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ARACNE Il fantasma sonoro La voce e il teatro: appunti per un laboratorio del ‘dire’ Ettore Massarese

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ARACNE

Il fantasma sonoro

La voce e il teatro:appunti per un laboratorio del ‘dire’

Ettore Massarese

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ISBN 978-88–548–1636–7

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I edizione: dicembre 2007

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GLOUCESTER ― A me sembra di cammi-nare in piano. EDGAR ― È ripidissimo, invece… Ascoltate: il mare, lo sentite? GLOUCESTER ― Non lo sento. EDGAR ― Vuol dire allora che anche gli altri sensi han risentito dal dolor degli oc-chi. GLOUCESTER ― Sì, può esser così. Ma ho l’impressione che tu abbia cambiato la tua voce, e che ti esprimi meglio e con migliore costrutto di prima.

(Re Lear)

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Indice

Premessa L’approccio al percorso ................................................... 9 Per un laboratorio sonoro ................................................ 11 Lezione introduttiva ....................................................... 15 Lezione I La diade voce/sacro e l’istituzione del teatro Le origini .......................................................................... 21 Teatri di pietra .................................................................. 23 La voce altisonante ........................................................... 24 Laboratorio sonoro ........................................................... 26 Bibliografia essenziale della lezione I .............................. 37 Lezione II La voce galleggia nel vento. Tra nomadismo e giocoleria La voce ipnotica ............................................................... 39 La voce del gioco/il gioco della voce ............................... 41 Laboratorio sonoro ........................................................... 44 Bibliografia essenziale della lezione II ............................. 55

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Lezione III Tra ‘imperfetto’ e ‘congiuntivo’. Giochi del ‘dire’ mascherato

Il mascheramento consapevole ......................................... 57 La menzogna etica ............................................................ 60 Laboratorio sonoro ........................................................... 64 Bibliografia essenziale della lezione III ........................... 73 Lezione IV Dalla ‘voce’ alle ‘voci’: il caos sonoro del Novecento Gli angeli sentono voci ..................................................... 75 Le voci del ‘non detto’ ..................................................... 78 Laboratorio sonoro ........................................................... 82 Bibliografia essenziale della lezione IV .......................... 93 Alle soglie della glottide Vibrazioni in video nel Macbeth Horror suite di C. Bene (Lezione prodotta dopo la visione in aula dell’opera) … 95 Discografia di C. Bene ..................................................... 100 Bibliografia generale ........................................................ 103

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Premessa

L’approccio al percorso L’idea di raccogliere in un volume i materiali derivati da un

corso universitario, materiali per altro accumulati in forma di appunti in un triennio di lezioni, svela le amplissime possibilità d’applicazione degli studi e delle ricerche che s’innescano par-tendo dall’analisi delle vicende del teatro; l’esplorazione, com-piuta tra confini interdisciplinari, costringe ad una costante veri-fica dei poteri d’indagine e al continuo aggiornamento degli strumenti più opportuni a che l’indagine stessa abbia un minimo di fondamento scientifico. I materiali qui raccolti assemblano alcune lezioni da me tenute presso il corso di laurea in Logo-pedia della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli negli anni accademici 2003/2004, 2004/2005 e 2005/2006 (naturalmente ho operato una forte selezione che ha escluso la parte dedicata alle specifiche tecniche respiratorie per le quali rimando alla vasta produzione manualistica); il modulo è inti-tolato Scienze interdisciplinari–discipline dello spettacolo ed ha lo scopo di consentire agli allievi del corso di acquisire i princi-pi fondamentali che correlano l’uso della voce all’intero appara-to dell’artificio teatrale, con una particolare attenzione ai mec-canismi non solo fisiologici (aspetti questi esclusivo ap-pannaggio della componente medica del corso), quanto piut-tosto agli aspetti etici ed antropologici che fanno del mestiere d’attore un’esperienza limite straordinaria, esemplare per in-tendere l’intima connessione tra l’io individuale e il gruppo so-ciale d’appartenenza. Il senso sotteso a questo ciclo di lezioni è rinvenibile nel lavoro svolto, insieme al gruppo di studenti di

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Logopedia, teso a sperimentare e sottoporre ad analisi il rappor-to tra automatismo dell’emissione vocale e l’artificio tecnico adoperato per governarla. Naturalmente il punto di approccio dell’esperienza teatrale ha comportato la necessità di ascrivere il problema su accennato nell’ambito di alcuni elementi ricorrenti nella storia ricca e stratificata delle teorie e tecniche che hanno accompagnato l’evolversi (almeno nella civiltà occidentale) del-le forme dello spettacolo dal vivo. È risultato necessario, per giungere ad un qualche risultato significativo, rinvenire alcune idee–guida in grado di traghettare l’indagine storica verso il riu-so, anche terapeutico (nel nostro caso specifico), delle esperien-ze ricorrenti nella storia del teatro d’occidente sul tema del rap-porto tra il corpo–voce e l’assemblea degli astanti. L’emissione vocale è venuta, così, ad essere individuata quale un atto affetti-vo di appartenenza, un io–tu regolato dalla cultura della comu-nità che lo esprime; ma questa cultura fa i conti con la specifica identità del soggetto, un io che è chiamato alla sensibilità collet-tiva senza rinunciare ad identificare se stesso, le sue origini; di qui il problema della consapevolezza scientifica della tecnica at-torica e il rinvenimento dei fondamenti teorici nell’età contem-poranea, a partire da Diderot sino a Stanislavskij, ad Artaud e a Decroux. Soprattutto il concetto e la tecnica della reviviscenza, messa a punto dal fondatore del Teatro d’Arte, si è rivelata utile alla costruzione dei punti di connessione tra io ‘naturale’ ed io attore consapevole. Temi quali il governo della respirazione, ad esempio, sono stati, così, affrontati riscoprendo il ‘miracoloso’ primo impatto che si ha alla nascita con l’elemento aria, ricollo-cando l’urlo–pianto che ne deriva come primo atto di enuncia-zione di esistenza verso la comunità cui si appartiene. I concetti e le categorie ermeneutiche che danzano tra questi appunti si fondano su tali premesse. Il concetto su cui più mi sono soffer-mato, e che è opportuno richiamare anche in questa sede, è quello del mascheramento consapevole che indica e designa gli strumenti attraverso i quali la persona pone in atto un chiaro meccanismo di infigimento della sua identità non finalizzato al-la copertura del vero, quanto a svelarne le innumerevoli possibi-lità nel gioco dichiarato della finzione. A questo concetto si af-

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fianca quello della menzogna etica che designa la possibilità, at-traverso le tecniche poste in atto dalla voce recitante, di trasfi-gurare il reale percepito verso un reale percepibile ma non av-vertito dai sensi posti in attenzione nell’attività quotidiana. Il te-atro è menzogna consapevole, menzogna etica. In teatro dichia-ro di perdere me stesso per farmi voce di tutti.

Per un laboratorio sonoro Lungo il percorso delle lezioni ho dato luogo ad una cam-

pionatura di testi che, per la loro natura, possono essere proposti quale archivio e testimonianza della cultura d’uso della voce che, in qualche misura, li ha istituiti. I testi provenienti da altre geografie linguistiche vengono citati nella traduzione italiana; e ciò a due scopi. Il primo, naturalmente, di ordine didattico (non tutti gli studenti posseggono gli strumenti linguistici atti a so-stenere la lettura di testi in lingua originale); il secondo è relati-vo allo specifico scopo cui viene destinata la traduzione di un testo teatrale, vale a dire l’allestimento nella cultura linguistica ed attorica cui appartiene il traduttore. Questo secondo aspetto, oltre a segnalare la comunanza dell’evoluzione della tecnica vo-cale dell’attore nell’intera cultura occidentale, consente d’ac-costare, di fatto, alcuni aspetti della drammaturgia italiana ai modelli europei con i quali essa s’intreccia. Va da sé che in que-sta sede resta impossibile costruire una campionatura ragionata relativa all’intera e complessa vicenda della tradizione/tradu-zione dei testi classici e stranieri nella nostra lingua. L’accosta-mento di taluni frammenti, tuttavia, lascia intendere come la ri-scrittura di un genere, quale quello della tragedia, ad esempio, finisca per traghettare gli elementi genetici dell’impostazione vocale che i testi d’origine contengono. Nella lezione dedicata al ‘dire altisonante’, per citare almeno uno dei passaggi signifi-cativi, accanto ad un frammento dell’Antigone di Sofocle pro-pongo un frammento della riscrittura alfieriana, a testimoniare come il delirio tragico imponga una linea prosodica e metrica che porti la voce ai confini dei suoi colori espressivi e ciò al di

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là delle precipue differenze della struttura retorica della lingua in cui il testo è scritto. In questo caso si può intuire come l’en-decasillabo di Alfieri viene a costituire un modello anche per le traduzioni dei classici greci successive alla sua opera.

Più leggibile e, potrei dire, pertinente la citazione di alcuni frammenti testuali d’area giullaresca. L’impronta d’uso della voce in essi contenuta reca segni assai persistenti, peraltro rela-tivi alla loro precipua natura di formulari d’uso per la voce reci-tante; il ritmo battente delle ripetute assonanze conferisce, infat-ti, alla recitazione, come dirò nella lezione a questo scenario de-dicata, un’evidente funzione ipnotica. Di segno tematico defi-nirei l’uso di alcuni significativi frammenti scespiriani nella le-zione dedicata alle tecniche dell’infingimento dichiarato che, prima, ho definito del mascheramento consapevole e della men-zogna etica. La parola posta in opera da Shakespeare, al di là della sapienza d’uso, peraltro conclamata, di registri sonori for-temente innovativi, reca il segno di una piena maturità raggiunta dalla retorica d’attore nella gestione del ‘doppio’. La lezione di Amleto ai comici, il governo delle ‘stonature’ adoperato per in-scenare la sua follia, in uno con le fantasmagorie vocali poste in opera da Edgar nel Re Lear a scopo salvifico, testimoniano con forza che, al tempo del teatro elisabettiano, la gamma delle in-tonazioni e delle altezze di emissione vocale si è estesa a copri-re tutte le sfumature dei colori del dire: dall’umoristico evapora-re di Amleto al delirio onirico di Macbeth: una “parola inteatra-ta” che porta con sé un alto grado di consapevolezza scenica.

L’onda (sonora) lunga prodotta dal ‘dire’ moderno, coscien-ziale proposto da Shakespeare si rifrange, permeandola di sé, nelle voci risonanti nei teatri novecenteschi. L’archiviazione nei testi di un modo di enunciazione intermittente, sommesso, inti-mo, soprattutto nella stesura dei monologhi, si fa testimone di quella che potremmo definire una sorta di secolarizzazione della parola teatrale. Naturalmente tengo fuori da questo discorso la sterminata produzione dialettale (da Ruzante a Goldoni a Berse-zio fino alla lunga teoria degli autori d’area napoletana) in cui l’apparente sovrapposizione tra i modi del parlato e la scrittura comporta la necessità d’aprire un percorso di indagine esclusivo

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e sulla tradizione linguistica e sulla territorialità della tradizione attorica (si pensi, ad esempio a Gilberto Govi e al teatro geno-vese). Qui, nella campionatura dei testi che accompagna il ciclo di lezioni, come dicevo prima, ho preferito soffermarmi su di una drammaturgia nazionale o, meglio, transnazionale, reperto-rio irrinunciabile per un attore medio chiamato ad applicare la mimesi di un dire ‘naturale’, domestico. Dopo aver riportato l’importante inserto sul laboratorio d’uso della voce di Stanisla-vskji, proporrò frammenti tratti da Artaud e Beckett; dove per il primo prelevo alcune riflessioni sparse sul tema della glossola-lia, mentre per il secondo riporterò un segmento della lunga monologazione di Mouth (Bocca) dal suo Not I. Non seleziono, di contro, frammenti del vasto repertorio di Carmelo Bene, cui dedico peraltro la lezione ultima qui raccolta, rimandando alla discografia che, per fortuna, possediamo e di cui darò cenno ne-gli apparati relativi all’ultima lezione.

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Lezione introduttiva La prima parte del ciclo di lezioni non poteva non riferirsi,

per fondare storicamente i problemi, alle origini istituzionali del teatro occidentale, a quel teatro della democrazia ateniese che fonda i principi della civiltà teatrale. Nel teatro greco si rinarra-vano i miti collettivi attraverso il canto, la danza, il dire ritmato. Il coro era la collettività, il portatore dei miti e stimolava l’atto-re a rinarrare in voce, facendosene protagonista, il percorso d’espiazione dolorosa degli eroi; il coro provenendo dalle parò-doi negli stasimi, episodi danzanti di commento, finiva per fare da ponte tra la collettività e l’eroe–capro espiatorio. La cavea diveniva, dunque, come un corpo attraverso il quale il coro ri-cantava le antiche storie da cui aveva origine l’azione tragica. Il coro, rimandando i miti al corpo attoriale, informava la colletti-vità su ciò che la voce dell’attore recitante sarebbe andato a vi-vere in poetica ‘sofferenza tragica’. La voce dava corpo al fan-tasma così evocato: diveniva la porta che consentiva l’avvento di un corpo che ‘invasava’ altri corpi. Il sé si negava come indi-viduale per farsi fantasma teatrale e cioè collettivo, corale. La tecnica retorica del mascheramento, su cui il teatro si fonda, nel caso della tragedia, finge un dolore, un impresa tracotante, af-finché l’assemblea tutta se ne distacchi, se ne liberi. La tragedia appare come il corpo rituale che dà voce all’oscuro portandolo alla luce; costringe e incanala il mito, proveniente dalle inde-terminate regioni del tempo, nello spazio circolare della cavea–assemblea, facendolo passare per lo spazio risonante della cavi-tà orale.

L’onda sonora, così emessa dalla voce, si rivela in grado di curvare lo spazio–tempo, creando un recinto nell’emiciclo sono-

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ro, un recinto rituale che sospende il tempo quotidiano per rive-lare l’extraquotidiano. Un esempio di come tale curvatura inci-da anche nell’architettura urbanistica, quasi a designare l’alteri-tà deviante del recinto rituale sonoro, persiste nella città in cui vivo e lavoro, Napoli. Qui, infatti, ad interrompere sorprenden-temente l’ordine geometrico della città ippodamea disegnata sulle assi ortogonali di cardini e decumani, un’imprevista curva-tura piega la retta del decumano superiore. Se si imbocca da via Duomo la via dei Tribunali ci si ritrova, d’improvviso, dinanzi ad un’ansa che ci allontana dal percorso rettilineo spingendoci lungo uno piccola salita che curva verso destra. Poi, con una curva dolce, il percorso continua ripiegando verso sinistra con una piccola discesa che ci riconduce verso uno dei cardini che in perpendicolo scende sul decumano principale. Un’ansa, una piegatura imprevista di un percorso rettilineo, che, infatti, nel decumano parallelo, porta nell’antica agorà, ora piazza San Lo-renzo. Parlo di via dell’Anticaglia, una toponomastica che già sembra indicare una distorsione temporale; lungo questa via, a scadenze regolari, passiamo sotto archi costruiti in laterizio se-condo la tecnica della Roma imperiale: si tratta della percorren-za superiore esterna del teatro costruito in età alessandrina e re-staurato da Nerone che amava esporvi i suoi concerti prima del-le tournée elleniche. Un teatro capace di contenere più di ven-timila spettatori. Numerose botole, aperte nel tempo dagli ar-cheologi, site nei ‘bassi’ di via Anticaglia, danno accesso alle gradinate, ora percorribili fino alla skenè sita sotto il chiostro del convento dei Teatini. In buona sostanza, un enorme teatro incombeva sull’agorà, quasi ad indicare il contrasto tra i traffici del quotidiano (ancora oggi intensissimi in quella zona) ed il tempo altro scandito dal canto e dalla voce recitante. Possiamo, dunque dire che l’onda sonora piega lo spazio, lo curva, lo re-cinta. Del resto una circolarità atta a designare un impatto tra la voce e lo spazio la si ritrova anche nella O elisabettiana una scena spoglia dove la parola era chiamata a far emergere la cor-poreità dalle immagini che andava a designare. La voce, ren-dendosi corpo percepibile nel palco–prua, traghetta l’assem-blea verso i mondi ‘detti’. L’onda sonora, articolata dalla sa-

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pienza attoriale, crea un gioco di rimandi e rifrazioni che non è solo racconto ma ipnotica attrazione nello scenario evocato e ciò che la mente immagina finisce per solidificarsi nel cor-po vocale emesso dall’attore: il dire e l’ascoltare, sul piano sensoriale, prevalgono sul vedere. È in questo meccanismo che la voce si fa parola immaginifica, riconfigurando lo spa-zio in una nuova dimensione tangenziale al reale, imponendo una microfrattura che si fa porta verso un'altra realtà possibi-le, una realtà in grado di deviare pur anche il percorso della morte. È il caso, in tema di scena elisabettiana, del Re Lear di Shakespeare. Parlo della scena in cui Edgar, figlio del du-ca di Gloucester, travestito da contadino, accompagna il pa-dre accecato (ignaro dell’identità della sua guida) nella cam-pagna di Dover, a ché il vecchio possa raggiungere le sco-gliere e da lì precipitarsi e por fine alla sua vita. Edgar, col potere della parola, in una tessitura ipnotica motivata dal-l’amore, simulerà le scogliere e perfino il mugghio del mare, il lugubre gracchiare dei corvi, convincendo il padre a “pre-cipitarsi” dall’alto di un piccolo dosso nella radura (l’intero frammento del Re Lear verrà riportato nel laboratorio sonoro della lezione III).

La menzogna etica posta in atto da Edgar è forse l’esempio più lucido di come la voce recitante possa costruire mondi, de-viare il percorso della realtà percepibile, porsi come una sorta di voce angelica, salvifica ed Edgar non manca di sottolinearlo nel dire “gli dei, quelli che traggono la loro gloria facendo quel che è impossibile agli uomini, t’hanno salvato”, come a dire che la voce affabulante è voce divina. L’ekfrasis di uno scenario im-maginifico, già di per sé necessario nell’impianto del teatro eli-sabettiano, viene a raddoppiarsi affinché i sensi del cieco Glou-cester restino imbrigliati nella descrizione salvifica del figlio; un raddoppiamento percettivo che il pubblico è chiamato a rac-cogliere come una compresenza di mondi, due porte su due re-altà illusorie: le scogliere di Dover dipinte dalla voce di Edgar e la radura che va figurata come scenario dell’azione dei perso-naggi. Si può quasi dire che la cecità di Gloucester chiama il pubblico ad espandere le capacità immaginifiche della perce-

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zione uditiva, a fare esperienza di un piano del reale costruito tutto su registri vocali narrativi…

Ecco, siamo arrivati. Questo è il posto. Restate fermo lì. Oh, che pau-ra! A gettar l’occhio in giù dà le vertigini. I corvi e le cornacchie che si vedon volare là a mezz’aria sembrano appena degli scarafaggi.

L’impossibile vertigine dell’occhio accecato viene sostituita

da una vertigine uditiva: il gracchiare dei cupi uccelli, annuncio dell’imminente scelta di morte. Si tratta della gaia cupezza della voce recitante che finge la morte donando la vita. La felice e-spressione di Agostino Lombardo, che definisce quella di Sha-kespeare una “parola inteatrata”, trova in questo frammento del Re Lear la sua piena esemplarità.

S’è inteso, da queste prime annotazioni introduttive, che l’approccio al tema della voce, nel ciclo di lezioni e nel volume che ora le raccoglie, tocca in via del tutto marginale il versante fisiologico e propriamente fonetico dell’emissione sonora, a-vendo io scelto di analizzare lo strumento vocale nel teatro qua-le mezzo di infingimento, di velatura e deviazione dell’oggetto così come appare percepibile nell’esperienza quotidiana. Il “suono in maschera”, espressione di solito adoperata per defini-re l’articolazione dell’emissione dei fiati nella cavità orale, vie-ne qui quasi a definirsi quale mascheramento del suono, consa-pevole artificio messo in atto allo scopo mantico di costruire o indicare porte d’accesso verso zone la cui natura, di norma, ci sfugge nell’esperienza quotidiana. Parlo dell’emissione del suo-no come atto poetico–cognitivo, qualcosa che assomiglia alla glossolalia alla maniera di Artaud: un tessuto sonoro costruito non solo sul senso logico dell’espressione orale, ma pur anche su toni, ritmi, altezze, respiro.

L’atto di volontà che pone in essere l’emissione sonora viene così inteso non solo come comunicazione, ma come atto che, consapevolmente, altera la percezione dello spazio in cui avvie-ne. La voce costituisce il passaggio da una condizione di quiete ad uno stato di alterazione che agisce su questa quiete turbando-la. L’onda sonora è “perturbante”; essa è un atto che svela geo-

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grafie dapprima non percepite, che mette in moto una dilatazio-ne della sensibilità percettiva. Ed il processo non coinvolge solo colui che ascolta, ma anche colui che enuncia.

Anche in analisi se il paziente rompe la quiescenza con una narrazione, dà inizio a un percorso di ricerca, ad una alterazione perturbante, che spinge la sensibilità percettiva verso zone igno-te, egli comincia a dischiudere la coscienza verso mondi che non sempre designano ricordi o percorsi causali, quanto piutto-sto stati emotivi, desideri, ripulse. L’analista si pone in ascolto; al cominciare della narrazione i suoi sensi sono allertati; egli di-viene come un drammaturgo chiamato a portare in un nuovo equilibrio descrivibile, leggibile, un materiale visionario non sempre coerente, anzi spesso instabile, in movimento. È così che la voce designa uno scenario; questo scenario tende in qual-che modo a relazionarsi con altri fenomeni percettivi, così che l’udito si fa vista olfatto, tatto. È il caso del frammento del Re Lear che prima ho citato. Uno scenario così veicolato non è un’astrazione, ma è una sostanza fisica. La voce richiama visio-ni collegate alla percezione acustica. Ronconi, a questo proposi-to, parla di più e diverse percezioni a seconda degli spettatori. La vibrazione è particolare per ciascun individuo. E non parlia-mo necessariamente di una parola finita, di senso compiuto, ma di una parola che è prima di tutto suono. È come se l’attore in teatro alterasse il reale scientemente e si ponesse quale una sorta di prometeo, autore di una visione di fabbrica che devia la per-cezione quotidiana già acquisita.

A teatro la consapevolezza di trovarsi in atto di percezione visiva rende ancora più forte la percezione sonora. La parola–suono, deviando la percezione, fa emergere il suo statuto di doppio, andando oltre ciò che si vede, ponendosi come svela-mento coscienziale. Ha luogo allora la “bilocazione”, uno spiaz-zamento che determina un meccanismo percettivo che supera il limite visivo.

Ed a chiarire che non parlo solo di parola–suono articolato basti citare gli spettacoli che affidano all’espressione corporea la vibrazione che perturba lo stato di quiete. È il caso del cosid-detto teatro–immagine, con a caposcuola Bob Wilson: il corpo

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non agisce per mostrare o ‘farsi vedere’, bensì per dire l’in-dicibile; il suono si configura come silenzio nel quale il corpo si fa puro codice primario, alfabeto di un dire lento, solenne, ance-strale. La corporeità riempie spazi sonori di vibrazione. Il verbo coincide col corpo, vibrazione primaria. Quando in un testo drammatico troviamo questa tensione, in cui la parola designa il corpo e viceversa, avvertiamo che ciò che l’ha istituito non è l’atto della scrittura, mero strumento testamentario, ma i corpi che ne hanno prodotto, in origine, la visione. Il resto, come dice con sublime chiarezza Carmelo Bene, è “morto orale”.

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Lezione I

La diade voce/sacro e l’istituzione del teatro

Le origini In molte religioni la voce salmodiante che itera un canto co-

stituisce l’invocazione per l’avvento del divino. Un canto iterato che richiama la risposta dell’uditorio. La collettività risponde all’unisono che è suono ‘uno’ emesso da più soggetti. La rispo-sta collettiva esemplata sul ritmo dato dalla voce salmodiante stabilisce la connessione tra la voce del sacerdote e gli astanti. È così che la voce istituisce la collettività quale corpo sacro. Ma non può esserci voce senza la contrazione e la dilatazione del mantice diaframmatico e, pure, è mantico l’atto rituale, l’atteg-giamento che la collettività assume a ché l’avvento religioso si manifesti. Il mantice diaframmatico non traghetta all’esterno so-lo l’aria, nel canto unisono, traghetta, anzi espira, la cultura, l’a-nima della collettività stessa. Gli antropologi la chiamano fun-zione psicopompa, una funzione fisica che favorisce la trasmi-grazione di ciò che è impalpabile, flatus vocis, flatus animae. La fonazione si ascrive così quale atto affettivo di appartenenza. Si inspira un bene comune, che è l’aria, e lo si espira perché signi-fichi, anzi sia, l’impalpabile fiato divino. Il mantice ha sede nel tronco, come la pulsazione cardiaca che ne garantisce la vita, su questa solida e certa fisiologia dell’umano, Antonin Artaud amò definire l’attore l’atleta del cuore e, dopo di lui, Etienne De-croux collocò nel tronco la sede dell’espressione corporea.

La corporeità della voce va oltre la fisiologia. Tutto il corpo è coinvolto nella fonazione. Il suono risiede nel corpo stesso. La

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bocca è lo strumento che dà corpo ad un vettore che ha partenza dal tronco. Viene da pensare ai geroglifici, ancora una volta un richiamo ad Artaud. Parlo di una scrittura costituita da icone che rappresentano, nella maggioranza dei segni grafici, corpi in se-quenza e posture diverse e che poi si ricodificano in suoni. Si trat-ta di un alfabeto fatto di corpi. Il geroglifico si assume, in quest’ottica, quale atto di convenzione collettiva: una comunità at-tribuisce alla postura corporea un suono riconoscendo quel suono e il segno che lo istituisce quale atto costitutivo di appartenenza.

La voce è dunque un corpo che dice “io sono in voce”. L’accostamento tra il corpo geroglifico e la glossolalia designa uno spazio in cui la comunicazione si configura come il ‘dire’ in tutte le sue possibili varianti, una fonazione prossima alle ori-gini dell’uso umano della voce, dove c’è la libera scoperta del ‘poter dire’ più che il ‘dire’ finito. Può essere utile, in questa chiave, la lettura del testo di J. Derrida Della grammatologia, opera di uno studioso che, non a caso, ha curato e introdotto l’edizione dei testi di Antonin Artaud.

Possiamo dire che è su questi fondamenti che la diade voce–sacro istituisce il teatro, laddove il suono glossolalico si fa mu-sica che precede l’articolazione della parola, una zona non sog-getta al decoupage dell’orizzonte visivo, non necessariamente destinata alla rappresentazione, come acutamente annota Ro-land Barthes ne L’ovvio e l’ottuso. Non è un caso che Jerzy Grotoswsky nel rinvenire il senso del suo “teatro povero” nel fondamento sacro del corpo rituale, rivendichi per il teatro una funzione di non comunicazione, a favore di un quasi iniziatico percorso di appartenenza. È evidente che sto indicando, nello stesso tempo, una zona che sovrappone le origini al sentimento dell’origine, che propone l’acquisizione del senso dell’infanzia del dire, quasi l’arretramento al primo impatto con l’aria, al primo vagito; del resto non si può non segnalare che il termine ‘origine’ è, etimologicamente, l’accostamento tra i lemmi os–oris e genòs– ou, come a dire che ciò che proviene dalla bocca, viene indicato come prima soglia di accesso al mondo. Non si può non ricordare Richard Scheckner ed il suo definire la cavità orale quale cavità teatrale primaria.

La diade voce/sacro e l’istituzione del teatro 23

Teatri di pietra La struttura geometrica della cavità teatrale ha origine

dall’onda sonora causata dall’emissione vocale. I confini entro i quali è percepibile e può essere rielaborato il suono emesso dal-la cavità orale sono quelli entro i quali prende forma e funzioni l’assemblea teatrale. Da ciò deriva che la configurazione strut-turale dell’edificio adibito alla rappresentazione solidifica, in qualche misura pietrificandolo, il perimetro d’espansione del-l’onda sonora. Il teatro di pietra si può definire, così, quale un tempio eretto intorno all’entità che lo fonda, la voce appunto. E se qui adopero la metafora del tempio è per richiamare con for-za la funzione della voce quale diaframma che vibra tra l’in-visibile e il visibile, una macchina fisiologica sotto il governo di una volontà intelligente che la adopera per commutare astrazio-ni, immagini, visioni in articolazioni sonore fisicamente perce-pibili: una porta, una soglia tra il pensabile e il dicibile, la prin-cipale e prima porta attraverso la quale passano e prendono con-sistenza i fantasmi sonori del teatro. Si pensi all’effetto deter-minato in un liquido quando viene colpito da un corpo, ad e-sempio un sasso lanciato nell’acqua; ebbene l’aria, nell’impatto col ‘corpo solido’ della voce, genera un onda non dissimile da quella generata dal lancio di una pietra in uno stagno e, in egua-le dinamica, l’onda prende le mosse dal punto di impatto e l’energia dalla veemenza dell’impatto: in buona sostanza si ve-rifica l’interruzione dello stato di quiescenza cui prima ho fatto cenno. Gli emicicli degli antichi teatri disegnavano, dunque, ar-chitettonicamente, l’effetto dell’onda e, per consentirne una ri-frazione non dispersiva, erano costruiti su un declivio utilizzan-do rocce non porose in grado di restituire i suoni gravi non di-rettamente percepiti dall’orecchio nell’emissione diretta. Si trat-ta di un uso tecnologicamente raffinato delle leggi fondamentali dell’acustica, un uso attento a che non si perdesse l’intera gam-ma dei suoni, stabilendo quel principio, di cui parla appunto Scheckner, di stretta connessione tra cavità orale e cavità teatra-le. Il grado di consapevolezza di questa stretta connessione è ri-scontrabile nella parte dedicata al teatro nel trattato di Vitruvio

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De architectura, trattato che diverrà ineliminabile punto di rife-rimento per gli studi di architettura teatrale almeno sino a tutto il sedicesimo secolo.

La voce altisonante La voce vive nella spazialità in cui si esprime. Essa cerca

una sorta di equilibrio, un’eufonia, tra l’emissione del suono e il recinto sonoro del teatro che l’accoglie. Negli antichi teatri di pietra l’attore sa, ha consapevolezza, che la sua voce ha da esse-re portata perché colpisca direttamente, con l’onda d’impatto, i corpi degli astanti e produca la rifrazione sui gradini di roccia; parlo di una sorta di ‘ritorno’ che consente all’attore di scegliere l’altezza del tono che vuole raggiungere. Nella tragedia greca la voce è altisonante. Accanto all’attore il coro è, al tempo stesso, risposta, eco e tappeto sonoro; esso rievoca il mito e, scandendo il ritmo del racconto, si completa in partitura con la voce del pro-tagonista. L’altisonanza diviene così un’onda lunga che si rifran-ge nella curva teatrale e attraversa il tempo, una voce alta e lirica che trasporta ciò che esprime nell’universo rituale. L’altisonanza produce, dunque, una curvatura, una sorta d’arco teso in cui l’intera collettività vibra di una sola voce. È la vibrazione del de-lirio catartico. Il flatus affettivo emesso dall’attore si fa urlo mo-dulato di un dolore di antica radice che viene come scacciato in un frenos estroverso, tracotante: il frenos del capro sacrificato a Dioniso. Il dolore emesso in voce avvolge l’intera comunità che così si riconosce parte di esso. Traccia dell’altezza dei registri e del volume dell’emissione sonora resta, quale impronta del cor-po d’attore, nei testi; l’altisonanza prodotta nella cavea greca persiste nell’andamento melico e metrico della drammaturgia dei grandi classici. Quella che siamo soliti definire iubris si fa, nel testo, pronunciamento estroverso, canto ‘spudorato’ dei propri sentimenti e dei conflitti che ne derivano. È un’onda so-nora questa che prolunga la sua rifrangenza fino al nostro tempo passando attraverso il delirio in canto del melodramma ottocen-tesco, sino a giungere alla canzone popolare sui temi della pas-