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Ispettorato Pensioni

L’età pensionabile delle donne nella Pubblica Amministrazione

I quaderni dell’ispettorato

L’età pensionabile delle donne nella Pubblica Amministrazione

Ispettorato Pensioni

Responsabile

Pasquale Gratteri

a cura di

Sonia Basilici e Gianni Farrace

Redazione

Daniela De Sanctis

I Quaderni dell’Ispettorato

Febbraio 2010

In occasione della II Edizione delle Giornate di Studio, “Le pensioni nella Pubblica Amministrazione: evoluzione, istituti, procedure. Legge 6 agosto 2008 n. 133”, organizzata dall’Ispettorato Pensioni nei giorni 1-2 aprile 2009, è stata presentata la serie de “I Quaderni dell’Ispettorato”, il cui primo numero è stato dedicato a Il riconoscimento della “causa di servizio”.

Con la presente seconda pubblicazione si è inteso affrontare un tema di attualità, oggetto di un vivace dibattito e con profonde ripercussioni sulla società civile: l’età pensionabile delle donne che lavorano nella Pubblica Amministrazione, il cui progressivo innalzamento è stato disposto con l’art. 22 ter della L. 3 agosto 2009 n. 102, in attuazione della sentenza n. C-46/07 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 13 novembre 2008.

La scelta dell’Ispettorato Pensioni della Sapienza di dare vita a Quaderni tematici, con cadenza semestrale, dove affrontare, analiz-zare ed approfondire, di volta in volta, aspetti di interesse previden-ziale, rappresenta non solo un efficace strumento di aggiornamento degli addetti ai lavori, nonché di valorizzazione del bagaglio di conoscenze e competenze del personale dell’Ispettorato Pensioni, ma anche di informazione a tutti i dipendenti di questa Università.

E’ auspicabile che l’iniziativa si possa, per il futuro, arricchire dell’in-tervento anche da parte di esperti esterni alla Sapienza, coinvol-gendo, così, nella discussione le Università che vorranno offrire il loro contributo.

CARLO MUSTO D’AMORE

Prima di procedere all’esame delle norme in tema di età pensionabile della donna nella P.A. è forse utile illustrare qualche dato statistico tratto dalla realtà socio-economica.

Innanzitutto va detto che, secondo i dati Istat relativi all’anno 2007, l’aspettativa di vita maschile in Italia è vicina ai 78,5 anni mentre quella femminile è di 84 anni (due anni in più rispetto alla media dell’Unione Europea)1.Chi arriva a 60 anni ha un’aspettativa di vita di 22 anni, se uomo, e di 26,5, se donna. Chi arriva ai 65 anni, poi, può sperare – sempre stando alle statistiche – di vivere almeno 12 anni in buona salute. I dati sopra riportati relativi alla longevità degli italiani, combinati con i dati relativi alla ben nota denatalità che caratterizza da tempo il nostro Paese, danno luogo ad un altro, poco invidiabile, record della popolazione italiana: quello dell’invecchiamento. La quota di italiani sopra i 65 anni è arrivata al 20%, mentre la quota di italiani al di sotto dei 25 è scesa sotto il 25% (record negativo europeo).

Se ai dati precedenti si aggiunge che l’Italia è anche uno dei Paesi con più bassa età di pensionamento (l’età media di collocamento in quiescenza è di oltre due anni più bassa rispetto a quella dell’Unione Europea), il quadro si completa sempre più nei suoi termini reali: in Italia si vive due anni di più e si va in pensione due anni prima (sempre rispetto alla media europea). Ciò comporta che l’Italia spenda per le prestazioni pensionistiche circa il 14% del P.I.L., contro meno dell’8% circa speso dal resto del mondo sviluppato.Basterebbero questi dati a giustificare il progressivo innalzamento dell’età pensionabile che il legislatore ha operato nel corso degli ultimi anni.In particolare, la condizione femminile in campo previdenziale si rivela in tutta la sua criticità, se a quanto sopra detto si aggiunge che in Italia circa il 60% dei pensionati è donna, a cui è però destinato sol-tanto il 44% della spesa pubblica per le pensioni (fonte ISTAT/INPS agosto 2009, riferita all’anno 2007); la pensione delle lavoratrici risulta, a parità di stipendio, più bassa di quella dei lavoratori del 25-30%2; un’età pensionistica di 5 anni più bassa si traduce in una pensione infe-riore del 12-15%3.1 Dati riportati in: Alessandro Rosina, La pensione ? A 65 anni per tutti, articolo

del 13 gennaio 2009 in www.lavoce.info 2 Laura Vitale, intervento a Convegno su “Donne e Previdenza”, Roma 2 aprile

2009.3 Laura Vitale, ibidem.

Alcuni dati sulle pensioni in cinque Paesi dell’UE-15 (Anno 2005) 4

Paesi UE - 15Età pensionabile

(dati anno 2005)

Periodo contributivo

per la pensione

piena

Indicizzazione dei

trattamenti

Italia

60 anni per le donne

e 65 anni per gli

uomini

40 anni

Adeguamento

annuale in base

all’indice dei prezzi al

consumo

Francia60 anni per entrambi

i sessi40 anni

Adeguamento

annuale in base

all’indice dei prezzi al

consumo

Germania65 anni per entrambi

i sessi45 anni

Adeguamento

annuale in base

all’andamento delle

retribuzioni nette

Regno Unito65 anni per entrambi

i sessi44 anni

Adeguamento

annuale in base

all’indice dei prezzi al

consumo

Spagna65 anni per entrambi

i sessi35 anni

Adeguamento

annuale in base

all’indice dei prezzi al

consumo

4 Nicola QuiRino, Europa equa e solidale, INPDAP, Roma 2009, pag. 37.

INDICE

PARTE I - IL QUADRO NORMATIVO

I.1 Le norme fondamentali 3I.2 Il problema dell’età pensionabile 5I.3 La pensione di vecchiaia 7I.4 La pensione di anzianità 10I.5 Il diverso regime tra uomini e donne al vaglio della Corte Costituzionale 11

PARTE II - LA PARIFICAZIONE DELL’ETÀ PENSIONABILE

II.1 La pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità Europee 19II.2 La controversia 20II.3 L’iter argomentativo della Corte di giustizia 21II.4 La posizione del Governo Italiano 23ii.5 Osservazioni critiche 23II.5.1 Giurisprudenza 23II.5.2 Le argomentazioni sul ricorso della Commissione 24II.5.3 Commenti e riflessioni 24II.6 L’adeguamento della legislazione italiana alla pronuncia 28II.6.1 La Commissione di studio sulla parificazione dell’età pensionabile 28II.6.2 La Legge 3 agosto 2009 n. 102 29II.7 Conclusioni 30

Bibliografia 32

Appendice I – Raccolta di giurisprudenza 35

Appendice II - Normativa 47

PARTE I

IL QUADRO NORMATIVO

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I.1 - Le norme fondamentali

Per inquadrare la tematica del pensionamento delle donne nel pub-blico impiego è necessario esaminare preliminarmente le norme che contengono i principi in proposito maggiormente rilevanti: gli artt. 3 e 37 della Costituzione e l’art. 141 CE (Trattato istitutivo della Comunità Europea), oltre a procedere ad un rapido excursus dell’evoluzione nor-mativa in materia pensionistica.

Ai sensi dell’art. 3 della Costituzione “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (comma 1). La norma stabilisce la c.d. eguaglianza in senso formale; essa esige che tutti i cittadini siano eguali davanti alla legge e, conseguentemente, che non si possano prevedere discriminazioni tra di loro. Il principio, assieme al principio di legalità, assicura il riconoscimento concreto dei diritti fondamentali dell’uomo previsto dall’art. 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”).

Per dare effettività al principio di eguaglianza, il 2^ comma dell’art. 3 della Costituzione impone alla Repubblica l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana. È questo il principio di eguaglianza sostanziale che esige, pertanto, secondo una consolidata massima costituzionale, che “vadano trattate in modo uguale le situazioni uguali e in modo diverso le situazioni diverse”; esclude, quindi, le parificazioni e le distinzioni immotivate. La Corte costituzionale ha introdotto, a questo proposito, il criterio della ragio-nevolezza, alla stregua del quale la discriminazione non è conside-rata incostituzionale se è ragionevole e giustificabile, se cioè ha lo scopo di compensare la situazione di inferiorità in cui alcuni cittadini si trovino5.

L’art. 37 della Costituzione dispone: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (comma 1). “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essen-ziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (comma 2).

5 Tra le numerosissime opere sull’argomento, v., per tutti, Commentario alla Costituzione, UTET, Torino, 2006, a cura di Raffaele Bifulco, Alfonso Celotto, Marco Olivetti.

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Nell’art. 37 Cost. può leggersi una specificazione del principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3: con riguardo ai rapporti di lavoro, la disposizione sopra riportata vieta le discriminazioni a danno delle donne e, al tempo stesso, impone l’adozione di trattamenti speciali che tengano conto delle peculiarità proprie del ruolo materno e fami-liare delle donne stesse.

Come si vedrà in seguito, sono state soprattutto le norme contenute negli artt. 3 e 37 della Costituzione ad essere prese a parametro per valutare la legittimità costituzionale delle norme di legge in materia di pensionamento delle donne.

La L. 9 dicembre 1977, n. 903 ha fissato il principio di parità di trat-tamento, di cui all’art. 37 della Costituzione, confermando l’obbligo della parità di trattamento sia economico che normativo. Tale prin-cipio è stato ulteriormente ribadito dal D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità fra uomini e donne).

Per comprendere al meglio l’evoluzione del principio di uguaglianza tra lavoratrici e lavoratori nell’ordinamento italiano, tuttavia, è importante considerare il diritto comunitario. A partire dagli anni ‘70, infatti, sono state emanate numerose norme comunitarie volte alla realizzazione del principio di parità tra i sessi nel mondo del lavoro: tra le tante, particolarmente rilevanti sono le Direttive del Consiglio delle Comunità europee n. 75/117/CEE e n. 76/207/CEE (“interpre-tata, quest’ultima, come idonea ad impedire la possibilità di licenziamento della donna, per la sola ragione del compimento dell’età pensionabile, even-tualmente fissata con riferimento ad un limite meno elevato di quello stabilito per l’uomo”)6, e la Direttiva n. 79/7/CEE, sulla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, di cui si parlerà ampiamente in seguito.

La Corte di giustizia delle Comunità Europee, sin da quando il dato positivo (all’epoca: art. 119 CE - Trattato di Roma 1957) si limitava a prevedere la parità di retribuzione tra lavoratore e lavoratrice, ha compiuto, a sua volta, un’opera di progressiva messa a fuoco dei con-tenuti del principio di parità. I principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte sono stati poi trasfusi nella nuova norma: l’art. 141 CE del Trattato di Amsterdam (1997), i cui principi vanno dalla “parità di retribuzione” di cui al par. 1), all’applicazione del “principio delle pari opportunità” introdotto al par. 3), fino alla “completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa”, fissata dal par. 4).

6 V. Sentenza Corte Costituzionale 11 giugno 1986, n. 137.

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L’art. 141 CE dispone:“1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trat-tamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati diret-tamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sotto-rappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.”

I.2 - Il problema dell’età pensionabile

Il tema sul quale è stata maggiormente dibattuta la conformità alla Costituzione delle norme in tema di pensionamento delle donne è sicuramente quello relativo all’età pensionabile, cioè l’età fissata per legge che, insieme al requisito dell’anzianità di lavoro, assicurativa e contributiva, dà diritto alla pensione.

La L. n. 903/1977 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), con riferimento alla normativa che stabilisce per la lavora-trice un’età pensionabile inferiore (55 anni per le donne, 60 per gli uomini) rispetto a quella prevista per il lavoratore, ha disposto7 che le

7 Ai sensi dell’art. 4 L. n. 903/1977, “Le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare

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donne possano andare in pensione alla stessa età degli uomini, previa presentazione di una domanda, al datore di lavoro, almeno tre mesi prima del compimento dei 55 anni di età8.

Il principio di parità di trattamento, che opera anche in caso di pre-pensionamento, oltre che nell’art. 30 del citato D. Lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità fra uomini e donne), è stato disciplinato da due direttive comunitarie, la n. 79/7/CEE, in materia di regimi legali di sicurezza sociale e la n. 86/378, in materia di regimi professionali di sicurezza sociale, poi recepita dalla direttiva n. 54/2006.

In proposito, la direttiva comunitaria n. 79/7/CEE, nell’introdurre il principio di parità nei regimi pubblici obbligatori di sicurezza sociale per tutti i lavoratori, dipendenti e autonomi, pensionati e invalidi e le persone in cerca di lavoro, vietando qualsiasi discriminazione in base al sesso, ha nondimeno previsto che gli Stati membri possano non applicare il principio di parità alla fissazione dei limiti di età per la concessione della pensione di vecchiaia; con l’invito, peraltro, agli Stati a verificare la giustificazione di tale esclusione tenendo conto dell’evoluzione sociale.A proposito di queste eccezioni, la Corte di giustizia delle Comunità Europee, nel 1993, nel precisare che il principio doveva essere applicato anche in favore degli uomini che si fossero trovati in condizioni sfavo-revoli, avvertiva che le eccezioni al principio delle pari opportunità in tema di età pensionabile andavano interpretate in modo restrittivo.

Della facoltà di non applicazione del principio di parità, prevista dalla direttiva n. 79/7/CEE, l’Italia ha fatto uso fino alla L. n. 102/2009 e continua a farne uso per quanto riguarda gli iscritti all’I.N.P.S.

la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia”. Va precisato che la norma, al pari di quella di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 198/2006, si applica solo alle lavoratrici iscritte all’I.N.P.S. Infatti per le iscritte all’I.N.P.D.A.P. vige la norma di cui all’art. 4 del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, che prevede: “Gli impiegati civili di ruolo e non di ruolo sono collocati a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età; gli operai sono collocati a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età, se uomini, e del sessantesimo anno di età, se donne”.

8 La Corte Costituzionale, con sentenza 27 aprile 1988 n. 498, pubblicata in G.U. 4 maggio 1988, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 4 della L. n. 903/1977 (v. appendice).

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I.3 - La pensione di vecchiaia

La pensione di vecchiaia è una prestazione cui si accede al perfeziona-mento di due requisiti: il raggiungimento dell’età pensionabile e l’ac-credito di un numero minimo di contributi. Per i lavoratori dipendenti sussiste l’ulteriore requisito della cessazione del rapporto di lavoro. L’età pensionabile per il dipendente pubblico, fino al 31.12.2009, è pari a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini. Il pensionamento al raggiungimento di tale età per le donne è tuttavia solo una facoltà, in quanto anche le donne hanno il diritto di poter lavorare, come gli uomini, fino al compimento del sessantacinquesimo anno di età. Le riforme previdenziali e pensionistiche che si sono susseguite nell’ultimo ventennio hanno modificato l’età pensionabile, generando un quadro normativo frammentario.

Il D.P.R. n. 1092/1973, contenente l’Approvazione del Testo Unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato, disciplina, come è noto, il sistema pensionistico “statale” italiano; in questo testo sono state riordinate le norme pensionistiche emanate nell’arco dei quasi 80 anni successivi al precedente Testo Unico in materia pensionistica approvato con R.D. 21 febbraio 1895, n. 70.L’art. 4 del D.P.R. n. 1092/1973 disponeva, per i dipendenti statali, che il collocamento a riposo, equivalente alla pensione di vecchiaia, si con-seguisse al compimento del sessantacinquesimo anno di età; l’unica differenza prevista era quella che riguardava il personale operaio fem-minile, che andava in pensione a 60 anni. Negli anni ‘90, col crescere della preoccupazione per il futuro del sistema pensionistico, determinata soprattutto dalla diminuzione della durata media della vita lavorativa, l’età pensionabile è divenuta il principale argomento di dibattito nella materia, dibattito che è sfo-ciato nelle due grandi riforme del 1992 e del 1995.

La prima riforma è stata realizzata in attuazione della L. 23 ottobre 1992, n. 421, mediante il D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 (riforma Amato) - modificato dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724 – che ha, tra l’altro, previsto un innalzamento graduale dell’età della pensione di vecchiaia9 per i lavoratori pubblici e privati sino ad arrivare, a regime, a 60 anni per le donne e a 65 anni per gli uomini, limite raggiunto nell’anno 2000.

9 Tab. A, D. Lgs n. 503/1992, come sostituita dall’art. 11 Tab. A Legge n. 724/1994.

8

L’insorgenza di vari fattori, primo fra tutti l’entità della spesa pre-videnziale, legato al problema più generale del risanamento della finanza pubblica, e poi il fattore demografico - relativo sia all’allunga-mento della speranza di vita, sia al calo della natalità, sia all’esigenza di garantire un trattamento equanime ai soggetti della stessa genera-zione con trattamenti pensionistici difformi - ha indotto il legislatore a varare un’ulteriore riforma di notevole portata, attuata con la L. 8 agosto 1995, n. 335 (riforma Dini). Questa riforma, nell’affrontare il problema dell’uniformità dei tratta-menti pensionistici - per quanto riguarda le pensioni calcolate con il sistema contributivo - ha introdotto lo stesso sistema di calcolo della prestazione pensionistica indipendentemente dalla gestione previden-ziale alla quale il lavoratore è iscritto. Pertanto, non è prevista alcuna distinzione di età pensionabile tra uomini e donne: per tutti vale la fascia di età 57-67 anni (principio dell’età flessibile). La donna può però avvalersi di periodi di abbuono sull’età pensionabile a seconda del numero dei figli. Nella stessa legge, all’art. 2 comma 21, viene data la possibilità alla lavoratrice di poter accedere al pensionamento di vecchiaia al compimento del sessantesimo anno di età.Il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia pensionistica, con la L. 23 agosto 2004, n. 243 (riforma Maroni) che, ancorché entrata in vigore il 6 ottobre 2004, differisce nel tempo gli effetti della mag-gior parte delle norme, prevedendo nuovi requisiti per il diritto e per l’accesso al trattamento pensionistico a decorrere dal 1 gennaio 2008.Questa legge, all’art. 1 comma 6 lett. b, ha superato il principio dell’età flessibile tornando al principio della differenza di età pensionabile fra uomini e donne. Uno dei punti cardine della riforma è stato senz’altro l’innalzamento dell’età per l’accesso alla pensione di anzianità, che viene portata, dal 2008, a 60 anni, con almeno 35 anni di contributi, per quanto riguarda la pensione di tipo retributivo. L’età anagrafica richiesta è destinata a salire negli anni successivi. La riforma non apporta modifiche sino al 31 dicembre 2007: restano, pertanto, confermate le regole previgenti.Per l’accesso alla pensione di vecchiaia, nel sistema di calcolo retri-butivo o misto, rimangono confermati, anche dopo il 2007, i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa vigente10.10 In particolare, si matura il diritto a tale trattamento pensionistico con 65

anni di età per gli uomini e almeno 60 per le donne, congiuntamente a 20 anni di anzianità contributiva, ovvero 15 anni di contributi se in attività lavorativa alla data del 31 dicembre 1992. Fino al 31 dicembre 2007, in alternativa, si ha diritto al trattamento pensionistico di anzianità qualora

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Le lavoratrici dipendenti possono, in alternativa ai requisiti più gra-vosi, previsti a partire dal 2008, accedere alla pensione di anzianità con i precedenti requisiti (35 anni di contributi e 57 anni di età), a con-dizione che optino per una liquidazione del trattamento pensionistico secondo le regole di calcolo del sistema contributivo.

Ulteriore riforma è stata adottata dal legislatore con la L. 24 dicembre 2007, n. 247 (riforma Damiano), che è entrata in vigore il 1 gennaio 2008 ed ha modificato, in parte, alcuni aspetti già disciplinati dalla L. n. 243/2004. Viene confermata la salvaguardia, già prevista dalla riforma Maroni, per i dipendenti che al 31 dicembre 2007 erano già in possesso dei requisiti anagrafici e di anzianità contributiva, ai quali è stata data la possibilità di accedere alla prestazione pensionistica, anche suc-cessivamente al 1 gennaio 2008, secondo la previgente normativa. Stessa salvaguardia è prevista per le lavoratrici dipendenti che, pre-scindendo dai nuovi requisiti richiesti, possono conseguire il diritto a pensione con 35 anni di contribuzione e 57 anni di età, optando per la liquidazione del trattamento secondo le regole di calcolo contributivo.

Come anticipato, sulla materia pensionistica, è intervenuta anche la giurisprudenza europea chiamata ad affrontare il nodo della dispa-rità dell’età pensionabile tra donne e uomini iscritti all’I.N.P.D.A.P., a seguito di una procedura d’infrazione avviata dalla Commissione. Si è giunti così alla sentenza 13 novembre 2008, n. C-46/07 della Corte di giustizia delle Comunità Europee, che ha imposto la parificazione dell’età pensionabile delle donne a quella dei colleghi maschi, attuata con la L. n. 102/2009.

I.4 - La pensione di anzianità

Quanto detto fin qui riguarda la pensione di vecchiaia. Non esistono differenze legate al sesso per quanto riguarda, invece, la pensione di anzianità, istituto che rappresenta una peculiarità dell’ordinamento italiano, basato sulla possibilità di chiedere il pensionamento prima di raggiungere il limite d’età stabilito per la pensione di vecchiaia, a condizione di possedere i requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla legge.

l’iscritto abbia maturato 40 anni di anzianità contributiva, a prescindere dall’età anagrafica, qualora espressamente indicato come limite di servizio dai regolamenti organici dei singoli enti o da specifiche norme contrattuali.

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Nondimeno in passato, alcuni regimi speciali, come quelli del pub-blico impiego e dei dipendenti di enti locali, avevano previsto requi-siti di anzianità molto più bassi di quelli dell’I.N.P.S. e ancora più bassi per le donne coniugate e con prole. Nel T.U. (D.P.R. n. 1092/1973) era prevista, infatti, una forte salva-guardia per le donne sposate o con prole che, in base all’art. 42, pote-vano chiedere il pensionamento anticipato con anni 14, mesi 6, giorni 1 di servizio utile, con il percepimento differito della pensione e con la concessione di un abbuono fino a maturare il minimo pensionabile di 20 anni11. L’art. 8 del D. Lgs. n. 503/1992, dal 1° gennaio 1993, per le suddette ipotesi di cessazione anticipata dal servizio, ha confermato il suespo-sto beneficio, se già raggiunto alla data del 31 dicembre 1992, per il conseguimento del diritto alla pensione di anzianità nel limite dei 20 anni di servizio effettivo.La norma generalmente è stata considerata di favore per le donne in relazione alla “essenziale funzione familiare” richiamata dall’art. 37 della Costituzione. Come è noto, nel 1992 il D.Lgs. n. 503, con l’omogeneizzazione dei regimi pensionistici che ha previsto il requisito dei 35 anni di contribu-zione e l’introduzione del requisito dei 57 anni di età anagrafica per la pensione di anzianità, ha posto fine al fenomeno delle c.d. pensioni baby.

Nella L. n. 335/1995 il requisito dell’anzianità contributiva era salito a 40 anni senza differenze tra uomini e donne. Successivamente, la L. n. 243/2004 ha individuato per le donne una previsione più favorevole. Seppure in via sperimentale, dal 2008 fino al 2015 le lavoratrici, che avessero accettato il sistema di calcolo contributivo, avrebbero potuto godere della pensione di anzianità con i requisiti precedenti, ovvero 35 di contribuzione e 57 anni di età (anziché i 60 previsti per gli altri casi). La L. n. 247/2007 a sua volta ha previsto un innalzamento graduale dell’età anagrafica (di un anno invece che tre) a partire dal 2008 fino al 2013, senza differenze di genere.

11 L’art. 42, comma 2, del D.P.R. n. 1092/1973 dispone: “Nei casi di dimissioni, di decadenza, di destituzione e in ogni altro caso di cessazione dal servizio, il dipendente civile ha diritto alla pensione normale se ha compiuto venti anni di servizio effettivo; al comma 3 ha previsto che alla dipendente dimissionaria coniugata o con prole a carico spetta, ai fini del compimento dell’anzianità di venti anni di servizio effettivo, un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni.”

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I.5 - Il diverso regime tra uomini e donne al vaglio della Corte Costituzionale

Come si è visto, a più riprese il legislatore ha introdotto un diverso regime tra uomini e donne. In proposito la giurisprudenza ammini-strativa, contabile e costituzionale si è, nel corso degli anni, più volte pronunciata esprimendo giudizi diversi12.

La Corte Costituzionale si è espressa in materia di differente età pen-sionabile tra uomo e donna in numerose occasioni13.

Nella sentenza n. 123 dell’11/07/1969, la scelta del legislatore di pre-vedere un’età pensionabile inferiore per la donna lavoratrice è giu-stificata con l’esigenza di salvaguardare l’essenzialità della funzione familiare della donna, richiamata dall’art. 37 della Costituzione (sul “presupposto che la attitudine al lavoro in via di massima, viene meno nella donna prima che nell’uomo, in genere di maggior resistenza fisica e che la lavoratrice, raggiunto il cinquantacinquesimo anno di età, è opportuno torni ad accudire esclusivamente la famiglia”).

La sentenza. n. 137 del 15/07/1969 ha stabilito che “la norma contenuta nell’art. 12 del R.D.L. 14 aprile 1939 n. 636, convertito in Legge 6 luglio 1939 n. 1272, così come modificato dall’art. 2 della Legge 4 aprile 1952 n. 218 - dettata per la pensione di vecchiaia e di invalidità e di recente appli-cata alla pensione di anzianità - non è in contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione, nonostante prescriva per la donna una pensione inferiore a quella dell’uomo, a parità di retribuzione e di contribuzione. E ciò perché, ai fini della pensione di vecchiaia, occorre tener conto dell’importanza che, nella relativa liquidazione, assume il maggior periodo di tempo di prestazione d’opera, in quanto per la donna si tratta di pensione percepita a 55 anni e per l’uomo a 60 anni, cioè dopo altri 5 anni di lavoro. Ed occorre tener presente altresì che, per il meccanismo di calcolo prescritto in detto art. 12 del R.D.L. n. 636 del 1939, se la donna differisce il pensionamento fino al sessantesimo anno, ogni disparità scompare e, successivamente, dal sessantesimo al ses-santacinquesimo anno, le due pensioni aumentano in condizione di parità, sulla base di percentuali uguali. La disparità, cioè, è soltanto iniziale ed è dovuta al fatto che il lavoratore si inserisce nella scala degli importi di pen-sione a sessanta e non già a cinquantacinque anni. Queste considerazioni

12 In appendice è riportata, in ordine cronologico, una raccolta di massime giurisprudenziali.

13 Le massime delle sentenze citate sono in appendice.

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inducono a pervenire alle medesime conclusioni per la pensione di invalidità e di anzianità, atteso che la posizione dell’uomo e della donna, nell’assicura-zione obbligatoria, non va valutata in funzione di ogni singola prestazione, ma globalmente, per tutti gli eventi protetti, in quanto il rapporto assicura-tivo della previdenza sociale ha la caratteristica fondamentale dell’unitarietà, realizzandosi la tutela attraverso un’unica assicurazione ed un’uniforme disciplina rispetto alle obbligazioni contributive”.

Nella sentenza n. 137 del 18/06/1986, emessa con riferimento alla legi-slazione vincolistica in tema di licenziamento, il giudizio è stato ribal-tato nel senso dell’illegittimità costituzionale della normativa (art. 11 della L. 15 luglio 1966, n. 604; art. 9 del R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, conv. in L. 6 luglio 1939, n. 1272, modificato dall’art. 2 della L. 4 aprile 1952, n. 218; art. 15 D.L.C.P.S. 16 luglio 1947, n. 708; art. 16 L. 4 dicem-bre 1956, n. 1450) che prevede per il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte della donna un’età anticipata rispetto a quella pre-vista per l’uomo. A questo giudizio la Corte è pervenuta innanzitutto prendendo in considerazione diversi fattori che hanno inciso sull’at-titudine lavorativa della donna: innanzitutto l’evoluzione normativa della materia [emanazione della L. 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori); della L. 30 dicembre 1971, n. 1204 (sulla tutela della mater-nità); le leggi di riforma della scuola (L. 18 marzo 1968, n. 444; D.P.R. 31 maggio 1974, n. 420; L. n. 349/1974; D.L. n. 13/1976; ecc.); la legge di riforma del diritto di famiglia (L. 19 giugno 1975, n. 151)], l’avvento di nuove tecnologie, l’evoluzione della giurisprudenza del lavoro, nonché dell’ordinamento comunitario nel senso di una sempre più incisiva applicazione del principio di parità fra uomo e donna. Tutti questi fattori, per quanto riguarda la donna lavoratrice, hanno inciso profondamente, a giudizio della Corte, non solo sulle condizioni di lavoro che la riguardano in modo particolare, ma anche sull’attitudine lavorativa della stessa.

La sentenza n. 498 del 21/04/1988 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione degli artt. 3 e 37 Cost. - l’art. 4 della L. n. 903/1977, nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a pre-stare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all’esercizio di un’opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti. (Stante che l’età lavora-tiva deve essere eguale per la donna e per l’uomo, rimane fermo il

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diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquanta-cinquesimo anno di età, per soddisfare sue esigenze peculiari: ciò non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, meri-tevoli di una particolare regolamentazione). La giustificazione della pronuncia è stata individuata nell’evoluzione delle situazioni verifi-catesi nel campo del lavoro - per l’introduzione di nuovi mezzi e di nuove tecniche - nonché nel campo dell’assistenza, della previdenza e del diritto di famiglia - nel quale, per effetto della riforma del 1975, è stata attuata la parità tra i coniugi relativamente all’assistenza, alla cura e all’educazione dei figli - ha fatto venir meno le ragioni giustifi-catrici della differenza di trattamento della donna lavoratrice rispetto all’uomo lavoratore.

Analoga alla precedente è la sentenza n. 275 del 29/10/2009, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 D. Lgs. n. 198/2006, “nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempe-stiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applica-zione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali”. La motivazione della pronuncia è che “nella disposizione censurata, l’onere di comunicazione posto a carico della lavoratrice, condi-zionando il diritto di quest’ultima di lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un adempimento e, dunque, a un possibile rischio che, nei fatti, non è previsto per l’uomo, compromette ed indebolisce la piena ed effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna, in violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro”.

L’ordinanza n. 703 del 09/06/1988 è invece per l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 R.D.L. . n. 636/1939 (convertito nella L. n. 1272/1939, come modificato dall’art. 2 della L. n. 218/1952), nella parte in cui fissa, con discriminazione fondata esclusivamente sul sesso, un limite di età pensionabile per gli uomini diverso e superiore rispetto a quello stabilito per le donne; “conside-rato che, ferma restando la parità uomo-donna in ordine alla età lavorativa già affermata da questa Corte (sent. n. 137 del 1986), la esistente disparità uomo-donna in relazione all’età pensionabile trova adeguata giustificazione nella necessità della donna di soddisfare esigenze a lei peculiari e proprie di

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essa, che non hanno riscontro nella condizione dell’uomo”. Giudizio riba-dito dall’ordinanza n. 576 del 28/12/1990.

Nel senso dell’illegittimità costituzionale della norma che prevede per la donna un’età pensionabile inferiore rispetto a quella prevista per l’uomo è la sentenza n. 1106 del 20/12/1988: “È illegittimo, per viola-zione degli artt. 3, 4, 35 e 37 cost., l’art. 3, 4° comma, L. 5 dicembre 1986, n. 856, nella parte in cui, nel disciplinare il pensionamento anticipato obbli-gatorio del personale esuberante delle società del gruppo Finmare, fissa per le donne un limite di età inferiore rispetto a quello stabilito per gli uomini.”

Con sentenza n. 371 del 06/07/1989, la Corte Costituzionale ha dichia-rato “illegittimo - in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. - il combinato disposto degli artt. 16, L. 23 aprile 1981, n. 155 e 1, L. 31 maggio 1984, n. 193 nella parte in cui non si riconosce alla lavoratrice del settore siderurgico - in caso di pensionamento anticipato, al compimento del cinquantesimo anno di età - di conseguire la medesima anzianità contributiva fino a sessanta anni come per il lavoratore”.

Con sentenza n. 34 del 25/02/1975 la Corte Costituzionale si è occu-pata del divieto di computare per le donne più di 104 contributi gior-nalieri per ciascun anno, previsto dall’art. 5 della L. 9 gennaio 1963, n. 9, per affermare la conformità alle norme della Costituzione dell’arti-colo medesimo in quanto “sebbene la norma in questione, regoli con norme diverse, per gli uomini e per le donne, i requisiti per il conseguimento della pen-sione, il divieto di computare per le donne più di 104 contributi giornalieri per ciascun anno - oggetto specifico della sollevata questione - corrisponde all’ana-logo divieto di computo per gli uomini di un numero di contributi eccedenti i 156. Il differente ammontare della contribuzione annuale massima per maturare la pensione trova, d’altra parte, la sua ratio nel minor numero di contributi richiesti per le pensioni di vecchiaia e di invalidità della donna (rispettivamente 1560 e 520) nei confronti dell’uomo (2340 e 780), nonché nel differente limite di età (55 anni) che la stessa norma pone per la pensione di vecchiaia della donna rispetto a quello (60 anni) che è previsto per l’uomo. Tenuto complessivamente conto di tale disciplina, il citato art. 5 della Legge n. 9 del 1963 non può dirsi in contrasto né col principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., né con quello di parità di diritti del lavoratore e della lavoratrice di cui all’art. 37 Cost.”

Non sono mancate pronunce nelle quali la norma, della quale si accer-tava l’illegittimità costituzionale, prevedeva un trattamento a danno dell’uomo, anziché, come di norma, della donna; in proposito, vedasi

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ad es. sentenza n. 9 del 30/01/1980 (ud. del 25/01/1980), (p.d. 10064). La giurisprudenza costituzionale, ha esteso al lavoratore padre i diritti previsti per le madri, laddove mancasse un’espressa previsione legisla-tiva in tal senso. Le «correzioni» apportate al dettato legislativo sono state giustificate non solo in forza della necessità di conformare la disci-plina attuativa dell’art. 37 Cost. al principio di uguaglianza/ragione-volezza - che vieta le discriminazioni irragionevoli anche a danno del «sesso forte» -, ma anche in rapporto alla tutela del diritto del minore a crescere in un contesto familiare in cui siano presenti entrambe le figure genitoriali. (“Null’altro che la diversità di sesso, in palese contrasto con l’art. 3 Cost., motiva il deteriore trattamento riservato dalla norma impugnata al vedovo della donna pensionata di guerra, rispetto alla condizione riservata alla vedova del pensionato di guerra. È, pertanto, costituzionalmente illegittimo l’art. 69 della Legge 10 agosto 1950 n. 648, nella parte in cui non prevede, accanto alla vedova, anche il vedovo quale soggetto del diritto alla reversibilità di pensione di guerra già fruita dal coniuge deceduto”).

La Corte Costituzionale si è anche occupata della norma di cui all’art. 42 D.P.R. n. 1092/1973, in base al quale, come si è già visto, le donne sposate o con prole potevano chiedere il pensionamento anticipato con anni 14, mesi 6, giorni 1 di servizio utile con il percepimento differito della pensione, concedendo un abbuono fino a maturare il minimo pensionabile di 20 anni. Nell’ordinanza n. 868 del 21/07/1988, la Corte ha ritenuto “manifesta-mente infondata, in quanto ictu oculi priva di qualsiasi fondamento, la que-stione di legittimità costituzionale dell’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui prevede per i soli dipendenti pubblici di sesso femminile e non anche per quelli di sesso maschile, il beneficio dell’aumento del servizio effettivo di lavoro fino a un massimo di cinque anni, ai fini del compimento dell’anzianità per il diritto alla pensione ordinaria in caso di dimissioni, in riferimento agli artt. 3 e 51 Cost.”

L’ordinanza n. 671 del 16/06/1988, ha dichiarato “manifestamente infon-data, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale esaminata per la prima volta (ma analoga ad altra già decisa con sentenza di rigetto), dell’art. 27, ult. comma, Legge 29 aprile 1976, n. 177, nella parte in cui limita alle cessazioni dal servizio successive alla sua entrata in vigore la riduzione a quindici, rispetto al maggior periodo di venti anni stabilito dall’art. 42 D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, la durata minima dell’effettivo servizio prestato per conseguire il diritto al trattamento pensionistico, anche a fini di reversibilità. Il prospettato dubbio appare all’evidenza da disattendere,

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essendo espressione della discrezionalità legislativa il progressivo migliora-mento dei trattamenti previdenziali, da attuare con gradualità di passaggi; conseguentemente, quando un’innovazione legislativa non è, come nella spe-cie, in sé irrazionale, la fissazione di un momento temporale di decorrenza è inevitabile e al legislatore non può essere precluso il potere di adeguare la disciplina giuridica agli sviluppi della realtà socio-economica”.

Dello stesso tenore la sentenza n. 329 del 13/07/1990, che ha stabilito che “l’art. 10, 5° comma, D. L. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito dalla Legge 25 marzo 1983, n. 79 e l’art. 21, 11° comma, Legge 27 dicembre 1983, n. 730, i quali dispongono che le pensioni attribuite con abbuono di anzianità sino al massimo di cinque anni alle dipendenti dimissionarie coniugate o con prole a carico vengano differite al termine di un periodo di tempo pari all’aumento del servizio utile concesso ai fini del conseguimento dell’anzianità minima, non sono in contrasto con gli artt. 31 e 37 Cost., non avendo un’incidenza diretta sull’essenziale funzione familiare della donna e sui compiti relativi”.

Infine la sentenza n. 404 del 18/11/1993 ha dichiarato “non fondata - in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 L. 23 aprile 1981 n. 155, nella parte in cui non consente alle lavoratrici di età superiore ai cinquanta anni di fruire di un accredito contri-butivo di cinque anni”.

PARTE II

LA PARIFICAZIONE DELL’ETÀ PENSIONABILE

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II.2 - La pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità Europee

In questo quadro normativo è intervenuta, il 13 Novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità Europee che, con sentenza14, ha condannato l’Italia perché l’anticipazione dell’età pensionabile delle donne è stata ritenuta discriminatoria. L’inadempienza dello Stato ita-liano è stata dichiarata per il fatto di “mantenere in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diversa a seconda che siano uomini o donne, venendo meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE”. La procedura di infrazione era stata avviata nel luglio del 2005, quando la Commissione aveva obiettato in merito all’effetto del com-binato disposto dell’art. 5, D. Lgs n. 503/1992 e dell’art. 2 comma 21, L. n. 335/1995, in cui l’età pensionabile per i dipendenti pubblici di sesso femminile era stata fissata a 60 anni, mentre per quelli di sesso maschile a 65 anni. La sentenza del 13 novembre 2008 ha richiamato numerose pronunce15 precedenti, cui espressamente fa rinvio per ricondurre la pensione di vecchiaia all’ambito di applicazione dell’art. 141 CE. Dopo aver fatto confluire la fattispecie nel disposto dell’art.141 CE, la sentenza si fonda sul divieto contenuto, nel medesimo articolo, di qualsiasi discri-minazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso diverso, quale che sia il meccanismo che genera la disuguaglianza.La sentenza della Corte avrebbe dovuto essere eseguita entro sessanta giorni dalla pronuncia16 anche se il termine non presentava carattere perentorio; in caso di inosservanza, la Commissione europea avrebbe aperto una procedura di infrazione con la messa in mora dell’Italia. Non era praticabile l’ipotesi di lasciare senza esecuzione la sentenza, poiché il perdurante inadempimento avrebbe provocato un nuovo ricorso presso la Corte di giustizia da parte della Commissione, con l’applicazione di sanzioni per somme molto ingenti.

14 Sentenza n. C-46/07; Inadempimento di uno Stato - Art. 141 CE - Politica sociale - Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile - Nozione di “retribuzione” - Regime pensionistico dei dipendenti pubblici.

15 Corte di giustizia 17 maggio 1990, C – 262/88, Baber; Corte di giustizia 6 ottobre 1993, C -109/91, Ten Oever; Corte di giustizia 28 settembre 1994, C- 7/93, Beune; Corte di giustizia 29 novembre 2001, C-366/99, Griesmar; Corte di giustizia 12 settembre 2002, C- 351/00, Niemi.

16 Le sentenze della Corte di giustizia sono pubblicate il giorno stesso in cui sono emesse.

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Esaminiamo ora la sentenza della Corte di giustizia del 13 novembre 2008, n. C - 46/07, che ha riportato sotto i riflettori il problema dell’età pensionabile, già da tempo – come si è visto - oggetto di un dibattito politico parlamentare e di interventi di riforma.

II.2 - La controversia

Nel corso della fase pre-contenziosa, le autorità italiane avevano sostenuto che i dipendenti pubblici avevano diritto alla pensione di vecchiaia, nell’ambito del regime gestito dall’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (I.N.P.D.A.P.), alla stessa età prevista dal sistema pensionistico gestito dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) per le cate-gorie generali di lavoratori. La Commissione ha ritenuto, per contro, che la previsione di tale facoltà solo a favore delle donne costituisca una discriminazione ai sensi dell’art. 141 CE ed ha quindi fatto ricorso alla Corte di giustizia. La procedura di infrazione (e la successiva sentenza) non riguarda gli iscritti all’I.N.P.S., perché il regime previdenziale amministrato da questo Istituto è considerato, secondo i canoni della giurisprudenza comunitaria, un regime c.d. “legale”, ed è quindi ritenuto conforme alla normativa comunitaria. I regimi “legali”, che interessano la generalità dei lavoratori, rientrano nell’ambito di applicabilità della direttiva n. 79/7/CEE17 che, all’art. 7, consente di diversificare la fissazione del limite di età per la conces-sione della pensione di vecchiaia dal principio di parità di trattamento tra i due sessi. Il regime gestito dall’I.N.P.D.A.P. rientrerebbe invece, secondo la Commissione e la Corte di giustizia, tra i regimi “professionali”, con la conseguente applicazione della direttiva n. 86/378/CEE18 - come modificata dalla direttiva n. 96/97/CE - e dall’art. 141 del Trattato CE, che vietano ogni discriminazione retributiva in base al sesso.

17 Direttiva n. 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale.

18 Direttiva del Consiglio del 24 luglio 1986 relativa all’ attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale, (G.U. L 51 del 20/02/1987), pagg. 56–56; Direttiva n. 96/97/CE del Consiglio, del 20 dicembre 1996, che modifica la Direttiva 86/378/CEE (Gazzetta ufficiale delle Comunità europee L. 46 del 17/02/1997).

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Un regime pensionistico di vecchiaia è considerato “professionale”, e rientra quindi nel campo di applicazione dell’articolo 141 CE, qualora ricorrano i seguenti tre requisiti:

1. la pensione interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori; 2. sia direttamente in funzione degli anni di servizio prestati; 3. il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente.

II.3 - L’iter argomentativo della Corte di giustizia

La Corte ha dichiarato che “mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vec-chiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE”. La Corte di giustizia ha accolto quanto prospettato dalla Commissione europea percorrendo il seguente iter argomentativo:

a) Ai sensi dell’art. 141, n. 1, CE, “ciascuno Stato membro assicura l’ap-plicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per “retribuzione” si intende il salario o trattamento nor-male di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell’impiego di quest’ultimo.

b) Il regime pensionistico di vecchiaia gestito dall’I.N.P.D.A.P. è considerato “professionale”, nel senso sopra detto.

c) Esaminato il regime della pensione di vecchiaia gestita dall’I.N.P.D.A.P. alla luce della precedente giurisprudenza comunitaria, la Corte ha verificato la ricorrenza dei tre elementi che caratterizzano il regime “professionale”. Ha pertanto disatteso l’argomento dello Stato italiano (secondo il quale il regime pensionistico dei dipendenti pubblici, in ragione della contrattualizzazione del pubblico impiego, sarebbe stato assimilato a quello privato e pertanto non riguarderebbe una categoria particolare di lavoratori) e ha concluso che «la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’I.N.P.D.A.P. deve essere qualificata come “retribuzione” ai sensi dell’art. 141 CE».

d) Poiché l’articolo 141 CE vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile, la fissa-zione di un requisito di età, che varia secondo il sesso, per la concessione di una pensione che, ai sensi dello stesso art. 141 CE, costituisce una voce della retribuzione, è in contrasto con questa disposizione.

e) La Corte ha, infine, respinto l’argomento dello Stato italiano secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento, di un’età diversa secondo il

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sesso sarebbe giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne, ai sensi dell’art. 141 CE (disposizione che ammette il mantenimento di talune misure di vantaggio specifico per il sesso sot-torappresentato). Infatti, ha sostenuto la Corte, i provvedimenti nazio-nali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo e la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile, aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che possono incontrare durante la loro carriera professionale.

Per arrivare a concludere che l’Italia, assicurando un pensionamento di vecchiaia anticipato alle lavoratrici del pubblico impiego, viola il principio di parità di trattamento di cui all’art. 141 CE, la sentenza della Corte di giustizia, accogliendo le tesi della Commissione, ha esa-minato l’ordinamento previdenziale gestito dall’I.N.P.D.A.P.. La Corte non sembra aver preso in considerazione la portata del cambiamento intervenuto nella previdenza dei pubblici dipen-denti a seguito delle riforme degli ultimi quindici anni, di cui anche l’I.N.P.D.A.P. fa parte. Oggi, in Italia, le regole pensionistiche, previ-ste a regime per il lavoro dipendente, nel settore pubblico e nel pri-vato, sono le stesse, mentre le differenze rimangono con riferimento ai periodi pregressi e ai periodi di transizione.

In parallelo con l’armonizzazione delle regole si è configurata nel pubblico impiego, con l’istituzione dell’I.N.P.D.A.P., una distinzione netta tra la gestione del personale ancora in servizio e quella del per-sonale ormai in quiescenza. Costituito, in via definitiva, con D.Lgs n. 479/1994, l’I.N.P.D.A.P. è incaricato di gestire alcune prestazioni pre-videnziali e assistenziali, fino a quel momento attribuite alla Direzione Generale del Ministero del Tesoro. Il primo nucleo di gestioni pensio-nistiche incorporate dall’I.N.P.D.A.P. era appunto costituito da quat-tro casse gestite dal Ministero del Tesoro (dipendenti delle ammini-strazioni locali, medici del Servizio Sanitario Nazionale, insegnanti d’asilo e ufficiali e coadiutori giudiziari). Con la L. n. 335/1995 venne istituita, sempre presso l’I.N.P.D.A.P., la gestione dei trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato. Si trattò di una decisione importante; fino a quel momento infatti le amministrazioni statali, in quanto datrici di lavoro, si limitavano a trattenere la quota di contribuzione a carico dei lavoratori, questo per-ché al momento della cessazione dal servizio del dipendente spettava

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all’amministrazione stessa calcolare ed erogare la prestazione pensio-nistica, che corrispondeva sostanzialmente alla retribuzione pensio-nabile dell’ultimo mese di lavoro.

II.4 - La posizione del Governo italiano

In data 11 dicembre 2008 si è riunito un tavolo tecnico presso il Ministero degli Affari Esteri, per discutere sulle modalità di applica-zione della sentenza.

Dalla riunione sono emerse varie posizioni:

– la Ragioneria Generale dello Stato ha sostenuto di essere favorevole all’introduzione di una norma che uniformasse l’età pensionabile di uomo e donna sia nel settore pubblico che nel settore privato.

– Il Ministero del Welfare, nel sottolineare che un intervento riguar-dante il solo settore pubblico, oltre ad essere più facilmente esegui-bile senza sconvolgere il sistema previdenziale nazionale, sarebbe stato sufficiente ad eseguire la sentenza, ha manifestato contrarietà all’estensione della riforma al settore privato.

– Il Ministero delle Pari Opportunità ha chiesto che, in caso di aumento dell’età pensionabile delle donne, i conseguenti risparmi di spesa fossero destinati a misure di sostegno per facilitare l’inse-rimento delle donne nel mondo del lavoro.

– Il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ha concordato sulla necessità di adeguamento alla sentenza della Corte di giustizia, ed ha sottolineato che l’individuazione delle modalità tecniche dell’intervento presupponeva scelte politi-che delicate riguardanti l’intero sistema previdenziale. Pertanto, sarebbe stato lo stesso Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ad esercitare il suo potere di indirizzo e coordina-mento verso i Ministri interessati.

II.5 - Osservazioni Critiche

II.5.1 - Giurisprudenza

Come si è già detto, i giudici di Lussemburgo, mostrando di aderire alla posizione espressa dalla Commissione Europea, hanno sostenuto che il regime pensionistico gestito dall’I.N.P.D.A.P. non si configura come un regime “legale” di pensionamento, al quale è applicabile

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la direttiva del Consiglio n. 79/7/CEE19 del 19 dicembre 1978, bensì come un regime “professionale”, nei confronti del quale deve trovare piena applicazione il principio della parità retributiva tra uomo e donna per uno stesso lavoro.Come si è anche detto, il tentativo dell’Italia di argomentare e di dimo-strare la natura “legale” del regime in questione, poiché la normativa contestata è conforme a quella applicabile alle categorie dei lavora-tori iscritti all’I.N.P.S., nonché per il fatto che le prestazioni che esso conferisce non costituiscono il corrispettivo dei contributi versati, si è rivelato infruttuoso.

II.5.2 - Le argomentazioni20 sul ricorso della Commissione

La Commissione, oltre a ritenere che il regime pensionistico gestito dall’I.N.P.D.A.P. costituisca un regime discriminatorio e contrario all’art. 141 CE, sottolinea che la Corte ha più volte confermato21 che una pensione corrisposta da un datore di lavoro ad un ex dipendente per il rapporto lavorativo tra essi intercorso costituisce una “retribu-zione” ai sensi dell’art. 141 CE e la stessa Corte ha ritenuto22 che ciò sia vero anche per le pensioni erogate dallo Stato agli ex dipendenti che abbiano prestato servizio nel settore pubblico. La Commissione, nel rinviare alle sentenze citate, sostiene che vada verificato se sono soddisfatti i tre criteri dianzi ricordati che caratterizzano il regime “professionale” (v. sopra).La Commissione ha ritenuto di individuare i tre suddetti cri-teri, come qualificanti di tale regime pensionistico, nella relazione dell’I.N.P.D.A.P. del 23 dicembre 2004.

II.5.3 - Commenti e riflessioni

Nella relazione citata da ultimo, l’I.N.P.D.A.P. ha contestato l’inadem-pimento addebitato facendo valere il carattere “legale” del regime pen-sionistico gestito dall’Istituto, a detto scopo richiamando la contrattua-lizzazione e le riforme attuate nel pubblico impiego; ha sottolineato che i diversi limiti di età fissati per gli uomini e le donne nel regime 19 Graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra uomini e

donna in materia di sicurezza sociale.20 Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2009, II.21 Sentenza 17 maggio 1990, causa C - 262/88, Barber e sentenza 6 ottobre 1993,

causa C - 109/91, Ten Oever.22 Sentenze 28 settembre 1994, causa C – 7/93, Beune; 29 novembre 2001, causa

C – 366/99, Griesmar; nonché 12 settembre 2002, causa C - 351/00, Niemi.

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I.N.P.D.A.P. sono gli stessi stabiliti per i lavoratori iscritti all’I.N.P.S. in virtù del principio di armonizzazione introdotto negli anni ‘90. Per mettere in risalto la natura “legale” del regime pensionistico gestito dall’I.N.P.D.A.P., la relazione di questo Istituto ha sottolineato inoltre il principio contenuto nell’art. 3 D. Lgs n. 479/1994 (Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di riordino e soppressione di enti pubblici di previdenza e assistenza pubblicato nella Gazz. Uff. 1 agosto 1994, n. 178) che prevedeva un unico regime di organizzazione dell’I.N.P.D.A.P e dell’I.N.P.S. per quanto riguarda gli organi di gestione; viene inoltre ribadito il fatto che le prestazioni conferite dall’I.N.P.D.A.P. non costituiscono il corri-spettivo dei contributi versati. Nel commentare la sentenza, parte della dottrina23, ha posto l’accento sulla natura “professionale”, che la Corte, supportata dalla direttiva su pari opportunità e trattamento24, ha attribuito al regime pensionistico dei pubblici dipendenti in Italia ed ha richiamato il Regolamento CEE n. 1606/1998, che ha disposto l’estensione del Regolamento n. 1408/1971, in tema di totalizzazione contributiva, anche ai regimi “speciali” per dipen-denti pubblici. Questa dottrina ha rilevato che il mancato uso nella sen-tenza del termine “speciale”, diverso da quello “professionale”, costan-temente ricorrente nella sentenza, ha favorito l’inserimento della materia nell’ambito di applicazione dell’art. 141 CE. L’omissione di tale quali-ficazione (“speciale”), ha così portato alla sovrapposizione dei regimi “legali” per i dipendenti pubblici con eventuali regimi “professionali”, con il risultato di parziale soppressione della direttiva n. 79/7/CEE.25 Secondo altri commentatori26, la Corte di giustizia ha condannato il sistema pensionistico italiano per la diversa età di pensionamento tra uomini e donne, attraverso un percorso nel quale almeno tre elementi “appaiono fortemente criticabili per non dire errati”:

• il riferimento al regime previdenziale del pubblico impiego, gestito dall’I.N.P.D.A.P., quale regime “professionale” e non “legale”;

23 Pasquale sandulli, Età pensionabile e parità donna uomo per i pubblici dipendenti: la Corte di giustizia fra omissioni e ridenominazioni, in Riv. Diritto della Sicurezza Sociale, 2009, pag. 97 e ss.

24 Direttiva n. 2006/54/CEE.25 Pasquale sandulli, op. ult. cit., pag. 19 nota 28. L’intervento di adeguamento

del legislatore nazionale alla sentenza della Corte, secondo questa dottrina, andava ispirato a un criterio di gradualità, evitando l’immediata applicazione della parità nell’età di accesso al trattamento pensionistico.

26 Giuliana CioCCa, La Corte di giustizia, la parità retributiva e l’età pensionabile, in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, 2009, pag. 124 e ss.

26

• la previsione di una diversa età pensionabile per uomini e donne, che avrebbe determinato la violazione del principio di parità di retribuzione previsto dall’art. 141 CE;

• la concezione della pensione come retribuzione, che consentirebbe il riferimento alla parità retributiva.

Partendo, viceversa, proprio dall’art. 141 CE che offre la possibilità di trattamenti differenziati per specifiche situazioni - “si tratta di tratta-menti retributivi, ovvero corrispettivi dell’attività lavorativa del soggetto, sia di sesso maschile sia di sesso femminile” - si dovrebbe dedurre – ad avviso della dottrina in discorso - che il suddetto articolo non possa essere esteso ai trattamenti previdenziali, che si differenziano nella sostanza da quelli retributivi. Non è infatti sostenibile che la pensione, presta-zione obbligatoria di sicurezza sociale, sia equiparata alla retribuzione; semmai, potrebbe considerarsi corrispettiva della contribuzione, non della prestazione lavorativa che cessa al momento del pensionamento.Si pone in evidenza anche la mancata considerazione nella sentenza di quanto previsto dalla direttiva comunitaria n. 2006/54, ovvero l’at-tuazione del principio delle pari opportunità27, della parità di tratta-mento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. Secondo questa dottrina, la Corte ha evitato il riferimento alla direttiva n. 2006/54, il cui art. 13 prevede la possibilità di un età pensionabile flessibile28, allo scopo di raggiungere il suo obiettivo, cioè l’attuazione della parità di sicurezza sociale. Il percorso della Corte si è poi concluso qualificando il regime gestito dall’I.N.P.D.A.P. come “professionale” di sicurezza sociale e non come regime “legale”, e ritenendo l’I.N.P.D.A.P. coincidente con lo Stato che è datore di lavoro. La stessa dottrina ha infine ricordato che una sentenza della stessa Corte di giustizia (23 settembre 2008), non considerata dalla sentenza n. C-46/07, aveva affermato, in senso contrario, che “il diritto comunitario non contiene un divieto di qualsiasi discriminazione fondata sull’età di cui i giudici devono garantire l’applicazione allorché il comportamento eventual-mente discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto comunitario”.Le argomentazioni addotte dall’Italia non hanno convinto la Commissione secondo cui costituisce “retribuzione”, ai sensi dell’art. 141 CE, anche la pensione il cui importo è calcolato sulla base del valore medio della retribuzione, percepita dal dipendente nel periodo

27 Direttiva n. 2006/54: “gli Stati membri dovrebbero mirare, anzitutto, a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa.”

28 ”…che gli uomini e le donne possano chiedere un’età pensionabile flessibile non è considerato incompatibile con il presente capo”.

27

precedente al collocamento a riposo, nonché, la pensione calcolata sulla base dell’importo di tutti i contributi versati durante la vita lavorativa. Secondo un’ulteriore opinione, la pensione può essere assimilata ad una retribuzione29 se viene vista come reddito che il lavoratore pre-dispone per la sua quiescenza attraverso l’accantonamento contribu-tivo, suo e del datore di lavoro. La suddetta assimilazione può cre-are contrasto tra la sentenza n. C-46/07, l’art. 141 CE e la direttiva n. 79/7/CEE, laddove l’art. 141 CE afferma la parità di trattamento retributivo tra uomo e donna e la direttiva lascia la possibilità ai Paesi membri di fissare l’età di pensionamento di vecchiaia. Secondo questo orientamento sarebbe necessario distinguere tra prestazioni previdenziali, che ricadrebbero nella sfera del diritto del lavoro e nell’art. 141 CE, e prestazioni assistenziali finanziate dalla fiscalità generale, come interventi del welfare e quindi lasciate, secondo la direttiva n. 79/7/CEE30, nella sfera di competenza degli Stati membri anche per ciò che riguarda l’età anagrafica.Come si è detto più volte, secondo la sentenza n. C-46/07, fissare un’età che varia secondo il sesso per la concessione di una pensione, che a sua volta è considerata “retribuzione”, è in contrasto con la norma-tiva comunitaria. Anche se l’art. 141, prosegue la sentenza n. C-46/07, autorizza gli Stati membri a mantenere misure vantaggiose, dirette a compensare gli svantaggi esistenti nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne; ciò non può giustificare la fissazione di diversi limiti di età. Gli Stati membri, in virtù di tale disposizione, dovrebbero contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di uguaglianza rispetto all’uomo. Non è diversificando i limiti di età che si compenserebbero, secondo detta sentenza, gli svantaggi che caratterizzano le carriere dei pubblici dipendenti di sesso femminile. Secondo un’altra dottrina31, la conservazione di un’età pensionabile diversa per le donne, che si traduce nell’assicurare una loro più assi-dua presenza in ambito familiare e nel corrispondente pregiudizio della carriera lavorativa, non avrebbe portato molto lontano. Il pro-nunciato della Corte di giustizia europea, che stiamo esaminando, sollecita pertanto una riflessione sul principio comunitario di ugua-glianza; principio che si pone al di là di ogni querelle sull’uguaglianza

29 Fabio Pammolli e Nicola Carmine saleRno, Corte di giustizia, pensionamento delle donne, riforma del “welfare”, in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, 2009, pag. 146 e ss.

30 Art. 7 Direttiva del Consiglio n.79/7/CEE del 19 dicembre 1978.31 Valeria PiCCone, Principio comunitario di uguaglianza, parità retributiva, e l’età

pensionabile, in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, 2009, pag. 105 e ss.

28

formale e sostanziale, essendo il frutto del lungo percorso che ha condotto al superamento delle due diverse concezioni fra loro con-trapposte, l’una formale e l’altra sostanziale, della nozione di ugua-glianza. La sentenza, caratterizzata dalla valenza sostanziale del prin-cipio, promuove misure dirette a correggere situazioni distorte, non risolvibili soltanto mediante il generale rispetto del principio di non discriminazione. La fissazione di un’età pensionabile anticipata per le donne rappresenta pertanto una finalità promozionale del sesso sottorappresentato. Secondo la stessa dottrina, “la Corte, richiamando l’art. 141 CE, si pronuncia in senso sempre più favorevole in ordine all’am-missibilità del criterio della sottorappresentazione femminile quale fonte di legittimazione di misure preferenziali ed anche di meccanismi di quote e chia-risce definitivamente che la compatibilità di una utilizzazione in tal senso dei criteri di tutela, trova la propria ratio giustificatrice nella finalità di parità sostanziale che persegue”. Per contro, nella relazione del 23 dicembre 2004, l’I.N.P.D.A.P. ha sostenuto che il limite di età differenziato secondo il sesso è giustifi-cato dalle discriminazioni ancora esistenti nel contesto socioculturale.

II.6 - L’adeguamento della legislazione italiana alla pronuncia

II.6.1 - La Commissione di studio sulla parificazione dell’età pensionabile

Con decreto del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’In-novazione del 10 febbraio 2009 è stata istituita una Commissione di studio sulla parificazione dell’età pensionabile32. Dalla riunione della Commissione è emersa l’urgenza di provvedere ad un adeguamento della normativa non solo per l’eventualità che la Commissione euro-pea avvii la procedura di inadempimento ai sensi dell’art. 228 del Trattato, con conseguente condanna dell’Italia al pagamento di penali, ma anche per il fatto che, come sancito in un precedente della Corte di giustizia in tema di disparità di trattamento ai danni degli uomini, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria senza doverne attendere la previa rimozione da parte del legislatore.33 Pertanto, un dipendente pubblico di sesso maschile

32 Composta da Giuliano Cazzola, Maria Cozzolino, Fiorella Kostoris Padoa Schioppa, Riccardo Rosetti e Leonello Tronti.

33 Ordinanza 16 gennaio 2008, cause riunite da C-128/07 a C-131/07, relativa all’aliquota agevolata sul TFR per andare in pensione anticipatamente a 50 anni per le donne e a 55 per gli uomini.

29

avrebbe potuto adire il giudice nazionale per ottenere la concessione della pensione di vecchiaia a 60 anni, invocando la norma che prevede tale facoltà per le donne, con una parificazione al ribasso dell’età pen-sionabile pregiudizievole per il bilancio dello Stato.

II.6.2 - La Legge 3 agosto 2009, n. 102

Il legislatore nazionale ha ottemperato alle disposizioni contenute nella sentenza n. C-46/07 della Corte di giustizia europea con la L. n. 102/2009, di conversione del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, che ha innalzato i requisiti anagrafici per le lavoratrici del pubblico impiego. L’art. 22 ter della su citata legge introduce, a decorrere dal 1 gennaio 2010, per le lavoratrici iscritte alle forme esclusive dell’Assicurazione Generale Obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, nuovi requisiti anagrafici per l’accesso al trattamento pensionistico di vec-chiaia, nonché quello previsto all’art. 1 comma 6 lettera b) della L. n. 243/200434. Queste disposizioni si aggiungono all’art. 2 comma 21 della L. n. 335/1995, individuando per l’anno 2010 il requisito ana-grafico di anni 61 per la maturazione del diritto ad un trattamento pensionistico di vecchiaia, che viene poi incrementato di un anno, a decorrere dal 1 gennaio 2012, nonché di un ulteriore anno per ogni biennio successivo, fino al raggiungimento dei 65 anni, come riportato nella tabella seguente:

Anno Età anagrafica2010 61

2012 62

2014 63

2016 64

2018 e oltre 65

L’innalzamento del limite di età opera anche nei confronti delle lavo-ratrici del comparto sanità, in particolare del personale infermieri-stico, il cui regolamento fissa il limite anagrafico dei 60 anni per la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia. Rimangono invariati, per espressa previsione normativa, gli ordina-menti che prevedono requisiti anagrafici più elevati (donne magi-strato, docenti universitarie ecc.), nonché quelli relativi al personale femminile delle forze armate (60 anni).

34 Requisiti per le destinatarie di un sistema contributivo

30

Anche questa disposizione prevede una deroga, in base alla quale le lavoratrici che abbiano maturato, entro il 31 dicembre 2009, i requisiti di età e di anzianità contributiva, contenuti nella normativa vigente prima dell’entrata in vigore della presente disposizione35, conseguono il diritto alla prestazione pensionistica secondo la previgente norma-tiva e possono richiedere all’ente di appartenenza la certificazione del diritto acquisito, già previsto dalla L. n. 243/2004. Tale certificazione non è costitutiva del diritto ma ha soltanto valore dichiarativo.Viene inoltre introdotta una finestra “mobile” legata all’aspettativa di vita che, a partire dal 2015, dà il via ad un allungamento dell’età che supera anche i 65 anni di età.

II.7 - Conclusioni

Si è cercato di ripercorrere l’iter che il legislatore nazionale ha seguito fino ad oggi, per arrivare alla formazione di un sistema pensionistico che, pienamente attuato, avrebbe dovuto garantire l’armonizzazione tra il settore pubblico e privato sul territorio nazionale. Il lavoro del legislatore è stato però interrotto dalla sentenza n. C-46/07 della Corte di giustizia europea, che ha dichiarato l’Italia inadempiente per viola-zione dell’art. 141 CE. In merito alla sentenza sono state evidenziate le posizioni assunte dalla Corte di giustizia, dal Governo italiano, dall’I.N.P.D.A.P. e dalla dottrina. Le sentenze della Corte di giustizia vanno applicate; in que-sto caso, però, sembra quasi che non sia stato sufficientemente messo in rilievo il ruolo dell’I.N.P.D.A.P. come pilastro della previdenza, al pari dell’I.N.P.S. per gli altri settori, e non ci sia stato un adeguato con-trasto alle interpretazioni date dalla sentenza europea, che, molto pro-babilmente creeranno ulteriore conflittualità in questa materia, mentre l’obiettivo che si cercava di perseguire era quello di un sistema previ-denziale uniforme. Come si è più volte detto, per la sentenza della Corte di giustizia europea, il diverso limite di età, in base al sesso, per la concessione di una pensione (che in questo caso costituisce una “retribuzione” ai sensi dell’art. 141 CE), è discriminante per le donne. In sede di dibattimento non si è riusciti a dimostrare che il regime pensionistico I.N.P.D.A.P. è un vero e proprio regime previdenziale

35 Anni 60 e anzianità contributiva di almeno 15 anni, se in servizio al 31 dicembre 1992, oppure anni 60 ed almeno anni 20 di contribuzione, se in servizio al 1 gennaio 1993.

31

“legale” ed è, in quanto tale, soggetto alla direttiva n. 79/7/CEE del 19 dicembre 197836. La condanna del nostro Paese è stata determinata anche da altri rilievi formulati dalla Corte, come l’affermazione secondo cui “il regime pen-sionistico dell’I.N.P.D.A.P. prevede una condizione di età diversa a seconda del sesso per la concessione della pensione”. L’Italia ha replicato soste-nendo che “la concessione di tale differenziazione è ispirata all’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne.” La Corte ha pratica-mente condannato l’Italia per il mantenimento di un sistema discri-minante che “obbligherebbe” le donne ad andare in pensione cinque anni prima degli uomini e a percepire una pensione inferiore, che non compensa l’accesso anticipato alla pensione. Si sarebbe potuto far rilevare alla Corte l’esistenza, nel nostro ordina-mento, di una norma37, che pone divieti di discriminazione nell’ac-cesso alle prestazioni previdenziali e attribuisce alla donna la facoltà di continuare a lavorare fino alla stessa età prevista per gli uomini. Ciò avrebbe forse potuto determinare un diverso esito del giudizio poiché l’accesso alla pensione di vecchiaia a 60 anni di età per le donne, non essendo un obbligo, ma una facoltà, non determina alcuna discrimina-zione a danno delle donne ma rappresenta, viceversa, un’opportunità concessa ai dipendenti pubblici di sesso femminile. Ma forse questa argomentazione sarebbe stata fuori luogo, nella misura in cui la discri-minazione, ad avviso della Corte, sussiste a danno degli uomini, che non possono accedere al pensionamento prima dei 65 anni38.Non va dimenticato che il beneficio previsto dal nostro ordinamento per i dipendenti pubblici di sesso femminile, come si è già visto, è stato più volte riconosciuto legittimo dalla Corte Costituzionale in quanto, mirando a soddisfare esigenze peculiari della donna, non contrasta con il fondamentale principio costituzionale di eguaglianza, in quanto trova giustificazione nella “essenziale funzione familiare” della donna, riconosciuta dall’art. 37 della Costituzione. Si può ritenere che il beneficio dell’accesso anticipato, fermo restando il diritto di scelta che hanno le donne di lavorare fino agli stessi limiti di età degli uomini - in un sistema definito “professionale” e non

36 Direttiva che prevede una graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale e attribuisce allo Stato membro la facoltà, motivandola, di stabilire età pensionabili diverse tra i sessi.

37 Art. 4 L. n. 903/1977, ora art. 30 D.Lgs. n. 198/2006.38 Ines CoRti, La Corte di giustizia e l’età pensionabile delle donne: alcune osservazioni

sull’uguaglianza di genere, in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, 2009, pag.133 e ss.

32

“legale”, che considera la pensione uguale alla retribuzione - non vìoli il principio di parità della retribuzione ex art. 141 CE, in quanto il trat-tamento pensionistico delle donne che chiedono l’accesso anticipato è, comunque, proporzionato al periodo di prestazione dell’attività lavorativa.L’adeguamento flessibile e graduale dell’età pensionabile potrebbe non ottemperare alla prescrizione della sentenza, poiché il nostro Paese, nelle more della definitiva equiparazione, continuerebbe a mantenere in vita una normativa che vìola il principio sancito dall’art. 141 CE; rimarrebbe in tal modo il rischio che la Commissione consideri il nostro Paese inadempiente.

33

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34

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Laura Vitale, intervento al Convegno su “Donne e Previdenza”, Roma 2 aprile 2009

Commentario alla Costituzione, a cura di Raffaele Bifulco, Alfonso Celotto, Marco Olivetti, UTET, Torino, 2006

35

APPENDICE I

RACCOLTA DI GIURISPRUDENZA (in ordine cronologico)39

Non è in contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione il principio, discrezionalmente fissato dal legislatore in termini di generalità, che l’uomo possa essere licenziato quando abbia raggiunto l’età di 60 anni e la donna di 55 anni, ed abbiano maturato il diritto a pensione. Ed invero, il fatto di poter utilizzare le prestazioni della donna fino a 55 anni, piuttosto che fino a 60, tenendo conto della costituzione, della capacità, della resistenza a particolari lavori faticosi, del rendi-mento e di altri fattori, che si compendiano nel termine attitudine, importa una valutazione tecnica normalmente consentita al legisla-tore; al quale la norma costituzionale rimette altresì il potere, onde salvaguardare l’essenzialità della funzione familiare della donna, di fare alla medesima un trattamento differenziato per la cura dei cor-relativi interessi. E se il legislatore è partito dal presupposto che l’at-titudine al lavoro, in via di massima, viene meno nella donna prima che nell’uomo, in genere di maggior resistenza fisica, e che la lavo-ratrice, raggiunto il cinquantacinquesimo anno di età, è opportuno torni ad accudire esclusivamente la famiglia, non può dirsi che in sif-fatta valutazione sia stato irrazionale o arbitrario. La necessità, poi, di adottare principi uniformi per tutte le svariate categorie di donne lavoratrici, nel vasto campo dell’assicurazione generale obbligatoria non consentendo, per ovvi motivi, la distinzione tra lavoro e lavoro e fra condizioni soggettive, giustifica logicamente la fissazione di un unico limite di età, quello di 55 anni, perché la donna acquisti il diritto a pensione. (Fattispecie in tema dell’art. 140 T.U. delle leggi sui servizi di riscossione delle imposte dirette, approvato con D.P.R. 15 mag-gio 1963, n. 858, il quale dispone che gli impiegati delle esattorie vengono mantenuti in servizio fino al cinquantacinquesimo anno di età, se donne, e fino al sessantesimo anno di età, se uomini).Corte Costituzionale, Sentenza n. 123 dell’11/07/1969

La norma contenuta nell’art. 12 del R.D.L. 14 aprile 1939 n. 636, con-vertito in legge 6 luglio 1939 n. 1272, così come modificato dall’art. 2 della legge 4 aprile 1952 n. 218 - dettata per la pensione di vec-chiaia e di invalidità e di recente applicata alla pensione di anzianità - non è in contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione, nonostante

39 Le massime riportate si riferiscono a controversie relative a iscritti ai diversi regimi pensionistici.

36

prescriva per la donna una pensione inferiore a quella dell’uomo, a parità di retribuzione e di contribuzione. E ciò perché, ai fini della pensione di vecchiaia, occorre tener conto della importanza che, nella relativa liquidazione, assume il maggior periodo di tempo di presta-zione d’opera, in quanto per la donna si tratta di pensione percepita a 55 anni e per l’uomo a 60 anni, cioè dopo altri 5 anni di lavoro. Ed occorre tener presente altresì che, per il meccanismo di calcolo pre-scritto in detto art. 12 del R.D.L. n. 636 del 1939, se la donna differisce il pensionamento fino al sessantesimo anno, ogni disparità scompare e, successivamente, dal sessantesimo al sessantacinquesimo anno, le due pensioni aumentano in condizione di parità, sulla base di per-centuali uguali. La disparità, cioè, è soltanto iniziale ed è dovuta al fatto che il lavoratore si inserisce nella scala degli importi di pensione a sessanta e non già a cinquantacinque anni. Queste considerazioni inducono a pervenire alle medesime conclusioni per la pensione di invalidità e di anzianità, atteso che la posizione dell’uomo e della donna, nella assicurazione obbligatoria, non va valutata in funzione di ogni singola prestazione, ma globalmente, per tutti gli eventi pro-tetti in quanto il rapporto assicurativo della previdenza sociale ha la caratteristica fondamentale dell’unitarietà, realizzandosi la tutela attraverso un’unica assicurazione ed una uniforme disciplina rispetto alle obbligazioni contributive.Corte Costituzionale, Sentenza. n. 137 del 15/07/1969

Sebbene l’art. 5 della legge 9 gennaio 1963, n. 9, regoli con norme diverse, per gli uomini e per le donne, i requisiti per il conseguimento della pensione, il divieto di computare per le donne più di 104 con-tributi giornalieri per ciascun anno - oggetto specifico della sollevata questione - corrisponde all’analogo divieto di computo per gli uomini di un numero di contributi eccedenti i 156. Il differente ammontare della contribuzione annuale massima per maturare la pensione trova, d’altra parte, la sua ratio nel minor numero di contributi richiesti per le pensioni di vecchiaia e di invalidità della donna (rispettivamente 1560 e 520) nei confronti dell’uomo (2340 e 780), nonché nel differente limite di età (55 anni) che la stessa norma pone per la pensione di vecchiaia della donna rispetto a quello (60 anni) che è previsto per l’uomo. Tenuto complessivamente conto di tale disciplina, il citato art. 5 della legge n. 9 del 1963 non può dirsi in contrasto né col principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., né con quello di parità di diritti del lavoratore e della lavoratrice di cui all’art. 37 Cost.Corte Costituzionale, Sentenza. n. 34 del 25/02/1975

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Vanno restituiti al giudice remittente gli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 della Legge n. 604 del 1966 e dell’art. 9 del R.D.L. n. 633 del 1939, nella parte in cui - in asserito contrasto con gli artt. 2, 3, 4, 35 e 37 Cost. - è consentito al datore di lavoro di licenziare le lavoratrici cinquantacinquenni, e non al conse-guimento del sessantesimo anno di età come previsto per i lavoratori, posto che, nella specie, il giudice di rinvio, pur avendo avvertito l’esi-genza, imposta dall’art. 11 della Legge n. 604 del 1966, di verificare se i datori di lavoro resistenti occupassero più di trentacinque dipen-denti, si è limitato a mere asserzioni prive di qualsiasi motivazione, ed essendo inoltre sopravvenuta la Legge 9 dicembre 1977, n. 903, il cui art. 4 non si riduce ad offrire alle lavoratrici, che pure siano in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, l’op-zione di continuare a prestare la loro opera sino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione medesima (comma primo), ma soggiunge che per le lavoratrici, che alla data di entrata in vigore della legge (18 dicem-bre 1977) prestino ancora attività lavorativa, pur avendo maturato i requisiti per avere diritto alla detta pensione, si prescinde dall’onere della comunicazione al datore di lavoro (comma secondo).Si vedano inoltre ord. n. 105 del 1979, ord. n. 106 del 1979, ord. n. 107 del 1979, ord. n. 108 del 1979.Corte Costituzionale, Ordinanza n. 104 del 12/07/1979

Null’altro che la diversità di sesso, in palese contrasto con l’art. 3 Cost., motiva il deteriore trattamento riservato dalla norma impugnata al vedovo della donna pensionata di guerra, rispetto alla condizione riservata alla vedova del pensionato di guerra. È, pertanto, costituzio-nalmente illegittimo l’art. 69 della Legge 10 agosto 1950, n. 648, nella parte in cui non prevede, accanto alla vedova, anche il vedovo quale soggetto del diritto alla reversibilità di pensione di guerra già fruita dal coniuge deceduto.Corte Costituzionale, Sentenza. n. 9 del 30/01/1980

Vanno restituiti al giudice remittente gli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 4 e 37 Cost. - dell’art. 11 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, per la parte in cui, stabi-lendo con riguardo all’art. 9 del R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636 (conver-tito nella Legge 6 luglio 1939, n. 1272), che le disposizioni della legge predetta non si applicano ai lavoratori che non siano in possesso dei requisiti di legge per aver diritto alla pensione di vecchiaia, assicura la

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stabilità del posto di lavoro alla donna lavoratrice solo fino al cinquan-tacinquesimo anno di età e non fino al sessantesimo come per l’uomo, inquantoché si rende necessario, nella specie, verificare l’incidenza della sopravvenuta Legge 9 dicembre 1977, n. 903.Si vedano inoltre sent. n. 103 del 1979 e ord. n. 104 del 1979.Corte Costituzionale, Ordinanza n. 66 del 22/04/1980

È legittima la mancata concessione al dipendente statale di sesso maschile, coniugato e con prole a carico, dell’aumento di 5 anni di servizio ai fini del computo dei vent’anni richiesti per l’acquisto del diritto al trattamento di quiescenza in caso di dimissioni volontarie, beneficio previsto solo per le dipendenti di sesso femminile, non con-figurandosi alcuna discriminazione in violazione della normativa sulla parità uomo-donna in materia di lavoro.T.A.R. Lazio, Sez. I, 04/01/1981, n. 11

Non può considerarsi manifestamente infondata la questione di legit-timità costituzionale degli artt. 126, D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui esclude per gli uomini il beneficio attribuito in caso di dimissioni dal servizio del dipendente statale, dell’aumento conven-zionale sino a cinque anni, previsto per le donne coniugate o con prole.T.A.R. Marche, Ordinanza, 08/07/1981, n. 635

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzio-nale, per contrasto con gli artt. 3 e 37 Cost., dell’art. 2 (3° comma), L. 7 febbraio 1979, n. 29, nonché dell’art. 4, L. 7 luglio 1980, n. 299, secondo cui, ai fini della ricongiunzione da parte di dipendenti del pubblico impiego dei periodi coperti dall’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, la riserva matematica da trasferire alla gestione assicurativa dello stato o dell’ente in cui opera la ricongiunzione si determina in base alle tabelle dell’art. 13, ultimo comma, L. 12 agosto 1962, n. 1338, in quanto dette tabelle, essendo state determinate per i soggetti attivi con coefficienti differenziati tra maschi e femmine, prevedono un contributo notevolmente più one-roso per i dipendenti di sesso femminile per il riconoscimento di ser-vizi di pari durata e di pari condizioni soggettive (età e stato giuri-dico) e pertanto attuano una disparità di trattamento che i principi sia di eguaglianza (art. 3), sia di parità dei servizi nell’ambito dei rapporti di lavoro (art. 37), non consentono.Corte Conti Sicilia, Sez. Giurisdiz., 12/04/1984, n. 195

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L’art. 19 L. 9 dicembre 1977, n. 903 (concernente la parità di tratta-mento tra uomini e donne in materia di lavoro), non comporta l’appli-cabilità anche agli uomini del beneficio dell’aumento di cinque anni del servizio prestato, previsto dall’art. 42, 3° comma, T.U. 29 dicembre 1973, n. 1092, solo per le dipendenti coniugate o con prole a carico, ai fini del computo dei venti anni richiesti per il conseguimento del trat-tamento di quiescenza in caso di dimissioni volontarie; né ciò costitu-isce motivo di illegittimità costituzionale della L. n. 903 del 1977 cit., per violazione del principio di eguaglianza, trovando giustificazione nella non irragionevole differenza fra uomo e donna.Consiglio Stato, Sez. IV, 28/08/1984, n. 650

È manifestamente infondata, per presunto contrasto con l’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, 3° comma, D.P.R. n. 1092 del 1973, per la parte in cui esclude l’attribuibilità alla vedova senza prole dei benefici di cui alla norma stessa, in quanto essendo, nella specie, disciplinate diversamente le situazioni delle dipendenti statali coniugate e quelle delle vedove, manca quella disparità di trat-tamento in presenza di identiche condizioni soggettive che possa dar luogo ad una possibile violazione del principio di eguaglianza.Corte Conti Pens. civ., Sez. III, 12/12/1984, n. 57090

È costituzionalmente illegittima, per l’ingiustificata disparità di tratta-mento che introduce anche in relazione all’evoluzione normativa della materia (e quindi per contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost.), la normativa legale che prevede, per il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte della donna, un’età anticipata rispetto a quella prevista per l’uomo.Corte Costituzionale, Sentenza n. 137 del 18/06/1986

È rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 29, 2° comma, 31, 1° comma, 37, 1° comma, e 51, 1° comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui non prevede che spetti anche al dipen-dente di sesso maschile dimissionario coniugato o con prole a carico, ai fini del compimento dell’anzianità stabilita nel 2° comma, stesso art., un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni.Corte Conti, Ordinanza del 21/10/1987

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzio-nale, in riferimento agli artt. 3, 37, 1° comma, e 38 Cost., degli artt. 2, 3° comma, L. 7 febbraio 1979, n. 29 e 4, L. 7 luglio 1980, n. 299, nella parte in cui - richiamandosi, rispettivamente, ai criteri e alle tabelle di

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cui all’art. 13, L. 12 agosto 1962, n. 1338, ed ai coefficienti ivi contenuti, approvati con D.M. 27 gennaio 1964 - prevedono, nell’ambito del pub-blico impiego, una più onerosa contribuzione per le donne, rispetto a quanto previsto per i dipendenti di sesso maschile, perché possa pro-cedersi alla ricongiunzione dei periodi assicurati ai fini previdenziali.Corte Conti Pens. civ., Sez. III, 20/05/1987, n. 60525

L’art. 42, 3° comma, T.U. 29 dicembre 1973, n. 1092, considerato alla luce dell’art. 19, L. 9 dicembre 1977, n. 903, che abroga tutte le norme incom-patibili con il regime di pari trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, e considerato anche con riguardo all’evoluzione sociale che ha investito i rapporti fra uomo e donna rispetto ai fondamentali biso-gni della vita, va interpretato nel senso che il diritto di usufruire, in caso di dimissioni, di un aumento del servizio effettivo (fino a un massimo di cinque anni), ai fini del compimento dell’anzianità necessaria per conseguire il trattamento di pensione minimo, spetta anche al pubblico dipendente di sesso maschile, vedovo con prole a carico.T.A.R. Lazio, Sez. III, 01/02/1988, n. 91

L’evoluzione delle situazioni verificatesi nel campo del lavoro - per l’introduzione di nuovi mezzi e di nuove tecniche - nonché nel campo dell’assistenza, della previdenza e del diritto di famiglia - nel quale, per effetto della riforma del 1975, è stata attuata la parità tra i coniugi relativamente all’assistenza, alla cura e all’educazione dei figli - ha fatto venir meno le ragioni giustificatrici della differenza di tratta-mento della donna lavoratrice rispetto all’uomo lavoratore. È per-tanto costituzionalmente illegittimo - per violazione degli artt. 3 e 37 Cost. - l’art. 4, della Legge 9 dicembre 1977, n. 903, nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all’esercizio di un’opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti. (Stante che l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, rimane fermo il diritto della donna a con-seguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, per soddisfare sue esigenze peculiari: ciò non contrasta con il fonda-mentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, meritevoli di una particolare regolamentazione). Si veda sent. n. 137 del 1986.Corte Costituzionale, Sentenza n. 498 del 21/04/1988

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È manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la que-stione di legittimità costituzionale esaminata per la prima volta (ma analoga ad altra già decisa con sentenza di rigetto), dell’art. 27, ult. comma, L. 29 aprile 1976, n. 177, nella parte in cui limita alle cessa-zioni dal servizio successive alla sua entrata in vigore la riduzione a quindici, rispetto al maggior periodo di venti anni stabilito dall’art. 42, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, la durata minima dell’effettivo servizio prestato per conseguire il diritto al trattamento pensionistico, anche ai fini della reversibilità; il prospettato dubbio appare all’evi-denza da disattendere, essendo espressione della discrezionalità legi-slativa il progressivo miglioramento dei trattamenti previdenziali, da attuare con gradualità di passaggi; conseguentemente, quando un’in-novazione legislativa non è, come nella specie, in sé irrazionale, la fissazione di un momento temporale di decorrenza è inevitabile e al legislatore non può essere precluso il potere di adeguare la disciplina giuridica agli sviluppi della realtà socio-economica.Corte Costituzionale, Ordinanza n. 671 del 16/06/1988

È manifestamente infondata, in quanto ictu oculi priva di qualsiasi fondamento, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui prevede per i soli dipendenti pubblici di sesso femminile e non anche per quelli di sesso maschile, il beneficio dell’aumento del servizio effet-tivo di lavoro fino a un massimo di cinque anni, ai fini del compi-mento dell’anzianità per il diritto alla pensione ordinaria in caso di dimissioni, in riferimento agli artt. 3 e 51 Cost.Corte Costituzionale, Ordinanza n. 868 del 21/07/1988

È illegittimo, per violazione degli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., l’art. 3, 4° comma, L. 5 dicembre 1986, n. 856, nella parte in cui, nel disciplinare il pensionamento anticipato obbligatorio del personale esuberante delle società del gruppo Finmare, fissa per le donne un limite di età infe-riore rispetto a quello stabilito per gli uomini.Corte Costituzionale, Sentenza. n. 1106 del 20/12/1988

È illegittimo - in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. - il combinato dispo-sto degli artt. 16, L. 23 aprile 1981, n. 155 e 1, L. 31 maggio 1984, n. 193, nella parte in cui non si riconosce alla lavoratrice del settore siderur-gico - in caso di pensionamento anticipato, al compimento del cin-quantesimo anno di età - di conseguire la medesima anzianità contri-butiva fino a sessanta anni come per il lavoratore.Corte Costituzionale, Sentenza n. 371 del 06/07/1989

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È rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 37, 1° comma, e 38, 2° comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3° comma, L. 7 febbraio 1979, n. 29, e 4, L. 7 luglio 1980, n. 299, nella parte in cui - richiamandosi, rispetti-vamente ai criteri e alle tabelle di cui all’art. 13, L. 12 agosto 1962, n. 1338, ed ai coefficienti contenuti nelle tabelle di cui all’art. 13, L. 12 agosto 1962, n. 1338, approvati con D.M. 27 gennaio 1964 - prevedono, nell’ambito del pubblico impiego, una più onerosa contribuzione per le donne, rispetto a quanto previsto per i dipendenti di sesso maschile, perché possa procedersi alla ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali; i due parametri notoriamente applicati per i cal-coli attuariali inerenti alle richiamate tabelle si pongono (in contrasto con i principi di ragionevolezza, equità ed uguaglianza) come gene-ralizzazioni di due criteri, l’uno (quello che tiene conto di una diversa età pensionabile) da tempo quasi del tutto estraneo agli ordinamenti del pubblico impiego e l’altro (quello che tiene conto della maggior durata della vita media della donna) inidoneo di per sé a condizionare e limitare diritti pensionistici, non ponendo l’ordinamento distinzione fra i sessi quanto al limite di età pensionabile, né tanto meno un cri-terio nel calcolo del trattamento di quiescenza fondato sulla diversa durata media della pensione.Corte Conti, Ordinanza del 23/03/1989

La parificazione della situazione dell’uomo e della donna nel lavoro non comporta l’impossibilità di una diversificazione in ordine alla materia pensionistica; pertanto, l’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicem-bre 1973, n. 1092, non è in contrasto con gli artt. 3, 37 e 51 Cost., nella parte in cui limita alle sole dipendenti statali, coniugate o con prole a carico, il beneficio dell’aumento del servizio effettivo fino al massimo di cinque anni, per il compimento dell’anzianità necessaria a matu-rare il diritto a pensione e non estende tale beneficio ai dipendenti di sesso maschile.Corte Costituzionale, Sentenza n. 374 del 06/07/1989

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui non prevede che spetti anche al dipendente statale di sesso maschile dimissionario, coniugato o con prole a carico, ai fini del compimento dell’anzianità minima necessaria per maturare il diritto a pensione, un aumento del servizio utile sino ad un massimo di cinque anni, in riferimento agli artt. 3, 29, 31, 37 e 51 Cost.Corte Costituzionale, Sentenza n. 374 del 06/07/1989

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Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzio-nale, per contrasto con gli artt. 31, 36 e 37 Cost., dell’art. 10, 5° comma, D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, e dell’art. 21, 11° comma, L. 27 dicembre 1983, n. 730, nella parte in cui dispongono il differimento della decor-renza della pensione della dipendente coniugata che, avvalendosi del beneficio di cui all’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, abbia presentato domanda di cessazione dal servizio anteriormente al 29 gennaio 1983, ma sia ancora in servizio alla data di entrata in vigore della L. n. 730 del 1983.Corte Conti Pens. civ., Ordinanza, Sez. III, 25/09/1989, n. 63106

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla diversità di trattamento (L. 29/12/1973, n. 1092, art. 42) fra dipendenti maschi e femmine per quanto attiene alla possi-bilità di pensionamento anticipato, trovando tale disparità giustifica-zione nella particolare vocazione familiare della donna, riconosciuta dall’art. 37 Cost.T.A.R. Toscana, Sez. I, 05/10/1990, n. 899

Il beneficio del pensionamento anticipato ai sensi dell’art. 42, D.P.R. n. 1092/73 è espressamente previsto a favore delle sole dipendenti di sesso femminile, né le previsioni della L. 903/77 autorizzano un’in-terpretazione estensiva che, in mancanza di un preciso richiamo, con-senta di superare il dato letterale.T.A.R. Toscana, Sez. I, 05/10/1990, n. 899

Gli artt. 10, 5° comma, D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito dalla L. 25 marzo 1983, n. 79, e 21, 11° comma, L. 27 dicembre 1983, n. 730, i quali dispongono che le pensioni attribuite con abbuono di anzianità sino al massimo di cinque anni alle dipendenti dimissionarie coniu-gate o con prole a carico vengano differite al termine di un periodo di tempo pari all’aumento del servizio utile concesso ai fini del conse-guimento dell’anzianità minima, non sono in contrasto con gli artt. 31 e 37 Cost., non avendo un’incidenza diretta sull’essenziale funzione familiare della donna e sui compiti relativi.Corte Costituzionale, Sentenza n. 329 del 13/07/1990

È manifestamente infondata, in quanto già esaminata con pronun-cia di rigetto (Ord. n. 703 del 1988), la questione di legittimità costi-tuzionale degli artt. 9, R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636 (convertito nella L. 6 luglio 1939, n. 1272) e 4, 1° comma, L. 9 dicembre 1977, n. 903, denunciati, in riferimento agli artt. 3, 37 e 38 Cost., nelle parti in cui

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non consentono anche al lavoratore, come alla lavoratrice, la facoltà di optare per il conseguimento della pensione di vecchiaia, in presenza degli altri requisiti di legge, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al sessantesimo.Corte Costituzionale, Ordinanza n. 576 del 28/12/1990

Il beneficio dell’aumento del servizio effettivo fino al massimo di cinque anni per il compimento dell’anzianità necessaria a maturare il diritto a pensione, previsto dall’art. 18, L. 26 luglio 1965, n. 965, a favore della dipendente degli enti locali coniugata o con prole a carico (così come per il personale statale dall’art. 42, 3° comma, T.U. n. 1092 del 1973), non può essere esteso anche ai soggetti di sesso maschile.Corte Conti, Pens. civ., Sez. III, 26/08/1991, n. 66590

Le disposizioni previdenziali agevolative previste dall’art. 42, 3° comma, T.U. 29 dicembre 1973, n. 1092, per le dipendenti statali coniu-gate con prole (la cui legittimità costituzionale è stata ribadita dalla sentenza n. 374/89) non sono estensibili, neppure dopo l’entrata in vigore della L. n. 903/77, che ha decretato la parità dei sessi ai fini previdenziali, ai dipendenti statali di sesso maschile.Corte Conti Pens. civ., Sez. III, 07/06/1991, n. 66041

Non è fondata - in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, L. 23 aprile 1981, n. 155, nella parte in cui non consente alle lavoratrici di età superiore ai cinquanta anni di fruire di un accredito contributivo di cinque anni.Corte Costituzionale, Sentenza n. 404 del 18/11/1993

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 18, L. n. 965 del 1965, e 42, D.P.R. n. 1092 del 1973, per vio-lazione degli artt. 3, 4, 29, 31 e 37 Cost., in quanto non prevedono che spetti anche al dipendente di sesso maschile con prole a carico, ai fini del compimento dell’anzianità stabilita per il conseguimento del diritto a pensione, un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni; ciò sulla base di precedenti orientamenti della giuri-sprudenza costituzionale, che hanno ritenuto compatibili con il prin-cipio di eguaglianza in materia di lavoro l’attribuzione di benefici ai fini del collocamento anticipato in pensione della lavoratrice rispetto al lavoratore, in funzione della particolare vocazione familiare della donna riconosciuta dall’art. 37 Cost.Corte Conti Sardegna, Sez. Giurisdiz., 15/04/1996, n. 224

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L’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nello stabilire che “alla dipendente dimissionaria coniugata o con prole a carico spetta, ai fini del compimento dell’anzianità massima stabilita nel comma 2” (venti anni di servizio effettivo per il diritto a pensione normale) “un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni”, trova applicazione per il solo personale femminile anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 903 del 1977, che ha stabilito la parità dei sessi in materia di lavoro e sul piano previdenziale, tra l’altro abrogando (art. 17) tutte le disposizioni con essa in contrasto.T.A.R. Toscana, Sez. I, 14/10/2002, n. 2503

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, 3° comma, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui prevede a favore del solo personale femminile benefici di servizio, in quanto trattasi di norma rispondente ad un razionale esercizio della discrezionalità legislativa, alla quale soltanto spetta di apprestare le misure più idonee ad agevolare l’adempimento da parte dei coniugi dei loro compiti nella famiglia, con particolare riguardo alla necessità di assicurare, in essa, l’essenziale funzione svolta dalla donna, anche se lavoratrice.T.A.R. Toscana, Sez. I, 14/10/2002, n. 2503

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 4, 2° comma, L. 11 maggio 1990, n. 108, dell’art. 6, D.L. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito con modificazioni in L. 26 febbraio 1982, n. 54, dell’art. 6, 1° comma, L. 29 dicembre 1990, n. 407, modificato dall’art. 1, 2° comma, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, 1° comma, dello stesso D.Lgs. n. 503 del 1992, come modificato dall’art. 11, 1° comma, L. 23 dicem-bre 1994 n. 724, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 37, 1° comma, Cost., sull’assunto che, nel regime transitorio vigente nel periodo 1 gennaio 1997 - 30 giugno 1998, le lavoratrici in possesso dei requisiti per conseguire la pensione di vecchiaia erano ammesse a continuare la prestazione fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini solo previo onere di opzione, in quanto la disciplina del lavoro, nel suin-dicato regime transitorio, non prevede alcuna discriminatoria correla-zione, per le lavoratrici, tra età pensionabile ed età lavorativa, posto che, da un lato, le disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al c.d. pensionamento posticipato non con-tengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, e, dall’altro, le disposizioni che hanno innalzato i limiti della età pen-sionabile hanno, semplicemente, spostato in avanti i limiti stessi per

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tutti i lavoratori, mantenendo la differenza già esistente tra uomini e donne, a beneficio di queste ultime.Corte Costituzionale, Sentenza n. 256 del 20/06/2002

Ai fini della determinazione del contributo di riscatto del periodo del corso legale di laurea di cui all’art. 13, D.P.R. n. 1092/1973, nell’ap-plicare i coefficienti attuariali previsti dal Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 19 febbraio 1981 - ai sensi anche dell’art. 1, D.M. 8 aprile 1983 - benché le tabelle allegate prevedano coefficienti attuariali differenziati tra maschi e femmine con un onere contributivo, per la donna, sensibilmente superiore a quello stabilito per gli uomini, cionondimeno, bisogna estendere il sistema di deter-minazione della riserva matematica di cui al predetto D.M. 19 feb-braio 1981, con riferimento alle tabelle predisposte per i dipendenti di sesso maschile, anche ai dipendenti di sesso femminile; ciò sulla base dell’art. 3 Cost. e dei principi costituzionali della parità, tra uomini e donne, di diritti e doveri, ritenuto altresì conto dell’art. 37 Cost.Corte Conti, Sez. Giur., Reg. Emilia-Romagna, 08/11/2004, n. 1966

È illegittimo l’art. 30, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effet-tuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accor-data dalla legge sui licenziamenti individuali. Nella disposizione cen-surata, l’onere di comunicazione posto a carico della lavoratrice, con-dizionando il diritto di quest’ultima di lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un adempimento e, dun-que, a un possibile rischio che, nei fatti, non è previsto per l’uomo, compromette ed indebolisce la piena ed effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna, in violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.Corte Costituzionale n. 275 del 29/10/2009

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SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE (Quarta Sezione)

13 novembre 2008

«Inadempimento di uno Stato – Art. 141 CE – Politica sociale – Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile – Nozione di “retribuzione” – Regime pensionistico dei

dipendenti pubblici»

Nella causa C 46/07,avente ad oggetto un ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, presentato il 1° febbraio 2007, Commissione delle Comunità europee, rappresentata dalla sig.ra L. Pignataro Nolin e dal sig. M. van Beek, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,ricorrente,

contro

Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Fiengo e dalla sig.ra W. Ferrante, avvocati dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,convenuta,

LA CORTE (Quarta Sezione),

composta dal sig. K. Lenaerts, presidente di sezione, dai sigg. T. von Danwitz (relatore), E. Juhász, G. Arestis e J. Malenovský, giudici,avvocato generale: sig. M. Poiares Madurocancelliere: sig. B. Fülöp, amministratorevista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 22 maggio 2008,vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni, ha pronunciato la seguente

Sentenza

1. Col suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che, mantenendo in vigore una normativa in for-za della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pen-sione di vecchiaia a età diversa a seconda se siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.

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2. La Repubblica italiana conclude per il rigetto del ricorso e la con-danna della Commissione alle spese.

Ambito normativo nazionale

3. La legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Supplemento ordinario alla GURI n. 257 del 31 ottobre 1992), fornisce il quadro giuridico del regime pensionistico di cui trattasi nella presente causa. Tale regime si ap-plica ai dipendenti pubblici e agli altri lavoratori del settore pub-blico nonché ai lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico.

4. Tale regime pensionistico è gestito dall’Istituto nazionale della pre-videnza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (in prosie-guo: l’«INPDAP»), istituito con decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 479 (Supplemento ordinario alla GURI n. 178 del 1° agosto 1994, pag. 20).

5. Il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Supplemento ordi-nario alla GURI n. 305 del 30 dicembre 1992), disciplina più in det-taglio taluni aspetti del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.

6. Ai sensi del suo articolo 5, i dipendenti pubblici hanno diritto alla pensione di vecchiaia nell’ambito del regime gestito dall’INPDAP alla stessa età prevista dal sistema pensionistico gestito dall’Istitu-to nazionale della previdenza sociale (in prosieguo: l’«INPS») per le categorie generali di lavoratori. L’età normale per il pensiona-mento di vecchiaia nell’ambito di quest’ultimo sistema è di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini, come risulta dal combinato disposto dell’art. 5, n. 1, e della tabella A del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Per taluni dipendenti pubblici per i quali era stata precedentemente stabilita un’età pensionabile più eleva-ta, l’art. 2, n. 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Supplemento or-dinario alla GURI n. 190 del 16 agosto 1995), dispone che, a partire dal 1° gennaio 1996, i dipendenti pubblici di sesso femminile, cui fa riferimento detto art. 5, nn. 1 e 2, possono percepire la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni, senza tuttavia prevedere una facoltà analoga per i dipendenti pubblici di sesso maschile.

7. L’articolo 2, n. 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, avente ad ogget-to la riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complemen-tare, precisa che «con effetto dal 1° gennaio 1996, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legi-slativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Supplemento ordinario alla GURI n. 30 del 6 febbraio 1993), iscritti alle forme di previdenza esclusiva

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dell’assicurazione generale obbligatoria, nonché per le altre cate-gorie di dipendenti iscritti alle predette forme di previdenza, si applica, ai fini della determinazione della base contributiva e pen-sionabile, l’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153 [(Supplemento ordinario alla GURI n. 111 del 30 aprile 1969)] e successive modifi-cazioni e integrazioni (…)».

8. L’articolo 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella versione ap-plicabile alla presente causa, precisa che «per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavora-tore riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza dal rapporto di lavoro». L’ultimo paragrafo di detto articolo prevede che «la retribuzione come so-pra determinata è presa, altresì, a riferimento per il calcolo delle prestazioni a carico delle gestioni di previdenza e assistenza socia-le interessate».

9. Il regime pensionistico gestito dall’INPDAP garantisce ai propri iscritti la tutela previdenziale per invalidità, vecchiaia, malattia e superstiti. Esso dispone di un bilancio indipendente finanziato con i contributi e la copertura degli eventuali disavanzi è garantita dal-le leggi finanziarie annuali.

La fase precontenziosa del procedimento

10. La Commissione, ritenendo il regime pensionistico gestito dall’INPDAP un regime professionale discriminatorio contrario all’art. 141 CE, in quanto prevede per i dipendenti pubblici che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, ha espresso le sue preoccupazioni in una lettera ammini-strativa del 12 novembre 2004. La Repubblica italiana ha risposto con una lettera in data 10 gennaio 2005, alla quale è stata allegata una relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004.

11. La Commissione, il 18 luglio 2005, ha inviato alla Repubblica italia-na una lettera di costituzione in mora alla quale tale Stato membro non ha risposto.

12. Con lettera del 5 maggio 2006, la Commissione ha inviato un pa-rere motivato invitando detto Stato membro a adottare i provvedi-menti necessari al fine di conformarsi a tale parere entro due mesi a decorrere dalla sua ricezione.

13. La Repubblica italiana ha risposto a tale parere motivato con lette-ra 17 maggio 2006, cui era allegata una nota dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, contestando in

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sostanza la posizione della Commissione relativa alla natura pro-fessionale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.

14. La Commissione, non ritenendo soddisfacente la risposta al parere motivato, ha deciso di introdurre il presente ricorso.

Sul ricorso

Argomenti delle parti

15. La Commissione ritiene che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituisca un regime discriminatorio contrario all’art. 141 CE in quanto fissa l’età pensionabile a 60 anni per i di-pendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile.

16. La Commissione sottolinea che la Corte ha confermato, nelle sen-tenze 17 maggio 1990, causa C 262/88, Barber (Racc. pag. I 1889), e 6 ottobre 1993, causa C 109/91, Ten Oever (Racc. pag. I 4879), che una pensione corrisposta da un datore di lavoro ad un ex dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso costitui-sce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE e che la Corte ha di-chiarato, nelle sentenze 28 settembre 1994, causa C 7/93, Beune (Racc. pag. I 4471); 29 novembre 2001, causa C 366/99, Griesmar (Racc. pag. I 9383), nonché 12 settembre 2002, causa C 351/00, Niemi (Racc. pag. I 7007), che le pensioni erogate dallo Stato agli ex dipendenti che hanno prestato servizio nel settore pubblico pos-sono costituire una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE.

17. Nel determinare se una pensione prevista dalla legge, che lo Stato corrisponde ad un ex dipendente, rientri nel campo di applicazio-ne dell’art. 141 CE oppure in quello della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in mate-ria di sicurezza sociale (GU L 6, pag. 24), la Commissione rinvia ai criteri stabiliti nelle sentenze sopra citate Beune e Niemi. Secondo la Commissione, occorre esaminare se, nella presente causa, siano soddisfatti i tre criteri che risultano da questa giurisprudenza af-finché un regime pensionistico sia qualificato come regime profes-sionale, vale a dire che la pensione interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, che sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e che il suo importo sia calcolato in base all’ul-timo stipendio del dipendente pubblico.

18. La Commissione, al fine di qualificare il regime pensionistico in que-stione, fa riferimento alla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre

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2004, allegata alla lettera della Repubblica italiana del 10 gennaio 2005 e da cui risulta, secondo la Commissione, che la pensione ver-sata nell’ambito di tale regime risponde a questi tre criteri.

19. Secondo la Commissione, il fatto che il regime pensionistico ge-stito dall’INPDAP sia disciplinato direttamente dalla legge, non sarebbe sufficiente per escluderlo dal campo di applicazione dell’art. 141 CE. Infatti, nella citata sentenza Beune, la Corte avreb-be esplicitamente respinto questo criterio puramente formale.

20. Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP sia improntato all’obiettivo di politica sociale di tener conto del-le regole del sistema pensionistico gestito dall’INPS riguardante categorie generali di lavoratori non sarebbe sufficiente, secondo la Commissione, per escludere il suddetto regime dal campo di applicazione dell’art. 141 CE.

21. Per di più, secondo la Commissione, che fa riferimento alle sen-tenze precitate Griesmar e Niemi, è chiaro che la pensione che ri-entra nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP è versata dallo Stato in qualità di datore di lavoro, criterio che la Corte ha ritenuto essenziale.

22. Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana relati-vo alla portata del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Commissione si basa sulla citata sentenza Niemi in cui la Corte si sarebbe già pronunciata sulla qualifica di un regime professionale che copre diverse categorie di lavoratori concludendo che, qualora siano soddisfatti i tre criteri menzionati al punto 17 della presente sentenza, il fatto che tale regime ricopra diverse categorie di lavo-ratori non avrebbe alcuna rilevanza.

23. A tal riguardo, la Commissione fa anche riferimento alla sentenza 23 ottobre 2003, cause riunite C 4/02 e C 5/02, Schönheit e Becker (Racc. pag. I 12575), e osserva che la Corte, nella citata sentenza Niemi, ha qualificato come regime professionale un regime che co-pre diverse categorie di lavoratori, ma tutti appartenenti al settore pubblico e ha così considerato l’insieme dei dipendenti pubblici come una categoria particolare.

24. Infine, la Commissione contesta l’argomento della Repubblica italiana secondo cui l’introduzione di differenziazioni di discipli-na dell’età pensionabile in funzione del regime, sia esso l’INPS o l’INPDAP, comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori del settore privato e i dipendenti pubblici. Essa so-stiene che tale argomento deriva dalla premessa erronea secondo cui il regime pensionistico gestito dall’INPDAP è un regime legale e non un regime professionale. Inoltre, la Commissione fa notare

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che le similitudini esistenti tra questi due regimi non sarebbero pertinenti.

25. La Repubblica italiana contesta l’inadempimento addebitato fa-cendo valere il carattere legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP.

26. A tal riguardo, tale Stato membro, richiama, in primo luogo, il con-testo delle privatizzazioni e delle riforme nel settore del pubblico impiego nel quale si inquadra il regime in questione.

27. Il processo di privatizzazione che la Repubblica italiana ha condotto, a decorrere dagli anni ’90, nel settore del pubblico impiego, avrebbe come conseguenza che, ad eccezione di alcune funzioni particolari, quali la magistratura, le forze armate, la diplomazia, le prefetture e l’avvocatura dello Stato, il rapporto di lavoro pubblico è stato pro-gressivamente attratto nella contrattazione collettiva e, successiva-mente, assimilato in tutto ad un rapporto di impiego privato.

28. In secondo luogo, la Repubblica italiana sottolinea che i limiti di età, fissati a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, sono uniformemente stabiliti, sia per lavoratori iscritti all’INPS che per i lavoratori iscritti all’INPDAP. Pertanto, la normativa contestata manterrebbe, proprio in quanto conforme a quella applicabile alle categorie di lavoratori iscritti all’INPS, una valenza generale, tale da far considerare il regime pensionistico gestito dall’INPDAP come avente natura legale. Considerata l’avvenuta privatizzazione di quasi tutta l’aerea del pubblico impiego, l’introduzione di dif-ferenziazioni nella fissazione dell’età pensionabile comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori.

29. Per evidenziare la natura legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Repubblica italiana fa valere che l’art. 3 del decre-to legislativo 30 giugno 1994, n. 479, prevede un unico e uniforme regime di organizzazione dell’INPDAP e dell’INPS per quanto ri-guarda gli organi di gestione.

30. A questo stesso fine, la Repubblica italiana sottolinea che l’INPDAP conferisce inoltre ai suoi iscritti prestazioni che non costituiscono il corrispettivo dei contributi versati e pone l’accento sulle modalità di finanziamento del regime pensionistico di cui è causa.

31. In terzo luogo, tale Stato membro contesta il parere della Commissione secondo cui si potrebbero raggruppare in una sola categoria professionale tanti e diversi dipendenti pubblici.

32. La Repubblica italiana fa valere, in quarto luogo, che la Commissione non può basare la sua valutazione del regime pensionistico di cui è causa sulla relazione dell’INPDAP. A tale proposito, questo Stato membro sottolinea che tale relazione si fonda su disposizioni

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precedenti alla messa in mora e quindi inutilizzabili come elementi di prova. Inoltre, non sarebbe corretto dedurre da tale relazione che la pensione che rientra nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento agli anni di servizio prestati e allo stipendio percepito. A tal riguardo, il detto Stato membro precisa che il termine «retribuzioni», utilizzato dal legislatore italiano per indicare il sistema di calcolo delle pensioni, dovrebbe essere inteso come riferito ai contributi che su tali retribuzioni sono stati pagati e che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere dagli anni ’90, la pensione tiene conto della media delle retribuzioni percepite nel corso degli ultimi 10 anni e dei corrispondenti contributi versati.

33. All’udienza dinanzi alla Corte, la Repubblica italiana ha sostenuto, infine, che la fissazione di un’età pensionabile diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne esistenti ancora nell’evoluzione del contesto socioculturale.

Giudizio della Corte

34. Ai sensi dell’art. 141, n. 1, CE, ciascuno Stato membro assicura l’ap-plicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. In base al n. 2, primo comma, di tale articolo, per retribuzione si intende il salario o trattamento norma-le di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.

35. Occorre ricordare che, per valutare se una pensione di vecchiaia rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, soltanto il cri-terio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce al suo ex datore di lavoro, ossia il criterio dell’impiego, desunto dalla lettera stessa dell’art. 141 CE, può avere carattere determinante (sentenze citate supra Beune, punto 43; Griesmar, punto 28; Niemi, punto 44, non-ché Schönheit e Becker, punto 56).

36. Certo, questo criterio non può avere un carattere esclusivo, poi-ché le pensioni corrisposte da regimi legali previdenziali posso-no, in tutto o in parte, tener conto della retribuzione dell’attivi-tà lavorativa (sentenze citate supra Beune, punto 44; Griesmar, punto 29; Niemi, punto 46, nonché Schönheit e Becker, punto

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57). Ora, siffatte pensioni non costituiscono retribuzioni ai sensi dell’art. 141 CE (v., in tal senso, sentenze 25 maggio 1971, causa 80/70 Defrenne, Racc. pag. 445, punto 13; 13 maggio 1986, cau-sa 170/84, Bilka-Kaufhaus, Racc. pag. 1607, punto 18; Beune, cit., punto 24 e 44; Griesmar, cit., punto 27, nonché Schönheit e Becker, cit., punto 57).

37. Tuttavia, le considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica o anche le preoccupazioni di bilancio che han-no avuto o hanno potuto avere un ruolo nella determinazione di un regime pensionistico da parte di un legislatore nazionale non possono considerarsi prevalenti qualora la pensione interessi sol-tanto una categoria particolare di lavoratori, sia direttamente fun-zione degli anni di servizio prestati e il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico (sentenze citate supra Beune, punto 45; Griesmar, punto 30; Niemi, punto 47, non-ché Schönheit e Becker, punto 58).

38. Di conseguenza, gli argomenti della Repubblica italiana, relati-vi al metodo di finanziamento del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, alla sua organizzazione ed alle prestazioni diverse dalle pensioni che esso conferisce, diretti a dimostrare che tale regime costituisce un regime previdenziale ai sensi della cita-ta sentenza Defrenne che non rientra nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, non possono essere accolti. Inoltre, il fatto che l’età pensionabile sia fissata in maniera uniforme per i lavoratori che rientrano nel regime di cui è causa e per quelli che rientrano nel regime generale, ossia il sistema pensionistico gestito dall’INPS, non è pertinente per la qualificazione della pensione versata dal regime pensionistico gestito dall’INPDAP.

39. Partendo da queste precisazioni circa il senso del termine «retri-buzione» nel settore dei regimi pensionistici occorre esaminare se la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP corrisponda ai criteri ricordati al punto 37 della pre-sente sentenza.

40. Per quanto riguarda il primo criterio, occorre rilevare che i dipen-denti pubblici che beneficiano di un regime pensionistico devo-no essere considerati come una categoria particolare di lavora-tori. Infatti, essi si distinguono dai lavoratori di un’impresa o di un gruppo di imprese, di un comparto economico o di un settore professionale o interprofessionale soltanto in ragione delle caratte-ristiche peculiari che disciplinano il loro rapporto di lavoro con lo Stato, con altri enti o datori di lavoro pubblici (sentenze citate supra Griesmar, punto 31, e Niemi, punto 48)

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41. Ne deriva che i dipendenti pubblici che beneficiano del regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori.

42. Questo risultato non può essere confutato dagli argomenti dedotti dalla Repubblica italiana. In primo luogo, tale Stato membro fa vale-re che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP comprende, oltre ai dipendenti pubblici, lavoratori del settore pubblico e lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico.

43. A tal riguardo, occorre ricordare che il presente ricorso riguarda solo i dipendenti pubblici, per cui, nella presente causa, non si trat-ta di determinare se i lavoratori del settore pubblico e i lavorato-ri che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico costituiscano anch’essi una categoria particolare di lavoratori o se costituiscano, considerati unitamente ai dipendenti pubblici, una sola categoria particolare di lavoratori. Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applichi non solo ai dipen-denti pubblici ma anche ad altre categorie di lavoratori non può privare i dipendenti pubblici della tutela conferita dall’art. 141 CE allorché gli altri criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza sono soddisfatti. Come risulta dal punto 49 della sentenza Niemi sopramenzionata, il fatto che un regime pensionistico comprenda non solo una certa categoria di dipendenti pubblici ma anche l’in-sieme dei dipendenti dello Stato non ha come conseguenza che la categoria di dipendenti pubblici interessata non possa essere considerata una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte.

44. La Repubblica italiana fa valere, in secondo luogo, che i numerosi e diversi gruppi di dipendenti pubblici non possono essere riuniti in un’unica categoria professionale.

45. A tale riguardo, occorre osservare che, come risulta dal pun-to 41 della presente sentenza, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applica ai dipendenti pubblici che costituiscono una categoria particolare di lavoratori. Il fatto che, nell’ambito della categoria dei dipendenti pubblici, si potrebbero identificare diverse categorie non ha rilevanza in quanto questa categoria si distingue, come ricordato al punto 40 della presente sentenza, da-gli altri gruppi di lavoratori del settore privato o pubblico per le caratteristiche proprie che disciplinano il rapporto di impiego dei dipendenti pubblici con lo Stato.

46. Di conseguenza, i dipendenti pubblici che rientrano nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte

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richiamata al punto 40 della presente sentenza.47. Per quanto riguarda gli altri due criteri accolti dalla giurispruden-

za menzionata al punto 37 della presente sentenza, ossia che la pensione deve essere direttamente proporzionale agli anni di ser-vizio prestati e il suo importo deve essere calcolato in base all’ul-tima retribuzione del dipendente pubblico, occorre esaminare se essi siano soddisfatti di modo che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP possa essere considera-ta comparabile a quella che verserebbe un datore di lavoro privato ai suoi ex dipendenti.

48. La Commissione si basa a tal riguardo sulla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004, che è stata allegata dalla Repubblica italiana alla sua risposta del 10 gennaio 2005 alla lettera amministrativa della Commissione del 12 novembre 2004. Essa deduce da tale re-lazione che la pensione versata nell’ambito del regime pensionisti-co gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero di anni di servizio prestati dal dipendente e allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento.

49. La Repubblica italiana, pur contestando queste affermazioni per il motivo che tale relazione è basata su disposizioni precedenti alla messa in mora, ammette tuttavia che, conformemente all’attuazio-ne della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere dagli anni ’90, la pensione di cui trattasi tiene conto della media delle retribuzioni percepite nell’ultimo decennio e dei contributi versati corrispondenti.

50. Partendo da quest’ultima constatazione, occorre esaminare se que-sto metodo di calcolo risponda ai due criteri accolti dalla giuri-sprudenza della Corte.

51. Per quanto riguarda questi due criteri, la Corte, ai punti 33 e 34 della sentenza Griesman, sopramenzionata, ha qualificato come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui importo deriva dal prodotto di una percentuale applicata ad un importo base, il quale è costituito dallo stipendio corrispondente all’ultimo coefficiente retributivo applicabile al dipendente pubblico nel cor-so degli ultimi sei mesi di attività.

52. Costituisce anche una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui importo è calcolato sulla base del valore medio del-la retribuzione percepita nel corso di un periodo limitato ad alcuni anni immediatamente precedenti il ritiro dal lavoro (v. sentenza Niemi, cit., punto 51) nonché una pensione il cui importo è cal-colato sulla base dell’importo di tutti i contributi versati durante tutto il periodo di iscrizione del lavoratore e ai quali si applica un

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fattore di rivalutazione (v. sentenza 1° aprile 2008, causa C 267/06, Maruko, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 55).

53. Ne deriva che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP deve essere qualificata come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE. Infatti, la base di calcolo di tale pensione ri-sponde ai criteri stabiliti dalla Corte nelle citate sentenze Griesmar, Niemi e Maruko.

54. Pertanto, la pensione versata in forza del detto regime pensionisti-co costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE.

55. Come risulta da una costante giurisprudenza, l’art. 141 CE vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavorato-ri di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza. Secondo questa stessa giurisprudenza, la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per la concessione di una pensione che costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE è in contrasto con questa disposizione (v. sentenze Barber, cit., punto 32; 14 dicembre 1993, causa C 110/91, Moroni, Racc. pag. I 6591, punti 10 e 20; 28 settem-bre 1994, causa C 408/92, Avdel Systems, Racc. pag. I 4435, pun-to 11, nonché Niemi, cit., punto 53).

56. Come sostiene la Commissione, senza essere contraddetta al ri-guardo dalla Repubblica italiana, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP prevede una condizione di età diversa a seconda del sesso per la concessione della pensione versata in forza di tale regime.

57. L’argomento della Repubblica italiana secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione di età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne non può essere accolto. Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svan-taggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i prov-vedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo [v., per quanto ri-guarda l’interpretazione dell’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale concluso tra gli Stati della Comunità europea ad eccezione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU 1992, C 191, pag. 91), sentenza Griesmar, cit., punto 64].

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58. Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professio-nale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale.

59. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, occorre constata-re che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a ricevere la pensione di vecchia-ia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.

Sulle spese

60. A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, il soccom-bente è condannato alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha concluso per la condanna della Repubblica ita-liana e quest’ultima è risultata soccombente nei suoi motivi, occor-re condannarla alle spese.

Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce:

1) Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipen-denti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica ita-liana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.

Firme

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APPENDICE II

NORMATIVA

Direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale

Gazzetta Ufficiale CE n. L 6 del 10 gennaio 1979 pagg. 24 - 25

IL CONSIGLIO DELLE COMUNITÀ EUROPEE ,visto il trattato che istituisce la Comunità economica europea , in par-ticolare l’articolo 235 ,vista la proposta della Commissione (1) ,visto il parere del Parlamento europeo (2) ,visto il parere del Comitato economico e sociale (3) ,considerando che l’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promo-zione professionali e le condizioni di lavoro (4), prevede che, per garantire la graduale attuazione del principio della parità di tratta-mento in materia di sicurezza sociale, il Consiglio adotterà, su propo-sta della Commissione, disposizioni che ne precisino in particolare il contenuto, la portata e le modalità d’applicazione; che il trattato non ha previsto i poteri di azione specifici necessari a tale scopo;considerando che occorre attuare il principio della parità di tratta-mento in materia di sicurezza sociale in primo luogo nei regimi legali che assicurano una protezione contro i rischi di malattia professionale e di disoccupazione, nonché nelle disposizioni relative all’assistenza sociale nella misura in cui sono destinate a completare detti regimi o a supplirvi;considerando che l’attuazione del principio della parità di trattamento in materia di sicurezza sociale non crea ostacoli alle disposizioni rela-tive alla protezione della donna a causa della maternità e che, in que-sto contesto, talune disposizioni specifiche destinate a rimediare alle ineguaglianze di fatto possono essere adottate dagli Stati membri in favore delle donne,

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HA ADOTTATO LA PRESENTE DIRETTIVA:

Articolo 1Scopo della presente direttiva è la graduale attuazione, nel campo della sicurezza sociale e degli altri elementi di protezione sociale di cui all’articolo 3, del principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, denominato qui appresso «prin-cipio della parità di trattamento».

Articolo 2La presente direttiva si applica alla popolazione attiva - compresi i lavoratori indipendenti, i lavoratori la cui attività si trova interrotta per malattia, infortunio o disoccupazione involontaria e le persone in cerca di lavoro -, nonché ai lavoratori pensionati o invalidi.

Articolo 31. La presente direttiva si applica:a) ai regimi legali che assicurano una protezione contro i rischi seguenti:- malattia,- invalidità,- vecchiaia,- infortunio sul lavoro e malattia professionale,- disoccupazione;b) alle disposizioni concernenti l’assistenza sociale, nella misura in cui siano destinate a completare i regimi di cui alla lettera a) o a supplire ad essi.2. La presente direttiva non si applica alle disposizioni concernenti le prestazioni ai superstiti, né a quelle concernenti le prestazioni fami-liari, a meno che non si tratti di prestazioni spettanti per i rischi di cui al paragrafo 1, lettera a).3. Per garantire l’attuazione del principio della parità di trattamento nei regimi professionali, il Consiglio adotterà, su proposta delle Commissione, disposizioni che ne precisino il contenuto, la portata e le modalità di applicazione.

Articolo 41 . Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in

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particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, specificamente per quanto riguarda:- il campo di applicazione dei regimi e le condizioni di ammissione ad essi,- l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi,- il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispon-dere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni rela-tive alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni.2. Il principio della parità di trattamento non pregiudica le disposi-zioni relative alla protezione della donna a motivo della maternità.

Articolo 5Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché siano sop-presse le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative con-trarie al principio della parità di trattamento.

Articolo 6Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici interni le misure necessarie per permettere a tutti coloro che si riten-gono lesi dalla mancata applicazione del principio della parità di trat-tamento di far valere i propri diritti per via giudiziaria, eventualmente dopo aver fatto ricorso ad altre istanze competenti.

Articolo 71. La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione:a) la fissazione dei limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni;b) i vantaggi accordati in materia di assicurazione vecchiaia alle per-sone che hanno provveduto all’educazione dei figli; l’acquisto di diritti alle prestazioni a seguito di periodi di interruzione del lavoro dovuti all’educazione dei figli;c) la concessione di diritti a prestazioni di vecchiaia o di invalidità in base ai diritti derivati della consorte;d) la concessione di maggiorazioni delle prestazioni a lungo termine di invalidità, di vecchiaia, di infortunio sul lavoro o di malattia profes-sionale per la consorte a carico;

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e) le conseguenze risultanti dall’esercizio, anteriormente all’adozione della presente direttiva, di un diritto di opzione allo scopo di non acqui-sire diritti o di non contrarre obblighi nell’ambito di un regime legale.2. Gli Stati membri esaminano periodicamente le materie escluse ai sensi del paragrafo 1 al fine di valutare se, tenuto conto dell’evolu-zione sociale in materia, sia giustificato mantenere le esclusioni in questione.

Articolo 81. Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, rego-lamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro un termine di sei anni a decorrere dalla notifica. Essi ne informano immediatamente la Commissione.2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione il testo delle dispo-sizioni legislative, regolamentari ed amministrative che essi adottano nel settore disciplinato dalla presente direttiva, comprese le misure adottate in applicazione dell’articolo 7, paragrafo 2.Essi informano la Commissione dei motivi che giustificano l’eventuale mantenimento delle disposizioni esistenti nelle materie di cui all’arti-colo 7, paragrafo 1 e delle possibilità di una loro ulteriore revisione.

Articolo 9Entro sette anni dalla notifica della presente direttiva, gli Stati mem-bri trasmettono alla Commissione tutti i dati utili per consentirle di redigere una relazione, da sottoporre al Consiglio, sull’applicazione della presente direttiva e di proporre ogni altra misura necessaria per l’attuazione del principio della parità di trattamento.

Articolo 10Gli Stati membri sono destinatari della presente direttiva.Fatto a Bruxelles, addì 19 dicembre 1978.

Per il ConsiglioIl PresidenteH. - D . GENSCHER

(1) GU n. C 34 dell’11.2.1977, pag. 3.(2) GU n. C 299 del 12.12.1977, pag. 13.(3) GU n. C 180 del 28.7.1977, pag. 36.(4) GU n. L 39 del 14.2.1976, pag. 40.

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Articolo 141 CE (Trattato che istituisce la Comunità europea) (ex art. 119)1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della

parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di ses-so femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:

a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cot-timo sia fissata in base a una stessa unità di misura;

b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.

3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta mi-sure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportu-nità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’at-tività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.

CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA

CAPO III UGUAGLIANZA

Articolo 20Uguaglianza davanti alla legge Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.

Articolo 21Non discriminazione1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare,

sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale,

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le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appar-tenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

2. Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi di-scriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizio-ni particolari contenute nei trattati stessi.

Articolo 23Parità tra uomini e donneLa parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.

Legge 3 agosto 2009, n. 102“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali”Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 179 del 4 agosto 2009 - Supplemento ordinario n. 140

Art. 22-terDisposizioni in materia di accesso al pensionamento

1. In attuazione della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 13 novembre 2008 nella causa C-46/07, all’articolo 2, com-ma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «A decorrere dal 1° gennaio 2010, per le predette lavoratrici il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo periodo del presente comma e il requisito anagrafico di sessanta anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e successive modificazioni, sono incrementati di un anno. Tali requisiti anagrafici sono ulteriormente incrementati di un anno, a decorrere dal 1° gennaio 2012, nonché di un ulteriore anno per ogni biennio successivo, fino al raggiungimento dell’età di sessantacinque anni. Restano ferme la disciplina vigente in ma-teria di decorrenza del trattamento pensionistico e le disposizioni

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vigenti relative a specifici ordinamenti che prevedono requisiti anagrafici più elevati, nonché le disposizioni di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 165. Le lavoratrici di cui al presente comma, che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2009 i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa vigente prima della data di entrata in vigore della presente dispo-sizione ai fini del diritto all’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia, conseguono il diritto alla prestazione pensionistica secondo la predetta normativa e possono chiedere all’ente di ap-partenenza la certificazione di tale diritto».

2. A decorrere dal 1° gennaio 2015 i requisiti di età anagrafica per l’accesso al sistema pensionistico italiano sono adeguati all’incre-mento della speranza di vita accertato dall’Istituto nazionale di sta-tistica e validato dall’Eurostat, con riferimento al quinquennio pre-cedente. Con regolamento da emanare entro il 31 dicembre 2014, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro del lavo-ro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, é emanata la normativa tecnica di attuazione. In sede di prima attuazione, l’incremento dell’età pen-sionabile riferito al primo quinquennio antecedente non può co-munque superare i tre mesi. Lo schema di regolamento di cui al presente comma, corredato di relazione tecnica, é trasmesso alle Camere per il parere delle Commissioni competenti per materia e per i profili di carattere finanziario.

3. Le economie derivanti dall’attuazione del comma 1 confluiscono nel Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia rea-le, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di cui all’articolo 18, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 29 novem-bre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gen-naio 2009, n. 2, e successive modificazioni, per interventi dedicati a politiche sociali e familiari con particolare attenzione alla non autosufficienza; a tale fine la dotazione del predetto Fondo é incre-mentata di 120 milioni di euro nell’anno 2010 e di 242 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2011.

Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica

Direzione Centrale Previdenza

Nota operativa n. 50

Roma, 07/10/2009

Ai Direttori delle Sedi Provinciali e Territoriali

Alle Organizzazioni Sindacali Nazionali dei Pensionati

Agli Enti di Patronato

Ai CAF

Ai Dirigenti Generali Centrali e Regionali

Ai Direttori Regionali

Agli Uffici autonomi di Trento e Bolzano

Ai Coordinatori delle Consulenze Professionali

Oggetto: Art. 22 ter della legge 3 agosto 2009, n. 102 di conver-sione, con modificazioni, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 – Gazzetta Ufficiale del 4 agosto 2009, n. 179, S.O. - Innalzamento dei requisiti anagrafici delle lavoratrici.

L’articolo 22–ter della legge richiamata in oggetto introduce, a decor-rere dal 1° gennaio 2010 per le lavoratrici iscritte alle forme esclusive

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dell’Assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti nuovi requisiti anagrafici per la maturazione del diritto ad un trattamento pensionistico di vecchiaia nonché per quello previ-sto dall’art. 1, comma 6, lettera b) della legge 23 agosto 2004 n. 243 e successive modificazioni (requisiti anagrafici per le destinatarie di un sistema contributivo). In particolare le disposizioni in esame, che per esplicita disposizione legislativa si aggiungono al già richiamato art. 2, comma 21 della legge n. 335/1995, individuano, per l’anno 2010, il requisito anagra-fico di 61 anni per accedere al pensionamento di vecchiaia che viene ulteriormente incrementato di un anno, a decorrere dal 1° gennaio 2012, nonché di un ulteriore anno per ogni biennio successivo, fino al raggiungimento dell’età di 65 anni.

Per un’immediata visualizzazione dei nuovi requisiti, si riporta la seguente tabella:

Anno Età anagrafica2010 61

2012 62

2014 63

2016 64

2018 e oltre 65

L’innalzamento graduale del limite di età opera anche nei confronti delle lavoratrici del comparto sanità ed in particolare per il personale infermieristico il cui regolamento organico fissa il limite anagrafico dei 60 anni quale requisito per la maturazione del relativo diritto al pensionamento di vecchiaia. Per espressa previsione normativa continuano a trovare applicazione sia le disposizioni vigenti relative a specifici ordinamenti che preve-dono requisiti anagrafici più elevati (es. donne magistrato, ambascia-tori, professoresse universitarie) che quelle relative al personale fem-minile delle forze armate, compresa l’Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza, delle forze di polizia ad ordinamento civile e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, che rimane ancorato al com-pimento a 60 anni (art. 2 del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 165).In virtù dell’ultimo periodo del già citato art. 22–ter, le lavoratrici che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2009 i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa vigente prima della data di entrata in vigore della presente disposizione ai fini del diritto

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all’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia, conseguono il diritto alla prestazione pensionistica secondo la previgente normativa e possono richiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto. Al riguardo, si precisa che detta certificazione non è in alcun modo costitutiva del diritto ma assume valore meramente dichiarativo dei requisiti anagrafici e contributivi utili a pensione.

IL DIRETTORE GENERALE Dott. Costanzo Gala

Finito di stampare nel mese di febbraio 2010

presso il

Centro Stampa UniversitàUniversità degli Studi di Roma La Sapienza

P.le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma

www.editricesapienza.it

Ispettorato Pensioni

L’età pensionabile delle donne nella Pubblica Amministrazione

I quaderni dell’ispettorato