fonte di arricchimento79.

Nella fattispecie, la Corte precisa che gli elementi raccolti non consentono di ritenere inequivocabilmente che le vittime siano state uccise per le loro origini rom, perciò non sussiste la violazione dell’art. 14. Contemporaneamente la Corte rileva però che le autorità bulgare non hanno indagato sufficientemente sull’esistenza di una motivazione razziale alla base delle uccisioni, per cui sotto tale profilo deve riscontrarsi la violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 2.

Il legame tra la dignità umana e il principio di non discriminazione non necessita di ulteriori approfondimenti, essendo stato analizzato nei capitoli precedenti, cui si rinvia (v. supra, cap. II, § 6 e cap. III, § 2).

9. Conclusioni L’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rivela che

neanche in questo caso è possibile rintracciare un concetto unitario di dignità umana. La dignità si scinde in una serie di previsioni particolari, che mutano in base al contesto in cui sono inserite.

Particolarmente rilevante è, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’uso della dignità in funzione del rafforzamento della protezione dei diritti fondamentali. Si è visto come la Corte abbia spesso enucleato da un divieto un obbligo positivo per lo Stato.

Una nozione indeterminata come la dignità ben si presta al ruolo creativo della Corte e all’elaborazione di un diritto giurisprudenziale che, partendo dalle scarne previsioni della Convenzione, ha costruito un sistema elaborato di tutela dei diritti. Questo tasso di creatività giurisprudenziale, spesso problematico negli ordinamenti nazionali, diventa a livello sovranazionale lo strumento istituzionalmente preposto all’evoluzione del diritto derivante dalla CEDU e al suo adattamento al mutare dei tempi.

79 Usando le parole della Corte, «Discrimination is treating differently, without an objective and

reasonable justification, persons in relevantly similar situations […]. Racial violence is a particular affront to human dignity and, in view of its perilous consequences, requires from the authorities special vigilance and a vigorous reaction. It is for this reason that the authorities must use all available means to combat racism and racist violence, thereby reinforcing democracy's vision of a society in which diversity is not perceived as a threat but as a source of enrichment» (punto 145 della motivazione). Tali principi sono applicati anche nelle sentenze del 13 dicembre 2005, “Bekos e Koutropoulos c. Grecia” (ricorso n. 15250/02); del 24 maggio 2007, “Zelilof c. Grecia”; del 26 luglio 2007, “Cobzaru c. Romania” (ricorso n. 48254/99); del 6 dicembre 2007, “Petropoulou-Tsakiris c. Grecia” (ricorso n. 44803/04); del 4 marzo 2008, “Stoica c. Romania” (ricorso n. 42722/02); del 31 luglio 2012, “M. e altri c. Italia e Bulgaria” (ricorso n. 40020/03); del 31 luglio 2012, “Makhashevy c. Russia”; del 2 ottobre 2012, “Virabyan c. Armenia”.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Al termine di questa ricerca, si possono formulare alcune considerazioni finali che riassumano i risultati dell’indagine condotta. L’obiettivo dello studio consisteva nel dimostrare che non si può parlare di un unitario principio di dignità umana e che è invece preferibile declinarlo nei suoi diversi significati e dimensioni.

In effetti, è emerso che dalla dignità derivano conseguenze diverse in relazione al contesto in cui la nozione è inserita e all’interprete che la manipola. In generale, il tasso di creatività aumenta man mano che si passa dal giudice nazionale a quello comunitario, per approdare infine alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si è visto che è illusorio pensare di trarre direttamente dall’idea di dignità soluzioni nei casi controversi, alle quali si può pervenire solo interpretando la nozione alla luce del tessuto normativo di cui è parte.

Si è visto altresì che dalla dignità possono desumersi obblighi di astensione e obblighi di fare: i primi non necessitano di una particolare giustificazione, essendo simili ai tradizionali diritti di libertà; i secondi vanno esaminati caso per caso, per stabilire se un intervento positivo possa essere imposto allo Stato o a un privato. Ricapitolando le diverse applicazioni della dignità umana, si può dire che nell’ordinamento italiano essa svolge le seguenti funzioni:

a) è il fondamento dei diritti inviolabili e trova espressione nel principio personalista (art. 2 Cost.);

b) consente di estendere la portata di diritti già riconosciuti dall’ordinamento, sopratutto nella direzione del superamento della differenza tra cittadini e stranieri in ordine alla titolarità dei diritti sociali;

c) come dignità sociale (art. 3, co. 1, Cost.), è alla base del riconoscimento dei diritti a prestazione e impone allo Stato la realizzazione di un sistema di sicurezza sociale, la cui strutturazione è però rimessa alla discrezionalità del legislatore. In quest’accezione, la dignità costituisce anche il fondamento e nello stesso tempo il limite delle azioni positive;

d) indica la misura della retribuzione del lavoratore (art. 36, co. 1, Cost.), nel senso che l’entità del compenso del prestatore deve essere tale da assicurare a lui e alla sua famiglia un tenore di vita normale e non solo la soddisfazione delle funzioni vitali primarie. In tal caso, l’obbligo di fare non grava in capo allo Stato, ma ad un privato (il datore di lavoro);

e) limita l’iniziativa economica privata (art. 41, co. 2, Cost.), sia vietando atti lesivi della dignità sia obbligando in positivo l’imprenditore ad adottare tutte le cautele necessarie per evitare violazioni della dignità dei dipendenti e di terzi, come nel caso del mobbing. Ciò consente di qualificare l’iniziativa economica privata come libertà funzionale;

f) opera come principio di umanizzazione della pena (art. 27, co. 3, Cost.), che obbliga lo Stato ad attuare condizioni detentive dignitose;

g) in materia di trattamenti sanitari, è sinonimo del diritto all’autodeterminazione terapeutica (art. 32, co. 2, Cost.);

244

h) è utilizzata dalla Corte costituzionale come argomento retorico per il riconoscimento di diritti o istituti già riconducibili a specifiche previsioni costituzionali, come il diritto all’identità sessuale e alla libertà sessuale, la protezione delle minoranze linguistiche, la decisione di avere o meno un figlio. In alcune circostanze, è invocata come fonte di “nuovi diritti”, ma questa ricostruzione non è condivisibile;

i) limita la libertà di manifestazione del pensiero, ma solo nella direzione della protezione dell’onore individuale e del buon costume inteso come pudore sessuale;

l) è un criterio di selezione delle misure limitative della libertà personale, nel senso che la sua violazione determina l’applicazione delle garanzie previste dall’art. 13 Cost. Va però precisato che questo criterio non è usato in maniera univoca dal giudice costituzionale;

m) consente di derogare al criterio di riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni. Tale funzione desta tuttavia molte perplessità, alla luce del dettato dell’art. 117 Cost.;

n) in qualità di “controlimite”, impedisce l’ingresso nell’ordinamento di norme con essa contrastanti.

A livello di Unione europea, la dignità umana svolge invece le seguenti funzioni: a) rafforza la portata del principio di non discriminazione, soprattutto nell’ambito

dei rapporti fra privati; b) limita le libertà economiche funzionali all’esistenza del mercato interno, seppure

all’esito di un bilanciamento tra interessi contrapposti e tenuto conto della proporzionalità della misura restrittiva;

c) tutela l’integrità genetica dell’uomo e giustifica il divieto di brevettabilità del corpo umano, dell’embrione e, in generale, di ogni cellula che dia avvio al processo di sviluppo dell’essere umano;

d) impone allo Stato di assicurare ai richiedenti asilo condizioni di vita dignitose. Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, infine, la dignità

svolge queste funzioni: a) obbliga lo Stato a proteggere la vita dei suoi consociati (art. 2 CEDU). La

garanzia si estende alla vita prenatale, senza però che ciò comporti la qualifica di “persone” dell’embrione e del feto;

b) è alla base del divieto di tortura e di trattamenti degradanti (art. 3 CEDU). Dall’art. 3 deriva anche l’obbligo positivo dello Stato di proteggere la dignità delle persone soggette alla sua giurisdizione in tutti i casi e in tutti gli ambiti in cui potrebbe essere violata;

c) è un elemento definitorio della tratta di esseri umani, proibita dall’art. 4 CEDU; d) è il fondamento del diritto all’autodeterminazione (art. 8 CEDU) in materia di

fine vita, in tema di procreazione assistita e in relazione all’identità sessuale. Bisogna però chiarire che nei primi due ambiti citati l’ampiezza del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione è rimessa alla discrezionalità dello Stato;

e) limita la libertà di espressione (art. 10 CEDU) in funzione della tutela dell’onore e della reputazione di singoli individui o della protezione di identità collettive;

f) è una componente del divieto di discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU. Come si può notare, nel momento in cui si passa dall’ordinamento nazionale a

quello dell’Unione europea e poi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il concetto diventa più generico e meno traducibile in regole determinate, favorendo la sua manipolazione da parte dell’interprete.

245

Un’ulteriore questione è legata al modo d’intendere la dignità, che può essere oggettivo o soggettivo: nel primo caso essa vincola anche il soggetto che ne è titolare e può determinare la restrizione dell’autonomia personale; nel secondo caso è assimilabile a un diritto e, in qualche modo, costituisce il fondamento dell’autonomia del singolo. Connessa a quest’alternativa è quella della ponderabilità o meno della dignità con i diritti potenzialmente in contrasto: secondo alcune affermazioni, dottrinali e giurisprudenziali, la dignità è sottratta al bilanciamento e deve sempre prevalere su ogni esigenza contrastante; secondo un’altra tesi, la dignità è invece sottoposta al bilanciamento. Al di là delle statuizioni di principio, questo secondo atteggiamento sembra prevalente nelle soluzioni che i giudici forniscono nei casi concreti.

Non mancano infine ipotesi estreme in cui la dignità è una sorta di precipitato del diritto naturale1 e opera come nucleo minimo e intangibile dei principi supremi di uno Stato, inattaccabile da qualsiasi regola potenzialmente in conflitto. È il caso dei “controlimiti”, da invocare con estrema cautela, data la loro portata dirompente.

In definitiva, al di là di un minimum core2 identificabile con i principi fondamentali comuni ai vari ordinamenti costituzionali, le molteplici sfaccettature della dignità non possono essere ricondotte a un principio unico e univoco e forse proprio questa poliedricità rappresenta il significato ultimo della dignità umana, che resta un concetto sfuggente e solo parzialmente riducibile a elemento normativo di diritto positivo.

1 Cfr. P.G. CAROZZA, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights: A Reply, in The

European Journal of International Law, 2008, 933. Si dissente tuttavia dall’Autore nella misura in cui configura la dignità umana come una clausola di richiamo permanente al diritto naturale, da usare in ogni circostanza. Come si precisa nel testo, ciò è ammissibile solo in pochissime e ben circostanziate ipotesi.

2 Cfr. C. MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, cit., 675 ss.; A. SPERTI, Una riflessione sulle ragioni del recente successo della dignità nell’argomentazione giudiziale, cit.

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Sentenza 19 dicembre 1962, n. 106 1963 Sentenza 9 aprile 1963, n. 46 Sentenza 9 luglio 1963, n. 121 Sentenza 9 luglio 1963, n. 125 Sentenza 13 luglio 1963, n. 129 1964 Sentenza 14 marzo 1964, n. 21 Sentenza 16 giugno 1964, n. 44 Sentenza 30 giugno 1964, n. 68 1965 Sentenza 19 febbraio 1965, n. 9 Sentenza 27 dicembre 1965, n. 98 1966 Sentenza 12 febbraio 1966, n. 12 Sentenza 10 marzo 1966, n. 18 Sentenza 23 marzo 1966, n. 26 Sentenza 19 dicembre 1966, n. 122 1967 Sentenza 9 marzo 1967, n. 26 Sentenza 24 aprile 1967, n. 51 Sentenza 24 aprile 1967, n. 52 Sentenza 8 luglio 1967, n. 101 Sentenza 12 luglio 1967, n. 107 Sentenza 15 dicembre 1967, n. 151 1968 Sentenza 23 marzo 1968, n. 11 Sentenza 28 marzo 1968, n. 16 Sentenza 6 giugno 1968, n. 57 Sentenza 27 giugno 1968, n. 74 Sentenza 27 giugno 1968, n. 75 Sentenza 10 luglio 1968, n. 98 Sentenza 19 luglio 1968, n. 109 Sentenza 9 dicembre 1968, n. 124 Sentenza 19 dicembre 1968, n. 126 Sentenza 19 dicembre 1968, n. 127

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1969 Sentenza 24 gennaio 1969, n. 1 Sentenza 5 marzo 1969, n. 27 Sentenza 5 marzo 1969, n. 28 Sentenza 21 marzo 1969, n. 37 1970 Sentenza 4 febbraio 1970, n. 12 Sentenza 23 marzo 1970, n. 43 Sentenza 10 giugno 1970, n. 88 Sentenza 6 luglio 1970, n. 114 Sentenza 9 luglio 1970, n. 122 Sentenza 16 luglio 1970, n. 144 Sentenza 16 dicembre 1970, n. 191 1971 Sentenza 2 febbraio 1971, n. 10 Sentenza 5 aprile 1971, n. 70 Sentenza 22 giugno 1971, n. 137 Sentenza 6 luglio 1971, n. 156 1972 Sentenza 18 maggio 1972, n. 93 1973 Sentenza 12 aprile 1973, n. 38 Sentenza 9 maggio 1973, n. 57 Sentenza 19 giugno 1973, n. 82 Sentenza 18 luglio 1973, n. 147 Sentenza 21 novembre 1973, n. 159 1974 Sentenza 13 febbraio 1974, n. 33 Sentenza 23 aprile 1974, n. 111 1975 Sentenza 5 febbraio 1975, n. 22 Sentenza 12 marzo 1975, n. 56 Sentenza 16 aprile 1975, n. 87 Sentenza 7 maggio 1975, n. 102

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Sentenza 15 luglio 1975, n. 209 Sentenza 30 ottobre 1975, n. 237 Sentenza 17 dicembre 1975, n. 238 1976 Sentenza 22 gennaio 1976, n. 17 Sentenza 8 aprile 1976, n. 69 Sentenza 28 aprile 1976, n. 94 Sentenza 7 luglio 1976, n. 163 Sentenza 15 luglio 1976, n. 179 Sentenza 22 luglio 1976, n. 181 Sentenza 14 luglio 1976, n. 189 1979 Sentenza 4 luglio 1979, n. 55 Sentenza 1 agosto 1979, n. 98 Sentenza 6 dicembre 1979, n. 141 1980 Sentenza 15 febbraio 1980, n. 14 Sentenza 15 febbraio 1980, n. 20 Sentenza 13 marzo 1980, n. 26 Sentenza 25 giugno 1980, n. 99 Sentenza 30 luglio 1980, n. 141 Sentenza 22 dicembre 1980, n. 176 Sentenza 22 dicembre 1980, n. 188 Sentenza 22 dicembre 1980, n. 189 1981 Sentenza 10 febbraio 1981, n. 11 Sentenza 10 febbraio 1981, n. 17 Sentenza 8 giugno 1981, n. 100 1982 Sentenza 22 dicembre 1982, n. 227 Sentenza 22 dicembre 1982, n. 229 1983 Sentenza 10 marzo 1983, n. 46 Sentenza 7 aprile 1983, n. 83 Ordinanza 22 giugno 1983, n. 184 Sentenza 21 luglio 1983, n. 224

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Sentenza 21 luglio 1983, n. 229 Sentenza 28 luglio 1983, n. 252 1984 Sentenza 4 maggio 1984, n. 137 Sentenza 8 giugno 1984, n. 168 Sentenza 20 giugno 1984, n. 177 Sentenza 28 dicembre 1984, n. 300 1985 Sentenza 13 febbraio 1985, n. 37 Sentenza 1 aprile 1985, n. 94 Sentenza 6 maggio 1985, n. 132 Sentenza 23 maggio 1985, n. 161 Sentenza 17 dicembre 1985, n. 349 Sentenza 21 dicembre 1985, n. 359 1986 Sentenza 14 gennaio 1986, n. 1 Sentenza 14 gennaio 1986, n. 2 Sentenza 3 marzo 1986, n. 39 Sentenza 3 marzo 1986, n. 42 Sentenza 24 marzo 1986, n. 54 Sentenza 18 giugno 1986, n. 137 Sentenza 27 giugno 1986, n. 151 Sentenza 7 luglio 1986, n. 173 Sentenza 14 luglio 1986, n. 184 Sentenza 18 luglio 1986, n. 200 Sentenza 28 novembre 1986, n. 248 Sentenza 31 dicembre 1986, n. 300 1987 Sentenza 17 febbraio 1987, n. 49 Sentenza 13 maggio 1987, n. 153 Sentenza 15 maggio 1987, n. 167 Sentenza 28 maggio 1987, n. 210 Sentenza 8 giugno 1987, n. 215 Sentenza 23 luglio 1987, n. 283 Sentenza 22 ottobre 1987, n. 314 Sentenza 10 dicembre 1987, n. 479 Sentenza 18 dicembre 1987, n. 559 Sentenza 18 dicembre 1987, n. 561 Sentenza 30 dicembre 1987, n. 617 Sentenza 30 dicembre 1987, n. 641

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1988 Ordinanza 2 febbraio 1988, n. 134 Sentenza 18 febbraio 1988, n. 183 Sentenza 25 febbraio 1988, n. 211 Sentenza 25 febbraio 1988, n. 217 Sentenza 25 febbraio 1988, n. 220 Sentenza 24 marzo 1988, n. 364 Sentenza 7 aprile 1988, n. 404 Sentenza 27 aprile 1988, n. 497 Sentenza 5 maggio 1988, n. 501 Sentenza 7 luglio 1988, n. 766 Sentenza 14 luglio 1988, n. 826 Sentenza 26 luglio 1988, n. 878 Sentenza 28 luglio 1988, n. 926 Sentenza 3 novembre 1988, n. 1008 Sentenza 30 novembre 1988, n. 1041 Sentenza 13 dicembre 1988, n. 1089 1989 Sentenza 9 marzo 1989, n. 103 Sentenza 12 aprile 1989, n. 181 Sentenza 18 maggio 1989, n. 252 Sentenza 26 maggio 1989, n. 310 Sentenza 6 giugno 1989, n. 319 Sentenza 22 giugno 1989, n. 346 Sentenza 25 luglio 1989, n. 427 Sentenza 25 ottobre 1989, n. 487 Sentenza 20 dicembre 1989, n. 559 Sentenza 22 dicembre 1989, n. 567 Sentenza 22 dicembre 1989, n. 571 Sentenza 29 dicembre 1989, n. 586 1990 Sentenza 26 gennaio 1990, n. 29 Sentenza 26 marzo 1990, n. 139 Sentenza 31 maggio 1990, n. 278 Sentenza 22 giugno 1990, n. 307 Sentenza 22 giugno 1990, n. 308 Sentenza 16 ottobre 1990, n. 455 Sentenza 22 ottobre 1990, n. 471 Sentenza 3 dicembre 1990, n. 531 1991

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Sentenza 9 gennaio 1991, n. 1 Sentenza 24 gennaio 1991, n. 22 Sentenza 24 gennaio 1991, n. 30 Sentenza 6 febbraio 1991, n. 48 Sentenza 8 febbraio 1991, n. 63 Sentenza 8 febbraio 1991, n. 71 Sentenza 15 marzo 1991, n. 119 Sentenza 18 aprile 1991, n. 167 Sentenza 23 luglio 1991, n. 366 Sentenza 19 novembre 1991, n. 414 Sentenza 9 dicembre 1991, n. 439 Sentenza 19 dicembre 1991, n. 467 1992 Sentenza 5 febbraio 1992, n. 37 Sentenza 5 febbraio 1992, n. 45 Sentenza 18 febbraio 1992, n. 49 Sentenza 27 marzo 1992, n. 132 Sentenza 11 maggio 1992, n. 210 Sentenza 17 giugno 1992, n. 278 Sentenza 1 luglio 1992, n. 307 Sentenza 1 luglio 1992, n. 309 Sentenza 27 luglio 1992, n. 368 Sentenza 29 luglio 1992, n. 381 1993 Sentenza 10 febbraio 1993, n. 42 Sentenza 11 marzo 1993, n. 81 Sentenza 15 marzo 1993, n. 88 Sentenza 26 marzo 1993, n. 109 Sentenza 26 marzo 1993, n. 112 Sentenza 29 marzo 1993, n. 121 Sentenza 23 aprile 1993, n. 184 Sentenza 27 aprile 1993, n. 194 Sentenza 7 maggio 1993, n. 226 Sentenza 13 maggio 1993, 235 Sentenza 19 maggio 1993, n. 243 Sentenza 28 luglio 1993, n. 343 Sentenza 14 dicembre 1993, n. 431 Sentenza 16 dicembre 1993, n. 440 1994 Sentenza 3 febbraio 1994, n. 13 Sentenza 28 aprile 1994, n. 164 Sentenza 5 maggio 1994, n. 169

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Sentenza 16 maggio 1994, n. 180 Sentenza 19 maggio 1994, n. 193 Sentenza 2 giugno 1994, n. 218 Sentenza 23 giugno 1994, n. 258 Sentenza 15 luglio 1994, n. 304 Sentenza 20 luglio 1994, n. 319 Sentenza 7 dicembre 1994, n. 419 Sentenza 30 dicembre 1994, n. 463 1995 Sentenza 19 gennaio 1995, n. 15 Sentenza 31 maggio 1995, n. 210 Sentenza 1 giugno 1995, n. 220 Sentenza 27 luglio 1995, n. 409 Sentenza 12 settembre 1995, n. 422 Sentenza 12 settembre 1995, n. 427 Sentenza 12 settembre 1995, n. 429 Sentenza 24 ottobre 1995, n. 447 1996 Sentenza 29 gennaio 1996, n. 15 Sentenza 18 aprile 1996, n. 118 Sentenza 24 maggio 1996, n. 165 Sentenza 31 maggio 1996, n. 186 Sentenza 12 giugno 1996, n. 194 Sentenza 27 giugno 1996, n. 223 Sentenza 9 luglio 1996, n. 238 Sentenza 18 luglio 1996, n. 256 Sentenza 19 luglio 1996, n. 257 Sentenza 22 luglio 1996, n. 270 Sentenza 23 luglio 1996, n. 297 Sentenza 23 luglio 1996, n. 302 Sentenza 24 luglio 1996, n. 303 Sentenza 25 luglio 1996, n. 312 Sentenza 8 ottobre 1996, n. 334 Sentenza 2 novembre 1996, n. 379 Sentenza 5 novembre 1996, n. 382 1997 Sentenza 10 febbraio 1997, n. 35 Sentenza 22 aprile 1997, n. 109 Sentenza 4 giugno 1997, n. 161 Sentenza 26 giugno 1997, n. 203 Sentenza 30 luglio 1997, n. 283 Sentenza 14 novembre 1997, n. 329

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Sentenza 5 dicembre 1997, n. 376 Sentenza 23 dicembre 1997, n. 434 1998 Sentenza 26 febbraio 1998, n. 27 Sentenza 12 marzo 1998, n. 50 Sentenza 1 aprile 1998, n. 85 Sentenza 26 maggio 1998, n. 185 Sentenza 17 luglio 1998, n. 267 Sentenza 17 luglio 1998, n. 268 Sentenza 24 luglio 1998, n. 324 Sentenza 26 settembre 1998, n. 347 Sentenza 27 novembre 1998, n. 383 Sentenza 4 dicembre 1998, n. 394 1999 Sentenza 11 febbraio 1999, n. 26 Sentenza 2 aprile 1999, n. 119 Sentenza 10 maggio 1999, n. 167 Sentenza 16 luglio 1999, n. 309 Sentenza 20 luglio 1999, n. 330 Sentenza 7 ottobre 1999, n. 380 Sentenza 22 ottobre 1999, n. 388 Sentenza 22 ottobre 1999, n. 390 Sentenza 4 novembre 1999, n. 417 2000 Sentenza 22 giugno 2000, n. 226 Sentenza 11 luglio 2000, n. 263 Sentenza 17 luglio 2000, n. 293 Sentenza 13 ottobre 2000, n. 419 Sentenza 16 ottobre 2000, n. 423 Sentenza 2 novembre 2000, n. 459 Sentenza 20 novembre 2000, n. 509 Ordinanza 21 novembre 2000, n. 522 Sentenza 22 novembre 2000, n. 526 Sentenza 23 novembre 2000, n. 532 2001 Sentenza 22 marzo 2001, n. 73 Sentenza 10 aprile 2001, n. 105 Sentenza 22 maggio 2001, n. 158 Sentenza 17 luglio 2001, n. 252

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2002 Sentenza 6 marzo 2002, n. 38 Ordinanza 5 aprile 2002, n. 92 Sentenza 26 giugno 2002, n. 282 Sentenza 17 luglio 2002, n. 354 Sentenza 26 luglio 2002, n. 407 Sentenza 12 novembre 2002, n. 445 Sentenza 22 novembre 2002, n. 467 Sentenza 22 novembre 2002, n. 470 Sentenza 26 novembre 2002, n. 476 Sentenza 28 novembre 2002, n. 494 Sentenza 4 dicembre 2002, n. 506 Sentenza 18 dicembre 2002, n. 529 2003 Sentenza 13 febbraio 2003, n. 49 Sentenza 27 marzo 2003, n. 82 Sentenza 27 marzo 2003, n. 87 Sentenza 29 settembre 2003, n. 300 Sentenza 19 dicembre 2003, n. 359 2004 Sentenza 23 gennaio 2004, n. 30 Sentenza 6 aprile 2004, n. 113 Sentenza 28 giugno 2004, n. 196 2005 Sentenza 29 gennaio 2005, n. 63 Sentenza 18 marzo 2005, n. 111 Sentenza 2 dicembre 2005, n. 432 2006 Sentenza 16 febbraio 2006, n. 61 Sentenza 4 luglio 2006, n. 255 Sentenza 14 luglio 2006, n. 287 Sentenza 27 ottobre 2006, n. 341 Sentenza 27 ottobre 2006, n. 342 Sentenza 9 novembre 2006, n. 366 2007 Ordinanza 19 gennaio 2007, n. 4 Sentenza 16 marzo 2007, n. 78

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Sentenza 21 marzo 2007, n. 94 Sentenza 8 maggio 2007, n. 158 Sentenza 8 maggio 2007, n. 162 Sentenza 7 novembre 2007, n. 367 Sentenza 14 novembre 2007, n. 380 Sentenza 23 novembre 2007, n. 390 2008 Sentenza 14 marzo 2008, n. 62 Sentenza 18 aprile 2008, n. 104 Sentenza 23 maggio 2008, n. 166 Sentenza 20 giugno 2008, n. 225 Sentenza 27 giugno 2008, n. 232 Sentenza 4 luglio 2008, n. 251 Ordinanza 8 ottobre 2008, n. 334 Sentenza 31 ottobre 2008, n. 354 Sentenza 23 dicembre 2008, n. 438 2009 Sentenza 23 gennaio 2009, n. 12 Ordinanza 18 febbraio 2009, n. 49 Sentenza 8 maggio 2009, n. 151 Sentenza 9 luglio 2009, n. 209 Sentenza 22 luglio 2009, n. 226 Sentenza 23 ottobre 2009, n. 266 Sentenza 29 ottobre 2009, n. 272 2010 Sentenza 14 gennaio 2010, n. 4 Sentenza 15 gennaio 2010, n. 10 Sentenza 15 aprile 2010, n. 138 Sentenza 22 luglio 2010, n. 269 Sentenza 22 luglio 2010, n. 270 Sentenza 22 ottobre 2010, n. 299 Sentenza 11 novembre 2010, n. 315 Sentenza 11 novembre 2010, n. 316 2011 Sentenza 25 febbraio 2011, n. 61 Sentenza 11 marzo 2011, n. 82 Sentenza 25 luglio 2011, n. 244 Sentenza 25 luglio 2011, n. 245 2012

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Sentenza 26 aprile 2012, n. 107 Sentenza 10 maggio 2012, n. 115 Sentenza 6 luglio 2012, n. 171 Sentenza 20 luglio 2012, n. 200 Sentenza 11 ottobre 2012, n. 223 Sentenza 6 dicembre 2012, n. 275 Sentenza 12 dicembre 2012, n. 278 2013 Sentenza 23 gennaio 2013, n. 9 Sentenza 5 aprile 2013, n. 62 Sentenza 9 maggio 2013, n. 85 Sentenza 7 giugno 2013, n. 135 Sentenza 20 giugno 2013, n. 145 Sentenza 12 luglio 2013, n. 188 Sentenza 24 ottobre 2013, n. 246 Sentenza 22 novembre 2013, n. 279 Sentenza 12 dicembre 2013, 304 Sentenza 17 dicembre 2013, n. 310 Sentenza 17 dicembre 2013, n. 313 2014 Sentenza 7 maggio 2014, n. 115 Sentenza 4 giugno 2014, n. 154 Sentenza 10 giugno 2014, n. 162 Sentenza 11 giugno 2014, n. 168 Sentenza 16 luglio 2014, n. 208 Sentenza 18 luglio 2014, n. 221 Sentenza 22 ottobre 2014, n. 238 Sentenza 26 novembre 2014, n. 265 2015 Sentenza 26 marzo 2015, n. 51 Sentenza 30 aprile 2015, n. 70 Sentenza 28 maggio 2015, n. 94 Sentenza 5 giugno 2015, n. 96 Sentenza 23 luglio 2015, n. 178 CORTE DI CASSAZIONE Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 1994, n. 1903

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Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748 Cass. civ., sez. lav., 31 gennaio 2012, n. 1415 Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 2012, n. 9969 GIUDICI DI MERITO Corte d’Appello de L’Aquila, 24 ottobre 1950 Pretura di Bologna, 20 novembre 1990 Tribunale di Lecco, 2 marzo 1999 Corte d’Appello di Milano, 31 dicembre 1999 Tribunale di Lecco, 20 luglio 2002 Corte d’Appello di Milano, 18 dicembre 2003 Tribunale di Lecco, 2 febbraio 2006 Corte d’Appello di Milano, 16 dicembre 2006 Tribunale di Roma, 16 dicembre 2006 Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, 7 giugno 2007 Tribunale di Sassari, 16 luglio 2007 Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma, 23 luglio – 17 ottobre

2007 Corte d’Appello di Milano, 9 luglio 2008 Tribunale di Modena, 5 novembre 2008 Tribunale di Firenze, 22 dicembre 2010 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Sentenza del 3 luglio 1974 (causa C-9/74, “Casagrande”) Sentenza del 13 luglio 1983 (causa C-152/82, “Forcheri”) Sentenza del 13 novembre 1990 (causa C-308/89, “Carmina di Leo c. Land Berlin”) Sentenza del 30 aprile 1996 (causa C-13/94, “P. c. S. e Cornwall County Council”) Sentenza del 9 luglio 1997 (cause riunite C-34/95, C-35/95, C-36/95, “De Agostini”) Sentenza dell’11 aprile 2000 (causa C-356/98, “Arben Kaba”) Sentenza del 9 ottobre 2001 (causa C-377/98, “Regno dei Paesi Bassi c. Parlamento

europeo Consiglio dell’Unione europea”) Sentenza del 17 settembre 2002 (causa C-413/99, “Baumbast”) Sentenza del 12 giugno 2003 (causa C-112/00, “Schmidberger”) Sentenza del 14 ottobre 2004 (causa C-36/02, “Omega”) Sentenza dell’11 dicembre 2007 (causa C-438/05, “Viking”) Sentenza del 18 dicembre 2007 (causa C-341/05, “Laval”) Sentenza del 14 febbraio 2008 (causa C-244/06, “Dynamic Medien”) Sentenza del 3 aprile 2008 (causa C-346/06, “Rüffert”) Sentenza del 17 luglio 2008 (causa C-303/06, “S. Coleman c. Attridge Law”)

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Sentenza del 5 aprile 2011 (causa C-119/09, “Société fiduciaire nationale d’expertise comptable”)

Sentenza del 28 aprile 2011 (causa C-61/11, “Hassen El Dridi”) Sentenza del 18 ottobre 2011 (causa C-34/10, “Brüstle c. Greenpeace”) Sentenza del 27 settembre 2012 (causa C-179/11, “Cimade e GISTI”) Sentenza del 27 febbraio 2014 (causa C-97/13, “Federal agentschap voor de opvang van

asielzoekers”) Sentenza del 18 dicembre 2014 (causa C-364/13, “International Stem Cell

Corporation”) CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO Sentenza del 18 gennaio 1978, “Irlanda c. Regno Unito” (ricorso n. 5310/71) Sentenza del 25 aprile 1978, “Tyrer c. Regno Unito” (ricorso n. 5856/72) Sentenza del 17 ottobre 1986, “Rees c. Regno Unito” (ricorso n. 9532/81) Sentenza del 29 marzo 1989, “Bock c. Germania” (ricorso n. 11118/84) Sentenza del 27 settembre 1990, “Cossey c. Regno Unito” (ricorso n. 10843/84) Sentenza del 27 agosto 1992, “Tomasi c. Francia” (ricorso n. 12850/87) Sentenza del 25 marzo 1993, “Costello-Roberts c. Regno Unito” (ricorso n. 13134/87) Sentenza del 22 novembre 1995, “S.W. c. Regno Unito” (ricorso n. 20166/92) Sentenza del 22 novembre 1995, “C.R. c. Regno Unito” (ricorso n. 20190/92) Sentenza del 4 dicembre 1995, “Ribitsch c. Austria” (ricorso n. 18896/91) Sentenza del 29 aprile 1997, “H.L.R. c. Francia” (ricorso n. 24573/94) Sentenza del 16 dicembre 1997, “Raninen c. Finlandia” (ricorso n. 20972/92) Sentenza del 9 giugno 1998, “Tekin c. Turchia”, (ricorso n. 22496/93) Sentenza del 30 luglio 1998, “Sheffield e Horsham c. Regno Unito” (ricorsi nn.

22985/93 e 23390/94) Sentenza del 23 settembre 1998, “A. c. Regno Unito” (ricorso n. 25599/94) Sentenza del 28 ottobre 1998, “Assenov e altri c. Bulgaria” (ricorso n. 24760/94) Sentenza del 28 luglio 1999, “Selmouni c. Francia” (ricorso n. 25803/94) Sentenza del 6 aprile 2000, “Labita c. Italia” (ricorso n. 26772/95) Sentenza dell’11 aprile 2000, “Sevtap Veznedaroğlu c. Turchia” (ricorso n. 32357/96) Sentenza dell’11 luglio 2000, “Dikme c. Turchia” (ricorso n. 20869/92) Sentenza del 20 luglio 2000, “Caloc c. Francia” (ricorso n. 33951/96) Sentenza del 10 ottobre 2000, “Satik e altri c. Turchia” (ricorso n. 31866/96) Sentenza del 26 ottobre 2000, “Kudła c. Polonia” (ricorso n. 30210/96) Sentenza del 19 aprile 2001, “Peers c. Grecia” (ricorso n. 28524/95) Sentenza del 10 maggio 2001, “Cipro c. Turchia” (ricorso n. 25781/94) Sentenza del 24 luglio 2001, “Valašinas c. Lituania” (ricorso n. 44558/98) Sentenza del 15 novembre 2001, “Iwańczuk c. Polonia” (ricorso n. 25196/94) Sentenza del 29 aprile 2002, “Pretty c. Regno Unito” (ricorso n. 2346/02) Sentenza del 20 giugno 2002, “Berliński c. Polonia” (ricorsi nn. 27715/95 e 30209/96) Sentenza dell’11 luglio 2002, “I c. Regno Unito” (ricorso n. 25680/94)

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Sentenza dell’11 luglio 2002, “Christine Goodwin c. Regno Unito” (ricorso n. 28957/95)

Sentenza del 15 luglio 2002, “Kalashnikov c. Russia” (ricorso n. 47095/99) Sentenza del 14 novembre 2002, “Mouisel c. Francia” (ricorso n. 67263/01) Sentenza del 4 febbraio 2003, “Van der Ven c. Paesi Bassi” (ricorso n. 50901/99) Sentenza del 4 febbraio 2003, “Lorsé e altri c. Paesi Bassi” (ricorso n. 52750/99) Sentenza del 24 aprile 2003, “Aktaş c. Turchia” (ricorso n. 24351/94) Sentenza del 29 aprile 2003, “Poltoratskiy c. Ucraina” (ricorso n. 38812/97) Sentenza del 29 aprile 2003, “Nazarenko c. Ucraina” (ricorso n. 39483/98) Sentenza del 29 aprile 2003, “Dankevich c. Ucraina” (ricorso n. 40679/98) Sentenza del 29 aprile 2003, “Aliev c. Ucraina” (ricorso n. 41220/98) Sentenza del 29 aprile 2003, “Khokhlich c. Ucraina” (ricorso n. 41707/98) Sentenza del 29 aprile 2003, “McGlinchey e altri c. Regno Unito” (ricorso n. 50390/99) Sentenza del 12 giugno 2003, “Van Kück c. Germania” (ricorso n. 35968/97) Sentenza del 13 novembre 2003, “Elci e altri c. Turchia” (ricorsi nn. 23145/93 e

25091/94) Sentenza dell’11 dicembre 2003, “Yankov c. Bulgaria” (ricorso n. 39084/97) Sentenza del 16 dicembre 2003, “Kmetty c. Ungheria” (ricorso n. 57967/00) Sentenza dell’11 marzo 2004, “Iorgov c. Bulgaria” (ricorso n. 40653/98) Sentenza dell’11 marzo 2004, “G.B. c. Bulgaria” (ricorso n. 42346/98) Sentenza del 6 aprile 2004, “Ahmet Özkan e altri c. Turchia” (ricorso n. 21689/93) Sentenza del 19 maggio 2004, “Toteva c. Bulgaria” (ricorso n. 42027/98) Sentenza del 3 giugno 2004, “Bati e altri c. Turchia” (ricorsi nn. 33097/96 e 57834/00) Sentenza del 29 giugno 2004, “Chauvy e altri c. Francia” (ricorso n. 64915/01) Sentenza dell’8 luglio 2004, “Ilaşcu e altri c. Moldavia e Russia” (ricorso n. 48787/99) Sentenza dell’8 luglio 2004, “Vo c. Francia” (ricorso n. 53924/00) Sentenza del 20 luglio 2004, “Balogh c. Ungheria” (ricorso n. 47940/99) Sentenza del 27 luglio 2004, “Slimani c. Francia” (ricorso n. 57671/00) Sentenza del 16 novembre 2004, “Ünal Tekeli c. Turchia” (ricorso n. 29865/96) Sentenza del 14 dicembre 2004, “Gelfmann c. Francia” (ricorso n. 25875/03) Sentenza del 18 gennaio 2005, “Kehayov c. Bulgaria” (ricorso n. 41035/98) Sentenza del 20 gennaio 2005, “Mayzit c. Russia” (ricorso n. 63378/00) Sentenza del 5 aprile 2005, “Nevmerzhitsky c. Ucraina” (ricorso n. 54825/00) Sentenza del 5 aprile 2005, “Afanasyev c. Ucraina” (ricorso n. 38722/02) Sentenza del 7 aprile 2005, “Karalevičius c. Lituania” (ricorso n. 53254/99) Sentenza del 12 aprile 2005, “Shamayev e altri c. Georgia e Russia” (ricorso n.

36378/02) Sentenza del 2 giugno 2005, “Novoselov c. Russia” (ricorso n. 66460/01) Sentenza del 16 giugno 2005, “Labzov c. Russia” (ricorso n. 62208/00) Sentenza del 6 luglio 2005, “Nachova e altri c. Bulgaria” (ricorsi nn. 43577/98 e

43579/98) Sentenza del 12 luglio 2005, “Moldovan e altri (II) c. Romania” (ricorsi nn. 41138/98 e

64320/01) Sentenza del 21 luglio 2005, “Rohde c. Danimarca” (ricorso n. 69332/01) Sentenza del 13 settembre 2005, “Ostrovar c. Moldavia” (ricorso n. 35207/03) Sentenza del 29 settembre 2005, “Mathew c. Paesi Bassi” (ricorso n. 24919/03) Sentenza del 4 ottobre 2005, “Becciev c. Moldavia” (ricorso n. 9190/03) Sentenza del 4 ottobre 2005, “Sarban c. Moldavia” (ricorso n. 3456/05)

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Sentenza dell’8 novembre 2005, “Alver c. Estonia” (ricorso n. 64812/01) Sentenza del 13 dicembre 2005, “Bekos e Koutropoulos c. Grecia” (ricorso n.

15250/02) Sentenza del 2 febbraio 2006, “Iovchev c. Bulgaria” (ricorso n. 41211/98) Sentenza del 2 marzo 2006, “Devrim Turan c. Turchia” (ricorso n. 879/02) Sentenza del 9 marzo 2006, “Menesheva c. Russia” (ricorso n. 59261/00) Sentenza del 9 marzo 2006, “Cenbauer c. Croazia” (ricorso n. 73786/01) Sentenza del 28 marzo 2006, “Melnik c. Ucraina” (ricorso n. 72286/01) Sentenza dell’1 giugno 2006, “Mamedova c. Russia” (ricorso n. 7064/05) Sentenza del 4 luglio 2006, “Ramirez Sanchez c. Francia” (ricorso n. 59450/00) Sentenza del 10 agosto 2006, “Dobrev c. Bulgaria” (ricorso n. 55389/00) Sentenza del 26 settembre 2006, “Wainwright c. Regno Unito” (ricorso n. 12350/04) Sentenza del 12 ottobre 2006, “Dvoynykh c. Ucraina” (ricorso n. 72277/01) Sentenza del 2 novembre 2006, “Matko c. Slovenia” (ricorso n. 43393/98) Sentenza del 7 dicembre 2006, “Sheydayev c. Russia” (ricorso n. 65859/01) Sentenza del 18 gennaio 2007, “Chitayev e Chitayev c. Russia” (ricorso n. 59334/00) Sentenza del 25 gennaio 2007, “Vereinigung Bildender Künstler c. Austria” (ricorso n.

68354/01) Sentenza del 22 febbraio 2007, “Wieser c. Austria” (ricorso n. 2293/03) Sentenza del 27 febbraio 2007, “Akpinar e Altun c. Turchia” (ricorso n. 56760/00) Sentenza dell’1 marzo 2007, “Belevitskiy c. Russia” (ricorso n. 72967/01) Sentenza del 27 marzo 2007, “Istratii e altri c. Moldavia” (ricorsi nn. 8721/05, 8705/05

e 8742/05) Sentenza del 29 marzo 2007, “Andrey Frolov c. Russia” (ricorso n. 205/02) Sentenza del 10 aprile 2007, “Barta c. Ungheria” (ricorso n. 26137/04) Sentenza del 10 aprile 2007, “Evans c. Regno Unito” (ricorso n. 6339/05) Sentenza del 12 aprile 2007, “Dzwonkowski c. Polonia” (ricorso n. 46702/99) Sentenza del 10 maggio 2007, “Stefan Iliev c. Bulgaria” (ricorso n. 53121/99) Sentenza del 10 maggio 2007, “Benediktov c. Russia” (ricorso n. 106/02) Sentenza del 10 maggio 2007, “Atici c. Turchia” (ricorso n. 19735/02) Sentenza del 24 maggio 2007, “Navushtanov c. Bulgaria” (ricorso n. 57847/00) Sentenza del 24 maggio 2007, “Zelilof c. Grecia” (ricorso n. 17060/03) Sentenza del 7 giugno 2007, “Igor Ivanov c. Russia” (ricorso n. 34000/02) Sentenza del 12 giugno 2007, “Frérot c. Francia” (ricorso n. 70204/01) Sentenza del 12 giugno 2007, “Nevruz Koç c. Turchia” (ricorso n. 18207/03) Sentenza del 14 giugno 2007, “Novak c. Croazia” (ricorso n. 8883/04) Sentenza del 19 giugno 2007, “Ciorap c. Moldavia” (ricorso n. 12066/02) Sentenza del 21 giugno 2007, “Bitiyeva e X. c. Russia” (ricorsi nn. 57953/00 e

37392/03) Sentenza del 28 giugno 2007, “Malechkov c. Bulgaria” (ricorso n. 57830/00) Sentenza del 12 luglio 2007, “Testa c. Croazia” (ricorso n. 20877/04) Sentenza del 19 luglio 2007, “Trepashkin c. Russia” (ricorso n. 36898/03) Sentenza del 26 luglio 2007, “Cobzaru c. Romania” (ricorso n. 48254/99) Sentenza del 26 luglio 2007, “Andrei Georgiev c. Bulgaria” (ricorso n. 61507/00) Sentenza del 31 luglio 2007, “Diri c. Turchia” (ricorso n. 68351/01) Sentenza del 6 settembre 2007, “Kucheruk c. Ucraina” (ricorso n. 2570/04) Sentenza dell’11 settembre 2007, “L. c. Lituania” (ricorso n. 27527/03) Sentenza del 18 ottobre 2007, “Babushkin c. Russia” (ricorso n. 67253/01)

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Sentenza del 22 ottobre 2007, “Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c. France” (ricorsi nn. 21279/02 e 36448/02)

Sentenza dell’8 novembre 2007, “Mironov c. Russia” (ricorso n. 22625/02) Sentenza dell’8 novembre 2007, “Štitić c. Croazia” (ricorso n. 29660/03) Sentenza del 13 novembre 2007, “Schiavone c. Italia” (ricorso n. 65039/01) Sentenza del 15 novembre 2007, “Grishin c. Russia” (ricorso n. 30983/02) Sentenza del 15 novembre 2007, “Bagel c. Russia” (ricorso n. 37810/03) Sentenza del 20 novembre 2007, “Hasan Döner c. Turchia” (ricorso n. 53546/99) Sentenza del 29 novembre 2007, “Hummatov c. Azerbaijan” (ricorsi nn. 9852/03 e

13413/04) Sentenza del 6 dicembre 2007, “Bragadireanu c. Romania” (ricorso n. 22088/04) Sentenza del 6 dicembre 2007, “Petropoulou-Tsakiris c. Grecia” (ricorso n. 44803/04) Sentenza del 18 dicembre 2007, “Dybeku c. Albania” (ricorso n. 41153/06) Sentenza dell’8 gennaio 2008, “Ercolano c. Italia” (ricorso n. 9870/04) Sentenza del 17 gennaio 2008, “Pilčić c. Croazia” (ricorso n. 33138/06) Sentenza del 29 gennaio 2008, “Kubik c. Polonia” (ricorso n. 12848/03) Sentenza del 7 febbraio 2008, “Kostadinov c. Bulgaria” (ricorso n. 55712/00) Sentenza del 7 febbraio 2008, “Trajkoski c. ex Repubblica iugoslava di Macedonia”

(ricorso n. 13191/02) Sentenza del 7 febbraio 2008, “Mechenkov c. Russia” (ricorso n. 35421/05) Sentenza del 12 febbraio 2008, “Kafkaris c. Cipro” (ricorso n. 21906/04) Sentenza del 28 febbraio 2008, “Saadi c. Italia” (ricorso n. 37201/06) Sentenza del 4 marzo 2008, “Stoica c. Romania” (ricorso n. 42722/02) Sentenza del 6 marzo 2008, “Gavazov c. Bulgaria” (ricorso n. 54659/00) Sentenza del 27 marzo 2008, “Sukhovoy c. Russia” (ricorso n. 63955/00) Sentenza del 27 marzo 2008, “Korobov e altri c. Russia” (ricorso n. 67086/01) Sentenza del 15 maggio 2008, “Gusev c. Russia” (ricorso n. 67542/01) Sentenza del 15 maggio 2008, “Dedovskiy e altri c. Russia” (ricorso n. 7178/03) Sentenza del 20 maggio 2008, “Gülmez c. Turchia” (ricorso n. 16330/02) Sentenza del 27 maggio 2008, “Rodić e altri tre c. Bosnia ed Erzegovina” (ricorso n.

22893/05) Sentenza del 12 giugno 2008, “Vlasov c. Russia” (ricorso n. 78146/01) Sentenza del 12 giugno 2008, “Shchebet c. Russia” (ricorso n. 16074/07) Sentenza del 24 giugno 2008, “Foka c. Turchia” (ricorso n. 28940/95) Sentenza del 24 luglio 2008, “Vladimir Romanov c. Russia” (ricorso n. 41461/02) Sentenza del 9 ottobre 2008, “Moiseyev c. Russia” (ricorso n. 62936/00) Sentenza del 22 dicembre 2008, “Aleksanyan c. Russia” (ricorso n. 46468/06) Sentenza dell’8 gennaio 2009, “Barabanshchikov c. Russia” (ricorso n. 36220/02) Sentenza del 13 gennaio 2009, “Lewandowski e Lewandowska c. Polonia” (ricorso n.

15562/02) Sentenza del 15 gennaio 2009, “Sharomov c. Russia” (ricorso n. 8927/02) Sentenza del 20 gennaio 2009, “Wenerski c. Polonia” (ricorso n. 44369/02) Sentenza del 20 gennaio 2009, “Sławomir Musiał c. Polonia” (ricorso n. 28300/06) Sentenza del 27 gennaio 2009, “Ramishvili e Kokhreidze c. Georgia” (ricorso n.

1704/06) Sentenza del 29 gennaio 2009, “Polyakov c. Russia” (ricorso n. 77018/01) Sentenza del 29 gennaio 2009, “Antropov c. Russia” (ricorso n. 22107/03) Sentenza del 3 febbraio 2009, “Kaprykowski c. Polonia” (ricorso n. 23052/05)

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Sentenza del 5 febbraio 2009, “Khadisov e Tsechoyev c. Russia” (ricorso n. 21519/02) Sentenza del 19 febbraio 2009, “Malenko c. Ucraina” (ricorso n. 18660/03) Sentenza del 19 febbraio 2009, “Suptel c. Ucraina” (ricorso n. 39188/04) Sentenza del 19 febbraio 2009, “A. e altri c. Regno Unito” (ricorso n. 3455/05) Sentenza del 24 febbraio 2009, “Protopapa c. Turchia” (ricorso n. 16084/90) Sentenza del 24 febbraio 2009, “Pieniak c. Polonia” (ricorso n. 19616/04) Sentenza del 24 febbraio 2009, “Ben Khemais c. Italia” (ricorso n. 246/07) Sentenza del 5 marzo 2009, “Bychkov c. Russia” (ricorso n. 39420/03) Sentenza del 10 marzo 2009, “Paladi c. Moldavia” (ricorso n. 39806/05) Sentenza del 12 marzo 2009, “Vergelskyy c. Ucraina” (ricorso n. 19312/06) Sentenza del 12 marzo 2009, “Aleksandr Makarov c. Russia” (ricorso n. 15217/07) Sentenza del 19 marzo 2009, “Polonskiy c. Russia” (ricorso n. 30033/05) Sentenza del 24 marzo 2009, “Darraji c. Italia” (ricorso n. 11549/05) Sentenza del 24 marzo 2009, “Soltana c. Italia” (ricorso n. 37336/06) Sentenza del 24 marzo 2009, “Ben Salah c. Italia” (ricorso n. 38128/06) Sentenza del 24 marzo 2009, “C.B.Z. c. Italia” (ricorso n. 44006/06) Sentenza del 24 marzo 2009, “Bouyahia c. Italia” (ricorso n. 46792/06) Sentenza del 24 marzo 2009, “Abdelhedi c. Italia” (ricorso n. 2638/07) Sentenza del 24 marzo 2009, “Hamraoui c. Italia” (ricorso n. 16201/07) Sentenza del 31 marzo 2009, “Wiktorko c. Polonia” (ricorso n. 14612/02) Sentenza del 2 aprile 2009, “Muradova c. Azerbaijan” (ricorso n. 22648/05) Sentenza del 9 aprile 2009, “Grigoryevskikh c. Russia” (ricorso n. 22/03) Sentenza del 23 aprile 2009, “Gubkin c. Russia” (ricorso n. 36941/02) Sentenza del 5 maggio 2009, “Sellem c. Italia” (ricorso n. 12584/08) Sentenza del 12 maggio 2009, “Mrozowski c. Polonia” (ricorso n. 9258/04) Sentenza del 23 giugno 2009, “Stojnšek c. Slovenia” (ricorso n. 1926/03) Sentenza del 25 giugno 2009, “Bakhmutskiy c. Russia” (ricorso n. 36932/02) Sentenza del 2 luglio 2009, “Kochetkov c. Estonia” (ricorso n. 41653/05) Sentenza del 7 luglio 2009, “Feliński c. Polonia” (ricorso n. 31116/03) Sentenza del 9 luglio 2009, “Generalov c. Russia” (ricorso n. 24325/03) Sentenza del 16 luglio 2009, “Sulejmanovic c. Italia” (ricorso n. 22635/03) Sentenza del 28 luglio 2009, “Rachwalski e Ferenc c. Polonia” (ricorso n. 47709/99) Sentenza del 30 luglio 2009, “Yevgeniy Kornev c. Russia” (ricorso n. 30049/02) Sentenza del 30 luglio 2009, “Pitalev c. Russia” (ricorso n. 34393/03) Sentenza del 30 luglio 2009, “Gladyshev c. Russia” (ricorso n. 2807/04) Sentenza del 30 luglio 2009, “Vladimir Fedorov c. Russia” (ricorso n. 19223/04) Sentenza del 30 luglio 2009, “Alekhin c. Russia” (ricorso n. 10638/08) Sentenza del 17 settembre 2009, “Enea c. Italia” (ricorso n. 74912/01) Sentenza dell’1 ottobre 2009, “Toporkov c. Russia” (ricorso n. 66688/01) Sentenza dell’8 ottobre 2009, “Bordikov c. Russia” (ricorso n. 921/03) Sentenza del 15 ottobre 2009, “Buzhinayev c. Russia” (ricorso n. 17679/03) Sentenza del 15 ottobre 2009, “Antipenkov c. Russia” (ricorso n. 33470/03) Sentenze del 15 ottobre 2009, “Okhrimenko c. Ucraina” (ricorso n. 53896/07) Sentenza del 22 ottobre 2009, “Orchowski c. Polonia” (ricorso n. 17885/04) Sentenza del 22 ottobre 2009, “Isayev c. Russia” (ricorso n. 20756/04) Sentenza del 27 ottobre 2009, “Karapetyan c. Armenia” (ricorso n. 22387/05) Sentenza del 3 novembre 2009, “Staszewska c. Polonia” (ricorso n. 10049/04) Sentenza del 26 novembre 2009, “Dolenec c. Croazia” (ricorso n. 25282/06)

320

Sentenza del 10 dicembre 2009, “Koktysh c. Ucraina” (ricorso n. 43707/07) Sentenza del 17 dicembre 2009, “Shilbergs c. Russia” (ricorso n. 20075/03) Sentenza del 22 dicembre 2009, “Skorobogatykh c. Russia” (ricorso n. 4871/03) Sentenza del 22 dicembre 2009, “Palushi c. Austria” (ricorso n. 27900/04) Sentenza del 7 gennaio 2010, “Onofriou c. Cipro” (ricorso n. 24407/04) Sentenza del 7 gennaio 2010, “Rantsev c. Cipro e Russia” (ricorso n. 25965/04) Sentenza del 14 gennaio 2010, “Moskalyuk c. Russia” (ricorso n. 3267/03) Sentenza del 14 gennaio 2010, “Melnikov c. Russia” (ricorso n. 23610/03) Sentenza del 14 gennaio 2010, “Galotskin c. Grecia” (ricorso n. 2945/07) Sentenza del 19 gennaio 2010, “Z.N.S. c. Turchia” (ricorso n. 21896/08) Sentenza dell’11 febbraio 2010, “Kayankin c. Russia” (ricorso 24427/02) Sentenza dell’11 febbraio 2010, “Salakhutdinov c. Russia” (ricorso n. 43589/02) Sentenza del 23 febbraio 2010, “Đermanović c. Serbia” (ricorso n. 48497/06) Sentenza del 18 marzo 2010, “Maksimov c. Russia” (ricorso n. 43233/02) Sentenza dell’1 aprile 2010, “S.H. e altri c. Austria” (ricorso n. 57813/00) Sentenza dell’1 aprile 2010, “Gultyayeva c. Russia” (ricorso n. 67413/01) Sentenza dell’1 aprile 2010, “Akhmetov c. Russia” (ricorso n. 37463/04) Sentenza dell’8 aprile 2010, “Lutokhin c. Russia” (ricorso n. 12008/03) Sentenza dell’8 aprile 2010, “Lotarev c. Ucraina” (ricorso n. 29447/04) Sentenza del 13 aprile 2010, “Charahili c. Turchia” (ricorso n. 46605/07) Sentenza del 13 aprile 2010, “Tehrani e altri c. Turchia” (ricorsi nn. 32940/08, 41626/08

e 43616/08) Sentenza del 13 aprile 2010, “Trabelsi c. Italia” (ricorso n. 50163/08) Sentenza del 20 aprile 2010, “Slyusarev c. Russia” (ricorso n. 60333/00) Sentenza del 29 aprile 2010, “Khristoforov c. Russia” (ricorso n. 11336/06) Sentenza del 2 settembre 2010, “Iorgov (II) c. Bulgaria” (ricorso n. 36295/02) Sentenza del 30 settembre 2010, “Pakhomov c. Russia” (ricorso n. 44917/08) Sentenza del 21 ottobre 2010, “Petukhov c. Ucraina” (ricorso n. 43374/02) Sentenza del 21 ottobre 2010, “Maryin c. Russia” (ricorso n. 1719/04) Sentenza del 28 ottobre 2010, “Boris Popov c. Russia” (ricorso n. 23284/04) Sentenza del 16 dicembre 2010, “Trepashkin (II) c. Russia” (ricorso n. 14248/05) Sentenza del 16 dicembre 2010, “Kozhokar c. Russia” (ricorso n. 33099/08) Sentenza del 21 dicembre 2010, “Gladkiy c. Russia” (ricorso n. 3242/03) Sentenza del 21 dicembre 2010, “Kuzmenko c. Russia” (ricorso n. 18541/04) Sentenza del 20 gennaio 2011, “Haas c. Svizzera” (ricorso n. 31322/07) Sentenza del 21 gennaio 2011, “M.S.S. c. Belgio e Grecia” (ricorso n. 30696/09) Sentenza del 25 gennaio 2011, “Lipencov c. Moldavia” (ricorso n. 27763/05) Sentenza del 10 febbraio 2011, “Kharchenko c. Ucraina” (ricorso n. 40107/02) Sentenza del 10 maggio 2011, “Popandopulo c. Russia” (ricorso n. 4512/09) Sentenza del 31 maggio 2011, “Khodorkovskiy c. Russia” (ricorso n. 5829/04) Sentenza del 7 giugno 2011, “Csüllög c. Ungheria” (ricorso n. 30042/08) Sentenza del 21 giugno 2011, “Isayev e altri c. Russia” (ricorso n. 43368/04) Sentenza del 7 luglio 2011, “Hellig c. Germania” (ricorso n. 20999/05) Sentenza del 19 luglio 2011, “Đurđević c. Croazia” (ricorso n. 52442/09) Sentenza del 12 settembre 2011, “Palomo Sánchez e altri c. Spagna” (ricorsi nn.

28955/06, 28957/06, 28959/06 e 28964/06) Sentenza del 27 settembre 2011, “Alim c. Russia” (ricorso n. 39417/07) Sentenza del 4 ottobre 2011, “Goginashvili c. Georgia” (ricorso n. 47729/08)

321

Sentenza dell’11 ottobre 2011, “Khatayev c. Russia” (ricorso n. 56994/09) Sentenza del 18 ottobre 2011, “Shuvalov c. Russia” (ricorso n. 38047/04) Sentenza del 3 novembre 2011, “S.H. e altri c. Austria” (ricorso n. 57813/00) Sentenza del 15 dicembre 2011, “Veniosov c. Ucraina” (ricorso n. 30634/05) Sentenza del 10 gennaio 2012, “Vladimir Vasilyev c. Russia” (ricorso n. 28370/05) Sentenza del 10 gennaio 2012, “Ananyev e altri c. Russia” (ricorsi nn. 42525/07 e

60800/08) Sentenza del 10 gennaio 2012, “Sakhvadze c. Russia” (ricorso n. 15492/09) Sentenza del 10 gennaio 2012, “Arutyunyan c. Russia” (ricorso n. 48977/09) Sentenza del 12 gennaio 2012, “Ustyantsev c. Ucraina” (ricorso n. 3299/05) Sentenza del 17 gennaio 2012, “Stanev c. Bulgaria” (ricorso n. 36760/06) Sentenza del 17 gennaio 2012, “Fetisov e altri c. Russia” (ricorsi nn. 43710/07,

6023/08, 11248/08, 27668/08, 31242/08 e 52133/08) Sentenza del 24 gennaio 2012, “Feraru c. Moldavia” (ricorso n. 55792/08) Sentenza del 24 gennaio 2012, “Valeriy Samoylov c. Russia” (ricorso n. 57541/09) Sentenza del 16 febbraio 2012, “Belyaev e Digtyar c. Ucraina” (ricorsi nn. 16984/04 e

9947/05) Sentenza del 28 febbraio 2012, “Melnītis c. Lettonia” (ricorso n. 30779/05) Sentenza del 5 aprile 2012, “Jirsák c. Repubblica Ceca” (ricorso n. 8968/08) Sentenza del 10 aprile 2012, “Shchebetov c. Russia” (ricorso n. 21731/02) Sentenza del 10 aprile 2012, “Babar Ahmad e altri c. Regno Unito” (ricorsi nn.

24027/07, 11949/08, 36742/08, 66911/09 e 67354/09) Sentenza del 17 aprile 2012, “Piechowicz c. Polonia” (ricorso n. 20071/07) Sentenza del 17 aprile 2012, “Horych c. Polonia” (ricorso n. 13621/08) Sentenza del 3 maggio 2012, “Salikhov c. Russia” (ricorso n. 23880/05) Sentenza del 22 maggio 2012, “Idalov c. Russia” (ricorso n. 5826/03) Sentenza del 29 maggio 2012, “Julin c. Estonia” (ricorsi nn. 16563/08, 40841/08,

8192/10 e 18656/10) Sentenza del 24 luglio 2012, “Iacov Stanciu c. Romania” (ricorso n. 35972/05) Sentenza del 31 luglio 2012, “M. e altri c. Italia e Bulgaria” (ricorso n. 40020/03) Sentenza del 31 luglio 2012, “Makhashevy c. Russia” (ricorso n. 20546/07) Sentenza del 28 agosto 2012, “Costa e Pavan c. Italia” (ricorso n. 54270/10) Sentenza del 2 ottobre 2012, “Virabyan c. Armenia” (ricorso n. 40094/05) Sentenza del 2 ottobre 2012, “Najafli c. Azerbaijan” (ricorso n. 2594/07) Sentenza del 9 ottobre 2012, “X c. Turchia” (ricorso n. 24626/09) Sentenza dell’8 novembre 2012, “PETA Deutschland c. Germania” (ricorso n.

43481/09) Sentenza del 27 novembre 2012, “Dirdizov c. Russia” (ricorso n. 41461/10) Sentenza del 13 dicembre 2012, “El-Masri c. ex Repubblica iugoslava di Macedonia”

(ricorso n. 39630/09) Sentenza dell’8 gennaio 2013, “Jashi c. Georgia” (ricorso n. 10799/06) Sentenza dell’8 gennaio 2013, “Torreggiani e altri c. Italia” (ricorsi nn. 43517/09,

46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10) Sentenza dell’8 gennaio 2013, “Reshetnyak c. Russia” (ricorso n. 56027/10) Sentenza del 12 febbraio 2013, “Austrianu c. Romania” (ricorso n. 16117/02) Sentenza del 12 marzo 2013, “Zarzycki c. Polonia” (ricorso n. 15351/03) Sentenza del 28 marzo 2013, “Korobov e altri c. Estonia” (ricorso n. 10195/08) Sentenza del 4 aprile 2013, “Ivakhnenko c. Russia” (ricorso n. 12622/04)

322

Sentenza del 30 aprile 2013, “Tymoshenko c. Ucraina” (ricorso n. 49872/11) Sentenza del 25 giugno 2013, “Grimailovs c. Lettonia” (ricorso n. 6087/03) Sentenza del 27 giugno 2013, “Yepishin c. Russia” (ricorso n. 591/07) Sentenza del 9 luglio 2013, “Vinter e altri c. Regno Unito” (ricorsi nn. 66069/09,

130/10 e 3896/10) Sentenza del 24 settembre 2013, “Epistatu c. Romania” (ricorso n. 29343/10) Sentenza del 15 ottobre 2013, “Gutsanovi c. Bulgaria” (ricorso n. 34529/10) Sentenza del 24 ottobre 2013, “Baklanov c. Ucraina” (ricorso n. 44425/08) Sentenza del 9 gennaio 2014, “Gorelov c. Russia” (ricorso n. 49072/11) Sentenza del 14 gennaio 2014, “Lindström e Mässeli c. Finlandia” (ricorso n. 24630/10) Sentenza del 21 gennaio 2014, “Placì c. Italia” (ricorso n. 48754/11) Sentenza del 6 febbraio 2014, “Semikhvostov c. Russia” (ricorso n. 2689/12) Sentenza del 13 febbraio 2014, “Tali c. Estonia” (ricorso n. 66393/10) Sentenza del 18 marzo 2014, “Öcalan c. Turchia (II)” (ricorsi nn. 24069/03, 197/04,

6201/06 e 10464/07) Sentenza dell’1 aprile 2014, “Enache c. Romania” (ricorso n. 10662/06) Sentenza del 15 aprile 2014, “Djundiks c. Lettonia” (ricorso n. 14920/05) Sentenza del 3 giugno 2014, “Habimi e altri c. Serbia” (ricorso n. 19072/08) Sentenza del 3 luglio 2014, “Georgia c. Russia (I)” (ricorso n. 13255/07) Sentenza dell’8 luglio 2014, “Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria” (ricorsi nn. 15018/11

e 61199/12) Sentenza del 17 luglio 2014, “Svinarenko e Slyadnev c. Russia” (ricorsi nn. 32541/08 e

43441/08) Sentenza del 17 luglio 2014, “Kim c. Russia” (ricorso n. 44260/13) Sentenza del 24 luglio 2014, “Husayn (Abu Zubaydah) c. Polonia” (ricorso n. 7511/13) Sentenza del 16 settembre 2014, “Gennaro Stella c. Italia” (ricorso n. 49169/09) Sentenza del 30 settembre 2014, “Anzhelo Georgiev e altri c. Bulgaria” (ricorso n.

51284/09) Sentenza del 27 novembre 2014, “Amirov c. Russia” (ricorso n. 51857/13) Sentenza del 27 gennaio 2015, “Rohlena c. Repubblica Ceca” (ricorso n. 59552/08) Sentenza del 27 gennaio 2015, “Neshkov e altri c. Bulgaria” (ricorsi nn. 36925/10,

21487/12, 72893/12, 73196/12, 77718/12 e 9717/13) Sentenza del 3 febbraio 2015, “Hutchinson c. Regno Unito” (ricorso n. 57592/08) Sentenza del 3 febbraio 2015, “Apostu c. Romania” (ricorso n. 22765/12) Sentenza del 19 febbraio 2015, “M.S. c. Croazia (II)” (ricorso n. 75450/12) Sentenza del 10 marzo 2015, “Varga e altri c. Ungheria” (ricorsi nn. 14097/12,

45135/12, 73712/12, 34001/13, 44055/13 e 64586/13) Sentenza del 12 marzo 2015, “Lyalyakin c. Russia” (ricorso n. 31305/09) Sentenza del 12 marzo 2015, “Muršić c. Croazia” (ricorso n. 7334/13) Sentenza del 7 maggio 2015, “Ilievska c. ex Repubblica iugoslava di Macedonia”

(ricorso n. 20136/11) Sentenza del 5 giugno 2015, “Lambert e altri c. Francia” (ricorso n. 46043/14) Sentenza dell’1 settembre 2015, “Khlaifia e altri c. Italia” (ricorso n. 16483/12) Sentenza del 28 settembre 2015, “Bouyid c. Belgio” (ricorso n. 23380/09) Sentenza del 13 ottobre 2015, “Akkoyunlu c. Turchia” (ricorso n. 7505/06) Sentenza del 15 ottobre 2015, “Perinçek c. Svizzera” (ricorso n. 27510/08)