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L’eredità della banca mista Sistema creditizio, finanziamento industriale e ruolo strategico di Mediobanca 1946-1956 di Stefano Battilossi Nell’economia dei “salotti buoni” e dei “capita- listi senza capitali”, Mediobanca occupa un po- sto di assoluta centralità, tanto come custode delle “casseforti” finanziarie dei più potenti gruppi industriali privati, quanto come regista delle operazioni che hanno segnato in profondi- tà la storia — e gli squilibri — dello sviluppo in- dustriale italiano del secondo dopoguerra, dalla nazionalizzazione elettrica del 1962 alla fusione Montecatini-Edison. Mediobanca rappresenta perciò il simbolo di un’economia governata da complesse architetture finanziarie, priva di tra- sparenza e di efficaci controlli, dominata da ri- strette oligarchie familiari. Il saggio si propone di risalire alle radici di questa singolare istitu- zione finanziaria — ad un tempo istituto di cre- dito a medio termine, banca d’affari e holding — e di collocarne l’esperienza nella storia del si- stema capitalistico italiano. Ricostruendo le cir- costanze che nel 1945-1946 conducono alla sua ideazione e costituzione da parte delle tre ex banche miste, e analizzandone lo sviluppo nel campo del credito mobiliare e del finanziamen- to industriale, il saggio si confronta con una se- rie di cruciali problemi interpretativi: l’eredità della Grande crisi e delle riforme istituzionali degli anni tra le due guerre; il senso dell’offen- siva liberista postbellica; il ruolo della Banca d’Italia e la ristrutturazione dei poteri economi- ci nell’Italia repubblicana; i rapporti tra banca e industria negli anni della ricostruzione; l’evo- luzione dei rapporti di forza e di simbiosi tra centri di potere pubblici e privati; il ruolo delle alleanze finanziarie internazionali. In the economy of the “happy few ” and the “capitalists without capitals”, Mediobanca plays e primary role, both as a guardian o f the financial “strongboxes” of the outstanding in- dustrial groups and as a director o f the opera- tions that deeply influenced the complex and contradictory development o f the Italian indu- strial system during the second postwar period, from the nationalization o f the power industry to the Montecatini-Edison merger. Madiobanca represented the symbol of an economy gover- ned by sophisticated financial architectures, lacking transparency and effective control, do- minated by narrow familiar oligarchies. The present essay aims to unearth the roots o f such peculiar financial institution as is Medio- banca, mid-term credit bank, businnes bank and holding agency all in one, and to locate its expe- rience in the story o f the Italian capitalist system. Revisiting the circumstances that in 1945-1946 gave impulse to the creation o f Mediobanca, and examining its role in the field o f financial and industrial credit, the A. confronts a series o f crucial issues: the heritage in the Great De- pression and o f the institutional reforms in the interwar period: the sense o f the postwar free- trading drive; the role played by Bankitalia and the reorganization o f economic power in Repu- blican Italy; the relationships between bank and industry in the Reconstruction period; the evo- lution o f the symbiosis and balance o f power between State institutions and private enterpri- ses; the impact o f the international financial al- liances. Italia contemporanea”, dicembre 1991, n. 185

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L’eredità della banca mista Sistema creditizio, finanziamento industriale e ruolo strategico di M ediobanca 1946-1956

di Stefano Battilossi

Nell’economia dei “salotti buoni” e dei “capita­listi senza capitali”, Mediobanca occupa un po­sto di assoluta centralità, tanto come custode delle “casseforti” finanziarie dei più potenti gruppi industriali privati, quanto come regista delle operazioni che hanno segnato in profondi­tà la storia — e gli squilibri — dello sviluppo in­dustriale italiano del secondo dopoguerra, dalla nazionalizzazione elettrica del 1962 alla fusione Montecatini-Edison. Mediobanca rappresenta perciò il simbolo di un’economia governata da complesse architetture finanziarie, priva di tra­sparenza e di efficaci controlli, dominata da ri­strette oligarchie familiari. Il saggio si propone di risalire alle radici di questa singolare istitu­zione finanziaria — ad un tempo istituto di cre­dito a medio termine, banca d’affari e holding — e di collocarne l’esperienza nella storia del si­stema capitalistico italiano. Ricostruendo le cir­costanze che nel 1945-1946 conducono alla sua ideazione e costituzione da parte delle tre ex banche miste, e analizzandone lo sviluppo nel campo del credito mobiliare e del finanziamen­to industriale, il saggio si confronta con una se­rie di cruciali problemi interpretativi: l’eredità della Grande crisi e delle riforme istituzionali degli anni tra le due guerre; il senso dell’offen­siva liberista postbellica; il ruolo della Banca d’Italia e la ristrutturazione dei poteri economi­ci nell’Italia repubblicana; i rapporti tra banca e industria negli anni della ricostruzione; l’evo­luzione dei rapporti di forza e di simbiosi tra centri di potere pubblici e privati; il ruolo delle alleanze finanziarie internazionali.

In the economy o f the “happy few ” and the “capitalists without capitals”, Mediobanca plays e primary role, both as a guardian o f the financial “strongboxes” o f the outstanding in­dustrial groups and as a director o f the opera­tions that deeply influenced the complex and contradictory development o f the Italian indu­strial system during the second postwar period, from the nationalization o f the power industry to the Montecatini-Edison merger. Madiobanca represented the symbol o f an economy gover­ned by sophisticated financial architectures, lacking transparency and effective control, do­minated by narrow familiar oligarchies.The present essay aims to unearth the roots o f such peculiar financial institution as is Medio­banca, mid-term credit bank, businnes bank and holding agency all in one, and to locate its expe­rience in the story o f the Italian capitalist system. Revisiting the circumstances that in 1945-1946 gave impulse to the creation o f Mediobanca, and examining its role in the field o f financial and industrial credit, the A. confronts a series o f crucial issues: the heritage in the Great De­pression and o f the institutional reforms in the interwar period: the sense o f the postwar free- trading drive; the role played by Bankitalia and the reorganization o f economic power in Repu­blican Italy; the relationships between bank and industry in the Reconstruction period; the evo­lution o f the symbiosis and balance o f power between State institutions and private enterpri­ses; the impact o f the international financial al­liances.

Italia contemporanea”, dicembre 1991, n. 185

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Sono per così dire un centauro, metà uomo e metà cavallo. Scegliete voi qual è il pubblico e qual è il privato.

(Enrico Cuccia alla Commissione finanze del Senato, 1978)

“Una mescolanza di banche”. Mediobanca nelle vicende del capitalismo industriale ita­liano

Tra le istituzioni economiche del nostro pae­se, nessuna meglio della Banca di credito fi­nanziario (nota come Mediobanca) — col ri­goroso culto della segretezza professato dal suo longevo ‘padrone’ Enrico Cuccia — può incarnare l’emblema di un capitalismo, co­me quello italiano, appena lambito da rifor­me a difesa della trasparenza e della certezza delle regole. Salotto buono, “Grande Pro­tettrice”, stampella finanziaria di un capita­lismo “familiare” e “senza capitali”, emi­nenza grigia dell’economia italiana: le im­

magini create da una ormai nutrita pubblici­stica restituiscono con efficacia la posizione di assoluta centralità assunta da un istituto che ha firmato — in sintonia con i maggiori gruppi di comando dell’economia italiana— la regìa (occulta, è inutile sottolinearlo) di tutte le più importanti operazioni finan­ziarie degli ultimi trent’anni, a partire dalla ristrutturazione seguita alla nazionalizzazio­ne delle società elettriche del 1962 e culmina­ta nella fusione “acefala” tra Edison e Mon­tecatini1. Mediobanca appare dunque sim­bolo, strumento ed espressione di un ceto imprenditoriale prima e più finanziario che propriamente industriale, e al tempo stesso— grazie al possesso di quote determinanti

Questo saggio riprende e sviluppa alcuni temi da me affrontati nel corso di una tesi di dottorato su “Strategie del capitale industriale e finanziario nel processo di integrazione dell’economia italiana nel mercato internazionale, 1945-1955” (Dipartimento di Storia, Università di Torino, 1991). Desidero ringraziare per la cortese collaborazione prestatami nella fase di ricognizione archivistica il dr. Pinna e il dr. Valente, della Banca d’Italia, e il dr. Fabio Del Giudice, dell’Archivio storico del Banco di Roma.1 Le indagini giornalistiche di tradizione anglosassone sulle alte sfere dell’economia e della finanza hanno costi­tuito a lungo moneta fuori corso in Italia. All’origine di questa vena pubblicistica — scaturita dalla cultura li- beraldemocratica di Ernesto Rossi e dei convegni degli “amici de ‘Il Mondo’” (i primi ad introdurre nel dibatti­to politico del nostro paese tematiche riformiste come la legislazione antitrust) — va collocata l’esperienza de “L’Espresso”, da cui nasce il noto volume di Eugenio Scalfari - Giuseppe Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, Milano, Feltrinelli, 1974. Già qui (vedi in particolare le pp. 23-40, 116-150 e 159-162) si tro­va esemplarmente documentato il ruolo cruciale svolto da Mediobanca e dallo stesso Enrico Cuccia nel guidare le scelte delle élite finanziarie italiane nella fase successiva alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, sia nel­la nascita della Montedison, così come più tardi nella scalata a quest’ultima lanciata dall’Eni di Eugenio Cefis. In anni più recenti, sua è stata la regìa della disgraziata fusione Pirelli-Dunlop, della famigerata operazione La- fico che vide nell’arco di un decennio (1976-1986) il trionfale ingresso e la meno onorevole (ma lautamente re­munerata) ritirata dei libici dalla Fiat, della riprivatizzazione di Montedison attraverso l’organizzazione del con­sorzio Gemina (Agnelli, Pirelli, Orlando), della lotta contro i ‘ribelli’ Schimberni e De Benedetti, del naufragio della joint-venture pubblico-privata Telit (Telettra-Fiat e Italtel-Stet), per non ricordare che le operazioni più eclatanti. Vedi a tale proposito Gianni Manghetti, I soliti noti. Agnelli, Pirelli, De Benedetti e pochi altri: capi­talisti con capitale delle banche, Milano, Feltrinelli, 1985, in particolare le pp. 69-79; e Alan Friedman, Tutto in famiglia, Longanesi, Milano, 1988 (noto per aver suscitato le ire di casa Agnelli), pp. 101-136; e il recente Stefano Cingolani, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Bari, Laterza, 1990, pp. 89-108. Su parte delle vicende ricordate, esemplare appare Patteggiamento ‘agnostico’ assunto dall’allora governatore della Banca d’I­talia: cfr. Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di Eugenio Scalfari, Bari, Laterza, 1977, pp. 77-104.

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del capitale delle ‘casseforti’ dei più potenti gruppi privati e all’ideazione di ferrei sinda­cati di blocco — punto di equilibrio che con­sente alle famiglie di più antico lignaggio ca­pitalistico (gli Agnelli, i Pirelli, gli Orlando, i Marzotto) di mantenere il controllo dei propri imperi con una ridotta esposizione fi­nanziaria e di garantirsi contro i rischi di scalata ostile2.

In quasi mezzo secolo di attività, la fisio­nomia dell’istituto di via Filodrammatici si è dunque venuta caratterizzando per quella “mescolanza di banche” — contemporanea­mente istituto di credito a medio termine, banca d’affari e infine autentica holding — che Raffaele Mattioli non avrebbe mancato di rimproverare aspramente al proprio ‘al­lievo’ Cuccia. Conservazione dello status quo, deliberata rinuncia all’ampliamento del mercato borsistico, mancanza assoluta di trasparenza: tanto per la sinistra ‘rifor­mista’ impegnata nella battaglia — finora purtroppo assai magra di risultati (si pensi al pieno fallimento dell’esperimento Con- sob) — per l’adeguamento della legislazione italiana in materia finanziaria a standard

anglosassoni3, quanto per i più recenti apo­logeti (ingenui o interessati) del ‘capitalismo democratico’, dell’azionariato di massa e della public company4, l’operato di Medio­banca ha rappresentato un oggetto polemi­co ricorrente. È dunque nota la collocazio­ne di via Filodrammatici nella complessa geografia del potere economico italiano. Qui si tratta piuttosto di cogliere il senso storico più profondo della sua esperienza, le radici dalle quali si sviluppano le caratteri­stiche che ne hanno segnato così profonda­mente l’attività. Siamo infatti di fronte ad un caso esemplare o ad una bizzarra ano­malia?

La crisi finanziaria delle imprese scoppia­ta con clamore a metà degli anni settanta, la dimensione patologica assunta dall’indebita­mento bancario rispetto al capitale di rischio nella struttura finanziaria dei maggiori gruppi industriali italiani5, e contempora­neamente le scorribande finanziarie dei “golpisti della borsa” (come ebbe a battez­zare Ugo La Malfa i vari Sindona, Calvi, Bonomi), hanno segnato nel nostro paese l’avvio di un dibattito economico e politico i

2 Su questo aspetto insiste un esperto osservatore di vicende italiane, Joseph La Palombara, Democrazia all’italia­na, Milano, Mondadori, 1988 [Democracy Italian Style, Yale University Press, 1987] pp. 260-261.3 Vedi a puro titolo di esempio Guido Rossi, Trasparenza e vergogna, Milano, Il Saggiatore, 1982; Id., La scalata de! mercato. La borsa e i valori mobiliari, Bologna, Il Mulino, 1986; Filippo Cavazzuti, La regola e l ’arbitrio. Fi­nanza pubblica e finanza privata in Italia, Bologna, Il Mulino, 1988.4 Maturati a metà degli anni ottanta nel quadro dell’esperienza Ipsoa-“Italia Oggi” : vedi ad esempio Marco Vi­tale, La lunga marcia de! capitalismo democratico, Milano, 1987; Alessandro Aleotti, Borsa e industria. 1861- 1989: cento anni di rapporti difficili, Milano, Ed. Comunità, 1990, in particolare p. 203: “Si può affermare che Mediobanca ha interpretato un ruolo di salvaguardia dell’industria privata in un momento politicamente molto critico. Tuttavia Mediobanca si è eretta paladina dei capitalisti, non del capitalismo. Il capitalismo diffu­so, fondato sulla partecipazione e sul rispetto dei ruoli nel mercato, è sempre stato lontano dalle concezioni di Mediobanca.” Vedi anche l’intervento di Beniamino Andreatta, Le poche cose da fare, in Franco A. Grassini (a cura di), Le banche e il capitale di rischio: speranze o illusioni?, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 207-218, che accusa Mediobanca di aver operato ad esclusivo supporto dei gruppi di controllo esistenti e di aver costituito perciò una vera e propria “barriera all’entrata” che ha trasformato la sua “aristocratica solitudine” in mono­polio.5 Vanno ricordati Francesco Cesarini, Sistema bancario e offerta di capitale di rischio in Italia, in Alexandre Lam- falussy, I mercati finanziari europei, Torino, Einaudi, 1972, pp. 175-208; Guido Carli (a cura di), Sviluppo econo­mico e strutture finanziarie in Italia, Bologna, Il Mulino, 1977; Andrea Calamanti, Il mercato mobiliare italiano. Aspetti strutturali ed evolutivi nel secondo dopoguerra, Milano, Angeli, 1977; G. Carli (a cura di), La struttura del sistema creditizio italiano, Bologna, Il Mulino, 1978; Ministero del Tesoro, Rapporto sul sistema creditizio e finan­ziario (a cura di Mario Monti, F. Cesarini, Carlo Scognamiglio), Roma, 1982.

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cui termini di riferimento hanno finito per provocare la messa in discussione dei capi­saldi stessi della legge bancaria del 1936: il principio della specializzazione funzionale dell’attività creditizia, e quello della separa­zione tra banca e industria6. La strutturale debolezza del mercato mobiliare e della bor­sa valori come strumento di finanziamento delle imprese e il limitato sviluppo di nuovi intermediari finanziari non bancari (inve­stment trust, fondi di investimento) sono stati interpretati in questo quadro come il costo pagato ad un modello di finanziamen­to dell’accumulazione basato sulla centrali­tà del titolo a reddito fisso e del credito spe­ciale, espressione e causa al tempo stesso di un’imprenditoria ‘insana’ e irresponsabile, prigioniera di un sistema di incentivazione finanziaria che dagli anni cinquanta in poi ha aumentato la propria specializzazione parallelamente alla dipendenza dal potere politico, e attraverso il quale è passata la “conquista democristiana” del sistema cre­ditizio7. Parallelamente, sul versante storio­grafico, quella particolare congiuntura eco­nomica — col riemergere di taluni elementi di instabilità finanziaria caratteristici degli

anni tra le due guerre (ripetuti fallimenti bancari, forte tensione sui meccanismi di fi­nanziamento dell’accumulazione) — ha contribuito a focalizzare l’attenzione degli studiosi sui nodi della banca mista e del rapporto tra sistema bancario e accumula­zione industriale nella storia dello sviluppo capitalistico italiano.

In questo contesto, la legge bancaria del 1936 è venuta assumendo il valore di cesura epocale sulla strada di una sana e corretta gestione del credito, grazie anche al definiti­vo consolidamento da parte della Banca d’Italia del proprio ruolo di “banca delle banche”8.

Va detto subito che si tratta di una impo­stazione corretta e imprescindibile, e tutta­via non pienamente convincente per un du­plice ordine di considerazioni. Da un lato, e sul versante storiografico più generale, una valutazione puramente tecnocratica delle vi­cende attraversate dal sistema bancario e fi­nanziario, rinuncia a confrontarsi col ruolo svolto dalle élites finanziarie e industriali co­me componente basilare del blocco di potere fascista prima, democristiano poi, e a porre il problema storiografico della loro trasfor-

6 Cfr. Michele Bagella, Gli istituti di credito speciale e il mercato finanziario (1947-1962), Milano, Angeli, 1986, pp. 13-16.7 La dottrina giuridica è stata la prima ad approfondire il tema dell’evoluzione degli strumenti di ausilio finanzia­rio pubblico ai privati dal regime fascista al regime repubblicano: vedi Donatello Serrani, Lo Stato finanziatore, Milano, Angeli, 1971, che insiste sul passaggio degli strumenti di intervento e di direzione pubblica in economia da moduli autoritativi a moduli privatistici. Vedi anche Marcello De Cecco, Banca d ’Italia e “conquista politica’’ del sistema del credito. Tecnocrazia e politica nel governo della moneta tra gli anni ’50 e ’70, in II governo democratico dell’economia, Bari, De Donato, 1976, pp. 25-39, che attribuisce la sostituzione del capitale di rischio con debiti a lungo termine e a basso saggio di interesse da parte dei grandi gruppi industriali italiani alla massiccia fuga di capi­tali verso l’estero verificatasi all’inizio degli anni sessanta.8 Gli studi hanno preso avvio dagli ormai classici studi di Franco Bonelli, La crisi de! 1907. Una tappa dello svilup­po industriale in Italia, Torino, Fondazione Einaudi, 1971; e Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia (1894-1906), Bologna, Il Mulino, 1975. Sulle crisi del 1931-1934 e lo smobilizzo delle banche miste, vedi Gianni To­molo (a cura di), Industria e banca nella Grande Crisi 1929-1934, Milano, Etas Libri, 1978, in particolare i saggi di Pasquale Saraceno, Nuovi assetti introdotti nel nostro sistema economico dalle misure richieste dalla Grande Crisi 1929-1935, pp. 5-17; e di G. Toniolo, Crisi economica e smobilizzo delle banche miste (1930-1934). Importanti an­che i tre volumi di ricerche promosse dal Banco di Roma, Banca e industria tra le due guerre, Bologna, Il Mulino, 1981, in particolare l’intervento di Pasquale Saraceno, Salvataggi bancari e riforme negli anni 1922-1936, e i saggi di Mauro Marconi, La politica monetaria fra stabilizzazione della lira e grande depressione, e di Franco Belli, Le leggi bancarie del 1926 e del 1936-38.

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mazione — generazionale e sociologica — nel corso di un ventennio che vede lo “stato banchiere e imprenditore” nascere nel qua­dro istituzionale del regime fascista e tra­passare nelle istituzioni del nuovo regime parlamentare-pluralista. D’altro canto, que­sta chiave di lettura sopravvaluta l’efficacia normativa di un provvedimento legislativo assai elastico — che, è stato opportunamen­te ricordato da Sabino Cassese, rinunciava a codificare tanto la banca “pura” quanto la separazione funzionale del credito — ri­spetto al complesso dei provvedimenti (si pensi alle convenzioni del 1934 per il salva­taggio delle tre ex banche miste, e agli sta­tuti degli istituti bancari e finanziari) che strutturano la reale “costituzione” del credi­to9. E in ogni caso, essa non porta alcun contributo alla individuazione del senso sto­ricamente più pregnante della contraddizio­ne di fondo che segna sin dall’inizio la vi­cenda dell’istituto di via Filodrammatici: quella di un ente pubblico (in quanto filia­zione delle tre banche di interesse nazionale controllate dall’Iri) non solo operante in ba­se a criteri di natura rigidamente privatisti­

ca, ma soprattutto garante negli ultimi tren- t ’anni degli equilibri di potere tra i gruppi della grande industria e finanza privata (nonché della convivenza di questi ultimi con la parte pubblica). Dunque, è lungo il crinale che separa — e unisce — pubblico e privato che corre la possibilità di collocare in una prospettiva storica la nascita, lo svi­luppo e le funzioni di Mediobanca.

Appare di fatto poco credibile — la nota­zione è di Franco Bonelli e risale ormai a più di quindici anni fa — una interpretazione della storia finanziaria italiana nel secondo dopoguerra che spieghi l’assenza di innova­zioni nel settore del credito a lungo termine e mobiliare con la camicia di forza istituzio­nale imposta al sistema della legge bancaria: la vera chiave interpretativa di fondo sta nell’evoluzione dei rapporti di forza — e, sottolinea Bonelli, di simbiosi — tra centri di potere pubblici e privati, tenendo presente che “la proprietà e la gestione pubbliche del capitale e quelle private sono le due facce della stessa medaglia, e non già facciate con­trapposte di edifici costruiti l’uno separata- mente dall’altro”10. Più in generale, nume-

9 Vedi a tale proposito le notazioni di Sabino Cassese, È ancora attuale la legge bancaria del 1936?, “Bancaria”, 1985, n. 3, pp. 7-10, ora in Id., Stato, banche e imprese pubbliche dagli anni ’30 agli anni ’80, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987, pp. 33-35.10 Vedi Franco Bonelli, L ’entroterra storico di alcuni problemi attuali del sistema bancario, in Paolo Vitale (a cu­ra di), L ’ordinamento del credito tra due crisi, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 94-95, che notava come si insistesse — nel dibattito sempre più critico nei confronti della legge bancaria — sulla necessità della diffusione del titolo azionario, sorvolando però su temi imprescindibili quali la riforma della Borsa e delle società per azioni. Una conferma del particolare intreccio pubblico-privato realizzatosi ancora nel dopoguerra intorno alle banche irizzate e della continuità di rapporti con i più forti centri di potere industriale e finanziario privati è fornita dai numerosi intrecci di cariche: Piero Ferrerio (Edison), Vittorio Valletta (Fiat), più tardi Carlo Faina (Montecatini), e il presi­dente della Confindustria, Angelo Costa, siedono tutti nel consiglio del Credit; Antonio Rossi, amministratore delegato (con Raffaele Mattioli) della Comit e consigliere di Mediobanca, è anche vicepresidente della Coniel (Compagnia nazionale imprese elettriche), della Sade e di altre società elettriche legate al gruppo veneto; Mino Brughera, vicepresidente del Credit e anch’egli consigliere di Mediobanca, siede nel consiglio della Cieli (Compa­gnia imprese elettriche liguri), holding del gruppo Edison. Camillo Giussani associa alla carica di presidente della Banca commerciale italiana (Comit) quella di vicepresidente delle Assicurazioni generali, mentre Carlo Orsi siede contemporaneamente sulle poltrone di vicepresidente di Credit e Ras (Riunione adriatica di sicurtà). Su questo aspetto si era già puntata, per il periodo successivo allo smobilizzo, l’attenzione di Pietro Grifone, Il capitale f i ­nanziario in Italia. La politica economica del fascismo, Torino, Einaudi, 1971 (1945), p. 173. Le notizie sulla composizione dei consigli di amministrazione nel secondo dopoguerra sono tratte da Assonime, Notizie statistiche sulle società italiane per azioni, Roma, 1949 e 1953. Un quadro esauriente degli intrecci delle cariche, riferito alla

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rosi indicatori statistici stanno a testimonia­re lo stretto rapporto esistente a livello fun­zionale tra le due banche di interesse nazio­nale (Bin) settentrionali (e il sistema banca­rio nel suo complesso) e gruppi industriali, finanziari e assicurativi privati sul terreno del finanziamento all’industria11. È alla lu­ce di questi elementi, sia pure approssimati­vamente enunciati, che può valutarsi appie­no il senso politico di quel modello del “banchiere pubblico” prevalso nelle banche di interesse nazionale, e in quelle settentrio­nali in misura largamente superiore al Ban­co di Roma: piena indipendenza dal ‘prin­cipe’, carriera rigorosamente interna della più alta dirigenza, norme statutarie che ne indirizzano espressamente l’attività verso il sostegno e lo sviluppo dell’industria12. Si può dunque individuare nel rapporto tra l’azionista Iri e le Bin — e di conseguenza con il loro strumento Mediobanca — una spiccata contiguità con l’esperienza degli enti di Beneduce, e con la radice nittiana di intervento pubblico in economia attuato se­condo moduli privatistici: in questo senso, Mediobanca va considerata un ulteriore tassello nella costituzione di un sistema fi­nanziario non dipendente dal Tesoro, e co­me parte integrante del “doppio circuito” della finanza pubblica (da un lato, quello statale, dall’altro quello extrastatale)13. Ma

questa fedeltà ad un codice genetico non può costituire in se stessa un dato inequivo­cabile di continuità. Questa va piuttosto misurata sia sul metro della specificità degli istituti fondanti — in questo caso le tre ex banche miste — sia soprattutto alla luce della profonda ristrutturazione che le istitu­zioni del capitalismo italiano conoscono tra la metà degli anni trenta e l’immediato do­poguerra.

Un primo passaggio cruciale — ripren­dendo una notazione avanzata a suo tempo da Pietro Grifone — va individuato nel fat­to che, con lo smobilizzo delle banche mi­ste, la base di attività dei gruppi di coman­do del capitale finanziario — sostenuto da vecchi e nuovi istituti di credito speciale (Imi, Istituto mobiliare italiano, Icipu, Isti­tuto di credito per le imprese di pubblica utilità, Csvi, Consorzio per le sovvenzioni sui valori industriali) — si sposta all’interno dei grandi complessi oligopolistici organiz­zati verticalmente e orizzontalmente e rac­colti sotto il controllo di potenti holding, con un processo che interessa tanto i gruppi irizzati che quelli rimasti in mano ai privati. Dal punto di vista del controllo, ciò provo­ca una netta polarizzazione: da un lato, le società di cui Tiri è netto azionista di mag­gioranza; dall’altro, quelle private — con in testa i maggiori gruppi elettrici — i cui

prima metà degli anni cinquanta, è fornito da II Chi è? della finanza italiana. Repertorio dei presidenti, degli am­ministratori, dei consiglieri e dei sindaci delle società per azioni e degli istituti di credito in Italia, Milano, Il Mercu­rio Editore, 1956.11 A tale proposito vedi le notazioni di Simonetta Botarelli, Credito e assicurazioni private a sostegno dell’accumu­lazione dei capitale-, e Antonio Scialoja, Il sistema delle assicurazioni private nell’indagine della Commissione eco­nomica per la Costituente, entrambi in Andrea Orsi Battaglini (a cura di), Amministrazione pubblica e istituzioni finanziarie tra Assemblea Costituente e politica della ricostruzione, Bologna, Il Mulino, 1980, rispettivamente pp. 205-222 e 422-445.12 Cfr. Gianni Manghetti, Le mani sulle banche, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 81-92, che identifica un secondo modello di banchiere pubblico, prevalso all’interno degli istituti di diritto pubblico (Banca nazionale del lavoro, Banco di Napoli, Banco di Sicilia) e nelle casse di risparmio, legato a doppio filo al potere politico. Vedi anche a ta­le proposito Lorenzo Frediani, Le Banche di interesse nazionale, Milano, Angeli, 1981.13 Utili spunti di riflessione in S. Cassese, Gli “statuti” degli enti di Beneduce, “Storia contemporanea”, 1984, n. 5, pp. 945-946; e Franco Bonelli, Alberto Beneduce, in Alberto Mortara (a cura di), Protagonisti dell’intervento pub­blico in Italia, Angeli, Milano, 1984, pp. 335-344.

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gruppi di comando si stringono intorno al sindacato di controllo della più potente so­cietà finanziaria privata, le Strade ferrate meridionali (ex Bastogi), al tempo stesso ga­rante degli equilibri proprietari privati, e ponte verso alcuni settori formalmente iriz- zati (si pensi alle società elettriche Sip e Me- ridelettrica) ma di fatto operanti in stretto contatto con i gruppi dirigenti privati14. Ap­pare emblematico il fatto che il passaggio deiriri ad ente permanente e i provvedimen­ti del 1938 per la immobilizzazione obbliga­toria del risparmio in titoli di Stato o garan­titi dallo Stato, come strumento per convo­gliare forzosamente quote crescenti di ri­sparmio verso il debito pubblico a sostegno del riarmo, venga ampiamente compensata per le grandi società da una serie di provve­dimenti tributari mirati ad agevolare al grande capitale mobiliare una ulteriore spin­ta alla concentrazione e alla verticalizzazio­ne degli assetti societari. Ne emerge un mo­dello di circuito dei capitali che da una parte privilegia i titoli di Stato o garantiti dallo Stato e scava perciò un canale preferenziale di finanziamento per i gruppi “autarchici” entrati nell’orbita pubblica, ma che dall’altra consente alle società private livelli del tutto inconsueti di autofinanziamento (limitazioni dei dividendi, rivalutazioni dei cespiti patri­moniali, facoltà di riscontro dei titoli rappre­sentativi di crediti per commesse statali), sal­

vo ricorrere a crediti statali integrativi sotto forma di mutui a lungo termine contratti con l’Imi e l’Icipu15. Non a caso le agevolazioni in materia di concentrazioni e fusioni verranno mantenute e rinnovate nell’immediato dopo­guerra16 17. Si creano così le condizioni per il conseguimento di una più profonda indipen­denza finanziaria come passo in direzione di una configurazione tipica della moderna cor­poration11 . Ecco dunque il punto: l’ideazio­ne, la nascita, lo sviluppo di Mediobanca vanno collocati all’interno di una profonda ristrutturazione del capitale finanziario ita­liano, pubblico e privato, che parte dalla se­conda metà degli anni trenta per arrivare a lambire gli anni cinquanta: un processo di crescente concentrazione e verticalizzazione dei gruppi di comando della finanza, sulla cui evoluzione ancora oggi non disponiamo che di suggestive indicazioni di ricerca18, ma la cui geografia — resa complessa dalla proli­ferazione di barocchismi di ingegneria finan­ziaria, e degli scambi incrociati di partecipa­zioni tra capogruppo e controllate — è stata disegnata compiutamente nell’immediato dopoguerra dai risultati, purtroppo sistema­ticamente ignorati nelle ricerche di economi­sti e storici, della indagine straordinaria sulle società per azioni condotta nel periodo della Costituente19. È nei confronti di questo nuo­vo assetto del capitale finanziario italiano, ereditato dal seconde dopoguerra e basato

14 Cfr. P. Grifone, Il capitate finanziario cit., pp. 168-183. Sul ruolo di equilibrio svolto dalla ex Bastogi — alla guida della quale troviamo significativamente lo stesso Beneduce dal 1926 al 1939 — vedi anche F. Bonelli, Alberto Beneduce cit., pp. 355-356.15 Su questi temi, vedi Giuseppe Maione, L ’imperialismo straccione. Classi sociali e finanza di guerra dall’impresa etiopica al conflitto mondiale (1935-1943), Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 185-226 e 241-259; e Massimo Legnani, Su! finanziamento della guerra fascista, in Francesca Ferratini Tosi - Gaetano Grassi - Massimo Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano, Angeli, 1988, pp. 288-299.16 Cfr. D. Serrani, Lo stato finanziatore cit., pp. 58-59.17 Cfr. Paul A. Baran - Paul M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale ame­ricana, Torino, Einaudi, pp. 16-17.18 Vedi Giorgio Mori, Per una storia dell’industria italiana durante il fascismo, in “Studi storici” , 1971, n. 1, pp. 19-23; Id. Métamorphose ou réincarnation? Industrie, banque et régime fasciste en Italie 1923-1933, “Revue d’Hi- stoire Moderne et Contemporaine”, 1978, n. 2, pp. 265-274.19 Nell’ambito dei lavori della Commissione economica della Costituente, la pubblicazione dei risultati dell’indagi­ne si limitò alla relazione di Francesco Coppola D’Anna, Le società per azioni in Italia, in ministero per la Costi-

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sul ruolo egemone delle grandi società finan­ziarie, pubbliche e private, le cosiddette hol­ding “pure” o “miste”20, che va misurato il ruolo svolto non solo da Mediobanca e dalle banche di interesse nazionale, ma dall’intero sistema del credito all’industria.

La difficile eredità della “banca mista” . Fi­nanziamento della ricostruzione e riforma del credito mobiliare nell’immediato dopoguerra

Quale ruolo spettava al sistema creditizio nel finanziamento della ricostruzione dell’indu­stria italiana? Quali modifiche andavano ap­portate, a tale scopo, alla struttura istituzio­nale del sistema bancario e finanziario eredi­tata dagli anni trenta e formalizzata nei detta­mi della legge bancaria? Queste le domande di fondo alle quali, nei primi mesi del 1946, la Commissione economica della Costituente chiama a rispondere i più qualificati rappre­sentanti dell’industria e della finanza. Anche le norme del 1936 passano dunque al vaglio

dell’egemonia liberista postbellica, con le conseguenze che numerosi studi hanno effi­cacemente puntualizzato: regressione del rapporto tra banca centrale e sistema crediti­zio dal “controllo” alla “vigilanza”, autogo­verno di fatto di un sistema bancario che si configura come vero e proprio corpo separa­to rispetto agli organismi rappresentativi e al­lo stesso esecutivo, cassazione di ogni ipotesi di manovra programmata del credito21. La natura privatistica di Mediobanca va perciò considerata non tanto un problema di conti­nuità, quanto l’esito di una battaglia — e di una sconfitta — politica che ha segnato in mi­sura determinante la struttura dei poteri eco­nomici e finanziari fino almeno alla metà de­gli anni sessanta, e in alcuni casi fino ad oggi. Il pesante condizionamento liberista traspare con evidenza dai risultati dell’indagine della Commissione sul sistema creditizio e assicu­rativo. La foga antipianificatrice e l’enfasi posta sul portato ‘tecnico’ delle norme ban­carie, soprattutto in relazione al nodo fonda- mentale della specializzazione del credito22,

tuente, Rapporto della commissione economica (d’ora in poi indicato come Ree), II, Industria, voi. Ili, pp. 231- 253. I risultati completi vennero pubblicati, con ulteriori ampliamenti e approfondimenti, in due volumi: Radar, Organizzazione del capitale finanziario italiano (Quaderno di “Critica economica”, la rivista del Cer), Roma, Edi­zioni Italiane, 1948; Cgil-Ufficio statistica, Struttura dei monopoli industriali in Italia, Roma, Ed. Progresso, 1949. Vedi anche Ermete Zerini [pseudonimo], L ’economia capitalistica e i vari aspetti delle egemonie economiche in Ita­lia, “Critica economica”, 1947, nn. 5, 6 e 7. Sugli sviluppi del periodo postbellico, Luciano Conosciani, La struttu­ra monopolistica dell’economia italiana, ivi, 1955, n. 3, pp. 40-65. Si sofferma bevemente su questi aspetti della struttura industriale e finanziaria italiana Camillo Daneo, La politica economica della Ricostruzione 1945-1949, Torino, Einaudi, 1975, pp. 37-40.20 Sulla distinzione tra holding “pure” e “miste”, a seconda che, oltre a detenere il controllo di un gruppo di socie­tà, esercitino o meno una diretta attività produttiva, cfr. Roberto Weigmann, Società per azioni, in Marcello Car- magnani-Alessandro Vercelli (a cura di), Economia e storia, Firenze, La Nuova Italia, 1978, “Il mondo contempo­raneo”, vol. II, pp. 846-847. Possiamo ritenere holding “pure” le finanziarie Iri (Stet, Finmare, Finsider, Finmec­canica) e le private Strade ferrate meridionali (la ex Bastogi), La Centrale, Pirelli e C., Ifi (Fiat), Gim-Generale in­dustrie metallurgiche (gruppo Bruno-Orlando); vanno considerate “miste” le irizzate Sip, Meridelettrica, Setemer, le stesse Terni e Ansaldo, e le private Edison, Sade, Montecatini, Snia Viscosa, Italcementi, Italgas, Falck, Breda: vedi Cgil, Struttura dei monopoli industriali in Italia cit., in particolare pp. 96-100.21 Vedi Franco Belli, “Controllo-governo” del credito: indagine sull’evoluzione dell’ordinamento, in P. Vitale (a cu­ra di), L ’ordinamento del credito tra due crisi cit., pp. 48-49; Marcello De Cecco, Note sugli sviluppi della struttura finanziaria nel dopoguerra, in Id., Saggi di politica monetaria, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 39-47; Gaetano Traisi, In­chiesta su! sistema bancario, Bari, De Donato, 1970, pp. 51-65; Stefano Merlini, Struttura del governo, centri “sepa­rati” di potere e indirizzo di polìtica economica, in II governo democratico dell’economia cit., pp. 83-93.22 Vedi F. Belli, Aspetti e problemi del controllo dell’intermediazione bancaria in sede di Commissione economica per la Costituente, in Andrea Orsi Battaglini (a cura di), Amministrazione pubblica e istituzioni finanziarie cit., pp. 89-135.

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rinviano immediatamente allo scontro politi­co in atto tra la fine del 1945 e la prima metà del 1946: scontro che ruota meno intorno alle nazionalizzazioni bancarie proposte dalle si­nistre23, e in misura assai più rilevante intor­no all’assetto istituzionale scaturito dal noto decreto del 1944 che fissava la rigida subordi­nazione del sistema bancario al Tesoro24. È in questo contesto, sovrastato dalle battaglie sui progetti di fiscalità straordinaria e sul cambio della moneta25, che si avvia la discussione sul­la riforma del credito mobiliare: discussione istituzionale destinata tuttavia a cedere pre­sto il passo all’incalzare dei nodi di politica monetaria, mentre proprio lungo il percorso che conduce alla stretta deflazionistica, una serie di operazioni istituzionali ridisegna la struttura dei poteri economici, conferendo alla Banca d’Italia l’autonomia dell’esecuti­

vo, la supremazia sul sistema bancario e un’ampia discrezionalità nella disciplina del­le emissioni di valori mobiliari e degli impie­ghi degli istituti di credito26.

A questo esito non appaiono in ogni caso estranei i risultati del confronto all’interno della commissione, i cui connotati risultano tutt’altro che liberisti, eccezion fatta per qualche operatore di borsa affascinato da paradisi “lussemburghesi”27. Non si pongo­no nemmeno in discussione la necessità di un ruolo dello Stato nel credito all’industria e la separazione tra banche ordinarie e isti­tuti di credito speciale e mobiliare28; né si le­vano voci a reclamare la riprivatizzazione delle banche irizzate — tema, questo, parti­colarmente caro a qualche membro della commissione, da Giovanni Demaria e Erne­sto D’Albergo: “una gravissima iattura”,

23 Ree, IV, Credito e assicurazione, vol. I, Relazione, pp. 330-332. Sulla nazionalizzazione delle banche irizzate e degli istituti di credito di diritto pubblico, la Commissione restò divisa tra chi dichiarava già conseguiti gli obiettivi della nazionalizzazione in virtù del controllo statale sulle grandi banche, e chi individuava nella proprietà collettiva la maggior garanzia per la loro indipendenza da interessi di gruppi particolaristici e il loro coordinamento “per la massima utilità pubblica e per lo sviluppo di una più equilibrata economia.” L’esempio francese era riproposto dal­le forze politiche di sinistra proprio con l’obiettivo di rescindere definitivamente i legami tra grandi banche e gruppi industriali e finanziari, oltre che come strumento di una politica economica di piano.24 II dllgt. 14 settembre 1944, n. 226, stabiliva la soppressione dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’e­sercizio del credito e il passaggio delle sue attribuzioni al ministero del Tesoro.25 A tale proposito possono considerarsi ormai classici gli studi di Enzo Piscitelli, Da Porri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 191-230; e Mariuccia Salvati, Stato e industria nella ricostru­zione. Alle origini del potere democristiano 1944-1949, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 190-207.26 Si fa riferimento naturalmente al decreto legislativo del Cps 17 luglio 1947, n. 691, che sopprimeva l’Ispettorato per la tutela del risparmio, ricostituiva il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (presieduto dal mi­nistro del Tesoro) e attribuiva alla Banca d’Italia, autonoma dall’esecutivo, i più ampi poteri di governo dell’intero settore creditizio. Per una discussione sul riassetto istituzionale dei rapporti tra amministrazione e governo implici­to nel provvedimento, vedi M. De Cecco, Note sugli sviluppi cit., pp. 43-45; S. Merlini, Struttura del governo, cen­triseparati di potere cit., pp. 83-88; F. Belli, Aspetti e problemi del controllo cit., pp. 135-163.27 Ree, IV, vol. II, Interrogatori di Antonio Foglia, presidente dell’Associazione tra gli agenti di cambio, e di Gior­gio Pivato, procuratore generale degli agenti di cambio, della Borsa di Milano e direttore dell’Istituto di studi sulle borse valori dell’Università Bocconi, pp. 225-227 e 264-265, sostenitori accaniti della banca privata e della comple­ta deregolamentazione del mercato mobiliare e dei cambi, in vista di un massiccio afflusso di capitali stranieri in cerca di “anonimità, discrezione e segretezza” .28 Cfr. M. Bagella, Gli istituti di credito speciale cit., pp. 28-29 e 43-47, la cui attenzione si sofferma sul fatto che, tra gli interrogati, “sulle questioni di principio non vi furono grandi contrasti” , né si registrò “alcuna preconcetta avversione nei confronti della presenza dello Stato nel settore del credito” : ciò dimostrerebbe l’egemonia di un “li­beralismo interventista di estrazione keynesiana” su una visione neoclassico-monetarista più ortodossa. Sui risultati dell’indagine della Commissione economica della Costituente in materia creditizia, vedi anche Carlo Pace - Giovan­na Morelli (a cura di), Origini e identità del credito speciale, Milano, Angeli, 1984, pp. 311-392, che tuttavia si limi­ta a ribadire le ragioni teoriche — mantenimento della liquidità del sistema, parallelismo delle scadenze delle opera­zioni di raccolta e impiego — che militano a favore della specializzazione del credito.

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avrebbe icasticamente commentato l’ammi­nistratore delegato della Comit, Raffaele Mattioli, giacché la privatizzazione avrebbe potuto essere finanziata solo dalle stesse banche da privatizzare29. D’altra parte, le critiche mosse nel corso degli interrogatori al funzionamento degli istituti parastatali di credito industriale, e all’Imi in particolare, vertono non su eventuali discriminazioni compiute ai danni di gruppi privati, ma sul­l’adozione di una strategia finanziaria (con­cessione di crediti dietro garanzie reali) che aveva puntato quasi esclusivamente sullo strumento del mutuo ipotecario a scapito del vero e proprio credito mobiliare (pure compreso tra le funzioni consentite all’Imi dal proprio statuto)30.

La riconsiderazione pubblicamente com­piuta dall’élite industriale e finanziaria del­l’esperienza degli anni trenta — ossia di un circuito dei capitali rigidamente vincolato al bilancio statale — si lega inscindibilmente al problema cruciale di neutralizzare le poten­zialità di intervento politico sul credito (non vi leggerei soltanto il riflesso dei timori su­scitati dalle sinistre al governo e da una si­tuazione istituzionale ancora incerta, ma un più profondo rigetto della democrazia e del­le sue implicazioni). Emblematico sotto questo aspetto risulta ancora una volta il polemico intervento di Mattioli, interamen­te giocato sulla rivendicazione della piena indipendenza delle tre banche di interesse

nazionale dal loro azionista Iri e sull’attri­buzione esclusiva alla banca centrale — con­tro ogni velleità di intervento politico “atti­vo” (identificato nell’assunzione da parte del Tesoro delle funzioni esercitate dall’I­spettorato di vigilanza) — della prerogativa di impartire le direttive generali della politi­ca monetaria e creditizia31: a dimostrazione di come i ‘sani’ principi di autonomia e su­premazia della ‘tecnica’ — l’impresa banca­ria — sulla politica siano in grado di tradur­re con intelligenza ed efficacia la strenua di­fesa di una posizione di potere entro le coor­dinate di un discorso politico antifascista.

Ma non è alle necessità immediate della ri­presa produttiva e della ricostituzione delle scorte (ampiamente assicurate dal sistema bancario ordinario) che si indirizzano le at­tenzioni più pressanti — sebbene la congiun­tura del 1946 tenda giocoforza a enfatizzare i problemi del credito di esercizio (soprattut­to come adeguamento del circolante agli ef­fetti dell’inflazione e alla nuova struttura dei costi di produzione) — quanto piuttosto ai problemi di equilibrio finanziario delle mag­giori imprese. Su questo terreno la commis­sione incontra un coro di voci deciso ad ot­tenere — con diversità di toni e obiettivi — una riforma delle istituzioni finanziarie ed efficaci agevolazioni normative e fiscali alla formazione di sindacati bancari per il collo­camento di titoli industriali32, in nome della rottura del ‘monopolio statale’ del credito

29 Ree, IV, vol. II, Interrogatorio di Raffaele Mattioli, p. 297.30 Sui limiti dell’azione dell’Imi nel campo del credito industriale, vedi la risposta dell’Associazione bancaria al questionario sul credito mobiliare, in Ree, IV, vol. II, p. 386; e le critiche del presidente della Edison, Piero Ferre- rio, ivi, II, vol. II, pp. 164-165. Tali accuse furono decisamente respinte dall’ex presidente dellTmi, Paride For- mentini, nel corso del suo interrogatorio: ivi, IV, vol. II, pp. 103-105. Sullo statuto dellTmi e la sua attività dalla fondazione allo scoppio della seconda guerra mondiale, vedi Francesco Cesarini, Alle origini del credito industria­le: rim i negli anni Trenta, Bologna, Il Mulino, 1982.31 Cfr. Ree, IV, vol. II, Interrogatorio di Raffaele Mattioli, pp. 292-293: “Quando si stabilì l’assunzione dell’Ispet­torato da parte del Tesoro, mi sono permesso di esprimere il mio pensiero chiaramente e insistentemente al ministro Soleri, sembrandomi che la Banca d’Italia non dovesse continuare in una politica di rinuncia alle sue attribuzioni essenziali” .j2 Insiste particolarmente su quest’ultimo aspetto la Edison, che vi vede la possibilità di evitare il ricorso ai finan­ziamenti Imi e Icipu, finora agevolati da concessioni fiscali: Ree, II, vol. III, Questionario n. 6, risposta della socie-

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all’industria33, anche a costo di intaccare la sacralità del principio di specializzazione del credito. Non a caso alle proposte di reintro­duzione in Italia della merchant bank e per l’i­stituzione della banca di credito a medio-lun­go termine — istituti esplicitamente finalizza­ti ad integrare con iniziative private i canali di finanziamento a disposizione della grande in­dustria — fa da sponda la tambureggiante of­fensiva per la piena deregolamentazione del mercato mobiliare: abolizione della nomina- tività e dei gravami fiscali sui titoli (imposta sui dividendi, sovrimposta di negoziazione), abolizione delle limitazioni sugli aumenti di capitale, sblocco dei dividendi, in una parola lo smantellamento del complesso di norme at­traverso le quali il regime fascista aveva con­vogliato forzosamente quote sempre più ele­vate di risparmio nazionale per il soddisfaci­mento delle esigenze finanziarie dello Stato, e che nel dopoguerra rischiavano di essere uti­lizzate per finalità sociali o ‘pianificatone’34. Del resto, su questo stesso versante, la campa­

gna confindustriale per una “difesa della lira” tutta imperniata sulla lesina della finanza sta­tale era destinata a ricevere un avallo autore­vole dalla politica di Epicarmo Corbino al Te­soro, finalizzata a rimuovere ogni ostacolo al­l’afflusso del risparmio sui titoli industriali, con le note deleterie ripercussioni sull’aggra­vamento della spirale inflazionistica35.

Su questo terreno, insistente è il richiamo al ruolo demiurgico del capitale straniero privato (“al quale — scrive la commissione nella sua relazione conclusiva — occorre creare le condi­zioni più favorevoli per trovare conveniente impiego nelle nostre imprese industriali”); e poiché, come avrebbe tenuto a precisare l’allo­ra presidente dellTri, Giuseppe Paratore:

La costituzione della nuova banca a medio termine potrebbe avere molta importanza [...] ma alla con­dizione di avere carattere internazionale. [...] Le banche di interesse nazionale si trovano in una si­tuazione di inferiorità, perché non possono pren­dere titoli industriali. Con questa banca l’inferiori- tà è tolta36.

tà Edison, p. 99. Vedi anche ivi, vol. II, Interrogatorio di Teresio Guglielmone, pp. 343-344: “Il sistema del finan­ziamento — afferma il noto banchiere e presidente della Cogne, presidente della Commissione economica del Cln piemontese, nonché futuro senatore democristiano — è in funzione di una necessaria disciplina del credito che deve consentire l’utilizzo, anche a media scadenza, delle disponibilità liquide degli istituti di credito”. Esemplari anche le dichiarazioni rese dal direttore dell’Assonime, Francesco Coppola D’Anna, — ivi, VI, Vol. II, pp. 67-75 — peral­tro scettico nei confronti delle possibilità di successo della progettata “banca a medio termine” e propenso soprat­tutto ad un’estensione dell’offerta di titoli industriali a reddito fisso con possibilità di conversione in azioni (i cosid­detti warrants): “noi siamo di fronte a questo problema: di utilizzare il risparmio che non vuole impegnarsi per lun­go tempo, in investimenti che comportano una immobilizzazione spesso di lunga durata. Questo è un problema che esiste in tutti i paesi, ma esiste di più in un paese povero di capitali come il nostro.”33 Singolarmente isolata in questo contesto appare la Fiat: vedi Ree, II, voi. Il, Interrogatorio di Vittorio Valletta, pp. 352-353: “Il povero Soleri (ministro del Tesoro, liberale), che era un mio grande amico, e a cui parlavo molto chiaro, mi accennò un giorno al decreto che stabiliva in 10 miliardi la cifra per gli aiuti all’industria. Io gli dissi: preparati a metterci tre zeri vicino; si vede che l’ordine di grandezza, caro Soleri, non ti è venuto in testa. I suoi successori hanno portato i 10 miliardi a 15; adesso pare che siano disposti a portarli a 20-25 miliardi; ma 25 miliar­di sono una cosa ridicola.”34 Ree, IV, vol. I, Relazione, p. 234 e pp. 309-328; vedi anche ivi, IV, vol. II, Risposta dell’Associazione bancaria italiana al questionario sul “credito mobiliare”, pp. 394-395.35 Sull’inflazione e sull’azione di Epicarmo Corbino al Tesoro vedi Paolo Baffi, Memoria sull’azione di Einaudi 1945-1948, in Id., Studi sulla moneta, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 177-193; Marcello De Cecco, Sulla politica di sta­bilizzazione del 1947, in Saggi di politica monetaria, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 121-129; oltre a E. Piscitelli, Da Porri a De Gasperi cit., pp. 191-209; e M. Salvati, Stato e industria nella Ricostruzione cit., pp. 208-216. Sulle va­lenze ideologiche dell’antistatalismo confindustriale dell’immediato dopoguerra, vedi Massimo Legnani, L ' uto­pia grande-borghese”. L ’associazionismo padronale tra ricostruzione e repubblica in Aa.Vv., Gli anni della Costi­tuente, strategie dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 165-168.36 Ree, II, vol. II, Interrogatorio di Giuseppe Paratore, pp. 457-458.

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In queste parole, riforma del credito mobi­liare e intervento del capitale straniero si in­trecciano in termini non dissimili da quelli prospettati di lì a poco da Libero Lenti sulla stampa confindustriale, e da Cesare Merza- gora dalla tribuna del noto convegno mila­nese sul commercio estero del marzo 1946, allorché esortava a “rapidamente creare gli organismi tecnici per agevolare, convogliare e controllare questo afflusso” e si augurava (con riferimento alle iniziative in via di at­tuazione, ossia Unione bancaria, poi Medio­banca, a Milano, ed Ente finanziamenti in­dustriali a Roma) che “le autorità competen­ti [si dimostrassero] comprensive della ne­cessità di agevolare — per quanto purtroppo loro concerne — simili iniziative”37.

Torna dunque al pettine il nodo di fondo che la crisi bancaria della prima metà degli anni trenta aveva momentaneamente sciol­to: quello della indispensabilità, nella crisi di transizione postbellica, del sostegno fornito ai grandi gruppi industriali dalla moneta e dal sistema bancario, al quale viene richiesto di svolgere “nel suo complesso” e “ancor di

più che in passato” — e sia pure attraverso appositi istituti — funzioni di “trasformato- re, e non già di semplice intermediario, del risparmio” (così avrebbe argomentato con grande chiarezza Amedeo Gambino38, diret­tore generale dell’Efi, istituto privato che in quello stesso frangente stava sondando le possibilità di convertire la propria attività verso l’esercizio del credito a medio termi­ne)39. Il vuoto lasciato sul fronte privato del­l’economia dal crollo della banca mista tro­va insomma una risposta assai lontana dai modelli anglosassoni di specializzazione cre­ditizia40: del resto, si può condividere il giu­dizio di Massimo S. Giannini per cui “la marginalizzazione del capitale finanziario privato italiano fu [...], insieme alla direzio­ne pubblica del credito, il risultato politico più importante della riforma bancaria del 1936”41 — se per capitale finanziario si in­tende l’impresa bancaria. Si chiede anzi alle nuove istituzioni finanziarie di riproporre il modello operativo della banca mista al livel­lo più generale di funzionamento dell’intero sistema bancario. D’altra parte, se la crisi

37 Vedi Cesare Merzagora, Gli investimenti di capitati esteri in Italia e di capitali italiani all’estero, Relazione al I Convegno nazionale sul commercio estero (Milano, 11-14 marzo 1946), in Insmli, Carte Merzagora, b. 21, fase. 11; e l’articolo di Libero Lenti (già capo dell’Ufficio studi della Snia Viscosa), “Il Corriere d’informazione”, 20 aprile 1946 (poi in “Notiziario Cgil” , n. 8, 1946).38 Pur pronunciandosi contro l’assunzione da parte delle banche, “apertamente o surrettiziamente”, del finanzia­mento di operazioni mobiliari o del “primo rischio” di tali operazioni, Gambino sottolineava anche la necessità di consentire alle stesse banche di assorbire titoli emessi dai nuovi istituti a medio, di concedere loro finanziamenti transitori per equilibrare le operazioni attive coi termini di scadenza dei titoli, e di finanziare direttamente le impre­se bisognose di credito mobiliare in attesa del perfezionamento delle operazioni con gli istituti specializzati: Ree, IV, vol. II, Interrogatorio di Amedeo Gambino, pp. 12-16.39 L’Efi era stato costituito nel 1939 ad opera di alcune società industriali private (Fiat, Pirelli, Edison, Nebiolo, Breda, Tosi, Piaggio, Acna, Metallurgica italiana, Bomprini Parodi, Nobel), col compito di effettuare operazioni di risconto presso il Consorzio sovvenzioni sui valori industriali (Csvi) dei crediti detenuti da imprese verso le pub­bliche amministrazioni per l’esecuzione di commesse statali. Nell’immediato dopoguerra l’ente aveva invece assun­to il ruolo di “consegnatario centrale” dello Stato, e per esso dell’Istituto per il commercio estero (Ice), per l’impor­tazione dai paesi alleati di materiali “inerenti alle industrie elettriche ed elettroniche ed a quelle della gomma”; tut­tavia fin dal 1945-1946 la dirigenza Efi aveva preso in considerazione la possibilità di allargare il proprio raggio d’azione all’esercizio del credito a medio termine. Vedi M. Bagella, Gli Istituti di credito speciale cit., p. 68.40 Per una sintetica definizione del modello anglo-americano di sviluppo finanziario — tracciato da J.G. Gurley e E.S. Shaw a metà degli anni cinquanta (di questi autori in italiano La moneta in una teoria de! finanziamento, Mi­lano, Cariplo, 1965) — vedi Fausto Vicarelli, Credito, in Dizionario di economia politica, diretto da Giorgio Lun­ghini con la collaborazione di Mariano D’Antonio, Torino, Boringhieri, 1983, pp. 101-104.41 Vedi l’intervento di Massimo S. Giannini, in M. Porzio (a cura di), La legge bancaria. Note e documenti sulla sua storia segreta, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 239-242.

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del 1931-1934 aveva forse definitivamente posto termine alla parabola della ‘banca holding’42, non era certo convinzione unani­memente condivisa che con essa fosse irri­mediabilmente tramontata anche l’esperien­za della banca mista43.

Capitale straniero e ricostruzione: i tentativi della finanza privata

L’insistenza con la quale da più parti viene sollevata la necessità vitale del legame tra nuova articolazione del sistema creditizio e intervento finanziario del capitale straniero ci ricorda come la scomparsa delle ‘banche holding’ avesse privato l’economia italiana delle istituzioni che, tra gli anni venti e tren­ta, avevano svolto un ruolo guida nel con­sentire ai maggiori gruppi industriali l’acces­so al mercato finanziario internazionale44. Quella breve e certo non del tutto riuscita esperienza — già esauritasi di fatto ancor

prima di essere travolta dagli effetti della grande crisi45 — sembra rappresentare un punto essenziale di riferimento per i tentativi di nuovo coinvolgimento della finanza stra­niera nell’economia dell’Italia postbellica. È noto con quanta tempestività — in previsio­ne della cessazione del regime di occupazio­ne e della restituzione al governo italiano delle responsabilità finanziarie da parte delle autorità militari alleate — già tra la fine del 1944 e la primavera del 1945 i governi Bono- mi si vennero adoperando, con esiti peraltro negativi, per una ripresa di contatti con enti e istituzioni finanziarie americane. Del re­sto, il dato di fondo di questa fase interlocu­toria, dominata dalla contraddittorietà dei segnali provenienti da oltre Atlantico sulla futura politica economica nei confronti non solo dell’Italia ma dell’intera Europa libera­ta, consiste proprio nell’emergere graduale della centralità degli aiuti governativi da un contesto nel quale, ancora nel corso del 1945-1946, i canali finanziari privati sem-

42 Efficaci a tale proposito le considerazioni di Pasquale Saraceno, Donato Menichella e il rapporto Banca-Indu­stria, “Rivista di storia economica”, 1984, n. 2, pp. 271-273.43 Vedi la risposta di Coppola D’Anna al questionario della Commissione sulla separazione tra credito ordinario e mobiliare, Ree, IV, vol. II, pp. 395-396, per il quale l’esercizio del credito mobiliare da parte delle banche ordinarie aveva certo influito sulle ricorrenti crisi bancarie; queste tuttavia erano state riflesso delle crisi economiche, e se le banche “avessero potuto mantenere in portafoglio fino alla ripresa i titoli che possedevano al momento della crisi, avrebbero forse finito col pareggiare le perdite che hanno subito.” Ma nella Commissione stessa non si manca di sottolineare il ruolo determinante delle banche miste nello sviluppo dell’accumulazione industriale italiana. Si chie­deva ad esempio Gaetano Di Nardi, (ivi, p. 69): “possiamo consentirci di avere un sistema bancario specializzato, che dal punto di vista tecnico appare indubbiamente preferibile, ma che tuttavia per la improrogabile esigenza di vedere rapidamente ricostruita la nostra attrezzatura produttiva, può costituire, in un certo senso, una remora al raggiungimento dello scopo?”.44 Sulle strategie messe in atto dalla Comit e dai maggiori gruppi elettrici nei confronti del capitale finanziario ame­ricano, vedi Giorgio Mori, Nuovi documenti sulle origini dello “Stato industriale” in Italia. Di un episodio ignora­to (e forse non irrilevante) nello smobilizzo pubblico delle “banche miste” (1930-1931), in Id., Il capitalismo indu­striale in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977; Cesare Sartori, Un aspetto del capitale finanziario italiano durante la grande crisi: il caso dei gruppo Volpi-Sade, in G. Toniolo (a cura di), Industria e banca nella grande crisi 1929- 1934, Milano, Etas Libri, 1978, pp. 134-183; G. Toniolo, Crisi economica e smobilizzo pubblico delle banche miste (1930-1934), ibidem, pp. 284-352; C. Sartori, Giuseppe Volpi di Misurata e i rapporti finanziari del gruppo Sade con gli Usa (1918-1930), “Ricerche storiche”, 1979, nn. 2-3, pp. 375-438; Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. A ll’origine dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 99-199.45 Sulla disgregazione dei mercati finanziari internazionali in seguito alla crisi degli anni trenta, vedi Charles P. Kindleberger, La Grande Depressione nel mondo 1929-1939, Milano, Etas Libri, 1982; per i riflessi sull’economia italiana, Pierluigi Ciocca, L ’economia italiana nei contesto internazionale, in P. Ciocca - G. Toniolo (a cura di), L ’economia italiana ne! periodo fascista, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 19-50.

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brano destinati ad essere privilegiati46. Non a caso la prima delegazione economica italiana inviata negli Stati Uniti, Formai famosa mis­sione Quintieri-Mattioli (alla quale parteci­parono il futuro amministratore di Medio­banca, Enrico Cuccia, e Mario Morelli, desti­nato ad occupare di lì a poco la carica di se­gretario generale della Confindustria), avreb­be assunto una fisionomia prevalentemente privata, riservando di fatto — come hanno confermato le fonti diplomatiche americane — all’amministratore delegato della Comit il ruolo di vero e proprio negoziatore ufficia­le47. Tuttavia, la scelta italiana di privilegiare i più discreti canali privati rispetto ai contatti ufficiali (forse anche per ragioni di opportu­nità diplomatica) è ribadita dalla missione as­segnata poche settimane più tardi dal mini­stro del Tesoro, Soleri, al banchiere Enrico Scaretti, recatosi anch’egli negli Stati Uniti con l’incarico di sondare gli umori delle case finanziarie che avevano intrattenuto in passa­

to rapporti con banche e società industriali italiane48.1 risultati di questa iniziativa, di cui lo stesso Scaretti sottolineò in una relazione inviata al ministro del Tesoro e alla Banca d’Italia il carattere “esplorativo e di propa­ganda”, avrebbero pienamente confermato l’atteggiamento di profonda diffidenza degli ambienti bancari e finanziari americani nei confronti di una ripresa di rapporti con l’eco­nomia italiana. Al di là delle oggettive diffi­coltà politiche e legali, sottolineava Scaretti, “il momento non è ancora giunto per poter esaminare concretamente alcuna partecipa­zione” : istituti come la Chase National Bank e la casa Morgan subordinavano la possibilità di un proprio intervento al conseguimento della stabilità politica e finanziaria, e soprat­tutto — nel caso di partecipazioni al capitale di società industriali e finanziarie — alla pos­sibilità di trasferimento, entro un certo nu­mero ragionevole di anni, degli utili e delle quote di ammortamento49.

46 Sul tramonto delle fortune politiche di personaggi come Cordell Hull e Morgenthau, e in generale del personale politico e diplomatico legato al New Deal, a favore di una maggiore influenza della politica “realista” del Diparti­mento di Stato, si sofferma John L. Harper, L ’America e la ricostruzione dell’Italia. 1945-1948, Bologna, Il Muli­no, 1987, pp. 19-45.47 Quinto Quintieri, nobiluomo meridionale che sarà nominato alla vicepresidenza della Confindustria dopo reie­zione di Angelo Costa, era stato ministro delle Finanze con Badoglio e ricopriva all’epoca la carica di presidente del Banco di Calabria. Sulla missione Quintieri-Mattioli, vedi M. Salvati, Stato e industria cit., pp. 72-85, oltre al reso­conto di Egidio Ortona, a sua volta membro della delegazione, in Anni d ’America. La ricostruzione: 1945-1951, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 30-55. J.L. Harper, L ’America e la ricostruzione dell’Italia cit., pp. 56-65, illustra bene la sostanziale diffidenza americana verso la missione, e verso lo stesso Mattioli, accusato di “opportunismo politico” per i suoi rapporti con i tedeschi nel periodo dell’occupazione nazista. Come noto, nonostante gli influen­ti appoggi ottenuti presso l’amministrazione americana (soprattutto Oscar Cox, l’ideatore del lend lease e ammini­stratore della Fea, Foreign Economie Administration, la missione ottenne esclusivamente il consenso americano al­l’unificazione dei poteri di emissione monetaria sotto un’autorità italiana.48 Secondo quanto riferisce E. Ortona, Anni d ’America. La ricostruzione cit., p. 32, Scaretti, evidentemente perso­naggio di una certa influenza, “molto amico” dell’ambasciatore americano a Roma, Kirk, era stato inviato negli Stati uniti “per una vaga missione di incaricato della Croce rossa italiana, ma soprattutto con l’intento di presenta­re attraverso di lui un’Italia che desse fiducia”. La Banca Scaretti era costituita sotto forma di società anonima, il cui capitale era interamente posseduto dalla Banca Belinzaghi, a sua volta controllata dal gruppo oleario Gaslini: cfr. Cgil, Struttura dei monopoli industriali cit., p. 359.49 Relazione Scaretti, “Sulla possibilità di ottenere l’intervento di capitale privato straniero nella Ricostruzione del­l’Italia”, Washington, 7 maggio 1945: in Archivio della Banca d’Italia (d’ora in poi Abi), Ufficio studi (Carte Gui­doni), b. 388, fase. 14. Oltre a Wintrop Aldrich, presidente della Chase National Bank, e a Thomas W. Lamont, presidente della casa Morgan, Scaretti aveva interpellato direttamente James F. Cavagnaro, vicepresidente della TransAmerica Corp. (Bank of America), Curtis E. Calder, presidente della Electric Bond & Shares Company, e George Murnane, rappresentante negli Stati uniti della casa bancaria Lazard Frères. Sul piano giuridico, a metà 1945 erano ancora operanti nei confronti dell’Italia: il Johnson A ct, che impediva la concessione di ulteriori crediti

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Attendismo e diffidenza da parte america­na spingevano dunque ad un “moderato pessimismo” sulle possibilità effettive di ri­petere nel breve periodo l’esperienza della metà degli anni venti. A parte gli spiragli di collaborazione lasciati aperti nel campo dei crediti commerciali, anche tramite la riorga­nizzazione delle filiali delle banche italiane già attive oltreoceano (Credit, Comit, Banco di Roma), la questione cruciale nei primi mesi del 1946 — sulla quale non a caso si sa­rebbero soffermati numerosi interrogatori della Commissione economica — era di fat­to costituita dalla necessaria adesione italia­na al Fondo monetario e alle nuove istitu­zioni finanziarie internazionali come pre­messa per la stabilizzazione e per l’otteni­mento di prestiti governativi. D’altra parte l’esperienza del credito commerciale per l’importazione di cotone in Italia — contrat­tato dapprima con la Chase National Bank, cui era subentrata successivamente la Ex­port-Import Bank — avvalorava la sensazio­ne che, anche per mutazioni intervenute in seno agli stessi organismi finanziari privati americani, il canale per attingere ai prestiti

stranieri sarebbe passato in misura sempre più vincolante attraverso trattative economi- co-diplomatiche tra i due governi50. In que­sto senso, quanto riscontrato dal delegato italiano all’Oece, Organizzazione europea di cooperazione economica, Pietro Campilli, verso la fine del 1947 nel corso di nuove conversazioni con esponenti della finanza bancaria americana — anche dopo la soffer­ta sistemazione dei prestiti americani prebel­lici raggiunta sulla base degli accordi Lovett- Lombardo51 — avrebbe pienamente confer­mato l’esiguità dei margini entro i quali il capitale finanziario d’oltreoceano intendeva muoversi autonomamente52.

Nella situazione italiana, va peraltro pre­cisato, gli orientamenti del capitale straniero non possono essere considerati separata- mente dalle caratteristiche — e dalle carenze — strutturali del sistema finanziario nazio­nale. Le incertezze create dalla latitanza di interlocutori tradizionali e dalla presenza sui mercati internazionali di cospicui flussi di capitali di carattere speculativo venivano ul­teriormente amplificate in Italia dall’assenza di istituti finanziari — sui modelli delle so-

alle potenze inadempienti agli obblighi dei prestiti ottenuti fino al 1935; il Trading with the Enemy Act; il Foreign Funds Control, che sottoponeva ogni movimento di fondi a favore di enti o privati stranieri ad una speciale licenza della Federal Reserve Bank regionale.50 Ree, IV, vol. II, Interrogatorio di Enrico Scaretti, pp. 89-91. Lo stesso Scaretti si mostrò allora, sia pure a ma­lincuore, persuaso — così come gli altri interpellati dalla Commissione — della assoluta centralità della partecipa­zione italiana al Fondo monetario internazionale ed agli altri istituti finanziari internazionali, “poiché si deve tenere presente — affermò — che, almeno per qualche anno, i rapporti finanziari tra i vari paesi si svolgeranno esclusiva- mente o quasi tra istituti governativi” . Vedi a tale proposito M. Salvati, Stato e industria cit., pp. 28-36. Sul presti­to ExImBank per l’importazione di cotone, vedi anche E. Ortona, Anni d ’America. La ricostruzione cit., pp. 148- 150.51 Abi, Ufficio studi, b. 365, fasce. 39 e 40, “Emissione obbligazioni estere trentennali 1947”; e Atti parlamentari, Camera, I Legislatura, n. 599/A, Relazione della IV Commissione permanente (Finanze e Tesoro) sul disegno di legge presentato dal ministro del Tesoro, Giuseppe Pella, nella seduta del 1 giugno 1949. Cfr. E. Ortona, Anni d ’America. La ricostruzione cit., pp. 198-200. Il di 8 settembre 1947, n. 921, e i seguenti ddmm 28 e 29 novembre 1947, impegnavano il governo italiano ad assicurare di fronte ai portatori esteri il servizio delle nuove obbligazioni, nonché ad accantonare la valuta in dollari necessaria e a garantire il buon andamento della loro circolazione.52 Vedi Rapporto Campilli al ministro degli Esteri, Washington, 19 novembre 1947, ampiamente illustrato da M. Salvati, Stato e industria cit., pp. 329-333. Alle sollecitazioni del rappresentante italiano volte ad ottenere dal capi­tale privato americano una “indispensabile integrazione” del piano Marshall allora in discussione, si opposero con­siderazioni in tutto analoghe a quelle prospettate due anni prima a Scaretti; l’esperienza degli investimenti obbliga­zionari in Europa consumatasi negli anni venti e trenta non era stata “incoraggiante”; andava inoltre rivista la legi­slazione italiana sugli investimenti stranieri. Ma al fondo di ogni questione restavano tre nodi preliminari: stabilità politica, risanamento monetario, revisione dei tassi di cambio.

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cietà finanziarie e degli investment trust am­piamente diffusi in Europa fin dagli anni tra le due guerre — in grado di fungere da strumenti operativi di solida affidabilità. Il fallimento delFunica operazione finanziaria concordata tra istituzioni private prima del varo dell’Erp, European Recovery Pro­gram, 53 — il prestito di cinquanta milioni di dollari concesso da un gruppo franco-cana­dese alla società Strade ferrate meridionali, la più blasonata holding elettrofinanziaria italiana e tradizionale punto di equilibrio tra i principali gruppi elettrici54 — può esse­re considerato, in tal senso, emblematico di queste difficoltà. Le carte di Felice Guarne- ri, che nella Bastogi deU’immediato dopo­guerra ricopriva sia pure del tutto informal­mente un ruolo direttivo di primo piano (il suo reingresso ufficiale risale alla fine del 1947)55, ci mostrano soprattutto — da un punto di osservazione interno — il fallimen­to dei tentativi operati dalla dirigenza della società di mantenere la ripresa della propria attività finanziaria internazionale entro i confini della sfera privata. Ne emerge dun­que la progressiva presa di coscienza del fatto che la vastità e la profondità delle ri­

percussioni della grande crisi determinano oggettivamente, nelle vicende della fine de­gli anni quaranta, il nuovo terreno sul quale si sposta la contrattazione tra gruppi privati e organi dello Stato. L’inconvertibilità ge­neralizzata, la scarsità di riserve, il control­lo dei cambi e dei movimenti internazionali di capitale — fattori che il dopoguerra ere­dita dalla crisi degli anni tra le due guerre — pongono definitivamente i governi e gli apparati statali al crocevia di ogni rapporto finanziario internazionale. Nonostante la ri­provazione dei cantori delle virtù del tallone aureo, privato e pubblico non si confronta­no su un’impossibile alternativa tra sistemi opposti, ma sulla gestione degli strumenti esistenti: in questo senso l’autentica chiave interpretativa del liberismo postbellico non sta nell’attacco all’intervento statale in eco­nomia, ma nella lotta per l’uso privato degli strumenti pubblici. Può dunque considerar­si emblematico il fatto che il progetto Ba­stogi finisca per naufragare proprio sullo scoglio della garanzia governativa di cam­bio, rivelatasi in contrasto con le esigenze finanziarie tenacemente difese da Tesoro e Banca d’Italia56. Questione cruciale, quella

53 Cfr. Banca d’Italia, Servizio studi economici, Appunto sulle somministrazioni gratuite e sugli accreditamenti esteri a favore dell’Italia in questo dopoguerra, s.d. (ma 1948): in Abi, Ufficio studi, b. 388, fase. 14.54 Sulla storia della finanziaria fiorentina, vedi Ettore Passerin d’Entrèves - Luciano Coppini - Nicola Carranza - Piero Ridolfi - Cesare Padovani, La “Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali” nell’opera dei suoi presi­denti (1861-1944), Bologna, Zanichelli, 1962, di impostazione prevalentemente agiografica. Assai più utili e proble­matiche le considerazioni sulla figura di Alberto Beneduce (che della ex Bastogi fu presidente dal 1926 al 1944) di F. Bonelli, Alberto Beneduce cit., pp. 341-353. Il patto di sindacato per il controllo della società riuniva tutte le maggiori holding elettriche (Edison, Sade, Centrale, Meridelettrica — nelle quali la Bastogi deteneva a sua volta si­gnificative partecipazioni), Iri, Fiat, Pirelli, Assicurazioni generali e Ras, oltre ad un nutrito stuolo di “bei nomi” — Marchi, Crespi, Motta, Agnelli, Conti, Pirelli, Treves, Parodi Delfino — della finanza italiana: vedi Radar, Or­ganizzazione dei capitale finanziario cit., pp. 43-47.55 L’ex ministro Scambi e Valute, parallelamente all’incarico assunto quale presidente del Banco di Roma, era en­trato nell’aprile-maggio 1940 nel consiglio delie Ferrate meridionali con la carica di vicepresidente. Presentate le sue dimissioni dall’incarico il 10 maggio 1945, sarebbe stato reintegrato per cooptazione nel consiglio solo nel no­vembre 1947, riassumendo la carica di vicepresidente nel luglio 1948, con successive riconferme nel 1950 e nel 1953. All’epoca della vicenda in questione, quindi, il ruolo di Guarneri all’interno della ex Bastogi era del tutto informa­le. Vedi Archivio storico del Banco di Roma (d’ora in poi Asbr), Carte Guarneri, fase. “Strade Ferrate Meridiona­li” . La più completa ed equilibrata biografia di Guarneri, limitata peraltro al periodo che si chiude con la seconda guerra mondiale, è quella di Luciano Zani, Fascismo, autarchia, commercio estero. Felice Guarneri, un tecnocrate al servizio dello Stato nuovo, Bologna, Il Mulino, 1988.36 Guarneri a C.A. Miranda (direttore generale della Ferrate meridionali), 23 ottobre 1946: in Asbr, Carte Guarne­ri, fase. “Finanziamenti Gruppo franco-canadese (1947)” . Nulla di certo è dato di arguire sulla effettiva fisionomia

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della garanzia statale, non solo per l’esito favorevole dell’affare, ma per la stessa defi­nizione dei rapporti di forza tra settore pri­vato e organi dello Stato su un terreno de­terminante come quello dei rapporti finan­ziari con l’estero. Guarneri dimostra di ave­re ben presente il valore assolutamente so­stanziale del confronto in atto quando scri­ve all’ingegner Carlo A. Miranda, direttore generale della holding:Da un punto di vista di interesse generale occorre preoccuparsi anche della circostanza che qualora lo Stato dovesse concedere la sua garanzia per una prima operazione di mutuo estero, sarà ben diffi­cile poter concludere altre operazioni di qualche ri­lievo con l’estero senza questo viatico. E ciò io considero sommamente pregiudizievole. Penso anche che portare lo Stato su questa via significa porlo nella necessità di esercitare sempre maggiori controlli e di intervenire in forme sempre più attive nell’economia del paese e delle aziende57.

E tuttavia il solco scavato dalla grande crisi tra gli anni venti e gli anni quaranta è troppo profondo, benché il movimentato e confuso biennio 1946-1948 e il rapido succedersi delle

ondate di aiuti e prestiti governativi america­ni, non consentano ancora ai protagonisti di rendersi pienamente conto della fine dell’e­poca dell’ “alta finanza”58. Ne acquista con­sapevolezza Guarneri nel momento in cui è costretto a constatare come siano le stesse condizioni imposte dagli operatori finanziari internazionali — che a metà 1947 optano per la stipula diretta del contratto a favore del go­verno italiano in luogo della prosecuzione del rapporto con la Ferrate meridionale — ad in­frangere i fragili argini eretti dalla finanziaria italiana a salvaguardia dell’autonomia della propria attività verso l’estero59.

Su questo decisivo banco di prova può con­siderarsi fallito il tentativo della Bastogi di subentrare nel ruolo di intermediario privi­legiato tra gruppi elettrici e finanza estera, per rilanciare il proprio ruolo di società di intermediazione finanziaria e di investment trust60.

Anche la nascita di Mediobanca, come ve­dremo, sarà segnata da un analogo insucces­so. Solo a partire dagli anni cinquanta infatti l’istituto milanese giungerà a disporre di una

dei tre gruppi finanziari esteri coinvolti: la Société Européenne d’Etudes et d’Entreprise di Parigi, specializzata nel “finanziamento e messa in opera di grossi lavori ferroviari ed elettrici in paesi esteri”; la Trans American Develop­ment Co. di New York, attiva dal 1940 nel finanziamento di lavori pubblici in America latina; la Canadian Expan­sion Trade Co. di Montreal.57 Guarneri a Miranda, 20 marzo 1947, in Asbr, Carte Guarneri, cit.58 Vedi Onu, Département des questions économiques, Les Courants Internationaux de Capitaux Privés 1946- 1952, New York, 1954; e Mira Wilkins, The Maturing o f Multinational Enterprise. American Business Abroad from 1914 to 1970, Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1974, pp. 288-291.59 Simon Cleja a Cesare Merzagora, ministro del Commercio estero, 30 luglio 1947: Asbr, Carte Guarneri, fase. “Finanziamenti Gruppo franco-canadese (1947)” . Paradossalmente, dopo due anni di estenuanti trattative, il pre­stito non potè mai essere utilizzato per la mancata approvazione da parte del governo canadese, cui era subordinata la sua entrata in vigore effettiva. Le aspre polemiche tra le parti faranno approdare la vicenda di fronte ad un colle­gio arbitrale ginevrino che nel settembre del 1949 dichiarerà mancato l’affare e mai entrato in vigore l’accordo, “senza alcuna colpa delle parti” .60 Sul prestito, la dirigenza Bastogi faceva assegnamento per la concessione di crediti a gruppi armatoriali per l’ac­quisto di navi mercantili all’estero, oltre che per l’acquisto di macchinari destinati al potenziamento delle società direttamente o indirettamente controllate (tra cui le società elettriche meridionali di cui la Bastogi fungeva da hol­ding-capogruppo — la Meridionale elettricità di Giuseppe Cenzato, la Generale elettrica della Sicilia, la Elettrica sarda — e nelle quali deteneva cospicue interessenze anche Tiri): cfr. Radar, Organizzazione del capitale finanzia­rio in Italia cit., pp. 42-60. Sui rapporti tra la Bastogi e le società elettriche meridionali nel periodo tra le due guerre vedi Giovanni Bruno, Capitale straniero e industria elettrica nellTtalia Meridionale (1895-1935), e Pinella Di Gre­gorio, Crisi e ristrutturazione dell’industria elettrica in Sicilia (1930-1935): l ’intervento del capitale americano, in “Industria elettrica e movimenti di capitale in Europa”, “Studi storici”, 1987, n. 4, pp. 943-984 e 985-1004.

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rete di alleanze internazionali in grado di so­stenerne le scelte strategiche.

Nascita e sviluppo di Mediobanca tra finan­ziamento a medio termine e credito mobilia­re (1946-1956)

È la Comit di Mattioli a perseguire con mag­giore coerenza un proprio disegno di riavvi­cinamento tra banca e industria. Rispetto al circuito finanziario tipico della seconda me­tà degli anni trenta — un circuito ‘indiretto’ (mercato-banche-istituto di emissione-Teso- ro) poggiato in misura via via crescente sui mezzi forniti al Tesoro dal sistema bancario (sottoscrizione obbligatoria di buoni del Te­soro, anticipazioni della Banca d’Italia) — nell’immediato dopoguerra l’inflazione e la crescente liquidità del sistema bancario crea­no le condizioni per una maggiore indipen­denza di quest’ultimo dalle esigenze del bi­lancio statale61. La radicale inversione del circuito finanziario (che a partire dalla pri­ma metà del 1946 si presenta con la nuova sequenza: Tesoro-istituto di emissione-ban­che-mercato) equivale in sostanza ad una crescente sottrazione di mezzi all’Erario. A beneficiare della nuova situazione sono so­prattutto le tre Bin, la cui attività, dopo gli smobilizzi del 1933-1934, era stata forte­

mente condizionata dalla acuta esposizione nei confronti dellTri: nel corso del 1946, al contrario, anche grazie al sostanziale annul­lamento dei loro immobilizzi ad opera del­l’inflazione, esse avevano riconquistato il primato degli impieghi tra tutte le categorie delle aziende di credito, recuperando la capa­cità di adattarsi alle esigenze di finanziamen­to manifestate dalle imprese62. La particolare congiuntura finanziaria consente dunque alle ex banche miste di progettare la ripresa — sia pure con la cautela consigliata dai progressi inflazionistici e attraverso nuovi strumenti di intervento — del discorso interrotto quindici anni prima. D’altra parte, fin dalla metà de­gli anni trenta Mattioli aveva avuto ripetuta- mente modo di manifestare, sull’assetto e sul ruolo del sistema bancario, convinzioni pro­fondamente difformi da quelle che guidava­no l’azione di Beneduce e Menichella, so­prattutto nell’affermazione di un “necessa­rio ibridismo” tra credito ordinario e credito mobiliare, e nella tenace avversione nei con­fronti degli istituti parastatali di credito in­dustriale, come l’Imi (di cui aveva proposto nel 1935 lo scioglimento, unitamente al Csvi)63. Pienamente in linea con questa sua convinzione risulta l’idea originaria — di re­cente resa di pubblico dominio dallo stesso Cuccia — della costituzione di una Unione bancaria per il credito finanziario (Union-

61 Vedi il dibattito a distanza sviluppatosi agli inizi del 1948 sul primo numero della rivista della Banca nazionale del lavoro, “Moneta e credito”: Amedeo Gambino, L ’altalena del credito, pp. 2-12; Marcello Mancini, Il mercato monetario, il finanziamento del Tesoro e gli impieghi bancari per rami di attività economica, pp. 17-18; e Luigi Fe­derici, Sei mesi di politica economica italiana, pp. 49-50.62 In base ai dati della Banca d’Italia riportati da M. Mancini, Il mercato monetario, il finanziamento del Tesoro cit., pp. 20-21, nella ripartizione degli impieghi tra le categorie delle aziende di credito, la quota delle Bin era passa­ta, tra il 1936 e il 1946, dal 13,1 al 27,4 per cento. Sulla situazione di liquidità della Comit, e in generale sugli effetti dell’inflazione sulla posizione patrimoniale delle tre ex banche miste, vedi anche Relazioni Mattioli al consiglio Co­mit, 20 marzo 1946, in Giorgio Rodano, Il credito all’economia. Raffaele Mattioli alla Banca Commerciale Italia­na, Milano-Napoli, Ricciardi, 1983, pp. 154-158.63 Sull’atteggiamento maturato dal ‘banchiere’ Mattioli già nell’anteguerra nei confronti della nascita dell’Iri e del­la nuova legge bancaria del 1936, vedi G. Rodano, Il credito all’economia cit., pp. 105-122. In seguito alla pubbli­cazione di questo lavoro, si è sviluppato sulle pagine della “Rivista di storia economica” un interessante dibattito: P. Ciocca, In margine a! “Mattioli” di G. Rodano, 1986, n. 1, pp. 109-128; Rodolfo Banfi, Mattioli e Tiri, e Fabio Ronchetti, Mattioli “economista critico”, 1986, n. 2, pp. 223-236; e la risposta di G. Rodano, Sul “Mattioli”: repli­ca dell’autore, 1986, n. 3, pp. 339-349.

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banca) attraverso un consorzio che, pur at­tribuendo alle tre Bin la maggioranza del ca­pitale, vedesse la compartecipazione dei cin­que istituti di credito di diritto pubblico, della Banca d’America e d’Italia, del Banco di S. Spirito, delle Assicurazioni generali, della Ras, dell’Ina e infine della Bastogi64.

Due capisaldi, tra loro complementari, guidano in effetti sin dal 1945 la strategia di Mattioli alla testa del prestigioso istituto di credito milanese: da un lato, la necessità di evitare il consolidamento della “stortura” rappresentata dal finanziamento quasi esclu­sivo dell’attività industriale da parte degli enti operanti con garanzia dello Stato; dal­l’altro, l’opportunità di impedire che la li­quidità in possesso delle banche ordinarie venga convogliata verso le imprese esclusi­vamente sotto la forma fittizia di crediti d’e­sercizio, ai quali i continui rinnovi finirebbe­ro per conferire un carattere di fatto finan­ziario. La ricongiunzione tra risparmio e mercato finanziario va dunque perseguita attraverso canali non aleatori o destabiliz­zanti per l’equilibrio finanziario degli istituti di credito e delle stesse società industriali65. In questo quadro, il progetto Mediobanca — imperniato sull’accordo Comit-Credit, cui verrà quasi a forza associato il Banco di

Roma — appare fin d’allora estremamente coerente: esso si propone di sfruttare la con­giuntura finanziaria e politica particolar­mente favorevole ad un disimpegno dell’era­rio e delle finanze statali, per recuperare alle ex banche miste una funzione basilare di so­stegno all’accumulazione industriale in con­correnza con gli organismi parastatali fino ad allora prevalenti, soprattutto nel campo del risparmio a medio termine, e per realiz­zare quel “distacco” del finanziamento in­dustriale “dalla firma dello Stato” sul quale aveva con tanta forza insistito Mattioli nel corso del suo interrogatorio alla Commissio­ne economica della Costituente66. Il disegno di Mattioli e della Comit si colloca così ad uno dei principali crocevia del rapporto tra settore pubblico e settore ‘privatistico’ del­l’economia: meglio, prefigura già i linea­menti di una pratica di gestione bancaria — di cui Mattioli è stato riconosciuto leader e paradigma — nella quale al banchiere pub­blico tocca il compito direintrodurre la grande banca, la finanza, come autonomo vaglio dei progetti di investimento e soprattutto delle imprese in grado di intrapren­derli, secondo criteri di rendimento-rischio, al di fuori di preferenze predeterminate per l’una o per l’altra iniziativa di produzione67.

64 Vedi Enrico Cuccia, Mediobanca Story, “L’Espresso”, n. 49, 14 dicembre 1986, pp. 243-244, che colloca data e luogo del concepimento, per così dire, qualche giorno dopo il ferragosto del 1944 nell’ufficio romano di rappresen­tanza della Comit. Secondo la ricostruzione di Cuccia, il progetto sarebbe stato accantonato fino all’estate del 1945 prima per l’impossibilità di contattare a Milano la dirigenza del Credit, poi per gli impegni di Mattioli e Cuccia con la nota missione negli Stati uniti.65 Relazione Mattioli al consiglio Comit, 23 gennaio 1946, pubblicata integralmente in G. Rodano, 7/ credito all’e­conomia cit., pp. 160-162. La preoccupazione di Mattioli di volersi assicurare che gli investimenti delle banche or­dinarie fossero effettivamente crediti di esercizio derivava dalla considerazione che in una situazione, come quella immediatamente postbellica, nella quale “per la prima volta nella storia finanziaria d’Italia” la circolazione risulta­va inferiore al debito dello Stato verso la banca centrale ed era di fatto quasi completamente “circolazione per lo Stato” anticipata dal sistema bancario, ogni aumento degli impieghi delle banche ordinarie avrebbe influito diretta- mente sulla circolazione stessa: in tale situazione, “errori che, in altre circostanze potevano essere corretti con rela­tiva facilità [...] possono oggi rappresentare invece un fattore di grave portata per la situazione monetaria e finan­ziaria del paese, perché tenderebbero a provocare movimenti a senso unico” (pp. 164-165).66 Ree, IV, vol. II, Interrogatorio di R. Mattioli, p. 247.67 Cfr. P. Ciocca, In margine al “Mattioli” cit., pp. 123-125. Vedi anche Relazione all’Assemblea generale Comit 1948, in G. Rodano, Il credito all’economia cit., pp. 166-167 (i testi delle relazioni di Mattioli alle assemblee gene­rali Comit dal 1945 al 1971 sono raccolti in due volumi editi a Milano, da Capriolo & Massimino, rispettivamente nel 1967 enei 1974).

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È stato lo stesso Cuccia a rendere note le perplessità sul progetto di Mattioli manife­state nel 1945 dal governatore Einaudi — favorevole alla creazione da parte di Comit e Credit di due distinti organismi per il cre­dito a medio, nel timore probabilmente che l’intesa tra i due potenti istituti preludesse ad una estensione del cartello interbancario al nuovo segmento di mercato — e le insi­stenze da parte della Banca d’Italia affinché i limiti imposti all’attività del nuovo istituto salvaguardassero dal rischio di un rientro delle Bin e delle banche ordinarie, sia pure in forme mascherate, nel settore mobilia­re68. In realtà il compromesso strappato dall’azione congiunta di Mattioli e di Mino Brughera, amministratore delegato del Cre­dito italiano, all’organismo di vigilanza, an­cora alle dipendenze del Tesoro, aveva pro­dotto uno statuto sufficientemente elastico, in grado di garantire a Mediobanca un’am­pia versatilità. Se infatti — come avrebbe precisato Mattioli ancor prima della nascita ufficiale dell’istituto — l’attività prevalente avrebbe dovuto svolgersi nel campo dei fi­nanziamenti con scadenza massima di cin­que anni (attraverso sconto di effetti, antici­pazioni in conto corrente e riporti su titoli), utilizzando la rete organizzativa delle filiali delle banche ordinarie per la raccolta del ri­

sparmio a medio termine69, l’orizzonte di azione configurato dallo statuto si ampliava anche alle operazioni più propriamente mo­biliari, con la possibilità di curare il colloca­mento di azioni ed obbligazioni per conto di terzi, e soprattutto — integrazione che Cuccia attribuisce alla ferma ostinazione di Mattioli — con la facoltà di vendere ed ac­quistare titoli azionari e obbligazionari, sia pure per un importo non superiore ad un terzo del proprio capitale e delle riserve70. Queste peculiarità operative circoscrivono evidentemente l’area imprenditoriale inte­ressata al progetto entro i confini della grande e media industria, quotata in borsa o comunque inserita in gruppi industriali e finanziari che garantissero il ricorso al ri­sparmio azionario per il consolidamento dei crediti finanziari. L’attività di Mediobanca avrebbe dovuto in altre parole consentire il riequilibrio delle strutture produttive e fi­nanziarie della grande industria — con stru­menti più elastici di quelli adottati sia dagli istituti parastatali di credito speciale, che dalle banche di diritto pubblico, che pro­prio allora venivano dotate di autonome se­zioni per il credito industriale — contempo­raneamente garantendo alle Bin il manteni­mento del carattere commerciale dei loro impieghi.

68 Secondo quanto riferito da Cuccia, ancora in una lettera del 27 agosto 1945 Mattioli esprimeva a Einaudi I’au- spicio che “le banche di credito ordinario, con i propri quadri ormai specializzati nel credito di esercizio, avrebbero evitato saggiamente di organizzare ciascuna per proprio conto una sezione per il medio termine, affidando invece ad un ente giuridicamente distinto la gestione di quel tipo di operazioni” : segno che egli non dava ancora come del tutto tramontata la sua ipotesi originaria di un largo consorzio bancario. Fu cura in ogni caso della Banca d’Italia di far inserire nello statuto di Mediobanca l’inibizione a ricevere depositi di aziende di credito, disposizione che Mattioli e Brughera riuscirono a limitare agli istituti di credito italiani (con esclusione quindi di quelli stranieri): ve­di ancora E. Cuccia, Mediobanca Story cit., pp. 245-246. Del resto, le parole pronunciate da Einaudi nella relazio­ne sul 1946 sono assai esplicite: Mediobanca “ha iniziato le operazioni, previa autorizzazione del ministro del Teso­ro, concessa malgrado le richieste poste dal nostro istituto circa l’inquadramento giuridico del nuovo ente, e circa taluni aspetti tecnici della sua attività, [attinenti] [...] il problema fondamentale [...] di una netta separazione tra credito a breve e quello a medio termine”: Banca d’Italia, Relazione 1946, pp. 155-159.69 Cfr. Relazione Mattioli al Cda Comit, 23 gennaio 1946, cit., p. 161. La nascita ufficiale di Mediobanca è sancita con decreto del ministro del Tesoro 29 aprile 1946, pubblicato sulla “Gazzetta ufficiale”, n. 101 del 2 maggio 1946.70 Banca di Credito Finanziario, Statuto 1946, p. 6. Una ulteriore limitazione era imposta alla concentrazione degli investimenti in titoli emessi da ogni singola società, che non dovevano superare il dieci per cento del capitale e delle riserve di Mediobanca; tale limitazione non si applicava viceversa ai titoli di Stato o garantiti dallo Stato.

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La realizzazione del progetto postulava naturalmente una flessibilità degli impieghi bancari e un andamento del mercato mobi­liare esattamente opposti a quelli seguiti alla stretta deflattiva dell’estate del 194771. Ciò contribuisce a spiegare la fiera ostilità mo­strata da Mattioli verso lo strumento della riserva obbligatoria (giudicata eccessiva­mente e inutilmente restrittiva), sebbene il comportamento degli istituti di credito nel vortice inflazionistico avesse confermato e in certo senso acuito le preoccupazioni da lui espresse in merito alle proprie commi­stioni di credito commerciale e finanziario. Così come l’insufficiente ampiezza raggiun­ta dall’attività di Mediobanca spiega la de­cisione di Mattioli di guidare la Comit a lavorare sempre al limite delle proprie ri­sorse — del resto le tre Bin avrebbero conti­nuato per tutta la prima metà degli anni cinquanta ad erogare alle imprese industria­li finanziamenti solo formalmente a breve, che rappresentavano di fatto “posizioni sta­gnanti di durata pluriennale” — pur di non abdicare a quel ruolo di “promozione e so­stegno” dell’attività industriale che egli giu­dicava irrinunciabile per il proprio isti­tuto72.

Anche un secondo caposaldo del progetto Mediobanca — un cospicuo intervento del capitale straniero, su cui si contava, oltre che per vincere le resistenze delle autorità

monetarie, per saldare su più ampie basi di manovra il nuovo asse oligopolistico con i grandi gruppi industriali — era destinato a non realizzarsi. Le trattative avviate fin dal­l’autunno del 1945 con potenziali soci stra­nieri, in particolare con imprecisati “gruppi svizzeri” (Cuccia ha recentemente chiarito essersi trattato della Blankart di Zurigo e della Union de banque suisse), sembravano destinate a soddisfacenti soluzioni. Ai grup­pi esteri sarebbe stato concesso di partecipa­re all’amministrazione del nuovo istituto, per consentir loro di orientarsi sulle possibi­lità di investimento offerte dall’industria italiana al capitale straniero; la loro parteci­pazione al capitale della banca avrebbe rap­presentato la premessa per la concessione di crediti in divisa libera a media scadenza alla banca stessa, ed amministrati “di comune accordo” tra soci italiani e stranieri; il rim­borso dei crediti avrebbe potuto aver luogo “sia mediante l’assunzione di partecipazioni in affari che possano interessare il capitale estero, sia mediante il funzionamento di ‘conti valutari’” da stabilirsi d’accordo con le autorità monetarie73. Sul fallimento del­l’intesa pesò certamente la sospensione, im­posta dalle autorità americane in attesa del­la sistemazione del trattato di pace, dell’ac­cordo commerciale italo-svizzero (compren­dente anche il regolamento dei debiti pre­bellici italiani) precocemente concluso nel-

71 Vedi a tale proposito Pietro Manes, Il mercato azionario nel periodo postbellico, “Moneta e credito”, 1959, n. 46, pp. 165-169.72 Cfr. G. Rodano, Il credito all’economia cit., pp. 166-168, 188-189 e 212-222. Vedi anche Giovanni Malagodi, Profilo di Raffaele Mattioli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984, pp. 42-45.73 Relazione Mattioli al Cda Comit, 23 gennaio 1946, cit., pp. 162-163: “Abbiamo ritenuto di offrire così al capita­le straniero — concludeva Mattioli — il mezzo più obbiettivamente leale e commercialmente serio per procedere ad investimenti, o quanto meno ad intese ed accordi, di carattere permanente, o comunque duraturo, che risultino per essere effettivamente di comune o reciproca convenienza, senza correr dietro a fantasmi o a chimere variamente at­te a provocare o assecondare illusorie, e talora insidiose, logomachie”. Cfr. inoltre E. Cuccia, Mediobanca Story cit., pp. 245-246. Mattioli avrebbe ottenuto nell’ottobre del 1945 la disponibilità ufficiale della Blankart, attraverso il banchiere Felix Somary, per un apporto di mezzo miliardo di lire al capitale di Mediobanca (si trattava di lire in conto estero) e per una apertura di credito in franchi svizzeri e di durata quinquennale fino a cinquanta milioni di franchi svizzeri. Dopo i successivi tentennamenti di Somary, Mattioli valutò insieme al direttore della Union, Schaefer, che la stessa Ubs subentrasse per la parte relativa al credito in valuta. Cuccia tuttavia non fornisce alcun elemento in grado di chiarire i motivi del fallimento anche di questa ulteriore ipotesi.

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l’agosto 194574. Del resto, al peggioramento sostanziale fatto registrare nel corso del 1947 dal mercato svizzero dei capitali, so­prattutto in conseguenza di forti realizzi ef­fettuati dalle banche elvetiche in coincidenza con la svolta restrittiva delle politiche mone­tarie di numerosi paesi europei, e dell’istitu­zione di più severi controlli sulle riserve va­lutarie e sui movimenti di capitali, si sarebbe aggiunta l’opinione tutt’altro che lusinghie­ra espressa dal “Comitato Italia” dell’Asso­ciazione svizzera dei banchieri (e riferita a Menichella dal delegato per la Svizzera della Banca d’Italia, Altenburger) sull’andamento dei negoziati per la sistemazione dei debiti prebellici in corso con una delegazione ita­liana, la cui politica — a parere del direttore generale deU’Union de banque suisse, Zolley — “costituirebbe il mezzo proprio per pre­giudicare il credito dell’Italia e la possibilità per la futura emissione di prestiti italiani sul mercato svizzero”75. Tale critica va evidente­mente messa in relazione al blocco (destina­to del resto a protrarsi sino alla fine degli anni quaranta) del pagamento delle cedole scadute dei debiti obbligazionari contratti

da imprese elettriche italiane (Sade, Sme, Sip) nel periodo prebellico, di cui si sarebbe dovuto far carico — malvolentieri — il Te­soro italiano76.

Solo alle soglie degli anni cinquanta si ria­pre per Mediobanca, con maggiore fortuna, il capitolo delle alleanze finanziarie interna­zionali. Nel corso del 1949-1950, l’istituto milanese partecipa difatti alla costituzione della parigina Société financière de dévelop­pement industriel et commercial (Sofdic), in unione ad “un gruppo francese” — ufficial­mente non specificato, ma agevolmente identificabile nella prestigiosa casa finanzia­ria Lazard — destinato a diventare un allea­to storico, partecipe di pressoché tutte le operazioni gestite da Cuccia nei decenni suc­cessivi77. Sulle fondamenta di questa origi­naria intesa del 1949 avrebbe senza dubbio poggiato la costituzione, quasi dieci anni più tardi, di quel “sindacato segreto” pubblico­privato — comprendente, oltre alle tre Bin e ai Lazard, anche la Pirelli e la tedesca Berli­ner Handels-und-Frankfurter Bank (Bhf), e successivamente il gruppo Agnelli — che ha permesso ai nuovi soci privati di condividere

74 L’accordo del 10 agosto 1945 prevedeva il regolamento dei vecchi debiti italiani (prestiti, forniture speciali e in clearing) attraverso il conglobamento in un unico conto ammortizzato con l’accantonamento di una quota dei rica­vi delle esportazioni italiane, oltre alla concessione di un nuovo prestito svizzero al governo italiano per l’acquisto di prodotti elvetici per ottanta milioni di franchi (al cambio di 23 lire per franco). Vedi Insmli-Carte Merzagora, b. 19, fase. 8 “Sottocommissione finanziaria. Verbali” . Sulla presenza storica di capitale svizzero soprattutto nelle so­cietà elettrofinanziarie italiane, vedi C. Pavese, Le origini della società Edison; e Luciano Segreto. Capitali, tecno­logie e imprenditori svizzeri nell’industria elettrica italiana: il caso delta Motor (1825-1923): in Energia e sviluppo cit., pp. 25-210. Per il periodo tra le due guerre, Luciano Segreto, Le nuove strategie delle società finanziarie sviz­zere per l ’industria elettrica (1919-1939), in “Industria elettrica e movimenti di capitali in Europa”, “Studi storici”, cit., pp. 861-907.75 Vedi Lettera di Altenburger e Manichella, dir. gen. Banca d’Italia, 25 ottobre 1947: in Abi, Ufficio studi, b. 113.76 Per le obbligazioni Sade 7%, Sme 7% e Sip 6,5% circolanti sul mercato svizzero, il debito del Tesoro — in se­guito al versamento delle lire corrispondenti al servizio delle cedole scadute nel periodo bellico — assommava a franchi svizzeri 8.335.000 circa (al netto degli interessi di mora sul capitale non ammortizzato al 1946), equivalenti a circa 1.145.500.000 al nuovo cambio di 141,70 (contro 4,41 all’epoca dell’emissione dei prestiti). Agli inizi del 1949 la questione non era ancora stata risolta in maniera definitiva, con gli inevitabili strascichi polemici. Vedi Ap­punto al governatore e al direttore generale, 14 febbraio 1949: in Abi, Ufficio studi, b. 365, fase. 38 “Sistemazione dei debiti obbligazionari prebellici in possesso svizzero” .,7 L’annuncio della costituzione della Sofdic venne dato in poche righe, prive di ogni risalto, nella Relazione del Consiglio di amministrazione Mediobanca per l’esercizio 1949-50, Assemblea del 6 ottobre 1950, p. 11. La parteci­pazione di Mediobanca alla Sofdic ammontava al cinquanta per cento del capitale; quanto agli scopi, si indicava del tutto genericamente l’obiettivo di “promuovere la ripresa dei rapporti finanziari italo-francesi” .

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pienamente il potere decisionale e di eserci­tare un determinante potere di veto, nono­stante il possesso di quote assolutamente mi­noritarie78. A questa nuova intraprendenza internazionale può forse essere ricondotta la presenza, a partire proprio dal 1949, nel consiglio di Mediobanca di un personaggio dell’influenza e del prestigio di Giovanni Fummi, notorio rappresentante della finan­za americana, già artefice alla metà degli an­ni trenta della politica di appeasement del gruppo americano Morgan nei confronti del regime fascista, e contemporaneamente pre­sente nei consigli di amministrazione di Edi­son, Pirelli e Fiat79.

In questi primi sviluppi si può cogliere agevolmente l’impronta caratteristica che avrebbe contraddistinto in misura sempre più marcata la fisionomia e l’attività di Me­diobanca negli anni successivi, quando l’isti­tuto di via Filodrammatici si sarebbe drasti­camente distaccato (con rammarico dello stesso Mattioli) dal ruolo di “strumento del­le banche di interesse nazionale” originaria­mente assegnatogli per volgersi ad una poli­tica di alta finanza e di “grandi affari”. È tuttavia difficile stabilire quanto questa evo­luzione vada addebitata alle preferenze stra­tegiche di Enrico Cuccia, e quanto invece al contemporaneo evolvere delle esigenze fi­nanziarie delle imprese e della struttura dei mercati finanziari. La funzionalità di Me­diobanca va del resto valutata in relazione ai due differenti livelli della sua attività: da un lato, il credito a medio termine; dall’altro, le operazioni mobiliari. Non va dimenticato a tale proposito come, a differenza degli altri

istituti di credito speciale, Mediobanca ri­nunci a finanziarsi attraverso il ricorso al mercato mobiliare e allo strumento delle emissioni obbligazionarie, vincolando in tal modo rigidamente lo sviluppo dei propri im­pieghi alla lenta espansione di un mercato del risparmio a medio e lungo termine costi­tutivamente debole. Del resto, l’istituto ri­partisce la propria attività di finanziamento a medio termine tra numerosi settori, tra i quali una quota di tutto rispetto mantengo­no almeno fino al 1949-1950 il tessile e il meccanico, mentre negli anni successivi tra­spare — pur nella vaghezza delle informa­zioni disponibili — una decisa accentuazio­ne dell’importanza delle imprese di pubblica utilità e delle società chimiche e farmaceuti­che, seguite a debita distanza dal settore meccanico. I dati forniti dall’istituto stesso alla fine del 1953 mostrano a tale riguardo come per tutta la seconda metà degli anni quaranta la raccolta di risparmio degli istitu­ti di credito mobiliare rappresenti meno del­l’un per cento della raccolta totale delle aziende di credito, e come solo dal 1950 tale soglia sia superata, seppure spesso in misura quasi impercettibile80. E sebbene la raccolta di Mediobanca rappresenti costantemente la quota in assoluto più cospicua del risparmio a medio (mai inferiore al cinquanta per cen­to, con punte vicine all’ottanta per cento nel biennio 1948-1949), le relazioni di Cuccia al­l’assemblea degli azionisti non mancano di mettere ripetutamente in rilievo “l’incertez­za che tuttora esiste nell’inquadramento ge­nerale, e nella valutazione specifica, del set­tore del credito a medio termine”81. Ad ag-

78 Nel 1958 entrarono a far parte del consiglio di Mediobanca Hans Fiirstenberg, Leopoldo Pirelli e René Mayer, quest’ultimo da poco ritiratosi dalla presidenza della Ceca per andare a presiedere la prestigiosa holding belga Sofi- na: vedi Assonime, Notizie statistiche cit., 1958, p. 134. Le vicende del “sindacato segreto” di Mediobanca sono riassunte da A. Friedman, Tutto in famiglia cit., pp. 111-121; la ‘scoperta’ del patto nel 1985 ha infatti provocato, come noto, una delle più violente tempeste politiche degli ultimi vent’anni.79 Sul ruolo di Fummi negli anni venti e trenta, vedi G.G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo cit., in particolare le pp. 368-378.80 Vedi i dati riportati in Mediobanca, Assemblea del 28 ottobre 1953, relazione, pp. 10-11.81 Mediobanca, Assemblea del 6 ottobre 1950, Relazione, p. 8.

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gravare le difficoltà già insite nella partico­lare natura del risparmio affluente all’istitu­to, vincolato a medio termine e quindi a più lenta formazione, l’amministratore di Me­diobanca avrebbe lamentato a più riprese la concorrenza “molto aspra” esercitata dal settore bancario ordinario attraverso l’appli­cazione di alti tassi di interesse82. Del resto, nel corso degli anni cinquanta le tre Bin si trovano a fronteggiare, da un lato, le riper­cussioni negative della politica deliberata- mente ostile adottata nei loro confronti dal­la Banca d’Italia, allo scopo di incentivare la riprivatizzazione e la decentralizzazione del­l’attività bancaria (esemplare la politica di favore verso l’espansione delle casse di ri­sparmio); dall’altro, le conseguenze dell’am­pliamento dei margini di autofinanziamento dei grandi gruppi industriali, in grado di ac­quisire il controllo di banche ordinarie e di gestire attraverso queste i propri flussi fi­nanziari interni83. Sottolinea polemicamente Cuccia nella relazione del 1951 :non meno attiva ed insistente è stata, e si mantie­ne, la sollecitazione da parte di aziende industria­li intesa ad ottenere un incremento dei depositi dei propri “correntisti”; e ciò oltre alla continua

espansione dei “conti dei dipendenti”. Questa tendenza a distrarre dal sistema bancario notevoli masse di disponibilità, si manifesta anche nei rap­porti finanziari diretti tra gruppi industriali, quando tali rapporti nulla hanno a che fare con l’attività specifica delle imprese, ma rappresenta­no unicamente transitori impieghi di eccedenze li­quide84.

È probabilmente su questo terreno che la presenza di un cospicuo e continuativo inter­vento del capitale straniero avrebbe potuto conferire all’attività di Mediobanca un rit­mo di incremento superiore, attenuando in particolare le ripercussioni negative del fi­nanziamento degli investimenti attraverso creazione di moneta bancaria (conti corren­ti), e consentendo il mantenimento di un equilibrio meno precario tra immobilizzi ed esigenze di liquidità.

Ma le preoccupazioni del gruppo dirigente di Mediobanca non si esauriscono nel con­statare l’esiguità dei crediti concessi dall’isti­tuto in relazione alle esigenze finanziarie complessive dell’industria85, ma si concen­trano in particolare — il riferimento è impli­cito all’attività delle sezioni speciali della Bnl e dei banchi meridionali, del Mediocre-

82 Mediobanca, Assemblea del 28 ottobre 1954, Relazione, p. 7: nella prima metà del 1954 “l’andamento della no­stra raccolta ha risentito della decisione delle banche di credito ordinario di graduare i tassi di interesse sui depositi con progressione fino al vincolo di 12 mesi, mentre in precedenza questa graduazione era limitata sino ad un vinco­lo di sei mesi. Riteniamo che un’espansione della raccolta del settore a medio termine sia nell’interesse dell’intero sistema creditizio, in quanto un tale rafforzamento è indispensabile per mettere il settore in grado di servire, a ra­gion veduta, le crescenti richieste del mercato italiano e per evitare quindi tutti i rischi connessi con la ‘mimetizza­zione’ a breve termine di operazioni tipicamente finanziarie.” Cfr. anche G. Rodano, Il credito all’economia cit., pp. 168-169.83 Vedi M. De Cecco, Note sugli sviluppi della struttura finanziaria cit., pp. 70-71. È opportuno ricordare i casi più eclatanti di collegamenti tra banche ordinarie e gruppi monopolistici: Edison-Banco Lariano, Italcementi-Credito commerciale, Sade-Credito industriale veneziano, La Centrale-Banca popolare di Milano, Fiat-Banca popolare di Novara, Strade ferrate meridionali-Banca popolare di Valdagno. Non si.può d’altro canto dimenticare il gran nu­mero di società finanziarie e, più tardi, di investment trusts, costituiti direttamente dai maggiori gruppi italiani ne­gli stessi anni. Vedi, su questo punto, Paolo Ciofi, I monopoli italiani negli anni Cinquanta, Roma, Editori Riuni­ti, 1962, pp. 38-43.84 Cfr. Mediobanca, Assemblea del 31 ottobre 1951, Relazione, pp. 7-8.85 Mediobanca, Assemblea del 28 ottobre 1953, Relazione del consiglio, p. 10: “se possiamo compiacerci del co­stante sviluppo del nostro istituto, dobbiamo d’altra parte tenere ben presente che, nonostante questo progressivo incremento, le nostre dimensioni sono ancora troppo esigue per poter consentirci di dare un contributo decisivo al­la soluzione del problema dei finanziamenti a medio termine nel nostro paese.”

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dito centrale e degli istituti regionali ad esso collegati — sulla tendenza delle autorità monetarie a circoscrivere le funzioni del cre­dito a medio termine all’ambito delle picco­le e medie imprese86. Il richiamo ad implica­zioni “di ben più vasta portata” e al rispet­to della specializzazione degli istituti banca­ri rimanda evidentemente ad una concezio­ne del credito a medio termine legata al rie­quilibrio finanziario della grande industria e perciò complementare, sotto vari aspetti, al­la stessa funzione mobiliare. Giacché, come precisa ancora la relazione del 1953,

i nuovi investimenti di maggior impegno sono stati realizzati, in prevalenza, da grandi comples­si industriali già esistenti, che hanno trovato in larghi margini di autofinanziamento e nella pos­sibilità di indebitamento presso l’ordinario siste­ma bancario i mezzi per attuare i loro pro­grammi,

l’appello al mercato azionario e obbligazio­nario ha svolto in prevalenza una funzione di consolidamento di debiti precedentemen­te contratti dalle imprese, sia a breve che a medio termine: “basti riflettere alle emissio­ni obbligazionarie garantite ipotecariamente da impianti alla cui costruzione, spesso plu­riennale, si è provveduto con mezzi transi­

tori” , come nel caso delle emissioni obbliga­zionarie di Imi e Icipu per conto di imprese di “pubblica utilità”, elettriche in particola­re; oppure “al rimborso di debiti finanziari a cui sono destinati molti aumenti di capita­le”87.

Su questo versante l’attività di Medioban­ca si orienta fin dal 1949 con crescente in­tensità verso la promozione e direzione di sindacati di garanzia per l’assunzione a fer­mo e per il collegamento tra il pubblico di emissioni azionarie e obbligazionarie di so­cietà industriali, affiancando tali attività spiccatamente mobiliari — che le erano sta­te consentite dalle autorità di vigilanza nello stesso anno, sia pure con precise limitazioni— alle tradizionali operazioni di finanzia­mento. La soglia degli anni cinquanta rap­presenta in effetti per Mediobanca un evi­dente punto di svolta, segnato dall’aumento del capitale a tre miliardi88 e da fondamen­tali revisioni statutarie, tra le quali la possi­bilità di partecipare a consorzi di garanzia e— passo decisivo in direzione della banca d’affari — di “assumere partecipazioni in aziende finanziarie, immobiliari, industriali e commerciali”89. Di fatto, più che nell’in­termediazione tra imprese e uno specifico segmento del mercato finanziario, il ruolo

86 Vedi Mauro Marconi, Lineamenti di un trentennio di politica monetaria, in Fausto Vicarelli (a cura di), Capitale industriale e capitale finanziario: il caso italiano, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 231-232; e M. Bagella, Gli istituti di credito sociale cit., pp. 52-61.87 Mediobanca, Assemblea del 28 ottobre 1953, cit., pp. 11-12.88 Mediobanca, Assemblea del 27 ottobre 1949, Relazione del consiglio, pp. 12-13: l’istituto era infatti tenuto a ri­spettare il rapporto da uno a quindici tra i propri fondi e il risparmio raccolto.89 Banca di credito finanziario, statuto 1950, pp. 8-9. Questi i limiti imposti dalla Banca d’Italia all’attività di Me­diobanca: non più di quindici volte il capitale sociale e le riserve nelle operazioni di raccolta dei fondi; non più del 25 per cento del proprio capitale e riserve per ogni finanziamento, sia sotto forma di credito finanziario che di par­tecipazione azionaria e obbligazionaria; non più del 50 per cento del proprio capitale sociale e riserve per ogni ope­razione di collocamento di azioni e obbligazioni per conto terzi e di partecipazione a consorzi di garanzia; non più della metà del proprio capitale sociale e riserve in operazioni di assunzione di partecipazioni e di acquisto di titoli azionari e obbligazionari, e non più del 10 per cento di detto capitale e riserve nell’assunzione di partecipazioni in titoli emessi da ogni singola società. Inoltre a Mediobanca era inibita l’assunzione di partecipazioni superiori ad un decimo del capitale di ogni singola società, tranne in casi di società con capitale inferiore a cento milioni. Questi li­miti non si applicavano a titoli dello Stato o garantiti dallo Stato. Vedi anche a tale proposito Luigi Frediani, Le banche di interesse nazionale, Milano, Angeli, 1981, pp. 76-80, che ricorda come tali restrizioni siano state ripetu­tamente allentate nel corso degli anni sessanta.

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di Mediobanca si afferma gradualmente in questa prima fase tra gli anni quaranta e cinquanta come elemento di compensazione tra grandi gruppi oligopolistici pubblici e privati, mercato dei valori mobiliari (so­prattutto obbligazionari: tra il 1947 e il 1952 Mediobanca coprirà in media il collo­camento del quaranta per cento delle emis­sioni obbligazionarie delle società industria­li) e un sistema bancario che, in assenza di altri soggetti, canalizza confusamente mol­teplici flussi di risparmio. Tale funzione di compensazione viene esercitata non solo at­traverso l’alto numero di partecipanti ai concorsi (da un minimo di 33 ad un massi­mo di 56 tra banche, istituti ed enti finan­ziari), ma anche attraverso la diluizione temporale del collocamento della cospicua massa di obbligazioni, attenuando in tal modo i rischi derivanti da un’espansione delle emissioni superiore alle capacità ricet­tive del mercato90. Nel passaggio agli anni cinquanta, viceversa, parallelamente all’at- tenuarsi del boom obbligazionario, l’attività mobiliare dell’istituito tende a polarizzarsi intorno a funzioni più selettive, privilegian­do, sul versante del reddito fisso, la direzio­ne di consorzi per il collocamento dei titoli Iri, e, su quello dei valori azionari, l’orga­nizzazione di sindacati di garanzia per au­

menti di capitale lanciati dalle maggiori hol­ding pubbliche e private (o da loro conso­ciate): agevolata in ciò da un mercato mobi­liare nel quale le emissioni di azioni a paga­mento rappresentano una quota sempre più cospicua dei mezzi finanziari a medio-lun­go termine affluiti all’industria, in presen­za anche di quotazioni in continua ascesa e di un tasso reale di redditività elevatissi­mo91.

Già da questa breve congiuntura emerge insomma la propensione dell’istituto milane­se a proiettare le proprie attività mobiliari in una dimensione esasperatamente verticisti- ca, a beneficio esclusivo dei gruppi che, allo­ra come più tardi, monopolizzavano il mer­cato mobiliare, e al di fuori di una borsa va­lori storicamente asfittica. Non traspare vi­ceversa alcun rapporto preferenziale col set­tore privato della grande industria, che anzi — eccezion fatta per i due colossi Fiat e Montecatini — beneficia della collaborazio­ne di Mediobanca assai meno di gruppi liz ­zati quali Finsider, Finelettrica, Sip, Ilva e Stet. Le ragioni della parziale privatizzazio­ne di Mediobanca — allorché, di lì a poco, vi faranno il loro ingresso Fiat, Centrale, Pi­relli e Bastogi — non possono dunque essere rintracciate nelle caratteristiche dell’attività svolta fino alla seconda metà degli anni cin-

90 II boom delle emissioni obbligazionarie si verificò tra il 1948 e il 1949, grazie al decreto legislativo del Cps, 28 novembre 1947, che ripristinava l’esenzione dell’imposta di ricchezza mobile per gli interessi delle obbligazioni emesse dalle spa e dalle società in accomandita (esenzione che era già stata in vigore per otto anni dal 1926 al 1934). La limitazione dell’agevolazione tributaria al 31 dicembre 1949 portò alla concentrazione nel biennio 1948-1949 di una massa imponente di lanci di obbligazioni. Mentre infatti nel periodo 1946-1947 i titoli offerti in pubblica sotto- scrizione erano costituiti per la maggior parte da azioni, nel 1948 le obbligazioni costituirono quasi il 17 per cento delle emissioni private (oltre un nove per cento di obbligazioni convertibili in azioni), per salire nel primo semestre del 1949 al 58 per cento delle emissioni totali. Delle emissioni private di obbligazioni quotate in Borsa, oltre l’85 per cento fu costituito da obbligazioni assunte a fermo o collocate da consorzi diretti da Mediobanca. Vedi Medioban­ca, Assemblee 1949-1952, Relazioni del Consiglio.91 Rispetto al triennio 1950-1952, nel 1953-1956 la quota delle emissioni di azioni a pagamento sul totale dei flussi finanziari all’industria passa dal 32 al 53 per cento: cfr. Il finanziamento degli investimenti industriali in Italia, “Mondo economico”, n. 38, 22 settembre 1956, pp. 13-14. Vedi anche Andrea Calamanti, Il mercato mobiliare ita­liano. Aspetti strutturali ed evolutivi ne! secondo dopoguerra, Milano, Angeli, 1977, pp. 31-36; e P. Manes, Il mer­cato azionario italiano cit., pp. 183-186.

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quanta. In questa prospettiva, indizi e date porti di forza tra settore pubblico e settore convergono piuttosto nell’indicare nel di- privato e spinge la stessa Mediobanca verso stacco delle società irizzate dalla Confindu- nuove strategie e nuove alleanze, stria e nella costituzione delle Partecipazionistatali il punto di crisi che scompagina i rap- Stefano Battilossi

Stefano Battilossi ha conseguito il dottorato di ricerca in storia presso l’università degli studi di Tori­no. Collabora attualmente al gruppo di ricerca dell’Insmli su “Gli imprenditori italiani tra guerra e do­poguerra”.

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Appendice statistica - tabella 1. - Finanziamenti a medio termine 1948-1956.Ripartizione per settore produttivo dei finanziamenti ancora in essere al 30 giugno di ogni anno

1948 1949 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1956

% <7o <% % % <% % %

Servizi pubblici (elet­tricità, telefoni, tra­sporti, gas)................. 17,1 26 20,4 38,6 36,3 37,9 33,2 29,4

Chimica e farmaceuti­ca .............................. 23,1 6,5 18,6 26,3 23,1 30,5 26,7 28,4 26,4

Tessile....................... 12,3 29,1 19,8 16,1 11,4 7,4 7,2 9 4,8

Meccanica ed elettro- meccanica, metallurgi­ca, cantieristica......... 27,6 23,5 21 18,5 9,9 5,5 9,8 18 27,6

Altre (alimentare car­taria e editoriale, edili­zia, vetraria) ............. 37 23,8 14,6 18,7 17 20,3 18,4 11,4 11,8

100

Fonte: Relazioni annuali Mediobanca 1948-1956.

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A p p e n d ic e s ta t is t ic a - t a b e l la 2 . - Raccolta del risparmio e ricorso al mercato mobiliare 1946-1952 ( m i l io n i d i l ir e c o r r e n t i)

R accolta delle aziende di

credito (*a) (1)

di cui BIN

%

R accolta degli

istitu ti di C red ito

M obiliare (*b)(2)

di cuiM ediobanca

%

R icorso al m ercato m obiliare

E m issioni di obbligazioni E m issioni di azion i a pagam ento

E n ti di d iritto

pubblico (*c) (3)

S .p .A .(4)

di cui collocate a cu ra dì

M ediobianca%

T ota le(5)

di cui con garanzia di consorzi

M ediobanca %

T ota le(6)

1 9 4 6 7 3 9 .3 5 4 2 7 ,3 2 .4 1 4 5 0 ,3 7 .1 5 0 * 5 9 5 * — 9 .9 4 1 — 1 7 .6 8 6

194 7 1 .0 8 1 .7 6 2 2 3 ,7 5 .4 2 6 6 4 ,4 7 .9 1 0 * 2 .1 7 6 * 4 4 ,8 6 7 .2 8 3 — 7 7 .3 6 9

194 8 1 .6 2 1 .6 8 1 2 3 ,3 1 0 .6 1 0 7 9 ,9 2 5 .9 2 0 2 4 .3 5 8 3 9 ,8 7 0 .8 8 3 — 1 2 1 .1 6 1

1 9 4 9 2 .0 7 1 .4 1 5 2 2 ,7 1 7 .9 0 6 7 7 ,2 3 3 .2 0 4 1 0 7 .5 8 7 3 2 ,3 9 7 .1 5 2 — 2 3 7 .9 4 3

(private 31.900 84,6)

1 9 5 0 2 .3 8 4 .4 4 2 2 2 ,9 2 7 .9 8 5 5 9 ,3 3 2 .7 1 6 3 2 .6 7 8 5 7 ,7 6 2 .2 0 4 — 1 2 7 .5 9 8

1951 2 .8 9 5 .0 3 1 2 4 ,3 3 1 .1 1 9 6 8 ,1 3 7 .7 7 0 7 .4 0 2 2 5 ,4 9 6 .8 3 3 2 7 ,5 1 4 2 .0 0 5

1 9 5 2 3 .6 0 6 .6 5 1 2 4 ,6 3 9 .6 7 3 6 4 ,7 3 8 .4 5 0 1 5 .1 5 8 5 4 ,6 9 6 .4 7 9 1 0 ,7 1 5 0 .0 8 7

*a) Intero sistema bancario comprese le Casse di risparmio e i Monti di l a categoria.*b) Depositi e buoni fruttiferi di Csvi, Mediobanca, Efi e sezioni speciali di BNL, Banco di Napoli e Banco di Sicilia.*c) Ic ip u , Istituto di credito navale (escluse le emissioni in divisa estera relative a conversioni di prestiti prebellici; ed escluse tutte le emissioni di enti specializzati nel

finanziamento di opere pubbliche).*d) L’asterisco segnala le serie statistiche non strettamente comparabili.F o n ì e : Relazione annuale Mediobanca 1953.

L’eredità della banca m

ista

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Appendice statistica - tabella 3. - Operazioni mobiliari 1948-1949/1956-1957 (miliardi di lire correnti). Emissioni obbligazionarie assunte a fermo e collocate al pubblico da consorzi costituiti e diretti da Mediobanca

1 9 4 8 -1 9 4 9 1 9 4 9 -1 9 5 0 1950 -1 9 5 1 1 9 5 1 -1 9 5 2 1 9 5 2 -1 9 5 3 1 9 5 3 -1 9 5 4 1 9 5 4 -1 9 5 5 1 9 5 5 -1 9 5 6 1 9 5 6 -1 9 5 7

Edison 1948-73 10 De Angeli Frua 2 Fiat 1949-74 5 Cot. Olcese Lane Marzotto Fiat 1956-74 15a> Pirelli 1948-73 4 Montecatini 6 Shell It. 1949-69 2 1949-1969 1954-69 9cd> Sade 1949-74 4 Sade 4cu Eridania 1949-69 3 Snia Viscosa 6

Fiat 1949-74 5 Esso Standard 5,5Linificio Canap. Set 2Naz. 1949-69 1

IRI Mare 12 Terni 1949-74 4 Sip 1949-74 IRI Elet. 1952-62 7 IRI El. 1953-62 9 IRI 1955-75 10 IRI 1956-74 20CJ Stipel-Telve Ilva 1949-74 4 IRI 1954-69 22 IRI 1956-76 10 IRI 1957-77 153 e Timo 3,2 IRI Sid. 1953-73 20 IRI El.3IX 1957-77 15,2

Aumenti di capitale a pagamento direttamente garantiti da Mediobianca per conto di consorzi da essa diretti

<uMontecatini +14 Italcementi +4 Lanerossi + 1,5 Fiat + 19 Montecatini + 16

•c Fiat + 12 Magona Caffaro +0,75d’Italia + 1

Finsider +9 Stet +7 Sip + 10,4 Finsider + 15,3 Sip +9,85-C Sip +7,4 Vizzola +3,2 Stet +6 Finelettrica +6 Vizzola +5,023 Stet +5 Terni +5,25 Ilva +8,2X )3 Ilva +7 Terni +5,25Oh Stet + 12 Finelettrica + 15

Partecipazione a consorzi di garanzia per aumenti di capitale a pagamento

cd> Romana El. +1,8 Sme +6,04 Sme +10,88 Seso +2,5 Sme +8,74CU Selt Valdarno

+ 1,84) Terni +5,2 Unes +2O Ilva +3,1

I o Dalmine +2a .

F o n te : Relazioni annuali Mediobanca 1948-1957.

654 Stefano B

attilossi