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Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore LA STORIOGRAFIA LA STORIOGRAFIA La storiografia greca Le origini della storiografia latina

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Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore

LA STORIOGRAFIALA STORIOGRAFIA

La storiografia greca

Le origini della storiografia latina

La storiografia greca110 La storiografia greca

Ciò che noi chiamiamo senso storico comprende cose diverse: «la nozione della continuitàdel tempo e dell’unità del passato, del senso degli avvenimenti, del significato del passatoper il presente, della connessione causale degli eventi ed altro»1. Una tale nozione com-plessa fu presso i Greci una scoperta della poesia. Nell’epica omerica la riflessione sulle azioni umane avviene già in base a determinati mo-delli di comportamento, che orientano il giudizio e la comprensione degli eventi. C’è inte-resse per la concatenazione causale dei fatti, sia che l’origine venga ricercata nell’agireumano (il rapimento di Elena da parte di Paride è la causa della guerra di Troia), sia chevenga identificata con una volontà divina. Nella lirica, ad esempio Mimnermo (VII, VI seco-lo a.C.), narrando le vicende della propria città, Colofone, spiega le disgrazie del presentecome espiazione di una colpa antica, secondo un criterio di causalità voluto dagli dei.L’idea di un continuum dalle origini alla contemporaneità è già in Erodoto, che per primoopera una netta separazione tra le vicende mitiche e quelle accessibili all’indagine. In Erodoto il senso storico sembra configurarsi come l’ampliarsi della consapevolezza che ilsingolo individuo ha delle propria storia personale: «Se egli vede l’unità e il senso della sto-ria nel fatto che un’entità divina fa salire e cadere gli uomini, questa interpretazione si fon-da su un’esperienza che gli uomini hanno fatto innanzitutto su se stessi, ed è chiaro che lostorico dà all’accadere universale quel senso che altri hanno dato prima alla propria storiapersonale»1. Già nella lirica corale, Pindaro aveva la consapevolezza che il moto alternodel destino, che dispensa gioie e dolori ed è il senso stesso della vita umana, non riguardasolo la singola esistenza, ma l’intero succedersi delle generazioni. Insomma, la compren-sione della storia è preceduta da un’«autocomprensione degli uomini».Un carattere della storiografia greca, derivato dalla cultura orale e dal racconto dei rapsodi,è la continuità con l’opera degli storici precedenti. Erodoto comincia il suo racconto defi-nendo il campo della propria indagine rispetto alla letteratura genealogica, della quale eglisi sente il continuatore. Tucidide si considera successore di Erodoto, in quanto ne riprendeil filo della narrazione nel punto in cui Erodoto l’aveva terminata. Si forma così «l’immaginedi una historia perpetua, in forza della quale, quando ad un autore la morte porta via di ma-no la penna, ad uno più giovane tocca riprenderla, al fine di proseguire il racconto»2. Ciòimplica che per lo storico antico era quasi obbligata la scelta del punto di inizio della narra-zione, in quanto collegato alla fine dell’opera precedente. La storiografia classica può alloraconsiderarsi una catena narrativa ininterrotta, anche se di tale catena alcuni anelli sono pernoi perduti.La dimensione universale della narrazione, che caratterizzava l’opera di Erodoto, non vienemeno con gli storici successivi. Se Tucidide restringe la propria indagine alla politica deglistati greci e al conflitto del Peloponneso, tuttavia ritiene che questa guerra abbia una porta-ta universale: «… la più importante di tutte quelle avvenute fin allora … il più grande som-movimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una parte dei barbari e, per così dire, an-

Aspetti generali del pensiero storiografico antico

La nascita del senso storico

Storia e comprensione di sé

1. B. Snell, «Le origini della coscienza storica», in La cultura greca e le origini del pen-siero europeo, Einaudi, Torino 1963, p. 25.

2. L. Canfora, «Il pensiero storiografico», in Lo spazio letterario di Roma antica, Salerno,Roma 1989.

Historia perpetua

La «storia universale»

che per la maggior parte degli uomini» (I 1). L’universalità per Tucidide sta anche nel fattoche l’oggetto dell’indagine storiografica sono le cause profonde degli eventi, le leggi gene-rali del comportamento umano, ad esempio la legge del più forte: «È sempre stata normache il più debole soccombesse al più forte» (I 76, 2). Che tali leggi esistano era convinzio-ne anche dei lirici greci, ad esempio di Archiloco («Riconosci quale ritmo governa gli uomi-ni», frammento 67a D.). Di qui anche l’idea di Tucidide che la storia rappresenti per tutti gliuomini un’acquisizione permanente, «un possesso per sempre». L’elemento che unifica eorienta la storia universale è, come vedremo, per lo più l’incontro bellico. Un altro punto fondante della storiografia antica riguarda la definizione del fine, in base al-l’alternativa tra «utile» e «piacere». Tucidide e Polibio privilegiano l’utile, mentre respingonola ricerca del diletto escludendo l’elemento favolistico, dilettevole, tipico dei libri di Erodoto.Ma Polibio, che pure dichiara la propria superiorità rispetto alla storiografia «edonistica», ri-conoscerà validità ad entrambi i fini. Nella prefazione alla sua opera (I 4, 1-7, vedi p. 125),mentre afferma la necessità di scrivere una storia «universale», sostiene che proprio questanatura universale consentirà ai fruitori di trarre, oltre che «giovamento», anche «diletto».La concezione di Tucidide e quella di Erodoto non stanno tra loro come il primitivismo inge-nuo sta al razionalismo maturo, ma piuttosto riflettono due differenti tecnologie della comu-nicazione: l’oralità e la scrittura. Il metodo proposto da Tucidide non si sarebbe potuto ap-plicare in una civiltà orale. Questa non è grado di analizzare l’esperienza in una logica se-quenza di causa ed effetto (per le ragioni indicate da Platone nella sua critica alla poesiaarcaica, vedi p. 162), mentre esige «immagini e atteggiamenti di pensiero che siano imme-diatamente percepibili dall’uditorio e lo incatenino psicologicamente all’ascolto» (B. Gentili). L’indirizzo storiografico, legato all’oralità e opposto a quello «pragmatico» (perché basatosui fatti, prágmata) che fa capo a Tucidide, è il cosiddetto «mimetico», cioè basato sull’ideache l’attività dello storico, al pari di quella del poeta drammatico, consista nell’imitazione,mimesi appunto, della vita umana. L’indirizzo pragmatico rifiuta ogni elemento non vagliabi-le criticamente, assume l’utile come fine del discorso storiografico, bandisce ogni compo-nente favolosa atta a dilettare. Al contrario l’indirizzo mimetico, che risale a Erodoto e ai lo-gografi ionici3, etnografico e antropologico, assegna allo storico il compito di dare una rap-presentazione icastica e completa della vita umana. Così Duride di Samo (IV-III sec. a.C.)rimprovera i precedecessori Eforo e Teopompo di avere privilegiato la componente dell’utili-tà rispetto a quella del diletto, di non avere saputo suscitare l’edoné, cioè «il piacere di leg-gere» nei destinatari, conferendo alla parola scritta la stessa attrattiva posseduta dalla paro-la parlata. La narrazione storica deve essere mimetica, cioè deve sapere commuovere glianimi come un dramma, deve essere «capace di riattualizzare in tutta la loro carica emotivagli elementi narrati, sì da trasformare il lettore in spettatore. Lo storico diviene così, al paridell’attore drammatico, l’artefice di una mediazione mimetica tra la realtà storica ed il pubbli-co che la recepisce in uno stretto rapporto di immedesimazione simpatetica»4. Come vedremo meglio trattando i singoli autori, gli storici latini come Sallustio e Livio, sem-pre bisognosi di giustificare la loro opera in termini di utilità per lo stato, sembrerebbero im-boccare la via della storiografia pragmatica e polibiana. Ma l’attenzione che essi riservanoper gli aspetti psicagogici e la ricerca di una forma narrativa capace di impressionare ecoinvolgere il pubblico, ci dice la loro preferenza – loro, e di tutta la storiografia latina – peril filone mimetico e drammatico. Una preferenza, questa, condivisa anche da Cicerone, peril quale la narrazione delle vicende passate, anche dolorose, «genera piacere» (Ad fam., 5,12, habet … delectationem). Il coinvolgimento del lettore implica un uguale coinvolgimento

Aspetti generali del pensiero storiografico antico 111

3. I logografi furono i primi scrittori di racconti in prosa (logoi) di argomento vario (ge-nealogie, eventi, usi e costumi di popoli e città). I logoi costituirono il primo esempio di ge-nere storiografico ed il loro fine era di tenere desta la memoria collettiva di una data comu-nità. Letti pubblicamente nelle città della Ionia, avevano una spiccata tendenza al favoloso eal romanzesco.

4. B. Gentili, in B. Gentili, L. Stupazzini, M. Simonetti, Storia della letteratura latina, La-terza, Bari-Roma 1987, p. 115.

L’utile o il piacere?

Storia e civiltà della scrittura

Storiografia «mimetica» e«pragmatica»

Carattere mimetico dellastoriografia latina

dello scrittore, che simpateticamente s’immedesima nei fatti narrati, come Livio che confes-sa: «Anche per me è un ristoro essere giunto alla fine della guerra punica, come se neavessi condiviso i travagli e i pericoli» (31, 1, 1) e, di fronte a un evento portentoso del pas-sato dal quale il razionalismo dei suoi tempi consiglierebbe di prendere le distanze, si la-scia idealmente trasportare in quel tempo remoto: «Quanto a me, intento a scriver la storiadei tempi antichi, l’animo mi si fa antico e un certo scrupolo religioso mi trattiene dal giudi-care indegni … quei prodigi» (43, 13, 2). Per rivivere il passato in sintonia con lo spirito deimaiores occorre condividere anche le loro superstizioni e ingenuità.

Nato intorno al 485 a.C. ad Alicarnasso sulla costa dell’Asia Minore, Erodoto fu coinvolto ingiovinezza nelle insurrezioni della sua città contro il tiranno Ligdami vassallo di Serse. Inseguito Alicarnasso divenne città alleata di Atene, dove lo storico soggiornò a più riprese. Erodoto viaggiò molto, in oriente fino alla Mesopotamia, in Egitto e nella Scizia, accumulan-do grande esperienza diretta del mondo conosciuto. L’evento più importante fu l’incontrocon l’ambiente ateniese raccolto intorno a Pericle, di cui condivise l’orientamento politico.Negli ultimi anni si stabilì a Turii, colonia ateniese in Magna Grecia, prendendone la cittadi-nanza, e vi rimase fino alla morte, avvenuta probabilmente nei primi anni successivi all’ini-zio della guerra del Peloponneso (430 circa).Il titolo, Storia o Storie, e la ripartizione in nove libri, ciascuno dei quali porta il nome di unadelle Muse, non furono voluti dall’autore, che divulgò la sua opera in pubbliche letture inAtene e con essa volle assicurare un eterno ricordo alla più nobile delle imprese compiuteda questa città, la vittoria sui Persiani.Le origini mitiche dello scontro tra Greci e barbari. Vicende della Lidia. Incontro tra Creso eSolone (che offre lo spunto a una riflessione di carattere morale e religioso). Origini e cre-scita della potenza persiana.Le imprese del re persiano Cambise. Lunga digressione etnografica (lògos) sull’Egitto dicui sono descritti la natura geografica, la storia, gli usi e costumi degli abitanti.Conquista dell’Egitto ad opera di Cambise. Excursus sulle vicende di Policrate tiranno diSamo, esempio dell’eccessiva potenza umana punita dagli dei. La successione di Dario al-la morte di Cambise. Campagna militare di Dario contro gli Sciti, di cui sono descritte le abitudini e le tradizioni.Guerra contro Cirene e storia dei suoi sovrani.Gli antefatti del conflitto greco-persiano: ribellione delle città ioniche che chiedono aiuto al-la madrepatria. Digressioni dedicate alla storia di Sparta e di Atene. Mentre Sparta rifiutal’aiuto, Atene accoglie la richiesta. Repressione dei Persiani e conquista di Mileto. Storia di Milziade e della sua famiglia. Pri-ma spedizione persiana contro la Grecia. Battaglia di Maratona. Assedio di Paro e morte diMilziade accusato di tradimento.Seconda spedizione persiana guidata da Serse succeduto al padre Dario. Attraversamentodell’Ellesponto. L’invio di un’ambasceria in Sicilia è l’occasione per parlare delle vicendestoriche dei Greci di occidente. La sconfitta dello spartano Leonida con i suoi trecento alleTermopili. Occupazione di Atene da parte dei Persiani. Temistocle fa evacuare la città. Battaglia na-vale di Salamina e sconfitta dei Persiani. Ritorno in Asia di Serse.Vittoria di Pausania a Platea. Vittoria navale dei Greci sui Persiani a Micale. I Persianisconfitti ritornano a Sardi. Presa di Sesto sull’Ellesponto da parte dei Greci.

Le StorieSono la prima grande opera in prosa della grecità. Il modello è quello dei logografi ionici,che a sua volta risale alla poesia catalogica esiodea e omerica (vedi p. 93). Le Storie sono

Erodoto

112 La storiografia greca

La vita

I viaggi

L’opera

I libro I (Clio)

II libro (Euterpe)

III libro (Talia)

IV Libro (Melpomene)

Libro V (Tersicore)

VI Libro (Erato)

Libro VII (Polimnia)

Libro VIII (Urania)

Libro IX (Calliope)

La «pubblicazione orale»

il punto d’arrivo di una vicenda di «pubblicazione orale». Infatti la stesura in forma scritta eunitaria era stata preceduta da recitazioni dello storico itinerante che, come i rapsodi ome-rici, leggeva parti dell’opera davanti a un uditorio. L’antefatto orale-aurale è percepibile nel-le forme espressive «agonistiche» tipiche del messaggio non scritto, in particolare nel tonopolemico e risentito, come per prevenire le reazioni di un pubblico partecipe e interattivo.Ciò è evidente quando l’autore rassicura l’uditorio sull’attendibilità della propria ricostruzio-ne o ne previene le critiche esprimendo anticipatamente le proprie perplessità: «Mi riferi-scono anche questa versione, ma io non la ritengo degna di fede» (III 3). Agli schemi dellacultura orale sembra conformarsi anche la struttura dell’opera nella quale sono accostateunità narrative minori dotate ciascuna di una propria autonomia narrativa. Rispetto alla logografia ionica le novità sono rilevanti, a partire dall’impiego del termine hi-storìe, che indica l’indagine preliminare alla redazione dell’opera storica e comprende trefasi: la visione diretta (òpsis) già implicita nella parola historìe (da wid-, gr. eidon, lat. vi-deo), l’ascolto dei testimoni diretti dei fatti (akoé), la riflessione critica (gnome) in base allaquale si sceglie tra più versioni quella più attendibile, cioè più verosimile, più probabile.Nasce così la storiografia come genere che consiste nella ricerca dei dati di fatto, in primoluogo ciò che l’autore ha visto o raccolto da testimoni oculari. La tradizione orale è la basedella documentazione erodotea, che ricorre tuttavia anche a fonti scritte come i testi diiscrizioni o di oracoli. Sui dati raccolti lo storico opera una valutazione critica. Dall’impossi-bilità di controllare ogni notizia nasce la consapevolezza della relatività della ricostruzionestorica:

Fino ad ora le fonti di quanto ho detto sono state la mia visione diretta (òpsis), lamia valutazione critica (gnome), la mia ricerca (historìe), ma d’ora innanzi riportoi racconti degli Egiziani come li ho sentiti.

Queste notizie sui Persiani le posso affermare con sicurezza, perché ne ho cono-scenza diretta; invece queste altre […] non mi sento di affermarle con certezza.

Il metodo prevede, come prima e imprescindibile operazione, il reperimento del materialedocumentario, nell’intento di ricostruire la realtà degli eventi. Ciò comporta che il pianocomplessivo dell’opera non preesiste alla raccolta di informazioni. Le notizie raccolte sonoorganizzate attorno a un filo conduttore, ma non tutto il materiale trovato serve a illustrare,ad esempio, la causa dello scontro tra Greci e barbari. Molto di questo materiale servirà pervari excursus d’interesse etnografico che completano un quadro complessivo di fatti gene-ricamente «umani». Così il discorso erodoteo si dipana attraverso digressioni anche digrandi dimensioni come la descrizione dell’Egitto nel libro II, anche se l’autore ha semprepresente il filo principale della narrazione. Erodoto non disdegna di introdurre il favoloso, il paradossale. Rispettoso del divino e delsoprannaturale, riporta anche fatti poco verosimili, come quello della sacerdotessa cuicresce la barba nell’imminenza di una disgrazia, ma non li discute, non li sceglie, li consi-dera come appartenenti ad un ambito dal quale il raziocinio dello storico è bene che restiescluso:

Se intendessi analizzare i motivi per cui sono considerati sacri [gli animali pressogli Egizi], finirei per occuparmi di cose concernenti la divinità, che io voglio asso-lutamente evitare di trattare.

Sulle cause della guerra persiana, Erodoto espone le motivazioni mitiche, ma diversamen-te da Ecateo e dagli altri logografi, non sceglie tra l’una e l’altra, dichiara anzi di non voler-ne parlare. Considera solo i fatti certi e documentabili: il tributo imposto da Creso ai Grecid’Asia, i loro tentativi di liberarsi dal giogo, ecc. In tal modo egli crea la nozione di uno spa-tium historicum, contrapposto al tempo del mito. Come si evince dal proemio, l’obiettivo dell’indagine storica è di impedire che il tempo can-celli la memoria di imprese e monumenti insigni, che meritano d’essere tramandati ai po-steri:

Erodoto 113

Il metodo

II 99

I 140

Le digressioni

Gli eventi mitici o favolosi

II 65, 2

Lo scopo della storia

BustodiErodoto.Napoli,Museo Nazionale.

trad. di A. Izzo d’Accinni Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turii, perché le imprese degliuomini col tempo non cadano in oblìo, né le gesta grandi e meravigliose delle qua-li han dato prova così i Greci come i barbari rimangan senza gloria, e inoltre permostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro.

È implicita l’idea che «le gesta grandi e meravigliose» abbiano una validità paradigmaticache trascende l’ambito municipale di quella data polis o popolo rivestendo caratteri di uni-versalità. La verità che interessa lo storico non è contingente o particolare, ma è una visio-ne unitaria dei processi storici. Erodoto intuisce che le Guerre Persiane non sono un con-flitto qualsiasi, ma il risultato di un antagonismo secolare tra Europa e Asia, l’anello termi-nale di una catena di nessi causali di lungo periodo. E in questo svolgere il filo delle con-nessioni degli eventi sta il compito dello storico e nell’aver capito ciò è tutta la grandezza diErodoto. La qualifica di pater historiae di cui Cicerone lo gratificò (De leg. I 5) è il giusto ri-conoscimento del fatto che «egli ha creato l’idea stessa di storia» (H. Strasburger). La decisione di lasciare una stesura scritta è condizione fondante dell’attività storiografica:«Erodoto sembra voler intenzionalmente lasciare una versione scritta dei suoi racconti, chepotrà essere utilizzata dai posteri, da un pubblico astratto, non legato a una specifica occa-sione. Emerge così un altro piano cronologico, quello dei fruitori dell’opera immaginati nelfuturo […] ed è proprio questo fissarsi della ricerca in una forma scritta definitiva, utilizzabi-le dai posteri, a fondare, anche per la produzione storiografica, la possibilità di un “ciclo”»(L. Canfora).L’«omericità» è riscontrabile sia nel lessico e nelle formule, sia nell’andamento non linearedella narrazione segmentata in episodi relativamente autonomi, nel modo tipico della tradi-zione rapsodica e dei testi destinati alla recitazione. La lingua – il dialetto ionico misto aelementi attici – risente dell’influsso dell’epos, della tragedia, della lirica. Tale varietà di mo-delli e forme spiega la definizione di lexis poikìle che gli antichi davano allo stile delle Sto-rie. Soprattutto all’esigenza di narrare sembrano corrispondere i numerosi inserti e novelle(si può dire che la novella nasce con Erodoto), la grande abbondanza di notizie e particola-ri non funzionali alla comprensione dell’evento storico in sé. La congerie di informazioni ta-lora rasenta la pedanteria (descrizioni di oggetti con specificazione puntuale di peso, misu-ra, materia) e il pettegolezzo.

114 La storiografia greca

La fondazione della storiografia

Lingua e stile

Costumi dei Persiani, I 131-135.Come esempio di excursus etnografico proponiamo questo passo, in cui sono descritti alcuni aspetti della civiltà dei Persiani: il rifiutodell’antropomorfismo e la divinizzazione di elementi naturali, il carattere collettivo dei riti (il sacrificante è obbligato a invocare gli deinon solo per sé, ma per tutti i Persiani), la singolare importanza attribuita alle deliberazioni in stato di ebbrezza che debbono confer-mare quelle prese da sobri, le forme di saluto in rapporto allo status sociale, la grande disponibilità all’integrazione culturale, cioè adaccogliere usanze di altri popoli.

131. Mi consta che le usanze dei Persiani sono queste: non usano costruire altari, statue, templi, e considerano sciocco chilo fa, credo perché, a differenza dei Greci, non ritengono che gli dei abbiano aspetto umano. Usano salire sulla cima deimonti per fare sacrifici a Zeus (chiamano Zeus la volta del cielo), e sacrificano anche al sole, alla luna, alla terra, al fuo-co, all’acqua e ai venti. Questi sono i soli esseri a cui fanno sacrifici fin dall’antichità; successivamente hanno appreso da-gli Assiri e dagli Arabi a sacrificare ad Afrodite celeste, che gli Assiri chiamano Militta, gli Arabi Alilat, i Persiani Mitra.132. I sacrifici in onore di questi dei si svolgono nel modo seguente: per sacrificare non costruiscono altari, non accendo-no il fuoco, non fanno libagioni, non usano strumenti musicali, né bende, né orzo. Chi vuole sacrificare, conduce la vitti-ma in un luogo puro e invoca il dio con la tiara cinta da una corona, per lo più di mirto. Il sacrificante non può chiederedel bene soltanto per sé, ma lo chiede per il re e per tutti i Persiani: tra tutti i Persiani è compreso anche lui. Dopo aver fat-ta a pezzi la vittima, bolle la carne e la mette sopra uno strato d’erba più tenera possibile (soprattutto trifoglio). Fatto que-sto, un Mago canta un racconto sacro sulla nascita degli dei (in questo consiste il canto, dicono); senza la presenza di unMago non è lecito sacrificare. Dopo un breve intervallo il sacrificante porta via le carni e ne fa l’uso che crede.133. […] Bevono molto vino, ma non è permesso vomitare né orinare in presenza di un’altra persona. Oltre a conserva-re la tradizione, hanno l’abitudine di deliberare ubriachi sulle questioni più importanti. Il giorno dopo, quando sono so-bri, il padrone di casa sottopone loro nuovamente le deliberazioni prese e se anche da sobri le approvano, le mettono inpratica, diversamente rinunciano. E viceversa, quanto hanno deliberato da sobri, lo riesaminano anche ubriachi.134. Quando due persone si incontrano per la strada, se sono dello stesso livello sociale si può riconoscere dal fatto cheanziché salutarsi si baciano sulla bocca; se uno dei due è lievemente inferiore, si baciano sulle guance; se la differenza di

Tucidide 115

nobiltà è molto grande, l’inferiore si inchina facendo atto d’omaggio. Dopo se stessi, stimano più di tutti i popoli cheabitano più vicino a loro, e così via, meno di tutti quelli che abitano più lontano, in quanto considerano se stessi di granlunga i migliori e pensano che gli altri partecipano della virtù in proporzione alla distanza, e di conseguenza che i piùlontani sono i peggiori di tutti. Allo stesso modo, durante l’impero dei Medi, era organizzato il potere di un popolo sul-l’altro; i Medi avevano il potere universale e in particolare sulla popolazione più vicina, questa sui loro vicini, questi aloro volta sui vicini loro, secondo il medesimo ordine di apprezzamento adottato dai Persiani. Così procedeva il ruolo as-segnato ad ogni popolazione nella sovranità e nella sorveglianza delle altre.135. Più di tutti, i Persiani sono proclivi ad accettare le usanze dei popoli stranieri. Portano gli abiti dei Medi, preferen-doli ai propri, e in guerra le corazze egiziane. Tutte le forme di piacere di cui vengono a conoscenza le praticano, e cosìhanno appreso dai Greci anche la pederastia. Ognuno di loro sposa molte mogli legittime e tiene un numero ancora mag-giore di concubine.

(trad. di G. Paduano)

Le Termopili, VII 223-225.Gli Spartani di Leonida, traditi da un abitante del luogo, Efialte, che ha indicato ai Persiani un sentiero per giungere rapidamente alleTermopili, soccombono di fronte alla soverchiante forza dei nemici. Una grandiosità e un pathos omerici caratterizzano la descrizionedella famosa battaglia.

223. Serse, dopo avere compiuto le libagioni al sorgere del sole, aspettò l’ora in cui siaffolla il mercato e poi portò l’assalto secondo le istruzioni ricevute da Efialte: la di-scesa dal monte infatti è molto più ripida, e la via molto più breve dell’aggiramento edella salita. Così i barbari di Serse attaccarono e i Greci di Leonida, ben sapendo di an-dare alla morte, avanzarono molto più di prima verso la parte più larga della gola. Pri-ma avevano sorvegliato il muro eretto a difesa, e nei giorni precedenti avevano semprecombattuto facendo sortite nelle strettoie. Ora invece ne uscirono per affrontare i nemi-ci, e molti barbari cadevano; i comandanti dei battaglioni li spingevano avanti uno do-po l’altro a colpi di frusta. Molti caddero in mare e morirono, molti di più si calpesta-vano vivi gli uni con gli altri. Dei morti non si teneva nessun conto. Poiché i Greci sa-pevano che la morte li aspettava per mano di quelli che stavano aggirando il monte,mostrarono contro i barbari tutta la forza, la temerarietà, la furia che avevano.224. La maggior parte di loro aveva già le lance spezzate e attaccava i Persiani con lespade. In questo scontro morì Leonida combattendo eroicamente e con lui altri nobilispartiati di cui ho cercato tutti i nomi (ne erano ben degni), come del resto li ho cercatidi tutti e trecento. Morirono anche molti Persiani illustri, tra i quali due figli di Dario edella figlia di Artane Fratagune, Abrocome e Iperante. Artane era fratello di Dario, fi-glio di Istaspe, figlio di Arsame, e quando diede in moglie a Dario sua figlia le assegnòcome dote l’intero patrimonio, perché era la sua unica discendente.225. Due fratelli di Serse dunque caddero in battaglia e sul corpo di Leonida ci fu unamischia feroce tra Spartani e Persiani, finché i Greci riuscirono a trascinarlo via e perquattro volte respinsero i nemici.

(trad. di G. Paduano)Il cosiddetto «Leonida», statua re-cuperata dall’acropoli spartana ri-salente, in realtà, al decennio pre-cedente la morte del re (490 a.C.).Museo di Sparta.

Della vita di Tucidide sappiamo poco. Nato intorno al 460 a.C. nel demo attico di Alimunte(nella prefazione dell’opera egli si presenta come «Tucidide Ateniese»), di nobile famigliaprobabilmente di origine tracia, partecipò alla guerra del Peloponneso, che trattò nelle sueStorie. Nel 430 a.C. contrasse la peste che aveva colpito l’Attica e di cui diede nella suaopera una precisa descrizione, ma riuscì a guarire. Nel 424, comandante di una flotta cheavrebbe dovuto controllare le coste della Tracia, non riuscì ad impedire che Anfipoli cades-se nelle mani degli Spartani, per questo fu processato e mandato in esilio. Nell’ultima partedella vita probabilmente intraprese una serie di viaggi, come aveva fatto Erodoto, al fine diraccogliere materiali per la sua attività storiografica. Non conosciamo né il luogo né l’annodella morte, probabilmente successiva alla sconfitta di Atene avvenuta nel 404 a.C.

Tucidide

La vita

Tucidide narra in otto libri la guerra del Peloponneso. Il titolo Storie, come pure la ripartizio-ne in otto libri, non sono originari ma, come per Erodoto, furono voluti dai grammatici ales-sandrini e tramandati nei codici. Gli avvenimenti narrati vanno dal 431 a.C., anno di iniziodelle ostilità, al 411. Ma l’autore intendeva giungere fino alla fine della guerra e gli ultimi av-venimenti, forse narrati dallo stesso Tucidide, saranno poi pubblicati nelle Elleniche di Se-nofonte.Storia della Grecia dalle origini alle guerre persiane, la cosiddetta «Archeologia». Premes-sa metodologica relativa agli scopi e ai metodi. Presentazione della causa occasionale delconflitto (ostilità tra Corinto e Corcira e intervento di Atene a favore di quest’ultima) con-trapposta alla vera causa (rivalità fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia). Excur-sus sui cinquant’anni intercorsi tra le guerre persiane e il conflitto tra Atene e Sparta («pen-tacontaetia»). Ad Atene Pericle presenta il piano di guerra, che si basa principalmente sul-le forze di mare.Vengono narrati i primi tre anni di guerra (431-429). Discorso funebre di Pericle per i cadu-ti ateniesi nel primo anno del conflitto. Descrizione della peste che colpì Atene e di cui fuvittima lo stesso Pericle.Anni 428-425. Gli Ateniesi incitati da Cleone, nuovo capo dei popolari, reprimono la ribellio-ne di Mitilene, gli Spartani conquistano Platea e la radono al suolo. Le atroci violenze cui siabbandonano a Corcira i democratici nei confronti degli oligarchici forniscono lo spunto perun’amara riflessione sull’imbarbarimento morale causato dalla guerra.Anni 425-422. Dopo l’invasione dell’Attica da parte degli Spartani, Cleone porta la guerranel Peloponneso. Falliscono le trattative di pace. In Tracia si verifica l’episodio di Anfipoli,nel quale rimane coinvolto Tucidide stesso. Pace di Nicia seguita alla battaglia di Anfipoli (421 a.C.). Ma in realtà si prepara un nuovoperiodo di guerra. È narrato l’episodio degli abitanti dell’isola di Melo, che si erano rifiutati diabbandonare lo stato di neutralità e verranno spietatamente trucidati dagli Atenesi. Segueun’altra riflessione dell’autore sulla logica orrenda della guerra.Spedizione in Sicilia promossa, a partire dal 416 a.C., da Alcibiade. È allestita una flotta im-ponente, ma la partenza avviene sotto cattivi auspici: sono trovate sfregiate le Erme, bustiin pietra del dio Hermes posti agli angoli delle strade. Alcibiade, accusato dell’empio atto, sirifugia presso gli Spartani. Nicia e Lamaco, capi ateniesi della spedizione, non riescono aprevalere sui Siracusani alleati degli Spartani e presso Siracusa sono vinti. I superstiti, cat-turati, sono gettati nelle latomie, terribili prigioni siracusane scavate nella pietra.Anni 413-411. Condanna a morte di Alcibiade per l’episodio delle erme. Colpo di stato oli-garchico ad Atene («i Quattrocento») e defezione degli alleati. Vittoria navale ateniese aCinossena. A questo punto il libro si interrompe. L’ultima parte del conflitto è raccontata daSenofonte all’inizio delle Elleniche.

Il valore dell’indagine storicaLo scoppio della guerra spinse Tucidide a farsene storico, proprio perché del carattere im-mane e decisivo del conflitto egli ebbe subito chiara l’intuizione. Lo scrive nelle righe inizia-li dell’opera, dove condensa tutti gli elementi che lo hanno deciso alla scelta.

L’ateniese Tucidide descrisse la guerra tra Ateniesi e Peloponnesi, come combat-terono tra di loro cominciando subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbestata grande e la più importante di tutte quelle avvenute fin allora. Lo immaginavadeducendolo dal fatto che le due parti si scontrarono quando entrambe erano alculmine di tutti i loro mezzi militari e vedendo che il resto della Grecia si univa aidue contendenti, gli uni subito, e gli altri ne avevano l’intenzione. Certo, questo èstato il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una partedei barbari e, per così dire, anche per la maggior parte degli uomini. Giacché gliavvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili ainvestigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle pro-ve che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come atten-dibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

116 La storiografia greca

L’opera

Libro I

Libro II

Libro III

Libro IV

Libro V

Libro VI e VII

Libro VIII

I 1;trad. di C. Moreschini

La scelta dell’argomento

La scelta di narrare la guerra si giustifica con la sua dimensione. Si tratta dello sconvolgi-mento più grande mai capitato a Greci e barbari, che ha comportato, come aggiungeràpoco dopo (I 23, 1-2), «tante disgrazie quante mai ne occorsero in uno stesso periodo ditempo. Mai tante città furono prese o rase al suolo … né tanta gente mandata in esilio ouccisa». L’intuizione precoce della rilevanza dell’evento e della sua superiorità su tutto il passato na-sce dalla riflessione su alcuni segni, indizio di una patologia. Il metodo è simile a quello se-guito dalla medicina ippocritea e consiste nell’indagare dei sintomi. L’autore è orgogliosodel proprio acume politico che gli ha fatto cogliere i tekméria, gli «indizi» giusti, che non po-tevano non annunciare gli effetti previsti. Altro motivo di orgoglio sta «nel non dover essereal più l’emulo del grande Erodoto, il quale aveva occupato per sempre “lo spazio storiogra-fico” dell’epopea delle guerre persiane (lasciando agli epigoni la storia della meno grandeetà successiva), ma nel poter legare il proprio nome al “più memorabile” tra gli eventi uma-ni conosciuti» (L. Canfora).Lo scontro peloponnesiaco assume, per la sua importanza, valore emblematico. Non inte-ressa solo i Greci, ma anche i barbari, anzi «la maggior parte degli uomini». Il valore em-blematico – di cui lo storico ha lucida percezione – sta nella causa profonda che l’ha origi-nato, non occasionale e superficiale o legata ad antefatti favolosi, ma conforme alla naturaumana: «La causa vera, ma taciuta … giudico sia il fatto che gli Ateniesi, divenuti semprepiù potenti e incutendo timore agli Spartani, obbligarono questi alla guerra» (I 23, 6). Il mo-vente dello scontro sta in una legge umana, che ha applicazione universale: «È semprestata norma che il più debole soccombesse al più forte» (I 76, 2). La ricerca della causa profonda implica la presa di distanza dagli storici precedenti, chemiravano al diletto degli ascoltatori, piuttosto che alla verità. Ma implica anche la selezio-ne del pubblico, il quale dovrà rinunciare agli elementi favolosi e interessarsi solo allacomprensione dei fatti. Lo sforzo nel seguire l’autore in tale ricerca sarà compensato dal-l’acquisizione, non effimera ma perenne (ktéma es aéi), di una chiave di lettura deglieventi umani.

La mancanza del favoloso in questi fatti li farà apparire forse meno piacevoli al-l’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti pas-sati e di quelli futuri (i quali, secondo la natura umana saranno uguali o simili aquesti) considereranno utile la mia opera, tanto mi basta: essa è un possesso chevale per sempre (ktéma es aéi), più che un mezzo di bravura destinato all’ascol-to immediato.

Nella conoscenza delle leggi universali del comportamento umano, sempre uguali al va-riare delle epoche e dei popoli, consiste il «possesso per l’eternità» tucidideo. Si tratta diun modello in grado d’interpretare gli eventi e predirne gli esiti probabili. Di qui il valoreeducativo che una tale storiografia assume soprattutto per l’uomo politico, il quale nel co-struire i propri progetti non potrà prescindere dai principi generali enucleati dalla riflessio-ne tucididea. Una storiografia che studia gli eventi in base a leggi universali del comportamento umano –e non in base a un principio divino – è anche necessariamente laica e antropocentrica. Nonc’è più spazio per interpretazioni di tipo metafisico, per letture che esulino dall’ambito del-l’uomo e della sua natura. Ogni principio divino è escluso e in ciò la visione tucididea segnala distanza anche rispetto alla concezione erodotea. Tutti i residui della mitologia, della teo-logia e del misticismo che affioravano in Erodoto sono banditi. La centralità dell’uomo non implica tuttavia la sua onnipotenza. Il successo dell’azioneumana trova precisi limiti nell’imponderabile, nella Tyche, che non è più come nella trage-dia un principio metafisico, ma è, al pari dell’errore, un elemento costitutivo della natura edel destino umano: «Per loro natura gli uomini … sono portati ad errare, e non c’è leggeche possa impedirglielo» (III 45, 3). Di qui anche i limiti della capacità previsionale delleleggi enucleate dallo storico, che consentono di ipotizzare un esito probabile degli eventi,ma non saprebbero con certezza predire il futuro.

Tucidide 117

La lettura degli indizi

La causa profonda

«Un possesso per sempre»

I 22, 4; trad. di F. Ferrari

L’umanizzazione della storia

La Tyche

Il metodoLa necessità di vagliare le testimonianze, spesso contraddittorie o difficilmente confrontabi-li per l’inevitabile soggettivismo, è quasi la stessa che avvertiva Erodoto:

Gli eventi accaduti nel corso della guerra non ho considerato opportuno registrarliinformandomi dal primo che capitava, né come pareva a me, ma ho narrato quellia cui io stesso fui presente e quelli sui quali ho potuto informarmi da altri con lamassima esattezza possibile. Difficile era la ricerca, poiché coloro che avevanopartecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma liriportavano in relazione alla loro personale simpatia per una delle due parti o allaloro memoria.

L’evento storico viene indagato secondo una disposizione razionale e scientifica che ricer-ca i rapporti di causa ed effetto che operano nella storia. Si avverte nell’opera di Tucidide losforzo di raggiungere un’obiettività in cui solo eccezionalmente traspaiono atteggiamenti disimpatia, e una tensione nella selezione dei dati utili per raggiungere la verità che possia-mo ricondurre all’ambiente ateniese, ricco di interessi scientifici (la medicina) e filosofici (laSofistica). I discorsi in forma diretta sono numerosissimi e parrebbero contrastare con la professionedi esattezza e fedeltà alla verità dei fatti. Tucidide sostiene che, se anche non furono pro-nunciati nella forma in cui li riporta, i suoi discorsi sono verosimili, nel senso che è moltoprobabile che, in quel contesto che egli ha minuziosamente ricostruito, venissero proferitequelle parole.

I discorsi che furono pronunciati prima o durante la guerra è difficile ricordarlicon esattezza, sia per me (quelli che io stesso ho sentito), sia per quelli che me lihanno riferiti da altre fonti: ho scritto qui quello che a mio parere di volta in voltaè più verosimile che sia stato detto, tenendomi il più vicino possibile al senso ge-nerale dei discorsi effettivamente pronunciati.

Il discorso sul vero e sul verosimile ci conduce alla retorica, in particolare a quella giudizia-le: «Lo storico, analogamente al retore, deve ricostruire lo svolgimento dei fatti sulla basedi testimonianze ed elementi di prova, che convalidino l’attendibilità della tesi esposta» (B.Gentili).

Lo stileLa prosa di Tucidide – densa, irregolare e scabra – riflette la sua concezione drammaticadella storia. A volte appare intricata, «difficile», concentrata al limite dell’oscurità. Sebbenesussistano alcuni degli elementi, che già abbiamo rilevato in Erodoto, della cultura orale (inparticolare i discorsi in forma diretta), tuttavia l’autore ha selezionato un pubblico non di udi-tori, ma di lettori. Questi potranno indugiare sulla pagina, ritornare sui punti precedenti, valu-tare i rapporti logici tra i vari blocchi del testo. Il metodo analitico e razionale di Tucidide nonsarebbe stato proponibile in una cultura orale come quella a cui prevalentemente si rivolge-va Erodoto (per il rapporto tra scrittura e analisi razionalistica dell’esperienza, vedi p. 111).Il resoconto freddo e distaccato privilegia i contenuti ideologici, apparentemente a discapitodegli ornamenti formali. Tuttavia c’è un ampio uso di figure. In particolare abbondano la va-riatio e le dissimmetrie (anacoluti, costruzioni sintattiche che si accavallano, «inconcinnità»)e soprattutto l’antitesi, assunta a principio dello stile tucidideo. Si tratta di procedimenti che,insieme con la brevità e la tinta arcaica della lingua, avranno imitatori tra i latini, in partico-lare Sallustio. I livelli stilistici sono vari in rapporto agli argomenti trattati e in ossequio alprincipio retorico della convenienza (prépon).

118 La storiografia greca

L’uso delle fonti

I 22, 2-3;trad di F. Ferrari

I discorsi

I 22, 1; trad. di F. Ferrari

Il probabile e il verisimile

Una storiografia che presuppone la scrittura

Brevità e antitesi

Le leggi dell’agire umano, I 76.I moventi profondi, non occasionali o superficiali o mitici, del conflitto tra Spartani e Ateniesi sono chiariti con lucidità da questi ultimie ricondotti alle tre «leggi umane» seguenti: paura (déos), onore (timé), utilità (ophéleia). L’impero ateniese è giustificato in base al di-ritto naturale del più forte.

76. «Voi, Spartani, esercitate la vostra egemonia sulle città del Peloponneso e le avete pure organizzate in vista dei vostriinteressi, e se perseverando nell’egemonia aveste incontrato l’ostilità che abbiamo avuto noi, sappiamo bene che non sa-reste stati meno duri verso i vostri alleati e sareste stati obbligati a governare con la forza, oppure a trovarvi voi stessi inpericolo. Così anche noi non abbiamo fatto niente di straordinario né di strano per la natura dell’uomo se abbiamo accet-tato l’impero che ci è stato offerto e non l’abbiamo lasciato, per le tre massime ragioni: la paura, il senso dell’onore, ilprofitto. Non siamo stati noi i primi a far questo: da sempre è invalso l’uso che il più debole sia sotto il controllo del piùforte. Noi ci riteniamo degni dell’impero, e ne eravate convinti fino ad ora anche voi, che adesso per il calcolo dei vostriinteressi usate il discorso della giustizia, il quale non ha mai impedito a nessuno, che avesse occasione di ottenere qual-cosa con la forza, di perseguire questo risutato. È degno di lode chi, pur assecondando la natura umana nel suo desideriodi dominio, esercita maggiore giustizia di quella che il suo potere gli consentirebbe. Crediamo che se altri prendessero ilnostro posto darebbero dimostrazione di quanto siamo moderati, mentre irragionevolmente da questo comportamento ciè venuto più discredito che lode.

(trad. di G. Paduano)

La peste, II 52-54.L’epidemia colpì Atene nel 431 a.C., fu contratta dallo stesso Tucidide, che riuscì a guarirne, e da Pericle che ne morì. La descrizio-ne precisa e drammatica che ci ha lasciato lo storico ateniese costituirà il modello di ogni futura rappresentazione della peste nellaletteratura occidentale, da Lucrezio a Boccaccio, da Manzoni a Camus. In particolare Lucrezio avrà ben presente il brano che qui pro-poniamo nell’affresco apocalittico del finale del De rerum natura. «Il discorso tucidideo diventa prodigioso nell’individuazione delleconseguenze in campo psicologico: sia di psicologia individuale, per cui possiamo ricordare … la passività e lo scoraggiamento chepiù della debilitazione fisica incidono sulla mortalità; sia di psicologia sociale, per cui si impongono dei comportamenti che esautoranodi fatto il contratto sociale e le norme etico-religiose» (G. Paduano).

L’effetto più tremendo in tutta questa calamità era lo scoramento, quando ci si accorgeva diessere colpiti (abbandonavano subito ogni speranza, si ritenevano senz’altro spacciati, e nonopponevano nessuna resistenza al male); e il fatto che, curandosi a vicenda, morivano di con-tagio, come avviene tra le bestie. Era appunto al contagio che si doveva la più intensa morta-lità. Quelli che per paura evitavano i contatti morivano in solitudine (e molte famiglie furonospazzate via perché nessuno volle far loro da infermiere). Quelli che non li evitavano vi ri-mettevano la vita: specie coloro che tenevano a mostrare una certa nobiltà di sentimenti.Spronati dal senso dell’onore essi arrischiavano la propria esistenza visitando gli amici; men-tre invece perfino i familiari alla fine oppressi ed esauriti dall’orrore del male, arrivavano atrascurare anche le lamentazioni sui propri morti. A ogni modo maggiore pietà di questi fa-miliari mostravano verso chi moriva e chi lottava col male coloro che ne erano scampati, perl’esperienza fatta, e perché ormai si sentivano al sicuro. Giacché il male non tornava una se-conda volta: o almeno non tornava con esito letale. Gli altri li consideravano felici: ed essistessi nell’esaltazione del momento si abbandonavano senza riflettere alla vaga speranza cheanche per l’avvenire nessun’altra malattia se li sarebbe mai più portati via.Maggior tormento recava ora, in aggiunta all’epidemia, l’ammassarsi della popolazione dalcontado alla città; e più ne soffrivano i profughi. Non avevano case, vivevano in capanne sof-focanti per la stagione, e la strage dilagava in cieco disordine. Giacevano alla rinfusa morti omoribondi. Uomini semivivi si trascinavano per le strade e ovunque fossero fontane, divoratidalla sete. I sacri recinti, ove i cittadini si erano accampati, erano pieni di cadaveri, poiché lagente vi moriva dentro: la furia del male aveva travolto ogni argine, e gli uomini, in balia diun destino ignoto, trascuravano con eguale indifferenza le leggi umane e le divine. Ogni con-suetudine prima in onore per le sepolture era sconvolta; ognuno seppelliva come poteva. Mol-ti ricorsero a funerali senza decoro, data la scarsezza del materiale necessario a causa dei mol-ti morti che avevano già avuto. Mettevano i propri defunti sopra roghi altrui, che accendevanoprima che sopravvenissero i proprietari; altri gettavano il morto, che avevano portato, su di unrogo, mentre un altro cadavere vi ardeva; e se n’andavano.

(trad. di P. Sgroi)

Eforo e Teopompo 119

Busto di Pericle. Vatica-no, Sala delle Muse.

Eforo nacque a Cuma, in Asia eolica, nel 400 a.C. circa. Visse ad Atene dove con Teo-pompo fu allievo di Isocrate, il retore che teorizzava le virtù della parola scritta. Oltre a trat-tati retorici, scrisse una storia della Grecia in 29 libri che narrano gli avvenimenti dall’inva-

Eforo e Teopompo

Eforo

sione dorica del Peloponneso al 340 a.C. e di cui restano solo frammenti. Si basò sull’ope-ra degli autori precedenti (Erodoto, Tucidide) e fu ammirato da Polibio, che considerò lacompilazione di Eforo il primo tentativo di storia universale.Nato a Chio nel 380 a.C. circa, allievo di Isocrate, visse alla corte di Filippo II e di Alessan-dro Magno. Oltre a scritti di carattere oratorio e a un’Epitome di Erodoto, compose dueopere storiche: le Elleniche in 12 libri, che continuavano la narrazione di Tucidide fino allabattaglia navale di Cnido (394 a.C.), e le Filippiche in 58 libri, che trattavano la storia mace-done dall’ascesa al trono di Filippo II (359) alla morte del sovrano (336 a.C.). Quest’opera– la prima concentrata sui fatti di un singolo personaggio – rappresenta il superamento del-l’ottica della polis. In essa infatti è centrale la Macedonia, mentre alla Grecia e alla Persia èassegnato uno spazio marginale. La prosa di Teopompo si caratterizza per il vigoreespressivo, la compiaciuta presenza di moduli retorici isocratei assunti nell’intento di dilet-tare. Dell’intera produzione restano solo pochi frammenti.

Senofonte nacque ad Atene intorno al 430 a.C. Di famiglia benestante appartenente al ce-to equestre, fu discepolo di Socrate, insieme con Platone, Alcibiade, Crizia. Forse per in-sofferenza verso il partito democratico e per evitare le conseguenze della propria adesionealla dittatura filospartana dei Trenta Tiranni, nel 401 accolse l’invito a seguire i mercenarigreci arruolati da Ciro il Giovane in lotta col fratello Artaserse II, re di Persia. Senza essere«né generale, né ufficiale, né soldato» (Anabasi III 1, 4), Senofonte probabilmente aveva ri-cevuto l’incarico di redigere un resoconto della spedizione, che si concluse con la sconfittadi Ciro a Cunassa. I mercenari sopravvissuti, sbandati e dispersi, furono ricondotti da Se-nofonte stesso, eletto a loro guida, in Grecia e consegnati al generale spartano Tibrone. Nel frattempo, a causa del filolaconismo, Senofonte era stato condannato all’esilio da Ate-ne e aveva subito la confisca dei beni. Scelse Sparta come nuova patria, legandosid’amicizia ad Agesilao. Durante questo periodo, che durò vent’anni, soggiornò a Scilluntepresso Olimpia in un podere concessogli dagli Spartani, dedicandosi alla caccia, all’agricol-tura e all’attività di scrittore. Quando, durante l’egemonia tebana, ci fu un riavvicinamentotra Atene e Sparta, egli forse rientrò nella città natale. L’anno della morte non ci è noto, maè da collocare intorno al 350. Senofonte ebbe molteplici interessi nati dalle varie esperienze di vita, e scrisse numeroseopere tradizionalmente raggruppate in tre gruppi: • opere di carattere storico, politico, biografico: Anabasi, Elleniche, Costituzione degli

Spartani, Agesilao, Ierone, Ciropedia;• opere socratiche, cioè incentrate sulla figura di Socrate: Apologia di Socrate, Memorabi-

li di Socrate (quattro libri di dialoghi e scritti socratici), Simposio (sulla natura dell’amo-re), Economico (dialogo tra Socrate e il giovane Critobulo, nel quale si tratta dell’ammi-nistrazione della casa, del metodo per la lavorazione dei campi, dei rapporti con i subor-dinati, dei rapporti con la moglie);

• opere di carattere tecnico-didascalico: Trattato sull’equitazione, Ipparchico, Cinegetico(che riguarda la caccia vista come contributo alla formazione del carattere), Poroi.

Ci occuperemo solo delle opere appartenenti al primo gruppo.

L’AnabasiL’Anabasi in sette libri narra la spedizione di Ciro il Giovane contro Artaserse II. L’operaracconta nel primo libro la «marcia verso l’interno» (l’anàbasis, appunto) dei Greci; negli al-tri sei, descrive la battaglia di Cunassa sfavorevole a Ciro, la sua morte, l’imboscata del sa-trapo Tissaferne e l’uccisione dei capi greci, la ritirata e il difficile rientro in patria (la katàba-sis) dei Diecimila guidati da Senofonte stesso, attraverso terre sterminate e ignote. La colo-

Senofonte

120 La storiografia greca

Teopompo

La vita

L’esilio a Sparta

Le opere

Un genere incerto

ritura autocelebrativa – male dissimulata dall’uso della terza persona (l’autore si cela sottolo pseudonimo di Temistogene di Siracusa) – e la struttura diaristica rendono incertal’attribuzione dell’opera al genere storiografico. L’assenza di un’indagine approfondita dellecause degli eventi narrati, l’interesse quasi solo cronachistico o rivolto ai dettagli tecnici, laprevalenza dell’informazione sulla riflessione segnano un netto regresso rispetto alla visio-ne tucididea. Non riconducibile a un preciso modello letterario, l’Anabasi è il primo diario di guerra dellaletteratura occidentale, come scrive Italo Calvino: «È il memoriale tecnico di un ufficiale, ungiornale di viaggio con tutte le distanze e i punti di riferimento geografici e notizie sulle ri-sorse vegetali e animali. E una rassegna di problemi diplomatici, logistici, strategici e dellerispettive soluzioni … Come scrittore d’azione Senofonte è esemplare … Quello che contaè la successione continua di particolari visivi e di azione». L’Anabasi è anche un’autobiografia con intenti apologetici, nella quale l’autore difende leproprie decisioni, riportando i discorsi da lui pronunciati e sottolineando il ruolo decisivo gio-cato dai suoi interventi in seno all’esercito, che lo segue e lo ammira con totale fiducia. Ilresoconto fatto in terza persona, come da un estraneo, non basta a impedire che l’autore –con la sua forza d’animo, astuzia, eloquenza – risulti il vero centro della narrazione. Per iltono soggettivo e apologetico l’Anabasi può essere confrontata ai Commentari della GuerraGallica di Cesare. L’Anabasi è infine il racconto meticoloso di un viaggio in un contesto etnografico e geogra-fico remoto, favoloso, esotico. È una storia di avventure, di cui alcuni elementi anticipano lerocambolesche peripezie del romanzo ellenistico e le gesta di Alessandro Magno. Avvicinano l’autore al mondo ellenistico il brillante eclettismo e l’attitudine giornalistica ascrivere di tutto, la scarsa simpatia per la democrazia e la propensione per le monarchieorientali, la concezione cosmopolitica che lo porta a mutare patria senza troppi traumi, lapassione per i viaggi e lo spirito d’avventura. A confermare quest’ultimo tratto della perso-nalità di Senofonte sta il fatto che, quando finalmente giunge con i Diecimila in vista delMar Nero, proprio di fronte alla Grecia, dopo un moto di commozione che percorre tutta latruppa («il mare, il mare!», IV 7, 24), egli non mostra alcuna intenzione di tornare in patria eprolunga la spedizione mettendo i suoi mercenari al servizio di rissosi principi traci. Seno-fonte, al pari del contemporaneo Alcibiade – entrambi non esitano a porsi al servizio deinemici della patria, perfino dei «barbari» –, fa presentire la crisi della polis e il cosmopoliti-smo che sarà dei tempi nuovi. Anche nell’incerta definizione del genere letterario – biogra-fia, trattato tecnico, romanzo memorialistico – egli anticipa l’ellenismo.

Le restanti opere di carattere storicoLe Elleniche, che recano il sottotitolo Aggiunte alla storia di Tucidide, narrano in sette librigli eventi della storia greca dal punto in cui s’interrompe l’opera di Tucidide, cioè dal 410a.C., alla battaglia di Mantinea (362 a.C.) che conclude con la morte di Epaminondal’effimera supremazia tebana. Il fatto che il primo libro e parte del secondo rivelino tratti sti-listici tucididei (esposizione fredda e impersonale, ordinamento annalistico dei fatti), mentreil resto del racconto conserva la consueta impostazione diaristica, ha fatto pensare che al-meno la parte iniziale dell’opera (fino al governo dei Trenta) appartenesse a Tucidide. Con-fermerebbe la tesi di una redazione a due mani l’incipit brusco delle Elleniche, senza un’in-troduzione: «Dopo questi avvenimenti, passati non molti giorni, giunse Timocare da Atenecon poche navi …». Tranne la sezione iniziale l’opera è, come l’Anabasi, fortemente auto-biografica e varia nei contenuti, fondendo personali esperienze dell’autore, storia politica,digressioni sull’arte della guerra e considerazioni sui regimi autocratici esemplificati in figu-re tipiche di tiranni.L’Agesilao è una biografia encomiastica del re spartano ammirato da Senofonte. In essasono descritte le imprese e le virtù del personaggio, per il quale l’autore nutriva sincera sti-ma e amicizia ed al cui seguito rimase per parecchi anni. Il Ierone è una specie di trattato

Senofonte 121

Un diario di guerra

Un’autobiografia

Un racconto di viaggi

Un precursore dell’ellenismo

Le Elleniche

Agesilao e Ierone

encomiastico nel quale il tiranno siracusano e il poeta Simonide discutono in utramque par-tem, cioè sui pro e sui contro della tirannide analizzando le differenze tra la condizione delprivato cittadino e del tiranno, concludendo che è preferibile la prima. Tuttavia anche il ti-ranno può essere felice, se è giusto e saggio, sollecito del bene dei cittadini. L’opera esalta la costituzione spartana e la ferrea disciplina istituita da Licurgo come la per-fetta antitesi della democrazia e individua nella corruzione dei costumi che cominciava adaffliggere anche Sparta la causa della decadenza della città.La Ciropedia, o Educazione di Ciro, in otto libri, è la biografia di Ciro il Vecchio, fondatoredell’impero persiano. Anche in questo caso non si tratta di una vera opera storica, bensì diuna biografia romanzata o «pseudo-biografia pedagogica» (A. Momigliano), che anticipatemi del romanzo ellenistico, ma anche del moderno «romanzo di formazione» europeo. Inparticolare la storia d’amore di Pantea ed Abradata (libro V, VI), due figure eroiche nell’a-more e nella lealtà fino all’estremo sacrificio, è la prima novella della letteratura occidenta-le. Nella Ciropedia si parla dell’educazione, della formazione, delle conquiste del re, la cuifigura idealizzata rappresenta il prototipo del monarca illuminato, dell’optimus princeps mo-dello di ogni virtù e grandezza morale. Ciro, che insegnava ai suoi soldati che lasciare do-po un saccheggio qualcosa ai vinti era un segno di umanità (philantropia) è un esempio dihumanitas anche per il mondo romano. Che tale esemplarità s’incarni in un sovrano «bar-baro» è un altro segno dei tempi, prossimi alla visione cosmopolitica dell’ellenismo: «Il pas-sato eroico non è più quello nazionale, ma quello straniero, barbarico. Il mondo si è ormaiaperto; il mondo monolitico e chiuso dei propri (come era nell’epopea) è sostituito dal gran-de e aperto mondo e dei propri e degli altri»1.

1. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1975, p. 470.

Lo stile Senofonte fu giudicato fin dall’antichità scrittore gradevole, limpido ed elegante. Non verostorico ma piuttosto poligrafo, fornito di straordinaria capacità di assimilazione piuttosto chedi originalità di pensiero, egli «guarda di fuori» (Cantarella), narra episodi e avvenimenticon ordine e chiarezza. Calvino scrive che da Senofonte si cita male, perché «quello checonta è la successione continua di particolari visivi e d’azione». Sebbene sia stato additatocome modello di perfezione e purezza attica e sia divenuto il modello per i puristi atticiz-zanti, in realtà i contatti anche prolungati con diversi ambiti linguistici e la frequentazione diletterature non attiche conferiscono alla sua lingua e al suo stile caratteri di varietà che pre-ludono alla koinè linguistica d’età ellenistica.

122 La storiografia greca

Costituzione degli Spartani

Ciropedia

Un documentario di guerra, Anabasi IV 5, 3-14.Riportiamo il passo dell’Anabasi che Calvino considera l’archetipo del diario di guerra, confrontabile ai libri di memorie sulla ritirata diRussia degli alpini italiani, come Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, un romanzo che già Elio Vittorini ebbe a definire come«piccola Anabasi dialettale». Qui i mercenari, durante il difficile ritorno, si confrontano con i rischi e i disagi del gelo avvalorando il ri-chiamo alla memorialistica della ritirata di Russia e al ridimensionamento dell’ideale eroico del soldato attraverso la descrizione dellesofferenze patite e la difesa del principio di conservazione e dell’interesse egoistico. A Calvino il brano fa pensare a «un vecchio do-cumentario di guerra, col fascino del bianco e nero della pellicola un po’ sbiadita, con crudi contrasti d’ombre e movimenti accelerati».

3. Di qui percorsero, attraverso un territorio pianeggiante e un’alta coltre di neve, tre tappe per cinque parasanghe. Il ter-zo giorno di marcia fu particolarmente sofferto: la tramontana soffiava in fronte bruciando completamente ogni cosa eintirizzendo le persone. 4. Allora un indovino suggerì di offrire un sacrificio al vento, e così fu fatto: e tutti poteronoconstatare come d’improvviso scemò l’intensità delle raffiche. Quanto alla neve, era alta un braccio, per cui molti ani-mali e molti servi, nonché una trentina di soldati, persero la vita. 5. Si trascorreva la notte tenendo acceso il fuoco. Nellesoste di tappa si trovava sempre molta legna e nondimeno gli ultimi arrivati ne rimanevano privi. Chi arrivava per primoe accendeva il fuoco non permetteva a chi arrivava dopo di accostarsi alla vampa, a meno che dessero in cambio del fru-mento o qualche altro bene commestibile. 6. Così barattavano le sostanze di cui volta a volta disponevano. Dove si ac-cendeva il fuoco la neve fondeva e si aprivano grosse cavità fino al suolo, attraverso le quali era possibile misurare laprofondità della neve.

Polibio 123

7. Di qui per tutto il giorno seguente marciarono in mezzo alla neve, e molti uomini furono colti da una fame divoran-te. Senofonte, che guidava la retroguardia e incappava negli uomini che via via stramazzavano al suolo, non riusciva arendersi conto di che cosa soffrissero. 8. Ma quando un tale, che aveva esperienza della cosa, gli disse che si trattavapalesemente di bulimia e che sarebbe bastato che ingurgitassero qualcosa per rialzarsi prontamente in piedi, ispezionòle salmerie per vedere di trovare da qualche parte delle cibarie e ne distribuì personalmente o ne fece distribuire da chiera in grado di muoversi tra gli affamati. E bastava un boccone perché si rialzassero e riprendessero la marcia. 9. Al-l’imbrunire Chirisofo arrivò a un villaggio, dove trovò, davanti al muro di protezione, delle donne e delle ragazze cheerano uscite per andare ad attingere acqua alla fonte. 10. Esse chiesero loro chi fossero: in persiano l’interprete risposedicendo che erano truppe che il re aveva inviato al satrapo. E le donne replicarono: «Il satrapo non è qui: si trova a cir-ca una parasanga da qui». Ma visto che ormai si era fatto troppo tardi, essi penetrarono oltre il muro seguendo le don-ne con le brocche e si diressero verso il capo del villaggio. 11. Così Chirosofo e quanti dell’esercito avevano avuto laforza di arrivare fin lì vi si accamparono, mentre gli altri soldati che non erano riusciti a completare la marcia trascor-sero la notte senza cibo e senza fuoco. E alcuni soldati morirono. 12. Gruppi compatti di nemici incalzavano alle spal-le e catturavano le bestie che stentavano a proseguire, contendendosene il possesso. E furono abbandonati sul posto isoldati che avevano perso la vista per il bagliore della neve e quelli a cui per il gelo si erano incancrenite le dita deipiedi. 13. Si proteggevano gli occhi dalla neve fasciandoli con una pezza nera durante la marcia; si difendevano i piedimuovendosi continuamente senza mai fermarsi e sciogliendo i calzari durante la notte. 14. Se dormivano calzati, i le-gacci penetravano nella carne dei piedi e le suole si congelavano. Del resto, dato che ormai avevano dovuto abbando-nare le vecchie calzature, si trattava di sandali rimediati alla meglio con suole ricavate da buoi appena scuoiati.

(trad. di F. Ferrari)

Verso la fine del IV secolo a.C. s’intensifica l’interesse per il genere storiografico, e si assi-ste a un pullulare di storici, memorialisti, scrittori di cronache, per lo più mediocri e incapacidi avvicinarsi alla profondità analitica di Tucidide. Da questo essi si allontanavano ancheper la predilezione della ricerca psicagogica propria dell’indirizzo mimetico e teatrale. Qua-si interamente perduta è la vasta produzione dei cosiddetti «storici di Alessandro», il sovra-no che inaugurò l’usanza di condurre al proprio seguito un manipolo di scrittori che narras-sero le proprie gesta. Tra questi si distinguono Callistene di Olinto (370-327), autore di die-ci libri di Elleniche delle Gesta di Alessandro, e Clitarco, la cui opera sarà alla base delleStorie di Alessandro Magno di Curzio Rufo. Di Duride di Samo (340-270 a.C.), autore diuna Storia Macedonica, abbiamo già avuto occasione di parlare come del campione dellastoriografia mimetica, improntata alla ricerca del diletto e in grado di emozionare il destina-tario. Contemporaneo di questi storici è il siciliano Timeo (346-250 a.C.) di Tauromenio(Taormina), le cui Storie dell’Occidente greco andavano dalle origini mitiche alla primaguerra punica (264 a.C.) e segnavano l’ingresso di Roma nella storiografia greca. Il solostorico di spicco di questo arco temporale è Polibio di Megalopoli.

Polibio nacque a Megalopoli in Arcadia alla fine del III secolo a.C. Il padre, stratego dellaLega Achea, assicurò al figlio una formazione culturale e tecnica (soprattutto militare) di lar-go respiro. Ben presto anche Polibio ebbe incarichi importanti nella Lega, partecipò a spe-dizioni in Messenia e in Egitto. Dopo la vittoria romana sulla Macedonia a Pidna (168 a.C.), Polibio fu deportato a Romacon altri ostaggi accusati dal partito filoromano di ostilità verso i nuovi padroni. Ebbe fortu-na e fu destinato alla casa del console L. Emilio Paolo, animatore del famoso «circolo» fi-lellenico degli Scipioni. Nella casa del vincitore di Pidna, ebbe l’incarico di occuparsi dell’e-ducazione dei figli, Scipione Emiliano e Quinto Fabio Massimo. Con questi strinse profondilegami d’amicizia, accompagnando Scipione in varie spedizioni militari; in particolare parte-cipò alla terza guerra punica, assistette alla distruzione di Cartagine (146 a.C.) e alla presadi Numanzia (134-132 a.C.).

Polibio

La storiografia nell’età ellenistica

La vita

Il «circolo» degli Scipioni

Roma divenne per Polibio la nuova patria e l’irresistibile ascesa di questa città fu l’oggettodella sua attività di storico. Traspare ovunque nelle Storie l’ammirazione per Roma, comein questo passo in cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri im-peri precedenti:

I 2; trad. di C. Schick Quanto l’argomento della nostra trattazione sia grande e meraviglioso, appariràsoprattutto evidente se con cura paragoneremo i più illustri imperi precedenti, lecui vicende gli storici hanno più diffusamente trattato, alla dominazione romana.Tra i più degni di essere messi a confronto con Roma, i Persiani in determinatecircostanze riuscirono a conquistarla, ma la conservarono intatta per soli dodicianni. I Macedoni signoreggiarono sull’Europa dalle coste dell’Adriatico al fiumeIstro, ma aggiunsero poi a questo il dominio dell’Asia, dopo avere abbattuta la po-tenza persiana. Benché possa sembrare che questi popoli abbiano conquistato vastiterritori e grande potere, essi lasciarono tuttavia ad altri il predominio su gran par-te della terra abitata: neppure una volta aspirarono, infatti, alla conquista della Si-cilia, della Sardegna, dell’Africa settentrionale, né conobbero le più bellicose po-polazioni dell’Europa occidentale. I Romani invece assoggettarono quasi tutta laterra abitata e instaurarono una supremazia irresistibile per i contemporanei, insu-perabile per i posteri.

Polibio ritornò in Grecia, dopo la dissoluzione della lega Achea, come mediatore tra vincito-ri e vinti e partecipò alla spedizione di Scipione contro la città iberica di Numanzia. La mor-te lo colse, a ottantadue anni, in seguito a una caduta da cavallo nel 124 a.C.Restano i libri I-V delle Storie che, in 40 libri, trattavano gli avvenimenti della storia romanadall’inizio della prima guerra punica (264 a.C.) al 144 a.C. Dei libri mancanti rimangono am-pi estratti, provenienti da antiche antologie dell’opera o citati da altri autori.Comprendono una sintesi degli avvenimenti degli anni 264-220 a.C. e si collegano alla Sto-ria di Timeo di Tauromenio, che aveva trattato questioni inerenti la sua isola, la Sicilia. Trattano gli avvenimenti di Grecia e le vicende della guerra punica fino alla battaglia diCanne (216 a.C.). Nel Libro VI la narrazione s’interrompeva per lasciare il posto alla teoria delle costituzioni,con particolare riguardo per quella romana, di cui è celebrata la superiorità. Dal libro VII inpoi erano narrati, secondo uno schema annalistico, gli avvenimenti in oriente e in occiden-te fino all’anno 144. Il XII conteneva la polemica contro gli storici precedenti, soprattutto Ti-meo. L’opera terminava con un riassunto conclusivo degli avvenimenti trattati e un quadrogenerale. La divisione cronologica era in base alle Olimpiadi.Delle opere minori ricordiamo la Vita di Filopemene, la Guerra di Numanzia, un trattato Sul-la tattica, Sulla abitabilità della zona equatoriale, tutte perdute.

Le StorieLa storia deve essere «pragmatica» nel senso che deve poggiare su dati di fatto (pràgma-ta), sulla realtà oggettiva. Una storiografia pragmatica non deve basarsi su minuzie eruditedi tipo antiquario (fondazioni, genealogie, ecc.) o curiosità peregrine, ma su avvenimentipolitici e militari dei quali si sia accertata la consistenza reale. Infatti scopo precipuo dellastoria è la conoscenza della verità. La storia non ha per oggetto il diletto ma l’utile, e questos’identifica, come anche per Tucidide, nell’ammaestramento che ci viene dal confronto conl’esperienza compiuta da altri uomini:

I 1; trad. di C. Schick Non soltanto alcuni storici incidentalmente, ma tutti senza distinzione, con taleelogio [della storiografia] hanno dato inizio e posto termine alle loro opere, dichia-rando lo studio della storia la migliore palestra e preparazione all’attività politica eil ricordo delle peripezie altrui il solo e più efficace incitamento a sopportare confortezza i rivolgimenti della sorte: è evidente quindi che a nessuno, e meno cheagli altri a noi, sembrerebbe opportuno ripetersi intorno a un argomento già tratta-to a fondo da molti altri.

L’utilità della storia è conseguente alla sua capacità di accertare le cause, laddove la solaenunciazione dei fatti può al massimo avere un effetto psicagogico: «La pura e semplice

124 La storiografia greca

L’ammirazione per Roma

Gli ultimi anni

Le opere

Libri I e II

Libri III, IV, V

La storiografia pragmatica

esposizione di ciò che è accaduto può eccitare il sentimento (psychagogéi), ma non recaalcun frutto; aggiungi la causa, e la confidenza con la materia della storia si fa immediata-mente più utile» (XII 25b, 2).Si può parlare di historia magistra vitae sia nel senso della formazione culturale del cittadi-no, sia nella prospettiva ancora più utilitaristica dell’acquisizione di un potente strumentoper orientarsi nella vita politica e prevedere gli eventi futuri: «Si può, sulla base di quanto ègià successo, fare previsioni certe sul futuro» (VI 3). In particolare la tesaurizzazione dellealtrui esperienze dolorose risulta proficua, consentendo di acquisire un insegnamento sen-za ricevere i danni:

Io ho voluto ricordare queste vicende proprio in grazia degli insegnamenti che ilettori ne possono ricavare: per due vie infatti gli uomini possono divenire miglio-ri: mediante le disgrazie proprie e mediante quelle degli altri: la prima è senz’altropiù efficace, ma la seconda è di gran lunga meno dolorosa. Mai si deve spontanea-mente ricorrere a quella per trarne ammaestramento a prezzo di grandi travagli epericoli, mentre sempre si deve ricercare l’altro mezzo, che senza danno alcuno in-segna a distinguere il partito migliore. Concludendo, la migliore preparazione alvivere rettamente è l’esperienza che si ricava dalla storia delle vicende vissute: so-lo questa infatti può, senza pericolo di danno, rendere sicuri giudici del partito pre-feribile in ogni occasione o circostanza.

Una storiografia pragmatica e che mira all’ammaestramento dell’uomo politico e del cittadi-no non può che affermare il primato dell’utile (ophélimon) sul diletto (térpsis). Tuttavia lapresenza del diletto, respinta in linea di principio, è garantita dall’importanza delle vicendenarrate, che proprio per la loro rilevanza storica hanno in sé anche la capacità di attrarre illettore.

Del resto il carattere meraviglioso delle vicende delle quali abbiamo intrapreso anarrare, è di per sé tale da indurre e incoraggiare tutti, e giovani e vecchi, a inte-ressarsi a questo nostro lavoro. Chi infatti può essere tanto stolto o pigro da nonsentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in me-no di 53 anni – fatto senza precedenti nella storia – abbiano conquistato quasi tut-ta la terra abitata, o chi ancora potrebbe essere tanto appassionato ad altra forma distudio o spettacolo, da considerarlo preferibile alla ricerca storica?

La polemica di Polibio era nei confronti della storiografia mimetica (vedi pag. 111) e control’indirizzo isocrateo, rappresentato da Eforo e Teopompo, che aveva privilegiato gli argo-menti di tipo etnografico e antropologico (tradizioni mitiche, fondazioni di città e colonie,storie di famiglie, excursus sulla geografia e i costumi dei popoli):

Quasi tutti gli altri scrittori … attraggono molti alla loro opera. Infatti il discorsosulle genealogie attira chi ascolta per il puro piacere di ascoltare; chi ama possede-re una molteplicità di conoscenze e notizie erudite è attratto dai racconti sulle co-lonie, le fondazioni … come si legge anche in Eforo. Il politico volge il suo inte-resse alle vicende dei popoli, delle città e di chi le governa. Questo è il solo argo-mento che noi abbiamo affrontato e solo ad esso abbiamo dedicato la nostra tratta-zione … preparando per la maggior parte degli ascoltatori una lettura priva di ognifine psicagogico.

La storia assolve alla finalità formativa suddetta solo a patto che si indaghino le cause di ciòche è realmente accaduto con metodo rigoroso, atto ad individuare la realtà oggettiva. Talemetodo comporta un’indagine scientifica condotta sulle fonti scritte e sulle informazioni topo-grafiche e geografiche controllate personalmente (visitando i luoghi teatro degli eventi) e lasicura competenza di problemi politici e militari. Fondamentale è la distinzione di Polibio tracausa vera (aitìa), causa apparente (pròfasis), inizio degli avvenimenti (arché).

Ma vi sono uomini che non vedono quanto il principio dei fatti è diverso dallecause che li determinarono, e quanto siano tra loro lontani i motivi veri e i pretestioccasionali e come i motivi veri sono alle origini prima dei fatti, mentre il princi-pio è quello che si verifica per ultimo. In generale io dico che sono «princìpi» iprimi attacchi e le prime forme di attuazione di cose già stabilite; «cause» invece

Polibio 125

Historia magistra vitae

I 35; trad. di C. Schick

Diletto o utile?

I 1; trad. di C. Schick

Contro la storiografia mimetica

Proemio libro IX; trad. di B. Gentili

Il metodo

III 6, 6-7;trad. di F. Brindesi

io chiamo quelle che sono dietro le decisioni e le deliberazioni. Intendo riferirmialle riflessioni, agli stati d’animo, alle considerazioni relative ai deliberati che siprendono, attraverso i quali arriviamo alle risoluzioni che ci proponiamo.

Violenta è la critica, in una digressione metodologica contenuta nel libro XII, nei confrontidegli storici precedenti tacciati d’incompetenza e superficialità. In particolare è contro Ti-meo che Polibio rivolge i suoi strali. La storia concepita da Polibio è inoltre universale, cioè quella che trova la sua unità nell’in-treccio non occasionale delle vicende, che non si limita a esporre un fatto isolato o unevento marginale, ma collega gli avvenimenti in una visione generale e organica, in cui tut-ti abbiano un centro generativo. Nel caso della storia recente questo centro è Roma, la suarapida ascesa nel Mediterraneo, la sua azione catalizzatrice e unificatrice del mondo cono-sciuto. A partire dalla vittoria su Annibale, lo spirito di conquista romano unifica il mondomediterraneo e ne rende la storia intimamente unitaria. In particolare le vicende dal 264 al220 a.C. sembrano appartenere a un disegno coerente (somatoeidés) teso a un solo obiet-tivo, il governo di Roma. «Un siffatto impianto – questo sì davvero “universale” – superal’aporia insita in un racconto continuo che, come quella di Eforo, rischia continuamente difrantumarsi in monografie, e al tempo stesso dà un senso alla successione narrativa, giac-ché il “prima” e il “poi” non si presentano più nella casuale e falsa successione dovuta allamera trascrizione degli eventi»1.

I 4; trad. di B. Brindesi Ma ciò che è proprio della nostra storia ed è novità assoluta dei nostri tempi è que-sto: come la fortuna volse in una sola direzione tutti gli eventi del mondo alloraabitato e li costrinse tutti a piegare verso un unico obiettivo, così sarà necessariopresentare al lettore in un unico quadro di insieme le vie di cui la fortuna si servìper il compimento della sua opera. Proprio questo mi ha incitato e spinto alla com-posizione di questa storia, e inoltre la constatazione che nessuno, ai nostri tempi,ha posto mano a scrivere una storia universale: altrimenti non mi sarei sobbarcatoa questa impresa. Ma vedendo che anche più d’uno ha trattato le singole guerre ealcuni avvenimenti particolari ad esse contemporanei, e che nessuno, a quanto al-meno mi risulta, pensò neppure di indagare, nel complesso, l’insieme dei fatti equando e da che cosa quei fatti ebbero origine e come si conclusero, ho ritenutoassolutamente necessario non traslasciare né permettere che passasse inosservatal’opera più bella e più utile della fortuna.

Nel VI libro, in cui sono studiate le costituzioni con le quali gli stati si reggono, Polibio enun-cia sulle orme di Platone e Aristotele la cosiddetta «anaciclosi», cioè la teoria del ritorno ci-clico delle forme di governo. Ci sono tre forme di governo positive che sono la monarchia,l’aristocrazia e la democrazia a cui si oppongono le corrispondenti tre forme degenerate: latirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia o potere delle masse. Alle prime seguono inevitabilmen-te le altre secondo un ciclo discendente a cui non può sottrarsi nemmeno la costituzioneromana, che pure a Polibio sembra perfetta, in quanto in essa coesistono la monarchia (iconsoli), l’aristocrazia (il senato), la democrazia (i comitia del popolo).Legato a una visione laica della storia, Polibio nega che le divinità tradizionali abbiano unpeso negli eventi umani, le cui cause vanno ricercate unicamente in fatti concreti come lecondizioni geografiche, la situazione politica e militare, la ricerca dell’utile. Nondimeno è ri-petutamente menzionata la Tyche, la forza irrazionale del caso ora provvidenziale ora osti-le, personificazione dell’imponderabile e dei limiti dell’umana capacità di comprensione deifatti storici. Il ricorso alla Tyche è, in taluni casi, la sola spiegazione dell’avvicendarsi insen-sato di imperi e di egemonie, dei bruschi capovolgimenti di fortuna, dei crolli imprevedibilicome quello dell’impero persiano. «Chi avrebbe potuto prevedere cinquant’anni fa, e antici-pare ai Greci e ai Persiani che l’impero persiano sarebbe scomparso e che i Macedoniavrebbero regnato al loro posto?»: con queste parole, tratte dal trattato Perì tyches di De-metrio Falereo, Polibio commenta la fine di Perseo di Macedonia.

1. L. Canfora, Polibio, in «Lo spazio letterario della Grecia antica», Salerno, Roma 1993.

126 La storiografia greca

La storia universale

La teoria dei cicli

La Tyche

Nella visione pragmatica e utilitaristica di Polibio, è positiva la considerazione dell’impiegodella religione a Roma, intesa come instrumentum regni, cioè come mezzo di potere e fat-tore di coesione politica:

Ciò che presso gli altri popoli è oggetto di biasimo, cioè lo scrupolo religioso,mantiene la coesione dello stato romano. Questo elemento è stato introdotto inogni aspetto della vita privata e pubblica dei Romani, con ogni espediente per im-pressionare paurosamente l’immaginazione, ad un punto oltre il quale non si po-trebbe andare. Ciò potrebbe apparire stupefacente a molti. Ma a mio modo di ve-dere i Romani hanno fatto ciò per impressionare le masse. Se fosse possibile for-mare uno stato di soli uomini saggi, forse non sarebbe necessario ricorrere a que-sto mezzo; ma, data la leggerezza, l’avidità sfrenata, la collera irragionevole e lepassioni violente delle masse, non rimane che tenerle a freno coi terrori dell’invi-sibile o con altre imposture dello stesso tipo. Perciò gli antichi non a torto, ma se-condo un preciso proposito, hanno inculcato nelle masse le nozioni relative aglidei e le credenze sulla vita dell’aldilà. Sciocchi i moderni che cercano di disperde-re queste illusioni!

La lingua delle Storie è quella fredda e volutamente arida dei documenti ufficiali, priva di or-namenti retorici, ricca di lessico tecnico impiegato con precisione e competenza. Lo stile èconseguentemente «cancelleresco», formale, astratto. Il periodo risulta complesso, densodi concetti, ricco di perifrasi e, a tratti, faticoso. Non è tuttavia nella ricercatezza dello stileche troviamo la grandezza di Polibio, che è un sostenitore della concezione pragmaticadella storia, che risulta fondata cioè sull’analisi dei fatti politici e militari senza digressioninarrative.

Plutarco 127

La religione

VI 56; trad. di L. Canfora

Lingue e stile

Il pianto di Scipione su Cartagine distutta, XXVIII 22.Riportiamo uno dei rari passi in cui la prosa, sempre un po’ fredda e incolore delle Storie si anima, arricchendosi di elementi pateticinormalmente banditi dalla scrittura polibiana e cari invece alla storiografia «tragica».

Scipione, vedendo ridotta ormai all’estrema rovina la città di Cartagine, pianse apertamente, si dice, per i nemici. A lun-go egli rimase meditabondo, considerando come la sorte di città, popoli, domíni, varii come il destino degli uomini: ciòera accaduto ad Ilio, città una volta potente, era accaduto ai regni degli Assiri, dei Medi e dei Persiani, che erano statigrandissimi ai loro tempi, e recentemente al regno macedone. Infine sia volontariamente, sia che tali parole gli sianosfuggite, esclamò: «Verrà giorno che il sacro iliaco muro / e Priamo e tutta la sua gente cada».Polibio, che gli era stato maestro e gli poteva parlare liberamente, gli chiese che cosa egli volesse significare con questeparole e allora Scipione senza reticenza nominò la patria, per la quale temeva considerando la sorte degli uomini. Ciò ri-ferisce Polibio, avendolo udito con le sue orecchie.

(trad. di C. Schick)

Per motivi di economia espositiva trattiamo in questo capitolo anche la figura di Plutarco,sebbene sia vissuto due secoli dopo Polibio e pertanto rispecchi una concezione storiogra-fica assai distante da quella degli storici greci sin qui considerati.Nacque intorno al 45 d.C. a Cheronea in Beozia da famiglia benestante; studiò ad Atenealla scuola del filosofo platonico Ammonio, curando la matematica, le scienze, la retoricae la filosofia. Viaggiò in Egitto, in Asia, a Roma e nell’Italia Meridionale, ma trascorse lagran parte della vita a Cheronea che, ironicamente, diceva di non volere rendere più pic-cola con la propria lontananza e dove esercitò i più alti uffici. Fece parte del collegio sa-cerdotale del santuario di Delfi. Acquistata la cittadinanza romana, ricoprì alte caricheonorifiche sotto Traiano e Adriano. È singolare che i contemporanei Plinio il Giovane eTacito non facciano menzione di lui. A Cheronea aprì una scuola, secondo l’esempioplatonico, nella quale provvedeva all’istruzione dei figli e di pochi discepoli. In essa si ce-lebravano come festività i giorni natali di Socrate e Platone. Morì a Cheronea intorno al125 d.C.

Plutarco

La vita

Plutarco fu scrittore assai produttivo. Un catalogo antico gli attribuisce ben 227 opere, dicui soltanto 83 sono conservate in due grandi sezioni: • le opere morali, note come Moralia a partire dal Medioevo, • le Vite parallele, 22 coppie di Vite, 19 di esse con l’aggiunta del confronto (synkrisis), e

quattro Vite singole.

I MoraliaIn questo raggruppamento sono contenuti scritti filosofici, pedagogici, teologici, retorici,scientifici e letterari, accanto ad opere di contenuto etico che in forma di dialogo o di diatri-ba – genere tipico del trattato filosofico-morale a scopo di divulgazione popolare – svilup-pano argomenti di filosofia spicciola o forniscono precetti di vita quotidiana. In questo repertorio del sapere antico hanno uno spazio rilevante gli scritti che vertono suproblemi dell’educazione e della vita politica. Ecco alcuni titoli: Come i giovani devono leg-gere i poeti, Precetti politici, Se gli anziani debbano fare politica, ecc. Gli scritti sull’educa-zione, che influenzarono la pedagogia cristiana e quella umanistica, affrontano le questioninon da un punto di vista teorico, ma come guida per una condotta etica corretta. Anche gliscritti politici sono veri e propri manuali indicanti i mezzi adeguati per conseguire determi-nati obiettivi nella concreta pratica della vita cittadina. Un gruppo a parte sono le opere di carattere religioso, legate anche alla funzione sacerdo-tale svolta dall’autore, che nel 95 d.C. ricoprì il più alto grado nella gerarchia dei sacerdotidi Delfi. Ecco alcuni titoli: Sugli indugi della giustizia divina (che spiega l’enigma della pro-sperità dei malvagi), Sulla lettera E in Delfi, cioè sulla lettera E incisa sul tempio di Apollo,per la quale l’autore propone un’interpretazione pitagorica. Ci sono poi le opere filosofiche, nelle quali l’autore espone il proprio punto di vista, fonda-mentalmente platonico, moderatamente aperto allo stoicismo (Sulla tranquillità interiore, Larepressione dell’ira) e polemico verso l’epicureismo (Non è possibile vivere felici seguendoEpicuro). Non mancano scritti bizzarri, come quelli sulla psicologia degli animali, sulla lo-quacità, su come distinguere un adulatore da un amico. Altri sono di carattere astronomico(Sulla faccia della Luna, una meditazione sul cosmo), consolatorio (Consolazione alla mo-glie, per la morte della figlia), antiquario (Questioni greche, Questioni romane), letterario(Confronto fra Aristotele e Menandro). Nell’ambito di quest’ultimo gruppo, è singolare comel’autore ignori quasi completamente la letteratura latina. I Moralia, oltre a documentare l’ampiezza degli interessi dell’autore, sono una fonte inesau-ribile di frammenti di testi più antichi, noti solo per le citazioni di Plutarco. Inoltre venneroletti durante tutto il Medioevo, furono il modello della saggistica morale a partire dai Saggidi Montaigne (1533-1592), contribuirono potentemente a trasmettere all’Europa il pensieroe la cultura del mondo antico.

Le Vite paralleleL’opera più propriamente storica di Plutarco sono le Vite parallele: 22 coppie di ritratti di per-sonaggi illustri, nelle quali un greco e un romano sono accostati, in base a criteri spesso evi-denti (Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone) e quasi sempre chiariti nella synkrisis.Ecco le Vite a confronto: Teseo-Romolo, Solone-Publicola, Temistocle-Camillo, Aristide-Catone maggiore, Cimone-Lucullo, Pericle-Fabio Massimo, Nicia-Crasso, Coriolano-Alci-biade, Demostene-Cicerone, Focione-Catone minore, Dione-Bruto, Emilio Paolo-Timoleon-te, Sertorio-Eumene, Filopemene-Tito Flaminino, Pelopida-Marcello, Alessandro-Cesare,Demetrio Poliorcete-Antonio, Pirro-Mario, Agide e Cleomene-Tiberio e Caio Gracco, Licur-go-Numa, Lisandro-Silla, Agesilao-Pompeo. Al di fuori delle biografie parallele sono le Vitedi Arato, Artaserse, Galba e Otone.

Ciò che interessa è il carattere dei protagonisti, e questo si rivela nel loro modo di rappor-tarsi non solo alle grandi occasioni storiche, ma anche alle questioni spicciole della vita

128 La storiografia greca

Le opere

Scritti pedagogici e politici

Le opere religiose

Scritti vari

Una miniera di citazioni

L’intento morale

quotidiana. La personalità, l’etos emerge nei tratti fisici, nelle battute memorabili, nel com-portamento privato riscostruibile a partire anche dalle più minute notazioni aneddotiche, co-m’è detto nella Vita di Alessandro:

… Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite; ora, noi ritroviamo una manife-stazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle loro azioni più appa-riscenti: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un in-dividuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti, i piùgrandi schieramenti di eserciti e assedi. Insomma, come i pittori colgono la somi-glianza di un soggetto nel volto e nell’espressione degli occhi, poiché lì si manife-sta il carattere, e si preoccupano meno delle altre parti del corpo; così anche a medeve essere concesso di addentrarmi maggiormente in quei fatti o in quegli aspettidi ognuno, ove si rivela il suo animo, e attraverso di essi rappresentarne la vita, la-sciando ad altri di raccontare le grandi lotte.

In questo passo, Plutarco distingue la vita dalla storia – quindi il carattere del personaggiodai fatti politici e militari – optando per la biografia peripatetica, un genere con forte accen-tuazione dei motivi etici. Si tratta di una prospettiva che esclude l’analisi rigorosa delle cau-se e degli effetti e quella visione d’insieme che secondo Polibio deve caratterizzare la rico-struzione storica. D’altronde, la priorità accordata alla dimensione etica caratterizza quasitutta la storiografia antica, più interessata a ricercare le cause dei fatti nei vizi e nelle virtùdei protagonisti, che nei fattori economici e politici. Anche lo schema retorico della synkrisis– già impiegato da Sallustio (è celebre la comparatio tra Cesare e Catone nel Bellum Cati-linae) mira a educare il lettore. L’intento morale è enunciato in particolare nella Vita di Emi-lio Paolo, dove l’autore dichiara di volere uniformare il proprio comportamento a quello deipersonaggi presentati, guardando nella storia come in uno specchio. In questa prospettivaetico-pedagogica le Vitae hanno una funzione paradigmatica e i personaggi assumono lafissità dell’archetipo psicologico e morale (éidos). Un secondo intento dell’autore era di mostrare la complementarità tra mondo romano egreco, la compatibilità di Roma dominatrice e della Grecia educatrice, valorizzando le diffe-renze tra le due civiltà ormai congiunte, ma distinte: «La formula delle Vite che introduce ildoppio principio di una corrispondenza e anche di una opposizione, esprime appuntol’ambivalente senso della continuità culturale che collega Roma con la Grecia, e però an-che della indipendenza con cui i Greci consideravano quel passato che era una ereditàesclusivamente loro» (D. Del Corno).

Plutarco 129

trad. di C. Carena

La Grecia e Roma

Il ritratto di Cesare. Riportiamo dalla Vita di Cesare il paragrafo 17.

Chi suscitò e coltivò questa risolutezza e questo spirito di emulazione nelle sue truppe fu Cesare stesso. Egli anzi tut-to elargì senza risparmio danaro e beneficenze. Così dava a vedere di non voler ricavare dalle campagne di guerra ric-chezze che servissero al suo lusso e al suo benessere personale, ma tutto metteva da parte e conservava per premiarechiunque compisse un atto di valore; la sua parte di ricchezza consisteva in ciò che dava ai suoi soldati meritevoli. Insecondo luogo si sottopose spontaneamente ad ogni loro rischio e non si sottrasse a nessuna delle loro fatiche. Cheamasse il pericolo, non stupiva i suoi uomini, perché sapevano quant’era ambizioso; ma la sua resistenza ai disagi, su-periore alla forza apparente del suo corpo, li sbalordiva. Cesare era di costituzione fisica asciutta, di carnagione bian-ca e delicata; subiva frequenti mal di capo e andava soggetto ad attacchi di epilessia: la prima manifestazione l’ebbe,pare, a Cordova. Eppure non sfruttò la propria debolezza come un pretesto per essere trattato con riguardo; al contra-rio, fece del servizio militare una cura della propria debolezza. Compiendo lunghe marce, consumando pasti frugali,dormendo costantemente a cielo aperto, sottoponendosi ad ogni genere di disagi, sgominò i suoi malanni e serbò ilsuo corpo ben difeso dai loro assalti. Si coricava la maggior parte delle notti su qualche veicolo o nella lettiga, sfrut-tando il riposo per fare qualcosa. Durante il giorno si faceva portare in visita alle guarnigioni, alle città, agli accampa-menti ed aveva seduto al fianco uno schiavo che era abituato a scrivere sotto dettatura anche in viaggio, e dietro, inpiedi, un soldato con la spada sguainata. Viaggiava così rapidamente, che la prima volta partì da Roma e compì ilviaggio fino al Rodano in otto giorni. Cavalcare era sempre stato facile per lui fin da bambino; sapeva persino mante-nersi in sella col cavallo spinto a grande carriera, tenendo le mani riunite dietro il dorso. Durante la campagna milita-re in Gallia si esercitò inoltre a dettare lettere mentre cavalcava, e a tenere testa contemporaneamente a due scrivani,dice Oppio, o anche più. Si narra anzi che Cesare sia stato il primo ad usare la corrispondenza per tenersi in contatto

coi suoi amici, quando la massa dei suoi impegni e l’estensione di Roma non gli consentivano d’incontrarli di perso-na per discutere affari urgenti.A dimostrare quanto poco esigente fosse in tema di vitto, si cita di solito questo episodio. Un suo ospite, presso cui man-giava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tran-quillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. «Bastava» disse «che coloro a cui non piacevano non se neservissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui». Un’altra volta, mentr’era in viaggio,una tempesta lo costrinse a riparare nella capanna di un poveraccio; come vide che si componeva di non più di una stan-za, capace d’ospitare a mala pena una sola persona, disse, rivolto agli amici: «Gli onori spettano ai più potenti, ma le co-modità ai più deboli» e impose ad Oppio di riposare lui nell’interno, mentre egli dormì con gli altri sotto la gronda, da-vanti alla porta.

(trad. di C. Carena)

130 La storiografia greca

La storiografia latina in origine è ufficiale e sacra e consiste nelle registrazioni deipontefici. Diversamente da ciò che accade nella storiografia greca che, fin dal suosorgere, si rapporta criticamente alla propria tradizione e la sottopone a indaginerazionale, in quella latina il carattere sacro implica l’assenza di un vaglio critico. Es-sa accetta le tradizioni, le registra con deferenza, quand’anche ad esse non prestifede. Il carattere sacro le rimarrà impresso durante tutto il suo svolgersi.L’atteggiamento di rispetto e riverenza verso il passato è ancora presente in unostorico come Livio (I a.C.- I d.C.), il quale riporta un aneddoto portentoso (la statuadella dea Giunone si mette a parlare) che egli stesso definisce col termine di fabu-la normalmente riferito alla narrativa d’invenzione (V 22). Egli non crede al miraco-lo che racconta, ma non per questo prende le distanze da quel mondo remoto cheancora prestava fede ai prodigi. Egli scrive in altra parte della sua opera:

So bene che, per effetto di quell’indifferenza per la quale oggi si crede chegli dei non diano presagi coi loro portenti, non viene più rivelato in pubbli-co alcun prodigio né registrato nelle cronache. Quanto a me, intento a scri-ver la storia dei tempi antichi, l’animo, non so come, mi si fa antico e uncerto scrupolo religioso mi trattiene dal giudicare indegni di esser riportatinei miei annali quei prodigi che i saggi uomini del passato nell’interessestesso dello stato decisero di accettare per veri.

«Mentre il Greco muove audacemente in guerra contro la sua tradizione, il Roma-no la tradizione ama e rispetta e la giustifica, anche se non più in tutto ciecamentevi creda» (D. Musti).Nella storiografia latina, la fase letteraria è preceduta da quella cronachistica ponti-ficale, che registrava quotidianamente sia eventi d’interesse pubblico sulle tabulaedealbatae (di queste «lavagne» già s’è detto a p. 11) sia cronache di più ampio re-spiro temporale, relative a un intero anno (annales, vedi p. 11). Si trattava di unamemoria diretta, breve, specializzata su singoli eventi (guerre, paci, carestie, prodi-gi, ecc.). Il contesto sacrale, sacerdotale e statale implicava il carattere anonimo diqueste registrazioni dirette, fatte giorno per giorno o anno per anno dagli addetti al-la custodia della memoria collettiva. Prima della seconda metà del III secolo a.C.,quando sorge la storiografia riconducibile a singole personalità di storici, a Romac’è il vuoto di letteratura individuale.

I primi storici romani furono autori di annales, narrazioni continuate ordinate crono-logicamente dalle origini di Roma al proprio tempo. Per lo più appartenenti all’ordi-ne senatorio, ricoprivano importanti magistrature e concepivano l’attività storiografi-

La storiografia romana in lingua greca: Fabio Pittore e Cincio Alimento

La fase cronachistica pontificale

La storiografia romana in lingua greca: Fabio Pittore e Cincio Alimento 131

Le origini della storiografia latina

Il carattere sacro e tradizionale

43, 13 1-2

La fase cronachistica

Gli annalisti di lingua greca

ca come parte integrante dell’attività politica. I primi annalisti scrissero in greco. Lascelta di questa lingua «internazionale» era motivata dall’intento di propagandarel’emergente potenza romana in Oriente, per procurarle le simpatie degli stati elleni-stici, e dall’esigenza di contrastare una storiografia greca favorevole a Cartagine.Quando, in seguito alla conquista romana del Mediterraneo orientale, venne menotale necessità, poté iniziare una storiografia in lingua latina. La necessità di propaganda e l’appartenenza degli annalisti al rango senatoriospiegano un carattere della storiografia annalistica che continuerà a caratterizzaregli scritti degli storici romani anche in tempi successivi: «la caratteristica di lettera-tura strettamente connessa al potere politico, alla città, di letteratura destinata allacelebrazione e alla giustificazione di Roma, animata perciò spesso da intenti edifi-cativi, ed eventualmente anche propagandistici» (D. Musti).Tra i primi autori di annales in greco ricordiamo Quinto Fabio Pittore, senatore del-la nobile gens Fabia, combattente nella guerra gallica del 225-222 a.C. La sua ope-ra, che andava dalle origini di Roma a tutta la seconda guerra punica (fino allasconfitta di Canne, del 216) e di cui restano rari frammenti, s’intitolava Rhomàionpràxeis. Si caratterizzava per l’interesse antiquario volto al recupero di antiche ceri-monie e leggende mitiche, forse connesse con le radici della gens dell’autore.L’aspetto propagandistico doveva essere marcato, dato che Polibio accusava Pitto-re di scarsa obiettività nella narrazione del conflitto con Cartagine. Polibio riconosceva invece l’obiettività dell’altro annalista di lingua greca, Cincio Ali-mento, pretore nel 210 e combattente nella seconda guerra punica. Anche l’operastorica di Cincio Alimento prendeva le mosse dalle origini mitiche di Roma e riflet-teva il punto di vista della nobilitas romana.Di poco posteriori sono altri due esponenti di questa «storiografia senatoria» ingreco, Gaio Acilio e Aulo Postumio Albino.

Di modesta famiglia di agricoltori, Catone nasce a Tusculum (l’odierna Frascati) nel234 a.C., combatte nella seconda guerra punica in Sicilia ricoprendo la carica di tri-buno militare. Grazie all’appoggio di un potente esponente dell’aristocrazia, ValerioFlacco, può intraprendere come homo novus (cioè di famiglia che non vantava ma-gistrati) una carriera politica prestigiosa, ricoprendo la questura (nel 204, in Africa),l’edilità, la pretura (198), il consolato (195), la censura (184). Catone vive nel periodo in cui Roma diviene padrona del Mediterraneo e compieimportanti conquiste culturali. Nella contrapposizione che si viene a creare tra un«partito» filellenico aperto alle novità del mondo greco e un partito conservatore,egli è l’emblema dei difensori del mos maiorum, nemico giurato di ogni modificadell’assetto politico-culturale tradizionale. Nella sua persona si compendia la cultu-ra propriamente romana, sicché la sua opera può essere vista come una specie di«enciclopedia riassuntiva della tradizione nazionale» (Grimal). Catone è la personificazione di una categoria antropologica squisitamente romana:la prevalenza culturale della tradizione basata sulla convinzione della superioritàdel passato sul presente (M. Bettini). Il suo bersaglio polemico è il cosiddetto «cir-colo» filellenico degli Scipioni (in particolare l’Africano Maggiore, il vincitore di Car-tagine) che propugnava una cultura ellenizzante non conciliabile con la moralità ar-caica e contadina difesa da Catone.

Le Origines di Catone

132 Le origini della storiografia latinaET

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RC

AIC

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Il carattere celebrativo

Fabio Pittore

Cincio Alimento

La carriera

L’antiellenismo

La prevalenza della tradizione

Catone era convinto – e a giusta ragione – che il contatto con la filosofia e i costu-mi greci alterasse l’originaria fisionomia della società romana, mutando le mentali-tà dei cittadini e le gerarchie sociali. Non era contrario alla cultura greca in sé dellaquale anch’egli era imbevuto, ma ne temeva «l’aspetto illuministico» (La Penna), ilrazionalismo che avrebbe potuto generare un movimento d’idee in grado di minarel’assetto repubblicano.Soprattutto la censura fu strumento della strenua battaglia conservatrice: «E que-sta censura restò famosa e foriera di inimicizie» (Livio, XXXIX 44, 9). Nell’eserciziodi questa magistratura si distinse per il proverbiale rigore in difesa dell’austerità edella frugalità, al punto da divenire nei secoli «il censore» per antonomasia. Feceapprovare varie leggi sumptuariae per arginare il lusso col quale esponenti dell’ari-stocrazia cominciavano a imitare il fasto delle corti ellenistiche. Già nel 195, quan-do era console, si era opposto all’abrogazione della Lex Oppia, che vietava allematrone romane di portare vesti lussuose e monili d’oro. Da censore, colpì la modadi usare oggetti di lusso, imponendo su di essi una tassa dieci volte superiore al lo-ro prezzo. La furia moralizzatrice culmina in azioni e provvedimenti esemplari, che vanno daiprocessi intentati all’Africano accusato di malversazione all’emanazione di decretiantiillenici e xenofobi. Nel 161 un decreto senatorio d’ispirazione catoniana vietavaai retori e ai filosofi greci di risiedere a Roma. Nel 155 un provvedimento analogoespelleva dalla capitale i filosofi greci Carneade, Diogene, Critolao che avevanofatto pubblica dimostrazione di virtuosismo retorico, in particolare Carneade, che siera esibito in una spregiudicata «antilogia» parlando prima in favore poi contro lagiustizia. Contrasta con l’immagine del moralista integerrimo il fatto che avesse accumulatoenormi ricchezze nel latifondo e si fosse dedicato ai commerci marittimi e all’usura,attività che egli stesso critica nella prefazione al De agri cultura. Dei due ritratti diCatone di cui disponiamo, quello idealizzato del De senectute di Cicerone e quellodi Plutarco che evidenzia le contraddizioni dell’uomo, è certamente più attendibile ilsecondo.Rappresentante e difensore degli interessi dei proprietari terrieri, sostenne con ac-canimento la necessità di distruggere Cartagine (è famoso il motto delenda Car-thago), considerata una temibile concorrente per i mercati italici. Spetterà a unesponente del «partito» filellenico, Scipione Emiliano, di iniziare la terza guerra pu-nica proprio nell’anno della morte di Catone, il 149. Ma l’iniziativa era stata volutadal Censore che negli ultimi anni si era riconciliato con la fazione avversa facendosposare al figlio Marco la sorella dell’Emiliano.

Oltre 150 Orazioni (secondo Cicerone) delle quali restano solo frammenti. Un’opera storica,le Origines, in sette libri. Il trattato De agri cultura. I Praecepta ad filium, manuale (o serie dimanuali) per l’istruzione privata del figlio Marco. Il Carmen de moribus, di cui possediamopochi frammenti di carattere gnomico, e gli Apophthegmata, raccolta di massime e detti me-morabili, di cui Cicerone ci ha conservato rare citazioni.

Le OriginesLe Origines fondano la storiografia latina superando sia le ricostruzioni dei poeti,sia le annotazioni degli annales pontificali, sia la narrazione in greco dei primi an-nalisti romani, Fabio Pittore e Cincio Alimento. Questi sul modello degli annali pon-tificali avevano tracciato, verso la fine del III secolo, scarne sintesi della storia di

Le Origines di Catone 133

Il rischio «illuministico»

«Il censore»

L’opera «moralizzatrice»

Una personalità contraddittoria

Delenda Carthago

Le opere

La prima opera storica latina in prosa

Roma dalle origini al loro tempo. Come già abbiamo avuto occasione di precisa-re, la scelta del greco, lingua «internazionale», era motivata dall’intento di pro-pagandare l’emergente potenza romana in Oriente, per procurarle le simpatiedegli stati ellenistici. Ma ciò non era più necessario da quando, concluse leguerre con Antioco III di Siria, i Romani erano ormai padroni del Mediterraneoorientale. Delle Origines resta il riassunto che ne fa Cornelio Nepote nella Vita di Catone eun centinaio di frammenti. Secondo Nepote, Catone avrebbe intrapreso la scritturadell’opera dopo i sessanta anni (Senex historias scribere instituit), quindi dopo il174. È probabile che attendesse alla composizione dell’ultimo libro poco prima del-la morte; infatti Cicerone, nel dialogo Cato maior che si immagina ambientato nel150, fa dire a Catone: Septimus mihi liber Originum est in manibus (38). Secondo Nepote, l’opera abbracciava in sette libri il periodo dalle origini di Roma(libro I) e delle altre città italiche (II, III) alle guerre puniche (IV, V), fino alla preturadi Sulpicio Galba vincitore dei Lusitani in Spagna nel 151 (VI, VII). Il maggiore spa-zio è accordato agli avvenimenti recenti e contemporanei. Inoltre è posto in rilievo,dall’homo novus e sabino Catone, il contributo alla potenza di Roma dato dalle cit-tà italiche, per la prima volta considerate importanti come la capitale.Le Origines esprimono in modo particolare la citata categoria antropologica squisi-tamente romana della superiorità del passato, confermata anche dall’opposizionelessicale maiores/ minores che designa gli antenati e i discendenti. In tale strutturamentale è implicita la convinzione che, per conoscere un popolo, sia necessario ri-salire alle sue «origini», ovvero che nel passato stia ogni spiegazione del presentee che le regole per comportarsi bene vadano cercate nella tradizione. Nelle Origines erano taciuti i nomi dei generali, indicati solo con la carica pubblicain ossequio a un’ideologia che inibiva drasticamente il culto della personalità el’individualismo di matrice greca. Le vittorie erano presentate come il risultato di unanonimo sforzo corale del populus Romanus. Neppure Annibale era nominato, madesignato col titolo di dictator Carthaginiensium. Era una concezione opposta sia aquella prosopografica cara ai filelleni, che giudicavano la storia come prodotto del-l’azione di grandi personalità, sia alla tradizione annalistica, che celebrava le gestadei personaggi delle famiglie nobili.Un chiaro intento dell’opera è di dimostrare la pari dignità, se non la superiorità, deicomandanti romani rispetto a quelli greci. In un passo riportato integralmente daGellio, un tribuno militare che consente col sacrificio della propria vita di salvare ilgrosso delle truppe è paragonato a Leonida alle Termopili:

Noct. Att. II 36 La Grecia tutta onorò per il suo valore lo spartano Leonida, che alle Termopi-li compì un atto simile, con busti, statue, epigrafi elogiative … invece al tri-buno militare che pure aveva compiuto un’identica impresa e aveva salvato lasituazione, è stata assegnata una lode modesta in rapporto all’atto compiuto.

Rispetto all’impostazione degli annales pontifici, Catone è conscio della maggioreprofondità della propria trattazione, che non si ferma alla dimensione cronachistica,ma coglie i movimenti profondi della storia, le articolazioni di lungo periodo. Già ab-biamo citato il giudizio negativo che il censore rivolgeva all’arcaica storiografia itali-ca, accusata di annotare fatti troppo legati all’attualità immediata (vedi p. 12). Al cri-terio «anno per anno» della tradizione annalistica è sostituito quello, mutuato dallastoriografia ellenica, dell’accorpamento per argomenti, pur posti in ordine prevalen-temente cronologico.

134 Le origini della storiografia latinaET

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I contenuti

La prevalenza del «prima» sul «dopo»

L’anonimato

Il confronto con la Grecia

Superamento degli annales

Sempre all’influenza degli storici greci, soprattutto Eforo e Timeo, è dovutol’interesse etnografico attestato da frammenti come questi: «Nella maggior partedella Gallia, due sono le attività che riscuotono il massimo interesse: l’arte militaree il parlare bene» (fr. 34 Peter); «Non danno dote alle loro figlie» (fr. 94 Peter). Inparticolare il secondo frammento attesterebbe una sensibilità antropologica più in-teressata alle differenze che alle somiglianze, già influenzata dalla letteratura paro-dossografica greca dei mirabilia, cioè delle cose strane, inusitate, incomprensibilialla nostra cultura e perciò affascinanti. Un frammento allude al carattere mendacedei Liguri, un altro ai maiali dei Galli, così grossi che non riescono a muoversi. Ilprimo dei frammenti seguenti descrive il metodo singolare per trasportare l’acquaseguito dai Libui, gente gallica dell’Italia alpina; il secondo parla di miniere inesau-ribili e di un vento insostenibile:

Le Origines di Catone 135

L’interesse etnografico

Libui, qui aquatum ut lignatum vi-dentur ire, securim atque lorum fe-runt, gelum crassum excidunt, eumloro conligatum auferunt .

Pare che i Libui vadano a prenderel’acqua come si fa con la legna: por-tano sul posto una scure e una corda,tagliano un blocco di ghiaccio e selo portano via legato alla corda.

Sed in his regionibus ferrareae, ar-gentifodinae pulcherrimae, mons exsale mero magnus: quantum demas,tantum adcrescit. Ventus Cercius,cum loquare, buccam implet, arma-tum hominem plaustrum oneratumpercellit.

Ma in queste regioni vi sono minie-re di ferro e d’argento eccezionali,c’è un gran monte di sale puro: tan-to ne estrai, altrettanto ne ricresce.Il vento «Cercio», mentre parli, tiriempie la bocca ed è in grado ditravolgere un uomo con tanto di co-razza e un carro pieno.

Sempre dalla storiografia greca dipendono l’uso di inserire intere orazioni nel corpodella narrazione, come l’Oratio pro Rhodiensibus pronunciata nel 167 per impedirela guerra contro Rodi, e l’interesse per le ktíseis o «fondazioni di città» (di qui forseanche il titolo Origines).Si è ipotizzato che i primi tre libri delle Origines fossero un adattamento nella lette-ratura latina del genere delle ktìseis, cioè le storie di fondazione. Anche Fabio Pit-tore all’inizio della sua opera aveva posto una ktìsis di Roma. Si è pensato che lefonti di Catone riguardassero fondazioni di città italiche e che un modello possibilefosse Timeo. In effetti si riscontrano nelle Origines punti di contatto con le leggendedi fondazione: nel fr. I 18 Chass. Servio descrive, riferendosi all’autorità di Catone,un rito di fondazione secondo il modello etrusco. La procedura, nota anche da altrefonti, prevedeva che si aggiogassero all’aratro un toro e una vacca, che si traccias-se un solco in corrispondenza del tracciato delle mura, sollevando l’aratro in corri-spondenza delle porte. Il frammento citato da Servio senza riferimento ad un libropreciso delle Origines è di solito attribuito alla fondazione di Roma. In ogni caso ilpasso testimonia l’attenzione di Catone per la descrizione degli adempimenti reli-giosi legati alla fondazione. La prosa di Catone storico, come anche dell’oratore – ma la distinzione è tenue,dato che le Origines includevano inserti delle orazioni realmente pronunciate dal-l’autore – ha molti dei tratti che rileviamo più avanti per la prosa tecnica (brevità,gravità arcaica, paratassi, parallelismi, anafore, allitterazioni, neologismi, ecc.). Tut-tavia lo stile è più elaborato, più attento ai dettami di quella retorica greca alla qua-

Le ktìseis

Lo stile di Catone storico

fr. 33 Peter

fr. 93 Peter

le – come Catone consiglia di fare al figlio – non bisogna conformarsi ciecamente,ma conviene pur sempre dare un’occhiata: eorum litteras inspicere, non perdiscere(«buttare un occhio sulla loro letteratura, non impararla fino in fondo», fr. 1 Jordan).Di qui l’uso di tutti quegli espedienti retorici tipici (sillogismo, exempla ficta, artificiargomentativi, ecc.) che indurranno Sallustio a proclamare Catone Romani generisdissertissimus e a farne un modello da imitare.

Ritroviamo i caratteri della storiografia catoniana – uso del latino in luogo del greco,dispiego di mezzi retorici, ottica moralistica, interesse per l’intera penisola e non soloper Roma – negli annalisti che vennero dopo di lui. Tra questi ricordiamo L. CassioEmìna, autore di una storia di Roma da Enea alla II guerra punica, e L. Calpurnio Pi-sone Frugi, console nel 132 a.C., autore di Annales dalle origini alla III guerra punica. L’evoluzione della prosa storica dal genere annalistico ai modelli della storiografiaellenistica è attestata dai sette libri sulla seconda guerra punica di Lucio Celio Anti-patro, attivo nell’età dei Gracchi. La monografia, scritta dopo il 120 a.C. e di cui re-stano pochi frammenti, riflette bene due tendenze della storiografia postcatoniana.La prima riguarda il superamento dello schema annalistico «anno per anno» (giàabbandonato da Catone, che raggruppava gli avvenimenti mettendo in rilievo quellidi maggiore importanza). L’altra tendenza consiste nella riduzione dello spazio de-stinato alle origini di Roma, per concentrarsi sugli eventi contemporanei privilegian-do un taglio monografico. Un’altra novità è nella cura formale posta da Celio, testimoniata da Cicerone: «Si èun poco innalzato … Antipatro. Gli altri non curavano la forma, semplicemente ri-portavano i fatti» (Orat. II 54). Il riconoscimento di Cicerone dimostra che Antipatroconcepiva l’opera storica anche come fatto artistico. Nell’intento di accrescere ilpregio letterario e sull’esempio della storiografia «drammatica», Celio valorizzaval’elemento spettacolare, la peripezia, l’iperbolico, il meraviglioso e, sul piano forma-le, ricercava uno stile magniloquente ed epicheggiante (cioè enniano). Il raccontoera concepito come un immane dramma di popoli che, tra lutti e sofferenze indicibi-li, lottano per la sopravvivenza. In questa prospettiva patetica che mira a sfruttarele risorse della retorica, si spiega l’inserimento di discorsi inventati (non quelli veried effettivamente pronunciati, che Catone inseriva nelle Origines). Questa innova-zione sarà seguita da tutti i maggiori storici latini, da Sallustio a Livio, fino a Tacito.Altre novità tratte dalla storiografia greca che l’opera di Celio trasmette a quella la-tina sono l’introduzione di excursus su argomenti che l’autore è interessato a tratta-re e la dichiarazione programmatica di fornire contenuti veritieri. Nei casi dubbi era-no fornite più versioni di un medesimo evento. Tribuno a Numanzia sotto il comando di Scipione Emiliano nel 134, compone un’o-pera storica intitolata Res gestae che abbraccia il periodo dalla fine della III guerrapunica all’inizio della guerra sociale (91 a.C.). Nell’analizzare eventi contemporaneidi cui è stato testimone egli propugna – sull’esempio di Polibio con cui è entrato incontatto – la necessità di una storiografia che non si limiti a enumerare i fatti comefacevano gli annalisti, ma li vagli criticamente spiegando le ragioni, sempre umanee mai prodigiose o fantastiche, che li hanno determinati. Ecco il manifesto di que-sta nuova storiografia che – proprio in quanto ricerca le cause e interpreta razio-nalmente gli eventi senza mai ricorrere alle fabulae e all’irrazionale – acquista unvalore educativo:

136 Le origini della storiografia latinaET

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La lezione di Catone

Celio Antipatro

L’elaborazione formale e gli excursus

Sempronio Asellione

La storiografia dopo Catone

1. Fra coloro che vollero lasciare degli annali e coloro che si provarono anarrare accuratamente le imprese dei Romani, vi era in generale questa dif-ferenza. I libri annali si limitavano a riferire ciò che accadeva ogni anno,un po’ come fanno quelli che scrivono un giornale, che i Greci chiamanoephemeris1. Per parte nostra, vedo che non basta far conoscere quello che èaccaduto, ma che occorre anche spiegare con quale intendimento e perquale ragione tali fatti siano avvenuti.2. Infatti i libri annali non possono per nulla rendere i cittadini più alacrinella difesa dello Stato, né più lenti nel fare il male. Scrivere poi sotto qualconsole abbia avuto inizio la guerra e sotto quale si sia conclusa, e chi siaentrato in città da trionfatore, e in tale narrazione far sapere che cosa ac-cadde nel corso della guerra, senza però intanto chiarire quali deliberazioniabbia prese il senato o quale legge sia stata approvata con l’appello al po-polo, e senza far sapere i motivi che ispirarono quegli avvenimenti, questonon è scrivere di storia, ma narrar favole ai bambini.

Cicerone testimonia che, diversamente da Celio Antipatro, Asellione non avrebbeavuto particolare interesse per il momento dell’elaborazione formale. L’opposizionealla «storiografia drammatica» ed «edonistica» di Celio Antipatro non potrebbe es-sere più netta: gli abbellimenti ricercati per il diletto del lettore (digressioni fantasti-che, discorsi, artifici retorici) sono solo un fabulas pueris narrare per Celio. Il qualesi pone sulla linea pragmatica e utilitaristica teorizzata da Polibio – che come Celiofrequentava il Circolo degli Scipioni – in base alla quale lo studio della storia deveservire alla formazione politica e morale del cittadino. Delle opere degli storici anteriori a Cesare vanno ricordate le Historiae di CornelioSisenna (120 circa, 67 a.C.), che narra gli avvenimenti contemporanei dalla guerrasociale alla morte di Silla, di cui era partigiano. Della sua opera, che abbraccia unadozzina d’anni e forse continua quella di Sempronio Asellione, restano solo fram-menti. L’opera di Sallustio si riallaccerà a sua volta a questa di Sisenna. Il culto del-la personalità per il dittatore caratterizzava la narrazione delle Historiae, che signi-ficativamente Cicerone (De legibus I 7) avvicinava alla storia romanzesca di Ales-sandro Magno scritta da Clitarco (vedi p. 123). Ai tratti romanzeschi (colpi di scena,peripezie, ecc.) conformi ai canoni della storiografia «tragica» la narrazione ag-giungeva particolari piccanti (turpis … iocos, dirà Ovidio in Trist. II 434).L’ispirazione giocosa di Sisenna è confermata anche dalla traduzione che egli fecedelle Fabulae Milesiae di Aristìde di Mileto, un’opera piuttosto osée, che – come ri-ferisce Plutarco – i Romani si portavano dietro nelle loro sarcinae durante la cam-pagna di Crasso contro i Parti.

1. ephemerìs: «effemèride, cronaca giornaliera», esposizione giorno per giorno secondo loschema annalistico.

La storiografia dopo Catone 137

Fr. 1-2 Peter; trad. di G. Pontiggia

Primato dell’utile sul diletto

Sisenna

Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore

STORIOGRAFIA,STORIOGRAFIA,BIOGRAFIA,BIOGRAFIA,ANTIQUARIAANTIQUARIAVarrone

Cornelio Nepote

Cesare

Sallustio

Res Gestae

Livio

Asinio Pollione, Pompeo Trogo,Tito Labieno

Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti nel 116 a.C. da facoltosa famiglia sabina.L’educazione familiare fu austera e semplice, come egli stesso ricorda: «Da piccoloavevo una tunica modesta e una toga, calzari privi di fasce, cavalcavo senza sella.Non facevo il bagno ogni giorno». Ebbe come maestri Accio e Elio Stilone, che loavviarono agli studi grammaticali e filologici. Frequentò, come anche Cicerone, adAtene la Nuova Accademia di Antioco di Ascalona (maestro anche di Cicerone).Politicamente fu un conservatore, ostile ai Gracchi, rigido difensore della legalitàrepubblicana, fedele al modello etico catoniano. Seguì Pompeo nelle campagne inSpagna e in Oriente, ma espresse la propria contrarietà all’alleanza di Pompeocon Crasso e Cesare nel 60 a.C. (il «primo triumvirato», che egli definì in una sati-ra Tricàranos, «mostro a tre teste»). Durante le guerre civili non ebbe una condottalimpida: prima si schierò con Pompeo, poi in Spagna si arrese a Cesare, che lotrattò con clemenza (ironizzando, nel De bello civili, sui suoi tentennamenti). DopoFarsalo (48 a.C.) si ritirò a vita privata. Nel 46 a.C. ricevette da Cesare l’incarico diallestire a Roma una grande biblioteca. Passò indenne attraverso le proscrizioniseguite alla morte di Cesare e al II triumvirato e trascorse gli ultimi anni immersonegli studi, nelle sue sontuose ville di Tuscolo, Cassino, Baia. Morì nel 27 a.C.

Varrone scrisse oltre 620 libri e per tale produttività fu da Cicerone definito polygraphótatos(«il più fecondo degli scrittori»). Di tale immensa produzione, che spaziava dalla filologia al-la grammatica, dall’antiquaria alla letteratura tecnico-scientifica, restano solo: • il De re rustica, trattato in prosa sull’agricoltura; • 6 libri (su 25) del De lingua latina (vedi p. 228); • frammenti delle altre opere.

Strettamente connessa all’ideologia conservatrice di Varrone è tutta la produzionedi argomento antiquariale. A questioni relative all’origine del popolo romano e aisuoi costumi erano dedicati numerosi scritti come il De gente populi Romani, il Defamiliis Troianis, il De vita populi Romani (con dedica ad Attico), ma soprattutto leAntiquitates. Quest’opera monumentale ripartita in sezioni (uomini, luoghi, tempi,cose) si proponeva di illustrare e ordinare il patrimonio immenso della cultura lati-na. Era in 41 libri divisi in due blocchi:• 25 libri di «antichità umane» (rerum humanarum) che trattavano la storia di Ro-

ma antica, la topografia dell’urbe, la geografia e le istituzioni dell’Italia, il calen-dario romano, la costituzione repubblicana;

• 16 libri di «antichità divine» (rerum divinarum) che riguardavano le istituzioni sa-cre latine, i sacerdozi, le feste, i culti pubblici. In questa sezione era esposta ladottrina di ascendenza stoica delle tre forme di religione, ovvero delle tre manie-re di concepire la divinità: la mitologica (propria dei poeti), la naturale (propria fi-losofi, che ricercano razionalmente la natura degli dei), la civile (cardine delle

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La vita

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istituzioni politiche e strumento di controllo sociale). La forma di teologia naturaletrattava le teorie dei filosofi sugli dei e non doveva essere diffusa tra il popolo, senon coincideva con la terza concezione, per non minare il fondamento religiosodello stato (analoga posizione agnostica esprime Cicerone nel De natura deorum).Sottesa alla tripartizione è l’idea stoica della religione come creazione umana. Perquesto motivo – spiega S. Agostino nella Città di Dio – Varrone ha trattato prima leantichità umane, poi quelle divine: come un dipinto presuppone un pittore chel’abbia eseguito, così le istituzioni religiose richiedono gli uomini che le hanno crea-te.La chiave ideologica di quest’opera – come delle altre opere di Varrone, tutte rivol-te alla ricerca delle origini – era di trovare nel passato di Roma la giustificazionedella sua superiorità in ogni campo. Le Antiquitates ebbero grande successo e la loro pubblicazione fu salutata con to-ni entusiastici da Cicerone:

In patria eravamo inconsapevoli e stranieri. I tuoi libri ci hanno riportatonella nostra casa antica. Tu di questa patria ci hai svelato le età, le divisio-ni dei tempi, i sacri riti, i sacerdoti, il costume domestico, la disciplina mi-litare, i luoghi, la religione, i monumenti.

In effetti questa enciclopedia sistematica di notizie su personaggi, luoghi, vicendedella storia giuridica, istituzionale e religiosa di Roma fu il passaggio obbligato ditutta la ricerca erudita e antiquaria antica, a cominciare da Virgilio, che nella stesu-ra dell’Eneide fece ampio ricorso a questo inesauribile repertorio di informazioni.

Le Disciplinae sono un’enciclopedia universale di letteratura, filosofia e tecnica in nove libri.Da qui il Medioevo trarrà con lievi modifiche la distinzione delle Arti liberali in trivio (gram-matica, dialettica, retorica) e quadrivio (geometria, aritmetica, astronomia, musica).Le Imagines sono una raccolta di ritratti figurativi di personaggi famosi latini e greci (perso-nalità politiche e d’azione come gli Scipioni, ma anche intellettuali come Pitagora, Platone,Aristotele), ripartiti per categorie «professionali» (re, filosofi, poeti, ecc.) e riuniti in gruppi disette (di qui il titolo secondario Hebdomades), numero di particolare valenza simbolica nel-la dottrina pitagorica seguita da Varrone (che, come egli stesso faceva notare, allora aveva77 anni e aveva già scritto 70 volte 7 volumi). Di ciascuna personalità erano dati il ritratto euna succinta biografia chiusa da un epigramma encomiastico. I Logistorici sono dialoghi in prosa su temi di filosofia morale, imperniati sulla presentazionedi uomini famosi, storici o mitici. Ciascun dialogo trattava un tema specifico e recava undoppio titolo, uno per l’argomento e l’altro per il personaggio: Marius de fortuna, Orestes deinsania, Curio de cultu deorum, Pius de pace, ecc. La moda del doppio titolo sarà seguitada Cicerone (Cato maior de senectute, Laelius de amicitia).

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La fortuna

Acad. Post. I 9

Le Disciplinae

Le Imagines

I Logistorici

Di Cornelio Nepote non conosciamo il prenome, né l’anno e il luogo della nascita.Sappiamo solo che era originario della Gallia cisalpina (Padi accola è definito daPlinio il Vecchio) e apparteneva alla ricca borghesia padana. Probabilmente nac-que intorno al 100 a.C., forse a Ostiglia, e morì verso il 25 a.C. L’altro grande cisalpino, Catullo, in segno di gratitudine per l’attenzione dimostrata aipropri versi (tu solebas / meas esse aliquid putare nugas, «tu eri solito pensare chele mie inezie valessero qualcosa»), gli dedicò il suo «libretto». Sempre Catullo sicongratulava con l’amico, cui riconosceva doctrina e labor, per una storia universaleperduta, i Chronica: ausus es unus Italorum / omne aevum … explicare …, «osasti,solo fra gli Italici, svolgere tutta la storia» (I 5, 7). Nepote fu amico di Tito PomponioAttico, nella cui cerchia erudita gravitavano anche Varrone e Cicerone. Con quest’ul-timo intrattenne un carteggio epistolare per noi perduto, ma noto agli antichi. Non siimpegnò mai nella vita politica, come l’amico Attico di cui elogia, nella biografia de-dicatagli, la prudenza e l’abilità nel tenersi fuori dai pericoli delle guerre civili.

In politica si comportò in modo tale da essere e apparire fautore degli otti-mati, ma sempre senza farsi coinvolgere nelle tempeste civili, perché repu-tava che quanti vi si impegnavano perdevano il controllo di loro stessi, alpari di quelli che sono agitati dai flutti marini.

La scelta di una vita improntata all’otium intellettuale – ma anche all’avvedutezza ealla moderazione (consilium, prudentia) – è emblematica dell’atteggiamento di mol-ti intellettuali romani in quegli anni travagliati della repubblica.

Oltre agli accennati Chronica in tre libri interamente perduti – sinossi degli avvenimenti diGrecia, Roma e Oriente esposti sincronicamente – sappiamo che Nepote scrisse una rac-colta di Exempla contenenti aneddoti e curiosità varie e due ampie biografie di Catone ilCensore e di Cicerone, andate perdute. Plinio il Giovane ci informa che si dedicò anche al-la poesia d’argomento amoroso, e ciò è verosimile data l’amicizia con Catullo. La sola opera di cui conserviamo parti consistenti è il De viris illustribus (noto anche col titolodi Vitae), raccolta di biografie sull’esempio delle Imagines di Varrone. Le Vitae erano probabil-mente in 16 libri ripartiti in almeno otto categorie (re, generali, poeti, oratori, storici, filosofi,giuristi, grammatici e scienziati), ciascuna delle quali affiancava il ritratto di un romano al ritrat-to di uno straniero. Restano l’intero libro I contenente i profili di generali e re stranieri (De exe-cellentibus ducibus exterarum gentium), le biografie di Catone il Censore (riassunto del profiloautonomo perduto, citato sopra) e di Attico, entrambe appartenenti alla sezione degli storici.

L’intento delle Vitae è meramente divulgativo. L’opera mirava – in tempi in cui la ri-flessione storiografica acquistava un peso crescente nella società romana – a sod-disfare la domanda dei lettori di media cultura, ai quali le minute e dotte indagini diVarrone sarebbero rimaste indigeste. Nepote manca di profondità d’analisi, ma nonè neppure interessato a compiere una riflessione storica rigorosa, consapevoleche il suo pubblico è ghiotto di aneddoti, di particolari curiosi e attinenti alla vita pri-vata dei personaggi. L’intento di scrivere un’opera d’intrattenimento, destinata a let-tori a digiuno di greco (expertes litterarum Graecarum) e bisognosi di un’esposizio-ne semplificata e attraente, è chiarito dall’autore stesso, quando distingue tra bio-grafia e storia scegliendo il genere della biografia peripatetica (più impegnata sulpiano letterario che su quello del rigore documentario):

Pelopida tebano è meglio conosciuto dagli storici che dai lettori comuni.Non so bene come io possa meglio dare risalto alle sue virtù: se comincias-

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La vita

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La biografia

L’opera

Pelopidas I 1

si a narrare per filo e per segno le imprese, temo che darei l’impressione divolere, invece di raccontare la sua vita, scrivere un’opera propriamente sto-rica. Se tratterò solo gli aspetti politicamente più importanti della sua vita,temo che, per chi non ha nozioni di letteratura greca, il personaggio non ri-sulti in tutta la sua grandezza. Cercherò allora, come potrò, di tenermi lon-tano da questi due estremi, cercando sia d’essere sintetico sia di tenereconto delle modeste conoscenze del lettore.

Dunque altro è enarrare vitam, altro è scribere historiam. Lo storico si concentrasui fatti, il biografo sui personaggi. Questi sono prescelti non in base alla loro im-portanza storica, ma all’esemplarità etico-pedagogica. Analoga distinzione pro-grammatica farà nel I secolo d.C. Plutarco, certo influenzato dalle Vitae di Nepote(vedi p. 127). Diversamente dalla biografia coltivata dai filologi alessandrini, più«scientifica» nella raccolta e selezione di materiali e più criticamente meditata, labiografia di scuola aristotelica si caratterizza per la forte accentuazione dei motivietici. Così abbondano le notazioni moralistiche e le parti di testo che illustrano, ta-lora in forma di encomio, le virtù del personaggio.

La cultura latina arcaica ebbe scarsa propensione a porre in primo piano l’individuo. Perciòla biografia fu un genere inizialmente poco coltivato, anche se elementi autobiografici era-no presenti nelle laudationes funebres e negli elogia (vedi p. 7), nei tituli (brevi note sullavita e le imprese) scritti sotto le statue di uomini famosi. In seguito all’affermarsi di grandipersonalità di generali e uomini politici, si crearono i presupposti ideologici della biografia,che a Roma può considerarsi soprattutto l’evoluzione dei commentarii, cioè dei diari suiquali i magistrati annotavano memorie personali, fatti rilevanti dell’anno in cui erano stati incarica. Oltre che delle perdute Imagines di Varrone (dove le immagini dei personaggi eranoaccompagnate da brevi profili) si ha notizia di un’autobiografia di Silla, elaborata da Corne-lio Epicado liberto del dittatore, di una di biografia di Pompeo Magno redatta da un suo li-berto, di una serie di vite di letterati curata da un certo Santra. Quanto alla tecnica compositiva, la biografia greca offriva due modelli distinti: uno prevede-va l’esposizione cronologica lineare dalla nascita alla morte, l’altro passava in rassegna ivari aspetti della vita distinguendoli per species, cioè in base a categorie codificate: le origi-ni familiari, le imprese civili o militari, le virtù, i difetti, ecc. Cornelio Nepote alterna le duemodalità narrative, talora le combina nel medesimo ritratto.

L’idea di accostare biografie di personalità romane e straniere, mentre apre una viache sarà seguita nel I secolo d.C. da Plutarco con le sue Vite parallele, riflette l’intentodi porre a confronto varie civiltà, soddisfacendo le curiosità dei lettori. Nel momento incui si aprono a culture diverse, i Romani sono interessati sia a conoscere le tradizionidi altri popoli, sia a definire attraverso il confronto con l’«altro» la propria identità cul-turale. L’atteggiamento di Nepote di fronte alle diversità pare aperto e non viziato dapregiudizi etnocentrici. La selezione di vizi e virtù non è quasi mai funzionale alla tesidella superiorità romana. Anzi, l’autore fa professione di relativismo etico nella prefa-zione, quando afferma che le categorie morali non sono assolute: ciò che è virtù in undato contesto civile può diventare un vizio, se mutano i valori etici di riferimento(maiorum instituta). Così musica e danza sarebbero disdicevoli nella formazione di ungiovane romano, mentre sono essenziali nell’educazione di un principe greco:

Epaminonda tebano, figlio di Polimnio. Prima di scriverne penso di doversuggerire ai lettori di non giudicare col metro dei loro costumi le abitudinistraniere, e di non pensare che quanto a loro pare di scarso peso sia ritenu-to tale anche presso tutte le altre nazioni. Sappiamo ad esempio che la mu-sica, nel nostro costume, non si confà ad un personaggio autorevole e chela danza è addirittura una sconvenienza: tutte cose che tra i Greci sono in-vece bene accette e lodevoli. Se quindi vogliamo ritrarre dal vivo le con-suetudini e la vita di Epaminonda, non dovremo – così ci pare – ometterenulla di quanto valga ad approfondirne la conoscenza.

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Il moralismo

Il confronto interculturale

I 1-3; trad. di G. Pontiggia

La biografia a Roma

Lo stile piano e disteso, l’abilità nel narrare in modo gradevole e disinvolto, la sintas-si cordinativa priva di complessità (tranne i pochi casi in cui è imitato, con scarsosuccesso, lo stile ampio e ipotattico di Cicerone) hanno sempre contribuito alla for-tuna di questo autore nei primi gradi della scuola. Ma la piattezza e l’uniformità mo-notona dei profili attestano una qualità artistica modesta. Ai pochi passi veramentebrillanti, come la vita di Annibale, si affiancano testi incolori e ripetitivi. Non tanto diprofondità d’analisi storica – del resto esclusa programmaticamente dalla biografia –si avverte la mancanza, quanto proprio di quella capacità di «riprodurre l’immaginedi una vita» (I 3), che sarebbe secondo Nepote stesso il vero obiettivo del biografo.

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Lo stile

Moderazione e cultura di T. Pomponio Attico (Atticus, 13-14, 18). Tito Pomponio Attico (110-32 a.C.), amico e pro-tettore di Nepote, fu personaggio di spicco nella vita intellettuale romana. Di orientamento epicureo in filosofia, amico eeditore di Cicerone, fu autore di opere perdute, tra le quali ricordiamo un Liber annalis del tipo dei Chronica di Nepote euna raccolta di biografie probabilmente simile alle Imagines di Varrone. Dalla Vita di Attico, che occupava la sezione delDe viris illustribus dedicata agli storici, riportiamo un passo nel quale sono elogiate le doti di sobrietà ed erudizione del-l’eminente personaggio.

[13] Anche il privato non fu inferiore al cittadi-no. Per quanto fosse molto ricco, nessuno menodi lui era desideroso di comprare, nessuno menoproclive a costruire. Ciò non vuol dire che eglinon avesse abitazioni signorili o che non si con-cedesse le migliori comodità. 2. Infatti abitavasul colle Quirinale la casa Tamfiliana avuta ineredità dallo zio materno, l’amenità della qualeconsisteva non tanto nella costruzione quantonel giardino; l’edificio, che risaliva a tempi an-tichi, era più di buon gusto che lussuoso; ed eglinon vi portò che i cambiamenti richiesti daltempo. 3. La servitù era ottima dal punto divista dell’utilità, appena mediocre da quello del-la prestanza. Vi si trovavano infatti schiavicoltissimi, lettori ottimi, moltissimi copisti:persino i camerieri erano addestrati a compierebene l’uno e l’altro ufficio: così pure abilissimigli artigiani necessari al buon andamento dellacasa. 4. Non ne voleva che non fossero nati incasa o formati in casa, il che denota non solomisura, ma anche saggia amministrazione; per-ché si può chiamare misura il non desiderare ec-cessivamente ciò che si vede desiderato dai più;ed è segno di non comune abilità procurarselocon le proprie cure e non con il danaro. 5. Eraelegante senza fasto, signorile senza osten-tazione: tutte le sue cure miravano alla dis-tinzione, non al lusso: l’arredamento era pro-porzionato ai suoi mezzi, non eccessivo, tale danon dar nell’occhio in nessun senso. 6. E nonvoglio omettere, ancorché sappia che a talunosembrerà un perdersi nelle inezie, che egli, ric-chissimo tra i cavalieri romani e largo d’inviti incasa a gente di ogni condizione, usava segnarenel libro dei conti giornalieri una somma noneccedente i tremila sesterzi al mese per questespese. 7. E lo affermo non per sentito dire maper cognizione diretta; spesso, infatti, la nostra

[13] Neque vero ille minus bonus pater familiashabitus est quam ciuis. Nam cum esset pecunio-sus, nemo illo minus fuit emax, minus aedifica-tor. Neque tamen non in primis bene habitauitomnibusque optimis rebus usus est. Nam do-mum habuit in colle Quirinali Tamphilianam,ab avunculo hereditate relictam, cuius amoeni-tas non aedificio, sed silva constabat: ipsumenim tectum antiquitus constitutum plus salisquam sumptus habebat: in quo nihil commu-tauit, nisi si quid vetustate coactus est. Usus estfamilia, si utilitate iudicandum est, optima, siforma, vix mediocri. Namque in ea erant puerilitteratissimi, anagnostae optimi et plurimi li-brarii, ut ne pedisequus quidem quisquam es-set, qui non utrumque horum pulchre facereposset, pari modo artifices ceteri, quos cultusdomesticus desiderat, adprime boni. Neque ta-men horum quemquam nisi domi natum domi-que factum habuit: quod est signum non solumcontinentiae, sed etiam diligentiae. Nam et nonintemperanter concupiscere, quod a plurimisvideas, continentis debet duci, et potius diligen-tia quam pretio parare non mediocris est indu-striae. elegans, non magnificus, splendidus,non sumptuosus: omnique diligentia mundi-tiam, non affluentiam affectabat. Supellex mo-dica, non multa, ut in neutram partem conspiciposset. Nec praeteribo, quamquam nonnullisleue visum iri putem, cum in primis lautus esseteques Romanus et non parum liberaliter do-mum suam omnium ordinum homines inuitaret,non amplius quam terna milia peraeque in sin-gulos menses ex ephemeride eum expensumsumptui ferre solitum. Atque hoc non auditum,sed cognitum praedicamus: saepe enim propterfamiliaritatem domesticis rebus interfuimus.

Le biografie di Cornelio Nepote 201

comune amicizia mi portò ad occuparmi del suoandamento di casa.[14] Alla sua tavola nessuno udì altri alletta-menti che la voce del lettore, che pare anche ame la cosa più piacevole; non si pranzava maiin casa sua che non si leggesse qualche cosa, dimodo che i convitati avessero modo di ricrearsinon solo nel palato, ma anche nella mente; 2. eappunto invitava quelli che la pensavano comelui. Anche quando il suo patrimonio si fu tantoaccresciuto, non cambiò nulla nelle sua abitudi-ni quotidiane, nulla del suo tenore di vita; edebbe sempre tanta misura che con i due milionidi sesterzi ereditati dal padre non mostrò maigrettezza, e con i dieci visse non più largamentedi prima: nelle due diverse condizioni si man-tenne negli stessi limiti. 3. Non ebbe grandi gi-ardini, non ville sfarzose fuori città o al mare,non vaste tenute in Italia, ma solo un podere inquel di Arezzo e uno in quel di Nomento; tutti isuoi redditi provenivano dai possedimenti inEpiro e da stabili in città: da ciò si può capirecome fosse suo principio far uso del danaro nonsecondo la quantità, ma secondo il buon senso.[18] Fu anche appassionato cultore delle costu-manze del passato, studioso dell’antichità: e neacquistò sì vasta competenza da farne una com-pleta esposizione in quel libro in cui diedel’elenco dei magistrati: 2. non c’è legge o paceo guerra o fatto importante del popolo romanoche non vi sia ricordata alla giusta data; e seppeintrodurvi – il che dové essere molto difficile –le origini delle varie famiglie, così da rendercipossibile la conoscenza delle discendenze degliuomini celebri. 3. Trattò lo stesso argomentoanche in operette separate; così, richiesto daMarco Bruto, stese la genealogia della famigliaGiunia dal capostipite fino ai nostri giorni, dan-do di ciascun membro la paternità, le magistra-ture esercitate e le date relative; 4. altrettantofece per Claudio Marcello intorno alla famigliadei Marcelli, per Scipione Cornelio e per FabioMassimo intorno a quelle dei Fabi e degli Emili.Tutti quelli che hanno piacere di conoscerequalche cosa degli uomini famosi non potreb-bero trovare un libro più gradevole. 5. Si cimen-tò anche con la poesia, per non rimaneredigiuno, almeno credo, di quella dolcezza: era-no versi in onore di coloro che per dignità o perimportanza di azioni compiute si distinsero tragli altri del popolo romano, così concepiti che,6. riuniti in gruppi di quattro o cinque al massi-mo sotto i ritratti di ciascuno, ne compendia-vano fatti e magistrature: ed è appena credibilecome si possano conciliare tanta brevità e tantagrandezza di cose. Ci rimane anche un libro, ingreco, sul consolato di Cicerone.

[14] Nemo in convivio eius aliud acroama au-divit quam anagnosten, quod nos quidem iu-cundissimum arbitramur; neque umquam sinealiqua lectione apud eum cenatum est, ut nonminus animo quam ventre conuivae delectaren-tur: namque eos vocabat, quorum mores a suisnon abhorrerent. Cum tanta pecuniae facta es-set accessio, nihil de cotidiano cultu mutavit,nihil de vitae consuetudine, tantaque usus estmoderatione, ut neque in sestertio vicies, quoda patre acceperat, parum se splendide gesseritneque in sestertio centies affluentius vixerit,quam instituerat, parique fastigio steterit inutraque fortuna. Nullos habuit hortos, nullam suburbanam autmaritimam sumptuosam uillam, neque in Italia,praeter Arretinum et Nomentanum, rusticumpraedium, omnisque eius pecuniae reditus con-stabat in Epiroticis et urbanis possessionibus.Ex quo cognosci potest usum eum pecuniae nonmagnitudine, sed ratione metiri solitum. [18] Moris etiam maiorum summus imitator fuitantiquitatisque amator, quam adeo diligenterhabuit cognitam, ut eam totam in eo volu mineexposuerit, quo magistratus ordinavit. Nullaenim lex neque pax neque bellum neque res il-lustris est populi Romani, quae non in eo suotempore sit notata, et, quod difficillimum fuit,sic familiarum originem subtexuit, ut ex eo cla-rorum virorum propagines possimus cognosce-re. Fecit hoc idem separatim in aliis libris, utM. Bruti rogatu Iuniam familiam a stirpe adhanc aetatem ordine enumeraverit, notans, quia quo ortus quos honores quibusque tempori-bus cepisset: pari modo Marcelli Claudii deMarcellorum, Scipionis Cornelii et Fabii Maxi-mi Fabiorum et Aemiliorum. quibus libris nihilpotest esse dulcius iis, qui aliquam cupiditatemhabent notitiae clarorum virorum. Attigit poeti-cen quoque, credimus, ne eius expers esset sua-vitatis. Namque versibus, qui honore rerumquegestarum amplitudine ceteros Romani populipraestiterunt, exposuit ita, ut sub singulorumimaginibus facta magistratusque eorum nonamplius quaternis quinisque versibus descrip-serit: quod uix credendum sit tantas res tambreviter potuisse declarari. Est etiam unus liberGraece confectus, de consulatu Ciceronis.

(trad. di C. Vitali)

La vitaTraiamo la maggior parte delle notizie sulla vita di Cesare da Plutarco e da Sveto-nio, biografi l’uno greco, l’altro latino della fine I secolo - inizio II secolo d.C., nellecui opere figura una Vita di Cesare.Nato a Roma verso il 100 a.C. dalla famiglia patrizia dei Giulii, che vantava una mi-tica discendenza da Iulo, figlio di Enea, ebbe una giovinezza movimentata. I suoilegami familiari con Mario (ne era il nipote) e con altri capi della fazione popolare(aveva sposato la figlia di Cornelio Cinna, seguace del partito di Mario) lo rendeva-no sospetto al dittatore Silla che lo osteggiò e ne arrivò a meditare l’uccisione. Co-stretto ad una fuga rocambolesca e a nascondersi, fu risparmiato grazie all’inter-cessione di Aurelio Cotta, fratello della madre, appartenente al partito aristocratico.L’ostilità di Silla lo indusse, ventenne, ad allontanarsi da Roma, dove rientrerà solonel 78, dopo la sua morte. Partì quindi per l’Asia, dove si fece particolarmente ono-re come ufficiale. Tornato a Roma, dove aveva avuto come maestro di retorical’analogista Gnifone, celebre retore della Gallia, nel 77 si diede alla carriera foren-se, strumento indispensabile per chi volesse dedicarsi alla vita politica: accusò diconcussione prima Dolabella per la sua gestione come proconsole in Macedonia,poi Gaio Antonio Ibrida, entrambi di parte sillana. Non vinse (la parte politica avver-sa era ancora molto forte), ma si fece conoscere ed apprezzare per le sue doti dieloquenza. Altri discorsi, di cui ci sono pervenuti solo frammenti, terrà in diverseoccasioni: fra questi gli elogi funebri, secondo la tradizione, per la morte della ziapaterna Giulia, vedova di Gaio Mario e per quella della moglie Cornelia, morte apoca distanza di tempo fra il 69 e l’inizio del 68. Nel 75 si recò a fare un viaggiod’istruzione in Grecia a Rodi, luogo in cui si recavano i giovani delle classi elevateper avere una buona formazione, e dove seguirà le lezioni del maestro di eloquen-za Apollonio Molone, che fu maestro anche di Cicerone. Fu però catturato dai pira-ti della Cilicia; rimase a lungo loro prigioniero e, dopo essere stato liberato dietro ilpagamento di un riscatto, diede loro la caccia e, catturatili, si vendicò facendoli cro-cifiggere tutti. Tornato a Roma nel 72 fu eletto tribuno militare e si dedicò ad unaserie di battaglie peculiari della tradizione e dello schieramento dei populares, dive-nendone il leader riconosciuto. Fra il 69 e il 60 percorse tutto il cursus honorum. Inquesto periodo si impone all’attenzione della «grande» politica: a Roma, in partico-lare con l’edilità (65) ottenne, con una politica di munificenza, feste e spettacoli,una forte affermazione personale presso la plebe; fuori Roma si segnalò in diversecampagne militari in Oriente (Asia Minore nel 63) e in Occidente (Penisola ibericanel 61); ottenne il pontificato massimo (63), carica a vita di carattere religioso chegli conferì ulteriore prestigio; strinse con Crasso e Pompeo il «primo triumvirato»,accordo privato di reciproco sostegno politico.Nel 58 a.C. fu eletto proconsole per la Gallia meridionale dove condusse una lungaguerra contro i Galli, conclusasi nel 52 a.C., che avrebbe portato Roma alla con-quista di tutta la Gallia. Tali azioni sono da lui stesso narrate nei Commentarii debello Gallico in sette libri, uno per ogni anno. Mentre egli era in Gallia, a Roma, ilpartito a lui avverso degli optimates (oligarchia senatoriale), di fronte al suo cre-scente prestigio e potere, cercava di ostacolarne l’ascesa: temendone la popolari-tà, dopo la morte di Crasso nel 53 a.C, affidò a Pompeo la difesa degli interessi edell’autorità del senato nominandolo nel 52 a.C. «console senza collega». Intanto a

Giulio Cesare

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Giulio Cesare. Musei Vaticani.

La guerra gallica

Cesare veniva negato il prolungamento del comando in Gallia fino alla fine del 49nonché la possibilità di chiedere per quello stesso anno il consolato anche se as-sente da Roma. Di fronte a queste azioni e alla richiesta di licenziare l’esercito ecedere il comando della Gallia (il comando supremo veniva affidato a Pompeo),Cesare, dopo aver invano tentato una conciliazione con il senato, disobbedendoagli ordini ricevuti, entrò in Italia con truppe armate: con il passaggio del Rubicone,piccolo fiume a sud di Ravenna che segnava il confine fra la Gallia Cisalpina el’Italia attraversando il quale, secondo il racconto di Svetonio, avrebbe pronunciatola famosa frase Iacta alea est («Il dado è tratto»), cominciò la guerra civile, checonclusasi con la sconfitta di Pompeo a Farsàlo (in Tessaglia, regione della Grecia)nel 48 a.C. e dei suoi seguaci a Tapso (in Africa) nel 46 e a Munda (in Spagna) nelmarzo del 45, viene narrata da Cesare nei tre libri dei Commentarii de bello civili,scritti forse nel 45 a.C. Nel 44 a.C. fu nominato dittatore a vita ma, nonostante lasua politica di clemenza e la sua condotta, protese come sempre, alla ricerca delconsenso e al compromesso, fu ordita una congiura dalla nobiltà senatoriale chemal vedeva il suo programma di riforme istituzionali che avrebbe limitato il poteredegli optimates. Cadde, secondo il racconto di Svetonio, trafitto da ventitré pugna-late. Fra i cesaricidi Marco Bruto a cui, secondo uno dei drammatici aneddoti sullasua morte narrato, ancora una volta, da Svetonio, Cesare avrebbe rivolto le famoseparole: Tu quoque, Brute, fili mi? («Anche tu, Bruto, figlio mio», in Svetonio in gre-co: kài su técnon?)1.

I commentariiLa forma dei commentarii (calco semantico dal greco upomnémata = «appunti,pro-memoria») scelta da Cesare per le sue opere, si iscriveva nella più recente tra-dizione storiografica romana. Fino ad allora il ricordo degli avvenimenti e delle im-prese compiute era stata affidata ad opere annalistiche spesso scritte, a scopopropagandistico, in greco, perché fossero conosciute anche al di là dell’Italia, ope-re, dal punto di vista letterario, di scarso rilievo. Dalla fine del II secolo a.C. si hauna larga fioritura di memorie particolarmente apprezzata dal pubblico romano chein esse trovava la testimonianza «che ha per noi la stampa quotidiana e appassio-nava il pubblico proprio per quello che a noi può dispiacere, la sua aggressività po-lemica, la sua tendenziosità più o meno scoperta» (La Penna). Si era diffusa infattila consuetudine, da parte di chi aveva compiuto imprese ritenute memorabili, pre-tori, censori, consoli, generali vittoriosi, di affidare a commentarii il ricordo delleproprie gesta. Questi non rientravano per gli antichi fra le opere appartenenti al ge-nere storiografico, che richiedeva un progetto letterario vero e proprio; erano solomateriali da cui trarre eventualmente una vera e propria historia . Tuttavia quelli diCesare furono considerati anche dai contemporanei così ben scritti (Cic., Brutus262: nudi … sunt, recti et venusti, «sono disadorni, semplici (puntuali, schietti) edeleganti»; Irzio, B. G. VIII praef. 6: bene atque emendate, «bene e correttamente»)da distogliere chiunque dal metterci mano. Con molta probabilità Cesare, nel mettere insieme i materiali riguardanti le dueguerre da lui condotte (i resoconti al senato delle campagne militari, i rapporti stesidai suoi luogotenenti operanti sui vari fronti, i pro-memoria e le annotazioni perso-

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1. Era opinione diffusa che Bruto fosse figlio di Cesare e Servilia, madre di Bruto, che, incontrasto con lo schieramento politico della sua famiglia, aveva coltivato una forte passioneper Cesare.

La guerra civile

La dignità letteraria deicommentari

nali), li rielaborò in vista di una loro pubblicazione. Scrivendo in un nuovo stile nar-rativo «delle cui possibilità rinnovatrici forse non era del tutto consapevole lo stessoCesare» (La Penna), diede una diversa dignità letteraria ad un genere che fino adallora non aveva avuto pretese artistiche.

I commentarii di CesareDue i commentarii scritti da Cesare: il De bello Gallico e il De bello civili, la cui veri-dicità già alcuni degli antichi misero in discussione. Riguardo la guerra gallica i suoiavversari lo accusavano di aver condotto una campagna inutile e costosa sia in ter-mini economici che di vite umane solo per la propria ambizione di potere; riguardola guerra civile l’accusa era di averla scatenata non per difendere la legalità, comeegli sosteneva, ma i propri interessi. Le opere scritte per raccontarle avrebberoavuto solo intenti propagandistici (la verità sarebbe stata deformata, secondo Asi-nio Pollione, vuoi «intenzionalmente», vuoi «per dimenticanza»), per giustificare ilproprio operato. La questione si è protratta fino ad oggi ma è ancora irrisolta. Gli studi più recenti, forti della conoscenza dei mezzi della propaganda politica,tendono a ridimensionare il problema riconoscendo alle opere sì uno scopo apolo-getico, e quindi una visione parziale dei fatti, ma senza sostanziali falsificazioni ched’altronde il pubblico contemporaneo avrebbe subito individuato. Oggetto del De bello Gallico è la descrizione particolareggiata della guerra con-dotta contro i Galli dal 58 al 52 a.C., guerra che si iscrive nella politica romana diespansione del I secolo a.C. • Eletto proconsole per cinque anni nella provincia romana (Cisalpina e Narbonese) della

Gallia meridionale (incarico che gli verrà poi protratto per altri cinque anni), Cesare, ap-profittando inizialmente di rivalità fra le tribù del luogo, e interpretando, a torto o a ragio-ne, alcuni movimenti migratori come una possibile minaccia per la provincia romana, co-stringe la tribù gallica degli Elvezi a tornare nei propri territori e ricaccia al di là del Renola tribù germanica degli Svevi guidati da Ariovisto, dopo averli sconfitti in Alsazia; Cesa-re ottiene così il dominio della parte centrale della Gallia (58 a.C. – I libro).

• Cesare volge la sua campagna contro i Belgi nel nord-est della Gallia e ottiene un’im-portante vittoria sulla loro tribù dei Nervi, per celebrare la quale dal senato viene decre-tata una festa di ringraziamento (supplicatio) di quindici giorni (57 a.C. – II libro).

• Cesare combatte nel nord della Gallia: in Normandia, dove sottomette la popolazionedei Venelli; in Bretagna, dove annienta i Veneti; frattanto il suo luogotenente Publio Lici-nio Crasso, figlio del triumviro, sconfigge gli Aquitani stanziati a sud- ovest della Gallia.Sulla costa settentrionale vengono sottomesse anche le popolazioni belgiche dei Mòrinie dei Mènapi (56 a.C. – III libro).

• Le tribù germaniche dei Tèncteri e degli Usipeti, stanziati sulla riva destra del Reno (suiGermani Cesare si sofferma in un lungo excursus), attraversano il fiume e passano interritorio gallico, ma sono annientate da Cesare. Viene costruito un ponte sul Reno e iRomani passano al di là e devastano alcuni territori della popolazione germanica dei Si-gambri. Cesare si spinge in Britannia, ma, mentre egli è lì, le navi che devono raggiun-gerlo con la cavalleria, vengono colte da una tempesta e sono costrette a tornare indie-tro; il senato decreta nuove feste di ringraziamento, questa volta di venti giorni (maggio-re era la durata, maggiore l’onore per il comandante) (55 a.C. – IV libro).

• Cesare compie una seconda spedizione in Britannia (su cui Cesare fa un breve excur-sus etno-geografico) arrivando fino al Tamigi (Tamesis) dove vince il comandante deiBritanni Cassivellauno. Tornato indietro, deve affrontare tentativi di ribellione nella Gallianord-orientale che riesce a reprimere, seppure con qualche iniziale insuccesso e grandiperdite nell’esercito romano (54 a.C. – V libro).

• I Galli della Gallia Belgica e i Germani cisrenani tentano di ribellarsi al dominio romano,ma Cesare assale i Mènapi e muove contro i Trèviri. Compie poi un’azione dimostrativa:attraversa per la seconda volta il Reno e insegue la popolazione germanica dei Suebi.

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Fermatosi alla Foresta nera (silva Hercynia) torna in Gallia dove riesce ad annientare gliEburoni il cui territorio confinava con quello dei Mènapi (53 a.C. – VI libro).

• I Galli, messe da parte le loro reciproche ostilità, si uniscono contro i Romani sotto laguida di Vercingetorige, capo degli Arverni. Dopo alcuni successi i Romani, in seguitoall’azione di Vercingetorige che taglia loro ogni possibilità di vettovagliamento bruciandocampi e villaggi, nonostante le difficoltà riescono a conquistare Avarico, capitale dei Bi-turigi; pongono sotto assedio anche Gergovia, città degli Arverni, di cui tuttavia nonriescono a impadronirsi; infine assediano Alesia dove i Galli, presi per fame, vengonodefinitivamente sconfitti. Il loro capo si arrende e si consegna a Cesare. Il senato decre-ta una terza supplicatio di venti giorni (52 a.C. – VII libro).

• Dopo la morte di Cesare Aulo Irzio, suo luogotenente, aggiunge ai libri scritti da Cesareun ottavo libro in cui descrive la campagna militare contro i Bellovaci ed espone gli an-tefatti della guerra civile (51-50 a.C. – VIII libro).In tal modo viene colmato l’intervallo di tempo intercorrente fra gli avvenimenti descrittinel De bello Gallico e quelli del De bello civili.

La pubblicazione del racconto di questi avvenimenti avvenuta nel 51, quando siprofilava la rottura fra Cesare e Pompeo, doveva avere, per Cesare, lo scopo di farconoscere al popolo romano i «veri» motivi che lo avevano spinto a tale e cosìaspra guerra. I suoi avversari infatti (fra cui Catone l’Uticense) lo accusavano diaver voluto quella guerra solo per arricchirsi (effettivamente ne ricavò una grandeforza economica – ma questo era d’altronde ciò che spingeva ad andare a gover-nare terre lontane – grazie alla quale poté poi affrontare i suoi avversari) e di avercompiuto inutili stragi. Egli con la sua opera vuole dimostrare l’infondatezza di taliaccuse e al tempo stesso mettere in luce la sua abilità militare: la guerra era ne-cessaria perché la situazione in Gallia era pericolosa per le province romane confi-nanti. Il ricordo dell’invasione dei Cimbri favorì in molti la convinzione che le cosestessero effettivamente così e il timore di una nuova minaccia germanica fece rite-nere necessario l’intervento armato. Non si può negare comunque l’intento propa-gandistico: la reticenza sugli insuccessi, l’enfasi sulle azioni di Cesare, pur nella lu-cida analisi delle situazioni, dimostrano grande abilità nei resoconti cesariani. Lascelta di raccontare le sue imprese in terza persona con il conseguente effetto di«spersonalizzazione della voce narrante è di incredibile rilievo … i maggiori van-taggi vengono conseguiti a livello di credibilità … Cesare imperator affida ad un im-parziale Cesare-scrittore il ruolo di testimone degli avvenimenti» (Cipriani). Ricor-diamo d’altronde che per i Romani non era ritenuto opportuno autoelogiarsi: Cice-rone (Ad fam. V, 12, 8) afferma che chi scrive del proprio operato deve farlo vere-cundius («con toni sfumati») e comunque corre il rischio che la fides («credibili-tà») e la auctoritas («autorevolezza») del suo racconto sia minore che se la narra-zione fosse fatta da un altro (per questo egli aveva chiesto a più amici-scrittori dinarrare gli anni del suo consolato).Mentre Cesare conduceva la guerra contro i Galli, a Roma si conduceva un’aspracontesa fra optimates e populares. Egli più volte era tornato a Roma per tenere lasituazione sotto controllo; e così fu finché restò in vita l’accordo con Pompeo dacui entrambi avevano tratto vantaggi: Cesare aveva appoggiato Pompeo preceden-temente, nel 67, per l’attribuzione del comando della guerra contro i pirati (lex Ga-binia) e nel 66 per il conferimento del comando della guerra contro Mitridate (lexManilia); Pompeo aveva, insieme con Crasso, appoggiato Cesare nel 60 perl’elezione al consolato e nel 56 per il rinnovo per un secondo quinquennio del suoproconsolato in Gallia. Ma i rapporti si faranno critici soprattutto quando, dopo la morte di Crasso sconfittodai Parti, il senato, nel 52, sceglierà Pompeo come tutore dell’ordine (in seguito ai

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Il De bello civili

L’intento propagandistico

disordini provocati dall’uccisione di Clodio) e difensore dei suoi interessi; da partesua Pompeo, temendo che Cesare avrebbe finito per conquistare il governo e for-s’anche per riformare lo stato, dopo tante incertezze decise di salvare l’oligarchia(Syme). Dunque dopo la vittoria sulla Gallia e la sua definitiva pacificazione e orga-nizzazione, il senato cercò di impedire a Cesare di presentare la sua candidaturaal consolato per il 48 in absentia. Era un modo per tenerlo lontano dal potere maegli reagì: al comando di sciogliere l’esercito2 oppose un netto rifiuto e passò in ar-mi il Rubicone. Siamo nel 49 ed è l’inizio della guerra civile, da Cesare narrata nelde bello civili, opera rimasta incompiuta, scritta forse dopo la vittoria di Munda del45 a.C. e pubblicata dopo la sua morte. Nel I e II libro sono narrati gli avvenimenti del 49, nel III quelli del 48. • L’opera si apre con la descrizione delle sedute del senato dei cui componenti viene di-

pinta con particolare efficacia la psicologia nella scelta di porsi come nemici di Cesare.La situazione precipita verso la guerra. Il senato, contro il parere dei tribuni della plebe,decide che Cesare deve deporre il comando dell’esercito e gli invia un ultimatum cheegli non accetta. Entrato in Italia, tra vittorie e rese spontanee di città, conquista con fa-cilità l’Italia centrale e si dirige a sud verso Brindisi dove si era ritirato Pompeo con i con-soli. Da Brindisi Pompeo si imbarca per l’Epiro ma Cesare, che non ha navi, non riescead inseguirlo. Si sposta allora in Spagna, dove si trovava un altro esercito di pompeianiche, dopo esiti altalenanti, riesce ad annientare ad Ilerda (I libro).

• Dopo aver sottomesso tutta la Spagna Cesare si reca nella pompeiana Marsiglia; dopoun lungo assedio, ampiamente descritto, riesce a farla capitolare. I cesariani, guidati daCurione, sono sconfitti in Africa dai pompeiani aiutati da Giuba, re di Numidia (II libro).

• Nominato console nel 48, Cesare si ferma a Roma solo pochi giorni; poi va a Brindisi dadove si imbarca per Durazzo, con le poche truppe che possono essere trasportate dallapiccola flotta di cui dispone. Dopo la resa di alcune città presidiate dai pompeiani la si-tuazione rimane a lungo incerta: i due eserciti ora bloccano i rifornimenti agli avversari,ora si fronteggiano in scontri non decisivi. A Durazzo Cesare subisce una grave sconfit-ta in seguito alla quale è costretto a ritirarsi in Tessaglia. Qui, a Farsàlo, avviene la bat-taglia decisiva, da Cesare descritta nei più piccoli dettagli: dal giorno della vigilia in cui ipompeiani, sicuri della vittoria, discutono dei loro progetti e si spartiscono cariche, aquello della vittoria resa possibile dalla superiore efficienza dell’esercito cesariano.Pompeo fugge e si reca prima in Asia Minore, poi a Cipro, infine in Egitto, dove vieneucciso a tradimento dal prefetto del giovane re Tolomeo, fratello di Cleopatra, con lei inguerra per il trono. Coinvolto in questo conflitto Cesare si schiera con Cleopatra (dive-nuta sua amante), ma viene assediato ad Alessandria (III libro).

Il seguito delle vicende (48-47 a.C.) sarà materia del Bellum Alexandrinum, operacontenuta nel corpus cesariano.I codici che contengono il Bellum Gallicum e il Bellum civile ci hanno tramandatoinfatti anche un ottavo libro del Bellum Gallicum scritto, come si è detto, dal luogo-tenente di Cesare, Aulo Irzio, con l’intento di completarne l’opera dando il resocon-to degli avvenimenti del 51 a.C. (in Gallia c’era stato qualche tentativo di ribellione),il Bellum Alexandrinum, anch’esso forse opera di Irzio, il Bellum Africum che narragli avvenimenti del 46, il Bellum Hispaniense riguardante quelli del 45. Di questi ul-timi due non conosciamo l’autore.

Lingua e stileFormatosi alla scuola del grammatico Gnifone, analogista, Cesare ne abbracciòl’impostazione del pensiero da cui gli deriveranno le scelte in ambito linguistico e

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2. Ricordiamo che già in questo tempo il legame fra esercito e comandante era fortissimoandandosi a costituire come elemento di potere del comandante stesso che sulle sue forzemilitari poteva contare, a livello personale, incondizionatamente.

Bellum Alexandrinum, Bellum Africanum,Bellum Hispaniense

L’analogia

stilistico. È di quei tempi (I sec. a.C.) la polemica fra atticismo (scuola di Alessan-dria) e asianesimo (scuola di Pergamo), due indirizzi che si contrapponevano nellaconcezione della lingua e che diedero luogo a due teorie, quella dell’«analogia» equella dell’«anomalia». La prima, partendo dalla convinzione che la lingua è fonda-ta sulla ratio, propugnava rigide norme grammaticali ed uno stile sobrio ed asciutto;la seconda riteneva che la lingua fosse determinata dall’usus e accoglieva ogni li-bertà espressiva, per cui ne risultava uno stile ridondante e ampolloso.A determinare lo stile contribuiscono le scelte lessicali, morfologiche, sintattiche. Cesare, obbedendo al principio da lui stesso espresso: tamquam scopulum, sic fu-gias inauditum atque insolens verbum («evita, così come uno scoglio, le parole maisentite e inusuali»), non si serve di parole disusate ed evita arcaismi, barbarismi eneologismi; le poche parole greche che si incontrano nella sua opera o sono già datempo radicate nella lingua latina o sono termini tecnici riguardanti soprattutto laguerra. Così nelle scelte di carattere morfologico usa le forme generalmente accettate;d’altronde «le tendenze della scuola pergamena a favore dell’“anomalia” non anda-vano d’accordo con le esigenze della lingua letteraria in via di sviluppo, cui era ne-cessaria la stabilizzazione del sistema morfologico alquanto indebolito» (Tronskij).Altrettanto normalizzata è la sintassi. Ciò che la caratterizza particolarmente èl’uso frequente di ablativi assoluti con participi perfetti, caratteristica forse più chedi Cesare, del genere da lui scelto dei commentarii, che per loro stessa natura ten-dono alla brevità.Anche l’ampio uso del discorso indiretto in cui spesso ci imbattiamo nella sua ope-ra «forse trae la stessa origine dal linguaggio di governo e dallo stile di cancelleria»(Leeman).Ma al di là dell’origine o dei motivi delle scelte, Cesare, grazie ad esse, raggiungeuno stile che al lettore risulta semplice eppure, senza fronzoli e ricercatezze erudi-te, limpido ed elegante. Questa semplicità, che, come è stato dimostrato (Perrotta), è in realtà frutto di unaprofonda elaborazione, non gli ha impedito di permeare spesso di pathos – ladrammatizzazione gli derivava dalla storiografia ellenistica – gli avvenimenti narrati.È questo che ha fatto dire a La Penna: «leggo sempre con piacere ed ammirazioneil suo racconto piano, tutto cose, le sue descrizioni precise, ma non sento lì la gran-dezza di Cesare scrittore: essa è soprattutto là dove quello stile, senza nulla perde-re della sua chiarezza e sobrietà, sa rendere la forza ed anche la complicatezzad’una situazione drammatica. … Cesare drammatizza con vigore, ma senza gon-fiezza; lascia da parte la drammatizzazione esteriore, scenografica dei suoi biogra-fi … non esagera nei colori, rifugge dall’orrido … e qui si rivela in tutto il suo valorela sua elaborata semplicità».

La fortunaGià fra i contemporanei la figura di Cesare ha goduto di un grande prestigio che siè conservato per lunghi secoli. Non era d’altronde personaggio che si potesseignorare, se ne fosse ammiratori o avversari. Sul duplice aspetto della sua perso-nalità di scrittore e di uomo politico gli atteggiamenti e i giudizi, come sempre acca-de soprattutto per il secondo aspetto, sono stati discordi fin dall’antichità. Giudicatooratore brillante (Cic., Epist. a Cornelio Nepote: «Chi gli vorresti anteporre, anchecercando fra quelli che non si dedicarono ad altro? Chi più arguto, più ricco di con-

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Gli autori antichi

La semplicità

cetti, più ornato, più elegante?», Quint., Inst. or., 114 C.: «Cesare, se si fosse datosoltanto all’attività oratoria, sarebbe stato l’unico da contrapporre a Cicerone…»),gli veniva per lo più riconosciuta capacità di scrittore se pur disadorno, asciutto edelegante (Cic., Brutus 262). Ma c’era anche chi discordava dall’atteggiamento diammirazione: Asinio Pollione giudicò i suoi commentarii poco curati e poco rispet-tosi della verità e scriverà, una ventina di anni dopo la guerra civile, in cui avevamilitato dalla parte di Cesare, delle Historiae che volevano contrastare la «verità»di Cesare e demolire i commentarii come fonte; Catullo gli dimostrò avversione at-taccandolo più volte nei suoi carmi (11, 29, 54, 57, 93). Tuttavia le sue opere stori-che furono fonte per Livio e Tacito, che, nella Germania (28, 1) lo definisce sum-mus auctorum Divus Iulius («storico di somma autorità»).Ne riconobbe la statura gigantesca Virgilio, che nelle Georgiche (I 463-488) affidòl’annuncio della sua uccisione a prodigi naturali, come fosse un semidio. Una diver-sa immagine di Cesare emergerà nel secolo seguente nell’opera di Lucano: avver-sario di ogni forma di assolutismo, in Cesare ne vide il prototipo e il simbolo cosìda rappresentarlo eroe superbo ed empio. Così Cesare come personaggio conserverà questo duplice aspetto: eroe positivoed eroe negativo, e di questi si approprieranno governanti, intellettuali e scrittori diogni tempo presentandolo in un modo o nell’altro secondo la loro chiave di lettura,soprattutto politica.Dopo l’oblio da parte dei Padri della Chiesa e l’errata attribuzione dei commentariiad altri storici (lo storico Orosio nel V secolo li attribuì a Svetonio), nel Medioevol’opera di Cesare non fu nota. Neanche Dante, che lo conobbe attraverso l’immagine che ne avevano dato Sveto-nio e Lucano (da qui la figurazione, nell’Inferno IV 123, di «Cesare armato con liocchi grifagni»), aveva letto i suoi commentarii. Fu nel Trecento che gli fu restituita la paternità della sua opera storica per meritosoprattutto di Coluccio Salutati. Petrarca, che lo lesse direttamente e gli dedicò una biografia (De gestis Caesaris),lo presenta nella Canzone IV, Italia mia, vv. 49-51, come «genio della guerra»,(«Cesare taccio, che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne / di lor vene ove ’l no-stro ferro mise»). È la stessa ammirazione per il grande condottiero che proveràManzoni verso Napoleone. Cesare ha riscosso grande ammirazione ora come scrittore, ora come statista egenio militare. Fin dall’Umanesimo i suoi commentarii furono letti e diffusi anche intraduzione riscuotendo l’interesse di scrittori e statisti di gran parte dell’Europa enon solo. Fra i primi ricordiamo Erasmo da Rotterdam, Montaigne, Shakespeare,Voltaire, Alfieri; fra i secondi, segnalati da Napoleone III, autore di una incompiutaHistoire de Jules Caesar, Carlo VIII, che si fece regalare una traduzione del Bel-lum Gallicum, l’imperatore Carlo V che lo studiò con cura glossandolo con osserva-zioni personali, il sultano turco Solimano II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi II detto ilGran Condé; infine Napoleone Bonaparte, nel quale c’è «un vero e proprio proces-so di auto-identificazione» (Canfora), autore di un Précis des guerres de César,scritto, sotto sua dettatura, da M. Marchand.Ma, come si è accennato, se governanti e statisti lo vedevano in genere comegrande generale da cui imparare strategia e tattica di guerra (tanto da divenire te-sto di studio nelle scuole militari), spesso, nei periodi di lotta ai regimi assoluti, co-me il Rinascimento o durante la rivoluzione francese, letterati e difensori della li-bertà ne coglievano un altro aspetto, quello del tiranno liberticida; erano così esal-

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Il Medioevo

Dall’Umanesimo all’Ottocento

tati ed osannati i tirannicidi, Bruto in particolare, che veniva a rappresentarel’amore per la libertà sopra ogni cosa, anche gli affetti.Anche l’arte figurativa segue la duplice interpretazione di Cesare e da una partepossiamo ammirare il «Trionfo di Cesare» del Mantegna, dall’altra la statua raffigu-rante Bruto di Michelangelo che rappresenterebbe, secondo alcuni critici, le ideepolitiche dell’artista e la «incarnazione della libertà del cittadino».Dopo la Rivoluzione francese e gli anni del Risorgimento italiano in cui le idee li-bertarie rendevano avverse figure come quella di Cesare, venne la sua rivalutazio-ne. Verso la metà dell’Ottocento lo storico tedesco Theodor Mommsen, con cui ini-ziò una nuova considerazione del suo operato, scrisse a proposito della sua con-quista in Gallia: «… secoli passarono prima di comprendere che Cesare non avevasoltanto acquistato pei Romani una nuova provincia, ma che aveva fondata la ro-manizzazione delle province occidentali … Questo ampliamento dell’orizzonte sto-rico oltre le Alpi fu un avvenimento della stessa importanza storico-universale del-l’esplorazione dell’America da parte degli europei … È opera di Cesare, quindi, se,dalla passata grandezza dell’Ellade e dell’Italia, un ponte conduce all’edificio piùmagnifico della moderna storia del mondo, se l’Europa occidentale è diventata ro-mana, se l’Europa germanica è divenuta classica…». Nel XIX secolo, da una nuova elaborazione e anche dall’ammirazione per la sua fi-gura in cui si incarna l’«uomo del destino, superuomo, risolutore di antinomie stori-che» (Momigliano), nasce il Cesarismo, un nuovo ideale politico che trova realizza-zione in Napolene III. Seguirà nel Novecento, durante il fascismo, una nuova esaltazione di Cesare e sitenterà «nella propaganda la sua identificazione, peraltro incerta e superficiale,con Mussolini».In tale secolo Cesare torna ad essere personaggio, spesso protagonista, in più diun’opera letteraria: un nome per tutti, il più noto: Bertolt Brecht con il romanzo Gliaffari del signor Giulio Cesare, pubblicato dopo la sua morte nel 1957.Vanno infine ricordati gli autori dei quaderni di fumetti di Asterix, eroe gallico di unvillaggio ancora tutto celtico e immune dalla romanizzazione di Petibonum, che«assegnano a Cesare la statura di un eroe dei fumetti, millantatore, insofferente eprepotente, ma anche debole e infantile e sempre, ovviamente, battuto e giuocato,pur con il suo grande e potente esercito, dal coraggio e dalla destrezza di Asterixcui si affianca la forza, di origine magica, di Obelix; non mancano pagine di notevo-le e brillante spirito, ispirate di prima mano al testo dei commentarii» (Pennacini),letti, naturalmente, con l’occhio dei francesi!

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Fine Ottocento e Novecento

La vitaLe poche notizie sulla vita di Gaio Sallustio Crispo si traggono dal Chronicon (pro-spetto sinottico di avvenimenti ordinati in base alla data delle olimpiadi) di Girolamo(IV-V secolo d.C.), che le deriva probabilmente da una biografia scritta da Svetonio(II secolo d.C.) per una serie De historicis (accanto a quelle De poetis, De gram-maticis, ecc.).All’altezza della 173a olimpiade (celebrata nell’anno 86 a.C.) leggiamo: «Nasce adAmiterno, in Sabina, lo storico Sallustio Crispo».All’altezza della 186a olimpiade (celebrata nel 36 a.C.) leggiamo: «Sallustio chiudela sua vita quattro anni prima della battaglia di Azio», che si combatté nel 31 a.C.Dunque Sallustio morì nel 34 o nel 35 (secondo che s’includa o no nei «quattro an-ni» anche l’anno 31).L’origine municipale (Amiternum era in Sabina e il suo territorio coincide conl’odierna San Vittorino, in provincia dell’Aquila) accomuna Sallustio ai più importan-ti personaggi politici dell’ultima età repubblicana e «può riguardarsi, anche simboli-camente, come segno dell’integrazione – sancita dal sangue della guerra socialedel 91-89 – tra Roma e le antiche comunità italiche un tempo nemiche e poi gra-dualmente sottomesse» (Scarcia).Di famiglia plebea probabilmente facoltosa, il giovane Sallustio ricevette il gradod’istruzione che l’ambizione della carriera pubblica imponeva: studio della retoricaai fini dell’oratoria forense e politica.Incerte sono le notizie relative ai primi honores ricoperti. Forse fu questore nel 54.Nel 52, tribuno della plebe, fu accusatore accanito del demagogo conservatore AnnioMilone, difeso da Cicerone nel processo per l’uccisione di Clodio. Legato al partitopopolare, nell’anno 50, durante una breve pausa di restaurazione d’ordine avvenutasotto il segno dei nobiles, fu escluso dal senato per indegnità morale (probri causa).L’accusa sarà anche stata in parte pretestuosa nel clima di accese faziosità di que-gli anni arroventati, che furono il preambolo dello scontro tra Cesare e Pompeo edella guerra civile del 49-45. Tuttavia Sallustio stesso ammette di sé che la giovani-le debolezza restò presa nella corruzione diffusa in quei tempi di decadenza mora-le: …inter tanta vitia imbecilla aetas ambitione corrupta tenebatur (B. C. 3, 4). Delresto la fama è che «accettò molti doni e molto rubò» (Dione Cassio, St. Rom. XLIII9, 2) e fu scostumato, al punto che Milone (lo stesso del processo del 52) lo sor-prese in intimità con la propria moglie Faustina, e per questo lo fece frustare debi-tamente e lo costrinse a pagare una somma per rilasciarlo: … C. Sallustium inadulterio deprehensum ab Annio Milone loris bene caesum dicit [Varro] et, cum de-disset pecuniam, dimissum (Gellio, XVII 18). E un liberto di Pompeo, Lenèo, riassu-meva il suo giudizio su di lui con le parole: Homo vita et scriptis monstruosus (Sve-tonio, De gramm. 15).Riammesso in senato da Cesare, fu questore per la seconda volta nel 49. Servì ilsuo protettore nella campagna d’Africa del 47, divenne governatore dell’Africa No-va nel 46, vi si arricchì senza scrupoli, ma uscì indenne da un processo di concus-sione ancora grazie alla protezione di Cesare.Dopo l’assassinio del dittatore (44), ormai privo di un avvenire pubblico, si ritirò avita privata in una splendida villa tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallu-stiani), per dedicarsi alla riflessione, alle memorie, alla storia. All’attività letteraria lo

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I dati del Chronicon

L’origine municipale e agiata

La militanza nel partito popolare

Una vita non irreprensibile

Il governatorato d’Africa

Il distacco dalla politica el’attività di storico

Sallustio, medaglione (Roma,Museo Capitolino).

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spingeva l’ambizione di gloria, il desiderio di non vedere trascorsa la propria vitanel silenzio, come accade alle bestie, che la natura creò chine a terra e schiave delventre: pecora, quae prona atque ventri oboedientia finxit (B. C. 1, 1).

Le opereSallustio ha composto due monografie: Bellum Catilinae1 e Bellum Iugurthinum,che pubblicò tra il 43 e il 40.Dopo il 39 iniziò un’opera di più vasto respiro, le Historiae, che riguardano il periododalla morte di Silla alla fine della guerra di Pompeo contro i pirati (dal 79 al 66) e dellaquale restano, oltre a numerosi frammenti, i discorsi e le lettere che vi erano inseriti.Sono probabilmente da considerarsi spurie due Epistulae ad Caesarem senem dere publica (lettere aperte che costituiscono, sotto la forma di consigli a Cesare, unaspecie di manifesto politico del partito cesariano), e un’Invectiva in Ciceronem.

Storia contemporanea e «fuga dal presente»Sallustio vede crollare un regime considerato eterno e cerca di capire, nella suaqualità di sopravvissuto a una tragedia collettiva, le cause del crollo. E le ravvisaprincipalmente nell’egoismo, avidità e depravazione dell’aristocrazia, che aveva tra-dito un codice etico, una tradizione, un costume ormai cristallizzato in formuleesemplari, e non sentiva più il dovere di proporre la propria condotta a esempio peril popolo. A questa aristocrazia degenere – che aveva portato lo stato alla rovina eche, pur agonizzante, si ribellava al nuovo assetto «democratico» voluto dai popo-lari – Sallustio intende gettare in faccia la lista delle colpe commesse.La critica recente ha molto attenuato l’accusa di tendenziosità della visione storicasallustiana, apparsa per lungo tempo animata dalla volontà partigiana di esaltareCesare e immeschinire la figura politica di Cicerone, e ha posto in primo piano daun lato l’impegno dello storico attento a studiare le cause che provocano la deca-denza dello stato; dall’altro l’intenzione artistica assai marcata (anche al di là delvalore di opus oratorium maxime proprio d’ogni opera storiografica romana). Delresto, sempre lo storico compie una selezione tendenziosa, attingendo materialenegli archivi del passato.Eppure l’opera sallustiana – anche se non può certo ritenersi un pamphletd’intervento filocesariano – si valuta pienamente anche in rapporto alla pubblicisti-ca contemporanea, favorevole o contraria a Cesare e alla sua politica.Il Bellum Catilinae da un lato attribuisce allo strapotere dell’aristocrazia e alla pes-sima conduzione dello stato la responsabilità dei guasti che hanno permesso il fe-condo germinare della mala pianta della congiura; dall’altro «mira a purificare lamemoria di Cesare dalla macchia più nera che l’offuscava» (T. Mommsen): il so-spetto di connivenza coi congiurati.Nel Bellum Iugurthinum il medesimo bersaglio polemico – la superbia nobilitatis –si precisa con il salto indietro di una generazione, verso un nodo storico di Roma:la fase che seguì il crudele soffocamento della politica popolare dei tribuni Gracchi:fu nel corso di quella guerra che «per la prima volta si affrontò l’arroganza della no-biltà». E in quella guerra la nobiltà aveva messo in luce la sua bancarotta morale.

Le due monografie

Le Historiae

Le opere spurie

Le cause della rovina dello Stato

La tendenziosità dello storico

Il Bellum Catilinae

Il Bellum Iugurhinum

1. O anche Bellum Catilinarium o Liber Catilinarius, tutti titoli desunti dai codici. Sallu-stio forse preferiva come titolo: De Catilinae coniuratione (B. C. 4, 3).

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La decadenza del regime dei nobili s’era in seguito manifestata nella guerra controSertorio, in quella contro i gladiatori e gli schiavi, in quella contro i pirati. E sonoquesti per l’appunto gli avvenimenti narrati nella terza opera, le Historiae, che se-gna un ridimensionamento dell’operato di Pompeo: «al quale gli adulatori avevanofatto credere che avrebbe uguagliato Alessandro Magno, e lui ritenne che ciò fossela verità».Il legame con il presente è particolarmente forte nel Bellum Catilinae, di cui la criti-ca ha messo in evidenza il carattere di cronaca passionale, narrata con vivacità eirruenza ancora «comunali».Più distaccato dal presente e dalla politica corrente a Roma è il Bellum Iugurthi-num. In tempi in cui la frode e il furto hanno preso il posto che un tempo occupava-no le bonae artes, la professione dello storico appare sempre più un’evasione, unprocedere libero e alto nel disdegno per i costumi della città grande e corrotta.Le Historiae, saldando narrativamente le due isole monografiche precedenti, se-gnano un ulteriore passo in una progressiva «fuga dal presente» verso i lidi più se-reni e appartati della storia.

Il Bellum CatilinaeLa «congiura» di Catilina, repressa nel 63 da Cicerone console, mirava a sollevarecontro lo strapotere senatorio il proletariato urbano (e in parte municipale), alcuninobili indebitati, masse di schiavi. In questo episodio, tutto sommato marginale, mache destò nei ceti abbienti la paura di un sovvertimento sociale, Sallustio vede unsintomo della malattia dello stato.La diagnosi è nella cosiddetta «archeologia», un excursus che, sull’esempio dellostorico greco Tucidide, interrompe la narrazione della congiura: dopo la distruzionedi Cartagine, cessato il metus hostium, vennero meno i valori di concordia, sag-gezza, giustizia, semplicità, onestà che avevano accompagnato e favorito la cresci-ta della città. Così si ebbe in massimo onore il danaro e il lusso, la povertà fudisonore, l’integrità beffeggiata. Lussuria, avarizia, arroganza e violenza contami-narono la vita dei giovani. Al tempo di Silla – alla cui scuola si era formato Catilina,macchiandosi di atroci delitti nelle proscrizioni – lo sfacelo morale raggiunse il cul-mine. Allora l’avaritia, con il suo seguito di luxuria e superbia, regnò senza limiti:non fu più la semplice soddisfazione, ma l’esasperazione e il raffinamento del vizio.Su questo terreno germoglia e prende vigore la mala pianta catilinaria.La visione unicamente moralistica marca la distanza di Sallustio dal modello tucidi-deo. L’«archeologia», che in Tucidide era un’analisi critica del passato per spiegareil presente, in Sallustio risponde al bisogno di cercare in un passato idealizzato ilmodello etico-politico per il presente, e di affermare nella storia valori eterni.Il valore cardine che emerge nella descrizione delle remote origini è la concordia,da cui dipende la sorprendente capacità di Roma antica di fondere le diversità: Itabrevi multitudo dispersa atque vaga concordia civitas facta erat (B. C. 6, 1).Indispensabili poi alla salute del regime repubblicano sono, oltre alla concordiasalda, la mancanza di avidità (minuma avaritia 9, 1) e la fides nei rapporti con gliamici.Dopo la monarchia, che comprime l’esplicazione libera e piena della virtus e recaconnaturato in sé il pericolo della tirannia, il regime repubblicano pare il più adattoa contenere la licentia popolare e soprattutto a valorizzare le energie individuali po-ste al servizio della comunità. La virtus incorrotta dei padri assume, nel proemio,

Le Historiae

La progressiva «fuga dal presente»

La congiura come sintomo

Il moralismo

I valori delle origini

Una virtus agonistica

La diagnosi

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connotazioni agonistiche, è energia irrefrenabile: virtus omnia domuerat (7, 5).Più che l’aequitas, l’uguaglianza dei cittadini, sta cuore al «liberale» e «uomo nuo-vo» Sallustio la possibilità di aprire libero e vasto campo alle risorse dell’individuo:«La libertas, come facoltà di tutti gli uomini dotati di far valere il proprio talento, de-v’essere stata un valore ideologico particolarmente caro agli homines novi romanie italici contro le cricche dei casati gentilizi» (A. La Penna).Per spiegare l’ideologia di Sallustio, si è dato risalto da un lato alla provenienzadalla Sabina, famosa per aver conservato purezza e rigidità arcaiche, dall’altro allacondizione certamente agiata della famiglia: «Sallustio riflette idee e interessi deiceti possidenti della penisola, che non coincidono con quelli della nobilitas romana,ma ancor meno con quelli degli strati subalterni» (A. La Penna).In realtà la militanza popolare di Sallustio al seguito di Cesare rispecchia gli inte-ressi delle élites sociali italiche, alle quali, pur detentrici di un considerevole potereeconomico, una nobiltà ottusamente legata ai suoi privilegi negava l’accesso alleleve della decisione politica (le magistrature più importanti, il senato stesso).Quanto all’ideologia arcaica dei boni mores è da credere, come ritiene Luca Cana-li, che a questa fede, che certamente avrà animato Sallustio in gioventù, si fosseropoi sovrapposti, lacerandola e cancellandone i contorni, troppi eventi tragici: loscontro tra Mario e Silla, la dittatura sillana, la guerra sociale contro gli italici, la sol-levazione di Sertorio, la ribellione di Spartaco, la guerra con i pirati, il primo triumvi-rato, la lotta fra Cesare e Pompeo, la dittatura di Cesare, le avvisaglie del conflittofra Ottaviano e Antonio. Avvenimenti, questi, che segnando l’agonia della «libera»polis romana preludevano al definitivo consolidamento autoritario sotto le dittaturedi Cesare e di Augusto. In quest’epoca tempestosa e feroce, il sembiante della respublica maiorum doveva essere un’immagine stinta e l’ideologia della virtus e deiboni mores trovava ormai solo in Catone il giovane il rigido e un po’ patetico paladi-no: «[I boni mores] sembravano piuttosto un baluginante miraggio e, a un livello piùbasso, un locus communis, di cui nel Bellum Catilinae non è documentata la validi-tà, oltre la troppo rapida sintesi del proemio o i discorsi dei patres e le esortazionidei condottieri: tutto ciò che resta è corruzione, avidità, violenza» (L. Canali).Secondo Canali il «progressismo» moderato di Sallustio altro non sarebbe allorache l’illusione (o la malafede) di quanti, in tempi di forte tensione sociale, auspica-no un rinnovamento e una ridistribuzione dei beni e del potere, che scongiurino larivoluzione, quando le forze più retrive della società non vogliano rinunciare ai loroprivilegi. E la collocazione per così dire «di centro», equidistante fra optimates epopulares, non riflette la preoccupazione per il bene di uno stato super partes, mala paura che le forze sociali emarginate possano con le loro rivendicazioni econo-miche mettere in forse la solidità della posizione sociale dei ceti benestanti.Ma è difficile pensare che, intorno agli anni 40, quando scrisse il Bellum Catilinae,Sallustio potesse ancora coltivare l’illusione di un pacifico riformismo. «Il suo ritiro dal-la vita politica deve essere inteso come il frutto della paura … più che come il disgustodell’uomo probo e valoroso che non era mai stato … Al più si può concedere la pre-senza di entrambe le motivazioni, togliendo però alla seconda tutti gli orpelli di un mo-ralismo in gran parte di stampo retorico … In questo senso si può dire che Sallustioera un uomo privo di ideali, sgomento egli stesso di tale vuoto di valori» (L. Canali).

Capitoli 1-4. Nel proemio l’autore spiega d’essersi dedicato alla storia per il disgusto dellacorruzione dei suoi tempi e per il desiderio, proprio della natura umana, di lasciare memoriadi sé con opere d’ingegno.

Particolaredi un affre-sco di Ce-sare Mac-cari (Siena1840 – Ro-ma 1919),che raffigu-ra Catilina,isolato nelS e n a t o ,

mentre Cicerone sta pronuncian-do contro di lui l’infiammataorazione (Catilinaria).

Il «liberismo» dell’homonovus…

… e delle élites sociali italiche

I boni mores: un locuscommunis?

Il «progressismo» sallustiano

Un uomo ormai privo di ideali?

Riassunto dell’opera

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Capitolo 5. Segue il ritratto di Catilina la cui personalità è emblematica della decadenzadei costumi romani.Capitoli 6-9. Si apre poi un primo excursus (la cosiddetta «archeologia») che traccia unarapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Capitoli 10-13. Dopo l’elogio appassionato dei prisci mores, sono descritti l’inizio e il dila-gare della corruzione in conseguenza dell’accrescersi dell’impero e della diffusione del lus-so, fino ai tempi di Silla, nei quali lo sfacelo morale toccò il culmine.Capitoli 14-22. In questo clima di depravazione, Catilina concepisce la congiura contro lostato riunendo attorno a sé disperati e debosciati d’ogni risma e adescando giovani che ad-destra alla falsità e al delitto. Capitoli 23-28. La notizia della congiura trapela: sono nominati consoli Antonio e Cicerone,mentre Catilina, sconfitto nelle elezioni consolari, accelera, estendendoli a tutta l’Italia, ipreparativi del suo disegno criminoso.Capitoli 29-36. Cicerone porta l’affare in senato accusando apertamente Catilina (prima Ca-tilinaria) e ottenendo pieni poteri. Catilina fugge da Roma e raggiunge a Fiesole l’esercitoapprestato dal suo luogotenente Manlio. Il senato dichiara entrambi «nemici della patria».Capitoli 37-39. Segue un secondo excursus che denuncia la degenerazione della vita poli-tica nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e Pompeo.La condanna accomuna nobiltà e populares. Favorevoli alla congiura erano la plebe perdesiderio di novità, i tribuni per volontà di gloria e di potenza, i disonesti, i dissipatori, i cri-minali confluiti a Roma da ogni parte. Contro costoro era schierata la nobiltà «in apparenzain difesa del senato, in realtà per il proprio potere».Capitoli 40-52. Riprende la narrazione. Gli ambasciatori Allobrogi, incautamente coinvoltidai cospiratori, forniscono le prove tangibili del complotto a Cicerone, il quale fa arrestare icongiurati presenti in città e convoca il senato per decidere la pena. Si avvicendano dueoratori, Cesare e Catone l’Uticense. Il primo sconsiglia la pena di morte proponendo la con-fisca dei beni e la detenzione. Il secondo confuta gli argomenti di Cesare e chiede che icolpevoli siano giustiziati.Capitoli 53-54. «Ritratti» di Cesare e di Catone a confronto.Capitoli 55-60. I congiurati sono condannati e giustiziati. Catilina con l’esercito male arma-to di Manlio tenta di aprirsi la strada verso la Gallia, ma viene chiuso dalle truppe regolari diAntonio e costretto a battersi sui colli di Pistoia.Capitolo 61. Il dramma si chiude con l’immagine desolata del campo di battaglia e del ca-davere di Catilina che spira ancora indomabile fierezza dal volto, in mezzo ai corpi massa-crati dei suoi.

Il Bellum IugurthinumNel Bellum Iugurthinum Sallustio tratta un episodio più lontano nel tempo – la guer-ra contro Giugurta, svoltasi in Numidia fra il 111 e il 105 a.C. – scelto per la rilevan-za («perché fu grande e atroce e con alterna vittoria») e l’esemplarità in rapporto alconflitto tra nobiles e populares («perché allora per la prima volta si affrontòl’arroganza dei nobili»). Così uno dei bersagli polemici del Bellum Catilinae – lostrapotere, la iattanza degli aristocratici e la cattiva gestione della res publica qualeorigine dei guasti che avevano fecondato e nutrito la pianta della congiura – si pre-cisa ulteriormente, nella narrazione dei fatti che seguirono la dura repressione dellapolitica popolare dei Gracchi. In quella guerra, che si era colorata delle tinte delloscandalo (a causa del danaro profuso da Giugurta per condizionare a proprio van-taggio la politica del senato), Sallustio scorge da un lato i segni più evidenti dellacorruzione della nobilitas, dall’altro l’occasione che si offrì ai democratici di alzare latesta e contrastare la superbia di un’aristocrazia inadeguata a reggere con dignitàlo stato, eppure ostinatamente decisa a perpetuare l’oppressione sui ceti subalter-

Un episodio esemplare

Moneta di Giugurta. Parigi, Bi-bliothèque Nationale.

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ni.La tendenziosità è innegabile: l’infelice conduzione della guerra è da imputare uni-camente alla venalità e all’inettitudine dei nobili, mentre l’esito sarà capovolto dallevirtù di Mario, l’homo novus italico, rappresentante delle forze valide che costitui-scono l’alternativa alla «cricca» senatoria.In realtà gli insuccessi di questa guerra dipendevano, prima ancora che dalla corru-zione, dalla riluttanza del senato a impegnarsi in un conflitto difficile (aggravato daivantaggi che la guerriglia concedeva alle genti indigene), concomitante con la mi-naccia da nord di Cimbri e Teutoni, e soprattutto non rispondente ai propri interessidi casta. Infatti non la nobilitas traeva vantaggi dalla politica d’espansione in Africa,bensì gli equites e i ceti imprenditoriali e mercantili italici, in cerca di nuovi mercatie aree per uno sfruttamento coloniale. Tuttavia la faziosità dell’interpretazione mo-ralistica – del resto condivisa dagli altri storici antichi (Livio, Appiano, Floro, Eutro-pio) che pure riferirono in termini scandalistici l’affaire Giugurta – non impedisce aSallustio di riconoscere i meriti degli avversari: l’integrità morale e la perizia dell’ari-stocratico Metello, l’astuzia e l’abilità di Silla. E di Mario non sono celati i difetti:l’eccesso di ambizione e alcuni tratti meschini dell’indole.In un excursus centrale della monografia e nel discorso del tribuno Memmio, Sallu-stio stigmatizza il «regime dei partiti» condannando con giudizio «equidistante» siai demagoghi populares che eccitano l’emotività delle masse per appagare la pro-pria ambizione, sia l’egoismo dei nobili pervicacemente attaccati ai loro privilegi. Inparticolare le parole di Memmio – che condanna la divisione in factiones e la «con-flittualità» diffusa ed è vagamente consenziente con la politica dei Gracchi, dellaquale approva la sostanza ideale ma non l’estremismo – riassumono l’ideologia«centrista» dell’autore e si traducono in un invito alla moderazione.L’impressione complessiva è che in quest’opera, forse meno allettante della prece-dente, ma più solida e organica, lo storico e il politico siano cresciuti di statura.C’è qui una più sicura percezione del valore esemplare dei fatti, una meglio appro-fondita ricerca degli sfondi sociali.Come nel Bellum Catilinae, il racconto si concentra intorno alle figure principali,che però sono meno spettacolarmente sbalzate, ma più sottilmente analizzate echiaramente assunte come portatrici di un significato politico, di una mentalità cheè specchio di una condizione sociale o etnica. Giugurta appare abile e insensibilealle più frivole seduzioni della vita, in grado di corrompere o tenere in scacco i fra-gili e venali comandanti romani, ma soprattutto carico di quell’energia inquieta, in-stancabile, che per Sallustio è una dimensione della virtus. Silla si presenta nobile,colto, smanioso di onori ma controllato nei piaceri, astuto, dissimulatore. Mario, ilprotagonista glorioso dell’intera guerra, è raffigurato ambizioso, ricolmo di pregi«tranne l’antichità della famiglia». In lui s’incarna l’ideologia dell’homo novus.Alla maturazione dello storico corrisponde una maggiore coerenza stilistica. La pa-tetica varietà di toni del Catilina si smorza in quest’opera più compatta e monocro-ma. L’ interesse artistico è ravvivato dal colorito esotico e a tratti pittoresco, checonferisce un’impronta dominante agli intermezzi favolosi e romanzeschi, aglieventi militari narrati con gusto epico, alle descrizioni del teatro desertico e selvag-gio di queste avventure: il paesaggio africano, ben noto a Sallustio che deve esser-ne rimasto affascinato dai tempi del suo governatorato in Numidia. «Il Giugurta èun bel romanzo d’avventura, pieno di macchinazioni tenebrose, di imboscate, diassassinii premeditati con freddezza, di arditi colpi di mano» (Bayet).

La tendenziosità

Un’opera matura

I protagonisti del Bellum

La coerenza artistica

Contro il «regime dei partiti»

Moneta coniata dal figlio di L.C.Silla, Fausto Silla, triumviromonetario nel 64 a.C. In rilievoè raffigurato Silla vestito da ma-gistrato romano, assiso su unpiedistallo. Davanti a lui il reBocco in ginocchio offre un ranod’olivo, alle sue spalle è Giugur-ta prigioniero, con le mani lega-te dietro alla schiena.

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Riassunto dell’opera

Moneta di Micipsa, Parigi. Bi-bliothèque Nationale. Succedutosul trono al padre Massinissainsieme con in fratelli Mastana-bale e Gulussa, alla loro morterimase unico sovrano e fu fedelealleato di Roma. Adottò il nipoteGiugurta, nominandolo erede alregno insieme con i propri figliAderbale e Iempsale.

Capitoli 1-5. L’argomento è la guerra contro Giugurta, re di Numidia (l’odierna Algeria),svoltasi tra il 111 e il 105 a.C. Dopo il proemio e la giustificazione della scelta del tema so-no riassunte le vicende del regno numidico da Massinissa a Giugurta, le lotte tra questo el’imbelle cugino Aderbale (legittimo erede al trono) per il possesso del regno, l’interventodei Romani come mediatori, che verrebbero corrotti dall’oro di Giugurta, il quale infine inva-de il territorio assegnato ad Aderbale e lo uccide.Capitoli 6-26. In particolare, dopo il clamoroso massacro di una comunità di mercanti italiciospiti del regno (già legato a Roma da una tradizione di alleanza risalente alla guerra anni-balica), l’intervento militare contro l’usurpatore è giocoforza per il senato.Capitoli 27-62. La guerra, condotta con scarsa convinzione, si trascina stancamente sottoil comando di generali fragili e venali, che l’abile Giugurta tiene in scacco o corrompe. Men-tre a Roma si apre un’inchiesta sull’andamento delle operazioni – e qui s’inseriscel’excursus in cui è condannato l’operato dei partiti – entra in scena l’aristocratico Metello,valoroso e integerrimo, ai cui ordini il corpo di spedizione si riorganizza e infligge a Giugur-ta alcune dure sconfitte, ma non risolutive.Capitoli 63-114. Nel corso di queste operazioni si distingue il democratico Mario, un «po-polare» che la plebe elegge console affidandogli la missione di concludere finalmente ilconflitto. Mario, ottenuto il comando della campagna numidica, subentra a Metello e scon-figge più volte, privandolo di forze e mezzi, Giugurta, a tal punto che suo suocero fino adallora alleato, Bocco re di Mauritania, lo fa cadere con l’inganno nelle mani dei Romani.Giugurta è portato a Roma e trascinato in catene davanti al carro trionfale di Mario, che ce-lebra il trionfo e assume il secondo consolato.

Lo stileDi Tucidide (vedi p. 115 ss.) Sallustio vuole ricreare la brevità e la densità, la diffi-coltà e l’asprezza.Abbondano le ellissi dei verba dicendi (ma anche di quelli d’opinione). Concorronoa una densa brevità costruzioni come in e ablativo o accusativo: in maxuma fortunaminuma licentia est. La variatio (imbecilla atque aevi brevis, «debole e di breve vi-ta») rifiuta l’armonia troppo prevedibile derivante dalla concinnitas, frustra l’attesad’ogni parallelismo stilistico. Analoga è la funzione degli zeugmi: pacem an bellumgerens (solo bellum gerere è nell’uso).Ma, oltre a scuotere di continuo l’attenzione del lettore, Sallustio lo chiama a colla-borare alla costruzione del senso stimolando la sua capacità interpretativa (e qui lasua arte è vicina a quella neoterica). Ciò avviene ad esempio nelle frequenti co-struzioni a senso, che rispondono anche al gusto della difficoltà: Coniuravere paucicontra rem publicam, de qua quam verissume potero dicam (B. C. 18, 2), «Pochiuomini avevano congiurato contro lo stato: di tale congiura dirò quanto più verace-mente possibile» (de qua coniuratione si ricava da coniuravere).Alla difficoltà e all’asprezza asimmetrica in funzione di un effetto di nobile gravitas,concorrono, come in Tucidide, ma in forma più accentuata, l’asindeto, la frase no-minale, l’infinito descrittivo e soprattutto l’arcaismo.Ma in Sallustio i procedimenti tucididei assumono un senso nuovo, dato principal-mente dal pathos inquieto, mentre di Tucidide mancano quella capacitàd’elaborazione di concetti generali e quella robustezza di logica che presuppongonouna cultura filosofica e scientifica: a Roma mancava la sofistica e la medicina greca.Al culto per Tucidide si unisce nel sabino Sallustio la venerazione per il grande con-terraneo Catone (vedi p. 132 s.). Da questo, più ancora che da Tucidide, viene laspinta all’arcaismo carico (il «catonismo» lessicale, che offrì l’esca alle critiche deicontemporanei).

Brevità e difficoltà di Tucidide

Differenza da Tucidide

L’influenza di Catone

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Catoniano è il gusto per l’accumulo dei sinonimi (fortibus strenuisque, ingenio malopravoque), per le antitesi: pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia(B. C. 5, 8), «due mali funesti e fra loro discordi: il lusso e l’avidità».Ma quasi tutti i procedimenti arcaizzanti di Sallustio sono riscontrabili in Catone (ol-tre che nella precedente storiografia latina) e riguardano ogni livello d’espressione:– ortografico e morfologico: optumus per optimus, maxume per maxime; novos (pernovus), arduom (per arduum, accus.), volt (per vult); fuere, invasere (per fuerunt,invaserunt); quoi (per cui), quom (per cum); forma dissimilata nei composti, comeadpetere (per appetere), conruptus (per corruptus);– lessicale: scelta di termini desueti, come i nomi in -mentum e in -tudo (cogno-mentum, claritudo in luogo di cognomen, claritas), gli aggettivi in -osus e in -bun-dus (discordiosus, furibundus); uso di parole di registro alto (mortales per homi-nes), riecheggiamenti della poesia arcaica (cupidine caecus, metu perculsus, for-midine attonitus) soprattutto in funzione del pathos; neologismi: loquentia (per elo-quentia)2;– sintattico: asindeto, paratassi, cambiamento di soggetto senza stretta necessità,frequente ricorso al passivo, preferenza dell’indicativo rispetto al congiuntivo, predi-lezione per l’infinito descrittivo.L’obiettivo dell’impiego di questi procedimenti è un’espressione che ispiri nobiltà e di-gnità, ma anche aspra rudezza: «Dignitas senatoria sì, ma dignitas che vuol far pen-sare ai Cincinnati e ai Catoni e far disprezzare le eleganze della bella letteratura» (A.La Penna).Il risultato è quello di uno stile scabro, scattante, sintatticamente disarticolato, cari-co di pathos3.C’è in Sallustio un vero e proprio «linguaggio del pathos» (A. La Penna), un riccolessico delle passioni definite nelle varie sfumature e gradazioni: la brama insazia-bile (avaritia, avidus, affectare, exoptare); l’inquietudine e l’angoscia (anxius, in-quies, trepidus, excitus); il divampare fulmineo (incendio, ardeo, l’espressione allit-terante animun accendere); il rimorso (conscientia, conscius, come in B. C. 5, 7:agitabatur conscientia scelerum «era agitato dal rimorso dei delitti»).Un campo lessicale affine è quello delle parole che indicano l’attività energica, laforza sana non ancora corrotta dal vizio (industrius, impiger, alacer, sollers, enitor);la concitazione e il movimento rapido (festinare, maturare, effundere, erumpere,ruere) che sconfina nella violenza distruttrice (vis è parola assai cara a Sallustio).Ma il senso del movimento incessante – quella immortalis velocitas che Quintilianoriconosceva a Sallustio – è dato, oltre che dal lessico, dai procedimenti sintatticisopra ricordati, in particolare dall’uso dell’infinito storico. E ancora più dalla para-tassi, che obbedisce anche a «un’intenzione di oggettività nuda, bruta, gettata din-nanzi al lettore prima che il pensiero ne interpreti le relazioni» (A. La Penna).Ma questa oggettività (cui concorre non poco la preferenza dell’indicativo nellesubordinate) non riesce a controbilanciare i molti elementi di soggettività, evidentisoprattutto nel lessico per lo più valutativo (superbus, innocens, impudicus, immo-

I procedimenti arcaizzanti

Il linguaggio del pathos

L’immortalis velocitas

2. Novator verborum è definito Sallustio dal grammatico Valerio Probo, citato da Gellio (I15, 18).

3. Una definizione efficace dello stile di Sallustio si ha combinando i giudizi che ne diede-ro Quintiliano e Seneca. Il primo parla di abruptum sermonis genus (Inst. Or. IV 2, 45), ilsecondo di amputatae sententiae et verba ante exspectatum cadentia et obscura brevitas(Epist. 114, 17), «pensieri troncati, parole che arrivano prima di quando sono aspettate,concisione oscura».

Lessico valutativo e moralismo

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Pulchrum est bene facere rei publi-cae, etiam bene dicere haud absur-dum est; vel pace vel bello clarumfieri licet; et qui fecere, et qui factaaliorum scripsere, multi laudantur.

«Bello è il giovar bene oprando allapatria; bello altresì il ben dire: inpace come in guerra, fama si acqui-sta; e lode ottenne chi oprava e chigli altrui fatti scriveva».

B. C. 3, 1

… ferociam … animi quam habue-rat vivus in voltu retinens.

«… tuttavia nell’esangue volto rite-nea la prisca ferocia».

B. C. 61, 4

deratus, avaritia, malitia, flagitia, ignominia, depravo, corrumpo), proprio di un’inca-pacità – che fu di tutta la cultura latina – di superare i limiti del moralismo nell’indi-viduare le forze che governano la storia.

La fortunaI contemporanei lo giudicarono poco favorevolmente. Leneo lo definì «un ignoran-tissimo ladro di parole di Catone» e l’eccesso di arcaismo gli fu rimproverato anchedallo storico Asinio Pollione. Ma, per queste stesse ragioni, fu in gran voga quando,nell’età antoniniana, il gusto arcaizzante riprese vigore.Grande fu l’influenza di Sallustio sulla storiografia posteriore, che si colorò dei trat-ti dominanti della psicologia e del pessimismo morale. Livio ne subì la lezione com-binandola con il proprio fondamentale ciceronianesimo. Tacito lo reputò il maggiorstorico romano (rerum Romanarum florentissimus auctor) e ne imitò i procedimentidi stile. Fondamentale per la fortuna nei secoli fu il giudizio di Quintiliano, il qualene lodò la brevità (immortalem illam Sallustii velocitatem) e, considerandolo pari aTucidide e superiore a Livio, lo rese testo scolastico a tutti gli effetti: diffuso, com-mentato filologicamente e finanche – circostanza eccezionale per un autore roma-no – tradotto in greco, nell’età di Adriano.Destinato, per la concettosità, all’antologizzazione per estratti, Sallustio fu letto du-rante il Medioevo in tutta Europa, volgarizzato nei romanzi e nelle cronache comu-nali. In particolare il Bellum Catilinae – di cui nel Duecento Brunetto Latini pubblicauna scelta di passi in italiano e in francese – fornisce materiali alle favole di fonda-zione di Fiesole, Pistoia, Firenze, dove Catilina è l’eroe eponimo.Grande fu l’influenza di Sallustio, spesso combinata con quella di Tacito, sulla sto-riografia umanistica: in particolare è presente nel pensiero politico di LeonardoBruni ed è un modello a cui s’ispira il Poliziano nell’opuscolo sulla congiura deiPazzi. In particolare «il tema della congiura ritorna come un robusto inconfondibilefilo della storiografia moderna, e fintanto che il prestigio della forma dominerà sualtri interessi» (Luca Canali).Sallustio fu nel Settecento preromantico molto amato da Alfieri che, pur professan-dosi «debolissimo latinista», tradusse il Bellum Catilinae con «ostinata instancabilediligenza». L’influenza di Sallustio è evidente soprattutto nello stile tragico dell’Alfie-ri, che al pari dell’auctor latino, tende alla concisione esasperata, alla frantumazio-ne del periodo, all’espressione dura, carica di solennità e pathos. Nella traduzionedel Catilina Alfieri gareggia in brevitas con l’originale:

I contemporanei

Il Medioevo

L’Umanesimo

Il Preromanticismo

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C. Gaio Ottaviano nacque nel 63 a.C. Adottato da Cesare, fu console nel 43 a.C.,costituì il secondo triumvirato con Marco Antonio ed Emilio Lepido. Sconfitti i cesa-ricidi Bruto e Cassio e battuto il rivale Antonio ad Azio (31 a.C.), ottenne a Roma ilpotere assoluto, esercitandolo sotto una parvenza di legalità repubblicana (rifiutòsempre la dittatura e ricoprì le ordinarie magistrature repubblicane). Come riferisceSvetonio nella Vita di Augusto, Ottaviano scrisse opere sia in prosa sia in poesia:un libro in esametri sulla Sicilia, epigrammi, una tragedia intitolata Aiace che eglistesso distrusse, evidentemente scontento della propria opera.Sebbene non rappresentino una biografia vera e propria, rientrano in qualche mo-do in questo genere letterario le Res gestae divi Augusti, testamento politico e bi-lancio di governo dettato dall’imperatore all’età di 75 anni. Destinate ad essereesposte nel mausoleo dell’imperatore nel Campo Marzio, le Res gestae furono an-che riprodotte in numerose copie epigrafiche bilingui (in latino e in greco) nelle va-rie regioni dell’impero. Nella versione più completa – in 35 capitoli, rinvenuta adAncyra (Ankara) e perciò denominata Monumentum Ancyranum – leggiamo la ras-segna delle imprese militari vittoriose di Augusto imperator e pater patriae, deglionori tributatigli dal popolo e dal senato, delle distribuzioni in denaro e frumentofatte alla plebe, degli spettacoli da lui finanziati: è spesso sottolineato il carattere«privato» dei donativi, che non gravavano sulle casse pubbliche (ricorrono le for-mule privato consilio, privata impensa). L’intento autocelebrativo implica la selezio-ne tendenziosa delle res gestae, ad esempio l’omissione di gravi sconfitte comequella subita da Varo nel 9 d.C. nella selva di Teotoburgo. Pur nell’intento apologetico, questo monumento funebre e manifesto del regimeaugusteo è, per il suo carattere ufficiale, depurato degli elementi troppo scoperta-mente autocelebrativi. Questi elementi volti a creare un alone carismatico (prodigi,presagi, sogni che accompagnavano l’ascesa al potere del protagonista) probabil-mente non mancavano nei Commentarii de vita sua, che Augusto scrisse personal-mente e di cui restano pochi frammenti.Frequenti sono i punti in cui Augusto sottolinea il proprio impegno nel rigenerare icostumi sulla base del mos maiorum, nel restaurare le vetuste tradizioni romane,anche ricoprendo personalmente le più arcaiche cariche sacerdotali: «Fui ponteficemassimo, augure, quindecemviro addetto ai sacri riti, settemviro epulone, fratelloarvale, sodale Tizio e Feziale» (7, 1). Ma su questo versante i successi dell’impera-tore furono modesti: «Ciò che le Res gestae non poterono affermare, perché in ef-fetti non vi fu, è la vittoria ideale del principato. L’ideologia dello stoicismo passò al-l’oligarchia senatoria come arma nella lotta contro gli imperatori; il mos maiorum,fondato su una rude purezza, fu calpestato nell’ambito della stessa famiglia augu-stea, né poté divenire il “costume” di ceti ricchi in cerca di raffinatezze e sensazio-ni; il “secolo d’oro” fu problematicamente cantato da Virgilio e da Orazio, ma gli ele-giaci Tibullo e Properzio e il versatile Ovidio erano già fuori dalla severa concezio-ne augustea della vita. Ben presto, salvo rare eccezioni, la letteratura sarebbe sta-ta all’opposizione, da Seneca a Lucano, a Petronio e Tacito. L’unica grande sconfit-ta di Augusto fu il fallimento di un’auspicata leadership ideale e morale della mo-narchia da lui instaurata»1.

Le Res gestae di Augusto

Le Res gestae di Augusto

La vita

Il «manifesto» del regimeaugusteo

Il recupero del mos maiorum

1. L. Canali, Res gestae divi Augusti, Editori riuniti, Roma 1982, p. 16.

Gemma Augustea (10 d.C. cir-ca). Augusto in trono accantoalla dea Roma, incoronato daOikoumene (il mondo); da sini-stra, Tiberio che scende dal car-ro della Vittoria e Germanico inpiedi. Vienna KunsthistorischesMuseum.

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Lo stile atticista (vedi p. 207) è asciutto, conciso e lapidario, il periodare semplicema efficace. È evitato, per usare le parole di Augusto stesso, il «fetore delle paroledisusate». Quanto al genere cui le Res gestae apparterrebbero, vale per quest’o-pera ciò che è vero per tutta la letteratura augustea, nella quale i confini tra i gene-ri diventano quanto mai incerti. Canali ammette la parziale validità di tutte le inter-pretazioni proposte: dall’elogio funebre al resoconto di gesta (Index secondo la de-finizione di Svetonio), dal testamento politico all’autobiografia trionfale confrontabi-le con le iscrizioni rupestri dei sovrani orientali (premessa della loro apoteosi). Tut-tavia i modelli privilegiati dovettero essere gli antichi elogia dei grandi romani (vedipp. 7 ss.) e i commentari di Cesare.

Stile e genere

L’auctoritas, fulcro del potere monarchico. Nel passo che proponiamo è messo a fuoco con grande lucidità il signifi-cato rivoluzionario della propria assunzione del titolo di Augustus (nel 27 a.C.). Il termine – linguisticamente connessocon augere («accrescere»), auctor, augur (il sacerdote che traeva gli auspici) – rinvia alla sfera sacrale e significa «ve-nerabile», «santo». Alla radice di Augustus si lega anche auctoritas, che indica il fondamento e la leggittimità della nuo-va monarchia, l’origine di tutte le prerogative del principe. L’auctoritas indica un potere di fatto, basato sul prestigio e sulcarisma personali, quindi non riconducibile a quello derivante dalla carica ricoperta (potestas). L’investitura sancisce lasuperiorità di Ottaviano (auctoritate omnibus praestiti), pur senza avergli conferito alcun potere istituzione in più rispettoalle magistrature ordinarie.

Nel mio sesto e settimo consolato, dopo che ebbi estinto le guerre civili, assunto per universale consenso(per consensum universorum) il controllo di tutti gli affari dello stato, trasmisi il governo della repubblicadal mio potere (potestate) alla libera volontà del senato e del popolo romano. Per questa mia benemerenza,con decreto del senato ebbi l’appellativo di Augusto, la porta della mia casa fu pubblicamente ornata di al-loro, e sull’entrata fu affissa una corona civica; nella curia Giulia fu posto uno scudo d’oro con una iscri-zione attestante che esso mi veniva offerto dal senato e dal popolo romano in riconoscimento del mio valo-re, della mia clemenza, della mia giustizia e pietà. Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità (auctori-tate), sebbene non avessi maggior potere (potestatis) di tutti gli altri che furono miei colleghi in ciascunamagistratura.

(34, trad. di L. Canali)

Monumentum Ancyranum. Ankara, Tempio di Roma e di Augusto.

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La vitaScarse le notizie sulla vita di Tito Livio, che attingiamo soprattutto dal Chronicon diGirolamo. Nacque nel 59 a.C. da famiglia, a quel che si presume dalla possibilità didedicare tutta la sua vita all’attività letteraria, di condizione agiata, nella Gallia Ci-salpina, a Padova, cittadina in cui i costumi, a confronto di quelli di Roma, dove di-lagavano dissolutezza e corruzione, si conservavano puri e severi. In questo am-biente conservatore egli visse gran parte della sua vita e si formarono i suoi idealietici e politici. Lo sappiamo a Roma per un certo tempo dove fu a contatto con ipersonaggi più autorevoli; strinse amicizia anche con lo stesso Augusto, del quale,senza ombra di adulazione, ebbe a dire che aveva restituito la pace all’impero esedato le discordie interne (cfr. Liv. I 19, 3; modo sit perpetuus huius, qua vivimuspacis amor et civilis cura concordiae «purché sia eterno l’amore per questa pacenella quale viviamo e la cura della concordia fra i cittadini» IX 19, 17). Da Tacito(Ann. IV 34) sappiamo che lodò a tal punto Gneo Pompeo che Augusto scherzosa-mente lo chiamava Pompeianus, mentre verso la politica di Cesare, di cui Ottavia-no amava presentarsi come continuatore, espresse un giudizio negativo afferman-do che era dubbio se fosse stato più utile o dannoso alla patria (in incerto esseutrum illum nasci magis rei publicae profuerit, an non nasci).Durante la sua giovinezza si dedicò agli studi di filosofia e di retorica e compose al-cuni dialoghi di argomento storico-filosofico, affini ai logistorici di Varrone. Cominciòa scrivere la sua monumentale opera storica tra il 27 e il 25 a.C., ma non poté con-durla a termine perché lo colse la morte a Padova nel 17 d.C.

L’operaL’opera di Livio Ab urbe condita libri abbracciava oltre sette secoli di storia, dalleorigini di Roma, 754 a.C., fino alla morte di Druso, 9 a.C. Essa era divisa in 142 li-bri, che lo scrittore pubblicò volta per volta in gruppi di cinque o di dieci libri. A noisono giunti soltanto 35 libri: la prima deca, libri I-X, dalla fondazione di Roma finoalla III guerra sannitica (293 a.C.); la terza deca, libri XXI-XXX, seconda guerra pu-nica (218-202 a.C.); la quarta deca, libri XXXI-XL, vicende dal 201 alla morte di Fi-lippo V di Macedonia (179 a.C.); metà della quinta deca, con varie lacune: libri XLI-XLV, avvenimenti dal 178 a.C. fino alla vittoria del console Lucio Emilio Paolo a Pid-na nel 167 a.C. Di tutti i 142 libri, ad eccezione del CXXXVI e del CXXXVII, posse-diamo brevi sommari, periochae, compilazioni scolastiche di scarso valore redattenei primi secoli dell’impero (forse fra il III e il IV) da autore ignoto, probabilmente suprecedenti epitomi.

La concezione storiograficaI criteri storiografici ai quali Livio si attenne sono quelli peculiari degli annalisti ro-mani, ma solo esteriormente, dal momento che egli, intendendo dare ai Romani«non tanto il documento preciso della loro storia, quanto il monumento glorioso delloro passato», seguì l’onda commossa dei suoi stati d’animo. Non seguì quindil’impianto monografico dell’opera storica di Sallustio, dal quale tuttavia derivò sug-gerimenti vitali: l’esposizione letteraria dei discorsi fittizi, che personaggi celebripronunciano in momenti particolarmente significativi della vicenda storica, i proemi,

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Criteri storiografici

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che ci illuminano sulla sua concezione storiografica, i ritratti di uomini illustri, rapi-damente sbozzati. Racconto storico, quello liviano, caratterizzato dalla sua teoria eroica della potenzadi Roma, non privo di accenti pessimistici soprattutto nella considerazione dellarealtà contemporanea e nella accorata previsione dell’incombente decadenza deicostumi romani, dopo gli esempi luminosi di probità, di sacrificio, di eroismo deicittadini antichi. Storia dunque magistra vitae, storia di un popolo maestro di mora-lità, a cui dovevano guardare, come a modello da imitare, non solo i singoli indivi-dui, ma anche gli stati che intendessero consolidarsi e prosperare.

Le fontiSe ai nostri occhi lo storico è colui che consulta documenti ed archivi e da essi traemateriale per la sua opera, nella quale essenziali risultano il lavoro di verifica, quel-lo di vaglio e di critica che egli conduce, pochi furono fra gli scrittori antichi gli stori-ci e Livio non fu fra essi. Si consideri d’altronde con quali finalità era nata la storiaromana (propaganda politica) e qual era per molti letterati antichi la considerazionedel genere storiografico (opus oratorium): dunque Livio fu uno storico dei suoi tem-pi, un narratore di storie, diremmo noi, a cui non si può riconoscere il rigore scien-tifico secondo noi necessario ad un vero storico. L’elemento che induce a questa ri-flessione è innanzitutto il fatto che Livio non ricercò per la sua narrazione più testimettendoli a confronto, ma si limitò per lo più ad uno solo utilizzandone qualche al-tro solo per conferma; e, quand’anche vi fosse discordanza fra i testi presi in esa-me, egli non procedeva nella ricerca della verità, magari attraverso documenti, néproponeva una sua ricostruzione dei fatti, ma si limitava per lo più a segnalare talediscrepanza senza prendere posizione. Inoltre non sottopose a vaglio critico le fon-ti, quasi esclusivamente letterarie, ma riportò i fatti ivi narrati così come erano statipresentati. Fonti per la sua opera furono gli annalisti (Fabio Pittore, Cincio Alimentoe i più recenti Valerio Anziate, Licinio Macro, Claudio Quadrigario) soprattutto perla I deca, per la III Celio Antipatro e Polibio che utilizzò anche per i libri XXXI-XL;soltanto per la storia più recente, per la quale dovevano scarseggiare fonti lettera-rie, dovette ricorrere a documenti ufficiali.Livio però ebbe la piena consapevolezza dei limiti e delle difficoltà immanenti nell’in-dagine storica e la coscienza della relatività della ricostruzione di avvenimenti di unlontano passato; tuttavia bisogna riconoscergli notevole obiettività nel giudicare vi-cende importanti come quelle delle lotte fra patrizi e plebei perché, se è vero cheegli mostrò propensione per la causa degli ottimati, non rivelò mai malanimo precon-cetto nei riguardi della plebe, e, se fu tradizionalista e conservatore nella sua visionedella storia, manifestò anche, apertamente, la sua inclinazione alla libertà civile epolitica, incompatibile con la servitù e con la licenza, nelle quali suole cadere la mol-titudine abbandonata a se stessa: ea natura multitudo est aut servit humiliter aut su-perbe dominatur. Perciò le accuse rivolte a Livio di scarso rigore scientifico non ap-paiono adeguate, perché bisogna tener conto del carattere artistico del suo raccontostorico, che lo portava a drammatizzare gli avvenimenti e a presentare i personaggiin una luce di vita e di umanità, e che talvolta gli impediva di attenersi scrupolosa-mente a quei rigidi canoni storiografici di aderenza alla realtà obiettiva, di imparziali-tà e serenità di giudizio che gli valsero la definizione di candidus da parte degli auto-ri antichi e, in particolare da parte di Tacito, quella di fidei praeclarus in primis.

Teoria eroica della potenza di Roma

La storia come opus oratorium

Una visione obiettiva

223Livio

Il lessico

Il periodo

I discorsi

Drammatizzazione dellastoria

Patavinitas

Lo stileI maggiori storici di età repubblicana, Cesare e Sallustio, avevano partecipato atti-vamente alla vita politica di Roma ed avevano fatto rifluire nelle loro opere, seppu-re diversamente, la propria esperienza personale. Livio invece, che non ricoprì maicariche pubbliche, fu uno storico letterato.Da Cicerone, a cui guardava come al modello stilistico da imitare (ci narra Quinti-liano che al figlio consigliava, per lo stile oratorio, la lettura di Cicerone e Demoste-ne) egli ereditò la concezione dell’opera storica come opus oratorium maxime; co-sì, diversamente da Sallustio, amante di un periodare conciso, adottò uno stile pia-no e scorrevole che gli valse da parte di Quintiliano la definizione di lactea ubertasad indicare la ricchezza e la piacevolezza del linguaggio in contrapposizione con labrevitas dello stile di Sallustio (senza peraltro implicare per questo un giudizio disuperiorità del primo rispetto al secondo).Il lessico liviano talora si avvicina al linguaggio familiare (ci si avvia d’altronde ver-so la letteratura d’età imperiale), talora è ricco di parole arcaiche e poetiche che ri-cordano da vicino Ennio. D’altra parte lo stesso Cicerone, che sconsigliava il ricor-so a tali parole per l’oratoria, lo ammetteva per adornare anche un discorso in pro-sa (De or. III 38, 153).Tali arcaismi abbondano in particolare nella prima deca, forse anche per il tipo difonti alle quali Livio ricorse per essa, in cui doveva trovare leggende, formule di ca-rattere giuridico e religioso che egli dovette riprendere nella sua opera; non ne so-no però privi neppure gli altri libri in cui vengono utilizzati per dare un colore epicoalla narrazione e concorrono a determinare un tono solenne.Il periodare di Livio è talvolta semplice ed essenziale, ma per lo più ampio e riccodi subordinate, non privo di ornamenti retorici, come d’altronde richiedeva un opusoratorium; tuttavia non presenta preziosismi che rendano barocco il suo stile.Particolarmente accurata risulta dal punto di vista retorico la costruzione deidiscorsi in bocca ai personaggi della sua storia; essi furono ammirati fin dall’anti-chità per la loro capacità di render conto ad un tempo della situazione e dello statod’animo di chi li pronunciava.Il suo modo di render viva la storia, di «drammatizzare» gli avvenimenti narrati nonraggiunge comunque la forza di un pathos intenso ed acceso come quello sallu-stiano; è questo uno degli aspetti in cui Livio si distingue da Sallustio: raggiungeun’armonia che contempera in un difficile equilibrio gravitas e intensità emotiva. Intal modo egli fornisce un modello di stile diverso da quello sallustiano, ma non me-no apprezzato.Riguarda forse lo stile, ma non ne abbiamo certezza, l’accusa di patavinitas («pa-dovanità») rivoltagli da Asinio Pollione. Dal brano di Quintiliano in cui ne abbiamotestimonianza essa sembra far riferimento all’uso di forme di espressione intinte diprovincialismo dialettale (noi comunque non siamo in grado di individuarle), ma c’èchi ritiene (Ronald Syme), considerando che spesso per l’autore antico lo stile ri-fletteva una dimensione anche di contenuto, che l’accusa riguardasse la sua con-cezione della storia eccessivamente moralistica.

La fortunaNumquamne legisti gaditanum quemdam, Titi Livi nomine gloriaque commotum, advisendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse, statimque, ut viderat, abiisse?

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«Non hai mai letto di un tale di Cadice che, spinto dal nome e dalla fama di Tito Li-vio, venne dalla parte più lontana della terra per vederlo e, appena l’ebbe visto, su-bito ripartì?» Questo episodio narrato da Plinio il Giovane (Epist. 2, 3, 8) rivela chegrande era la fama di Livio quando egli era ancora in vita. Gli autori del I secolo con-cordemente gli riconoscevano valore di storico e di artista cosicché attinsero allasua opera sia storici che poeti come Lucano e Silio Italico. Per la sua ampiezza lalettura integrale dell’opera però non era agevole e presto, già al tempo di Tiberio, co-me ci testimonia Marziale (14, 190), ne furono fatte epitomi da cui derivano numero-si storici di età imperiale. Queste da un lato portarono alla conoscenza degli avveni-menti narrati da Livio, dall’altra però, sentendosi sempre meno il bisogno di ricorrereall’originale, ne favorirono la perdita, facilitata anche dalla divisione in deche.I numerosi codici medioevali, soprattutto della I deca, testimoniano la fortuna di Li-vio in questo periodo. La sua fama è riflessa nel verso di Dante «Livio che non er-ra» (Inf. 28, 12), anche se non è certa da parte del nostro poeta una conoscenzadiretta dello storico patavino. Comunque a lui ricorse Dante per le prove della san-tità dell’impero romano, emanazione del volere divino nel De monarchia». OltreDante ricevettero suggestioni da Livio Arnaldo da Brescia, che all’inizio del XII se-colo istituì un governo che si ispirava alla repubblica romana, e più tardi Cola di Ri-enzo che nella prima metà del XIV secolo vagheggiò la restaurazione dell’anticagloria di Roma.Da Livio trasse ispirazione per la sua Africa il Petrarca, che dallo storico romano ri-prese episodi come quello di Magone morente e quello di Sofonisba e Massinissache, dopo il Petrarca, divenne argomento per i poeti drammatici, a cominciare dalTrissino.In epoca umanistica dunque Livio diventò uno degli autori più ammirati. I libri per-duti vennero cercati con grande zelo e passione, ma inutilmente; soltanto verso lametà del Cinquecento furono ritrovati i libri XLI-XLV. L’opera di Livio fu oggetto distudio per Machiavelli, che scrisse i Discorsi sopra la I deca di Tito Livio da cui de-rivò considerazioni sulle leggi politiche necessarie per governare una repubblica.Gli studi condotti su Livio in età moderna hanno visto un duplice atteggiamento: diriconoscimento delle sue doti di artista, e di svalutazione della sua opera di storico.Il secondo vede in tempi più recenti, anche se in varia misura, una rivalutazione diLivio come storico e alla sua opera viene riconosciuta quella veridicità, in particola-re nella tradizione antica da lui tramandata, negatagli.

Il Medioevo

Umanesimo e Rinascimento

Età moderna e contemporanea

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I 17 libri di Historiae di Asinio Pollione, luogotenente di Cesare, partono dal 60 a.C.– anno del primo triumvirato giudicato come l’inizio del processo che porterà allamorte della repubblica – per arrivare almeno sino a Filippi (42 a.C.). Si trattava di«un periodo irto di rischi», come ebbe a definirlo Orazio in un’ode (II 1, 6) in cui sa-lutava l’inizio dell’opera di Pollione. Le Historiae, di cui restano pochi frammenti (fracui quello della morte di Cicerone), erano attente agli aspetti tralasciati nei Com-mentarii di Cesare – ad esempio documentano i particolari del passaggio del Rubi-cone, quando fu pronunciata la famosa frase alea iacta est. Lo stile era sobrio, uni-formato ai modelli dell’atticismo, come si può desumere anche dai giudizi negativiche Pollione assegna a Sallustio e a Livio, rimproverando al primo l’eccesso di ar-caismi e l’oscurità, al secondo la patavinitas (le tracce di provincialismo padovano)e l’enfasi patriottica. Pollione svolse inoltre un’intensa l’attività di promotore di iniziative culturali impor-tanti (biblioteche, impulso alle recitationes, ecc.). Poco allineate con l’ideologia augustea – virgiliana e liviana – della centralità di Ro-ma sono le Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, originario della Gallia Narbone-se e attivo come scrittore nell’ultimo periodo augusteo. Dell’opera, in 44 libri e il cuititolo riecheggia i Philippikà di Teopompo, restano i sommari dell’autore (prologi),pochi frammenti e l’epitome di Giustino (III sec. d.C.). Si tratta di una storia univer-sale, nella quale la narrazione delle vicende macedoni era preceduta dai capitolirelativi ai precedenti regni degli Assiri, dei Medi, dei Persiani, dei Greci, con digres-sioni su Cartagine, le tribù celtiche, i Parti. Il concetto informatore della storiografiadi Trogo era quello di un perenne avvicendarsi di imperi «universali», necessaria-mente effimeri. Tale carattere di transitorietà avrebbe avuto inevitabilmente anchela dominazione di Roma, ora caput totius mundi secondo le stesse parole di Trogo,ma in prospettiva di medio periodo destinata a lasciare il posto ad altri imperi. Ecomunque a Roma lo storico gallico dedicava gli ultimi due libri, mentre le vicendedella Macedonia ne occupavano ben trentatré. La visione non romanocentrica, senon proprio antiromana – tra le fonti di Trogo figurava il contemporaneo Teagene diAlessandria, storico ostile a Roma – fa sì che le Historiae Philippicae rappresenti-no l’antitesi della storiografia nazionale e patriottica liviana. La concezione univer-salistica e la marginalità di Roma spiegano anche l’impostazione erododea el’interesse etnografico in quest’opera, che divenne fonte di notizie per gli autori se-guenti. Se le Storie di Trogo ebbero, almeno nell’epitome di Giustino, grande fortuna nelMedioevo, in età augustea per il carattere non allineato furono avvolte nel silenzio.Ben peggiore sorte toccò all’opera storica di Tito Labieno, che sul finire del princi-pato augusteo fu con decreto imperiale destinata al rogo. A quest’atto di intolleran-za del regime l’autore reagì suicidandosi nel 12 d.C. sulla tomba degli antenati, te-stimoniando la propria appartenenza a una tradizione etico-politica repubblicana,che si andava rivelando inconciliabile col principato. L’opera di Labieno (sopranno-minato Rabienus per l’acre vena polemica), i cui contenuti erano evidentemented’opposizione al regime, diviene emblematica del divorzio tra letteratura e impero einaugura la storiografia d’opposizione senatoria contraria al principato. Pochi annidopo, sotto Tiberio, agli Annales di Cremuzio Cordo sarà riservata la stessa sorte(anche se l’opera riuscì fortunosamente a salvarsi dal rogo) e l’autore si suicidò.

Storici minori: Asinio Pollione, Pompeo Trogo, Tito Labieno

Storici minori: Asinio Pollione, Pompeo Trogo, Tito Labieno

Asinio Pollione

Pompeo Trogo

Tito Labieno e l’inizio della storiografia senatoria