DANNO NON PATRIMONIALE E DANNO ESISTENZIALE · 2014-10-21 · sua dimensione economicistica e non...
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DANNO NON PATRIMONIALE
E DANNO ESISTENZIALE
di Gianluigi Morlini
Giudice del Tribunale di Reggio Emilia
Reggio Emilia, 18 ottobre 2014
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Sommario:
- 1. L’evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno patrimoniale.
- 2. La nascita del danno biologico e l’ampliamento del danno morale.
- 3. Il panorama giuridico prima dell’intervento delle Sezioni Unite e la problematica del danno
esistenziale.
- 4. L’intervento delle Sezioni Unite con le sentenze n. 26972-5/2008.
- 5. Il panorama giuridico dopo l’intervento delle Sezioni Unite e le possibili prospettive.
- 6. Il superamento delle Sezioni Unite da parte di Cass. Sez. III n. 1361/2014.
- Bibliografia
1. L’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN TEMA DI RISARCIMENTO DEL
DANNO PATRIMONIALE
In un notissimo e molto stimolante articolo pubblicato nel 1985 sulla rivista ‘Contratto e
Impresa’, il professor Francesco Galgano parlava delle “mobili frontiere del danno ingiusto”, e
qualificava la nozione di danno ingiusto giuridicamente risarcibile come quella di un “universo in
espansione”.
L’icastica immagine dell’area del danno risarcibile come quella di un “universo in espansione”,
fotografa perfettamente l’evoluzione di un sistema che, effettivamente, dagli anni Sessanta in poi ha
costantemente visto l’ampliarsi dei confini del danno che può essere oggetto di risarcimento.
Sul punto, può forse osservarsi che l’espansione di cui puntualmente parlava il professor
Galgano, è stata integrata da una riforma cosiddetta passiva, nel senso che si è verificata senza
modificazioni legislative o pronunce di illegittimità costituzionale, ma semplicemente con una
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mutata interpretazione, da parte della giurisprudenza di merito prima e di legittimità poi, dei precetti
codicistici, riletti alla luce di una rinnovata sensibilità rispetto ai valori costituzionali in gioco.
Laddove poi la Corte Costituzionale è intervenuta, non ha fatto altro che ‘blindare’ gli approdi cui
la giurisprudenza era già autonomamente giunta, con sentenze interpretative di rigetto (cfr., ex
pluribus, la celebre Corte Cost. n. 184/1986 sul danno biologico, o la più recente, ma altrettanto
nota, Corte Cost. n. 233/2003 sulla risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di lesione di
valori costituzionalmente protetti).
Tale espansione ha inizialmente riguardato la materia del danno patrimoniale, ed è stata incentrata
su una rilettura ampliativa del danno ingiusto di cui all’articolo 2043 c.c. Solo successivamente, ed
in particolare a partire dalla nascita del danno biologico, è stata l’area del danno non patrimoniale
ad essere oggetto di espansione, e l’interesse della giurisprudenza si è allora andato focalizzando
sull’articolo 2059 c.c.
E’ forse proprio con le sentenze di Cass. Sez. Un. n. 26972-5/2008 che si ha la prima inversione di
tendenza rispetto a questo costante ampliamento dell’area di danno risarcibile, avendo dette
sentenze di fatto ristretto sensibilmente l’area del danno non patrimoniale risarcibile, come si dirà
più oltre.
Ma andiamo con ordine, ed iniziamo dall’evoluzione giurisprudenziale in tema di articolo
2043 c.c., tramite la rilettura della nozione di danno ingiusto ed il conseguente ampliamento della
categoria del danno patrimoniale risarcibile.
Il danno ingiusto è la lesione di un interesse altrui meritevole di protezione secondo l’ordinamento
giuridico. La risarcibilità di ogni danno qualificabile come ingiusto è una clausola generale posta
dall’art. 2043 c.c., che sancisce il principio di atipicità dell’illecito civile, in antitesi a quello della
tipicità dell’illecito penale: quando non è la legge a stabilire che un dato danno è ingiusto, la
valutazione è rimessa all’apprezzamento del giudice, che decide caso per caso, ed il problema è
allora vedere quale sia la corretta nozione di danno ingiusto.
Volendo schematizzare, ai limitati fini che qui interessano, l’evoluzione interpretativa circa
l’articolo 2043 c.c., può dirsi che si è inizialmente qualificato il danno ingiusto come lesione dei
soli diritti soggettivi assoluti, mentre si sono successivamente ricompresi anche i diritti relativi, le
situazioni di mero fatto ed infine si è arrivati a ritenere ingiusta anche la lesione degli interessi
legittimi. Va peraltro chiarito che tale sequenza è una sequenza logica, ma non rigorosamente
cronologica: infatti, il passaggio dal risarcimento dei soli diritti assoluti ai diritti relativi è stato
segnato dalla celebre sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 26/1/1971 n. 174/1971
(cd. sentenza Meroni), ma è stato preceduto da pronunce che avevano risarcito la lesione di alcune
situazioni di fatto, quali il possesso.
Più specificamente:
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- l’iniziale orientamento giurisprudenziale era quello di intendere in senso restrittivo il danno
ingiusto, ancorando la sua nozione alla lesione di un diritto assoluto. In particolare, le ipotesi di
danno ingiusto erano date dalla lesione di un diritto della personalità, di un diritto reale (per
esempio, proprietà o servitù), di un diritto al mantenimento o agli alimenti in seguito
all’omicidio di una persona a ciò tenuta;
- la nozione di danno ingiusto come lesione di un diritto assoluto è stata presto ampliata per il
riconoscimento della risarcibilità di situazioni di fatto, quali l’aspettativa di prestazioni familiari
ed il possesso;
- è con la famosa e già citata sentenza Meroni che la giurisprudenza estende l’applicabilità
dell’art. 2043 c.c. anche ai diritti di credito, riconoscendo come potenzialmente risarcibile il
danno subìto da una società di calcio ad opera di un automobilista che procura lesioni ad un
calciatore contrattualmente obbligato con la società stessa. In tale sentenza, peraltro, la
Cassazione chiarisce che il principio della risarcibilità della lesione del diritto di credito
presuppone il rispetto di due condizioni, quali l’estinzione dell’obbligazione e l’infungibilità
della prestazione;
- già negli anni immediatamente successivi alla pronuncia del 1971, la Cassazione perfeziona
però il proprio orientamento, facendo cadere i limiti precedentemente posti alla risarcibilità del
diritto di credito: si considera così risarcibile la lesione del credito anche nelle ipotesi in cui il
fatto del terzo non estingue il rapporto obbligatorio ed anche nel caso la prestazione sia
fungibile;
- un ulteriore ampliamento della tutela aquiliana si ha con l’inquadramento nell’art. 2043 c.c.
anche della lesione della libertà contrattuale. L’ipotesi più frequente è quella delle false
informazioni del terzo (spesso una banca) sulle condizioni di solvibilità di controparte,
informazioni che inducono a concludere un contratto che non si sarebbe altrimenti concluso: il
danno ingiusto è qui visto nella depauperazione del patrimonio dell’informato. Lo stesso
concetto, con riferimento alla falsa attestazione di qualità del bene, è poi formulato nelle celebre
sentenza De Chirico (Cass. 4/5/1982 n. 2765/1982): in tale vicenda, il famoso pittore aveva di
fatto certificato come originale, firmandolo con firma autenticata sul retro, un quadro non suo, e
fu quindi condannato a risarcire il danno subito da chi aveva da altri comperato tale quadro
confidando nella firma di De Chirico;
- con la storica sentenza n. 500/1999, le Sezioni Unite della Cassazione ritengono poi ammissibile
anche il risarcimento degli interessi legittimi, per lunghi anni negato senza esitazione alcuna
dall’unanime giurisprudenza.
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Detto dell’evoluzione interpretativa sull’art. 2043 c.c., deve osservarsi che, per lungo tempo,
anche il danno alla persona è stato visto come rientrante nella nozione di danno patrimoniale,
nell’ambito di una visione della vita meramente produttivistica.
Per anni si è infatti identificato il danno all’integrità fisica della persona “nella perdita economica
che deriva da una determinata modificazione peggiorativa della capacità economica” (Gentile).
In base a questo principio, la valutazione del danno risarcibile non si fonda sulla menomazione
fisica in sé, ma prende in considerazione solo le conseguenze economiche della stessa. Sulla scorta
di tale impostazione, il poliedrico pensatore Melchiorre Gioia, all’inizio dell’Ottocento enuncia la
famosa regola del calzolaio: “un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe ed un quarto al
giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più a fare che una scarpa: voi gli dovete il
valore di una fattura di una scarpa ed un quarto moltiplicato pel numero de’ giorni che gli restano
di vita, meno i giorni festivi”.
Evidente ratio di tale concezione è che si vale per quanto si lavora e quindi per ciò che si guadagna:
ricondurre il danno non già alla lesione in sé considerata, ma limitarlo al mancato guadagno,
significa infatti considerare l’integrità fisica e la salute dell’uomo non come valori in sé, ma come
semplici strumenti produttivi di forza lavoro, con conseguente mercificazione della persona umana.
Il primo passo, seppure molto parziale, per correggere il sistema descritto, è quello della creazione
del danno patrimoniale presunto: pur rimanendo saldo il principio di danno come menomazione
della capacità di guadagno, partendo dal danno effettivo si giunge anche a risarcire il danno
determinato con criteri presuntivi, per tutelare chi non è ancora produttore di reddito. Peraltro, tali
criteri presuntivi sono largamente discrezionali, se non addirittura arbitrari, fonti di incertezze,
equivoci ed ingiustizie.
Per lumeggiare l’arretratezza giurisprudenziale in tema di danno alla persona agli inizi degli anni
Settanta, e quindi in un periodo storico in cui la Cassazione con la sentenza Meroni pur compiva
sostanziali passi avanti in tema di tutela del credito, basta citare il famoso caso Gennarino (Trib.
Milano 18/1/1971): riguardo alla menomazione subita da un bambino, si afferma che “la sua
prevedibile attività futura, e l’ammontare del presumibile reddito futuro, vanno determinati in base
al lavoro svolto dal padre, dovendosi ritenere che il bambino, nel futuro, svolgerà la stessa
professione del padre e raggiungerà un eguale grado di specializzazione” (nella specie, un
manovale generico). Infatti, la sistemazione teorica del danno presunto rimane fermamente
agganciata ad una visione produttivistica della vita, ribadendosi che “il bene la cui compromissione
costituisce la base del diritto al risarcimento non è l’organismo in sé, ma la sua efficienza...
Possono esistere uomini senza alcun valore. Tale è il caso di coloro che per vecchiaia o malattia o
per altra causa, siano totalmente inetti a qualunque occupazione redditizia” (Trib. Firenze
5/1/1967).
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È evidente come tale impostazione ponga seri problemi di compatibilità sia con il principio
costituzionale di tutela dell’individuo, posto che quest’ultimo viene considerato unicamente nella
sua dimensione economicistica e non personale; sia con il principio costituzionale di uguaglianza,
posto che, a parità di lesioni, si hanno diverse liquidazioni a seconda dei redditi.
Anche prima del riconoscimento del danno biologico, per correggere gli arbìtri e le iniquità che
deriverebbero dalla rigida applicazione dei principi tradizionali, un secondo passo è quello di creare
dei correttivi al sistema, tramite l’individuazione di danni diversi da quelli compromettenti
l’efficienza lavorativa, quali il danno alla vita di relazione, il danno estetico, il danno sessuale, il
danno patrimoniale indiretto ed altro. Il concetto di patrimonialità del danno è quindi comunque più
ampio di quello di perdita patrimoniale, anche prima della creazione della figura del danno
biologico.
Peraltro, va evidenziato che, in questa fase storica, il tentativo di allargare il concetto di
patrimonialità del danno è compiuto non già allargano la nozione di danno non patrimoniale di cui
all’art. 2059 c.c.; ma al contrario, restringendo tale nozione, allargando invece le maglie del danno
patrimoniale ex art. 2043 c.c., norma ritenuta di più facile utilizzazione per concedere la tutela
risarcitoria, con la tecnica cosiddetta dello svuotamento dell’area del danno non patrimoniale a
favore di un incremento dell’area patrimonialistica.
2. LA NASCITA DEL DANNO BIOLOGICO E L’AMPLIAMENTO DEL DANNO
MORALE
Solo però il riconoscimento giurisprudenziale del danno biologico produce una vera e
propria ‘svolta dogmatica’, e la lesione all’integrità fisica viene finalmente a rilevare sotto
l’autonomo profilo del danno non patrimoniale.
E’ noto che la nascita del danno biologico viene ricondotta alla sentenza del Tribunale di
Genova del 25/5/1974, seguita da analoghe pronunce dello stesso Tribunale negli anni successivi,
quale Trib. Genova 20/10/1975. Alle Corti di merito genovesi si affiancano dal 1979 quelle pisane,
dando luogo alla cosiddetta giurisprudenza alternativa. In breve tempo, peraltro, il concetto di
danno biologico è riconosciuto anche sul piano della giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. nn.
87/1979 e 88/1979) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3675/1981, Cass. n. 2396/1993,
Cass. n. 4661/1984, Cass. n. 1130/1985, Cass. n. 3025/1986).
Viene così stabilito che deve essere risarcita la menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto
in sé e per sé considerata, a prescindere dall’effettiva incidenza sulla capacità lavorativa e sul
reddito. La persona deve infatti essere tutelata in tutte le sue concrete dimensioni, quali quella
sociale, culturale ed estetica. Il danno biologico può allora essere causato da invalidità,
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menomazioni, deturpazioni, impotenze sessuali, malattie nervose, insonnia, alterazioni mentali e
qualsiasi altra lesione della realtà corporale o mentale della persona.
Si argomenta che il riconoscimento del danno biologico è espressione della crescente attenzione del
diritto per la persona umana nella sua realtà globale ed in tutti i suoi valori. Inoltre, esso trova
conforto anche nelle altre principali esperienze giuridiche, posto che in Gran Bretagna, in Francia e
negli Stati Uniti, il danno alla persona era da tempo considerato tanto sotto l’aspetto economico,
quanto sotto il profilo non patrimoniale.
Può allora riassumere Giannini la nozione di danno biologico in quella di una “qualsiasi ingiusta
violazione dell’integrità psicofisica della persona, che ne modifichi in senso peggiorativo il modo
di essere e che incida negativamente sulla sfera individuale del soggetto nelle sue manifestazioni di
vita giuridicamente rilevanti”. Chiarisce poi la Cassazione che nel danno biologico rientrano tutte
le figure di danno non reddituale, tra le quali il danno estetico, sessuale ed alla vita di relazione.
Detto della nascita del danno biologico tramite una riforma passiva, consistita nella rilettura
delle nome di legge esistenti, già si è segnalata l’opera fondamentale svolta dalla Corte
Costituzionale, consistita nell’attribuire conferma alla via seguita dalle Corti di merito, tramite lo
strumento della sentenza interpretativa di rigetto. In particolare, la sentenza che, per chiarezza
espositiva ed esaustività della motivazione, è giustamente ritenuta come la definitiva teorizzazione
del danno biologico, è quella di Corte Cost. n. 184/1986.
Il nucleo centrale della pronuncia, di ben cinquanta cartelle, rimane attuale, laddove l’iter
argomentativo attribuisce un valore alla persona al di fuori della capacità di produrre reddito,
riconoscendo che la persona vale di per sé, non per quello che produce, e sancendo che il godimento
della vita in perfette condizioni fisiche è un valore da tutelare. Il danno biologico consiste allora
nella lesione del diritto dell’uomo alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria
personalità morale, intellettuale, culturale. La lesione della salute produce conseguenze dannose
poiché priva l’uomo di quelle facoltà che gli procurano un ideale stato di benessere, ed il
risarcimento reintegra la vittima nella perdita del benessere psicofisico.
Solo dopo oltre venticinque anni dalla prima intuizione giurisprudenziale del Tribunale di
Genova con la citata sentenza del 25/5/1974, anche il Legislatore finalmente riconosce l’esistenza
del danno biologico.
Infatti, l’art. 13 D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, sia pure chiarendo che trattasi di una definizione in
via sperimentale e ai soli fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali, qualifica il danno biologico come “la lesione all’integrità
psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona”. Coerentemente con la lunga
elaborazione giurisprudenziale precedente, si chiarisce poi che il ristoro di tale danno è determinato
“in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”.
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Similmente, l’art. 5 comma 3 L. n. 57/2001, riferendosi ai sinistri conseguenti alla circolazione dei
veicoli a motore e dei natanti, definisce il danno biologico come “la lesione all’integrità psicofisica
della persona, suscettibile di accertamento medico-legale” chiarendo che esso “è risarcibile
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”.
Circa la quantificazione del risarcimento del danno biologico, il Legislatore la ha
disciplinata solo negli specifici due casi delle lesioni fino al 9% derivanti dalla circolazione stradale
(cfr. artt. 138 e 139 D.Lgs. n. 209/2005, cd. Codice delle Assicurazioni), e delle lesioni da infortuni
sul lavoro o malattie professionali (cfr. art. 13 commi 2 e 3 D.Lgs. n. 38/2000).
Relativamente alle altre situazioni risarcitorie, a partire dal 1993 la Cassazione ha ritenuto
illegittimo il criterio del triplo della pensione sociale, inizialmente utilizzato dalla maggioritaria
giurisprudenza, sul presupposto che nella liquidazione del danno non patrimoniale è del tutto
irrilevante la capacità di produrre reddito del danneggiato. Pertanto, si è così via via consolidato il
criterio del punto tabellare (attualmente, le tabelle di gran lunga più utilizzate sono quelle elaborate
dai Giudici del Tribunale di Milano), che persegue l’obiettivo di una progressività della somma da
liquidare in corrispondenza di lesioni di grado percentuale più elevato.
Quanto poi alla dibattuta tematica della configurabilità di un danno biologico in caso di
morte, cd. danno tanatologico, occorre distinguere due situazioni.
Nel caso di morte immediata, Corte Cost. n. 372/1994 ha negato la risarcibilità del danno, ed ha in
tal senso orientato la successiva giurisprudenza. Si argomenta in proposito, da un primo punto di
vista, che la morte non costituisce la massima lesione del diritto alla salute, ma incide sul diverso
bene giuridico della vita: ne consegue che la lesione all’integrità fisica con esito letale non può
configurarsi come semplice sottoipotesi della lesione alla salute, la quale implica la permanenza in
vita del soggetto leso con menomazioni invalidanti; e che, in caso di morte, non si può parlare di
danno biologico, atteso che il danno biologico quale lesione del diritto alla salute postula
necessariamente la permanenza in vita del soggetto leso in condizioni menomate. Da una seconda
angolazione, si osserva che per il bene della vita non è concepibile un risarcimento per equivalente,
quale è quello attribuito a titolo di risarcimento per lesioni biologiche, con funzione reintegratoria e
non già sanzionatoria. Inoltre, si evidenzia che, anche da un punto di vista strettamente tecnico-
giuridico, la vittima, finché è in vita, non subisce alcuna perdita, e da morta non è in grado di
acquisire alcun diritto risarcitorio da trasmettere iure hereditario. Da ultimo, si chiarisce che non
vale obiettare come, in tal modo, risulta economicamente più conveniente uccidere che arrecare una
lesione permanente, atteso che nel nostro ordinamento il sistema risarcitorio non costituisce l’unico
mezzo di protezione del diritto alla vita, che è ampiamente tutelato anche in sede penale (cfr. artt.
575 e 589 c.p.).
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Nel caso invece di morte non immediata, la Suprema Corte è consolidata nel ritenere che gli eredi
abbiano diritto ad un risarcimento iure hereditario per il periodo intercorso tra la lesione e la morte
da essa derivata (superata è quindi la tesi di Cass. n. 8204/2003, che commisura il danno non alla
durata effettiva della vita, ma alla speranza di vita futura), laddove tra data dell’incidente e morte
stessa intercorra un apprezzabile periodo di tempo. Il danno biologico va in tal caso calcolato con
riferimento all’inabilità temporanea massima, tenendo però presente che le caratteristiche peculiari
del pregiudizio sofferto rendono il danno, pur se temporaneo, di eccezionale entità, e quindi
necessitante di adeguata personalizzazione (per tutte, Cass. n. 18163/2007).
Consolidatasi la nozione di danno biologico, a partire dal 2003 si assiste poi in
giurisprudenza al sensibile ampliamento dell’area di operatività del danno morale, inteso come
transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima.
In particolare, innovando rispetto alla consolidata posizione della Suprema Corte, che demandava al
Giudice civile l’incidentale ma effettivo accertamento dell’elemento oggettivo e soggettivo del
reato, prima la Cassazione (cfr. Cass. nn. 7281/2003, 7282/2003, 7283/2003, Cass. n. 3871/2004,
Cass. n. 6748/2004, Cass. n. 20814/2004), poi la Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. n.
233/2003), hanno ritenuto che, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c.
e 185 c.p.c., non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore, laddove essa, come
nei casi di cui agli artt. 2050-2054 c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione
civilistica di legge, e se, ricorrendo la colpa, il fatto sia qualificabile come reato. Inoltre, una lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., impone comunque di ritenere risarcibile il danno
non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi di reato, laddove vengano lesi valori costituzionali,
posto che in caso contrario vi sarebbero diritti della persona, non aventi natura economica ma
ritenuti inviolabili dalla Carta fondamentale, privi di tutela (Cass. n. 8827/2003, Cass. n.
8828/2003).
L’allargamento dell’ambito operativo dell’art. 2059 c.c., con la possibilità di una tutela risarcitoria
anche in assenza di reato, consente da un lato di ricostruire l’area del danno risarcibile nella
bipartizione danni patrimoniali ex art. 2043 c.c.-danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c.; dall’altro
lato, di fare confluire nella sede naturale dell’art. 2059 c.c. tutti i danni non patrimoniali, compreso
il danno biologico (cfr. Cass. n 8827/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 16525/2003, Cass. n.
16716/2003, Cass. n. 19057/2003, Cass. n. 2050/2004, Cass. n. 3399/2004, Cass. n. 4118/2004),
che invece Corte Cost. n. 184/1986 aveva collocato nell’ambito dell’art. 2043 c.c. proprio
all’evidente fine di rendere possibile il risarcimento anche in assenza di reato.
Inoltre, abbandonata la ricostruzione di Corte Cost. n. 184/1986 relativa al biologico come danno-
evento, cioè sempre presente in ogni fatto illecito causante pregiudizio alla persona e per questo
sempre risarcibile, si ricostruisce il biologico, al pari di ogni altra forma di danno, come un danno-
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conseguenza. Discende che la parte deve allegare i fatti e provare il pregiudizio, pur se è ben
possibile ricorrere, in base al prudente apprezzamento del Giudice, a fatti notori od a massime di
comune esperienza, e comunque utilizzare il parametro di liquidazione equitativa di cui agli artt.
1226 e 2056 c.c. (Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 12124/2003, Cass. n.
16946/2003, Cass. n. 17429/2003).
3. IL PANORAMA GIURIDICO PRIMA DELL’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE
E LA PROBLEMATICA DEL DANNO ESISTENZIALE
Come già sopra accennato, a seguito delle sentenze di Cass. nn. 8827/2003 ed 8828/2003,
cui si è immediatamente conformata la successiva giurisprudenza, il sistema risarcitorio abbandona
definitivamente la tripartizione del danno, disegnata da Corte Cost. n. 184/1986, tra danno
patrimoniale ex art. 2043 c.c., danno biologico ex artt. 2043 c.c. e 32 Cost., danno morale ex art.
2059 c.c.; e il sistema viene piuttosto ad essere ricostruito in base ad una struttura bipolare, che vede
affiancarsi il danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. ed il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.
A sua volta, il danno non patrimoniale viene articolato in danno biologico, morale soggettivo ed
esistenziale (cfr. Corte Cost. n. 233/2003, Cass. n. 9861/2007, Cass. n. 13546/2006, Cass. n.
15022/2005, Cass. n. 9801/2005, Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 16525/2003, che
superano l’inquadramento dell’esistenziale nell’art. 2043 c.c. operato da Cass. n. 7713/2000), posto
che danno morale, biologico ed esistenziale, integrano nozioni distinte e descrivono pregiudizi tra
loro diversi (Cass. n. 13546/2006, Cass. n. 20355/2005, Cass. n. 20323/2005, Cass. n. 20205/2005,
Cass. n. 729/2005).
Il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., infatti, non può più essere identificato soltanto con il
danno morale soggettivo, ed a seguito di una lettura costituzionalmente orientata della norma deve
ricomprendere anche i casi in cui si verifica un’ingiusta lesione dei valori della persona
costituzionalmente garantiti, dalla quale lesione conseguono pregiudizi non suscettibili di
valutazione economica e risarcibili senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge
correlata all’art. 185 c.p. (espressamente Cass. n. 20205/2005, Cass. n. 19354/2005, Cass. n.
15022/2005; cfr. anche Cass. n. 14302/2006, Cass. n. 20323/2005, Cass. n. 10482/2004, Cass. n.
16525/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 8827/2003). Infatti, è ben vero che per il danno
patrimoniale vige il principio della atipicità (riferendosi l’art. 2043 c.c. genericamente al “danno
ingiusto”), mentre per il danno non patrimoniale vige l’opposto principio della tipicità (riferendosi
l’art. 2059 c.c. ai soli “casi previsti dalla legge”); ma una lettura costituzionalmente orientata della
norma impone di ritenere il riferimento rivolto non solo alla legge ordinaria, ma anche ai casi di
lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti, quali salute, famiglia e
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reputazione (Cass. n. 9861/2007, Cass. n. 9510/2007). Ed il danno non patrimoniale, poi, è
riconosciuto anche in favore delle persone giuridiche (Cass. n. 2367/2000).
Prima allora delle sentenze di san Martino, il sistema risarcitorio era delineato in questi
termini: danno patrimoniale risarcito ex art. 2043 c.c., norma interpretata dalla giurisprudenza nella
sua massima estensione possibile, così come sopra delineato; danno non patrimoniale risarcito ex
art. 2059 c.c., nelle forme del danno biologico, morale ed esistenziale.
In particolare, il danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psico-fisica rilevante sotto il
profilo medico-legale, viene normalmente accertato nella sua esistenza e nella sua consistenza da un
CTU; il danno morale, inteso come sofferenza patita dalla vittima e turbamento del suo stato
d’animo, viene sostanzialmente presunto iuris et de iure e considerato in re ipsa ogni qual volta si è
in presenza di un danno biologico, e viene compensato con una somma normalmente compresa tra
un quarto ed un mezzo di quella liquidata a titolo di danno biologico; l’eventuale ulteriore danno
esistenziale, consistente in una forzosa rinuncia ad un facere che comporta un benessere areddituale
ed è riferito a valori costituzionalmente protetti, deve invece essere rigorosamente provato, e viene
compensato con una liquidazione equitativa.
Proprio sulla sottocategoria del danno cosiddetto esistenziale, e direi esclusivamente su tale
posta di danno, si è, dall’inizio degli anni Duemila, sviluppato un acceso dibattito dottrinale-
giurisprudenziale, culminato con l’emanazione delle sentenze di Cass. Sez. Un. nn. 26972-5/2008.
La categoria del danno esistenziale è stata definita come l’alterazione delle proprie abitudini di vita
relazionale, tramite la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative fonte di
compiacimento o di benessere per il danneggiato, ovvero la necessità di dovere fare qualcosa di
insoddisfacente, in ogni caso impedendo la piena realizzazione della propria persona: consiste in
ogni pregiudizio areddituale del soggetto, che alteri le abitudini di vita e gli assetti relazionali dello
stesso, inducendo a scelte di vita diverse quanto all’espressione ed alla realizzazione della sua
personalità nel mondo esterno (in dottrina, cfr. in particolare la cd. scuola triestina, che fa capo al
professor Cendon ed alla professoressa Ziviz. In giurisprudenza, la prima sentenza di legittimità che
parla di danno esistenziale è Cass. n. 7713/2000, seguita poi da Cass. nn. 1516/2001, 4881/2001,
6507/2001, 9009/2001, 15449/2002, 12124/2003, 16716/2003, Cass. n. 16946/2003, 6732/2005,
19345/2005, 13546/2006, 2311/2007; l’approdo alle Sezioni Unite, che si riteneva avesse
definitivamente consacrato la figura, vi è stato con Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, resa nella materia
lavoristica, e cioè in uno dei settori dove il danno esistenziale è stato massimamente studiato ed
applicato, in particolare con riferimento al mobbing ed al demansionamento).
A differenza del biologico, il danno esistenziale sussiste indipendentemente da una lesione fisica o
psichica suscettibile di accertamento e valutazione medico-legale (cfr. art. 13 D. Lgs. n. 38/2000 e
art. 5 L. n. 57/2001); rispetto al morale, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo
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della vittima, non consiste in una sofferenza od in un dolore, ma nella rinuncia ad un’attività
concreta ed in un peggioramento della qualità della vita; diversamente dal patrimoniale, prescinde
da una diminuzione della capacità reddituale (Cass. n. 13546/2006, Cass. Sez. Un. n. 6572/2006,
Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003).
Efficacemente, si è sottolineato che se il danno morale consiste in un “sentire”, il danno
esistenziale consiste in un “non potere fare più, in un potere fare in modo diverso, o, ancora, in un
dovere fare a causa della lesione subita” (Tar Lombardia n. 3438/2005).
Evidente ratio della individuazione di tale forma di danno è quella di estendere il meccanismo di
tutela risarcitoria alla lesione di interessi costituzionalmente protetti pur se diversi dal diritto alla
salute, che non possono quindi essere ricompresi nel danno biologico (Cass. n. 16716/2003, Cass. n.
9009/2001).
Nella casistica giurisprudenziale di legittimità, a proposito di riconoscimento di danno
esistenziale, possono essere segnalati: morte di un prossimo congiunto (Cass. n. 13546/2006, Cass.
n. 11761/2006, Cass. n. 15022/2005, Cass. n. 4118/2004), lesione del rapporto parentale (Cass. n.
8828/2003, Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 1516/2001), molestie sessuali (Cass. n. 143/2000), perdita
o compromissione della capacità sessuale (Cass. n. 2311/2007), ritardato versamento dal padre al
figlio dell’assegno di mantenimento (Cass. n. 7713/2001), mancata comunicazione alla moglie della
propria impotenza sessuale (Cass. n. 9801/2005), illegittima levata di protesto (Cass. n. 6732/2005,
Cass. n. 4881/2001), lesione dell’onore e della reputazione altrui pur in assenza di reato (Cass. n.
5677/2005), comunicazione al datore di lavoro di notizie lesive della reputazione personale del
lavoratore (Cass. n. 6507/2001), mancato riposo settimanale del lavoratore (Cass. n. 9009/2001),
licenziamento illegittimo (Cass. n. 7980/2004), mobbing (Cass. n. 9009/2001, Trib. Agrigento
1/2/2005, Trib. Milano 28/2/2003, Trib. Pinerolo 6/2/2003, Trib. Pisa 6/10/2001, Trib. Forlì
15/3/2001), demansionamento (Cass. n. 19965/2006, Cass. n. 17774/2006, Cass. n. 21282/2006,
Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, Cass. n. 10361/2004, Cass. n. 10157/2004, Cass. n. 8904/2003, Cass.
n. 7980/2004, Cass. n. 1307/2000).
Nella giurisprudenza di merito, si è poi parlato di danno esistenziale a proposito di: immissioni
intollerabili (App. Milano 14/2/2003, App. Milano 6/12/2001, Trib. Milano n. 17595/2003, Trib.
Gorizia 24/9/2001, Trib. Venezia 27/9/2000, Trib. Milano 21/10/1999, Giudice di Pace Frosinone
11/10/2001), ridotta godibilità dell’abitazione (Trib. Ivrea n. 977/2004, Trib. Roma 10/10/2001,
App. Aquila 27/2/2001, Trib. Roma 18/5/2003), rinuncia forzata ai rapporti sessuali con il coniuge
(Trib. Lecce 5/10/2001), violenza sessuale al congiunto (Trib. Agrigento 4/6/2001), vacanza
rovinata, nascita di bambino indesiderato o con malformazioni (App. Perugia 15/12/2004, Trib.
Busto Arsizio 17/7/2001, Trib. Locri 6/10/2000), violazione da parte del genitore degli obblighi di
assistenza morale e materiale verso il figlio (Trib. Venezia 30/6/2004 n. 1292/2004), lesioni subite
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come danno ingiusto (Tar Lombardia n. 3438/2005), lite temeraria ex art. 96 c.p.c. (Trib. Bologna
27/1/2005).
Circa il meccanismo risarcitorio, si è evidenziato come, nel caso di lesione di un interesse
costituzionalmente protetto, quale ad esempio quello di cui agli artt. 2-29-30 Cost., il pregiudizio
conseguente integra un danno non patrimoniale che va risarcito indipendentemente dal fatto che vi
sia l’accertamento di un reato e pur se il danneggiante è ritenuto responsabile in base a presunzione
o responsabilità oggettiva, in ragione della natura del valore inciso.
Infatti, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. impone di ritenere inoperante
detto limite, al fine di potere accordare sempre tutela a quelle situazioni riconosciute nella
Costituzione quali diritti inviolabili inerenti la persona, pur se non aventi natura economica, che
necessariamente esigono una tutela almeno risarcitoria (Cass. n. 15022/2005, Cass. n. 9801/2005,
Cass. n. 20814/2004, Cass. n. 14488/2004, Cass. n. 10482/20004, Cass. n. 19057/2003, Cass. n.
17429/2003, Cass. n. 16716/2003, Cass. n. 12124/2003, Cass. n. 10482/2003, Cass. n. 8827/2003,
Cass. n. 8828/2003).
D’altronde, se è ben vero che, nella prospettiva del legislatore codicistico, il risarcimento del danno
non patrimoniale era subordinato all’accertamento di un fatto di reato (cfr. artt. 2059 c.c. e 185
c.p.), è altrettanto vero che, in progresso di tempo, si sono espressamente riconosciuti, sul piano
legislativo, casi di risarcimento del danno non patrimoniale al di fuori delle ipotesi di reato (cfr. art.
2 comma 1 L. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati per la privazione della libertà
personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie e danni derivanti da ingiusta detenzione; art. 29
comma 9 L. 675/1996, ora art. 152 comma 2 D.Lgs. n. 196/2003, sull’illecita raccolta di dati
personali; art. 44 comma 7 DLGS 286/1998 sull’adozione di atti discriminatori per motivi razziali,
etnici e religiosi; art. 2 comma 1 L. 89/2001 sull’irragionevole durata del processo).
Il danno esistenziale è poi stato inteso come danno diretto, non di rimbalzo, e danno-
conseguenza, non danno-evento, volendo usare la nota terminologia di Corte Cost. n. 184/1996.
Ne consegue che la parte deve allegare i fatti e provare il danno, pur se è ben possibile ricorrere, in
base al prudente apprezzamento del Giudice, a fatti notori, a massime di comune esperienza o
presunzioni, e comunque utilizzare il parametro di liquidazione equitativa di cui agli artt. 1226 e
2056 c.c. (Cass. n. 19965/2006, Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, Cass. n. 13546/2006, Cass. n.
15022/2005, Cass. n. 20989/2004, Cass. n. 10361/2004, Cass. n. 17429/2003, Cass. n. 16946/2003,
Cass. n. 12124/2003, Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003).
Con riferimento all’aspetto processuale, la domanda di risarcimento del danno non
patrimoniale formulata in termini generali, non può essere dal Giudice intesa con limitato
riferimento a sole alcune voci di danno, atteso che una tale limitazione è rimessa, in ossequio al
principio della domanda, alla scelta del danneggiato che si limiti a far valere solo alcune delle tre
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voci della categoria del danno non patrimoniale (Cass. n. 13546/2006, Cass. n. 1583/2005, Cass. n.
22987/2004).
In ogni caso, occorre evitare il rischio di duplicazione del risarcimento, ed il Giudice deve
assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il
complessivo risarcimento tra le varie forme di danno (Cass. n. 4118/2004, Cass. n. 16946/2003,
Cass. n. 8828/2003).
Così delineato il sistema, deve dirsi che, in realtà, l’unica questione interpretativa che
sembrava davvero in discussione, prima delle sentenze di san Martino 2008, era quella dogmatica se
il danno esistenziale fosse un’autonoma categoria giuridico-sistematica, relativa ad una specifica
tipologia di danno ontologicamente diversa dal danno morale e dal danno biologico (tesi propugnata
dai cosiddetti esistenzialisti); ovvero una categoria meramente descrittiva di danni comunque già
meritevoli di risarcimento (tesi dei cosiddetti non esistenzialisti).
Infatti, non più revocata in dubbio l’effettiva risarcibilità delle singole “lesioni di specifici valori
costituzionalmente protetti” (cfr. Cass. n. 15022/2005 e Cass. n. 14488/2004), essendo comunque
sempre risarcibile il “danno da lesione di valori della persona” (Cass. n. 10482/2004), la
Cassazione aveva talvolta negato la riconducibilità delle varie ipotesi di danno qui in discussione ad
un’unitaria nozione di danno esistenziale (Cass. n. 15022/2005, Cass. n. 14488/2004), confutando
l’autonomia della categoria giuridico-sistematica e riservando ad essa una mera funzione
descrittiva; talaltra aveva invece fatto uso della generale categoria del danno esistenziale (Cass. n.
19354/2005, Cass. pen. 22/1/2004, Cons. Stato nn. 125/2006, 1096/2005 e 4/2005, Corte dei Conti
n. 224-a/2004).
4. L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE CON LE SENTENZE N. 26972-5/2008
Negli ultimi anni, il confronto tra le tesi esistenzialiste ed antiesistenzialiste si è fatto sempre
più intenso, creando una vera e propria contrapposizione di scuole sul piano dottrinale ed una netta
frattura su quello giurisprudenziale. Innumerevoli, infatti, sono state le sentenze e le note pubblicate
su questa materia in tutte le principali riviste giuridiche; e gli accenti sono risultati spesso anche
esasperati, al punto che alcuni osservatori hanno parlato di toni da ‘tifo da stadio’ piuttosto che da
vera e propria dialettica giuridica.
Da più parti, quindi, è stato auspicato un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite per prendere
posizione sulle questioni in discussione, come si è detto sostanzialmente relative all’inquadramento
sistematico del danno esistenziale ed alla sua modalità risarcitoria.
E’ allora in questo clima ed in relazione all’elaborazione giurisprudenziale sopra riassunta, che si è
innestato l’intervento delle Sezioni Unite con le pronunce nn. 26972-5/2008, intervento peraltro che
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si è spinto ben oltre le problematiche realmente oggetto del conflitto, per operare invece una
complessiva ricostruzione dell’intero sistema del danno non patrimoniale.
Punto di partenza della riflessione operata dalla Suprema Corte è la conferma della
bipolarità del danno, articolato in patrimoniale ex art. 2043 c.c. e non patrimoniale ex art. 2059 c.c.
Le due ipotesi, tuttavia, si differenziano in punto di evento dannoso, poiché mentre per il danno
patrimoniale vige il principio della atipicità (riferendosi l’art. 2043 c.c. genericamente al “danno
ingiusto”), per il danno non patrimoniale vige l’opposto principio della tipicità (riferendosi l’art.
2059 c.c., norma di rinvio, ai soli “casi previsti dalla legge”).
Il primo dei tre casi previsti dalla legge per la risarcibilità del danno non patrimoniale, è allora l’art.
185 c.p., e cioè la sussistenza di un reato, anche solo incidentalmente accertato dal Giudice civile
(Cass. n. 3747/2001, Cass. n. 3536/2000, Cass. n. 1643/2000), pure con la colpa presunta secondo
le disposizioni di legge civilistiche (Cass. n. 238/2007, Cass. n. 720/2006, Cass. n. 15044/2005,
Cass. n. 20814/2004, Cass. n. 15179/2004, Cass. n. 10489/2004, Cass. n. 6383/2004, Cass. n.
4906/2004, Cass. n. 4359/2004, Cass. n. 7283/2003, Cass. n. 7282/2003, Cass. n. 7281/2003, Corte
Cost. n. 233/2003) ed anche se il reo non è imputabile, ad esempio perché infraquattordicenne
(Cass. n. 11198/1990, Cass. n. 3664/1985, Cass. n. 565/1985, Cass. Sez. Un. n. 6651/1982). In tale
ipotesi, per espressa scelta normativa, risarcibili sono i danni derivanti da qualsiasi lesione, non solo
dalla lesione di valori costituzionalmente protetti. La responsabilità civile del reo sussiste poi “non
soltanto in relazione all’offesa del bene oggetto della specifica tutela penale, ma anche in relazione
ad ogni altro interesse riconducibile nell’ambito della condotta delittuosa in virtù di un nesso
eziologico” (Cass. pen. n. 7259/2004).
Da una seconda angolazione, il danno non patrimoniale è risarcibile in tutti i casi in cui il
risarcimento è previsto dalle leggi ordinarie (art. 89 c.p.c. per uso di espressioni offensive durante
un procedimento civile; art. 158 comma 3 L. n. 633/1941 sulla violazione del diritto d’autore; art. 2
comma 1 L. n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati per la privazione della libertà
personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie e danni derivanti da ingiusta detenzione; art. 44
comma 7 D.Lgs. n. 286/1998 sull’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici e
religiosi; art. 2 comma 1 L. n. 89/2001 sull’irragionevole durata del processo; art. 4 comma 5
D.Lgs. n. 216/2003 sulla discriminazione sul lavoro; art. 15 comma 2 D.Lgs. n. 196/2003
sull’illecita raccolta di dati personali; art. 125 D.Lgs. n. 30/2005 sulla violazione del marchio
industriale; art. 3 comma 3 L. n. 67/2006 sulle discriminazioni dei disabili; art. 37 comma 3 e 55
quinquies comma 7 D.Lgs. n. 198/2006 sulla discriminazione tra uomo e donna per l’accesso alla
fornitura di beni e servizi).
Infine e da una terza angolazione, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai
diritti costituzionali inviolabili, ed in ragione quindi di un’interpretazione costituzionalmente
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orientata dell’art. 2059 c.c., il risarcimento per danni non patrimoniali spetta anche per la lesione di
“diritti inviolabili” della persona previsti dalla Costituzione. Rispetto peraltro alla posizione delle
sentenze gemelle n. 8827 ed 8828 del 2003, da un lato il riferimento è non già a tutti i diritti
“costituzionalmente protetti” o “di rango costituzionale”, ma solo a quelli ritenuti inviolabili
(indicati limitatamente nella salute ex art. 32; nella famiglia ex artt. 2, 29 e 30; nell’identità
personale di reputazione, immagine, nome, riservatezza e dignità, ex artt. 2 e 3); dall’altro lato, la
tutela è altresì limitata dal filtro risarcitorio rappresentato dal fatto che il diritto deve essere inciso
oltre una soglia minima di offensività rappresentata da “gravità dell’offesa” e “serietà del danno”,
atteso che il sistema imporrebbe un grado minimo di tolleranza in base all’art. 2 Cost.
(“palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i
pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo d’insoddisfazione
concernenti gli aspetti più disparati della vita quotidiana”).
Il catalogo di tali danni, peraltro, non costituisce numero chiuso, ma, in virtù dell’art. 2 Cost., può
essere oggetto di un’interpretazione evolutiva, con riferimento a nuovi interessi emergenti nella
realtà sociale. Né è prospettabile un’illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., così come
interpretato dalle sentenze gemelle del 2003, per l’opzione di risarcire, al di fuori dei casi previsti
dalla legge, solo i danni non patrimoniali da lesione di diritti costituzionalmente protetti, atteso che
la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili.
Tutto ciò posto, spiegano poi le Sezioni Unite che il danno non patrimoniale va risarcito
quale che sia la fonte di responsabilità, contrattuale od extracontrattuale, posto che se da un lato
manca nell’ambito della responsabilità contrattuale una norma analoga a quella dell’art. 2059 c.c.,
dall’altro la risarcibilità del danno non patrimoniale in ambito contrattuale si fonda comunque
sull’art. 1174 c.c.
Secondo le sentenze qui in commento, il danno non patrimoniale è poi un danno-conseguenza, che
deve essere allegato e provato, non già un danno-evento (conformi le successive Cass. Sez. Un. n.
3677/2009, Cass. n. 531/2014); ed anche in caso di lesione di valori della persona, va respinta la tesi
che parla di danno in re ipsa.
In uno dei più noti passaggi delle sentenze di san Martino 2008, si statuisce che il danno non
patrimoniale non può essere articolato in sottocategorie.
Nell’ambito dell’unitaria e generale categoria del danno non patrimoniale, non emergono infatti
distinte sottocategorie variamente etichettate, ma si concretizzano solo specifici casi determinati
dalla legge. Solo ai fini descrittivi, si parla di danno morale; di danno biologico, ora riconosciuto
normativamente dagli artt. 138 e 139 Cod. Ass., per la lesione della salute; di danno da perdita
parentale per la lesione dei diritti della famiglia; di danno esistenziale per mancato godimento del
riposo settimanale o per demansionamento, nel caso di lesioni del diritto al lavoro.
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Quindi, per un verso, deve essere superata la tradizionale categoria del danno morale soggettivo
transeunte, che non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili
pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio. Per altro verso, non può farsi riferimento ad una
generica sottocategoria del danno esistenziale, perché attraverso questa si finisce per riportare anche
il danno non patrimoniale nell’ambito dell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione
dell’apparentemente tipica figura categoriale del danno esistenziale.
E’ allora compito del Giudice, secondo la Suprema Corte a Sezioni Unite, accertare
l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato dalla parte, a prescindere dal nome attribuitogli,
“garantendo l’integrale risarcimento del danno, ma non oltre”.
Ciò posto, deve ritenersi che al danno biologico vada “riconosciuta portata tendenzialmente
omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209/2005”.
Pertanto, determina una “duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione di danno biologico
e morale… sovente liquidato in percentuale del primo”: il morale deve infatti essere liquidato
personalizzando le tabelle del biologico.
Egualmente, determina duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di danno morale e danno
da perdita del rapporto parentale.
Possono poi solo costituire voci del biologico i pregiudizi esistenziali concernenti aspetti relazionali
della vita conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica.
Certamente incluso nel biologico, se derivante da lesione psicofisica, è il pregiudizio da perdita o
compromissione della sessualità ed altresì il cd. danno estetico.
Il Giudice deve invece liquidare il solo danno morale a ristoro della sofferenza psichica provata
dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte e che sia rimasta
lucida durante l’agonia.
5. IL PANORAMA GIURIDICO DOPO L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE
Alla luce di quanto sopra e pur nella consapevolezza che ogni schematizzazione, se
eccessiva, rischia di essere lacunosa, può dirsi che sono due i principali arresti della pronuncia delle
Sezioni Unite: l’adesione alla tesi antiesistenzialista e la negazione dell’autonomia concettuale
anche della figura del danno morale.
Da una prima angolazione, si è detto che viene operata un’inequivoca adesione alla tesi
cosiddetta antiesistenzialista. Infatti, per un verso e sotto un profilo dogmatico, viene recisamente
negata l’esistenza di un’autonoma categoria giuridico-sistematica che riporti ad unità tutte le ipotesi
di danno qualificate come esistenziali; per altro verso e sotto un profilo più strettamente pratico, del
pregiudizio esistenziale viene data una nozione estremamente ridotta, atteso che il risarcimento è
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subordinato alla lesione di diritti inviolabili della persona previsti dalla Costituzione, e solo al caso
di loro incisione connotata da gravita dell’offesa e serietà del danno.
Così facendo, in buona sostanza, la Cassazione aderisce ad una delle due ricostruzioni
oggettivamente presenti nel panorama giurisprudenziale-dottrinale, negando autonomia concettuale
alla categoria del danno esistenziale e componendo l’oggettivo contrasto tramite l’opzione per la
tesi antiesistenzialista (sul punto, può essere utile osservare che la Suprema Corte, in motivazione,
attinge per intere pagine dalla relazione predisposta per le Sezioni Unite dal Massimario della
Corte, relazione redatta dal collega Rossetti, da sempre uno dei più convinti ed autorevoli esponenti
della scuola antiesistenzialista); pur se poi, tramite il riferimento ai diritti costituzionalmente
inviolabili incisi in modo grave e serio, fornisce una definizione di pregiudizio esistenziale più
ridotta di quella che gli stessi antiesistenzialisti avevano in precedenza proposto.
Nel caso invece del secondo arresto, relativo alla negazione dell’autonoma configurazione
anche del danno morale, sul presupposto che il danno non patrimoniale non può essere articolato in
sottocategorie e che il danno biologico ha portata tendenzialmente omincomprensiva del danno non
patrimoniale, deve osservarsi che trattasi di pronuncia in ordine ad una tematica ove nessun
contrasto si era in precedenza verificato, essendo l’intera giurisprudenza di merito e di legittimità da
anni pacifica nel senso esattamente contrario a quello indicato dalle Sezioni Unite. Mai, infatti, era
stato argomentato quanto oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite, e cioè che, per una sorta di
somatizzazione del danno morale, se la sofferenza degenera in patologia, va risarcito il solo
pregiudizio alla salute, assorbendo tale pregiudizio anche quello morale. Ed anzi, le Corti Superiori
avevano più volte chiarito che danno biologico e morale “hanno natura diversa e non si
identificano in alcun modo” (Corte Cost. n. 293/1996), perché “il danno biologico consiste nella
lesione dell’integrità psicofisica, mentre il danno morale è costituto dalla lesione dell’integrità
morale” (Cass. n. 15760/2006).
Ciò detto, va osservato che la pronuncia ha ricevuto, oltre ovviamente ad apprezzamenti da
parte di alcuni commentatori, una quantità di critiche e di rilievi come forse mai in passato si era
verificato relativamente ad una sentenza delle Sezioni Unite.
Personalmente, sono tre le perplessità che mi sono sorte dalla lettura del lunghissimo
provvedimento.
Il primo dubbio, a mio avviso, nasce del dictum a tenore del quale il danno biologico
esaurisce tendenzialmente il danno non patrimoniale, oggetto quindi di una reductio ad unum.
In realtà, se inizialmente la dottrina aveva fornito del danno biologico una nozione effettivamente
omnincomprensiva (già si è detto che Giannini parlava di “qualsiasi ingiusta violazione
dell’integrità psicofisica della persona, che ne modifichi in senso peggiorativo il modo di essere e
che incida negativamente sulla sfera individuale del soggetto nelle sue manifestazioni di vita
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giuridicamente rilevanti”), attualmente la definizione di danno biologico fornita dal Legislatore
(“lesione”, che sia “suscettibile di valutazione medico legale”: artt. 13 D.Lgs. 38/2000 in tema di
assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e 138-139 D.Lgs. n. 209/2005 codice delle
assicurazioni), non sembra potere essere esaustiva di ogni pregiudizio non patrimoniale.
Infatti, se la persona è un valore da tutelare in sé, e se il danno biologico presuppone una lesione
suscettibile di valutazione medico-legale, si pone il problema del risarcimento derivante da un
illecito civile che comporti una sofferenza diversa da una lesione dell’integrità psico-fisica
accertabile in via medico-legale.
Il secondo dubbio attiene invece al riferimento, davvero equivoco, operato alla “serietà del
danno” ed alla “gravità dell’offesa” come limite risarcitorio.
In realtà, se tale riferimento attiene alla tipologia della violazione ed alla qualità del bene inciso, si
tratta di una manifesta duplicazione del riferimento ai diritti costituzionalmente inviolabili come
unici diritti la cui violazione consente il risarcimento; se il riferimento attiene invece, come sembra,
all’entità della lesione provocata, introduce una vera e propria ‘franchigia’ risarcitoria, ciò che pare
non possa in alcun modo essere giustificato con il riferimento all’art. 2 Cost., il quale non enuncia
affatto il principio per il quale sarebbero risarciti solo i danni che superano una certa soglia.
Pertanto, si tratta di un inciso più spiegabile con la volontà ‘politica’ di porre un argine al
diffondersi incontrollato dei danni bagatellari, che con l’applicazione di una stringente logica
giuridica.
Da un terzo punto di vista, molto forzata e poco convincente è la ricerca di continuità che la
Cassazione invoca con i propri precedenti, ed in particolare con le sentenze gemelle del 2003 e con
le Sezioni Unite del 2006, ripetutamente citate in motivazione come espressione di principi che
sarebbero meramente ribaditi nelle pronunce di san Martino 2008.
In realtà, le sentenze di Cass. nn. 8827-8828/2003, subordinavano il risarcimento alla semplice
lesione di valori costituzionalmente rilevanti, non già alla ben più ristretta lesione dei soli valori
costituzionalmente inviolabili, e non effettuavano poi alcun riferimento agli ulteriori requisiti della
gravità dell’offesa e della serietà del danno; quanto poi a Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, essa, in tema
di demansionamento nel diritto del lavoro, sanciva espressamente l’esistenza della categoria del
danno esistenziale, e cioè quello che le Sezioni Unite del 2008 invece negano.
E’ allora di tutta evidenza che il riferimento, operato per comprovare l’esattezza di quanto si intende
argomentare, a precedenti che hanno un significato difforme da quello che si intende loro assegnare,
più che rafforzare la tesi che si sta svolgendo, contribuisce piuttosto ad indebolirla.
Detto delle mie tre perplessità, penso di poter dire che tre sono anche, almeno finora, le
smentite che le Sezioni Unite hanno dovuto subire.
19
La prima è derivante dal fatto che la Suprema Corte ha in brevissimo tempo suscitato
ripetute sconfessioni, non solo da parte della giurisprudenza di merito, ma anche di legittimità.
Infatti, con riferimento al danno esistenziale, la di poco successiva Cass. Lav. n. 29832/2008
sembra ribadire l’esistenza di tale categoria di danno, “da intendere come ogni pregiudizio di
natura non meramente emotiva ed interiore (ma oggettivamente accertabile), provocato sul fare
areddituale del soggetto che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a
scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo
esterno”; Cass. n. 7875/2009 conferma una pronuncia di merito che aveva liquidato una somma a
titolo di danno esistenziale; Cass. Lav. n. 21223/2009 e Cass. Sez. Un. n. 4063/2010 espressamente
parlano di danno esistenziale a seguito di demansionamento; Cass. n. 10527/2011 e Cass. n.
14402/2011 parlano di danno parentale come danno esistenziale; Cass. Pen. n. 19678/2009
altrettanto espressamente parla di danno esistenziale; Cass. n. 30668/2011, a tutto tondo, definisce il
danno esistenziale come il “pregiudizio al fare aredittuale determinante una modifica peggiorativa
da cui consegue uno sconvolgimento dell'esistenza e in particolare delle abitudini di vita con
alterazione dei modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia
all'interno che all'esterno del nucleo familiare”; Cass. n. 2228/2012, parimenti, si riferisce
espressamente al danno esistenziale; Cass. nn. 20292/2012 e 22585/2013 liquida come voce
autonoma di danno quello esistenziale; Cass. n. 1361/2014, est., Scarano, espressamente statuisce
che “deve escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la configurabilità e la rilevanza
ai fini risarcitori risarcibilità del c.d. danno esistenziale” il quale costituisce “un peculiare aspetto
del danno non patrimoniale, distinto sia dal danno morale che dal danno biologico, con il quale
concorre a compendiare l’unitaria categoria del danno non patrimoniale”.
Con riferimento poi al danno morale, ancora più nettamente viene smentito l’assunto
dell’inconfigurabilità di una sua autonoma categoria dogmatica, ribadendosi la “autonomia
ontologica del danno morale”, la quale “deve essere considerata in relazione alla diversità del
bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale delle persone” e “pure attiene ad un
diritto inviolabile della persona” (Cass. n. 29191/2008, est. Petti; cfr. poi anche le successive Cass.
n. 28407/2008, Cass. n. 28423/2008, Cass. n. 29191/2008, Cass. n. 379/2009, Cass. n. 479/2009,
Cass. Sez. Un. n. 557/2009, Cass. n. 4053/2009, Cass. n. 10864/2009, Cass. n. 11059/2009, Cass. n.
11701/2009, Cass. n. 13530/2009, Cass. n. 14551/2009, Cass. n. 16448/2009, Cass. n. 20949/2009,
Cass. n. 702/2010, Cass. n. 5770/2010, Cass. n. 9238/2011, Cass. n. 25222/2011, Cass. n.
2228/2012, Cass. n. 16041/2013, Cass. n. 22585/2013, Cass. n. 1361/2014. Cass. n. 4493/2009
addirittura sostiene che, nel giudizio equitativo davanti al Giudice di pace, non opera la limitazione
del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi di legge; e per Cass. n. 2228/2012 e Cass. n.
20
22909/2012 testualmente “il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al
pari del danno biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato a parte”).
Sempre in tema di danno morale, le pronunce della giurisprudenza di merito che hanno realmente
seguito l’insegnamento delle Sezioni Unite, evitando la liquidazione automatica, ritenuta
duplicativa, di un ristoro a titolo di danno morale a seguito della liquidazione del danno biologico,
sono state la minoranza; e ciò perché la maggioritaria giurisprudenza di merito, anche laddove ha
dichiarato di volersi adeguare al dictum delle sentenze di san Martino 2008, lo ha fatto in modo solo
formale, maggiorando il punto biologico del medesimo importo in precedenza riconosciuto al
diverso titolo di danno morale od esistenziale. E tale maggiorazione è stata per lo più effettuata
anche al di sopra dei limiti posti dagli articoli 138 e 139 Cod. Ass. (id est 20% per le
micropermanenti e 30% per le macro), dovendo gli stessi essere unicamente riferiti alla
personalizzazione inerente all’aspetto dinamico-relazionale del danno biologico, ma non anche al
danno non patrimoniale inteso omnicomprensivamente, sia perché, all’epoca dell’emanazione della
norma, era pacifica la risarcibilità del danno morale; sia perché, se il pregiudizio una volta chiamato
morale costituisce ora un fattore di personalizzazione di quello biologico, detta personalizzazione
non dovrebbe trovare limiti ab estrinseco.
La seconda smentita è poi arrivata dallo stesso Legislatore, che per ben due volte, sia pure in
normative settoriali, torna a parlare di danno morale come autonoma categoria di danno.
Infatti, con l’introduzione dell’art. 5 comma 1 lettera c) DPR n. 37 del 3/3/2009, dettato in tema di
risarcimento del danno non patrimoniale al personale appartenente alla carriera militare impiegato
in missioni all’estero, expressis verbis qualifica il danno morale come autonoma categoria di danno
non patrimoniale calcolato in percentuale sul danno biologico, esattamente ciò che le Sezioni Unite
ritengono non possibile. Successivamente, con gli artt. 1 e 4 DPR n. 181/2009 in tema di
accertamento e determinazione del danno per le vittime del terrorismo, non solo si tengono distinte
le due voci di danno biologico e morale, ma si offre un’autonoma definizione normativa del danno
morale stesso.
Ciò ha successivamente indotto la stessa Suprema Corte, per un verso a riconoscere che, così
facendo, il Legislatore “ha inequivocabilmente reso manifesta la volontà di distinguere
concettualmente prima ancora che giuridicamente” danno biologico e morale; per altro verso ad
asserire che le Sezioni Unite “in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un
principio di diritto funzionale alla scomparsa per assorbimento ipso facto del danno morale nel
danno biologico” (Cass. n. 18641/2011, est. Travaglino; nello stesso senso le successive Cass. Lav.
n. 30668/2011, Cass. n. 19402/2013).
La terza smentita è invece assestata dalle cd. tabelle del Tribunale di Milano valide per il
2009, le quali, dopo avere formalmente dichiarato di volere accogliere l’insegnamento delle Sezioni
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Unite, sostanzialmente ne disattendono spirito e lettera, introducendo uno standardizzato e
generalizzato appesantimento del punto percentuale biologico, che ora ricomprende direttamente in
sé l’importo monetario del pregiudizio prima riconosciuto a titolo di danno morale, ferma restando
la possibilità di un’ulteriore personalizzazione in aumento con riferimento alle situazioni prima
compensate con la liquidazione del danno esistenziale. Sul punto, è fin ultroneo segnalare
l’importanza, ai fini pratici, di tale novità, in ragione del diffuso utilizzo delle tabelle redatte
dall’Osservatorio per la Giustizia civile del Tribunale di Milano, avendo dette tabelle da anni
assunto un ruolo guida nella materia della liquidazione del danno non patrimoniale, sostanzialmente
riconducendo ad unità, con la loro forte vis attractiva nei confronti della gran parte dei Tribunali
italiani, il panorama giurisprudenziale dapprima molto variegato.
Addirittura, recentemente la stessa Suprema Corte ha ritenuto le tabelle milanesi il metro della
corretta liquidazione del danno non patrimoniale (in questi termini Cass. n. 12408/2011, nella
sostanza confermata e ribadita dalle successive Cass. n. 14402/2011, Cass. n. 17879/2011, Cass. n.
2228/2012, Cass. n. 12464/2012, Cass. n. 19376/2012, Cass. n. 134/2013).
6. IL SUPERAMENTO DELLE SEZIONI UNITE DA PARTE DI CASS. SEZ. III N.
1361/2014
Il sostanziale completo superamento delle ricostruzione teorica operata dalle Sezioni Unite
nel 2008, è però avvenuto all’inizio del 2014, con una monumentale sentenza di 110 pagine delle
terza sezione, relatore Scarano.
Invero, pur predicando apparentemente continuità con il precedente delle sentenza cd. di San
Martino, la Cassazione, all’esito di un iter motivazionale estremamente dotto e puntiglioso, che
enuclea i seguenti principi di diritto:
- la categoria generale del danno non patrimoniale è di natura composita e si articola nelle tre
voci di danno morale, danno biologico e danno esistenziale;
- il danno morale va inteso come patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento
psichico, nonché come lesione della dignità o integrità morale quale massima espressione della
dignità umana;
- il danno esistenziale consiste nello sconvolgimento dell’esistenza sostanziantesi nello
sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri
nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare,
ovvero in fondamentali e radicali scelte di vita diversa;
- costituisce danno non patrimoniale il danno da perdita della vita, che va ristorato anche in caso
di morte cosiddetta immediata o istantanea, senza che assumano rilievo né la persistenza in vita,
22
né la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine: il diritto
al risarcimento di tale danno è trasmissibile iure hereditatis e il danno va liquidato
equitativamente, non essendo contemplato dalle tabelle del Tribunale di Milano.
A seguito di tale sentenza, la immediatamente successiva Cass. n. 5056/2014 ha rimesso gli
atti alle Sezioni Unite per dirimere il contrasto, al fine di confermare l’impostazione del 2008 od
aderire alla nuova ricostruzione.
Mi sia permesso chiudere con una battuta.
Si è cercato di dimostrare che, subito dopo l’articolata sentenza delle Sezioni Unite che nega
autonoma esistenza alla categoria del danno morale e fa divieto di calcolare lo stesso in percentuale
sul danno biologico, dapprima si è proceduto liquidare il danno biologico con un importo monetario
ricomprendente automaticamente ed esattamente ciò che prima veniva liquidato a titolo di danno
morale; e successivamente, si è tornato a predicare la autonoma esistenza della categoria del danno
morale del danno esistenziale.
Volendo utilizzare una citazione letteraria per descrivere tale situazione, l’unica che mi viene in
mente è la battuta che, ne ‘Il Gattopardo’, Tomasi di Lampedusa mette in bocca a Tancredi
allorquando egli si rivolge allo zio, Don Fabrizio il principe di Salina: “se vogliamo che tutto
rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
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