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83 I. SAGGI La storiografia italiana dell’ultimo trentennio sulla finanza in età contemporanea: borsa, assicurazioni e finanza pubblica di FRANCESCO BALLETTA Premessa Consentitemi di aprire questa rassegna sulla storia finanziaria italiana rela- tiva al XIX e XX secolo con un’affermazione che può sembrare pesante: la sto- ria finanziaria italiana dell’età contemporanea è ancora tutta da scrivere, le ricerche finora condotte hanno solo portato alla luce pochi aspetti e pochi momenti di vicende che, per loro natura, sono complesse ed hanno bisogno di una buona preparazione delle tecniche finanziarie e contabili per capirne il significato. Per chiarire questa affermazione devo prima stabilire cosa intendo per storia finanziaria: è la somma della storia bancaria, della storia delle assicu- razioni, della storia delle borse, della storia dello scambio dei titoli azionari e obbligazionari non quotati in borsa e della storia della finanza pubblica, intesa come finanza dello stato e finanza degli enti locali. Le ricerche relative all’età contemporanea hanno avuto un diverso approfondimento. Più numerose e meglio argomentate quelle di storia bancaria, che, comunque, in questa occa- sione, non tratterò. Sono state solo avviate quelle di storia delle assicurazioni, che, dopo le banche, gestirono la fetta più significativa del risparmio privato e pubblico. Sono avviate, ma spesso condotte male, le ricerche sul mercato borsi- stico. La storia del mercato dei titoli fuori borsa non è stata neanche iniziata. Le ricerche di finanza pubblica sono state avviate fin dall’Ottocento, ma, negli ulti- mi decenni, hanno subìto un grave rallentamento. Mi occuperò di ricerche che hanno studiato i capitali veicolati dalle borse e dalle imprese di assicurazione, nonché dal risparmio gestito dagli enti pubbli- ci, mettendo in luce il funzionamento e la trasparenza dei mercati attraverso la libera competizione economica e l’ottimale allocazione delle risorse, cioè evi- denziando l’ideologia dell’“ottimo paretiano”, che, alla fine dell’Ottocento, fu teorizzato da Vilfredo Pareto, come perfezionamento logico del mercato. I due

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I. SAGGI

La storiografia italiana dell’ultimo trentennio sulla finanzain età contemporanea: borsa, assicurazioni e finanza pubblica

diFRANCESCO BALLETTA

Premessa

Consentitemi di aprire questa rassegna sulla storia finanziaria italiana rela-tiva al XIX e XX secolo con un’affermazione che può sembrare pesante: la sto-ria finanziaria italiana dell’età contemporanea è ancora tutta da scrivere, lericerche finora condotte hanno solo portato alla luce pochi aspetti e pochimomenti di vicende che, per loro natura, sono complesse ed hanno bisogno diuna buona preparazione delle tecniche finanziarie e contabili per capirne ilsignificato. Per chiarire questa affermazione devo prima stabilire cosa intendoper storia finanziaria: è la somma della storia bancaria, della storia delle assicu-razioni, della storia delle borse, della storia dello scambio dei titoli azionari eobbligazionari non quotati in borsa e della storia della finanza pubblica, intesacome finanza dello stato e finanza degli enti locali. Le ricerche relative all’etàcontemporanea hanno avuto un diverso approfondimento. Più numerose emeglio argomentate quelle di storia bancaria, che, comunque, in questa occa-sione, non tratterò. Sono state solo avviate quelle di storia delle assicurazioni,che, dopo le banche, gestirono la fetta più significativa del risparmio privato epubblico. Sono avviate, ma spesso condotte male, le ricerche sul mercato borsi-stico. La storia del mercato dei titoli fuori borsa non è stata neanche iniziata. Lericerche di finanza pubblica sono state avviate fin dall’Ottocento, ma, negli ulti-mi decenni, hanno subìto un grave rallentamento.

Mi occuperò di ricerche che hanno studiato i capitali veicolati dalle borsee dalle imprese di assicurazione, nonché dal risparmio gestito dagli enti pubbli-ci, mettendo in luce il funzionamento e la trasparenza dei mercati attraverso lalibera competizione economica e l’ottimale allocazione delle risorse, cioè evi-denziando l’ideologia dell’“ottimo paretiano”, che, alla fine dell’Ottocento, futeorizzato da Vilfredo Pareto, come perfezionamento logico del mercato. I due

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1 G. BERTINETTI, La finanza dei grandi gruppi aziendali italiani, Egea, Milano, 1994, p. 83.

elementi che terrò in considerazione sono i seguenti: 1) le decisioni prese dagliindividui e dalle famiglie del capitalismo italiano; 2) il sistema istituzionale incui essi operarono e le politiche economiche attuate dai governanti. Paretotenne conto delle preferenze degli operatori finanziari non in relazione alla uti-lità che le loro decisioni ebbero per la società, bensì in base ai rapporti che sca-turivano fra gli individui, per cui gli operatori del mercato finanziario agivano,in maniera fredda e precisa, in vista di un proprio vantaggio e in danno per lacontroparte. In relazione al sistema istituzionale in cui operavano, gli interven-ti di politica economica e, più specificamente, di politica fiscale, vengono vistiin relazione ai vantaggi che arrecavano alla società in generale o creavano favo-ri per alcuni e danni per altri componenti della stessa società. In questo ambitorientrano le valutazioni degli investimenti finanziari, per cui gli economisti sisono divisi fra i sostenitori dell’approccio istituzionale-normativo e quello ditipo economico-positivo. Il primo tiene conto – ai fini della valutazione delleimprese, della distribuzione dei dividendi e delle decisioni di investimento –della organizzazione dell’impresa e delle norme che la regolarono. Il secondo,che si riferisce al modello di Modigliani e Miller – conosciuto anche come NewFinance –, è molto più teorico, poiché tiene conto di mercati perfetti di capita-li, in assenza di imposizioni fiscali nonché tassi di interesse passivi analoghi perle imprese e per gli azionisti, per cui la struttura finanziaria, con tali condizioni,non avrebbe nessuna influenza sul valore delle imprese societarie, “poiché ilmaggior rischio conseguente ad un più intenso sfruttamento della leva finanzia-ria, spinge verso l’alto la remunerazione richiesta dagli azionisti per acquisiretitoli della società in misura esattamente equivalente alla maggiore redditivitàgarantita dallo stesso effetto leva”1. Pertanto con modello Modigliani e Millerviene messa in dubbio l’utilità della politica finanziaria aziendale.

Partendo dall’ottimo paretiano, in un mercato perfetto, vale il principio delpiù forte che deve distruggere il più debole, nell’esaminare il contenuto dellastoriografia italiana sui problemi finanziari abbiamo seguito come filo condut-tore gli interventi a livello governativo o della banca centrale o dei responsabilidella politica finanziaria (i cosiddetti “gnomi della finanza”), che furono effet-tuati per mettere delle regole, affinché si attenuassero le conseguenze del prin-cipio paretiano. In questo intervento, abbiamo cercato di seguire le tensioni chesi crearono fra potere centrale e poteri locali o specifici; se vi fu una sopraffa-zione delle regole o degli indirizzi di politica economica; quale fu la redistribu-zione della ricchezza prodotta dagli interventi centrali.

I maggiori artefici degli interventi in materia di finanza, dall’unità d’Italiaai nostri giorni, furono Minghetti, Sella, Depretis, Crispi, Luzzatti, Beneduce,

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Stringher, Menichella, Mattioli, Cuccia, La Malfa e Carli. Particolarmente inte-ressante sarà la ricostruzione storica del mercato finanziario italiano dal primodopoguerra ai nostri giorni, allorché si attuò una politica di contenimento delmercato borsistico e di sostegno del mercato bancario. Questo processo, che fuvoluto da Beneduce e sostenuto, successivamente, dai suoi seguaci – Menichel-la, Mattioli, Cuccia, La Malfa e Carli –, si estrinsecò, principalmente, attraversole leggi bancarie del 1926 e del 1936, in base alle quali il potere monetario –detenuto dalla Banca d’Italia e dal Tesoro – controllò il mercato finanziario ita-liano ed aprì la strada ad un sempre maggiore intervento dello stato nell’econo-mia. Ciò significò un vero e proprio blocco del mercato finanziario. Solo dall’i-nizio degli anni Novanta del Novecento, con la creazione della Consob, sicominciò ad avere un mercato borsistico più aperto e informato a regole di con-trollo, che tuttavia furono insufficienti a contenere le speculazioni spietate.

Sull’importanza dello studio del capitalismo finanziario italiano, mi limi-terò a qualche considerazione effettuata da Luciano Segreto in un articolo pub-blicato sul primo numero della “Rivista di Storia Finanziaria”. Gli studiosi delcapitalismo finanziario, egli scriveva, “si muovono controcorrente rispetto aglialtri studiosi che hanno offerto interpretazioni generali della storia del capitali-smo italiano”2. Si tratta di un’altra immagine del capitalismo, “che fatica talvol-ta a coesistere con quella già consolidata dagli studiosi precedenti, quasi comese chi se ne occupa parlasse un’altra lingua e si riferisse a un altro capitalismo”3.Per dimostrare questa sua affermazione, Segreto confronta il censimento indu-striale del 1911 con quello del 1951 e i capitali investiti nelle società per azioninello stesso periodo. In base ai censimenti, il maggior numero di occupati, nel1911, si aveva nei settori tessile, alimentare e meccanico; nello stesso periodo, leprime 100 società con maggiore capitale si investito trovano nei seguenti setto-ri: finanziario, bancario, della navigazione, immobiliare e elettrico e chimico.Nel 1951, i censimenti riportavano che le società con maggior numero di ope-rai erano le stesse del 1911. Dal punto di vista finanziario, le società con mag-giori capitali, a partire dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta, erano lesocietà elettriche, seguite da quelle meccaniche e dalle banche. Se prendiamo inconsiderazione le capitalizzazioni di borsa, la situazione non cambia e troviamoin testa le banche e le società elettriche. Ciò significa che questi due settori –rappresentati da Motta, Pirelli, Feltrinelli, Volpi e Beneduce – erano i più fortidel capitalismo italiano ed erano quelli che, durante il periodo fra le due guer-re, ebbero un maggiore peso sulla politica del fascismo per i capitali che il set-tore era capace di rimuovere.

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2 L. SEGRETO, Assetti proprietari e grandi mediatori in Italia nella prima metà del Novecento,in “Rivista di Storia Finanziaria”, n. 1, luglio-dicembre 1998, p. 9.

3 Ibidem.

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Tenendo conto dell’importanza finanziaria dell’industria elettrica, LucianoSegreto propone finanche una diversa periodizzazione della storia industrialeitaliana. La crescita del capitalismo finanziario italiano, dalla fine dell’Ottocen-to alla fine della prima guerra mondiale, ebbe la sua evoluzione grazie agli inve-stimenti nel settore elettrico effettuati da alcune holding estere. Negli anniVenti, si ebbe il consolidamento di alcuni gruppi finanziari regionali; nel 1933,si ebbe la massiccia presenza dello stato nel capitalismo con l’entrata nell’IRInel settore elettrico. Nel 1935, le privatizzazioni dell’Edison e della Bastogidurarono fino alla nazionalizzazione del 1962-63. I protagonisti di questo capi-talismo furono: Fiat, Pirelli, Edison, Gruppo Sade, SME, Italcable, IRI, Fon-diaria, Ras, Generali, Banca Toscana, Monte dei Paschi di Siena e Banco diNapoli. Anche il mondo delle assicurazioni ebbe un ruolo importante nel capi-talismo finanziario che si formò fra le due guerre.

Nel secondo dopoguerra, non vi furono grandi mutamenti nell’assetto pro-prietario delle grandi famiglie del capitalismo italiano. Mentre Beneduce fu l’ar-tefice e il garante delle caratteristiche del capitalismo italiano nel periodo fra ledue guerre mondiali, Mediobanca, sotto la direzione di Cuccia (genero di Bene-duce), operò per la conservazione del potere finanziario di quelle famiglie. Imovimenti diretti a scompaginare quegli equilibri furono sempre rapidamentesoffocati. Cambiarono i governi, mutarono le politiche, la congiuntura econo-mica subì profonde variazioni, ma il potere finanziario di pochi rimase immu-tato, ciò dimostra che si trattò di un potere dotato di propri tempi e propriecaratteristiche che si distinguono da altri movimenti4.

I. La storiografia sul mercato borsistico

1. Le testimonianze dei protagonisti

Le ricerche sulla borsa hanno due facce: quella relativa allo studio dellemanovre finanziarie condotte dalle grandi famiglie del capitalismo italiano equella relativa allo studio delle istituzioni e del mercato borsistico legato alcomportamento degli investitori. Le difficoltà relative alle prime ricerche di-pendono dall’ermetismo dei protagonisti di quelle manovre e dai contrasti chevi furono fra loro, senza escludere la politica dei governanti, che, attraverso lamanovra monetaria, la politica fiscale e quella delle privatizzazioni, regolarono,spesso, quel comportamento. Lo studio del mercato borsistico cozza con le dif-ficoltà per la ricostruzione di una “storia economica dell’informazione”, la qua-le ebbe un peso determinante sul comportamento del risparmiatore. Determi-

4 Ibidem, pp. 14-16.

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nante per comprendere il mercato è la conoscenza degli indicatori fondamenta-li, i quali dipendono dalla conoscenza della contabilità delle imprese.

Appartengono alla categoria delle pubblicazioni relative al comportamentodegli attori principali del capitalismo i volumi scritti da giornalisti. Si trattadegli interessanti lavori di Fabio Tamburini sulla vita di due protagonisti delmercato finanziario italiano – Enrico Cuccia e Aldo Ravelli – e i volumi di Ste-fano Cingolani, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turoni sulla borghesia finanziariaitaliana5. Fabio Tamburini è un giornalista molto attento all’evoluzione del mer-cato finanziario, ma non lavora su documenti, né sulle dichiarazioni di Cuccia –d’altro canto raramente mise in pubblico il suo pensiero –, bensì su interviste dinumerosi protagonisti dell’economia e della politica italiana. Nel volume dedi-cato a Cuccia, viene delineata la figura del grande manovratore della finanzaitaliana, garante della stabilità del sistema, per cui le sue decisioni influironosugli assetti proprietari delle grandi imprese italiane: Montedison, Pirelli, Gene-rali, Fondiaria, Burgo, Olivetti, Fiat e molte altre. Tutte imprese, spesso, gestiteda famiglie, pronte a distruggersi a vicenda pur di conquistare una fetta semprepiù grossa del mercato finanziario italiano. L’autore sostiene che è possibilegestire la finanza di un paese senza esserne proprietario. È il caso di Cuccia, cheaveva la sola direzione di Mediobanca, ma ha influito per mezzo secolo sullafinanza italiana. Nonostante la pubblicazione di Tamburini, prima di arrivare achiarire le manovre finanziarie messe in atto dallo “gnomo” della finanza occor-rerà scavare molto sui documenti conservati negli archivi delle imprese6.

Il secondo volume di Tamburini è dedicato ad un uomo, Aldo Ravelli, che,come Cuccia, riteneva che “il silenzio fosse d’oro”. Nel settore finanziario, biso-gna essere molto riservati se non si vogliono commettere errori. Sulla base diquesto principio, Ravelli – un uomo di sinistra “con il portafoglio a destra” – fuil grande vecchio e uno dei maggiori protagonisti di “piazza affari”. Morto, nel1995, all’età di ottantatré anni, fu presente in tutte le grandi operazioni che sifecero alla Borsa di Milano, dal dopoguerra in poi, in qualità di “ribassistaimplacabile, abilissimo nel guadagnare puntando sul crollo dei titoli azionari”7.Nell’intervista che concesse a Tamburini, racconta le vicende di cui fu protago-nista. Viene alla luce uno spaccato nuovo della storia economica e finanziaria

5 F. TAMBURINI, Un siciliano a Milano. Nella storia di un protagonista le vicende della finanzae dell’economia italiana dal dopoguerra ad oggi, Longanesi e C., Milano, 1992; F. TAMBURINI,Misteri d’Italia. Aldo Ravelli, il re Mida della Borsa, racconta come diventare ricchi, i segreti deipotenti, io e la sinistra, Longanesi e C., Milano, 1996; S. CINGOLANI, Le grandi famiglie del capi-talismo italiano, Editori Laterza, Roma-Bari, 1990; E. SCALFARI e G. TURANI, Razza padrona. Sto-ria della borghesia di Stato e del capitalismo italiano, 1962-1974, Baldini e Castoldi, Milano, 1998.

6 F. TAMBURINI, Un siciliano a Milano, cit., pp. 7-12.7 F. TAMBURINI, Misteri d’Italia, cit., p. 7.

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d’Italia basato sulle vicende di tre borghesie: “quella di Agnelli e Pirelli, quelladi Berlusconi e quella di Cosa Nostra”8 e che comunque “c’è una sproporzioneenorme – egli afferma – tra l’illecito scoperto dai magistrati e quanto è real-mente accaduto. Sono rimasti quasi completamente inesplorati gli intrecci esi-stenti tra l’alta finanza, la politica, i servizi segreti e la mafia”9.

I due volumi di Tamburini, pur non potendosi considerare lavori scientifi-ci, sono testimonianze dei protagonisti della finanza italiana, pertanto costitui-scono il primo approccio per le future ricerche.

Nello stesso filone riteniamo di includere il volume del giornalista StefanoCingolani, sulle grandi famiglie del capitalismo italiano nel ventennio 1970-199010, dove vengono rilevati i rapporti di forza esistenti fra la proprietà delleimprese e il management. Le vicende dei protagonisti del capitalismo finanzia-rio trovano stretta connessione con l’economia di quel periodo, per cui l’autorerileva una certa minore dipendenza – rispetto ai decenni del fascismo e delperiodo della ricostruzione – dei mezzi propri delle imprese accompagnata dalrafforzamento dell’assetto proprietario e la conseguente riduzione del creditobancario; un maggiore ricorso al capitale di rischio; un rafforzamento dellagrande impresa affidato alla direzione manageriale. In questo processo, si ebbe ilsostegno dello stato e la presenza di “un tempio” assieme a un “gran sacerdote”del capitalismo italiano, Mediobanca ed Enrico Cuccia, “l’uno fornì la stanza dicompensazione dei maggiori conflitti, l’altro cercò di dirimerli, ma favorì anchequando riteneva necessario che esplodessero”. “Senza conoscere l’uno e l’altro –conclude Cingolani – non si capisce la storia economica di questo dopoguerra esoprattutto del ventennio [1970-1990] più tumultuoso del capitalismo italiano”11.Cingolani riconosce l’importanza degli avvenimenti finanziari per la ricostruzionedella storia economica, tuttavia il suo lavoro può essere considerato solo comel’interpretazione di avvenimenti vissuti da giornalista, per cui possono conside-rarsi, prevalentemente, cronache e non ancora storia.

Le stesse caratteristiche possiede il volume di Eugenio Scalfari e GiuseppeTurani dal titolo emblematico “Razza padrona. Storia della borghesia di Stato edel capitalismo italiano 1962-1974”12. Un volume pubblicato, nel 1974, eristampato dopo venticinque anni, nel 1998, senza alcuna aggiunta o modifica,perché la storiografia finanziaria sull’argomento non ha fatto passi avanti. Illibro potrebbe intitolarsi “una preziosa occasione perduta dal capitalismo ita-

8 Ibidem, p. 202.9 Ibidem, retro della sovracoperta.10 S. CINGOLANI, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Editori Laterza, cit., pp. 275-276.11 Ibidem, p. 87.12 E. SCALFARI e G. TURANI, Razza padrona, cit.

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13 Ibidem, p. 29.14 Ibidem, p. 27.15 Ibidem, p. 22.16 N. DE IANNI, Gli affari di Agnelli e Gualino (1917-1927), Prismi, Napoli, 1998.

liano”, poiché i capitali che lo stato pagò per la nazionalizzazione dell’energiaelettrica avrebbero potuto trovare una giusta collocazione per il rafforzamentodel capitalismo privato, invece, una metà di quei capitali, attraverso l’IRI e laMontecatini, fu gestita dalla borghesia di Stato e l’altra metà, secondo gli auto-ri, fu “dispersa, polverizzata, dissipata”13. La nazionalizzazione contribuì a farscomparire le famiglie del “gruppo veneto” dell’energia elettrica (Volpi, Cini eGaggio) della Bastogi e della Centrale. Sotto i colpi di Eugenio Cefis scompar-vero quasi tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione della Bastogi,che può considerarsi una delle prime società finanziarie italiane. “Il salottobuono dei vecchi padroni era stato brutalmente invaso dalla nuova borghesia distato guidata dal presidente della Montedison (Cefis). Dei nomi antichi si erasalvato solo Pesenti, in forza dell’alleanza contratta con nuovi padroni”14. Il giu-dizio degli autori sull’utilizzo dei capitali pagati dallo stato per la nazionalizza-zione è molto severo: “quei miliardi furono sprecati al vento. Peggio: misero inmoto o aggravarono una serie di elementi negativi di carattere industriale,finanziario e politico che contribuirono potentemente alla degenerazione delsistema quale oggi lo conosciamo”15. Si tratta del giudizio di due osservatoridella realtà, che hanno vissuto dall’esterno le vicende finanziarie del periodo1964-74, ma la storia vera di quel periodo bisogna ancora scriverla.

Pur rientrando nel filone della storia dei protagonisti del capitalismo italia-no, diversa è la pubblicazione di Nicola De Ianni sui rapporti finanziari inter-corsi fra Gualino ed Agnelli, fra il 1917 e il 192716. Essa ha spessore scientifico,perché costruita su una documentazione inedita, costituita dalle carte dell’Ar-chivio personale di Gualino. Da questo lavoro si ricava l’applicazione della teo-ria dell’ottimo paretiano, per cui si ha una ottima allocazione delle risorse, nonin base alla loro utilità per le società, bensì in base alle circostanze che al miglio-ramento della condizione di un individuo corrisponde il peggioramento di unaltro. Così vengono alla luce complesse manovre finanziarie compiute da Gio-vanni Agnelli e Riccardo Gaulino per accaparrarsi delle proprietà della Fiat,ricorrendo, durante la prima guerra mondiale, al mercato dell’azionariato diffu-so e, dopo la guerra, alle finanziarie ed ai sindacati di blocco. Un momento cen-trale dei rapporti fra i due protagonisti del capitalismo italiano fu la vicendadell’occupazione della Fiat da parte degli operai. Agnelli si oppose alla pressio-ne degli operai e decise di vendere le azioni di sua proprietà. Gualino divenneproprietario della Fiat acquistando il 75 per cento del capitale. Solo quando

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passò la ventata di agitazioni, Gualino, che era principalmente impegnato a farquattrini e non gestire una impresa industriale, rivendette la società ad Agnelli.Questo episodio, poco noto alla storiografia sulla industria italiana, chiariscequanto sia importante ricostruire gli avvenimenti sulla documentazione inedita.Tra le numerose novità del volume di De Ianni vanno sottolineate le scalate cheGualino fece al Credito Italiano, specialmente la terza, quando il governo, pre-sieduto da Mussolini, nel 1924, per bloccare l’operazione, sospese il diritto disconto, costringendo Gualino a rivendere le azioni della banca. La vicendamette in luce l’importanza che il potere politico attribuiva alle manovre finan-ziarie ed ai rapporti esistenti fra potere politico e imprenditori. In questo caso,viene alla luce il rapporto di forza fra potere politico e potere finanziario. Que-sto rapporto vale anche per Bondi, Perroni, Ravelli, De Benedetti e moltissimialtri che utilizzarono la borsa per le loro manovre finanziarie, influendo negati-vamente sull’economia reale.

2. Le istituzioni e il mercato finanziario

Un secondo filone di ricerche relativo al mercato finanziario si è indirizza-to all’esame delle istituzioni e del mercato borsistico, evidenziando i seguentiaspetti: i mutamenti delle disposizioni che regolarono i mercati; le caratteristi-che del mercato primario e quello secondario; il rapporto fra ciclo di risparmioavviato alle industrie per mezzo del sistema bancario e capitali rastrellati attra-verso la borsa; l’esame del risparmio accantonato dagli amministratori, definito“risparmio forzato”, e la conseguenza che tale forzatura ebbe sull’andamentodell’economia e sul funzionamento del “mercato perfetto”, inteso, in terminiparetiani, come ottimo allocatore delle risorse. Queste considerazioni vengonoalla luce dall’esame del mercato primario e secondario effettuato dalle mie duepubblicazioni sulla storia delle Assicurazioni Generali17, da quella di De Iannisulla Fiat18 e da quella di Schisani sulla Borsa di Napoli19.

Con le ricerche sulla storia delle Assicurazioni Generali, non potendo uti-lizzare la documentazione archivistica, tenendo conto degli aumenti di capitaleeffettuati dalla società e dei dati contenuti nei bilanci pubblicati, si è potutorilevare il rapporto esistente fra risparmio raccolto dagli azionisti e risparmioavuto in prestito dalle banche, ma anche il rapporto fra risparmio volontario e

17 F. BALLETTA, Capitali, borse e assicurazioni in Italia nella seconda metà del Novecento, Arte Ti-pografica, Napoli, 1997; F. BALLETTA, Mercato finanziario e Assicurazioni Generali, ESI, Napoli, 1995.

18 N. DE IANNI, Capitale e mercato azionario. La Fiat dal 1899 al 1961, ESI, Napoli, 1995.19 M.C. SCHISANI, La Borsa di Napoli (1778-1860). Istituzioni, regolazioni e attività, ESI,

Napoli, 2001.

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“risparmio forzato”, cioè quella parte di utile non distribuito per favorire gliinvestimenti nella fase di espansione dell’economia. A questa politica si con-trappose quella diretta a distribuire una parte consistente degli utili al fine diconsolidare il capitale e tamponare eventuali rischi di perdita del valore dei tito-li. Dall’attuazione di queste contrapposte politiche è stato possibile calcolare ilguadagno realizzato da coloro che, nell’arco di quasi cento anni, effettuaronoinvestimenti in azioni delle Assicurazioni Generali.

Per l’esame dell’andamento delle quotazioni dei titoli è stata utilizzata l’a-nalisi tecnica, che serve a prevedere l’andamento delle quotazioni future, nelbreve periodo, tenendo conto dell’andamento storico delle quotazioni. All’ana-lisi tecnica abbiamo contrapposto l’analisi fondamentale, basata sulla capitaliz-zazione di borsa e sugli indici di redditività delle Generali.

A questo mio lavoro si affianca quello di De Ianni sulla storia della Fiat frail 1899 e il 1961, dove si effettua un’analisi dei dati di bilancio e del mercatoprimario e secondario delle quotazioni della Fiat.

Maria Carmela Schisani ricostruisce le vicende della Borsa di Napoli dallasua costituzione (1778) fino al momento dell’unità d’Italia. L’obiettivo è quellodi valutare le complesse cause socio-politiche ed economiche responsabili del-l’arretratezza del mezzogiorno borbonico, attraverso le vicende ed il ruolo svol-to dall’istituzione finanziaria. Lo studio si compone di tre livelli di analisiinscindibili: istituzionale, sociale e operativo e si svolge in un contesto – assun-to come premessa – in cui il modello economico del regno meridionale assumele seguenti caratteristiche: 1) condizionamento della posizione di debolezzafinanziaria dei governanti; 2) controllo di un gruppo ristretto di operatori eco-nomici forti avallati da un ordinamento istituzionale di base, che fallisce il suoobiettivo garantista, non riuscendo a creare una struttura stabile di relazionisociali ed economiche. L’intervento legislativo assume caratteristiche di periodi-cità e settorialità. Lo stato interveniva con lo scopo di interrompere le opera-zioni di speculazione, prima che le stesse si trasformassero in definitiva egemo-nia su un determinato settore di mercato. Tale condotta dimostra che lo statonon si voleva sottrarre alle regole del gioco, cui esso stesso partecipava per lenecessità finanziarie derivanti dall’esercizio del proprio potere e per il finanzia-mento del debito pubblico.

Nel corso della storia della Borsa di Napoli, ci si imbatte in cicli di duratamolto diversa, i cui punti di inversione sono generalmente scanditi da interven-ti istituzionali. 1) La prima opportunità che aprì la strada alla formazione dellaBorsa fu il cambio, nel periodo di transizione settecentesca, in cui la piazzamercantile chiedeva di affrancarsi dalla pratica del cambio indiretto; 2) dopo ildecennio francese – che aveva contribuito a proiettare la Borsa nella sua fun-zione propriamente operativa, con l’allargamento degli affari alla negoziazionedei titoli del debito pubblico –, gli anni ’20 dell’800 furono caratterizzati dall’i-

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20 S. BAIA CURIONI, Regolazione e competizione, storia del mercato azionario in Italia (1808 -1938), Milano, 1995; S. BAIA CURIONI, Modernizzazione e mercato. La Borsa di Milano nella“nuova economia” dell’età giolittiana, Milano, 2000; S. BAIA CURIONI, La Borsa Valori, in “AA.VV.,Storia di Milano, vol. XVIII, Il Novecento”, Enciclopedia Italiana, Milano, 1996; S. BAIA CURIO-NI, La comunità finanziaria milanese e la ricostruzione del sistema finanziario, in “G. De Luca (acura di), Pensare l’Italia nuova: la cultura economica milanese”, Franco Angeli, Milano, 1997; S.BAIA CURIONI, Riflessioni sui mercati finanziari in epoca giolittiana, in “Pensiero economico ita-liano”, a. 3, fasc. 2; S. BAIA CURIONI, Il telegrafo e la formazione di un sistema integrato di merca-ti mobiliari in Italia (1888-1905), in “Società Italiana degli Storici dell’Economia, Innovazione esviluppo. Tecnologia e organizzazione fra teoria economica e ricerca storica (secoli XVI-XX)”,Monduzzi Editore, Bologna, 1996; S. BAIA CURIONI, Sull’evoluzione istituzionale della Borsa Valo-ri di Milano (1898-1941), in “Rivista di Storia Economica”, 1991, numero unico.

21 E. BOCCIA, La Borsa di Milano tra miracolo e crisi (1958-1978), Prismi, Napoli, 2000.22 G. MASTROIANNI, Le emissioni obbligazionarie nel mercato finanziario italiano (1926-

1938), Prismi, Napoli, 2000.23 F. TARTAGLIA, Fisco e mercato finanziario in Italia (1914-1945), Prismi, Napoli, 2000.

nizio della speculazione sulla rendita; 3) nel biennio 1833-35, rientrata l’emer-genza finanziaria della restaurazione, nel momento in cui i titoli pubblici eranorisaliti ad una posizione di relativa stabilità, l’intervento dello stato dirottò, for-zosamente, gli interessi verso le società anonime. La speculazione azionaria fuun ciclo di durata limitatissima (dal 1833 al 1835), che fu, bruscamente, inter-rotto dai provvedimenti regolamentari del 1834 che impedirono lo sconto di“soldi” e pensioni; 4) il 1835 fu un anno di svolta, in corrispondenza del tra-monto societario e, contestualmente al fallimento del progetto di conversionedella rendita pubblica, l’orizzonte di azione degli operatori napoletani portò inprimo piano la borsa merci rispetto ai ridotti margini speculativi della borsavalori. A partire dal biennio 1834-35, l’interesse mercantile si rivolse verso ilmercato granario. Il ciclo speculativo sul grano ebbe durata notevole e assunsetoni patologici, dal 1840 in poi, dopo il nuovo contratto per le forniture milita-ri di grano e avena (1839), che prevedeva la commisurazione dei prezzi daapplicare alle derrate alla media dell’ultimo semestre di Borsa.

Queste prime ricerche di Balletta, De Ianni e Schisani aprono la strada asuccessive indagini di storia delle imprese italiane al fine di costituire un mosai-co del mercato finanziario italiano.

A questi tre lavori si affiancano le ricerche di Stefano Baia Curioni20, ElisaBoccia21, Gianpaolo Mastroianni22 e Filomena Tartaglia23. Stefano Baia Curioniè stato uno dei primi studiosi del mercato borsistico milanese. Il lavoro piùsignificativo è quello relativo al mercato azionario in Italia, dal 1808 al 1938,dove si affronta la Borsa di Milano come oggetto di ricerca autonomo delinea-to nelle sue varie sfaccettature: economiche, politiche, istituzionali ed organiz-zative in un’ottica di lungo periodo, dove confluiscono, sedimentandosi, “usi,

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saperi, poteri”. La principale innovazione consiste nell’impostazione del lavoro,che, affrontando, criticamente, il dibattito internazionale sul ruolo delle istitu-zioni in generale e sui nodi fondamentali del mercato azionario (vendite a ter-mine e speculazione), arriva, progressivamente, ad un’analisi del significato del-l’istituzionalizzazione delle contrattazioni, delle “invarianze” nell’assetto orga-nizzativo e nel sistema decisionale della Borsa di Milano e del condizionamen-to che operò nella definizione del ruolo del mercato per lo sviluppo economicoitaliano.

Le carenze del mercato borsistico italiano vengono attribuite da BaiaCurioni ai ben noti vincoli della dipendenza dell’economia italiana dal ciclointernazionale e della contraddittoria presenza dello stato, da una parte, soste-nitore dello sviluppo industriale e, dall’altra, operatore attivo dominante, attra-verso i valori pubblici, e dunque antagonista della crescita del mercato aziona-rio. L’autore opera una rilettura di tali nodi del sistema economico italiano tro-vando significativi raccordi con i risultati ottenuti da Ranald Michie relativa-mente all’esperienza inglese ed americana. La Borsa di Milano è, in sintesi, nel-l’accezione dello stesso autore, “un contenitore degli scambi” di cui vengonoanalizzati gli assetti istituzionali e i relativi processi decisionali che condusseroa certi risultati.

L’analisi condotta da Baia Curioni evidenzia una periodizzazione mediatacon i cicli di borsa. 1) Dal 1808 e fino al 1894, la Borsa di Milano non compìgrandi progressi rimanendo in una dimensione localistica. 2) Una fase di ripre-sa si ebbe dal ’94 in poi, anno in cui, oltre all’avvio di un significativo processodi integrazione tra le piazze (dovuta all’introduzione del telegrafo e della stanzadi compensazione), si ebbe la crescita dell’economia e dell’ingresso di nuovititoli azionari nel listino (bancari e metallurgici). 3) Il periodo della grande svol-ta, però, fu quello del quindicennio immediatamente precedente il primo con-flitto mondiale, allorché fu rotto il “patto” che legava i poteri governativi ed iprotagonisti dell’accumulazione finanziaria. Il mercato mobiliare, con la cresci-ta delle attività speculative, attraversò, dal 1900 al 1913, un periodo di prova.Partendo da un significativo decollo del mercato azionario (1903), si assistettealla violenta crisi istituzionale degli agenti di cambio (1904) e al delinearsi dichiari segnali di modifica nelle modalità di raccolta del capitale di rischio(1904-1906), arrivando allo scossone della grande crisi di liquidità e sovrappro-duzione. I risultati di queste turbative vennero raccolti nel provvedimento dilegge del 1913, che sancì la definitiva vittoria della banca mista sulla borsa. Laspaccatura tra la disciplina bancaria e quella borsistica diventò uno strumentoformale per consentire i giochi di potere dell’alta banca, che privata di respon-sabilità pubblica, rimase arbitro, pressoché unico, all’interno della Borsa, con-solidando, così, un non semplice movimento già in atto da oltre un decennio.Là dove, formalmente, i monopolisti delle borse erano gli agenti di cambio, la

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banca mista affiancò ai poteri già acquisiti una legalizzazione alle grida ed unamassiccia presenza in Deputazione, identificando, in tal modo, funzioni di con-trollore e di controllato. 4) La legge del 1913 aveva rimandato la questione dellapresenza alle grida dei soli agenti di cambio. Nel 1925, un decreto di De Stefa-ni, attuò un maggior controllo sul mercato finanziario, con l’intento di creareun mercato “pubblico” rivendicato dal governo fascista, desideroso di assume-re un ruolo autonomo nei confronti dei grandi intermediari e, contemporanea-mente, distogliere dal governo dell’economia il ceto degli industriali. In effetti,solo dopo la crisi del ’31 si giunse all’assorbimento in una sfera connessa alpotere governativo. Essendosi avviata, sin dal ’25, ma non del tutto applicata,questa tendenza al potenziamento dei pubblici poteri che si realizzò, in terminipiù pratici, con l’opera del Beneduce e con la legge del ’36. 5) In tal modo, l’at-tività della Borsa fu molto ridotta ed ulteriormente soffocata da provvedimentifiscali (tra questi si rammentano: l’imposizione di un’aliquota del 20 per centosui rendimenti del titoli al portatore, di una patrimoniale progressiva sui titoliazionari, di una sovrimposta del 5 per cento sulle contrattazioni azionarie, dellanominatività obbligatoria dei titoli azionari, ecc.). Con la caduta dei grandiintermediari, nel ’36, fu la volta del regolamento che sancì il tramonto dellabanca universale, instradando il sistema finanziario italiano verso la specializza-zione e creando canali di allocazione del risparmio indipendenti dal mercatomobiliare. 6) Il consolidarsi della presenza dello stato e del corpo degli agentidi cambio e la disfatta dei centri intermedi di potere, come le banche miste e lecamere di commercio, il listino di Borsa non si ampliò, l’investimento azionariodeclinò a favore di quello a reddito fisso e in titoli pubblici. Dunque, la borsaitaliana andò assumendo la tipologia che la caratterizzò fino alla fine del Nove-cento.

Secondo Baia Curioni, la Borsa di Milano compì un ciclo di “evoluzione alcontrario”, in base a un processo che vide un lungo periodo di marginalitàrispetto al sistema economico, un periodo di vivace espansione con il coinvol-gimento della banca dell’età giolittiana (1897-1906), fino ad arrivare ad unlungo periodo di marginalizzazione.

Tra i diversi aspetti del mercato borsistico studiati da Baia Curioni vengo-no alla luce le influenze che le innovazioni tecnologiche ebbero sull’andamentodel mercato borsistico. In particolare, egli prende in esame l’uso del telegrafo edel telefono e l’influenza sul processo di formazione dei prezzi di borsa in alcu-ne piazze italiane: Genova, Milano e Torino. La sua tesi è che l’innovazione tec-nica deve essere studiata in relazione alle istituzioni e all’organizzazione deimercati. Le soluzioni complessive da adottare sarebbero variate in base alladiversa organizzazione e ai rapporti fra istituzioni ed organizzazione. L’obietti-vo finale per il mercato borsistico è quello di evitare che, all’interno dello stes-so mercato, si formino prezzi differenti da quelli che si sarebbero formati dal-

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l’incontro della domanda e dell’offerta complessiva24. Anche in questo casoviene alla luce l’ottimo paretiano dell’allocazione delle risorse. In relazioneall’uso del telegrafo, analizzando gli scarti fra i prezzi quotidiani delle borse diGenova, di Milano e di Torino, si ebbe una maggiore integrazione nel loro fun-zionamento. Contemporaneamente, si creò un sistema di reciproche influenzeche misero in luce le carenze delle regole stabilite per il loro funzionamento25.

La ricerca di Elisa Boccia, relativa alla Borsa di Milano, nel periodo 1958-1978, stabilisce il ruolo che svolse il mercato finanziario nell’allocazione dellerisorse e nello scambio dei titoli. Tiene conto della politica fiscale e finanziariaadottata dai governi. Il lavoro è basato su una opportuna riclassificazione dellistino di borsa al fine di misurare le emissioni qualitative e quantitative dei tito-li azionari ed obbligazionari. Viene applicata l’analisi fondamentale ai dati rela-tivi alle emissioni di titoli in occasione di aumenti di capitali e per valutare laredditività delle imprese. Il risultato finale è che il mercato finanziario italianoera inefficiente, per lo scarso contributo all’allocazione del risparmio nelleimprese e la poca attrazione dei risparmiatori verso il capitale di rischio26.

Mastroianni studia il mercato obbligazionario in un periodo particolaredella storia finanziaria italiana, gli anni compresi fra il 1926 ed il 1938, allorché,per la crisi delle banche miste, che effettuavano finanziamenti a lungo terminealle imprese, si ricorse al credito obbligazionario per mezzo degli istituti creatidallo stato, cioè il Consorzio di credito per le opere pubbliche (Crediop), l’Isti-tuto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità (ICIPU), l’Istituto MobiliareItaliano (IMI) e l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Il volume con-tiene un esame della tecnica di emissione, della normativa fiscale relativa ai tito-li obbligazionari, i privilegi concessi alle banche pubbliche volute dal fascismoe conosciute come istituti Beneduce, nonché il rapporto intercorso con la poli-tica monetaria deflazionistica dell’epoca27.

La minuziosa ricerca compiuta da Filomena Tartaglia mira a misurare l’in-fluenza che i provvedimenti tributari, emanati dalla prima alla seconda guerramondiale, ebbero sul mercato azionario ed obbligazionario. Dalla ricerca risul-ta una chiara volontà del fascismo di soffocare l’attività delle borse per mezzodella leva fiscale o con l’emanazione di provvedimenti che non favorivano gliinvestimenti in azioni, come per le operazioni a termine, la copertura in titoli, oin contanti, per il 25 per cento dell’ammontare dell’operazione. In generale, ilfisco ebbe una elevata responsabilità dell’asfittica attività delle borse italiane:

24 S. BAIA CURIONI, Il telegrafo e la formazione di un sistema integrato di mercati mobiliari inItalia (1888-1905), cit., pp. 377-378.

25 Ibidem, p. 385.26 E. BOCCIA, La Borsa di Milano, cit., pp. 9-10.27 G. MASTROIANNI, Le emissioni obbligazionarie, cit., pp. 9-10.

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determinò le scelte degli operatori economici, indirizzò l’allocazione del rispar-mio e la redistribuzione delle risorse disponibili28.

Per ultimo ho lasciato un gruppo di quattro pubblicazioni, di cui tre devo-no considerarsi un racconto, molto generale, della storia della borsa italiana,dall’Unità ai nostri giorni, e la quarta una preziosa fonte per le future ricerche.I primi tre lavori sono quelli di Alessandro Aleotti29, Giovanni Siciliano30 e Ales-sandro Volpi31, il terzo è stato curato da Giuseppe De Luca in collaborazionecon Giuseppe Poletta e Sara Zanisi32.

Il lavoro di Aleotti, pur non essendo il risultato di una ricerca documenta-le, né la sintesi di un congruo numero di ricerche sulla storia finanziaria delleimprese, può considerarsi una descrizione di lungo periodo del rapporto fraprovvedimenti politico – legislativi e fluttuazioni delle quotazioni dei titoli.Secondo Aleotti, il risultato di tale rapporto fu sfavorevole per il mercato finan-ziario – in aggiunta alla presenza delle banche e di un consistente debito pub-blico – per cui non si ebbe la formazione di un mercato borsistico maturo,capace di indirizzare i risparmi verso gli investimenti produttivi33.

Anche il volume di Siciliano analizza, nell’arco di cento anni (l’interoNovecento), il rapporto fra operazioni di borsa e politica economica, assiemeall’andamento della congiuntura italiana. Anche per tale lavoro si rileva unasostanziale coincidenza fra quotazioni ed eventi più significativi della storia eco-nomica italiana: dissesti bancari, nell’immediato primo dopoguerra, scomparsadelle banche miste, creazione degli istituti Beneduce, seconda guerra mondiale,nazionalizzazione dell’energia elettrica e crescita delle imprese pubbliche. È lostesso autore che non annovera il suo lavoro tra i saggi di storia economica –“poiché non vi è lavoro, egli scrive, basato sull’accesso diretto a fonti docu-mentali e a materiale di archivio” – bensì fra i “lavori di economia finanzia-ria”34, dove si effettua un’analisi delle serie storiche dei rendimenti delle azioni,confrontati con i rendimenti dei titoli pubblici. Il risultato, nel lungo periodo,fu la maggiore convenienza ad investire in titoli di rischio, che non in titoli pub-blici. Dal confronto con il rendimento dei titoli degli Stati Uniti, o di altri paesieuropei, il rendimento dei titoli azionari italiani fu inferiore. La ragione del

28 F. TARTAGLIA, Fisco e mercato finanziario, cit., pp. 9-10.29 A. ALEOTTI, Borsa e industria. Cento anni di rapporti difficili, Edizioni di Comunità, Mila-

no, 1990.30 G. SICILIANO, Cento anni di borsa in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001.31 A. VOLPI, Breve storia del mercato finanziario italiano dal 1811 ad oggi, Carocci Editore,

Roma, 2002.32 G. DE LUCA (a cura di), Le società quotate alla Borsa Valori di Milano dal 1861 al 2000.

Profili storici e titoli azionari, Libri Scheiwiller, Milano, 2002.33 A. ALEOTTI, Borse e industrie, cit., pp. 9-11.34 G. SICILIANO, Cento anni, cit., p. 7.

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35 Ibidem, p. 9.36 Ibidem, p. 11.37 A. VOLPI, Breve storia del mercato finanziario, cit., pp. 175-177.

minor rendimento dipenderebbe dalla presenza, in Italia, del “rischio di espro-priazione” dei titoli, che non esiste in altri paesi. Il basso livello delle quotazio-ni azionarie avrebbe influito, negativamente, sulla convenienza a quotare inborsa i titoli di molte società. Lo stesso autore riconosce che su tale decisioneinfluirono anche altri elementi, come la pressione fiscale, ma questo – diversa-mente da quanto sostengono Aleotti ed altri – avrebbe avuto minore influenzarispetto al basso rendimento35. Un altro aspetto che rimane irrisolto è il rap-porto fra variazione degli investimenti in capitali di rischio e dividendi distri-buiti. In alcuni periodi (dagli anni Venti agli anni Settanta), gli alti dividendidistribuiti non favorirono gli investimenti dei risparmi in titoli azionari. Altraragione che influì, negativamente, su tali investimenti fu la scarsa difesa degliazionisti di minoranza, per cui, di fronte al prevalere dei potenti gruppi fami-liari, raramente si formò un azionariato diffuso36.

Della carenza di ricerche di base sul mercato finanziario risente anche ilvolume di Alessandro Volpi. Pertanto, nella ricerca sulle cause che influironosul magro listino della Borsa di Milano – nonostante la presenza di un consi-stente numero di società anonime italiane – l’autore è costretto a fare delle sup-posizioni: mancanza di una classe di intermediari finanziari, cioè carenza diagenti di borsa; mancanza di una “rete di protezione” capace di difendere ilmercato dalla volatilità e dai facili assalti degli speculatori; carenza di fondicomuni di investimento arrivati in Italia troppo tardi; carenza di istituti assicu-rativi che investivano il ricavato dei premi in titoli; frammentazione del merca-to finanziario, per cui i titoli emessi per aumenti di capitale, spesso, venivanocollocati attraverso circuiti informali; l’accostamento della borsa non ad unluogo per dirottare i capitali verso le imprese, bensì a luogo dove prevaleva ilgioco d’azzardo e la speculazione, anche in relazione all’assenza di regole pre-cise che avrebbero dovuto gestire le borse, tenuto conto che la Consob comin-ciò a funzionare solo all’inizio degli anni Novanta37. La risposta a queste sup-posizioni, introdotte nei lavori di Aleotti, Volpi e Siciliano, si avrà solo dopoaver condotto numerose ricerche costruite sulla base di una vasta documenta-zione.

Diverso è il lavoro coordinato da De Luca e pubblicato in un grosso volu-me. Assieme ad un profilo storico della Borsa di Milano sono presentate, inbreve, le storie di ben ottocento imprese che, fra il 1861 e il 2000, furonoammesse al listino di quella Borsa. Nella breve storia della Borsa, De Lucamette in evidenza come, con il crescere del mercato finanziario italiano, negli

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ultimi decenni del Novecento, si delineò la separazione fra attività produttivaed attività finanziaria, cioè fra economia reale ed economia finanziaria. Laseconda con proprie caratteristiche e propri profitti38. È questa la stessa consi-derazione che si ricava dalle ricerche che ho effettuato sulla storia finanziariadelle Assicurazioni Generali, dove l’attività assicurativa era separata da quellafinanziaria, con una sua gestione ed utili propri direttamente dipendenti dalmercato finanziario italiano e dalle grandi borse internazionali. In questa ottica,entra la politica dei passaggi di proprietà delle grandi aziende, il sistema dellescatole cinesi, prima la pubblicizzazione delle imprese dagli anni Trenta in poie la privatizzazione degli ultimi anni. Ma il pregio della ricerca di De Luca vaindividuato, oltre che nelle tavole di iscrizione e cancellazione delle imprese dallistino, principalmente nella breve biografia delle società quotate: denominazio-ne sociale, capitale sociale, tipo di attività, anno di ammissione e di cancellazio-ne dal listino delle quotazioni. Non è la storia dettagliata di 800 società, chesarebbe stata impossibile realizzare in una pubblicazione di 700 pagine, ma laguida per ulteriori ricerche, potremmo dire la base per avviare una vera storiadel capitalismo finanziario italiano.

II. Sulla storia delle assicurazioni

1. I primi tentativi di ricostruzione di una storia generale delle assicurazioni

Come abbiamo rilevato per la borsa, anche per l’attività assicurativa lericerche finora compiute, in Italia, sono scarse e con diversa impostazione. Leragioni del disinteresse degli storici per tale settore non mi sono chiare. Possia-mo dare due interpretazioni: la difficoltà di individuare il servizio prodottodalle compagnie di assicurazione, oppure le difficoltà di interpretazione del set-tore finanziario, che ha assunto una sempre maggiore importanza nell’ambitodelle attività assicurative. Per la prima ragione si tratta della produzione di unbene “immateriale” di difficile valutazione: la sicurezza degli individui e dellacollettività, ossia il superamento di incertezze e paure che prospettano il futuroad un individuo o ad una impresa influendo sulla loro qualità della vita. Que-sto servizio, molto spesso, non è soggetto a una misurazione precisa e lo stori-co trova difficile avvicinarvisi. Sotto l'aspetto finanziario, la valutazione dell’at-tività di una impresa assicurativa diviene difficile, perché si tratta dell’utilizzo dicapitali altrui che vengono affidati all’impresa assicurativa nella speranza di unabuona gestione. La sorte dell’impresa assicurativa, da un lato, è legata alle infor-mazioni che essa è capace di procurarsi intorno al verificarsi dell’evento futuro

38 G. DE LUCA (a cura di), Le società quotate, cit., p. 25.

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e dall’altro è legata alla buona conoscenza del mercato finanziario in cui opera.Capire come è gestita un’impresa non è cosa facile: occorre una buona prepa-razione delle tecniche di calcolo e della gestione contabile. Per lo storico èanche difficile avere la disponibilità della ricca documentazione raccolta dallecompagnie di assicurazione, decisamente restie ad aprire i loro archivi agli stu-diosi.

Anche per il settore assicurativo, come per la borsa, dobbiamo rilevarel’esistenza di due tipi di pubblicazioni: una che traccia le linee essenziali del-l’evoluzione dell’attività assicurativa e l’altra che riguarda la storia di singoleimprese. Nel primo filone, rientra un volumetto di appunti di storia delle assi-curazioni di Ennio De Simone39, il volume di Roberto Baglioni sulle assicura-zioni in Italia dal medioevo ai giorni nostri40 e l’articolo di Giuseppe Cassan-dro sui lineamenti storici delle assicurazioni41. Nelle ricerche relative alle sin-gole imprese rientrano le mie due pubblicazioni sulla storia delle Assicurazio-ni Generali42 e il volume, in due tomi, di Tommaso Fanfani relativo ai centoanni di storia di Alleanza Assicurazioni43, nonché l’articolo di Nicola De Iannisul lavoro dei colletti bianchi alle Assicurazioni Generali, nel decennio 1968-197944.

Nei tre volumi di storia delle assicurazioni in generale vengono tracciate,sulla base di una scarna bibliografia esistente sulle singole imprese di assicura-zione – costituite, per la maggior parte, di commemorazioni di particolarimomenti aziendali –, l’evoluzione dei contratti di assicurazione dal medioevoall’età del mercantilismo e all’età contemporanea. Si tratta della storia dei primicontratti di assicurazione relativi ai trasporti marittimi e delle prime disposizio-ni di legge, del 1300 e del 1400, che regolarono l’attività assicurativa. Per l’e-poca contemporanea, si citano le prime compagnie di assicurazioni che sorseroa Trieste e in Piemonte; si sottolinea il ruolo delle società di mutuo soccorso che

39 E. DE SIMONE, Appunti di storia delle assicurazioni, Arte Tipografica, Napoli, 1991.40 R. BAGLIONI, L’assicurazione in Italia dal medioevo ai giorni nostri, IFA-Publiass, Milano,

1996.41 G. CASSANDRO, Lineamenti storici dell’assicurazione, in “Diritto e pratica dell’assicurazio-

ne”, fasc. 1, gennaio-marzo 1976, pp. 559-580.42 F. BALLETTA, Mercato finanziario e Assicurazioni Generali, cit.; F. BALLETTA, Capitali, borsa e

assicurazioni in Italia nella seconda metà del Novecento, cit.43 T. FANFANI, Alleanza Assicurazioni. Cento anni di storia, Alleanza Assicurazioni S.p.A.,

Milano, 1998; Atto costitutivo, uomini, dati e bilanci. Appendice a Alleanza Assicurazioni. Centoanni di storia, Alleanza Assicurazioni S.p.A., Milano, 1998.

44 N. DE IANNI, I mutamenti nel lavoro delle assicurazioni: le Generali da Baroncini a Merzagora(1968-1979), in “Società Italiana degli Storici dell’Economia, Il lavoro come fattore produttivo ecome risorsa nella storia economica italiana”. Atti del convegno di studi, Roma, 24 novembre 2000,a cura di S. Zaninelli e M. Toccolini, Vita e Pensiero Università, Milano, 2002, pp. 445-465.

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ebbero per i lavoratori dell’Ottocento. Per il Novecento, con la presenza sem-pre più consistente dello stato nell’economia, si rileva il ruolo del welfare statenel settore dell’assistenza e della previdenza. In particolare, Baglioni mette inevidenza le profonde trasformazioni subite dalle assicurazioni con la rivoluzio-ne industriale. Egli sottolinea che era un’attività relegata ai margini della vitaeconomica, poiché l’analisi degli economisti era incentrata, esclusivamente,sulla crescita della produzione. Il miglioramento della qualità della vita, chederiva dalle assicurazioni, veniva marginalizzato con l’evolversi delle società. Iltimore di perdite aziendali portò in primo piano l’assicurazione dei risk mana-gement, che serve a tranquillizzare l’imprenditore sui risultati del suo operato.Altri temi affrontati da Baglioni sono la specializzazione dell’attività assicurativa,la trasparenza nella stipula dei contratti, i mutamenti degli assetti proprietaridelle compagnie di assicurazione e la sempre maggiore internazionalizzazionedell’attività assicurativa. La specializzazione si rilevò una strada obbligata, allor-ché si passò dalla concezione che l’attività assicurativa fosse legata alla scom-messa e alla valutazione di quelle attività con metodi scientifici con la valuta-zione attuariale dei rischi legati alle leggi del calcolo delle probabilità. Collo-cando l’assicurato al centro dell’attività assicurativa e l’organizzazione del servi-zio a favore del cliente, l’informazione, per l’assicurato, è diventata un elemen-to indispensabile per la trasparenza e per la buona riuscita del servizio. Unprovvedimento attuato in tale direzione fu la polizza vita rivalutabile, che ponel’assicurato al riparo dalle perdite derivanti dalla svalutazione della moneta.

Dagli anni Ottanta del Novecento, i capitalisti italiani furono interessati adeffettuare investimenti nel settore assicurativo. Per conseguenza, negli ultimiventi anni del Novecento, si ebbe un accelerato balletto di pacchetti azionari disocietà assicurative, con profondi mutamenti nell’assetto proprietario. Il risulta-to fu la eliminazione di numerosi ostacoli posti dalla presenza dello stato nelsettore e la formazione di grandi imprese capaci di operare sul mercato europeoe sul mercato internazionale.

Con la sempre maggiore integrazione dell’Italia nella Unione Europeaanche le compagnie di assicurazioni, per tenere testa alle grandi compagnieeuropee, dovettero allineare i propri standard economici e finanziari ai paesipiù sviluppati dal punto di vista economico e finanziario. I nuovi strumentifinanziari adottati dalle compagnie furono i fondi comuni di investimento e ifondi pensione. Nella prospettiva futura, alle banche toccherà il compito digestire sempre più il risparmio a breve e medio termine e alle assicurazioni lagestione del risparmio a lungo termine con la conseguente “accentuazione eaccelerazione del processo di redistribuzione dell’intermediazione del rispar-mio”. “Dall’indirizzo del risparmio individuale e familiare in titoli di stato edepositi bancari – scrive Roberto Pontremoli, nella prefazione al volume diBaglioni – si passerà in modo sempre più incisivo a forme di gestione indiretta

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45 R. PONTREMOLI, Prefazione, in “R. Baglioni, L’assicurazione in Italia”, cit., p. 10.46 F. BALLETTA, Mercato finanziario, cit.; F. BALLETTA, Capitali, borsa e assicurazioni, cit.

del risparmio e, in questo caso, il ruolo di intermediazione delle assicurazionisarà determinante, anche in termini di servizi che vengono offerti agli assicura-ti ben oltre la mera remunerazione finanziaria, garantendo bisogni di sicurezzacontro molteplici evenienze”45.

2. Le ricerche di storia delle imprese di assicurazioni

I due volumi che ho pubblicato sulla storia delle Assicurazioni Generali –il primo relativo al periodo 1920-1960 ed il secondo al 1960-199546 – sonocostruiti nell’ottica della storia finanziaria, un’ottica finora snobbata dagli eco-nomisti e rifiutata dagli storici dell’economia. Nel primo, dopo aver tracciato lelinee generali dell’assetto organizzativo della società e descritto l’andamento deipremi in relazione all’evolversi dell’economia, è stato messo in risalto l’anda-mento del capitale sociale, l’assetto proprietario ed i fondi di garanzia accumu-lati. Su tali fondi sono stati affondati i bisturi separando gli investimenti mobi-liari da quelli immobiliari. Sono state esaminate le relazioni intercorse fra i mag-giori artefici della gestione finanziaria dell’epoca – Beneduce, Stringher, Mor-purgo e Volpi – assieme alle connessioni con il potere politico, nelle mani delfascismo, che seppe intuire l’importanza della gestione finanziaria per l’econo-mia dell’epoca.

Nel secondo volume, dopo un esame dell’andamento dell’attività assicura-tiva, in Italia, fra il 1960 e il 1995, l’analisi dell’attività delle Generali ha riguar-dato l’attività caratteristica, ma principalmente la gestione finanziaria. Gestioneche, gradualmente, prese il sopravvento sull’attività assicurativa. Il capitalismoitaliano fu controllato dalle mani forti di poche grandi famiglie – Agnelli, Fer-ruzzi, De Benedetti, Berlusconi, Romagnoli, Patrucco, Benetton e qualche altro– che non si preoccuparono di migliorare la produttività dell’azienda, ma furo-no sempre pronti a scalare qualsiasi società debole o solida del settore assicura-tivo o non; creare o rompere alleanze senza vincoli di dipendenza dai grandiprotagonisti della finanza internazionale. La conseguenza di tale comportamen-to si è vista nel settore automobilistico, con le difficoltà in cui oggi si è trovatala FIAT, per la quale gli amministratori, preoccupati dalla gestione finanziaria,tralasciarono il rinnovo della produzione, necessario per tenere testa alla con-correnza del settore automobilistico europeo e internazionale.

A tali conclusioni, per il settore assicurativo, si arriva dall’analisi della valu-tazione dell’azienda sul mercato borsistico. Dalla capitalizzazione di borsa, dal

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47 T. FANFANI, Alleanza Assicurazioni, cit.; Atto costitutivo, uomini, dati e bilanci. Appendi-ce a Alleanza Assicurazioni, cit.

48 T. FANFANI, Alleanza Assicurazioni, cit., p. 17.

pay-out e dagli indici di valutazione dell’attività industriale si è potuto misura-re la solidità delle Assicurazioni Generali. Pertanto si rileva che l’utile dell’a-zienda derivava, principalmente, dalla gestione finanziaria. Gestione stretta-mente legata al mercato borsistico, che operava in una situazione di quasimonopolio, perché dominato dalla volontà di Enrico Cuccia, che attraversoMediobanca, era impegnato a mantenere gli equilibri finanziari fra le grandifamiglie del capitalismo italiano. Per consentire la formazione di un libero mer-cato finanziario, a nulla servì la presenza di un azionariato diffuso per il capita-le delle Generali. La gestione della società era affidata ad amministratori dipen-denti dalle decisioni di Cuccia, che, attraverso i presidenti delle Generali –Merzagora, Randone, Coppola e Bernheim – influì in misura determinante sullagestione della politica industriale e finanziaria della compagnia.

Tommaso Fanfani ha ricostruito al storia di cento anni di Alleanza Assicura-zioni, dal 1898 al 199547. Pur denunciando una certa dispersione di documenti,egli riesce a ricostruire le vicende della compagnia servendosi dei verbali dei con-sigli e delle assemblee dei soci, della corrispondenza e dei bilanci della società. Laprima novità che si ricava dalla ricerca è che la società fu costituita, a Genova,con capitale tedesco, come si verificò, nello stesso periodo, per il Credito Italianoe la Banca Commerciale Italiana. È questo un ulteriore rafforzamento dell’ipote-si, da più parti sostenuta, della dipendenza italiana dal capitale straniero. Unaseconda considerazione è la nascita dell’azienda in un momento in cui lo statocominciò ad intervenire nel settore previdenziale con l’assicurazione obbligatoria,al fine di proteggere i lavoratori contro i danni alla salute derivanti dagli infortu-ni sul lavoro, con la istituzione della Cassa nazionale per la previdenza per l’inva-lidità e la vecchiaia e, qualche anno più tardi (1912), accentrando nell’INA le assi-curazioni sulla vita. Era la dimostrazione del bisogno di sicurezza. Tuttavia la pre-senza dello stato nel settore costituiva un ostacolo alla crescita delle assicurazioniprivate. L’attività della compagnia fu strettamente legata all’andamento dell’eco-nomia del paese, ma, principalmente, all’opera dei suoi dirigenti, di cui i piùimportanti furono Evan Mackenzie e Mario Gasbarri.

Un momento importante della vita di Alleanza fu il 1933, allorché lasocietà entrò a far parte della compagnia Assicurazioni Generali, che aveva unamaggiore esperienza perché, all’epoca, aveva compiuto i primi cento anni divita e perché svolgeva la sua attività a livello internazionale. L’evento viene defi-nito da Fanfani come “il fatto più importante, dopo la fondazione, visto chedalla nuova proprietà scaturi[rono] la ripresa e l’affermazione fino al raggiun-gimento di ambiziosi traguardi”48.

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Particolarmente significativa fu la gestione da parte di Mario Gasbarri, dal1935 al 1978, che si fece carico delle difficoltà prodotte alla compagnia dallaseconda guerra mondiale e dalla crescita nel dopoguerra, allorché puntò sulleassicurazioni popolari basate sulla raccolta del piccolo risparmio. Gli anniOttanta furono caratterizzati da profondi mutamenti introdotti dalla rapiditàdel movimento delle informazioni e dalla concorrenza, sempre più spietata, chederivò dalla maggiore apertura del mercato europeo e del mercato internazio-nale.

Il giudizio sul lavoro compiuto da Tommaso Fanfani è più che positivo: sitratta della ricostruzione scientifica di una storia d’impresa che prende ledistanze da qualsiasi approccio celebrativo, come il titolo del volume potrebbefare intendere. Altro merito è quello di avere reso attraente la lettura del lavo-ro facendo un parco uso della mole di dati disponibili. Dati che sono riportatiin apposito volume di appendice dal titolo “Atto costitutivo, uomini, dati ebilanci”, dove a Giuseppe Conti49 è toccato il difficile compito della riclassifi-cazione dei dati di bilanci con lo scopo di rendere comparabili cifre che altri-menti avrebbero avuto poco significato. Pertanto l’appendice può considerarsiuna buona fonte per la ricostruzione di indici di bilancio dai quali ricavare ulte-riori interpretazioni della vita della compagnia.

Al convegno della Società Italiana degli Storici dell’Economia che si tenne,a Roma, nel novembre del 2000, sul tema “Il lavoro come fattore produttivo ecome risorsa nella storia dell’economia italiana”, Nicola De Ianni si cimentò suun argomento difficile: “I mutamenti nel lavoro delle assicurazioni: le Generalida Baroncini a Merzagora (1968-1979)”50. Si tratta del lavoro effettuato dai col-letti bianchi impiegati della più grande impresa del settore, le AssicurazioniGenerali. Pur apprezzando l’originalità del tema affrontato, in effetti, De Ianni– servendosi di una interessante documentazione conservata nell’archivio priva-to di Merzagora – mette in risalto i mutamenti che si ebbero ai vertici dell’a-zienda e la riduzione dell’importanza dell’attività delle agenzie assicurativevolute da Merzagora al fine di ridurre i costi dell’impresa. La relazione, tutta-via, come riconosce lo stesso autore – “un mostro con una grande testa ed unpiccolo corpo”51 – ha scarsa importanza per i cambiamenti introdotti nel lavo-ro, ma conferma i risultati delle ricerche finora da me compiuti sui dati deibilanci delle Generali, dai quali risulta il peso, sempre maggiore, che ebbe l’at-tività finanziaria rispetto a quella assicurativa o caratteristica (o con un termine

49 I bilanci di Alleanza dal 1902 al 1995, a cura di Giuseppe Conti, in Atto costitutivo, uomi-ni, dati e bilanci, cit., pp. 45-152.

50 N. DE IANNI, I mutamenti nel lavoro delle assicurazioni: le Generali da Baroncini a Merza-gora (1968-1979), cit., pp. 445-465.

51 Ibidem, p. 445.

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meno preciso “industriale”) con l’obbiettivo di massimizzare i profitti degliazionisti. Ciò ha significato che il risparmiatore fu attirato dalle assicurazionisulla vita, principalmente, per la funzione previdenziale. Pertanto il lavoro del-l’assicuratore si è avvicinato a quello di banchiere e di “consulente globale”,fornitore di più servizi, piuttosto che venditore di sicurezza e tranquillità con lacopertura dei rischi.

III. La storiografia sulla finanza pubblica

Premessa

Abbiamo rilevato che le ricerche sulla storia della finanza pubblica sonomolto più numerose di quelle sulla borsa e sulla finanza privata. Vi sono ricer-che di studiosi della prima metà dell’Ottocento, come Ludovico Bianchini oLuigi Cibrario o della seconda metà dell’Ottocento, come quelle di Achille Ple-bano, Paolo Carcano e Eugenio Messeri, che sono ancora scientificamente vali-de, nonostante i profondi mutamenti avvenuti nella impostazione scientifica deilavori e nella interpretazione dei documenti. Come rivelò Giuseppe Felloni52, inun altro convegno sulla storiografia della finanza pubblica italiana, anche noiabbiamo notato, nell’ultimo ventennio, un calo di interesse degli storici verso lafinanza pubblica. Ciò nonostante, suscita grande interesse, fra gli economisti edi responsabili della politica finanziaria e monetaria, il disavanzo del bilanciodello stato e il forte debito pubblico, per il quale si è temuto che l’Italia nonriuscisse ad entrare, fin dal primo momento, nell’area dell’Euro.

Sulla base delle ricerche effettuate nell’ultimo trentennio sulla finanza pub-blica, ho ritenuto di fare una selezione dei lavori storici più significativi. Essisono stati raggruppati in sei categorie: 1) le ricerche sulla politica fiscale, chechiameremo “circuito del risparmio forzato”; 2) quelle sul risparmio raccoltodal Crediop e dagli uffici postali, che chiameremo “circuito del risparmiovolontario”; 3) la politica della spesa pubblica; 4) la politica del debito pubbli-co; 5) la finanza pubblica in generale; 6) la finanza locale.

1. Il “circuito del risparmio forzato”

La prima segnalazione che mi sento di effettuare è la ricerca compiuta daGianni Marongiu, professore di Diritto Tributario, sulla storia del fisco, in Ita-

52 G. FELLONI, Temi e problemi nella storia finanziaria degli stati italiani, in “Rivista di Sto-ria Finanziaria”, n. 2, gennaio-giugno 1999, p. 103.

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lia, nel periodo della destra storica (1861-1876)53 e in quello della sinistra stori-ca (1876-1896)54. Marongiu, pur essendo un cultore di discipline giuridiche,ricostruì la storia del fisco rifacendosi all’opera dei protagonisti della finanzapubblica dell’epoca e si soffermò sulle teorie fiscali. Nel primo volume, esaltòl’opera svolta dai due ministri delle finanze dell’epoca, Minghetti e Sella, e sot-tolineò il contributo di Lanza, Ricasoli, Scialoja, Ferrara e Combray-Digny, chefurono i maggiori sostenitori della politica liberistica e si fecero carico di asse-stare il sistema tributario italiano, risultato dall’accozzaglia di più sistemicostruiti in stati con istituzioni politiche contrastanti fra loro. Significativa ful’introduzione dell’imposta di ricchezza mobile – un tributo che poteva tenertesta all’incom tax inglese e ai più moderni tributi analoghi applicati in Franciao in Prussia – che colpiva i redditi della nascente borghesia. Ciò significa che ifautori di quella politica tributaria stavano puntando su una radicale trasforma-zione dell’economia del paese, da economia agraria in economia industriale ecommerciale.

Con l’applicazione dell’imposta sul macinato, i governanti furono consape-voli della gravosità del tributo, ma volevano che tutte le classi sociali, ricche epovere, fossero coinvolte nel rinnovamento della società e comunque contri-buissero al pareggio del bilancio dello stato. Una politica fiscale severa, accom-pagnata ad una politica di contenimento delle spese, che, per la maggior parte,erano spese di investimento e dovevano servire a formare le coscienze di citta-dini italiani e, principalmente, di cittadini liberi. Informata a questi principi, lapolitica fiscale della destra riuscì a garantire la copertura delle ingenti spese chedoveva sostenere uno stato, giovane e fragile, in fase di organizzazione. Secon-do Marongiu, i governanti vi riuscirono “grazie ai rilevanti elementi di novitàche connaturarono quell’ordinamento”55.

Sulla base di queste considerazioni, l’interpretazione della storia fiscale diMarongiu si allinea all’interpretazione che Richard A. Musgrave diede dellafinanza pubblica: una finanza che influenza la redistribuzione della ricchezza. Ilpassaggio dall’economia agricola all’economia industriale e commerciale, lalotta al disavanzo del bilancio dello stato, che vincolò la crescita economica, gliinvestimenti produttivi dello stato e la riduzione dell’indebitamento dell’Italiaverso l’estero, che caratterizzarono la politica della destra storica, contribuiro-no a ridurre la povertà dei meno abbienti, diversamente da quanto pensava

53 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. I. La politica fiscale della destra storica (1861-1876),Einaudi, Torino, 1995.

54 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. II. La politica fiscale della sinistra storica (1876-1896), Einaudi, Torino, 1996.

55 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. I. La politica fiscale della destra, cit., p. XV.

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Adamo Smith con il mantenimento di salari di sussistenza56. Così la redistribu-zione della ricchezza fra la popolazione ebbe un ruolo importante per la cresci-ta dell'economia italiana, poiché “la ricchezza delle nazioni dipen[dendo]anche dalla distribuzione è altrettanto certo che tale ricchezza appartiene ai sin-goli e in tale ottica va correttamente riguardata”57.

Nel secondo volume pubblicato da Marongiu, relativo alla politica fiscaledella sinistra storica, la politica adottata fu letteralmente capovolta, rispetto alperiodo della destra. La politica fiscale e il pareggio del bilancio dello stato, cheerano stati messi in primo piano per la crescita economica del paese, passaronoin second’ordine, vennero considerati fatti tecnici e non politici. Il programmadel governo non ebbe più come obiettivo principale il contenimento e la sele-zione della spesa pubblica; gli assetti tributari non ebbero più una valenza poli-tica (in termini di efficienza e/o di giustizia e/o di consenso)58, che aveva porta-to, nei primi decenni dell’Unità, alla maturazione della coscienza di italiani e alconvincimento, che, in uno stato moderno, i cittadini devono contribuire allespese pubbliche.

In conseguenza di tale impostazione, allorché Crispi volle attuare l’arditoprogetto di riforme amministrative e sociali, che aveva come fine l’ammoderna-mento capitalistico del paese accompagnato all’attuazione della politica colo-niale, come dimostrazione della potenza realizzata dall’Italia, il sistema fiscalenon fu più in grado di dare il gettito necessario. Anzi, il mancato ammoderna-mento dei tributi diede al sistema caratteri di pesante iniquità e incoerenza.All’ordinamento tributario vennero a mancare quei tratti di novità, che gli ave-vano conferito gli uomini della destra. Il sistema tributario divenne un peso ini-quo per i consumi popolari, anche più ingiusto di quanto era stato costretto afare la stessa destra. “La destra storica – scrive Marongiu –, rispettando le rego-le che si era posta, ricoprì bene il proprio ruolo di ceto di governo e di mag-gioranza che chiede, che tassa, che impone e pretende”59.

Poiché la sinistra storica non fu in grado di attuare una politica tributariacapace di far fronte alla lievitazione delle spese, fu costretta a ricorrere ad unafinanza di emergenza, che si ripropose giorno per giorno, per la quale Crispinon temeva “di contraddirsi, di mentire, di conclamare obiettivi quali la rifor-ma tributaria, alla quale non dedicò mai un intervento, un’analisi specifica”60.La conseguenza fu il disavanzo del bilancio dello stato e la mancanza di una

56 R.A. MUSGRAVE, Finanza pubblica, equità e democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, pp.XXV-XXVI.

57 Ibidem, p. XXVI.58 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. II. La politica fiscale della sinistra, cit., p. XIV.59 Ibidem, p. XVI.60 Ibidem, p. XV.

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politica adeguata alla redistribuzione dei redditi e alla crescita economica delpaese. Si diede maggiore potere al presidente del consiglio dei ministri, affin-ché, con la sua abilità, potesse gestire i provvedimenti finanziari approvati dalParlamento. Ma gli interventi di Crispi e Depretis servirono poco senza averedelle “regole”, una politica intorno alla quale costruire gli interventi. Ciò signi-ficò – secondo Marongiu – “un arretramento, rispetto al processo di moderniz-zazione del paese e quindi un rallentamento al ricongiungimento dell’Europacivile, che aveva giustificato il Risorgimento”61.

Un secondo volume sul fisco che desidero segnalare è quello di PaoloGiannotti su “La riforma impossibile”62, dove si mettono a fuoco alcunimomenti significativi della politica fiscale italiana: la riforma della finanza loca-le, proposta da Magliani, nel 1879, diretta ad assestare i bilanci dei comuni fal-cidiati dalla politica del governo centrale; il costo della guerra di Libia, del1911-12, e le conseguenze sulle finanze dello stato; la politica fiscale di Giolittie Salandra; la crisi del fisco durante la prima guerra mondiale. La linea che sirileva dal lavoro di Giannotti è che vi furono grosse difficoltà, tra la fine del-l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ad introdurre riforme democrati-che in campo fiscale, perché, secondo Giolitti, non si voleva calcare la manosulle ricchezze della nascente borghesia.

Domenicantonio Fausto, in un grosso saggio, pubblicato nella Collana“Ricerche per la storia della Banca d’Italia”, prende in esame la politica fiscalenel periodo compreso fra la prima guerra mondiale e l’avvio del governo fasci-sta (1914-1922)63. La linea di fondo seguita è che, all’inizio della guerra, non viera un sistema tributario adatto ad affrontare la finanza di urgenza. Il sistemaera lo stesso di quello instaurato dalla destra al momento dell’unificazione,quindi basato sul concetto che, per aumentare il gettito, bisognava inasprire lealiquote. I progetti di riforma, più volte presentati, non avevano trovato l’ap-provazione del Parlamento. Così, durante il periodo bellico e nel triennio suc-cessivo, il governo prese provvedimenti finanziari indipendentemente dall’ac-certamento dei redditi o del patrimonio. Essi erano dettati solo dalle necessitàdel momento. Furono aumentate più volte le aliquote delle imposte dirette(sulla ricchezza mobile, sui terreni e sui fabbricati), il loro gettito fu sempre,proporzionalmente, inferiore a quello delle imposte indirette. Negli anni della

61 Ibidem, pp. XVI-XVII.62 P. GIANNOTTI, La riforma impossibile. Momenti di storia del fisco in Italia (1876-1918),

Edizioni Quattroventi, Urbino, 1998.63 D. FAUSTO, La politica fiscale dalla prima guerra mondiale al regime fascista, in “AA.VV.,

Problemi di finanza pubblica tra le due guerre (1919-1939)”, Ricerche per la storia della Bancad’Italia, vol. II, Editore Laterza, Roma-Bari, pp. 3-138.

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64 Ibidem, p. 132.65 Ibidem, p. 133.66 Ibidem, p. 135.67 Ibidem, p. 134.

guerra e al momento della vittoria, non si seppe applicare una “imposta sulpatrimonio”, come nuova fonte tributaria. Solo nel 1919, sull’esempio dellaGermania, si approfittò di quel nuovo strumento di politica fiscale. Il gettitodelle imposte dirette crebbe, ma vi era bisogno di una profonda ristrutturazio-ne del sistema, l’ordinamento di tali tributi era caotico e “che, oltre ad essereun ostacolo alla produzione, era anche fonte di aggravio di costi per l’ammini-strazione finanziaria. Il sistema delle imposte dirette aveva bisogno di una sem-plificazione e di una razionalizzazione”64. Per il momento particolare creatodalla guerra – compreso il fenomeno del “ribellismo fiscale” –, il gettito tribu-tario non riuscì a colmare il disavanzo del bilancio dello stato, per cui fu neces-sario fare largo ricorso all’indebitamento con l’emissione dei buoni del Tesoro.“L’emissione dei prestiti contribuiva solo in parte al contenimento del circolan-te, sia perché i prestiti venivano in parte sottoscritti mediante anticipazioni ban-carie, sia perché i titoli del debito pubblico potevano sostituire le monete inalcune delle sue funzioni”65. Attraverso l’inflazione, che colpiva i possessori dititoli pubblici a lungo termine, durante la guerra e dopo, si ebbe la redistribu-zione delle ricchezze con il passaggio dei possessori a reddito fisso ai possesso-ri di beni immobili.

Nell’immediato dopoguerra fino all’avvento del governo Mussolini, si tentòdi approvare una riforma organica del sistema tributario, fu, principalmente, ilministro delle finanze, Soleri, che predispose una riforma comprendente la revi-sione dei tributi statali e degli enti locali, ma il Parlamento non riuscì ad appro-varla per la caduta del governo. Era la continuazione di ciò che era accadutoprima della guerra, per cui “il rapido succedersi di diversi governi, consentiro-no soltanto che fossero apportate modificazioni al sistema impositivo attraversoritocchi e approssimazioni successive”66.

Comunque è questo un terreno sul quale gli storici dovranno ancora cimen-tarsi attraverso l’esame della documentazione ministeriale. Lo stesso vale per i rap-porti intercorsi fra Banca d’Italia e governo del paese sulla politica finanziaria daadottare relativamente all’emissione di cartamoneta, per la concessione di antici-pazioni degli istituti di emissione al Tesoro dello stato e per l’emissione dei titolidel debito pubblico. Secondo Fausto, la documentazione è scarsa, per cui non visarebbero state divergenze fra la Banca d’Italia e i governi67, ma non mi risulta chesiano state fatte ricerche in tale direzione sui documenti dei tre istituti di emissio-ne dell’epoca (Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia).

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2. Il “circuito del risparmio volontario”

Nell’ambito dei circuiti creati per raccogliere risparmi e stabilirne la suc-cessiva allocazione in connessione con la politica economica dei governanti ealla politica monetaria della banca centrale, vanno ricordati due contributiscientifici originali: quello di Pier Francesco Asso e Marcello De Cecco sullastoria del Crediop (Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche)68 e la ricercaa più mani (Pier Francesco Asso, Stefano Battilossi, Leandro Conte, MarcelloDe Cecco, Giuseppe Della Torre e Gianni Toniolo) sulla Cassa Depositi e Pre-stiti curata da de Cecco e Toniolo69.

Nel primo lavoro, costruito su una documentazione inedita, si esamina l’at-tività degli istituti voluti da Beneduce (Crediop e ICIPU) autorizzati ad emette-re obbligazioni con lo scopo di finanziare opere pubbliche, oppure attività pro-duttive pubbliche o private promosse dallo stato. Gli autori evidenziano che,con la formazione dello stato imprenditore, creatosi in Italia dagli anni Trentain poi, si formarono due circuiti finanziari paralleli e concorrenziali: quellodello stato che reperiva risparmi attraverso il fisco e con l’emissione di titoli deldebito pubblico e il secondo con l’emissione di obbligazioni del Crediop e dialtri istituti di credito speciali. “L’esistenza di un doppio circuito, quello statalee quello extrastatale a cui gli enti pubblici partecipavano, – spiegano gli autori– costituiva, nel pensiero del suo ideatore [Beneduce], la garanzia fondamenta-le che l’intervento dello stato non si sarebbe tradotto in una perdita di efficien-za e stabilità per il sistema economico”70. In questo modo, secondo Sabino Cas-sese, Beneduce avrebbe creato uno stato nello stato, affidandolo ad una buro-crazia illuminata e competente capace di fornire servizi specifici. Il circuitofinanziario si sarebbe autoalimentato rimanendo estraneo al Tesoro dellostato71, stabilendo una correlazione precisa fra emissione di obbligazioni eobiettivo da realizzare. Della ricerca, minuziosa ed originale, condotta dai duestudiosi si rileva che furono realizzate opere pubbliche volute dal governo elegate alla politica economica del momento: bonifiche, servizi marittimi, costru-zioni edilizie, grandi infrastrutture, finanziamenti agli enti locali, all’IRI, maanche mutui al Tesoro, sistemazione di prestiti bellici.

I due circuiti – quello statale e quello degli enti speciali – poiché avevano

68 P.F. ASSO e M. DE CECCO, Storia del Crediop. Tra credito speciale e finanza pubblica (1920-1960), Editore Laterza, Roma-Bari, 1994.

69 AA.VV., Storia della Cassa Depositi e Prestiti, a cura di M. De Cecco e G. Toniolo, Edito-re Laterza, Roma-Bari, 2000.

70 P.F. ASSO e M. DE CECCO, Storia del Crediop, cit., p. 6.71 S. CASSESE, Gli statuti degli enti Beneduce, in “Storia contemporanea”, XV, 5, ottobre

1984.

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lo stesso obiettivo, entravano spesso in concorrenza, per cui, dal momento dellacostituzione, si ebbe “un braccio di ferro per ridurre le distanze fra i circuitiparalleli e per ricondurre il circuito extrastatale e di mercato in cui operava ilConsorzio all’interno del più ampio quadro del finanziamento del debito pub-blico”72. Spesso i dirigenti del Crediop e dell’ICIPU si trovarono a dover effet-tuare scelte difficili, poiché alle richieste di finanziamenti, che venivano dalgoverno e dal Parlamento, si opponevano i governatori della Banca d’Italia, chedovevano perseguire una politica di stabilità monetaria. Tuttavia, nei periodi diemergenza, che si ebbero fra gli anni Cinquanta e Sessanta, fu giocoforza, daparte dell’autorità monetaria, usare le emissioni obbligazionarie dei consorzicome politica monetaria e comunque favorire una politica comune fra circuitostatale e circuito del credito speciale73. In questo panorama, in cui lo stato e glienti speciali cercarono di rastrellare denaro sul mercato, furono sempre i rispar-miatori italiani a dimostrare grande generosità, come un popolo di formiche.

Il volume sulla storia della Cassa Depositi e Prestiti, che comprende un arcodi tempo che va dal 1850 al 1990, racconta le caratteristiche di un terzo circuitofinanziario, che possiamo definire pubblico, perché viene gestito dagli uffici posta-li al momento della raccolta e dalla Cassa Depositi e Prestiti per l’impiego delrisparmio74. Due istituzioni che costituiscono una garanzia per il piccolo rispar-miatore – specialmente delle zone periferiche del paese e del Mezzogiorno –, ilquale non è in grado di seguire le operazioni di borsa ed ha scarsa fiducia nellebanche. Se a questo si aggiunge la capillarità degli sportelli postali, che arrivano intutti i centri abitati, dove, ancora oggi, non è arrivato lo sportello bancario, si puòcomprendere il successo dei flussi finanziari passati per tale circuito. La ricerca, daun lato, può considerarsi la storia delle istituzioni e dall'altro l'esame delle fluttua-zioni della gestione del risparmio. Pertanto possiamo considerare questo lavorocome la storia di un mercato alla ricerca dell’ottimo paretiano, poiché la politica diraccolta e di impiego adottata dai governanti trovò in quelle istituzioni – secondol’impostazione dei ricercatori – uno strumento flessibile capace di adattarsi facil-mente alle esigenze della politica monetaria e della politica economica dei gover-nanti. L’attività dei mutui concessi dalla Cassa non può essere assimilato a quellodi una banca, poiché essa non ha mai svolto ricerche per stabilire l’affidabilità deiclienti, cioè degli enti locali. “Essa gestisce un circuito di risorse che usa, sì, lo stru-mento tecnico del mutuo, ma senza ruoli aggiuntivi rispetto a quello di rendereevidente che si tratta di una spesa la cui copertura andrà poi trovata nelle risorsefiscali dell’ente, o in quelle dello stato centrale”75.

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72 P.F. ASSO e M. DE CECCO, Storia del Crediop, cit., p. 7.73 Ibidem, p. 9.74 AA.VV., Storia della Cassa Depositi e Prestiti, cit., p. V.75 Ibidem, p. XII.

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Anche da questo lavoro vengono alla luce le tensioni sorte fra potere cen-trale e autonomia delle istituzioni locali; fra gestione del debito pubblico erisparmio raccolto dagli uffici postali; fra politica di raccolta delle casse dirisparmio postali e quella delle casse di risparmio private. Nonostante il gover-no avesse sempre dimostrato preferenza per i titoli del debito pubblico, il cuiricavato gestiva liberamente, sostenne la crescita del risparmio postale conincentivi ai dirigenti dell’Ente Poste per accrescere la raccolta del risparmio.Addirittura l’importanza di un ufficio postale non si misurava tanto sulla basedel servizio di corrispondenze, quanto sulla quantità di risparmio che gli impie-gati erano capaci di raccogliere. Ciò perché vi era convenienza per il Tesoro,che raccoglieva risparmio sostenendo costi molto bassi, e per gli enti locali, chericevevano crediti a basso tasso di interesse. Le tensioni sorte fra la Cassa Depo-siti e Prestiti – che voleva mantenere autonomia di gestione – ed il Tesoro – chevoleva asservirla alla sua politica – spesso furono risolte con specifiche inter-pretazioni sulla natura giuridica della Cassa o con “interventi di riassetto effet-tuati, al prevalere dell’esigenza di farne uno strumento di uso molteplice inmano al Tesoro; il che necessariamente richiedeva – secondo l’interpretazionedi Maria Teresa Salvemini, direttrice generale della Cassa – di rinunciare all’i-dea di creare, invece, una istituzione dalla missione e dai connotati precisi”76.Una contraddizione esiste nella gestione del risparmio, che, raccolto a brevetermine o legato al diritto del rimborso anticipato, veniva impiegato a lungo ter-mine e a tasso fisso. Ciò causò, nella lunga storia della Cassa, delle crisi di liqui-dità o crisi di bilancio “non dovute a errori nella originaria fissazione dellacostellazione dei tassi di interesse attivi e passivi, ma ad eventi successivi, capa-ci di influenzare l’uno o l’altro lato del bilancio”77. Pertanto, la politica dei tassidi interesse attivi e passivi fu strettamente legata all’andamento del mercatomonetario e finanziario, ma anche alla volontà degli organi politici. Ciò dimo-stra le difficoltà della Cassa di perseguire un’autonoma politica, che fu legata,comunque, al debito pubblico e all’andamento dei flussi finanziari dello stato.“Tra la politica di bilancio dello stato – scrive Maria Teresa Salvemini – basatasull’uso di trasferimenti verso altri soggetti pubblici e sull’accentramento del-l’acquisizione di entrate fiscali, e l’uso del circuito di risorse finanziarie affidatoalla gestione della Cassa si verifica così una sinergia di natura complessa, e digrande rilevanza”. In alcuni momenti, lo stato stabilì quali erano i crediti che laCassa poteva concedere agli enti locali; in altri, fu lo stato che si fece carico deimutui degli enti locali78.

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76 Ibidem, p. VIII.77 Ibidem, p. X.78 Ibidem, p. XI.

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La storia della Cassa è costellata dall’insorgere di continue tensioni frapotere centrale dello stato e autonomie locali. Tali tensioni furono più numero-se nella seconda metà dell’Ottocento, quando il potere statale era ancora debo-le; scemarono nel Novecento, quando quel potere si rafforzò, anche se le ten-sioni non scomparvero. Con il rafforzamento dei poteri degli enti locali (regio-ni, province e comuni), non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze sullastessa natura della Cassa. Fin quando era lo stato che controllava le risorse deicomuni e delle province stabilendo anche i loro investimenti, la Cassa, in que-sta fase, era interamente “uno strumento utilizzato per il controllo sulle dispo-nibilità di queste risorse, sulla realizzazione delle priorità assegnate alla creazio-ne di infrastrutture, nonché sulle strutture del debito dello stato”79. Ma quandotale potere finirà quale sarà la sorte della Cassa?

3. Le ricerche sulla spesa pubblica

Se si lamenta carenza di ricerche sulla finanza pubblica in generale, quellerelative alla spesa pubblica sono ancora più esigue. Ci soffermeremo su duelavori che sono abbastanza significativi per le diverse conclusioni a cui arrivano.Si tratta degli studi compiuti dagli economisti Giorgio Brosio e Carla Marchesesull’evoluzione della spesa pubblica dall’unità d’Italia agli anni 90 del Nove-cento80 e il lavoro di Daniele Franco sulla espansione della spesa pubblica neltrentennio 1960-199081. Riconosciamo che vi sono altre ricerche sull’argomen-to, in particolare quelle di Pedone, Luzzatti e Portese, Fratianni e Spinelli, quel-le di Fossati82, ma il loro contributo rimane comunque limitato alla descrizionedei dati disponibili e non ad una ricostruzione documentale e lontano dallamodellizzazione dei risultati. D’altra parte – secondo Brosio e Marchese – laspesa pubblica “è una manifestazione così complessa da rendere molto difficilela modellizzazione della sua crescita”83.

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79 Ibidem, p. XI.80 G. BROSIO e C. MARCHESE, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dal-

l’unificazione ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1986.81 D. FRANCO, L’espansione della spesa pubblica in Italia. Un’analisi rigorosa e sistematica

dello sviluppo della spesa pubblica in Italia dal 1960 al 1990 nelle sue interne circolazioni, Il Muli-no, Bologna, 1993.

82 A. PEDONE, Il bilancio dello Stato e lo sviluppo economico italiano 1861-1963, in “Rasse-gna economica”, XXXI, 1976, n. 2, pp. 285-341; E. LUZZATTI e R. PORTESE, La spesa pubblica inItalia (1862-1980), in “La pubblica amministrazione”, a cura di S. Cassese, Utet, Torino, 1984; A.FOSSATI, La spesa pubblica in Italia dal 1951 al 1980, in “Rivista di diritto finanziario e scienzadelle finanze”, XL, 1981, pp. 322-375; M. FRATIANNI e F. SPINELLI, The Growth of Governmentin Italy. Evidence from 1861 to 1979, in “Public Choice”, XXXIX, 1982, n. 2, pp. 224-245.

83 G. BROSIO e C. MARCHESE, Il potere di spendere, cit., p. 11.

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In altre pubblicazioni, sociologi e giornalisti si sono occupati della semprecrescente presenza dello stato nell’economia, quello che gli inglesi definisconoGrowth of Government, cioè crescita del settore pubblico, che è un problemapiù ampio di quello finanziario, cioè esso comprende anche l’intervento dellostato per regolare i mercati o la gestione statale di imprese industriali, che, inItalia, è avvenuto principalmente attraverso l’IRI. Il nostro obiettivo è limitatoad esaminare l’andamento della spesa pubblica e stabilirne le cause e le conse-guenze in relazione alle istituzioni, alla società e all'economia.

La ricerca di Brosio e Marchese parte dal presupposto che la spesa pubbli-ca “è essenzialmente un fenomeno redistributivo della ricchezza”. Alle variazio-ni della spesa pubblica parteciparono coloro che, in vario modo, avevano unamotivazione per provocarla (politici, pubblici funzionari, sindacati, gruppi dipressione); il contesto istituzionale sociale ed economico influì sulle aggiunte oriduzioni di spesa; non poche furono le interazioni fra gli interessati e il conte-sto84. Secondo Brosio e Marchese, “sono i sistemi istituzionali e i movimentiindividuali da questi condizionati che determinano la direzione in cui avviene ilprocesso di redistribuzione e fissano il limite entro cui il processo ha luogo”85.Con tale impostazione, la ricerca dei due autori si avvicina ai modelli diMusgrave e Rostow86, che tengono conto delle trasformazioni societarie pro-dotte dalla spesa. Nei primi anni di costituzione di uno stato, come si verificòper l’Italia, e nel primo periodo di crescita dell’economia, le spese servono acreare infrastrutture, cioè svolgono un ruolo nel processo di accumulazionedelle ricchezze, successivamente cresce la spesa per trasferimenti e per consumisociali. In questa politica di redistribuzione, che si può realizzare attraverso lapolitica fiscale o altra manovra di politica economica, i governanti trasferisconouna parte delle ricchezze, che si è concentrata nelle mani di pochi ricchi, ad unamaggioranza di cittadini poveri, o meno ricchi. In questo processo, rimaneincontrollato, o di difficile controllo, la crescita demografica e le innovazionitecnologiche, che possono aumentare la produttività e ridurre l’occupazione.Anche Gino Borgatta, in una rassegna sull’evoluzione della finanza pubblica,sottolineò il mutamento della proprietà e della gestione delle ricchezze che siebbe nella prima metà del Novecento, prima, con il mutamento dell’ordine giu-ridico, poi, con trasformazioni rapide e violente causate dalle due guerre mon-diali che impoverirono alcuni ed arricchirono altri87.

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84 Ibidem, p. 8.85 Ibidem, p. 13.86 Ibidem, p. 26; R.A. MUSGRAVE, Finanza pubblica, equità, democrazia, Il Mulino, Bologna,

1993; W.W. ROSTOW, Politics and the Stages of Growth, Cambridge University Press, Cambridge(Mass.), 1971.

87 G. BORGATTA, Appunti sull’evoluzione della finanza pubblica, Estratto da “Studi economi-ci”, a. XIX, n. 1, gennaio-febbraio 1964, pp. 6-7.

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Sulla base di questa impostazione, gli autori rilevano che l’aumento dellaspesa pubblica, in Italia, anche tenendo conto delle inefficienze dei servizi pub-blici e dell’elevata quota di spese destinata al pagamento degli interessi deldebito pubblico, consentì la formazione di uno stato assistenziale, che, nellaredistribuzione delle ricchezze, ridusse notevolmente le situazioni di povertàindividuali. Questa caratteristica generale trovò una diversificazione nella divi-sione dei periodi considerati e nella destinazione obbligata che molte spese ave-vano, come quelle militari, per le opere pubbliche e per il mantenimento del-l’ordinamento amministrativo. Le spese prese in considerazione dagli autorisono quelle dello stato, degli enti locali (comuni, province e regioni) e degli entipevidenziali (INPS, INAM e INAIL); vennero escluse le spese del settore pub-blico allargato, cioè quelle delle aziende autonome, delle municipalizzate, del-l’ENEL e di altre piccole aziende dipendenti da enti pubblici88. Nel periodocompreso fra l’unificazione e la fine della prima guerra mondiale (1866-1918),poiché molte spese furono dirette a creare infrastrutture, la funzione redistri-butiva ebbe un andamento irregolare: crescita limitata, nel periodo di governodella destra (1866-1876); incremento rapido fino al 1918, anche se, rispetto adaltri paesi europei, aveva ancora una funzione molto limitata (0,7 per cento delPIL). Comunque, anche se la parte di spesa destinata alle pensioni sociali fulimitata, l’Italia fu il paese che, per primo, si indirizzò verso la politica del wel-fare state con una consistente spesa previdenziale89. Fra il 1919 e il 1922, siebbe una forte espansione delle spese redistributive; un rallentamento fino al1925; e una forte ripresa negli anni Trenta, allorché furono costituiti gli istitutiprevidenziali (INPS e INAIL). Comunque, rispetto alla crescita delle spesemilitari e quelle per le infrastrutture, la crescita delle spese previdenziali fuminore. In questo periodo, bisognerà considerare anche l’influenza che ebberole specifiche istituzioni create dal fascismo (in particolare con il corporativi-smo), che differenziò l’Italia dagli altri paesi democratici90.

Nell’immediato secondo dopoguerra, le spese redistributive fecero un note-vole balzo in avanti, tanto che, nel 1948, erano il doppio di quelle del 1939; anco-ra più accelerata fu la crescita fra il 1948 e il 1980. È stata calcolata una crescita del9 per cento l’anno, cioè superiore alla crescita della spesa complessiva. L’incidenzasul PIL fu del 10 per cento. La componente più dinamica fu sempre la spesa pre-videnziale. Un rallentamento nella crescita si ebbe solo nel biennio 1973-74, “ral-lentamento tuttavia inferiore a quello che caratterizz[ò] il prodotto interno e quin-di associato ad un balzo del rapporto spesa / prodotto”91.

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88 Ibidem, p. 15.89 Ibidem, p. 60.90 Ibidem, pp. 67-70.91 Ibidem, p. 74.

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La seconda ricerca che abbiamo preso in esame riguarda l’espansione dellaspesa pubblica in Italia fra il 1960 e il 1990. La metodologia adottata dall’auto-re, Domenico Franco, è quella della disaggregazione delle spese, per cui esami-na solo tre categorie di spese – l’istruzione, la sanità e la previdenza e assisten-za –, che rappresentarono circa il 50 per cento delle erogazioni pubbliche ita-liane al netto degli interessi sul debito. Le ragioni della disaggregazione sonodovute al fatto che la spesa era molto “eterogenea sia sotto il profilo economi-co sia sotto quello funzionale”; gli enti che effettuavano le spese avevano carat-teristiche ed obiettivi diversi; che la capacità dei cittadini, dei politici e deiburocrati di influire sulle spese variavano allorché si passava da una categoria dispese ad altre; i fattori demografici, congiunturali ed ideologici influivano, inmodo diverso, a seconda del tipo di spesa. In generale, sulla crescita delle speseinfluivano diverse decisioni prese in tempi e da soggetti diversi con differentiobiettivi da realizzare e dal loro interagire con gli eventi macroeconomici92.

Le categorie di spese prese in considerazione, per il trentennio 1960-1990,determinarono i due terzi dell’incremento della incidenza delle stesse sul pro-dotto interno. La crescita delle spese per l’istruzione si ebbe in conseguenza diun fattore di tipo strutturale, cioè per la sempre maggiore diffusione della sco-larizzazione, connessa al processo di crescita economica e sociale della popola-zione. A questa ragione si unì una causa di natura politica: aumentò il numerodegli insegnanti per perseguire obiettivi occupazionali. Comunque, vi fu caren-za di controllo delle spese e le tensioni sociali contribuirono alla crescita93.

Le spese per la sanità aumentarono per l’aumento della quantità dei servi-zi forniti ai cittadini. Si prolungò la durata media della degenza, che, comun-que, fu inferiore a quella registrata in altri paesi europei. Crebbe il costo deiservizi, maggiormente per il miglioramento delle tecniche mediche e per lamaggiore attitudine dei cittadini verso la cura della salute. In altri termini, l’au-mento della spesa sanitaria fu dovuta a fattori inevitabili. In questa prospettiva,contribuì il prolungarsi della vita media e del costo dei servizi, tra i quali, mag-giormente, il costo per il personale che lavorava nel settore94.

La lievitazione della spesa per la previdenza e assistenza fu dovuta, princi-palmente, alla crescita delle pensioni. La “politica sociale” andò sempre piùidentificandosi con la “politica delle pensioni”95. L’aumento fu determinato dal-l’allungamento della vita media della popolazione; dall’estensione del sistemapensionistico alla globalità dei cittadini; dal largheggiare nella concessione di

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92 D. FRANCO, L’espansione della spesa pubblica, cit., p. 9.93 Ibidem, pp. 76-77.94 Ibidem, pp. 112-113.95 Ibidem, p. 170.

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96 Ibidem, pp. 174-175.97 Ibidem, pp. 210-211.98 AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia: natura strutturale e politiche di rientro, vol. I, Alle

radici del deficit: politica della spesa e politica fiscale. Vol. II. Le politiche di rientro: problemi macroe microeconomici: dell’aggiustamento, a cura dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari“Luigi Einaudi”, Il Mulino, Bologna, 1992.

99 V. ZAMAGNI, Debito pubblico e creazione di un nuovo apparato fiscale nell’Italia unificata(1861-1876). Come la Destra Storica affrontò e risolse un caso di debito pubblico in rapida espan-sione, in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., pp. 9-95.

100 G. TONIOLO e P. GANUGI, Il debito pubblico italiano in prospettiva secolare (1876-1947),in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., pp. 103-143.

pensioni di invalidità da parte dell’INPS. Anche la normativa, molto favorevo-le ai pensionati, sostenne la crescita della spesa. Le norme più dispendioseriguardarono: 1) le condizioni per l’erogazione della pensione (età, anzianitàcontributiva e reddito); 2) possibilità di cumulo di più pensioni; 3) collegamen-to fra retribuzione e pensione96.

In conclusione, mancò una programmazione e un controllo sulle spese chesi effettuavano. Crebbero gli organici nel settore dell’istruzione, senza control-lo; la spesa sanitaria non si riuscì a contenerla per l’evoluzione delle tecnichemediche e l’invecchiamento della popolazione; la somma di più provvedimentinel settore pensionistico non favorì l’attuazione di una riforma organica. Per-tanto, l’autore consiglia al governo la necessità di “programmare più efficace-mente la dinamica delle spese e al Parlamento e all’opinione pubblica di con-trollare più strettamente la gestione della stessa e il rispetto dei programmi”97.

4. Il debito pubblico

Il disavanzo del bilancio dello stato e il conseguente debito pubblico, spes-so, condizionarono la politica economica dei governanti, sia prima che dopol’unità d’Italia. Questa circostanza ha suscitato l’interesse degli storici per lostudio del debito pubblico. In qualche caso, essi furono chiamati a dare il lorocontributo alle ragioni dell’indebitamento e alla necessità del riordino dei contipubblici, come fece Paolo Baffi, all’inizio degli anni Novanta, con la ricercapubblicata a cura dell’Ente per gli Studi Monetari, Bancari e Finanziari “LuigiEinaudi”98. In tale ricerca, Vera Zamagni ricostruì la storia del debito pubblicoitaliano nei primi quindici anni dell’unità d’Italia (1861-1876)99 e Gianni Tonio-lo, assieme a Piero Ganugi, trattarono gli anni compresi fra il 1876 e il 1947100.

Nel primo lavoro, viene evidenziata la crisi della finanza pubblica italiananel primo decennio dell’Unità (1861-1870) e la politica di rientro attuata daSella e Minghetti, nel quinquennio successivo, attraverso un aumento delle

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imposte dirette. La tesi di Zamagni – alla quale si allineò Marongiu – è che ilpareggio del bilancio e il contenimento del debito pubblico si ebbe per la deci-sa volontà dei governanti, per la loro coerenza e perché erano convinti che ilpagamento dei tributi avesse una motivazione etica, cioè contributiva a creare lacoscienza contributiva degli italiani101. Questa tesi, però, venne contestata daGiuseppe Tattara, che, partendo dall’ipotesi dello storico Luigi Luzzatto, percui “l’unificazione del regno fu fatta con il capitale straniero”, ritenne impor-tante l’influenza che ebbe l’andamento del ciclo finanziario internazionale sulledecisioni di politica economica dei governanti. Egli dava importanza al grado diapertura dell’Italia nei confronti dell’estero e agli acquisti di titoli del debitopubblico italiano effettuati sui mercati di Parigi e di Londra. Poiché l’Italiadivenne una nazione dalla quale entravano ed uscivano i flussi dei capitali este-ri, attraverso l’acquisto e la vendita di titoli italiani, la sua attività interna fulegata dalla disponibilità di capitale straniero. “L’attività interna va spiegata –scrive Tattara – principalmente attraverso gli eccessi e le contrazioni dei capita-li disponibili a livello internazionale, quindi attraverso mutamenti di offerta”102.Pertanto, poiché, negli anni Settanta dell’Ottocento, divenne più costoso, perl’Italia, procurarsi capitali stranieri fu necessario aumentare la pressione fiscale.

Il lavoro di Toniolo e Ganugi sul debito pubblico italiano, nel periodo1876-1947, individua, sulla base di dati statistici, le cause dei momenti di cre-scita del debito e i successi ottenuti con le politiche di rientro103. Nel primoperiodo esaminato (1876-1888), la crescita del debito pubblico fu di 3 puntipercentuali in più, rispetto alla crescita del PIL. Le ragioni dell’aumento sonoda attribuire alla crescita della spesa per la costruzione delle ferrovie, al ristagnodell’economia e perché non fu possibile attuare manovre monetarie per i vincoliposti dal gold standard alla lievitazione della circolazione monetaria. L’indebi-tamento continuò ad aumentare, nel periodo 1888-1897, per la crisi economicae finanziaria, che non consentì l’aumento della pressione fiscale, e per la cresci-ta delle spese militari dipendenti dall’attuazione della politica coloniale. Nelperiodo 1898-1914, la crescita economica fu quasi continua, rallentò solodurante la crisi del 1907, per cui si ebbe il calo dell’indebitamento. La primaguerra mondiale portò una nuova impennata dell’indebitamento, che si riuscì afrenare solo nel 1927 (dall’1,20 per cento del PIL, nel 1920, allo 0,61 nel 1927).Successivamente, fu difficile porre un freno al debito pubblico per la grandecrisi, la guerra per la conquista dell’Etiopia e la seconda guerra mondiale.

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101 V. ZAMAGNI, Debito pubblico e creazione di un nuovo apparato fiscale, cit., pp. 9-95.102 G. TATTARA, Commento, in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., p. 100.103 G. TONIOLO e P. GANUGI, Il debito pubblico italiano in prospettiva secolare (1876-1947),

cit., pp. 103-143.

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Questo ciclo, così descritto da Toniolo e Ganugi, non si discosta dal ciclodell’economia italiana del periodo considerato, gli autori non dicono nulla dinuovo. Essi attribuiscono le cause della crisi di maggior rilievo, quelle del 1888-93, alla “debolezza della posizione italiana sui mercati finanziari internazionalie alla fragilità del sistema di intermediazione finanziaria”104. Gli autori fanno unconfronto con la crisi del 1975 che non sarebbe “nemmeno lontanamente para-gonabile, per gravità ed esiti, a quella culminata nel 1893”105. Comunque si trat-ta di un confronto arbitrario, poiché per la prima crisi sono state solo descrittele cause, senza un’adeguata dimostrazione; la seconda crisi, relativa agli anniSettanta del Novecento, non è stata neanche descritta nelle sue caratteristicheessenziali. Giustamente, commenta Marcello De Cecco riferendosi alle afferma-zioni di Toniolo e Ganugi, “non si possono fare confronti con il passato, nonsolo per motivi metodologici, ma anche perché la situazione è molto diversa”106.Tuttavia, dall’infelice confronto effettuato è il meno che si possa dire del lavorodi Toniolo e Ganugi. Sono molte le ragioni della poca attendibilità della ricer-ca: l’andamento del debito pubblico è visto solo in relazione al PIL, il cui cal-colo è difficile e quelli esistenti vanno rivisti; non sono state consultate le fontidocumentali, le sole che potrebbero rivelarci se la politica di indebitamento fudovuta alla finanza internazionale e alle incapacità dei governanti a trovare altresoluzioni per aumentare le entrate; non si evidenziano le relazioni con la politi-ca monetaria, né l’influenza sulla formazione del risparmio. Questi parametriavrebbero chiarito le ragioni del disavanzo del bilancio dello stato e del conse-guente indebitamento. La difficoltà che si ha per la ricostruzione della storiadella finanza pubblica italiana, l’abbiamo detto, è la mole e la disorganicitàdella documentazione disponibile.

Contrariamente al lavoro di Toniolo e Ganugi, bisogna apprezzare il lavo-ro di Antonio Confalonieri ed Ettore Gatti sulla politica del debito pubblico inItalia, nel periodo 1919-1943, confrontata con quella della Gran Bretagna, dellaFrancia e della Germania107. Si tratta di un lavoro ricco di dati commentati soloin parte dagli autori. La prima considerazione deriva dal rapporto di preferen-za dei governanti, allorché hanno bisogno di capitali, fra queste tre fonti: a)anticipazioni da chiedere alla banca centrale; b) emissione di cartamoneta; c)debito pubblico. Le tre fonti di finanziamento furono usate, di volta in volta, inItalia e negli altri paesi europei, secondo le circostanze. Altra scelta riguardò

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104 Ibidem, p. 138.105 Ibidem, p. 138.106 M. DE CECCO, Commento, in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., p. 145.107 A. CONFALONIERI e E. GATTI, La politica del debito pubblico in Italia (1919-1943), voll. I

e II, Cariplo, Laterza, Bari, 1986.

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l’uso del debito fluttuante o redimibile o consolidato. Al terzo tipo di debito sifece ricorso nei momenti più difficili, come la grande crisi o le due guerre mon-diali. Più facile fu il ricorso al debito fluttuante – intendendo questo per debi-to a breve termine, depositi nel conto corrente della Cassa Depositi e Prestiti edemissione di biglietti per conto dello stato –, che, comunque, rappresentò unapercentuale minima del debito pubblico complessivo. Continua fu la tensionedei governanti per trasformare il debito fluttuante in consolidato, poiché sitemeva che, arrivando un momento di difficoltà dell’economia, lo stato, avendobisogno di capitali, in presenza di un elevato debito fluttuante, avrebbe ottenu-to con difficoltà nuovi prestiti.

La ricerca di Confalonieri e Gatti si sofferma anche sul rapporto fra saggidi interesse e scadenze del debito pubblico. Gli autori sottolineano la incapa-cità dei governanti dell’epoca a gestire l’andamento dei saggi di interesse deldebito pubblico. Per i saggi da applicare si ebbero contrasti fra banca centralee banche ordinarie, fra Tesoro dello Stato e Parlamento e fra Tesoro e bancacentrale. La banca centrale, allorché il Tesoro fissava i saggi di interesse, si sen-tiva privata della libertà di manovre degli stessi, perché non riusciva a gestire lapolitica monetaria. La conseguenza era che i governanti e la banca centrale,dovendo combattere su più fronti, non furono in condizioni di controllare illivello dei prezzi, specialmente nei momenti più difficili, come la grande crisidel 1929-33108.

Un ulteriore problema affrontato da Confalonieri e Gatti riguarda il colloca-mento del debito pubblico. Problema di non facile soluzione, perché non vi sonodati sul classamento del debito pubblico italiano e non è facile stabilire qualeparte delle disponibilità finanziarie fu investita in titoli pubblici dalle banche,dalle compagnie di assicurazione, dagli enti statali (Cassa Depositi e Prestiti, isti-tuti di previdenza) e dalle imprese in genere. Dai pochi dati disponibili risultauna preferenza per gli investimenti in buoni del Tesoro pluriennali; nei debiticonsolidati grossi investimenti furono effettuati dalla Cassa Depositi e Prestiti edai risparmiatori privati, mentre, molto scarsi furono gli investimenti effettuatidalle banche, coscienti dell’inflazione che corrodeva i prestiti a lungo termine e ifondi pensione aziendali109. In conclusione, il lavoro di Confalonieri e di Gattipuò considerarsi una fonte preziosa per ulteriori ricerche sulle tecniche di emis-sione dei titoli del debito pubblico, sulla scelta di politica monetaria, sulla regola-zione dell’andamento dei prezzi e sulla collocazione del risparmio.

Interessanti sono quelle ricerche – costruite sulla base di dati statistici edocumenti – dirette a chiarire le interazioni esistenti fra politica monetaria,

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108 Ibidem, vol. I, p. 23.109 Ibidem, vol. I, pp. 34-35.

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politica bancaria e finanziaria ed economia reale. Un tentativo in tale direzioneviene fatto nel lavoro di Panteghini e di Spinelli, dal titolo: “Un buon rientrodal debito pubblico: l’Italia tra ’800 e ’900”110. In esso, la politica monetaria equella fiscale dei governanti dell’epoca non vengono viste slegate. Negli annicompresi tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale, siebbe un’interazione fra strategia monetaria e politica fiscale. Gli autori partonodal presupposto che si ebbe una stabilizzazione dei cambi, grazie alla riduzionedello stock di titoli italiani quotati all’estero. Ciò fu una conseguenza anche delriequilibrio della bilancia dello stato, grazie ad un maggior gettito fiscale e ilconseguente freno alla crescita dell’emissione dei titoli del debito pubblico (dal1896 al 1913, il rapporto debito pubblico PIL scese dall’1,32 allo 0,78 percento)111. Pertanto, la stabilità dei cambi comportò la stabilità dell’emissionemonetaria. “Il legame fra la politica monetarie e la politica fiscale risulta biuni-voco, dal momento che la stessa politica monetaria svolge un ruolo fondamen-tale nell’equilibrio del bilancio statale e sulla riduzione dello stock del debitopubblico”. Grazie a tale interazione e alla conseguente stabilità finanziaria fupossibile il ritorno alla convertibilità della cartamoneta e la conversione deldebito pubblico (nel 1906) fu subito consolidato. Gli autori sono convinti che igovernanti dell’epoca, assieme ai responsabili della politica bancaria, seguironouna teoria fiscale–finanziaria con una duplice applicazione: il cambio della lirainfluì sulla politica fiscale nei suoi aspetti di movimenti di capitali; lo stock deldebito pubblico, collocato all’estero, costituiva un veicolo di perturbazione sulcambio delle lire e sulle riserve degli istituti di emissione, ciò, a sua volta, influi-va sulla politica monetaria da adottare112.

A conclusioni molto vicine a quelle di Panteghini e di Spinelli giunge PaoloPecorari nel suo lavoro dal titolo: “La politica finanziaria di Luigi Luzzatti, Mini-stro del Tesoro nei governi Rudini (1896-98)”113. Il periodo preso in considerazio-ne da Pecorari è più breve, ma egli subito fissa l’indirizzo di politica finanziariavoluto da Luzzatti: “riequilibrare la bilancia dei pagamenti, risanare la circolazio-ne e raggiungere il pareggio”, aumentando la pressione fiscale e controllando lespese al fine di ridurre il debito pubblico. Nell’attuare quella politica, Luzzatti insi-stette, innanzitutto, sul risanamento monetario, per cui riuscì a ridare alla lira di

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110 P. PANTEGHINI e F. SPINELLI, Un “buon” rientro dal debito pubblico: l’Italia tra ’800 e ’900,in “Politiche macroeconomiche, gestione del debito pubblico e mercati finanziari”, a cura di M.Bagella e L. Paganetto, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 145-182.

111 Ibidem, p. 147.112 Ibidem, pp. 151-152.113 P. PECORARI, La politica finanziaria di Luigi Luzzatti, Ministro del Tesoro nei governi Rudi-

ni (1896-98), in “Finanza e debito pubblico in Italia tra ’800 e ’900”, Istituto Veneto di ScienzeLettere ed Arti, Venezia, 1995, pp. 13-97.

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carta la convertibilità in oro. Ciò passò attraverso il risanamento patrimoniale degliistituti di emissione, fiaccati dalla crisi finanziaria del 1893-94. Luzzatti riuscì arisanare il Banco di Napoli, che fu particolarmente coinvolto nella crisi, rafforzò leriserve degli istituti di emissione ed avviò quel processo di consolidamento dellaBanca d’Italia, che, nel giro di un quarto di secolo, acquistò il monopolio dell’e-missione della cartamoneta e prese le redini della politica monetaria del paese con-trastando la politica dei ministri del Tesoro. Risanata la moneta si favorì anche ilrisanamento delle finanze dello stato e la riduzione del debito pubblico, che siebbe anche grazie all'aumento del gettito tributario e all’aumento delle rimessedegli emigrati. Quest’ultimo è un fattore positivo della bilancia dei pagamenti, perla quale Luzzatti si impegnò a combattere le frodi che si commettevano, in Italia eall’estero, allorché gli emigranti spedivano i loro risparmi in Italia114.

Nell’ambito delle ricerche sul debito pubblico, vanno segnalati i saggi diGiancarlo Salvemini e di Vera Zamagni, di Giuseppe Felicetti e di Andrea Ripadi Meana pubblicati nella Collana storica della Banca d’Italia.

Giancarlo Salvemini e Vera Zamagni hanno ricostruito la storia dell’inde-bitamento statale italiano nel periodo fra le due guerre115. Si tratta della deter-minazione del fabbisogno di cassa dello stato attraverso serie storiche (per ilperiodo 1918-1939) relative ai titoli del debito pubblico emessi dallo stato abreve, medio e lungo termine; la raccolta del risparmio postale; le anticipazioniche gli istituti di emissione concessero al Tesoro; i biglietti emessi per contodello stato; i debiti esteri; altri finanziamenti concessi allo stato. La disponibilitàdi questi dati consente di analizzare la politica fiscale e monetaria adottata daigovernanti nel periodo fra le due guerre. Per un giudizio attendibile sugli effet-ti del fabbisogno finanziario e del debito del settore statale, secondo gli autori,“richiederebbe che queste grandezze fossero analizzate in relazione alle altrevariabili economiche nazionali e internazionali, che influenzavano nel periodoin esame la finanza pubblica italiana e, a loro volta, erano influenzate da que-ste”. Ciò non è stato fatto dagli autori che hanno voluto dare solo un “contri-buto conoscitivo” per coloro che vogliono esaminare l’economia dell’epoca informa critica. Il saggio di Salvemini e Zamagni viene completato da un’appen-dice curata da Alberto Baccini, dove si effettua un’analisi critica comparatadelle serie ricostruite e di altre ricostruzioni esistenti in tema di bilancio pub-blico, offrendo un’interpretazione del dibattito sulla finanza pubblica116.

121

114 Ibidem, pp. 64-65.115 G. SALVEMINI e V. ZAMAGNI, Finanza pubblica e indebitamento tra le due guerre mondiali: il

finanziamento del settore statale, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica tra le due guerre (1919-1939)”, Ricerche per la storia della Banca d’Italia, vol. II, Editore Laterza, Roma-Bari, 1993.

116 A. BACCINI, Appendice A2. Sulla ricostruzione del bilancio dello stato, con particolare rife-rimento agli anni 1918-39, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica”, cit., pp. 237-283.

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Nello stesso volume relativo ai “Problemi di finanza pubblica tra le dueguerre (1919-1939)”, pubblicato nella Collana di “Ricerche per la storia dellaBanca d’Italia”, vi è un saggio di Giuseppe Felicetti, nel quale si riportano idati, prima non disponibili, sui rendimenti, all’emissione, dei titoli pubblici,sulle quantità emesse e sui rimborsi effettuati117. “I dati ricostruiti consentono –secondo Franco Cotula – di studiare la gestione del debito pubblico italiano; lascelta dei tassi di interesse all’emissione; l’ammontare, la durata e le altre carat-teristiche dei titoli emessi118.

Andrea Ripa di Meana, sempre nel volume della Collana di “Ricerche perla storia della Banca d’Italia”, pubblica un saggio su “Il consolidamento deldebito pubblico e la stabilizzazione Mussolini”. L’autore, partendo dal presup-posto che bisogna trovare la ragione del successo di ogni politica di stabilizza-zione, si riaggancia alla teoria di T. Sargent, in base alla quale la politica dipareggio del bilancio, perseguito dai governi, porta alla stabilizzazione del valo-re della moneta e quindi crea un clima di fiducia nei possessori di titoli deldebito pubblico. Questa fiducia dà successo all’operazione di consolidamentodel debito. Partendo da questo presupposto, Ripa di Meana ricollega il succes-so del consolidamento del debito pubblico – attuato da Mussolini, nel 1926,con il prestito Littorio – alla riforma fiscale, che avrebbe ridotto il disavanzo delbilancio dello stato, e alla politica di stabilizzazione della lira con il ritorno all’o-ro. Il consolidamento del debito consentì al governo di avere pieno controllomonetario, tagliando la spirale che si era creata tra rifinanziamento del debito,cioè continua emissione di titoli pubblici, creazione di moneta, fuga di capitaliper la svalutazione della lira e aspettative di svalutazione. Le conseguenze dellamoneta forte non influirono eccessivamente sui cambi, grazie al contenimentodegli scambi internazionali. Molto negativo fu, invece, il permanere dell’elevatocosto del denaro, che produsse effetti restrittivi sugli investimenti industriali.“Il consolidamento – conclude Cotula – al di là del breve periodo, avvantaggiòi detentori dei titoli pubblici, che conseguirono guadagni in conto capitale intermini ‘reali’ perché la caduta del corso dei titoli fu più che compensata dallariduzione del livello dei prezzi, di riflesso, il consolidamento contribuì ad accre-scere gli oneri finanziari reali del Tesoro”119.

In conclusione, apprezziamo i lavori di Salvemini e Zamagni, di Felicetti edi Ripa di Meana, poiché si pongono obiettivi di ricerca limitati e ben docu-

122

117 G. FELICETTI, Le emissioni di titoli pubblici nel periodo 1919-1939, in “AA.VV., Problemidi finanza pubblica tra le due guerre”, cit., pp. 333-356.

118 F. COTULA, Introduzione, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica tra le due guerre”,cit., p. XI.

119 Ibidem.

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mentati. Anzi possono considerarsi il primo passo per ulteriori ricerche. Salve-mini e Zamagni riconoscono che i dati raccolti vanno interpretati alla luce dialtri dati sull’economia e sulle finanze, altrimenti non possono dare risultatidegni di considerazione. Felicetti si propone di misurare la quantità e descrive-re le caratteristiche dei titoli emessi, il loro rendimento, nonché i rimborsi effet-tuati. Anche questa ricerca è prevalentemente informativa. Solo il saggio diRipa di Meana è interpretativo di un evento ben delimitato, come la conversio-ne del debito fluttuante, che diede buoni risultati grazie al fatto che fu attuatoin un momento di politica monetaria deflazionistica.

5. La finanza statale

Nell’ambito delle ricerche sulle finanze dello stato, dall’inizio dell’Ottocen-to alla fine del Novecento, abbiamo ritenuto di soffermarci sul lavoro di Nico-la Ostuni, relativo alle finanze del regno delle Due Sicilie120, sul lavoro di PaoloFrascani riguardante i rapporti fra finanza ed economia dall’unità d’Italia aglianni Trenta121, sul mio lavoro relativo all’opera di Marcello Soleri come Mini-stro delle Finanze e Ministro del Tesoro122, sul lavoro di Giancarlo Morcaldorelativo alle finanze italiane nel trentennio 1960-1992123 e sugli atti del convegnorelativo alla finanza pubblica in età di crisi124.

Il lavoro di Ostuni percorre, attraverso una complessa analisi bibliograficae documentale, le vicende economico-finanziarie del regno delle Due Sicilie, apartire dalla restaurazione post-murattiana. I risultati portano alla revisione deigiudizi, sulla politica economica della restaurazione borbonica, formulati, inparticolare, da Ludovico Bianchini sulla base degli stati discussi dello stato.L’autore dimostra che, in termini reali, in presenza di prezzi decrescenti, rispet-to al decennio francese, il bilancio dello stato mostrava le seguenti caratteristi-che: 1) rilevanti incrementi in entrata, ottenuti con una pressione tributariaquasi insostenibile; 2) stazionarietà (o comunque modesta crescita) in tutti i set-tori della spesa, con inevitabile conseguenza della stagnazione. Il forte drenag-gio fiscale ed il ricorso all’indebitamento pubblico accentuarono (anche con lararefazione del circolante) la depressione dei prezzi interni e causarono la sva-

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120 N. OSTUNI, Finanze ed economia nel regno delle Due Sicilie, Liguori, Napoli, 1992.121 P. FRASCANI, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni Trenta,

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 1988.122 F. BALLETTA, La politica finanziaria in Italia nel primo e nel secondo dopoguerra. L’opera

di Marcello Soleri, ESI, Napoli, 1993.123 G. MORCALDO, La finanza pubblica in Italia (1960-1992), Il Mulino, Bologna, 1993.124 AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. Di Vittorio, Cacucci Editore, Bari, 1993

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lutazione del ducato sui mercasti esteri, dove la moneta napoletana venivainviata per far fronte ai pagamenti internazionali125.

Ostuni, ponendosi sulla linea del modello teorico di Wallerstein, relativa-mente al funzionamento dell’economia di un’area periferica, dimostra, affron-tando anche una importante componente sociale, come, la struttura bancarianapoletana, monopolio di pochi grandi mercanti, gestisse il circuito finanziario,che consentiva un temporaneo rientro dei capitali monetari che venivano rie-sportati dal governo per far fronte ai suoi impegni internazionali. Il ceto oligar-chico dei mercanti banchieri, in tal modo, raccoglieva i frutti dei differenti tassidi interesse tra mercato estero (bassi) ed interno (alti) e beneficiava di alcunescelte di politica economica, che il governo era costretto a compiere per facili-tare il compito dei prestatori spesso collegati, con vincoli societari, a importan-ti banche estere. In tal modo, l’autore sottolinea il fenomeno della preminenzadel ceto mercantile nell’economia del regno di Napoli. L’analisi delle vicendepolitico–finanziarie e socio-economiche del regno borbonico rappresentano ipiani strettamente interrelati su cui si costruisce l’impianto del lavoro.

Il libro di Frascani raccoglie scritti inediti e già pubblicati sulle finanzedello stato italiano e la finanza locale in connessione con lo sviluppo economi-co e con i mutamenti sociali che si ebbero dall’Unità alla vigilia della secondaguerra mondiale126. Non trattandosi di capitoli di una stessa ricerca, i lavoridifettano di coordinazione, tuttavia sono legati da un comune intento: metterein evidenza i meccanismi di finanziamento del sistema finanziario, al fine di sta-bilire le connessioni fra i mutamenti della finanza pubblica e le scelte effettuatedai responsabili della politica nazionale e locale. “Tale angolazione – secondoFrascani – consente di delineare la centralità delle problematiche finanziarienella storia economica dell’Italia contemporanea, ma anche di evidenziare lacomplessità e la poliedricità in un quadro interpretativo più ampio”127.

Per il governo della destra storica, Frascani sottolinea le difficoltà che furo-no incontrate per l’applicazione del sistema di riscossione delle imposte dirette,poiché la maggior parte della popolazione considerava il pagamento dei tributiun atto imposto, una violenza o un’ingerenza dello stato nella vita privata. Ilcompito degli esattori dei tributi fu quello di mediare fra le esigenze e le aspet-tative dei contribuenti, i quali si dovettero convincere che quel pagamento erail corrispettivo di servizi sociali che ricevevano.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore riguarda la redistribuzione deiredditi attuata dalla politica fiscale della destra storica128. Redistribuzione sotto-

124

125 N. OSTUNI, Finanza ed economia nel regno delle Due Sicilie, cit., pp. 20 e sgg.126 P. FRASCANI, Finanze, economia e intervento pubblico, cit., p. XII.127 Ibidem, p. XIV.128 Ibidem, pp. 3- 5.

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lineata da Rosario Romeo, Valerio Castronovo e Franco Bonelli nei loro lavorisulla interpretazione del capitalismo italiano129, per cui la politica della destrastorica comportò un trasferimento di ricchezze dal comparto agricolo a quellodei servizi e delle infrastrutture.

Saltando alle finanze dello stato nel periodo di passaggio dall’economiabellica all’economia di pace (1918-1922), Frascani attribuisce un ruolo determi-nante all’intervento pubblico, ruolo segnato dall’alternarsi di inflazione e defla-zione, effetti monetari solo in parte favorevoli alle industrie, ma che avvantag-giarono le banche pubbliche con particolare riguardo agli istituti di emissionefinanziatori delle attività industriali. La presenza dello stato nell’economia,durante il primo dopoguerra, si rafforzò “a partire da un’idea di integrazionedei circuiti finanziari pubblici e privati che tenne conto dell'assetto produttivoe delle esperienze maturate nella gestione della politica economica durante lafase della riconversione”130. Nella fase liberistica, l’intervento si consolidò e fudemandato “alle alte sfere di una tecnocrazia che, proveniente dalle esperienzedel decennio giolittiano, attraversò senza traumi significativi il periodo bellico epostbellico per approdare, durante il periodo fascista, a nuovi e più significati-vi traguardi nella gestione esecutiva dell’economia pubblica”131. Comunque,secondo Frascani, queste tematiche, incentrate principalmente sulla posizioneche il capitale finanziario ebbe nell’economia pubblica, attendono ancora diessere studiate, anche in relazione al processo di sviluppo economico132.

Il problema della influenza della finanza locale sullo sviluppo economicoitaliano viene affrontato da Frascani per il periodo liberale e in età crispina “siriaggancia sia alla prospettiva spesa pubblica – modernizzazione – sviluppo cheal modulo fiscalità – consumi – crisi agraria”133. Le conclusioni dell’autore sonomolto significative, poiché rilevano che, nel periodo considerato, i comuni ita-liani furono impegnati ad adeguare i loro servizi all’evoluzione dell’economialocale. Tuttavia, tale tendenza – secondo Frascani – andava “commisurata aduna varietà di situazioni geografiche ed economiche che nella nostra indagineappare solo tratteggiata a grandi linee. Ribadendo ancora una volta l’esigenza diricostruire sul metro di analisi locali le situazioni economiche e politiche a cuipossono essere riferite le scelte delle amministrazioni locali”134. Comunque, tali

125

129 R. ROMEO, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1959, p. 122; V. CASTRONOVO, La storia eco-nomica, in “Storia d’Italia”, vol. 4, t. 1, Torino, 1975, p. 26; F. BONELLI, Il capitalismo italiano.Linee generali d’interpretazione, in “Storia d’Italia”, Annali, Torino, 1978, pp. 1202 e sgg.

130 P. FRASCANI, Finanze, economia, cit., p. 153.131 Ibidem, p. 153.132 Ibidem, p. 112.133 Ibidem, p. XIV.134 Ibidem, pp. 62-63.

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scelte andavano ricollegate alla politica finanziaria generale del paese, sia per glienti locali che per gli enti statali. Ciò dimostra che la strada della ricerca stori-ca in fatto di finanza locale è ancora molto lunga.

Il mio lavoro sull’opera compiuta da Marcello Soleri, in materia di politicafinanziaria135, vuole essere un contributo di chiarificazione sull’operato di unuomo della “sinistra liberale” – alla quale appartennero Maffeo Pantaleoni,Antonio De Viti De Marco e Luigi Einaudi –, che, nel primo dopoguerra, fuprima commissario per gli approvvigionamenti e consumi e poi ministro delleFinanze; nel secondo dopoguerra, fu ministro del Tesoro. Il lavoro è impostatocon l’intento di stabilire quanto Soleri si adoperò per eliminare le distorsionidel capitalismo italiano derivanti dagli sconvolgimenti economici e finanziariprodotti dalla guerra. I provvedimenti urgenti che fu necessario prendere pergli eventi bellici in atto, accompagnati alle distruzioni inutili di ricchezze, favo-rirono la corruzione, l’evasione fiscale, lo smantellamento delle direzioni ammi-nistrative delle aziende pubbliche e private e, principalmente, aiutarono l’arric-chimento di alcuni a danno di altri.

In qualità di commissario per gli approvvigionamenti e consumi, nel primodopoguerra, a Soleri toccò il non facile compito di liquidare, gradualmente,l’apparato annonario costruito durante la guerra, intorno al quale si effettuava-no non poche operazioni speculative, fonte di arricchimento per i fornitoridello stato e per gli addetti alla distribuzione di generi di prima necessità. Perle finanze dello stato, lo smantellamento dell’apparato annonario significò ridu-zione delle spese. Nella stessa direzione andò l’abolizione del prezzo politicodel pane, che si traduceva in una spesa inutile per lo stato e un beneficio ecces-sivo per le classi ricche. Come ministro delle Finanze preparò un progetto diriforma generale del sistema tributario statale, che si era strettamente correlatocon la finanza locale. Il progetto, tuttavia, non fu approvato per la caduta delgoverno. Soleri introdusse numerosi correttivi ai tributi al fine di eliminare lesperequazioni esistenti fra imposte ordinarie e imposte straordinarie. In parti-colare, migliorò l’imposta sul patrimonio, per la quale era contrario in linea diprincipio, perché, in un paese civile, le imposte devono colpire esclusivamentei redditi e non taglieggiare i patrimoni, che sono la fonte per la realizzazione dialtre ricchezze. Egli riusciva ad accettarla solo come imposta straordinaria e nevedeva l’applicazione come imposta reale, proporzionale e secca, non persona-le e progressiva. Comunque, con l’introduzione delle sue modifiche riuscì quasia trasformarla in imposta sul reddito, poiché dilazionò il pagamento in un arcodi tempo di venti anni, in modo che il peso ricadeva sul reddito senza taglieg-

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135 F. BALLETTA, La politica finanziaria in Italia nel primo e nel secondo dopoguerra, cit., pp.1-185.

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giare il patrimonio. Nel primo dopoguerra, Soleri riuscì nel difficile compito dioperare il passaggio dalla finanza straordinaria di guerra a quella ordinaria dipace. Passaggio che andava attuato gradualmente per evitare scossoni alla eco-nomia ancora troppo fragile. Così non fu facile evitare il calo delle entrate e,contemporaneamente, allentare la pressione tributaria al fine di non scoraggia-re gli investimenti.

Nel secondo dopoguerra, a Soleri, come ministro del Tesoro, toccò il com-pito di attuare una politica antinflazionistica attraverso il contenimento dellespese dello stato e la riduzione della circolazione monetaria. I provvedimentipiù significativi che prese riguardarono ancora l’abolizione del prezzo politicodel pane e il difficile riconoscimento, da parte del governo alleato, del creditoitaliano relativo alle am-lire. Ma il provvedimento più coraggioso fu preso, nel1945, con il lancio di un prestito in buoni quinquennali del Tesoro, in unmomento in cui l’economia era distrutta e bancari, finanzieri ed economistierano contrari. Il prestito ebbe un grande successo, Einaudi riconobbe che vi fuun “plebiscito” dei risparmiatori a favore del provvedimento. Ciò significò unnotevole freno al dilagare dell’inflazione, un rafforzamento della fiducia deglialleati nella capacità di ripresa dell’Italia e fu il primo passo serio per la rico-struzione economica del paese136.

Tra i saggi sulla finanza pubblica in generale ritengo di segnalare il lavorodi Giancarlo Morcaldo sulla finanza pubblica in Italia fra il 1960 e il 1992137. Unperiodo di profonde trasformazioni del tessuto economico-sociale, caratterizza-to, negli anni Settanta, dall’inflazione galoppante favorita dalla spinta salariale,dalla crescita del costo delle materie prime e delle fonti energetiche. Negli anniOttanta, l’inflazione diminuì per la riduzione del costo dei prodotti energetici,per l’azione della politica monetaria e del cambio. In questo quadro, l’autore sichiede in che misura la finanza pubblica influì sull’evoluzione dell’economia. Inparticolare come l’economia risentì del peso dell’intervento pubblico, dell’ele-vato fabbisogno di entrate e dell’accumulo del debito pubblico. Alla crescitadella spesa pubblica e del disavanzo, nel trentennio considerato, contribuironofattori di fondo – come la crescita demografica e il miglioramento della sicu-rezza sociale già avviato nei decenni precedenti –, ma anche la dissociazione diresponsabilità tra i centri decisionali di spesa e quelli incaricati di reperire leentrate necessarie a far fronte alle spese; l’irrigidimento della spesa connessacon l’introduzione di meccanismi automatici di crescita delle variabili demo-grafiche e macroeconomiche; l’incapacità delle strutture del bilancio ad ade-guarsi al fabbisogno finanziario dello stato. A poco serviranno le politiche di

127

136 F. BALLETTA, La politica finanziaria in Italia, cit., pp. 158-160.137 G. MORCALDO, La finanza pubblica in Italia (1960-1992), cit., pp. 5-265.

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bilancio per il riequilibrio dei conti pubblici, in particolare fu “posto in rilievocome gli obiettivi dell’azione sul saldo ‘primario’ nel corso del tempo [furono]resi più stringenti, per far fronte agli elevati tassi d’interesse pagati per il debi-to pubblico”138. I riflessi dell’intervento pubblico e del disavanzo del bilanciodello stato – esaminati attraverso il sistema tributario e nei principali compartidella spesa – vengono visti da Morcaldo in relazione al reddito disponibile dellefamiglie e all’andamento dei prezzi. In proposito, vengono analizzati i diversicanali attraverso i quali si può influire sui prezzi e sui redditi: la politica disostegno della domanda; il ricorso al mercato del credito; la creazione di mone-ta; gli inasprimenti fiscali. L’autore, inoltre, esamina gli effetti dell’espansionedella spesa pubblica e dei disavanzi di bilancio sul settore privato. In particola-re, studia gli effetti del costo dei loro finanziamenti (crowding aut) e quelli sul-l’attività produttiva attraverso il sostegno del cambio, che, in conseguenza deldivario d’inflazione, rispetto agli altri paesi, causò rilevanti perdite di competi-tività. Le ultime conseguenze del dissesto della finanza pubblica vengono vistein relazione alla formazione del risparmio, prendendo in considerazione la cre-scita dei consumi e il miglioramento del sistema pensionistico. Nel presentareil volume di Morcaldo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, sot-tolinea i fattori che influirono sul grado di efficienza e controllabilità dellaspesa. “Tra questi – egli scrive – alcune modifiche istituzionali che hanno inte-ressato i vari livelli di governo – da cui è derivata una dissociazione di respon-sabilità tra gli enti preposti all’attuazione degli interventi e quelli incaricati direperire i mezzi finanziari occorrenti; l’introduzione di meccanismi automaticidi determinazione della spesa – che ne hanno rafforzato i legami con le variabi-li macroeconomiche e demografiche; la rigidità della struttura dei bilanci pub-blici e la farraginosità delle procedure amministrative – che hanno ridotto lacapacità delle pubbliche amministrazioni di far fronte all’evolversi dei biso-gni”139.

Un richiamo all’importanza della storia della finanza pubblica fu fatto nelconvegno che si tenne, a Bari, nell’autunno del 1991, su “La finanza pubblicain età di crisi”140. In quella occasione, Luigi De Rosa sottolineò le “modeste pre-senze della storiografia finanziaria”, rispetto alla storiografia economica genera-le. Sull’importanza della finanza pubblica, De Rosa disse che si tratta di “untema centrale della storia economica; non solo un capitolo di straordinario inte-resse, suscettibile di un vastissimo campo di indagine, ma uno strumento perintrecciare relazioni fra l’uno e l’altro fenomeno, per trarre dall’esperienza sto-

128

138 Ibidem, p. 19.139 A. FAZIO, Prefazione, in “G. Morcaldo, La finanza pubblica italiana”, cit., p. 7.140 AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. Di Vittorio, cit., pp. 1-345.

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rica la conferma del probabile successo o fallimento di certi provvedimenti, pervalutare il grado di indipendenza degli altri paesi, per definire il grado di giu-stizia o di efficienza sociale che caratterizza il paese; in breve: il livello stessodella libertà degli strati sociali e dei fattori che lo sostengono”141.

Il tema del convegno era circoscritto ai momenti di crisi e abbracciava unarco temporale piuttosto vasto: dalla fine del ’500 alla metà del ’900. I relatoriche trattarono l’epoca contemporanea furono Leandro Conte, Daniela Felisini,Luigi De Rosa e Paolo Frascani. Leandro Conte trattò del rapporto fra finanzapubblica e domanda di credito negli stati sardi nel 1857142. La crescita dellespese statali, in Piemonte, si pensava di coprirla con le riforme del fisco, in par-ticolare con la riduzione dei dazi doganali e il miglioramento del sistema diriscossione dei tributi, eliminando gli appalti. Poiché la riforma fiscale non fuapprovata, complessivamente, dal Parlamento, ma per pezzi, la frantumazionela privò di efficacia e il rinnovamento mancò. Pertanto, il governo dovette cer-care la collaborazione dell’istituto di emissione. La Banca Nazionale garantìliquidità alle finanze statali con il ricorso a prestiti sull’estero e con l’introdu-zione del corso forzoso della cartamoneta. La novità consisteva nell’avere tra-sferito la gestione della crisi finanziaria dallo stato ad una istituzione privata, laBanca Nazionale, che si poteva avvalere del diritto di emissione ed effettuareoperazioni di drenaggio di capitali per il fabbisogno finanziario dello stato. Ciòsi riuscì a realizzare solo quando furono eliminate le norme sull’usura, che ren-devano poco elastico il sistema finanziario. “In conclusione – rileva Conte –l’insieme degli scompensi seguiti alla riforma del sistema fiscale e all’indirizzoproduttivistico cui i governi Cavour orientarono l’economia piemontese sicaratterizzò in un’alta mobilità di capitali, in una costante esposizione sull’este-ro”143.

La relazione di Daniela Felisini affronta le crisi che si ebbero nello StatoPontificio: quella del 1831 con caratteri politico-sociali e la carestia nel 1846-47, che continuò con gli avvenimenti rivoluzionari del 1848-49. Per la fragilitàe la rigidità del sistema finanziario, lo stato non seppe adeguarsi al fabbisognodi nuove entrate per coprire le spese militari e per far fronte alla riduzione delleentrate, conseguenza della crisi economica. La politica finanziaria, non riuscen-do a trovare nuovi tributi, seppe solo aumentare ulteriormente l’indebitamentocon l’estero144.

129

141 L. DE ROSA, Prefazione, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., p. XVI.142 L. CONTE, Finanza pubblica e domanda di credito, la crisi del 1857 negli stati sardi, in

“AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 51-61.143 Ibidem, p. 61.144 D. FELISINI, Le finanze pontificie nell’Ottocento tra inquietitudine politico-sociale e crisi

economica, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 181-211.

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Luigi De Rosa traccia un panorama delle crisi finanziarie che interessaronol’Italia dalla Unificazione agli anni Settanta del Novecento145. Egli esamina leragioni delle crisi e sottolinea i sacrifici che furono compiuti dagli italiani per illoro superamento, “sempre tramandando alle generazioni successive gravoseeredità”. Spesso le crisi furono causate da errate politiche interne, ma anche dafattori economici esterni. “Quel che si vuole sottolineare – egli scrive – è che lafinanza pubblica di uno Stato, in particolare lo stato italiano, non ha mai vissu-to, né può vivere, fuori del mondo, ma è immersa, anche con le sue più recon-dite fibre, nel tessuto economico nazionale e internazionale, e risente profonda-mente dei suoi movimenti. La finanza pubblica riflette cioè, nel bene e nelmale, quanto accade nella realtà in cui il paese è collocato e soprattutto espri-me le premesse di valore, o le pubbliche scelte, come oggi si dice, della classepolitica che lo controlla e lo guida”146.

Paolo Frascani esamina l’influenza che la finanza locale ha avuto sulla evo-luzione dell’economia italiana nella seconda metà dell’Ottocento147. Rileva irapporti fra enti locali e Cassa Depositi e Prestiti, che finanziò molte spese pub-bliche. Così il risparmio raccolto dalla Cassa muoveva concorrenza ai capitaliche dovevano servire alle industrie. Si tratta di una interferenza fra finanza loca-le e assetti produttivi, proprio nel momento in cui si stava riducendo l’indebi-tamento dello stato per favorire il credito alle imprese. “La politica di bilanciodei comuni fa registrare un andamento sostanzialmente opposto (a quello dellostato), dispiegando effetti meno vistosi sul piano quantitativo, ma probabilmen-te più mirati ed efficaci, in quanto riconducibili ad una miriade di situazionilocali”148.

6. La storiografia sulla finanza locale

Per la storia della finanza locale la letteratura esistente è ancora più scarnarispetto agli studi sulla finanza statale. Tra le poche ricerche serie che sono staterealizzate, nell'ultimo trentennio, prenderemo in considerazione due pubblica-zioni di Piola Caselli sul bilancio del comune di Cagliari, dal 1837 al 1848149, e

130

145 L. DE ROSA, Crisi e risanamento della finanza pubblica nell’Italia unita, in “AA.VV., Lafinanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 281-304.

146 Ibidem, p. 304.147 P. FRASCANI, Crisi economiche e finanza locale nell’Italia liberale, in “AA.VV., La finanza

pubblica in età di crisi”, cit., pp. 305-323.148 Ibidem, p. 323.149 F.P. CASELLI, Il bilancio del comune di Cagliari (1837-1848), in “Annali della Facoltà di

Scienze Politiche dell’Università di Cagliari”, Milano, 1976.

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le finanze del comune di Domodossola nel Novecento150; una ricerca di MariaCarmela Schisani sulle finanze del comune di Piedimonte d’Alife, dal 1830 al1859151; una mia pubblicazione sulla politica tributaria del comune di Napoli,dal 1861 al 1883152, e il recente lavoro di Rosa Vaccaro su comuni e stato nell’I-talia liberale153. I temi di maggiore interesse per la storia della finanza localesono le relazioni intercorse fra governo centrale ed enti periferici. Il dibattitoteorico sui rapporti fra stato e comuni ha riguardato sia le entrate che le spese.Nei primi decenni dell’Unità, erano i comuni che riscuotevano il maggior getti-to tributario derivante dai dazi e ne trasferivano una parte allo stato; dal 1881,con il dissesto finanziario dei comuni più grossi – Roma, Napoli, Torino, Mila-no – la riscossione passò allo stato, che si impegnò a trasferire una parte del get-tito ai comuni. In effetti, il modello dell’autonomia impositiva degli enti localidurò fino agli anni Settanta del Novecento. Un modello che prevedeva l’entelocale come “prelevatore efficiente”. Ciò, tuttavia, si attuò solo per aree impo-nibili ristrette (es.: imposta sugli immobili), molto più difficile risultava l’accer-tamento dei redditi a livello locale. Dagli anni Settanta in poi, con la riformadella finanza locale, si passò al modello del prelievo centrale e il trasferimentodi una parte delle entrate statali agli enti locali154.

Anche dal lato delle spese, le posizioni sono profondamente mutate. La leggedel 1865, che regolò le finanze municipali e provinciali, attribuì agli enti localicompiti importanti nell’ambito della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione, dell’or-dine pubblico e della tutela dell’ambiente. Le spese relative a tali compiti subiro-no un calo solo durante gli anni della prima guerra mondiale. Dal 1929, per lapolitica di accentramento dei poteri nello stato, si ebbe un ridimensionamentodelle funzioni dei comuni e delle province, per cui molti servizi passarono allacompetenza del governo. Il Testo Unico della finanza locale, approvato nel 1931,trasferì allo stato molte spese per l’istruzione, per la giustizia e per le opere pub-bliche. Con l’avvio della politica del welfare state, alcune spese sociali ricadderosui comuni. Fino agli anni Cinquanta del Novecento, per la politica accentratricedei poteri del fascismo, le spese degli enti locali furono molto contenute155.

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150 AA.VV., Domodossola nel Novecento, a cura di F.P. Caselli, Edizione Grassi, Domodosso-la, 2000.

151 M.C. SCHISANI, La finanza pubblica napoletana tra centro e periferia. Piedimonte d’Alifedurante il regno di Ferdinando II (1830-59), ESI, Napoli, 1995.

152 F. BALLETTA, Economia e finanze a Napoli dopo l’Unità. I. La politica tributaria municipa-le, Arte Tipografica, Napoli, 1983.

153 R. VACCARO, Comuni e stato nell’Italia liberale, Cedam, Padova, 2001.154 Ibidem, pp. 13-14.155 A. FRASCHINI, La finanza comunale in Italia: uno schema interpretativo, Franco Angeli,

Milano, 1991, pp. 11-12.

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Negli anni Cinquanta e Sessanta, sull’onda dello sviluppo economico e l’i-nurbamento nelle città del Nord della popolazione proveniente dalle campagnedel Sud, crebbero le spese dei comuni per i servizi sociali con alto contenuto dibene pubblico o strettamente necessario al miglioramento della produttivitàindustriale (acqua, viabilità, trasporti, pulizia, illuminazione, ecc.). Negli anni’70 e ’80, le spese furono indirizzate più verso i servizi personali (assistenza aglianziani, ai disabili, ai più poveri, per la costruzione di abitazioni popolari, ecc.),per cui ebbe una funzione redistributiva delle ricchezze. In sintesi, pur cre-scendo gli oneri pubblici, si ebbe la riduzione delle spese militari e l’aumentodelle spese sociali redistributive156.

Il lavoro di Piola Caselli sui bilanci del comune di Cagliari, pur essendolimitato al periodo 1837-1848, costituisce un modello di ricerca significativoper un giudizio sull’economia e sull’amministrazione di una città. I legamifinanziari fra le casse dello stato e la cassa comunale si risolsero positivamente,tanto che possono considerarsi, secondo Caselli, una partita di giro. Lo stessoCaselli sottolinea la funzionalità della prassi amministrativo-contabile attuata,che si concretizzò in tutti gli atti dovuti e di controllo. Gli amministratori nonfurono tentati ad effettuare spese facili, ma neanche “si irrigidirono in un pun-goloso fiscalismo”. Riuscirono a tenere il bilancio in pareggio o si indebitaronoper la costruzione di una importante opera pubblica, come l’ospedale, o perl’approvvigionamento di grano e carne per la città nei momenti di carestia.Nella gestione ordinaria, non si pensò a grandi opere, ma l’amministrazione siimpegnò per il mantenimento della viabilità, del verde, delle forniture di acquae per la sicurezza delle abitazioni. Anche il personale municipale, pur essendonumeroso, fu più impegnato per i servizi esterni che non per il lavoro negli uffi-ci. L’attività del comune, pur essendo condizionata dall’assenza di dinamismodell’economia della Sardegna e dall’isolamento, rispetto al continente, si rivelòscrupolosa e gli amministratori operarono con “intelligente parsimonia nelladistribuzione delle risorse”157.

Diverse da quelle di Caselli sono le conclusioni della ricerca effettuata daMaria Carmela Schisani sulle finanze di un importante comune del regno delleDue Sicilie, Piedimonte d’Alife, relative agli anni 1830-1859158. Pur trattandosidi un comune che aveva una buona attività industriale e godeva di una buonaposizione geografica – poteva fare da cerniera per il commercio interno delregno di Napoli fra la provincia di Caserta ed il Molise – per la politica attuata

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156 Ibidem, pp. 12-13.157 F.P. CASELLI, Il bilancio del comune di Cagliari, cit., p. 59.158 M.C. SCHISANI, La finanza pubblica napoletana tra centro e periferia. Piedimonte d’Alife,

cit., pp. 7-140.

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dai Borbone e per la politica degli amministratori locali, l’ente non ebbe laforza di favorire la crescita dell’economia locale. Le innovazioni istituzionaliintrodotte dai francesi, nel Mezzogiorno, all’inizio dell’Ottocento, non avevanosostituito completamente l’apparato istituzionale settecentesco. Il governo cen-trale forte non era in grado di far fronte alla varietà di esigenze che si presenta-vano a livello locale; le amministrazioni comunali, governate dal decurionato –un organo nominato dal re –, non furono in condizione di ribellarsi alle politi-che dei Borbone. Pertanto, mentre a Cagliari si riuscì a realizzare un ospedalecittadino, a Piedimonte d’Alife, coloro che coprivano le cariche politiche sierano così insteriliti da non avere la forza di ribellarsi al piano di costruzionistradali, distrettuali e provinciali che lasciava Piedimonte d’Alife fuori daimportanti vie di comunicazione commerciali. Dal punto di vista amministrati-vo-contabile, i preposti al governo della città ebbero poche possibilità di gestio-ne delle entrate, poiché vincolati alle necessità del pareggio del bilancio. Leentrate comunali, costituite per la maggior parte dal gettito dei dazi di consu-mo, non aumentarono in proporzione all’aumento dei bisogni. Lo stesso daziocreò buoni margini di favore per l’elite locale – costituita principalmente dagliamministratori comunali –, che cercarono favori personali al momento delpagamento dei tributi. In conclusione, la cattiva amministrazione e le farragi-nose regole istituzionali impedirono qualsiasi crescita dell’agricoltura locale,sfruttata dal circuito commerciale, né favorì la crescita della produzione indu-striale, che viveva sotto la serra calda della protezione statale159.

Nel mio lavoro sulla politica tributaria del comune di Napoli, dal 1861 al1883160, espongo i primi risultati di una ricerca che in futuro riguarderà anche lespese del comune. L’indagine – costruita sugli atti del Consiglio Comunale e suibilanci preventivi e di cassa – rileva le tensioni che si ebbero fra il governo centra-le e gli amministratori napoletani. Il primo impegnato a realizzare il pareggio delbilancio e quindi a rastrellare, il più possibile, entrate tributarie, i secondi preoc-cupati dell’eccessivo peso fiscale che ricadeva sui contribuenti. I risultati di talecontrasto ebbero riflessi sulle frequenti variazioni delle tariffe dei dazi di consumoe sull’ammontare del canone daziario, che il comune doveva versare allo stato.Altra conseguenza fu il passaggio da un sistema tributario semplice, basato princi-palmente sui dazi di consumo e sulla sovraimposta – che esisteva nel primo decen-nio dell’Unità –, ad un sistema complesso e confuso, per cui si moltiplicarono ipiccoli tributi – sulle insegne, sul suolo pubblico, sulle vetture, ecc. –, che erano didifficile e costosa riscossione. Quando gli amministratori comunali dovettero sce-gliere fra imposta di famiglia e imposta sul valore locativo optarono per la secon-da, che creava ingiustizie, ma era di facile riscossione.

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159 Ibidem, p. 98.160 F. BALLETTA, Economia e finanze a Napoli, cit., pp. 7-355.

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Nel primo ventennio dell’Unità, la finanza locale fu regolata dalle leggi del1859 e del 1865. Successivamente, si aggiunsero nuove disposizioni che contri-buirono a rendere difficile e caotica la gestione finanziaria dei comuni. Vi era lanecessità di una riforma organica della finanza locale, che fosse ben coordinatacon quella dello stato. A queste difficoltà oggettive si aggiunse la preoccupazio-ne degli amministratori locali, che cercavano di non aggravare la pressione sulleimposte dirette e in particolare quella sulle proprietà fondiarie, che erano nellemani degli elettori municipali. Spesso non furono approvati i regolamenti per lariscossione dei tributi, per conseguenza i contribuenti che si rifiutavano dipagare non erano sottoposti a sanzioni e gli appaltatori, con l'appoggio degliassessori, spadroneggiavano nella riscossione dei tributi, commettendo abusi eruberie. Altra piaga che colpiva il gettito tributario fu il contrabbando, che arri-vava fino al 50 per cento del dazio di consumo (maggiormente su generi diprima necessità: farina, latticini, carne e legumi). D’altra parte, la stessa leggeche regolava la riscossione dei dazi conteneva elementi di ingiustizia, poiché ilcanone che i comuni dovevano versare allo stato cresceva con il crescere dellapopolazione ed era proporzionale ai consumi. Per Napoli questa regola si tra-duceva in un peso ingiusto, poiché si trattava di una delle maggiori città italia-ne per densità demografica ed i consumi erano contenuti per il disagio econo-mico in cui versavano molti cittadini. Per la carenza nel gettito daziario, ilcomune, spesso, non riusciva a versare allo stato il canone stabilito, così avevaaccumulato un debito che non era in grado di pagare. Solo, nel 1879, grazieall’intervento di Magliani, una legge mise ordine nelle finanze della città e lariscossione del dazio passò dalla città allo stato.

In conclusione, il dissesto delle finanze napoletane dipendeva dalle leggiche regolavano la finanza locale, dalla politica di pareggio del bilancio attuatadal governo centrale, e dalla incapacità e disonestà degli amministratori locali.

Un secondo lavoro di Fausto Piola Caselli sulla finanza locale riguarda lastoria di un comune del Piemonte, Domodossola, dal 1901 al 1999161. All’iniziodel 900, i rapporti fra stato e comune furono piuttosto freddi. Domodossola fugestita con autosufficienza finanziaria. Lo stato si fece sentire solo in occasionedi grandi opere pubbliche di interesse nazionale, come l’apertura del traforodel Sempione. Durante il fascismo, la presenza dello stato fu avvertita solo peril comportamento del podestà, per manifestazioni del partito o per l’imposizio-ne del calmiere dei prezzi, che comunque influivano poco sulle finanze comu-nali. Il rapporto fra periferia e centro cambiò radicalmente, dal 1970 in poi,allorché una nuova legislazione attribuì ai comuni nuovi compiti e una maggio-

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161 F.P. CASELLI, Domodossola nel Novecento. Finanza comunale ed economia cittadina, in“Domodossola nel Novecento”, cit., pp. 55-134.

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re autonomia amministrativa e finanziaria. Per gli enti locali, comunque, fu sta-bilito il legame con le regioni. Dal punto di vista fiscale, si ebbe una profondarivoluzione, perché furono aboliti i dazi di consumo e l’imposta sui redditi dellefamiglie, sostituiti con tributi sui fabbricati. Lo stato si assunse il compito dellariscossione dei tributi e trasferì ai comuni la maggior parte del loro fabbisogno.La ragione dell’accentramento della riscossione dei tributi era dovuta alle “effi-cienze nella raccolta del gettito, semplificazione e unificazione del sistema tri-butario, ‘perversità’ degli enti locali nei riguardi dell’attività di stabilizzazioneeffettuata dal governo centrale, gerarchizzazione degli indirizzi di politica fisca-le redistributiva”162. Per il comune di Domodossola, nel 1990, i trasferimentirappresentavano circa il 60 per cento delle entrate.

Nel settore delle spese, ai comuni fu affidato il gravoso compito della redi-stribuzione dei redditi, poiché furono potenziati gli aiuti agli anziani, ai disabi-li e alle classi sociali più deboli, contemporaneamente, si potenziarono le speseper il miglioramento dell’ambiente e per i lavori pubblici. L’indebitamento delcomune di Domodossola fu rivolto, nel primo ventennio del secolo, più verso lebanche locali – che chiedevano alti tassi di interesse – che verso la Cassa Depo-siti e Prestiti. Durante il fascismo, l’indebitamento diminuì, poiché molti oneri,come quelli per la scuola, passarono allo stato. Nel secondo dopoguerra, conti-nuò l’indebitamento con le banche e fu esteso a diversi settori amministrativi163.Dai dati riportati da Caselli, relativi a tutto il Novecento (dal 1900 al 1999) –depurati della svalutazione della lira e del movimento demografico – risulta uncrescente intervento del comune nella vita cittadina e, in valore reale, le spesecrebbero da 80 mila a 140 milioni di lire164.

In una recente pubblicazione, Rosa Vaccaro studia il ruolo svolto dagli entilocali nello sviluppo economico italiano in età liberale165. L’autrice non si ponel’ambizioso compito di esaminare, in generale, quale fu il peso che ebbero glienti locali sull’economia dei primi decenni dell’Unità, bensì effettua una sele-zione geografica e tematica, cosciente delle profonde differenze delle struttureproduttive e delle differenti condizioni economiche che componevano il terri-torio unificato e ancor più della presenza di differenti élites che controllavanola politica e l’economia locale. Di tale divisione furono coscienti i parlamentariitaliani, che approvarono la legge del 1865 sull’unificazione amministrativa, laquale diede ai comuni e alle province autonomia nella gestione delle risorse e aiprefetti, come rappresentanti del potere centrale, il compito del controllo delle

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162 G.C. ROMAGNOLI, Nuove politiche di finanziamento degli enti locali in Italia. Confrontocon l’esperienza nord-americana, Franco Angeli, Milano, 1985, p. 184.

163 Ibidem, p. 72.164 Ibidem, p. 74.165 R. VACCARO, Comuni e stato nell’Italia liberale, cit., pp. 1-234.

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leggi e dei regolamenti. In questi termini, fu estesa a tutta la penisola unificatala legge Rattazzi del 1859, con l’intento di creare un mercato unico abolendo lesacche di arretratezza. Ma, passato il momento dell’unificazione, la legge non fupiù rivista. Solo negli anni Settanta del Novecento si ebbe una profonda revi-sione delle finanze provinciali e comunali.

La selezione effettuata dall’autrice riguarda tre aspetti della finanza locale: lecostruzioni stradali, le finanze del circondario di Velletri e le opere di sanità edigiene realizzate nella provincia di Roma. Sul primo punto Rosa Vaccaro rivela glierrori della politica della destra, con la quale si pretendeva, attraverso la costru-zione delle strade, di dare un impulso all’economia, viceversa dovrebbe esserel’incremento della produzione a favorire il miglioramento della viabilità. Così, inItalia, la costruzione di una nuova rete viaria e la manutenzione di quella esisten-te si mossero con lentezza, perché lo stato pretese un largo contributo dai comu-ni, che, spesso, non erano in grado di sostenere, specie quando si trattava di pic-coli centri montani, con scarsissime risorse. Obbligati a pagare il contributo, icomuni furono costretti ad indebitarsi, oppure elevarono la pressione tributaria.In alcuni casi, costruite le strade, in breve tempo, si resero inutilizzabili, perché icomuni non possedevano i mezzi per la manutenzione.

Nel secondo saggio – dal titolo “Unificazione amministrativa e finanzalocale. Il circondario di Velletri (1871-1897)” – l’autrice esamina gli effetti dellalegge comunale e provinciale del 1865, nei 18 comuni che componevano il cir-condario di Velletri. Si tratta di un’area limitata, che, tuttavia, riflette la varietàdelle condizioni economiche esistenti nel paese. Dei comuni esaminati, alcuniavevano un ricco patrimonio, per cui non avvertivano le conseguenze dellenuove leggi; in altri, i nuovi tributi esasperarono le disuguaglianze nella distri-buzione dei redditi. È la conferma di ciò che accadde per il comune di Napoli,che, all’inizio del Novecento, venne denunciato dall’onorevole Majorana:“grande sperequazione che si verifica non solo fra comune e comune, ma benanco fra l’una e l’altra classe di contribuenti dello stesso comune”166.

Nel terzo saggio di Vaccaro – dal titolo “Comuni, sanità ed opere igienichenella provincia di Roma (1870-1913)” – viene dato un giudizio sul funziona-mento della sanità in Italia. Nei primi anni del Novecento, in tutto il regno, siebbe una consistente riduzione della mortalità per malattie infettive, minore,però, fu la riduzione per la provincia di Roma, dove, nel quadriennio 1907-1911, si registrò addirittura una recrudescenza di quelle malattie (morbillo, tifoe scarlattina). La cura dell’igiene e della sanità pubblica dalla legge del 1865 fuaffidata ai comuni. Tuttavia, per le ristrettezze dei mezzi finanziari a loro dispo-sizione e per incuria o incapacità degli amministratori locali non si riuscì ad eli-

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166 Atti, parlamentari, Camera dei Deputati, Legislazione XXII, sessione 1904-1905, docu-mento n. 339, p. 12, citato in “R. Vaccaro, Comuni e stato”, cit., p. 146.

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minare le cause igieniche della persistente mortalità. Secondo il medico provin-ciale di Roma, Raffaele Zampa, bisognava “restituire gli agricoltori alle campa-gne”, cioè bisognava vietare l’allevamento del bestiame nei centri abitati.Secondo l’interpretazione dell’autrice, l’alta mortalità dipendeva dalla scarsaproduttività del lavoro agricolo, che si traduceva nelle misere condizioni eco-nomiche dei contadini, ma ancora più dalla malaria che imperversava nellepaludi. Gli scarsi guadagni degli agricoltori dipendevano dai piccoli appezza-menti che coltivavano o dalla presenza del latifondo mal coltivato e con scarsis-sima produttività. Pertanto, le cattive condizioni sanitarie erano il risultato “deldegrado del territorio, della bassa produttività della terra e dello scarso redditodei contadini”167. Problemi che saranno affrontati solo dopo la prima guerramondiale.

Conclusioni

Gli studi che si sono avviati sulla storia del mercato borsistico italianoassieme alle ricerche di storia delle assicurazioni hanno fatto compiere un note-vole salto di qualità alla storiografia italiana degli ultimi decenni, consentendo-gli un netto distacco dal giudizio negativo pronunciato da Giuseppe Galassonel volume “Nient’altro che storia”, dove si afferma che la recente storiografianon ha compiuto “nessun grande volo; pochi svolgimenti realmente importantidel già detto: molta superficialità e incertezza di prospettive, insieme con unadiffusa supponenza verso alcuni dei maggiori indirizzi e tradizioni della culturaeuropea”168. La ragione di tale deficienza sarebbe legata all’ansia del “moderno”e le nebbie del “postmoderno”, che hanno sconvolto e depresso la tradizionedella storiografia europea169.

Viceversa, la ricostruzione della storia della borsa attraverso alcune signifi-cative imprese del mercato italiano hanno rilevato l’importanza della ricercafondata su nuovi documenti, fondamento dell’evoluzione dell’impresa al fine dicostruire ed approfondire gli indicatori fondamentali, che determinano la realtàdel mercato e le manovre che le grandi famiglie del capitalismo hanno compiu-to per rimanere al comando dei grandi gruppi industriali e finanziari.

La strada delle ricerche sull’importanza degli investimenti di rischio è aper-ta. Ora bisogna percorrerla fino in fondo con nuovi e più approfonditi studiche prendono le distanze dalle conclusioni a cui sono arrivati alcuni editoriali-

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167 R. VACCARO, Comuni e stato, cit., p. 228.168 G. GALASSO, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Il Mulino,

Bologna, 2000, p. 7.169 Ibidem, p. 8.

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sti di giornali sulla necessità di regolamentare i mercati finanziari nazionali einternazionali al fine di scoraggiare le bolle speculative ed attenuarne le conse-guenze170. Forse potrebbe essere anche questa la soluzione per ridurre l’area delrischio, ma le proposte potranno farsi solo dopo una profonda conoscenza deimercati.

Secondo Giuseppe Felloni, il minor numero di pubblicazioni di storiafinanziaria italiana degli ultimi decenni sarebbe derivato da una “certa stan-chezza per questo genere di studi, da una certa insoddisfazione per i risultatiottenuti con le metodologie e le problematiche tradizionali171. Io aggiungerei,per la storia della finanza pubblica postunitaria, che – dopo le ricerche diAchille Plebano172, Giuseppe Parravicini173 e Francesco A. Repaci174, che hannotracciato le linee essenziali degli eventi – occorre passare ad approfondimentiper periodi limitati e per argomenti specifici; creare connessioni fra la politicamonetaria e la finanza pubblica; misurare, con indagini quantitative, gli effettiche la politica fiscale produsse sulla redistribuzione della ricchezza; stabilire leragioni di una maggiore o minore pressione fiscale; valutare la politica dellaspesa pubblica, calcolando il miglioramento di produttività che ricevettero leimprese; esaminare i diversi tipi di indebitamento che lo stato effettuò stabilen-do la convenienza dei debiti a breve rispetto a quelli a lungo termine. Per impo-stare ricerche di questo tipo, ed altre che non è il caso di elencare, occorreavere prima una profonda conoscenza delle tecniche contabili, al fine di dare lamigliore interpretazione della politica finanziaria adottata. A ciò bisognaaggiungere la mole di documenti da consultare. Consultazione non facile, per-ché si tratta di carte raccolte in modo disorganico. “Sussiste infatti – scrivePaolo Roberti nella prefazione del volume sul debito pubblico pubblicato dalMinistero del Tesoro – una molteplicità di fonti e di aggregati di riferimentoche, a loro volta, si sommano a una frammentarietà dell’informazione e a unamancanza o difficoltà di reperimento dei criteri di raccordo tra i diversi dati”175.Dello stesso parere era Luigi Einaudi, che, nel ricordare i numerosi bilanci diprevisione, i consuntivi, i conti mensili del Tesoro, i documenti della Ragioneria

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170 F. GALIMBERTI, Economia e pazzia. Crisi finanziarie di ieri e di oggi, Editori Laterza,Roma-Bari, 2002, pp. XIV-XV.

171 G. FELLONI, Temi e problemi nella storia, cit., p. 103.172 A. PLEBANO, Storia della finanza italiana nei primi quaranta anni della unificazione,

Ristampa a cura di S. Buscensa, voll. 3, Padova, 1960.173 G. PARRAVICINI, La politica fiscale e le entrate effettive nel regno d’Italia (1860-1990), Tori-

no, 1958.174 F.A. REPACI, La finanza italiana nel secolo 1861-1960, Bologna, 1962.175 P. ROBERTI, Obiettivi, previsioni, andamenti di finanza pubblica e politica fiscale, in “Mini-

stero del Tesoro, Politica fiscale e debito pubblico”, Poligrafico dello Stato e Zecca dello Stato,Roma, 1993, p. 26.

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Generale dello Stato, della Corte dei Conti, della Giunta per il Bilancio dellaCamera dei Deputati e del Senato scrisse: “Soltanto a guardare quelle pile divolumi particolareggiati, compiuti, ammirandi per lo scrupolo di dire tutto,cascano le braccia …. chi ha bisogno di precisione, dopo qualche giorno discartabellamento dei documenti ufficiali, comincia a sentirsi girare la testa”176.Einaudi, comunque, parlava di soli documenti ufficiali, pubblicati, ma ad essibisognerà aggiungere la corrispondenza accumulata dai ministeri del Tesoro edelle Finanze e i documenti degli archivi privati. Il lavoro di ricerca non dovràriguardare un solo storico, ma intere generazioni. Solo allora potremo dare deigiudizi seri sulla politica fiscale, sulla politica delle spese e sull’indebitamentodello stato, stabilendo connessioni fra finanza pubblica e finanza privata, frafinanze e politica economica e politica monetaria in particolare.

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176 Ibidem, p. 33; L. EINAUDI, Del fare statistiche finanziarie, in “La Riforma Sociale”, mag-gio-giugno 1934.

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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GIUGNO MMIII

NELLO STABILIMENTO «ARTE TIPOGRAFICA» S.A.S.S. BIAGIO DEI LIBRAI - NAPOLI

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ISSN 1721-6060

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