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Riflessioni su storiografia e romanzo in prospettiva novecentesca Massimo Legnani La discussione che si è sviluppata sul revival della storia narrativa può scuotere la reciproca indiffe- renza tra storiografia e romanzo, instauratasi in se- guito a processi interpretati come divergenti, ini- ziati con l’eclissi del romanzo di ascendenza otto- centesca e l’affermarsi della storiografia come ana- lisi delle strutture del passato? Per rispondere alla domanda l’autore analizza il dibattito, maturato tra gli storici dagli anni cinquanta, su storiografia e ro- manzo (e in particolare sul rapporto tra storia nar- rativa e romanzo, sulle implicazioni teoriche del ri- corso al romanzo come fonte per la storia o sul ro- manzo come unica storia possibile), in seguito al- l’esaurirsi di esperienze come quelle delle “Anna- les” e della storiografia marxista, da cui emerge, a suo avviso, la palese riluttanza a misurarsi con la costruzione romanzesca nella sua interezza. Egli passa perciò sinteticamente in rassegna alcune del- le principali riflessioni dei teorici del romanzo a partire dagli anni venti e trenta per concludere che le evoluzioni del genere sono leggibili solo all’in- temo di un percorso di storia della cultura in cui vengano connesse alla caduta di fede nella scienti- ficità e nell’efficacia politica della letteratura. Una sfiducia che è anche alla base del più recente ac- centuarsi, nella storiografia, dell’impianto narrati- vo, visto come adesione alla supposta singolarità e dunque irripetibilità di ogni accadimento storico. La categoria della dicotomia tra tempo esterno e tempo interno, pur essendo un buon punto di par- tenza, è dunque troppo rozza per guidare alla com- prensione della rottura nei rapporti tra le due aree e perciò a un suo possibile superamento. Gli storici dovrebbero perciò reimpostare il problema e, avva- lendosi dei contributi provenienti da altri studiosi (teorici della letteratura, filosofi, linguisti), porsi il quesito “di che cosa fabbrichi lo storico quando di- venta scrittore”, (p.r.) Can the recent debate on the revival of narrative history possibly shake the mutual indifference of historiography and the novel, an heritage of both the decline of the Nineteenth century novel and the parallel rise ofhistoriography as an analysis of the structures of the past? The A. tackles this question by examining the discussion arisen among histo- rians during the Fifties, focusing in particular the relationship between narrative history and the no- vel, as well as the theoretical implications of the resort to the novel as a kind of historical source or even as the sole possible history all issues so- meway connected with the exhaustion of such ex- periences as the “Anuales" and the marxist school, which proved manifestly reluctant to cope with the novel pattern in its full extension. A synthetic sur- vey of several major theories developed since the Twenties about the novel leads to the conclusion that the evolution of this literary genre can be un- derstood only along a path of cultural history marked by the loss offaith in scientific thought and in the political efficacy of literature. A similar lack of confidence underlies the more recent emphasis placed upon the narrative pattern, seen by the A. as a recognition of the supposed singularity and therefore uniqueness of each historical event. The category of the dichotomy between internal and ex- ternal time, although a good starting point, ap- pears to rough to help understand the existing split between the two areas and thus lead to its possi- ble overcoming. Historians should therefore reset the question and, profiting from the contributions by other scholars (literature theoreticians, philo- sophers, and linguists), deal with the problem of “what the historian does produce on becoming a writer". ‘Italia contemporanea”, dicembre 1998, n. 213

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Riflessioni su storiografia e romanzo in prospettiva novecentescaMassimo Legnani

La discussione che si è sviluppata sul revival della storia narrativa può scuotere la reciproca indiffe­renza tra storiografia e romanzo, instauratasi in se­guito a processi interpretati come divergenti, ini­ziati con l’eclissi del romanzo di ascendenza otto­centesca e l’affermarsi della storiografia come ana­lisi delle strutture del passato? Per rispondere alla domanda l’autore analizza il dibattito, maturato tra gli storici dagli anni cinquanta, su storiografia e ro­manzo (e in particolare sul rapporto tra storia nar­rativa e romanzo, sulle implicazioni teoriche del ri­corso al romanzo come fonte per la storia o sul ro­manzo come unica storia possibile), in seguito al- l’esaurirsi di esperienze come quelle delle “Anna- les” e della storiografia marxista, da cui emerge, a suo avviso, la palese riluttanza a misurarsi con la costruzione romanzesca nella sua interezza. Egli passa perciò sinteticamente in rassegna alcune del­le principali riflessioni dei teorici del romanzo a partire dagli anni venti e trenta per concludere che le evoluzioni del genere sono leggibili solo all’in- temo di un percorso di storia della cultura in cui vengano connesse alla caduta di fede nella scienti­ficità e nell’efficacia politica della letteratura. Una sfiducia che è anche alla base del più recente ac­centuarsi, nella storiografia, dell’impianto narrati­vo, visto come adesione alla supposta singolarità e dunque irripetibilità di ogni accadimento storico. La categoria della dicotomia tra tempo esterno e tempo interno, pur essendo un buon punto di par­tenza, è dunque troppo rozza per guidare alla com­prensione della rottura nei rapporti tra le due aree e perciò a un suo possibile superamento. Gli storici dovrebbero perciò reimpostare il problema e, avva­lendosi dei contributi provenienti da altri studiosi (teorici della letteratura, filosofi, linguisti), porsi il quesito “di che cosa fabbrichi lo storico quando di­venta scrittore”, (p.r.)

Can the recent debate on the revival o f narrative history possibly shake the mutual indifference o f historiography and the novel, an heritage o f both the decline o f the Nineteenth century novel and the parallel rise o f historiography as an analysis o f the structures o f the past? The A. tackles this question by examining the discussion arisen among histo­rians during the Fifties, focusing in particular the relationship between narrative history and the no­vel, as well as the theoretical implications o f the resort to the novel as a kind o f historical source or even as the sole possible history — all issues so­meway connected with the exhaustion o f such ex­periences as the “Anuales" and the marxist school, which proved manifestly reluctant to cope with the novel pattern in its fu ll extension. A synthetic sur­vey o f several major theories developed since the Twenties about the novel leads to the conclusion that the evolution o f this literary genre can be un­derstood only along a path o f cultural history marked by the loss o f faith in scientific thought and in the political efficacy o f literature. A similar lack o f confidence underlies the more recent emphasis placed upon the narrative pattern, seen by the A. as a recognition o f the supposed singularity and therefore uniqueness o f each historical event. The category o f the dichotomy between internal and ex­ternal time, although a good starting point, ap­pears to rough to help understand the existing split between the two areas and thus lead to its possi­ble overcoming. Historians should therefore reset the question and, profiting from the contributions by other scholars (literature theoreticians, philo­sophers, and linguists), deal with the problem o f “what the historian does produce on becoming a writer".

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Il discorso può avviarsi ponendo in epigrafe un ricordo di Louis Chevalier, lo studioso che ha in­dagato su “classes labourieuses et classes dan- gereuses” nella Parigi della rivoluzione indu­striale filtrando le fonti demografiche attraverso i romanzi di Balzac1.

Quando cominciai ad occuparmi di storia — ha scrit­to Chevalier rievocando il clima accademico france­se tra le due guerre — le relazioni tra la storia e la let­teratura, o meglio più concretamente tra gli storici e quelli che venivano chiamati letterati, gli specialisti cioè di storia letteraria, erano di cortese indifferenza: con una punta di condiscendenza un po’ sdegnosa da parte dei letterati nei confronti degli storici, general­mente considerati dai primi una categoria inferiore; e con un pizzico di insofferenza, di gelosia e di ostilità da parte degli storici verso i letterati.

Con gli adattamenti d ’obbligo, la constatazione è estendibile ad altri paesi e ad altre culture; e dilatabile fino al presente2. Non senza rilevare peraltro una modificazione significativa. Il con­solidamento e gli sviluppi che la professione sto­riografica ha conosciuto intorno alla metà del Novecento sembrano aver riequilibrato a van­taggio degli storici quell’“indifferenza” cui al­lude Chevalier. Ma se ciò è vero a livello della istituzionalizzazione delle carriere, lo è assai me­no per le relazioni scientifiche tra i due territori disciplinari, relazioni tuttora caratterizzate da una reciproca, tenace impermeabilità. La forbi­ce si è anzi allargata per effetto di processi ge­neralmente interpretati come divergenti: l ’ambi­zione degli storici a candidarsi ad analisti delle strutture del passato (con conseguente disaffe­zione per la storia-racconto) da un lato; l ’eclis­si della forma romanzo di ascendenza ottocen­tesca, l ’irruzione delle nuove teorie letterarie, nonché i dubbi crescenti sulla fattibilità stessa della storia letteraria dall’altro. La manualistica ad alto livello (se è lecito assumerla come spec­

chio medio del contesto culturale) riflette que­sto stato di sostanziale separazione. A fianco, e a dispetto, dei reiterati omaggi alla interdisci- plinarietà, non è infrequente l’allinearsi di una produzione storica e letteraria i cui vicendevoli imprestiti hanno carattere del tutto estrinseco. Gli studiosi di letteratura rinunciano mal volen­tieri a qualche più o meno convenzionale rinvio allo sfondo storico, gli storici ricorrono spesso alla letteratura per impreziosire una costruzione le cui coordinate prescindono interamente da questi apporti. Il recente infittirsi degli interventi sul revival (se sia reale o presunto non è materia di queste pagine) della storia narrativa può con­tribuire a scuotere una condizione di vicendevo­le passività? Prima di azzardare una risposta che metta a frutto alcuni spunti del più recente di­battito, occorre almeno sfiorare due fattori che condizionano più da lontano la trattazione del­l’argomento.

Il primo dato scaturisce dal mercato editoria­le (e delle comunicazioni di massa). L’espan­sione dell’industria della storia trova nella sto­ria-racconto un canale di intuibile efficacia. Ma la constatazione, in sé troppo ovvia, trae alimento e significato dal diffondersi di modelli di narra­tiva letteraria che rovesciano la concezione tra­dizionale, ottocentesca del romanzo storico. Si guardi alla lussureggiante fioritura di biografie, che sottolinea esemplarmente le fortune com­merciali incrociate di storia e letteratura in una produzione che, pur facendo larghissimo spazio al consumo, non è sempre rubricabile sotto le in­segne della Trivialliteratur. Una produzione che da un lato, sul versante della storia, mette al ser­vizio della rievocazione/divulgazione un gene­re, come quello biografico, le cui capacità di per­suasione e suggestione sono largamente ancora­te, nel senso comune, al fatto di essere il conte­nitore privilegiato della dimensione romanzesca; dall’altro, sulle sponde della letteratura, fa ri-

Saggio comparso in I racconti di Clio, Pisa, Nistri-Lischi, 1989.1 Louis Chevalier, La letteratura, in II mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca - 2. Questioni di metodo, voi. II, Fi­renze, La Nuova Italia, 1983.2 Con eccezioni anche cospicue, ad esempio nella cultura storica polacca (cfr. Bronislaw Geremek e al., Testi letterari e co­noscenza storica, a cura di Francesco M. Cataluccio, Milano, Bruno Mondadori, 1986).

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corso alla storia non più come contrappunto (so­stegno e spiegazione) degli intenti pedagogici e civili della vicenda narrata, ma assume que- st’ultima come parametro dissacratorio; dimo­strazione, è stato osservato, del “non senso del­la storia” stessa3. Può essere ingannevole trarre troppe illazioni interpretative (se non altro per difetto di indagini specifiche) da questa con­fluenza, ma sembra fuori dubbio che essa si ri­connetta — anche con un ruolo di attiva ‘pro- pangadista’? — al diffondersi delle ideologie neoindividualistiche nelle culture occidentali de­gli anni ottanta4. In ogni caso l ’ampliarsi dei con­fini del mercato ridefinisce di fatto l’imposta­zione del rapporto autori-pubblico e una mag­giore attenzione alla sociologia dei lettori po­trebbe dirci, soprattutto nel caso delle biografie, sin dove i vari segmenti di consumatori sono tra di loro separati o ricomponibili in un percorso continuo (e, quindi, sin dove l’abito letterario sia un rivestimento necessario ad accrescere la com­mercializzazione del testo o, per converso, sin dove la storia sia un deposito di “trame” cui la scrittura narrativa si incarica di conferire signi­ficato).

Il secondo fattore è interno al lavoro storio­grafico, e pone in evidenza come gli approfon­dimenti degli ultimi anni in materia di storia nar­rativa, lungi dal segnare una soluzione di conti­nuità rispetto alle elaborazioni precedenti, rap­presentino semmai il punto terminale di un di­battito protrattosi per oltre un trentennio alle più diverse latitudini, dagli storici ai filosofi del lin­guaggio.

Il punto terminale e, forse, l ’esaurimento, se è vero che la fase che stiamo attraversando ap­pare caratterizzata non tanto da nuove formula­zioni, quanto da un più diretto contatto, manca­to in passato, tra gli storici e gli studiosi di al­tre discipline5, oltre che da una più convinta as­sunzione del problema in sede storiografica. Ciò può spiegare in parte perché l ’iniziale, netta con­trapposizione prò o contro la storia narrativa, prò o contro la storia delle strutture, abbia ce­duto progressivamente il passo ad atteggiamen­ti più sfumati, maggiormente legati alle espe­rienze di lavoro dei singoli studiosi piuttosto che ad orientamenti nettamente identificabili con scuole o correnti. Tale nuova situazione va tut­tavia letta soprattutto come indebolimento del fronte dei sostenitori della storia-problema: la prolungata disputa sul recupero dell’evento6 e la diaspora che su questo come su altri temi si è manifestata nella cerchia delle “Annales”7 (la più ostile, nel corso della ‘dittatura’ braudelia- na, a interrogarsi sulla funzione degli elementi narrativi del prodotto storiografico) costituisco­no i segni più evidenti del fatto che la ‘ripresa’ della storia narrativa sia più frutto delle diffi­coltà dei suoi interlocutori/oppositori che non la consapevole proposizione di soluzioni diverse e alternative rispetto al più recente passato. La teo­ria narrativista, forte soprattutto nell’area nor­damericana, e sostanzialmente sviluppatasi al di fuori del campo storiografico, sembra oggi in­contrare un’udienza — come accenneremo in seguito — direttamente collegata alle incertez­ze della storia.

3 Recensione di Benedetta Craveri a Gilles Lapouge, La battaglia di Wagram, “Tuttolibri”, 16 maggio 1987.4 Accenni in questo senso in Jürgen Kocka, Theory Orientation and thè New Quest for Narrative. Some Trends and Débats in West Germany, “Storia della storiografia”, 1986, n. 10.5 Una testimonianza particolarmente significativa di questo maggiore contatto è rappresentata dal volume: Pietro Rossi (a cu­ra di), La teoria della storiografia oggi, Milano, Il Saggiatore, 1983, che mette a confronto, fra gli altri, Arthur C. Danto, Hay- den White, Jerzy Topolski, François Furet, Gustav Faber, Wolfgang J. Mommsen e Reinhart Koselleck. Ad alcuni di questi contributi faremo cenno più avanti. Carattere tutto interno al campo storiografico ha avuto invece il colloquio organizzato dal­la Commissione per la storia della storiografia nell’ambito del XVI Congresso mondiale di scienze storiche (Stoccarda, 1985) e i cui atti sono parzialmente contenuti nel fascicolo di “Storia della storiografia” citato alla nota 4.6 Cfr. Mauro Moretti, Parlando di "eventi". Un aspetto del dibattito storiografico attorno alle “Annales" dal secondo dopo­guerra ad oggi, “Società e storia”, 1985, n. 28.7 Si vedano le considerazioni di Furet sul rapporto tra narrazione e storia della mentalità in P. Rossi (a cura di). La teorìa del­la storiografia oggi, cit.

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Rispetto all’ampia cornice ora richiamata, i confini del nostro discorso sono ristretti e parti­colari; essi tendono a recuperare quegli spunti che, nell’ambito della discussione sulla riscos­sa della storia-racconto, stabiliscono delle con­nessioni tra questa ‘riscoperta’ e la narrativa let­teraria. Un utile, e comodo, punto di partenza, è fornito dal noto saggio di Lawrence Stone8. In apertura (dopo aver ricordato che nel preceden­te mezzo secolo la “funzione narrativa” della sto­ria “aveva goduto di pessima fama tra coloro che si ritenevano all’avanguardia della professio­ne”), lo storico dell’aristocrazia inglese ha po­tuto affermare: “ora però intravedo segni di una corrente sotterranea che sta risucchiando vari eminenti ‘nuovi storici’ in qualche forma di nar­razione”. La cautela, peraltro non priva di iro­nia, dell’osservazione assumerebbe oggi, a qua­si un decennio di distanza, contorni quasi para­dossali: la “corrente sotterranea” si è infatti tra­sformata in un’onda di piena, e scorre a cielo aperto, come si conviene ai fenomeni che vo­gliono apparire, oltre che imponenti, rispettabi­li. Del resto Stone sembra in grado di arruolare preziosi alleati proprio al piano nobile della “nuova storia”. Nel 1980 infatti, e sia pure nel­la forma asistem atica di un libro-intervista, Georges Duby dichiarava di ritenere che “un li­bro di storia, che la storia, in ultima analisi, sia un genere letterario, un genere che ha a che fa­re con la letteratura d ’evasione”9. Il giudizio non sembra prestarsi a troppi equivoci (Gianni Vat­timo infatti ha recensito la traduzione italiana sotto il titolo II passato è romanzo10) tanto che Jacques Le Goff, che accusa di “ambiguità” l ’a­nalisi di Stone, si affanna a ridimensionare l ’af­

fermazione di Duby, ma è indotto a concludere, per la verità senza sprecarsi: “è dunque chiaro che l ’opera storica non è un’opera d ’arte come le altre, che il discorso ha una sua specificità”11. Siamo davvero lontani da quanto asseriva dieci anni prima Paul Veyne scrivendo che la storia è “null’altro che un racconto?”12. Ma, soprattut­to, quali relazioni intercorrono tra ritorno alla narrazione e rivalutazione della natura anche let­teraria del prodotto storiografico? Per Stone al­la base del primo fenomeno stanno i disinganni della storia quantitativa e però la rivincita nar­rativa non è inquadrata come una restaurazione, bensì ancorata al fiorire di nuovi interessi di stu­dio identificabili nella storia della mentalità. È in questo settore che lo storico inglese coglie gli aspetti a suo dire più nuovi; qui l ’attenzione, per riprendere la terminologia di Stone, toma a con­centrarsi sull ’uomo e ricaccia sullo sfondo le cir­costanze. I protagonisti della svolta non sono dunque i cultori tradizionali della storia politi­ca (incapaci di esprimersi se non ponendo in bel- l ’ordine i “fatti” e quindi subalterni ad una con­cezione puramente cronologica dell’impianto narrativo-esplicativo) bensì quelli dei ‘nuovi sto­rici’ che, nel loro sforzo di “capire cosa passas­se nella mente della gente del passato e cosa vo­lesse dire vivere nel passato”, ci “riportano ine­vitabilmente all’uso della narrazione”. “Inevita­bilmente”: il passaggio logico è un po’ sbrigati­vo e non appare del tutto chiaro sin dove l ’e­spunzione della storia politica dai nuovi modu­li narrativi scaturisca da un rifiuto dei contenu­ti che stanno al centro di quella produzione o piuttosto dal ritenere che 1’impianto narrativo ad essa corrispondente si presenti come pura con-

8 Lawrence Stone, The Revival of Narrative: Reflections on a New Old History, “Past and Present”, 1979, n. 85 [traduzione italiana in “Comunità”, 1981, con un’ampia e utile premessa di Renzo Zorzi]. Una “replica” è costituita da Eric J. Hobsbawn, The Revival of Narrative: Some Comments, “Past and Present”, 1980, n. 86.9 Georges Duby, Il sogno della storia, Milano, Garzanti, 1986 [ed. orig. 1980], p. 42.10 “La Stampa”, 28 agosto 1986.11 Jacques Le Goff, Storia, in Enciclopedia, voi. XIII, Torino, Enaudi, 1981. Le Goff consente sul fatto che il prodotto sto­riografico incorpori il racconto ma attribuisce a questa presenza una valenza puramente pedagogica, per dar conto del come prima di affrontare il perché.12 Paul Veyne, Come si scrive la storia, Bari, Laterza, 1973. Su Veyne e sul più recente dibattito molto utile Antonella Tarpi­no, Raccontare storie: la narrazione sul tempo nella storiografia, “Quaderni piacentini”, ns., 1984, n. 14.

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venzione e non come strumento espressivo. In ogni caso, il confine tracciato è davvero netto? Nella introduzione alla sua Storia della politica estera italiana Chabod aveva scritto:

so bene che molta parte della storiografia moderna di­sdegna l’uomo, come tale, e, confondendo i pettego­lezzi mondani con la ricostruzione morale e spiritua­le di una personalità, aborre dal cosiddetto psicologi­smo, per correr dietro alle dottrine pure, alle pure strut­ture e a quel portato di certa storiografia recentissima, alle tavole statistiche, le percentuali, le medie, i gra­fici [...] [in cui] [...] si vorrebbe racchiuso il segreto della storia.

Sono parole del 1951 e le distanze, non solo tem­porali, si colgono a colpo d ’occhio; non mi pare tuttavia che sia una forzatura rileggere la pagina di Chabod in termini analoghi alla premessa di Stone, di allarme per una ricostruzione/interpre- tazione del passato in cui le circostanze prevari­cano suIVuomo al punto di rendere quest’ultimo inintelleggibile.

Per la verità, a sostegno di una netta divarica­zione tra vecchia storia politica e nuova storia della mentalità, Stone compie un’incursione pro­prio nel campo delle tecniche narrative roman­zesche. Chiamando in causa una delle opere che colloca tra le più clamorose sconfessioni della storia quantitativa (benché il suo autore avesse proclamato alla fine degli anni sessanta che “la storia non quantificabile non può pretendere di essere scientifica” 13), il Mountaillou di Le Roy Ladurie, osserva che essa “non racconta una sto­ria lineare — anzi non c ’è una storia — ma vaga nella testa della gente”. E aggiunge: “non è un caso che proprio questo sia uno dei modi che dif­ferenziano il romanzo moderno da quello di epo­che precedenti”. E ancora: influenzati dalla psi­coanalisi e dall’antropologia

gli storici della mentalità raccontano la loro storia in modo diverso da Omero, da Dickens e da Balzac [...]. 11 *

Indagano con cautela sul subconscio [...] e cercano di rivelare, attraverso il comportamento, un significato simbolico.

Un ponte viene così gettato tra narrativa storio­grafica e narrativa romanzesca; ed è un ponte che, pur saldando sponde solo vagamente deli­neate (Omero, Dickens e Balzac visti come seg­menti continui di un interminabile passato), sem­bra autorizzare l ’ipotesi di un nuovo connubio tra storia e romanzo, che finalmente si ritrovano nei labirinti dell’inconscio dopo una lunga coa­bitazione ottocentesca all’insegna del realismo e del positivismo. La precisazione è rilevante poi­ché mette in discussione quell’asse Stone-Duby che sembrava prima delinearsi. Nel secondo, in­fatti, anziché di un interscambio tra storia e ro­manzo, si vagheggia di un ruolo alternativo. L’in­tervistatore di Duby, il filosofo Guy Lardreu, po­ne infatti il ruolo vicario della storia in apertura di libro:

oggi la letteratura, almeno in Francia, non racconta più nulla. [...] Per trovare una letteratura di qualità che racconti qualcosa bisogna leggere la Storia: è rimasta soltanto la Storia a parlarci di storie.E in tal modo che molti, oggi, leggono Duby: come uno scrittore, uno scrittore grandissimo, che produce un ‘effetto vita’ sul loro sgretolamento, sul loro spar­pagliamento14.

La storia che racconta e che, raccontando, adem­pie all’ufficio della letteratura oltre che al pro­prio. Siamo agli antipodi dell’accenno di Stone a Mountaillou come al prototipo, riprendiamo la citazione, di libro che “non racconta una storia lineare — anzi non c ’è una storia— ma vaga nel­la testa della gente”.

A fronte delle suggestioni del romanzo post­freudiano evocate da Stone, in Duby-Lardreu si erge l’eredità imponente della narrativa ottocen­tesca, la nostalgia — schiacciante — del grande romanzo, della sua inesorabile capacità di rac­

11 Emmanuel Le Roy Ladurie, Le frontiere dello storico, Roma-Bari, Laterza, 1976.14 G.Duby, Il sogno della storia, cit., p. 9.

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contare storie. Ricacciato dapprima nel passato, Balzac toma ad essere un modello esemplare, che la letteratura (ma non la storia), ha tradito. Ed è evidente che questa diversità non tocca so­lo la definizione del substrato che, nelle diverse aree culturali, concorre alla formazione dello sto­rico; essa investe direttamente la concezione stes­sa del lavoro storiografico, la sua codificazione disciplinare. Mentre Stone pone una connessio­ne tra storia e letteratura per individuare in qua­le misura il romanzo contemporaneo possa in­fluenzare il corso nuovo della storia narrativa, Duby, data per acquisita l’annessione della sto­ria ai generi letterari, è spinto piuttosto a chie­dersi quali siano i requisiti che fanno della sto­ria una “narrativa di tipo particolare”. La rispo­sta sta nella constatazione che lo storico è “ob­bligato a tener conto di un certo numero di cose che gli si impongono”; è dunque “trattenuto da una preoccupazione di veridicità... piuttosto, forse, che di realtà” e deve perciò insinuare la propria parte di immaginazione e di creazione aH’intemo di vincoli che la condizionano e la fil­trano. Il richiamo di Lardreu al Duby “scrittore” non contraddice dunque l’autoritratto che Duby delinea nell’intervista. Con la differenza che, se nel primo caso rim pianto narrativo viene valo­rizzato dalle rinunce della letteratura, nel secon­do si trasforma in una finalità primaria pur rice­vendo la propria legittimazione dalla veridicità dei contenuti.

A rendere più evidente la posizione di Duby può concorrere utilmente un intervento di Brau- del risalente al 198315. Secondo Braudel i recenti successi della storia narrativa non derivano dal “fallimento della storia scientifica”, bensì dal “fallimento della letteratura”. La latitanza del ro­manzo spinge i lettori a cercare un sostitutivo nel racconto storico. Non a caso Braudel enfatizza le fortune delle “vite romanzate” e, contestual­mente, protesta la propria invincibile riluttanza al genere biografico:

ho vissuto cinquant’anni accanto a Filippo II, comin­cio a comprenderlo, ma non oserei scrivere una bio­grafia, temendo di aggiungere al ritratto molti segni dovuti ai miei sentimenti e al mio modo di vedere le cose.

La replica, implicita, a Stone e Duby è chiara­mente leggibile. Nei confronti del primo si sot­tolineano le ragioni extrastoriografiche del ri­lancio della storia/racconto; verso il secondo le riserve hanno carattere più radicale, perché ri­guardano le basi stesse del discorso storico. E infatti Braudel torna a sottolineare che le ricer­che sulle mentalità non costituiscono “un setto­re a parte della storia”, ma “si inseriscono in un ambiente che le costringe”. Si noti la frequenza con cui ritorna, con significati alternativi, il con­cetto di costrizione: ora è quasi sinonimo di op­pressione, ora di architrave che regge l ’intero processo della conoscenza storica e della sua re­sa attraverso la scrittura. Simmetricamente — e, se vogliamo, un poco banalmente — la conti­guità della storia al romanzo è vista nel primo caso come integrazione e prolungamento della ricostruzione storiografica, nel secondo come tramite di degenerazione. N ell’intervista citata Braudel va però oltre la sottolineatura della nar­razione come discriminante tra le scuole storio­grafiche. L’accenno al “fallimento della lettera­tura” pone esplicitamente il problema dei desti­natari del libro di storia, di un pubblico il cui fa­vore per la storia/racconto viene senz’altro as­similato alla fruizione della narrazione storica come letteratura d ’evasione. Si può con sicu­rezza postulare una strategia di mercato che in­fluenza (quando non determina) la forma narra­tiva. Aggiunge Braudel in termini ancor più spe­cifici : “i maîtres à penser delle ‘Annales’ non lo hanno in genere dimenticato, e ciò contribuisce a spiegare la loro ‘schizofrenia’ tra statistiche e realizzazione narrativa”16. Con tali giudizi, tut­tavia, si resta pur sempre nell’ambito di un di­scorso sulle soluzioni tecniche atte ad accresce­

15 Femand Braudel, Dietro le quinte della storia, “Rinascita”, 29 aprile 1983.16 Luciano Canfora, Aspetti e problemi della narrazione storica, in II mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca - 2. Questioni di metodo, voi. I, Firenze, La Nuova Italia, 1983.

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re la circolazione del prodotto, laddove la que­stione copre probabilmente un ambito più vasto, investendo la sostanza stessa dei testi e, sulla scia di questa, la propensione del pubblico a ri­fugiarsi in una visione del passato che si risol­va, appunto, in “racconto”. Appare allora per­fettamente attuale, prescindendo da riferimenti specifici all’area delle “Annales”, l ’osservazio­ne sviluppata da Barraclough alla metà degli an­ni settanta, secondo la quale

la storiografia che abbellisce un racconto e ricava una morale è tuttora immensamente popolare, soprattutto se la morale è di quelle che, in qualsiasi società, la mag­gioranza della gente ama sentire. E per gli storici la tentazione di piegarsi a soddisfare queste inclinazioni è grande17.

Gli spunti sinora passati in rassegna comportano un confronto, implicito ed esplicito, sui dati co­stitutivi del genere storiografico. Altra e diversa è l’ottica che scaturisce dal ricorso alla narrativa romanzesca come fonte per la storia. Le espe­rienze di Chevalier (cui si è già alluso all’inizio di queste pagine) possono fornire un utile punto di riferimento per riflettere sul rapporto tra i ri­sultati empirici di questa pratica e il tentativo di trame delle implicazioni teoriche.

Anche Chevalier, come Duby-Lardreu, muo­ve in varia misura dal rimpianto del romanzo ot­tocentesco (a conferma del fatto che esso si ma­nifesta in m odo singolarm ente acuto, quasi ostentato, nell’area francese). Chevalier consi­dera di fatto esaurita, all’inizio del Novecento, la stagione della grande narrativa e cumula in un identico rifiuto tanto le sperimentazioni nar­rative dell’ultimo mezzo secolo, quanto le ope­razioni di decodificazione del testo condotte sul­la base delle nuove teorie letterarie. A differen­za di Stone, ii romanzo contemporaneo appare a Chevalier (e sia pure per esemplificazioni li­mitate al panorama francese e con la parziale eccezione dei cantori del paesaggio parigino: da Aragon a Céline) sterile, disarticolato, muto al­

le sollecitazioni dello storico. L’approccio di Chevalier è tuttavia — lo si è detto — radical­mente diverso. Il romanzo non è infatti cercato come serbatoio di prototipi d ’indagine psicolo­gica (Stone) oppure come uno spazio ormai in­custodito (a causa del tramonto del modello ot­tocentesco), che la storia finisce per occupare sospinta, oltre che da affinità genetiche, dalla sua inesauribile volontà di “raccontare”. Il ro­manzo è assunto come un cammino di cono­scenza e di rappresentazione che corre paralle­lo alla indagine storiografica. Quando Cheva­lier risale alle sue scelte dei primi anni cinquanta (“il vaglio demografico del valore storico delle opere letterarie: fu questo il compito cui credetti di potermi dedicare”) va ben oltre la legittima­zione di un’opzione specialistica, tende al re­cupero integrale dell’opera letteraria, come la decisiva scoperta di Balzac attesta. Ciò consen­te a Chevalier di fissare una tipologia delle for­me narrative e di privilegiare, aH’intemo di que­sta, il romanziere che lavora “inconsapevol­mente” per la storia. L’avverbio è decisivo. La “testimonianza involontaria dei romantici— an­nota Chevalier — è sovente più incontestabile della testimonianza voluta di Zola troppo spes­so costruita”. “Troppa realtà uccide la realtà”, osserva ancora Chevalier riferendosi alla de­scrizione zoliana del “ventre” di Parigi. Ma su­bito dopo il discorso sembra involversi sovrap­ponendo piani diversi: “A meno che quella realtà non sia involontaria o che, volontaria o invo­lontaria, essa non corrisponda a ciò che si sa gra­zie alla storia”.

Se con la denuncia delle forzature documen­taristiche (“troppa realtà uccide la realtà”) si re­sta nell’ambito del giudizio sull’ottica del ro­manziere (ritenendola mortificata e resa opaca dall’assillo di aderire “naturalisticamente” alla realtà), il rinvio, come discriminante decisiva, al vaglio della critica storica (a “ciò che si sa gra­zie alla storia”) sposta l’attenzione dal romanzo come universo autosufficiente al romanzo come arsenale di nozioni ed immagini che la storia può

17 Geoffrey Barraclough, Atlante della storia 1945-1975, Roma-Bari, Laterza, 1977 [ed. orig. 1976], p. 321.

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separare, estrapolandole, dalla costruzione in cui sono inserite. Nel primo caso la fonte romanze­sca si offre come organismo; nel secondo si li­mita a fornire materiali grezzi, destrutturati. Nel primo caso il romanziere parla a voce intera; nel secondo si limita a rispondere alle domande del­lo storico. E che Chevalier inclini — a dispetto di talune affermazioni prima riportate ed anche della impostazione delle sue indagini specifiche — verso quest’ultimo sbocco è dimostrato dal fatto che il quadro di riferimento che intende of­frire resta alla fine impigliato nella “questione del realismo”.

A seconda dei paesi — leggiamo — le letterature so­no più o meno vicine alla realtà e, quindi, più o meno facilmente utilizzabili dalla storia e anche trasponibi- li in storia qualunque sia l’evoluzione letteraria di quei paesi, lo sviluppo delle scuole, oppure il genio origi­nale degli scrittori.

Il criterio dell’aderenza alla realtà produce im­mediate esclusioni: rifiutata (l’occhio è sempre alla Francia) è la letteratura degli anni venti in quanto “altamente spirituale”, mentre poco me­no di nulla sembra a Chevalier di poter “trarre per la storia dalla letteratura esistenzialistica del do­poguerra” (“a meno che non si tratti della de­scrizione di St. Germain des Prés”). Fortunata­mente queste schematizzazioni passano sullo sfondo quando Chevalier si addentra sul terreno della ricerca. L’accenno alla “testimonianza in­volontaria” dei romantici è un sintomo rivelato­re di questo doppio registro.

L’universo romanzesco viene allora recupe­rato nella sua integrità anche perché, in tutta evi­denza, Chevalier lo ritiene rivelatore di cono­scenze altrimenti inattingibili dalla indagine sto­riografica. Esemplare il caso di ciò che Cheva­lier definisce /’esistenza urbana collettiva, fon­dale d ’obbligo nel nuovo mondo industriale, ter­ritorio scarsamente accessibile alla storiografia e che il romanzo ha invece colonizzato se non inventato. Il nume Balzac è qui più che mai in

primo piano con il suo modulo romanzesco che “pretende di essere al servizio della storia” (e, del resto, tracciando il piano della Comédie hu- maine, Balzac non si era forse proposto di “scri­vere la storia che tanti storici hanno dimentica­to, quella dei costumi?”). E non è forse casuale che un implicito riferimento all’esistenza urba­na collettiva faccia da piedistallo ad uno dei non frequenti tentativi, negli ultimi decenni, di le­gittimare, dall’interno del campo romanzesco, la tesi della “letteratura come storiografia”. E que­sto il titolo di un saggio di H.M. Enzensberger risalente alla fine degli anni cinquanta18. Ana­lizzando il ritratto della società tedesca sul fini­re degli anni venti quale emerge dal confronto tra la pagina di un romanziere (Alfred Dòblin) e quella di uno storico (Golo Mann, uno storico, si noti, che considera la pratica storiografica co­me un’operazione prevalentemente letteraria), Enzensberger osserva che il discorso storiogra­fico appare “singolarmente privo di umanità”, perché la “storia viene esibita senza il suo og­getto: le persone di cui essa è la storia”, e che queste compaiono solo come “figure accessorie, come sfondo scenico”. A ll’opposto, il roman­ziere “mostra un primo piano che è tutto un bru­licare”, nel quale la collettività si dissolve in una molteplicità di soggetti che ti scivolano vicino, vengono captati singolarmente come da una ci­nepresa e poi restituiti al movimento dell’insie­me”. Donde la conclusione che “gli uomini che sono vissuti prima di noi li incontriamo solo nel­la letteratura” e che questa rappresenta pertanto “il solo coerente sistema di segni, da cui può es­sere colta la storia come realtà materiale”. Le im­plicazioni anche di natura ideologica che En­zensberger trae dal proprio assunto (il linguag­gio dello storico “nasconde chi parla, chiunque parli”; la sua pretesa di “far parlare le cose stes­se, cioè i rapporti fissati in istituzioni”, rende la storiografia schiava di una “prospettiva oggetti­va” che è “quella del potere”) vanno ben al di là della ricezione che Chevalier compie del testo letterario, ma non sminuiscono la suggestione

18 Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia, “Menabò”, 1960.

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dell’accostamento tra i due autori. In entrambi i casi il problema del rapporto tra il romanzo co­me fonte e il romanziere come testimone scatu­risce con forza e richiama aree della cultura sto­rica in cui Fapprofondimento di questa temati­ca ha già prodotto un cospicuo patrimonio di in­dagini.

Il carattere rapsodico delle osservazioni sin qui svolte preclude considerazioni conclusive. Esso aderisce del resto alla natura del materiale cui si è fatto ricorso, che è discorsiva e asiste­matica e, come tale, allineata ai caratteri com­plessivi della ripresa di discussione sulla storia narrativa. Anche per questo, forse, un aspetto al­meno emerge con sufficiente nitidezza ed è la palese riluttanza, da parte degli storici, a misu­rarsi con la costruzione romanzesca assunta nel­la sua interezza. Sia che si tratti di ispirarsi al ro­manzo novecentesco per estrarre nuove proce­dure narrative (Stone), di proclamare l ’annes­sione della storiografia al campo letterario (Duby-Lardreu) oppure di ritenere che la conti­guità tra i due generi vada interpretata come una imposizione del mercato (Braudel) o, infine, di vincolare il rilievo storiografico della letteratu­ra alla sua adesione ai canoni del “realismo” (Chevalier), l ’approccio resta in ogni caso par­ziale ed in varia misura incidentale. Il giudizio recentemente espresso da Luciano Canfora e se­condo il quale “i cancelli tra storiografia e nar­rativa si fanno, proprio nel XX secolo, sempre più opinabili e impalpabili”19 appare perciò scar­samente condivisibile o, quantomeno, carico di ambiguità e di interrogativi irrisolti. Se qualche opera recente sembra convalidare tale interpre­tazione, il corso dei decenni precedenti sicura­mente la contraddice. Non potendo tracciare ora un diagramma esauriente, mi limito a richiama­re gli aspetti salienti.

Lungo tutto l’Ottocento, le relazioni che in­tercorrono tra la storiografia e il romanzo sono

rappresentabili nei termini di un rapporto tra potenze impegnate a spartirsi le zone di in­fluenza, ora amministrando con taciti accordi le mobili linee di confine, ora sprigionando di­segni espansivi che prendono corpo soprattut­to nell’area letteraria. Si dispiega allora quella vocazione imperialistica del romanzo che fa di esso lo specchio più emblematico della civiltà ottocentesca.

E ciò avviene in dimensioni e per gradi di in­tensità che abbracciano un arco ben più ampio di quello recintato dalle insegne della letteratura rea­listica. Al di là e al di sotto delle scuole e delle partizioni canoniche, il genere romanzesco ma­nifesta una vitalità che appare strettamente an­corata a più generali compiti di acculturazione. Il romanzo, dunque, come laboratorio estetico, ma anche, e prima di tutto, come impulso alla cir­colazione di idee e modelli di vita attraverso i ca­nali espressivi più diversi e lontani sotto il profi­lo della qualità letteraria. Valga in proposito il ri­ferimento al “romanzo di formazione”20 come a quello che definirei di “incivilimento”, sia nella già ricordata veste balzachiana di “storia dei co­stumi”, sia in una versione di pregnante interna­zionalità politica fissata, fra l’altro, in un esem­plare giudizio di Foscolo:

la storia dipinge le nazioni e le loro forme, il roman­ziere dipinge le famiglie e i loro casi; la storia noto- mizza la storia dei pochi che governano, il romanzie­re notomizza il cuore della pluralità che serve; la sto­ria insegna la politica alle anime forti e agli ingegni astratti, il romanzo insegna la morale a quella classe di gente che serve il governo e indirettamente coman­da la plebe21.

E anche su questa scia che si incanala la funzio­ne, progressivamente sempre più indiscriminata, di comunicazione e sociabilità del romanzo, e che trasforma frequentemente questo genere in un de­posito inesauribile di nozioni e di opinioni, in un

19 L. Canfora, Aspetti e problemi della narrazione storica, cit.20 Cfr. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986.21 Ugo Foscolo, Saggio di novelle di Luigi Sanvitale parmigiano [1803], citato da Folco Portinaia, Un'idea di realismo, Na­poli, Guida, 1976, pp. 19-20.

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contenitore potenzialmente enciclopedico. Come ha opportunatamente ricordato Mary McCarthy, esso

non forniva soltanto informazioni sui fatti, riempiva lo spazio di quelle tavole rotonde e di quei seminari che sono seguiti oggi dai telespettatori e dagli ascoltatori della radio e che sono la fonte più usuale delle idee ge­nerali22.

È soprattutto nell’ottica di ciò che, in altra oc­casione23, ho definito la “ insaziabile voracità” di questo genere che dobbiamo guardare alla parabola complessiva del romanzo. Il rapporto con la storia, l ’annessione di nuovi terreni che la storia ignora o che alla storia vengono con­tesi per le limitazioni di visuale di cui questa è ritenuta vittima, va inquadrato nella pretesa di totalità che il romanzo esprime. Il diverso at­teggiarsi — dal collateralismo alla concorren­za — della narrazione romanzesca rispetto al­la storiografia prende le mosse da questo fron­te largo, talvolta eterogeneo. A ll’interno del quale va certo fermata l ’attenzione sui momenti di maggiore e più specifico impatto (dalla que­stione del romanzo storico alle teorizzazioni del naturalismo intorno al “romanzo sperimenta­le”), ma senza trascurare il fatto che la valenza totalizzante del romanzo scavalca le diversità di scuola e di autore. Ancora nel 1888 Henry James annota che

rappresentare e illustrare il passato, le azioni degli uo­mini, è compito sia dello storico che del romanziere; la sola differenza — prosegue — che io posso vedere consiste nella maggiore difficoltà che egli [il roman­ziere] incontra per raccogliere le prove, che sono ben lungi dall’essere puramente letterarie”24.

È una rivendicazione di superiorità che possia­mo ritrovare, nello stesso anno, sotto tutt’altra

latitudine, anche nelle precisazioni che Tolstoi fornisce sulla genesi e la concezione di Guerra e pace e grazie alle quali la sovrapposizione/con- trapposizione tra l ’occhio dello storico e l ’oc­chio dell’artista dà vita ad un’opera — dice Tol­stoi — che “non è un romanzo, ancor meno un poema, ancor meno una cronaca storica”, bensì “ciò che l’autore volle e potè esprimere in quel­la forma in cui si espresse il suo intendimento”. Dove è chiaramente percepibile come la presa di distanza dal metodo storico dominante (accusa­to di cercare la spiegazione degli eventi esclusi­vamente nella volontà dei grandi uomini) lasci impregiudicata la forma letteraria attraverso la quale il progetto si realizza. La definizione di ro­manzo costituisce l’approssimazione più accet­tabile, ma è ben lontana dal risolvere i dubbi e chiudere il discorso.

In ogni caso T esempio tolstoiano conferma co­me la fisionomia del romanzo tenda a definirsi più per inclusioni che per esclusioni, come luo­go di incrocio e di confluenze.

La svolta che si determina nel romanzo verso la fine del secolo — e che inaugura un ciclo nuo­vo di rapporti con la storia — rappresenta in qual­che modo la negazione di quell’ambizione di to­talità. L’aderenza mimetica alla realtà cessa di rappresentare il culmine di quelle capacità cono­scitive che a lungo erano state celebrate come una delle principali motivazioni della onnipresenza e della pervasività del romanzo. Lo stesso James aveva definito l’esperienza, nel seguito del sag­gio prima citato,

una immensa sensibilità, una specie di tela di ragno con fili della seta più sottile, sospesa nella stanza del­la coscienza, che afferra ed immette nella sua tela ogni particella trasportata dall’aria25.

E non credo che vi sia forzatura a leggere que­ste parole anche come propiziatorie dell’avven­

22 Mary McCarthy, Il romanzo e le idee, Palermo, Sellerio, 1985 [ed. orig. 1980], p. 42.23 Massimo Legnani, Appunti sulle relazioni tra storiografia e romanzo, “In/formazione”, novembre 1984, cui rimando per qualche maggior dettaglio sulle questioni qui solo sfiorate [ripubblicato in questo stesso fascicolo di “Italia contemporanea”].24 Henry James, L’arte del romanzo, Milano, Lerici, 1959, p. 38.25 H. James, L'arte del romanzo, cit., pp. 44-45.

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to — auspicato da Bergson appena un anno più tardi — di “qualche ardito romanziere” che, “la­cerando la tela abilmente tessuta dal nostro io convenzionale, ci mostri26, al di sotto di questa logica apparente, una fondam entale assu r­dità”27.

L’allontanamento del romanzo dall’impian­to ottocentesco incardinato sul conflitto tra l’e­roe e la realtà che lo circonda (e che tende a de­viarne o paralizzarne le ambizioni) si traduce al­lora in un radicale rovesciamento dello schema originario: l ’eroe cessa di contrastare la realtà perché questa lotta, quale ne sia l’esito, lo tra­scina fuori di sé, in un tempo e in uno spazio puramente esterni e dunque irrimediabilmente scissi dalla propria coscienza. Ad un percorso accidentato ma continuo subentra una “disar­monia prestabile”, che vive la propria condi­zione oscillando tra l’orgogliosa consapevolez­za dei nuovi territori da esplorare e il rimpian­to della “normalità”. Oscillazione che si mani­festa nel personaggio di Musil, cui

venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspi­ra sognando la semplicità non è se non quella dell’or­dine narrativo, dell’ordine normale che consiste nel po­ter dire: dopo che fu successo questo, accadde que- st’altro”.

L’“ordine narrativo” : rinunciando ad esso, al­l’ordito dei fatti, il romanzo scava rispetto alla storia una distanza che è qualitativamente ben diversa da quella differenziazione di compiti che si era delineata, per lo più empiricamente, nei decenni precedenti e che ora si traduce in alter­nativa, in contrapposizione. Ed è significativo che la querelle sui nuovi destini del romanzo (o sull’esaurimento del genere) ricorra con singo­lare frequenza, per elaborare le proprie coordi­

nate, al confronto con la storia, vista come una successione di quadri che in tanto può sussiste­re in quanto riproduce una catena di causalità puramente esterne. L’area in cui questo proces­so di dissociazione appare più pronunciato è quella inglese, seguendo una traiettoria che cor­re da James a Conrad a Forster e che, se da un lato attinge al filone di critica letteraria impe­gnato a fondo a ridimensionare il “romanzo so­ciale” a vantaggio del “romanzo drammatico”28, dall’altro giunge a progettare una collocazione integralmente metastorica dell’atto letterario. Secondo la definizione fissata da Forster verso la fine degli anni venti, lo storico “ha a che fare con delle azioni, e col carattere degli uomini ha a che fare soltanto fin là dove può dedurlo dal­le loro azioni [...] mentre la funzione del ro­manziere è di rivelare alle scaturigini la vita na­scosta” . Di qui l ’intim azione ai narratori di “esorcizzare il demone della cronologia”, per­ché nel romanzo “c ’è qualcosa più del tempo, o delle persone, o della logica, o di qualsiasi loro derivato: c ’è qualcosa più del fato [...] un im­ponderabile che vi passa dentro come una lama di luce [...] a codesta lama di luce daremo due nomi: fantasia e profezia”29.

Per Forster dunque ogni possibilità di scam­bio tra storia e romanzo è proscritta (“la storia di sviluppa, ma l’arte sta ferma”): si tratta di matu­rare la consapevolezza del distacco e di aderirvi pienamente. È davvero, questa, una soluzione ob­bligata oppure la crisi dell’“ordine narrativo” apre solo la strada ad una compresenza di spinte e ten­sioni destinate a continuamente riprodursi e che storia e romanzo non fanno altro che riflettere se­condo angolature particolari?

Sembra muoversi in questa direzione l’itine­rario esistenziale àeWuomo senza qualità, rap­presentabile come

26 Recte\ mostra.27 La citazione dall’Em» sur les données immédiates de la conscience è ripresa da Marziano Guglielminetti, Il romanzo del novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986, che di essa si serve per avviare l’analisi della narrativa del decadentismo.28 Si vedano in particolare Percy Lubboch, Il mestiere della narrativa, Firenze, Sansoni, 1984 [ed. orig. 1921] e Edward Muir, La struttura del romanzo, Milano, Comunità, 1982 [ed. orig. 1928], in cui sono contenute le definizioni riportate.29 Edward M. Forster, Aspetti del romanzo, Milano, Il Saggiatore, 1968 [ed. orig. 1927], p. 56.

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conflitto tra la prospettiva dall’alto, che unifica e tra­scende le dissonanze ma anche ne ignora la sofferen­za e la prospettiva creaturale dal basso che dà voce al- rirrisolto dolore ma anche lo esaspera, distruggendo la possibilità di dargli senso30.

E del resto nel già citato saggio di Enzensber- ger sulla “letteratura come storiografia” l ’os­servazione che “gli uomini vissuti prima di noi li incontriamo solo nella letteratura” è accom­pagnata dall’affermazione che se la storia ren­de il passato “comprensibile, ma non rappre­sentabile”, il romanzo, per converso, lo rende “rappresentabile ma non comprensibile”. Le due prospettive non potrebbero essere più netta­mente contrapposte, ma la prevalenza dell’una o dell’altra produce in ogni caso una visuale di- midiata.

Va da sé che questi riferimenti — come al­tri di intonazione analoga anche se più sfuma­ti31 — diverrebbero pienamente leggibili solo all’interno di un percorso complessivo di sto­ria della cultura in cui la sorte del genere ro­manzo sia riconnessa anche a quella che è sta­ta definita la caduta della “fede nella scientifi­cità e nell’efficacia politica della letteratura”32, ma ciò che maggiormente merita una sottoli­neatura agli effetti del nostro discorso è che, contemporaneamente a ll’evoluzione in atto nel campo del romanzo, una tendenza per certi aspetti parallela si diffonde nella storiografia, assegnando a quest’ultima fini “essenzialmen­te di natura personale e individuale”. Tenden­za parallela non significa, beninteso, confluen­za; la frattura già richiamata tra “tempo este­riore” e “tempo interiore” conserva tutta la pro­pria capacità di discriminazione. E tuttavia quel parallelismo produce un riflesso quasi para­dossale sulla relazione fra campo storiografico e campo letterario. Mentre il romanzo “esce” dalla storia e nega (o pone in discussione) le

procedure narrative della stagione realista per abbracciare il tempo interiore della coscienza, la storiografia accentua il proprio impianto nar­rativo come atto di adesione alla supposta sin­golarità e dunque irripetibilità di ogni accadi­mento storico. In realtà non ne discende una smentita della scissione che lungo il Novecen­to si produce tra romanzo e storia, ma una di­versa articolazione del fenomeno. Se i segni di allontanamento da parte del romanzo si deli­neano già a fine Ottocento e maturano come consapevolezza critica negli anni tra le due guerre, la “replica” della storiografia è asim­metrica e si definisce soprattutto intorno alla metà del secolo.

L’estendersi m assiccio de ll’influenza del marxismo e delle “Annales” (non assimilabile, ma nemmeno alternativa), a partire dagli anni cinquanta, si chiarisce anzitutto come tentativo di riproporre su basi nuove, per riprendere le parole di Barraclough, un’esigenza di “ordina­mento razionale dei fatti complessivi della sto­ria umana”33. Una “prospettiva dall’alto”, per riprendere i poli del dilemma vissuto àd\Yuo­mo senza qualità. L’incrocio variamente mo­dulato con le scienze sociali, la costruzione di modelli interpretativi fondati sulla “lettura” del­le strutture, le innovazione nel campo della me­todologia cospirano alla definizione di una normativa che, legittimando le ambizioni scien­tifiche della storiografia, proscrive la storia rac­conto configurandola come riproduzione di mo­duli tradizionali ormai superati. A questo pas­saggio — e con un ovvio riferimento alle espe­rienze narrative del nouveau roman — il di­vorzio tra storiografia e romanzo può dirsi in­teram ente consum ato. E la ripresa delle d i­scussioni intorno alla storia narrativa non può prescindere da questo accumulo di esperienze per porre in una corretta prospettiva le analo­gie, ma anche le profonde diversità, fra le pre­

30 Claudio Magris, Narrativa, in Enciclopedia del Novecento, voi. IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1974.31 La consapevolezza di una eguale dipendenza della storia e del romanzo dagli sviluppi della psicologia sperimentale è ad esempio in José Ortega y Gasset, Sul romanzo, Milano, Sugarco, 1985 [ed. orig. 1925].32 C. Magris, Narrativa, cit.33 G. Barraclough, Atlante, cit., p. 27.

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se di posizione più recenti e le eredità delle ac­quisizioni precedenti.

Per questo l ’affermazione che “i cancelli tra storiografia e narrativa si fanno proprio nel XX secolo, sempre più opinabili e impalpabili” ap­pare difficilmente accettabile: essa schiaccia il profilo del Novecento sotto il peso di una at­tualità (il ricorso alla forma narrativa emerso nell’ultimo quindicennio soprattutto nel setto­re della storia della mentalità) che non solo con­tiene scarsi elementi di sintesi rispetto alle espe­rienze precedenti, ma rappresenta un riorienta­mento — che attende tuttavia di essere meglio definito — a fronte delle più significative tra esse.

Sinora abbiamo affrontato, in successione, due aspetti: quello del riemergere, a ll’interno della discussione sulla riscossa della storia-rac­conto, di questioni che investono più general­mente i rapporti tra produzione storiografica e narrativa romanzesca; e quello — per grandi li­nee — delle relazioni tra storiografia e roman­zo nel passaggio dall’Ottocento al Novecento. Il secondo tema si impone in larga misura co­me corollario del primo. Nel senso che i rinvìi della storiografia al romanzo avanzati oggi per motivare le scelte della narrazione in storia ap­paiono spesso frammentari e indiretti, tali co­munque da esigere una verifica, quantomeno sul medio periodo, delle relazioni complessive tra storia e romanzo.

Ciò può servire a meglio chiarire i compiti che i due campi rispettivamente si riservano e, prima ancora, i criteri con i quali ciascuno di essi rie­sce a valutare la natura dei risultati conseguiti dal- l ’interlocutore. I quesiti e le risposte — l’abbia­mo veduto — tendono a divergere; ed è assai im­probabile che i futuri bilanci della cultura no- vencentesca mettano in luce, tra storiografia e ro­manzo, quelle tendenze allo scambio— talora al­la sovrapposizione — tutt’altro che infrequenti nel corso dell’Ottocento. L’avvenuta separazio­ne non è tuttavia interpretabile come uno sbocco conclusivo che richieda soltanto di essere regi­strato e catalogato.

Per i modi in cui si è realizzata e per i pro­

blemi che lascia aperti (o che a sua volta ac­cende) va piuttosto assunta come un punto di passaggio straordinariamente ricco di implica­zioni. Lo dimostra il fatto che la dicotomia più volte richiamata tra tempo esterno e tempo in­teriore può valere al più come schematica pro­posizione di partenza, come intenzionalità pre­valente, non certo come rigido criterio classifi­catorio. Lo vieterebbero le forme miste, ibride, in cui le due concezioni si presentano tanto in letteratura che in storiografia (e a proposito del­le quali una più attenta riflessione sulle fortu­ne della biografia storica riuscirebbe opportu­na); lo vieterebbero le rielaborazioni, dentro e fuori il campo filosofico, sulla categoria tem­po, nelle quali è rinvenibile uno dei tratti più originali della cultura novecentesca. Due im­plicazioni appaiono soprattutto rilevanti: quel­la delle modalità di accesso della storiografia al romanzo; quella dei caratteri costitutivi del discorso storiografico. Accenneremo a ll’una e a ll’altra anche come vie di superamento delle ambiguità che circondano oggi la questione del­la storia narrativa.

Gli esempi portati dimostrano a sufficienza, credo, come l’approccio degli storici al roman­zo proceda con parzialità e unilateralità. La fon­te tradizionale per eccellenza — il documento letterario — sembra comunicare con lo storico per monosillabi e non con periodi compiuti. Sfugge dunque alla sorte del testimone, per in­terrogare il quale occorre riconoscerne prima l’identità. Il romanzo interessa invece allo sto­rico solo per quel segmento particolare che en­tra in contatto con una altrettanto particolare ne­cessità della ricerca. In questa prospettiva rien­trano sia gli accenni di Stone al romanzo nove­centesco come paradigma che si pone al servi­zio delle esigenze narrative della nuova storia della mentalità, sia il ricorso di Chevalier a Bal- zac come strumento di “inveramento” delle di­namiche demografiche nella Parigi della prima rivoluzione industriale.

Ed egualmente vi entrano, è forse superfluo sottolinearlo, quei quadri tradizionali di storia sociale intesa, secondo la definizione di Tre-

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velyan, come “storia con esclusione della poli­tica”34: qui anzi il ricorso al romanzo come ve­trina della casistica dei costumi celebra i suoi fa­sti più completi — e più sterili. A dar risalto alla inadeguatezza di un simile approccio interven­gono soprattutto le sollecitazioni, coeve, della let­teratura storico-critica e degli studi sulla teoria del romanzo. S ’è detto della saggistica anglosas­sone tra le due guerre, fortemente omogenea e impegnata a svalutare il “romanzo sociale” e a de­nunciare i guasti prodotti dal “romanzo d’epoca” (dove il secondo va inteso come una versione de­gradata del primo, come pura pubblicistica ideo­logica o di intrattenimento sommariamente rive­stita di panni letterari)35. Ma gli apporti più co­spicui provengono dagli studi che, direttamente o indirettamente, da Lukàcs a Lucien Goldmann, si rifanno alle elaborazioni hegeliane sul “ro­manzo epopea borghese” e che proprio per que­sto appaiono più pronti a cogliere la portata del­la svolta novecentesca. Più pronti, con Lukàcs, a stabilire una connessione non superficiale tra pe- riodizzazione letteraria e cicli politico-economi­ci (la dissoluzione del modello ottocentesco di ro­manzo come contrappunto, e però anche segno rivelatore, della crisi dello stato rappresentativo), ma anche più restii a recepire le radici letterarie, estetiche, delle evoluzioni interne al genere ro­manzesco36. Sotto questo profilo, del ricongiun­gimento tra i due tronconi del discorso, offrono un punto di riferimento obbligato le analisi pa­rallele di Bachtin tese a penetrare la natura del fatto letterario (con un largo debito verso i for­malisti) senza scinderlo dalla sua duplice valen­za ideologica, in quanto “interpreta la realtà di fatto socio-economica” e in quanto “riflette e in­terpreta le altre sfere ideologiche”37. Il momento più espressivo di questo intreccio sarebbe appunto fornito dal romanzo, genere per eccellenza aper­

to al “massimo contatto col presente nella sua in­compiutezza” e quindi specchio dell’“ideologia in formazione”38. Ed è proprio questa concezio­ne del romanzo come genere in costante diveni­re, che trattiene Bachtin dall’assumere l’esauri- mento del modello ottocentesco come un evento decisivo per la sopravvivenza stessa del romanzo e lo spinge invece a prefigurare un percorso di in­dagine in grado di attraversare i rivolgimenti no­vecenteschi senza interrompere, anzi intensifi­cando, la comunicazione tra la letteratura e le al­tre discipline. Ne discende una traccia utile allo storico, ma non ad esso soltanto, per entrare in contatto con l’universo romanzesco nella sua to­talità, per identificare — riprendendo l ’immagi­ne precedente — il testimone prima di interro­garlo, per accertare le “logiche” alle quali questi obbedisce. A ll’opposto, prescindere dalle leggi che governano l’organismo romanzo significa soffocare le possibilità di scambio, declassarle a livello di poco produttivi “prestiti forzosi”. E ciò vale a maggior ragione per il riconoscimento del­le specifiche strutture narrative in quanto attribu­ti interni all’opera letteraria e non materiale grez­zo trapiantabile, con una operazione inevitabil­mente destinata a scadere nella retorica, in altre e diverse costruzioni.

Quest’ultimo accenno ci porta per altra via ai problemi connessi con la natura e le proce­dure di composizione del testo storiografico. Non v ’è dubbio che nella fase di massimo im­pulso della storiografia anti-événementielle la questione sia sta ta rim ossa, iden tificando senz’altro l ’adozione di specifiche tecniche nar­rative con l ’oggetto particolare che ne deter­mina, o si riteneva ne determinasse, l ’applica­zione (ovvero la storia etico-politica) e coin­volgendo nel rifiuto della storia-racconto quan­to avesse invece attinenza al definirsi del di-

34 Citato da Eric J. Hobsbawn, Dalla storia sociale alla storia della società, “Quaderni storici”, 1973, n. 22.35 E. Muir, La struttura del romanzo, cit.36 Si veda in particolare II romanzo come epopea borghese, del 1934, inserito in Gyorgy Lukàcs, Michail Bachtin e al., Pro­blemi di teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, Torino, Einaudi, 1976.37 Pavel N. Medvedev, Il metodo formale nella scienza della letteratura. Introduzione critica al metodo sociologico, Bari, De­dalo, 1978 [ed. orig. 1928], p. 80. Autore del libro è in realtà Bachtin.38 Cfr. lo scritto presente in G. Lukàcs, M. Bachtin e al.. Problemi di teoria del romanzo, cit.

Riflessioni su storiografia e romanzo in prospettiva novecentesca 863

scorso storiografico come forma di comunica­zione. Un atteggiamento, se si vuole, perfetta­mente complementare, sulla sponda opposta, a ll’invito che abbiamo visto rivolgere da For­ster ai romanzieri ad “esorcizzare il demone del­la cronologia”. Né i nuovi storici della menta­lità hanno riaperto l ’interrogativo, preferendo semmai orientarsi verso soluzioni empiriche che, se hanno prodotto esiti suggestivi a ll’in- temo di singole opere, hanno anche accresciu­to le ambiguità che nascono dalla intersezione dei due piani. Ed è anche in questa “indiffe­renza” che vanno cercate le ragioni dello scar­so impatto delle elaborazioni maturate — pre­valentemente nella seconda metà degli anni ses­santa— al di fuori del campo storiografico. Un ventaglio di posizioni (dall’assoggettamento, da parte di W hite39, dell’atto storiografico ad una opzione iniziale essenzialmente “poetica”, alla cancellazione, decretata da Barthes40, del­la narrazione in storia per effetto dell’abban­dono del reale, la cronologia, a favore dell’in- telliggibile, la struttura) che sono state richia­mate con insistenza negli anni ottanta sulla scia del dibattito intorno alla ripresa della storia nar­rativa e dunque scontando le difficoltà e le in­certezze da cui, come si è cercato di dimostra­

re, questo dibattito è avvolto41. Un panorama sufficientemente completo dei diversi percorsi è quello tracciato da Paul Ricoeur42, anche se i modi di dimostrazione della tesi che si propo­ne di sostenere (basata sulla “asserzione di un legame indiretto di derivazione, grazie al qua­le il sapere storico procede dalla comprensio­ne narrativa senza perdere nulla della sua am­bizione scientifica”) appaiono più prossimi ad una esplorazione documentaria delle proposte a qonfronto che non ad una sintesi creativa. An­che questi aspetti vanno tuttavia immersi in un quadro più vasto. Come ha scritto de Certeau,

considerare la storia come un’operazione significherà tentare [...] di comprenderla come rapporto tra un po­sto (un reclutamento, un ambiente, un mestiere ecce­tera), delle procedure di analisi (una disciplina) e la costruzione di un testo (una letteratura)43.

Il discorso sulle correlazioni storia-romanzo e, per quanto vi si riconnettano, sulle tecniche del­la narrazione in storia, può utilmente ripartire da qui, dal chiedersi “che cosa fabbrica lo storico quando diventa scrittore ”.

Massimo Legnani

39 Hayden White, Retorica e storia, Napoli, Guida, 1978 [ed orig. 1973].40 Roland Barthes, Le discours de l’histoire, “Social Science Information/Information sur le Sciences sociales”, agosto 1967.41 Cfr. l’introduzione di Pietro Rossi a Id. (a cura di), La teoria della storiografia oggi, cit.42 Paul Ricoeur, Tempo e racconto, vol. I, Milano, Jaca Book, 1986 [ed. orig. 1983], p. 144.43 Michel de Certeau, La scrittura della storia, Roma, Il pensiero scientifico editore, 1977, [ed. orig. 1975], cap. II.