« Società »: storia e storiografia nel secondo dopoguerra · 2019-03-05 · « Italia...

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« Italia contemporanea », dicembre 1981, fase. 145 « Società »: storia e storiografia nel secondo dopoguerra * Nel giugno 1944, a conclusione del lavoro di più d’un anno — cui avevano parte- cipato studiosi interessati non solo nella loro specifica veste professionale a pro- muovere una « rinascita della cultura italiana », ma anche impegnati in un « diretto contributo di azione nella lotta contro il fascismo e il nazismo » 1 — apparve il catalogo della collana « Pensiero sociale moderno », pensata da Delio Cantimori. Nella premessa si indicava come scopo della collana quello di indurre « la nostra cultura, rimasta provincialmente circoscritta nella contemplazione e nell’analisi di se stessa » a superare « i tradizionali limiti umanistici e individualistici entro i quali si è mossa finora». A tal fine occorreva percorrere due vie: a) «l’elimina- zione della frattura che separa la cultura dagli interessi, dalle aspirazioni e dagli ideali del nostro popolo »; b) « il ristabilimento del contatto col moderno pensiero storiografico, politico, sociale, economico, al quale la nostra cultura è rimasta estra- nea per tanto tempo ». Prioritario sarebbe stato, quindi, « il contributo apportato da una discussione larga e approfondita, esercitata sui testi — e non solo sulle esposizioni spesso preconcette — del metodo di interpretazione della storia e della vita politica ed economica conosciuto sotto il nome di materialismo storico, larga- mente inteso come il naturale successore di quanto gli uomini hanno creato di meglio nella filosofia classica tedesca, nell’economia politica inglese, nel socialismo francese e nella tradizione del pensiero critico settecentesco ». Metodo solo super- ficialmente noto in Italia attraverso la « polemica crociana » e le « deformazioni positivistiche » — con la rilevante eccezione di Antonio Labriola, che ne aveva indicato il « genuino carattere » — e alla cui diffusione la collana si proponeva di contribuire, « offrendo, attraverso studi e traduzioni, i materiali di prima mano e gli strumenti di lavoro indispensabili ad ogni seria discussione » 2. A quasi tre anni di distanza, appariva su « Società » l’editoriale Nuova serie, ano- nimo, ma di Cesare Luporini, che si collocava in un momento delicato e per molti * Relazione tenuta al Convegno Politica e cultura nell’esperienza di « Società » organizzato dall’Istituto Gramsci/sezione toscana il 9 e 10 gennaio 1981. 1 Cfr. l’Avvertenza al catalogo della collana «Pensiero sociale moderno», diretta da Delio Cantimori, Roma, 7 giugno 1944. Per ulteriori notizie sulla collana cfr. G iovanni miccoli, Aspetti della riflessione storiografica di Delio Cantimori fra guerra e dopoguerra e gastone Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e il partito comunista, in aa.w ., Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori, a cura di B.v. bandini, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 28 e 67-70. Ringrazio il prof. Giovanni Miccoli per avermi messo a disposizione il testo del catalogo redatto da Cantimori. 2 Cfr. La Premessa al catalogo della collana « Pensiero sociale moderno », cit., pp. 7-8.

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« Italia contemporanea », dicembre 1981, fase. 145

« Società »: storia e storiografia nel secondo dopoguerra *

Nel giugno 1944, a conclusione del lavoro di più d’un anno — cui avevano parte­cipato studiosi interessati non solo nella loro specifica veste professionale a pro­muovere una « rinascita della cultura italiana », ma anche impegnati in un « diretto contributo di azione nella lotta contro il fascismo e il nazismo » 1 — apparve il catalogo della collana « Pensiero sociale moderno », pensata da Delio Cantimori. Nella premessa si indicava come scopo della collana quello di indurre « la nostra cultura, rimasta provincialmente circoscritta nella contemplazione e nell’analisi di se stessa » a superare « i tradizionali limiti umanistici e individualistici entro i quali si è mossa finora». A tal fine occorreva percorrere due vie: a) « l’elimina­zione della frattura che separa la cultura dagli interessi, dalle aspirazioni e dagli ideali del nostro popolo »; b) « il ristabilimento del contatto col moderno pensiero storiografico, politico, sociale, economico, al quale la nostra cultura è rimasta estra­nea per tanto tempo ». Prioritario sarebbe stato, quindi, « il contributo apportato da una discussione larga e approfondita, esercitata sui testi — e non solo sulle esposizioni spesso preconcette — del metodo di interpretazione della storia e della vita politica ed economica conosciuto sotto il nome di materialismo storico, larga­mente inteso come il naturale successore di quanto gli uomini hanno creato di meglio nella filosofia classica tedesca, nell’economia politica inglese, nel socialismo francese e nella tradizione del pensiero critico settecentesco ». Metodo solo super­ficialmente noto in Italia attraverso la « polemica crociana » e le « deformazioni positivistiche » — con la rilevante eccezione di Antonio Labriola, che ne aveva indicato il « genuino carattere » — e alla cui diffusione la collana si proponeva di contribuire, « offrendo, attraverso studi e traduzioni, i materiali di prima mano e gli strumenti di lavoro indispensabili ad ogni seria discussione » 2.A quasi tre anni di distanza, appariva su « Società » l’editoriale Nuova serie, ano­nimo, ma di Cesare Luporini, che si collocava in un momento delicato e per molti

* Relazione tenuta al Convegno P o l it ic a e c u l tu r a n e l l’e s p e r ie n z a d i « S o c ie tà » organizzato dall’Istituto Gramsci/sezione toscana il 9 e 10 gennaio 1981.1 Cfr. l ’A v v e r te n z a al catalogo della collana «Pensiero sociale moderno», diretta da Delio Cantimori, Roma, 7 giugno 1944. Per ulteriori notizie sulla collana cfr. Giovanni m icco li, A s p e t t i d e lla r i f le s s io n e s to r io g r a fic a d i D e lio C a n t im o r i f r a g u e rr a e d o p o g u e r r a e gastone Manacorda, L o s to r ic o e la p o l i t ic a . D e lio C a n t im o r i e il p a r t i to c o m u n is ta , in aa.w ., S to r ia e s to r io g r a fia . S tu d i su D e lio C a n tim o r i , a cura di B.v. bandini, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 28 e 67-70. Ringrazio il prof. Giovanni Miccoli per avermi messo a disposizione il testo del catalogo redatto da Cantimori.2 Cfr. La P r e m e s s a al catalogo della collana « Pensiero sociale moderno », cit., pp. 7-8.

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aspetti decisivo della storia della rivista, e che esplicitamente proponeva un consun­tivo della « fase sperimentale » dei primi due anni di « Società », e un programma per la « nuova serie » che si apriva. Un editoriale complesso, e su cui varrà la pena tornare, ma che ora interessa per alcuni spunti utili da confrontare con la premessa di Cantimori alla collana del « Pensiero sociale moderno », che non fu realizzata come tale, ma di cui tracce consistenti possono essere ritrovate negli inte­ressi storici del primo biennio di « Società ». Nell’editoriale di Luporini, del du­plice compito che la rivista si prefiggeva — definire il « dentro dove » si operava e il « verso dove » si tendeva — il primo era indicato, di fatto, come il solo attua­bile concretamente, cioè sperimentalmente, basandosi su « dati reali », di « carat­tere puramente storico ed empirico ». Da ciò una prima conseguenza assai netta: «Noi non crediamo [ . . . ] di dover mirare a creare, oggi, una <nuova cultura>. Questo proposito, o meglio questa esigenza, è stata manifestata da alcuni nostri amici e compagni, con i quali abbiamo discusso e polemizzato pubblicamente. In­tendiamoci: non che noi non crediamo in una < nuova cultura > [ . . . ] ma crediamo che tanto più contribuiremo a crearla — anche se essa non sarà opera della nostra generazione — quanto meno oggi ce ne preoccuperemo esplicitamente, in linea immediata e programmatica. Perché una tale preoccupazione rischia di portarci nel vuoto, nel sogno, nell’utopia, nella velleità, cioè a tradire noi stessi, il nostro metodo di lavoro [ . . . ] . » Più avanti si ribadiva: « Abbiamo in odio le discussioni troppo generali, crediamo che mercé di esse si cammini poco. » Compito della rivista era quindi « prima di tutto di portare nuovi materiali di indagine alla nostra cultura, di portare la sua attenzione su aspetti e settori fin’ora trascurati. Portare nuovi materiali non significa naturalmente portare dei materiali grezzi e non elabo­rati, non interpretati. Ma significa elaborarli e interpretarli in maniera innanzi tutto analitica [ . . . ] . La cultura che noi combattiamo [ . . . ] presenta un volto sinte­tico: falsamente sintetico riteniamo noi. » E ancora, dopo aver indicato nella « cul­tura storicistica » la parte più viva della cultura italiana esistente, si sottolineava la necessità di polemizzare contro il suo « vecchio limite umanistico-retorico-lette- rario », precisando tuttavia: « La polemica con questa cultura non intendiamo svol­gerla soprattutto su un piano speculativo o metodologico, bensì, al contrario, la­sciando questo non in disparte, ma piuttosto nello sfondo: svolgerla invece in quelle zone che essa ha trascurato e necessariamente è portata a trascurare, portandole in primo piano. Portandole in primo piano con scrupolo filologico e con metodo analitico [ . . . ] » 3.

Certo, nelle insistite considerazioni di Luporini del 1947 si rifletteva la polemica che aveva messo a confronto, fra l’altro, « Società » e « Il Politecnico » 4 (il 12 gennaio 1946 era apparso sul « Politecnico » l’articolo di Sartre Una nuova cultura come cultura sintetica, ed evidentemente a Vittorini era rivolto l’accenno polemico nei confronti di « amici e compagni » che si erano fatti portatori dell’esigenza di una « nuova cultura »). Ma la consonanza con le intenzioni espresse da Cantimori nel 1944 sembra evidente.« Cultura analitica » condotta con « metodo filologico »; è questa, in prima appros­simazione, la cifra sotto cui possono essere raccolti i vari filoni di ricerca presenti nei primi due anni di « Società ». Una cifra evidente tanto nella premessa redazio-

3 Cfr. N u o v a se r ie , in «Società», 1947, n. 1.4 Cfr. in particolare cesare Lu porini, R ig o r e d e lla c u l tu r a , in « Società », 1946, n. 1 e la replica di g.f . [Giansiro Ferrata], D o v e s i p a r la d i n o i, d i c u l tu r a , e d i u n a m ic o d i « S o c i e t à » , in « Il Politecnico », giugno 1946, n. 30.

naie (forse di Luporini) al primo articolo su Hegel, nella quale si affermava che la ripresa di discussione sullo hegelismo andava contraddistinta dal contatto diretto con « i testi, ripristinandoli nella loro vera storicità, fuori della presunzione genea­logica del <ciò che è vivo e ciò che è m o rto » , ed evitando perciò «le grandi sintesi, le grandi linee, gli schemi facili e geniali » 5; quanto nelle numerosissime recensioni di Cantimori, con il loro costante richiamo aH’obbligo di un duplice ripristino dei testi: filologico, nella esattezza documentaria e delle traduzioni, e sto­rico, nella loro precisa collocazione nel tempo e nelle ragioni della loro origine, onde evitare quelle facili analogie che non avevano « in nessun modo [ . . . ] valore concettuale in una seria discussione politica, cioè storico-politica » 6. Ma una cifra, ancora, valida anche per quei « Documenti » che Romano Bilenchi curava per ogni numero della rivista 7, e a cui poteva essere ricondotto anche l’appello alla « neces­sità di una cronaca » lanciato da Gianfranco Piazzesi8.Questa caratteristica comune si precisava ulteriormente nel suo versante polemico, nel rifiuto, cioè, di quel moralismo che, considerato inevitabile negli ultimi anni del fascismo, il gruppo animatore di « Società » vedeva con preoccupazione perdurare nel dopoguerra. Esplicitamente, e il riferimento polemico era, anche se non solo, « Il Politecnico », Luporini poneva la questione alla fine del 1946:

Il valore morale [ . . . ] è la via per la realizzazione di altri valori, il modo in cui essi si presentano nelle disposizioni e nelle attività dei singoli. Ma non può talora, da una violenza esterna, venir sbarrato questo accesso, venir preclusa la via? [ . . . ] Quelli che sono i valori modali o strumentali divengono allora i supremi valori finali [ . . . ] Noi usciamo da uno di questi oscuri periodi, in cui, non potendosi parlare, la parola diviene fine a se stessa. In cui con la parola bisogna incessantemente lodare la parola, ossia la possibilità che essa ci dona. Ma non appena sia cessata quella più grave pressione, man­tenersi nella medesima posizione significa cadere in una bassa retorica e falsare la propria persuasione 9.

Ancora più circostanziato e cauto, anche riguardo al recente passato, era stato Delio Cantimori:

Può avere un interesse e un alto significato morale, e anche una certa utilità, sul piano soggettivo, individualistico, sentimentale, o ai fini dell’educazione in senso generale, per esempio, insistere sulla lezione di Tacito o ristampare il Della tirannide in periodo di fascismo; e anche qui: bisogna tener conto di chi parla di Tacito, di chi scrive la prefazio­ne all’Alfieri, e del come, e del carattere del pubblico al quale ci si rivolge, sensibile o meno all’appello morale, all’eloquenza umanistica, al richiamo delle lettere e via di­cendo 10.

Se del resto un collaboratore non consueto di « Società », Antonio La Penna, po­teva leggere come antagonistiche le vicende di « Società » stessa e de « Il Politec-

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5 Cfr. Arturo massolo, L ’e sse re e la q u a li tà in H e g e l , in « Società », 1945, n. 1-2.6 Cfr. delio cantim ori, ree. a Karl kautsky, L a d i t ta tu r a d e l p r o le ta r ia to , prefazione di Giacomo Perticone, in «Società», 1945, n. 3.7 La rubrica D o c u m e n t i era curata da Romano Bilenchi e Marta Chiesi, o dal solo Bilenchi. Essa compare su tutti i numeri (tranne il n. 5) di «Società» tra il 1945 e il 1946, e, ancora, sul n. 2 del 1947. Normalmente era dedicata a testimonianze sulla guerra di liberazione. Un’ec­cezione rappresentò P r o b le m i a m e r ic a n i , in «Società», 1945, n. 4, su cui cfr. le testimonianze riportate in Sergio Bertelli, I l g r u p p o . L a fo r m a z io n e d e l g r u p p o d ir ig e n te d e l P C I 1 9 3 6 -1 9 4 8 , Milano, Rizzoli, 1980, pp. 317-318.8 Cfr. Gianfranco pia zzesi, N e c e s s i tà d i u n a c r o n a c a , in « Società », 1945, n. 3.9 cesare lu porin i, T o r t i e r a g io n i d e l m o r a l is m o , in « Società », 1946, n. 6.10 Cfr. D. CANTIMORI, ree. a K. kautsky, L a d i t ta tu r a d e l p r o le ta r ia to , cit.

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nico » proprio sotto questo profilo, ciò vuol dire che questa chiave di lettura era evidente per il lettore colto di quegli anni. Così, infatti, La Penna traeva un prov­visorio consuntivo: « Non si vuole qui spezzare un’ultima lancia contro una cor­rente culturale la quale ormai ha esaurito il suo compito [ . . . - ] La corrente < Poli­tecnico > ha già avuto critiche acute e precise [ . . . ] Giustamente all’analisi si è fatto appello, contro le pretese sintesi della cultura nuova, sulle pagine di questa rivista »; e La Penna precisava come proprio dal venir meno di una « mentalità moralistica » fosse nata la consapevolezza di « quale grave compito fosse la cultura nuova; quanto poco contassero i programmi e le entusiastiche affermazioni e come invece vi fosse bisogno di una analitica reinterpretazione della storia, di un lungo esercizio di filologia » u. La seconda parte del saggio di La Penna, con il suo richiamo al « bisogno di filologia », appariva nel 1947, in condizioni mutate; ma era certamente significativa del tipo di lavoro che « Società » si era proposto nei suoi primi due anni.

Su queste premesse era naturale che la storia e la storiografia fossero sentite come il campo privilegiato in cui esercitare in concreto i criteri metodologici offerti dal materialismo storico, e attraverso cui ricostruire e rivendicare l’identità del movi­mento operaio. « Naturalmente, al centro del nostro interesse sta la storia », si affermava nel citato editoriale Nuova serie; ma anche altrove si era più volte di­chiarata la propria « fede semplice e profonda » nel « nesso essenziale fra problemi speculativi e problemi <storici) di una data epoca»11 12 13. Considerazioni certamente generiche, ma che vanno collegate alla ripetuta necessità di produrre i materiali espunti dalla tradizione storiografica italiana, di aprire il confronto con la storio­grafia « interpretativa » di provenienza idealistica, servendosi della filologia come strumento principe: all’interno di queste coordinate, gli interventi più propriamente storiografici si presentavano, nei primi due anni di « Società », singolarmente omogenei.Per comprenderne meglio i tratti salienti, vale la pena di tornare alla composizione della collana « Pensiero sociale moderno », quale Cantimori l’aveva ideata. Delle quattro serie di cui era costituita, la prima avrebbe dovuto proporre « i materiali per lo studio di tutte le esperienze del pensiero e dell’attività politica europea che sono confluite nella concezione materialistica e dialettica della storia: dai critici della vecchia società agli utopisti, agli economisti, ai riformatori sociali; insomma gli scrittori rivoluzionari specialmente del Settecento e dei primi decenni dell’Otto­cento » u; la seconda « tutte le opere di Marx e Engels, e le maggiori di Lenin e Stalin » 14; la terza « i migliori studi utili alla precisa penetrazione e alla seria di­scussione del pensiero di Marx, Engels, Lenin e Stalin », fra cui tutti gli scritti di Gramsci, da quelli apparsi sull’« Ordine nuovo » ai Quaderni del carcere 15; la quar­ta « testi, documenti, memorie, ricerche, saggi per contribuire a diffondere la cono­scenza della storia del movimento operaio e del socialismo in Italia, e per pro­muovere gli studi e le indagini di questo aspetto importantissimo e trascurato della nostra storia nazionale », per ristudiarla anche « da questo punto di vista » 16.

11 Cfr. Antonio LA penna, 1 giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo (II), in «Società», 1947, n. 3. La prima parte del saggio di La Penna era apparsa in «.Società», 1946, n. 7-8.12 Cfr. la premessa redazionale a a . m assolo , L ’essere e la qualità in Hegel, cit.13 Cfr. Catalogo della collana «Pensiero sociale moderno», cit., p. 8.n Ibid., p. 11.15 Ibid., p. 17.16 Ibid., pp. 20-21.

Si. trattava di temi che già da tempo, in modi diversi, come ricerche o corsi univer­sitari I7, impegnavano Cantimori, ma che adesso si organizzavano in un filone unitario segnato appunto dalla volontà di ripercorrere « tutte le esperienze del pensiero e dell’attività politica europea [ . . . ] confluite nella concezione materia­listica della storia ». Una riflessione che si caratterizzava, quindi, come recupero di una tradizione complessiva, come ricerca di un’identità del movimento operaio, alla quale ora Cantimori sentiva di poter contribuire.Da questo punto di vista, quando Raniero Panzieri, recensendo su « Società » Utopisti e riformatori, sottolineava da un lato l’originalità del tema prescelto da Cantimori, ma dall’altro osservava che « collocati storicamente sul terreno di una ideologia «utopistica) e <socialistica> incerta e connessa in modi equivoci con la realtà politica e sociale, gli scrittori esaminati da Cantimori non solo presentano fisionomie diversissime, ma non riflettono né creano un ambiente vivo; né, propria­mente formano una tradizione » I8 *, formulava un rilievo che, adeguato se riferito al momento, 1943, in cui il volume di Cantimori era apparso, non lo era forse più nel 1945. Come conferma appunto la chiara struttura unitaria della collana « Pen­siero sociale moderno », questi frammenti di pensiero sociale italiano, collocati in una tradizione storica internazionale, quella socialista, si componevano, venivano esaltati dall’« ambiente vivo » di cui divenivano parte, che a sua volta, complessiva­mente, si rifletteva nella lettura della storia stessa d’Italia. E infatti, un anno dopo, recensendo a sua volta la Congiura per /’uguaglianza di Filippo Buonarroti, Can­timori confermava che la fortuna di quest’opera era importante non solo per la storia del socialismo francese ed europeo, ma anche per quella del pensiero politico italiano, « se storia del pensiero politico italiano è storia delle idee e delle dottrine professate ed elaborate dagli italiani, sia che abbiano avuto o meno efficacia in patria, sia che siano state elaborate in patria o nell’esilio, sia che abbiano avuto riferimento ad avvenimenti e problemi d’altri paesi. Ma tant’é: i cianciatori d’una universalità dello «spirito e della cultura italiani limitano tale universalità, tale «spirito), tale cultura, naturalisticamente, ad una situazione geografica [ . . . ] » K.Una proposta, questa delineata da Cantimori, in cui traspare con evidenza lo stu­dioso degli Eretici, e all’interno della quale la maggior parte dei blocchi tematici presenti in « Società » nei suoi primi due anni si componevano, quasi spontaneamen­te, in una prospettiva unitaria. Recupero del pensiero sociale europeo fino al 1848; crescente attenzione per il 1848 appunto, sempre più colto come nodo storico centrale per comprendere la storia d’Italia nelle sue connessioni europee; sviluppo delle ricerche di storia del movimento operaio, attraverso la via della valorizzazione filologica delle fonti: erano questi i temi attraverso cui ci si proponeva di collegarsi « alla migliore, alla più progressiva tradizione della cultura del nostro Risorgimento che tentò [ . . . ] di portare l’Italia a livello europeo » 20, ma che nella prima fase di « Società » si caratterizzavano ulteriormente nello sforzo di ricostruzione un’iden­tità del pensiero socialista e del movimento operaio cui l’Italia era tutt’altro che

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17 Cfr. Corsi e seminari di Delio Cantimori (1935-66), a cura di G. Miccoli e L. Perini, e Bibliografìa degli scritti di Delio Cantimori, a cura di L. Perini e J.A. Tedeschi, in Giovanni m iccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 341-43 e pp. 393-94. Nel 1946-47 apparivano su «Socialismo» e non su «Società» le ulte­riori Note su utopisti e riformatori sociali, cfr. Ibid., pp. 395-96.18 Cfr. raniero panzieri, ree. a delio cantim ori, Utopisti e riformatori italiani, 1794-1847. Ricerche storiche, in «Società», 1945, n. 3.15 Cfr. delio cantim ori, ree. a Fil ippo Buonarroti, Congiura per l’uguaglianza o di Babeuf, traduzione e introduzione di G. Manacorda, in «Società», 1946, n. 6.20 Cfr. Nuova serie, cit.

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estranea, a patto di sottolineare energicamente il carattere intemazionale di tale storia.Di qui l’importanza attribuita al significato di opere come quella del Buonarroti «per lo svegliarsi del movimento che fu chiamato <babuvista> e poi delle dottrine sociali blanquiste », e per la diffusione di un metodo di lavoro politico ancora pre­sente nel movimento operaio21 22; la polemica contro chi tentava « di ridurre alla realtà, piccola realtà, il < mito > dei giacobini, attraverso una storia (cronaca) del club parigino », perdendo di vista il significato del diffondersi di un pensiero poli­tico che era ben altro che un « mito » a ; la pubblicazione di studi pur di diverso impianto come il Boulanger di Franco Venturi o l’indagine di Samuel Bemstein sulla Prima Internazionale 23; il collegamento proposto fra la riflessione di Marx ed Engels sul 1848 e la loro diretta esperienza politica in Francia e in Germania24; l’attenzione per ricerche come quelle di Domenico Demarco sulla Repubblica ro­mana o per la riproposta di scritti come quello di Giuseppe Montanelli sulla rivo­luzione italiana, con la preoccupazione non solo di rapportare il 1848 italiano a quello europeo, ma di coglierne anche gli aspetti peculiari dovuti all’arretratezza storica dell’Italia 2S.Per altri aspetti, tuttavia, questa ricerca delle proprie origini in una storia che si dilatava nel tempo e nello spazio, comportava anche questioni di metodo e pro­blemi di intervento pubblicistico. Proprio il fatto che essa si inserisse in una pro­spettiva politica, implicava la necessità di una cautela, di uno scrupolo filologico e storico, tali da non permettere alle sollecitazioni del presente di travalicare il rigore dello studioso, e peraltro la mancanza di una tradizione di studi in questa direzione, il trovarsi davanti a una storia ancora in gran parte da scrivere, rendeva in una prima fase rari gli interventi di ampio respiro: da ciò l’uso predominante della recensione, attraverso cui si delineavano i temi di ricerca, per così dire, quasi in negativo, tramite la segnalazione dei rischi non evitati e dei limiti con cui erano stati trattati nodi storici individuati come centrali.Si passava così dall’invito rivolto a collaboratori della stessa « Società » come Ga­stone Manacorda a non rendere troppo « moderno » un Buonarroti26; o dall’am­monimento a proposito del Tribuno del popolo di Babeuf a cura di Bruno Malli, che « la scrupolosità filologica, quando non diventi pedanteria ed erudizione gram­matico-accademica, è il primo passo non solo alla ricerca storica originale, ma anche allo studio della storia per la propria formazione culturale; un primo passo che si dimenticherà; ma che deve essere fatto bene » 27 *; fino al più generale avver­timento, a proposito della Storia del socialismo di Giacomo Perticone, di « leggere questa opera non come un’opera di informazione, soltanto, ma soprattutto come

21 Cfr. d . cantim ori, ree. a F. Buonarroti, C o n g iu r a p e r l ’u g u a g lia n z a , cit.22 Cfr. delio cantim ori, ree. a G. walter, H is to ir e d e s J a c o b in s , in «Società», 1946, n. 7-8.23 Cfr. franco venturi, N .- A . B o u la n g e r , in «Società», 1946, nn. 6 e 7-8, e sam uel bern-st ein , L a p r im a in te r n a z io n a le a lla v ig ilia d e lla C o m u n e d i P a r ig i, in «Società», 1946, n. 7-8.24 Cfr. FRANCO ferri, ree. a c. MARX e F. ENGELS, I l 1 8 4 8 in G e r m a n ia e in F r a n c ia , tradu­zione di Paimiro Togliatti, in «Società», 1946, n. 6. Nella sua recensione Ferri si rifaceva esplicitamente al saggio di sam uel bernstein , M a r x in P a r is , 1 8 4 8 : a n e g le c te d c h a p te r , apparso nel 1939 in « Science and Society ».25 Cfr. gastone Manacorda, ree. a Domenico demarco, U n a r iv o lu z io n e s o c ia le . L a r e p u b ­b lic a r o m a n a d e l 1 8 4 9 , in «Società», 1946, n. 5; castone Manacorda, ree. a Giu s e p p e monta­n elli, I n t r o d u z io n e a d a lc u n i a p p u n t i s to r ic i d e lla r iv o lu z io n e d ’I ta l ia , a cura di A. Alberti, e L a r iv o lu z io n e d 'I ta l ia , a cura di V. Mazzei, in «Società», 1946, n. 6.26 Cfr. d. cantim ori, ree. a f . Buonarroti, C o n g iu r a p e r l ’u g u a g lia n z a , cit.27 Cfr. delio cantim ori, ree. a babeuf, I l t r ib u n o d e l p o p o lo , a c. di B. Maffi, in « So­cietà », 1946, n. 6.

un’opera di rielaborazione e di critica implicita cioè di critica politica e generale specifica, derivante da una posizione peculiare ma ben definita; occorre quindi leg­gerla con molta attenzione » 2S.All’interno di una linea del genere si possono, almeno in parte, ricondurre anche gli interventi più propriamente storiografici di Cantimori, segnati dalla duplice preoccupazione di sottolineare da un lato la necessità di considerare le idee come fatti, da restituire alla loro specifica storicità, ma anche dall’altro di avvertire che le analogie, le interpretazioni, con il loro segno politico di origine, avevano comun­que inciso su tali fatti, ne avevano determinato una lettura che non si trattava di condividere o di respingere, ma di cui andava considerato il peso politico, che, in quanto tale diveniva anch’esso un « fatto » ulteriore. Particolarmente significative di questa duplice attitudine sembrano da un lato le osservazioni di Cantimori su Lucien Febvre e dall’altro quelle su Ròpke. Febvre si era proposto di giungere a ciò che il « vecchio e saggio Droysen » considerava inattingibile per lo storico, « allo spirito, all’intenzione, al cuore umano vivente »; ma Cantimori, pur riconoscendo elementi di interesse in questo metodo, osservava: « Non sapremmo rinunciare a cercare anche qui, più che le intenzioni e l’< intimo del cuore >, le azioni, le opere, ciò che degli uomini, delle loro intenzioni, delle loro velleità, delle loro volontà in qualche modo contribuisce alla vita degli altri, e perciò rimane » 29. Richiamo dun­que al fatto storico, ma, come nella recensione agli scritti di Ròpke, riconoscimento che l’interpretazione storiografica o sociologica poteva anch’essa divenire « docu­mento »:

Quanto si è detto sopra con intonazione a volte negativa, non deve farci dimenticare che quest’opera del Ròpke, rappresenta anzi tutto [ . . . ] un documento importante [ . . . ] di quella polemica indiscriminata contro ogni forma di collettivismo che va risalendo dalla pubblicistica alla scienza, e permea più o meno sottilmente tanta parte dell’« alta cultura » europea (« occidentale »); è uno stato d’animo assai diffuso col quale bisogna fare i conti : presenta a rovescio quel fenomeno assai comune in una delle epoche preferite dal Ròpke (il periodo francese dal 1815 al 1848), che vedeva in ogni forma associativa un trionfo del socialismo 30.

Era una linea di lettura duplice, e assai difficile da portare avanti: non bastava dimostrare l’equivoco da cui era nata la critica di tipo « sociologico » di un Ròpke, ma occorreva anche coglierne il peso storico, l’influenza oggettiva con cui pure bisognava « fare i conti »; che si trattasse comunque di una questione essenziale, era confermato dal paragone proposto con un periodo così importante nell’economia degli interessi storici di « Società » come quello francese fino al 1848. La questione risultava ancora più chiara in un accenno di Cantimori, nel 1947, a un volume su cui già aveva, in termini diversi, fermato la sua attenzione alcuni anni prima, Le droit et l’état dans la doctrine nationale-socialiste di R. Bonnard 31. Ricordando su « Società » la tesi di Bonnard secondo la quale « le differenze fra la democra­zia rappresentativa moderna (leggasi: Francia, Stati Uniti) e la costruzione politica dei nazionalsocialisti erano più di grado, di quantità, che di qualità », Cantimori 38

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38 Cfr. d e l i o c a n t i m o r i , r e e . a G . p e r t i c o n e , Storia del socialismo, i n « S o c i e t à » , 1945, n . 4.29 Cfr. d e l i o c a n t i m o r i , ree. a L . f e b v r e , Autour de l'Heptaméron. Amour sacré, Amour profane, in «Società», 1945, n. 3. Ma per i l significato di questa recensione cfr. G . m i c c o l i ,

Aspetti della riflessione storiografica di Delio Cantimori fra guerra e dopoguerra, cit., pp. 31-34.30 Cfr. d e l i o c a n t i m o r i , ree. a w. r ò p k e , Civitas Humana, Grundfragen der Gesellschafts­und Wirtschaftsreform, in «Società», 1946, n. 6.31 Sul volume di Bonnard, uscito nel 1936, e sul giudizio di Cantimori nel 1937, cfr. m i c h e l e

C i l i b e r t o , Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, Bari, De Donato, 1977, pp. 171-96.

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commentava: « Non si tratta di espedienti giornalistici, ma di tendenze più profon­de [ . . . ] È una critica alla tradizione rivoluzionaria, democratica, progressiva europea che comincia con I’89; critica che prende forme diversissime, ma che tende sempre allo stesso scopo [ . . . ] Si va dallo svuotamento alla deformazione della storia delle democrazie e delle idee democratiche, alla loro negazione e via dicen­do » 32. Ricostruzione puntuale di quella storia riconosciuta come propria, ma attenta e altrettanto puntuale considerazione della « tendenza più profonda » per cui era stata deformata e svuotata: su questo doppio e difficile binario ricerca storica e riflessione storiografica nel Cantimori di « Società » si congiungevano.

Ai margini degli interessi storici di « Società », nei primi due anni, rimanevano, quasi inevitabilmente, proprio la storia d’Italia nella sua specificità, e la riflessione sulla formazione dello stato unitario come origine di quel « male italiano » che si sarebbe manifestato nel e col fascismo. Si tratta di un problema che ci sembra essenziale, anche per la vicenda stessa della rivista, e che può essere parzialmente compreso tenendo conto di una molteplicità di fattori. Va innanzi tutto rilevato che siamo al di qua della pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, e che gli unici articoli complessivi sono quelli pubblicati sì su « Società », ma preesistenti, di Emilio Sereni33 34. Sono constatazioni di fatto che ripropongono la questione del gruppo animatore della rivista nel 1945 e nel 1946. Bianchi Bandinelli, Luporini, Bilenchi, Cantimori, Manacorda, giovani e meno giovani, provenivano da un itine­rario che, pur con diverse connotazioni, aveva in comune l’essere stato percorso in Italia negli anni del fascismo, e l’essersi congiunto al partito comunista nel periodo compreso fra la guerra civile spagnola e la Resistenza. Per molti di loro, come si è visto, il tentativo era quello di uscire dalla storia d’Italia per riconoscersi in una più ampia tradizione socialista, e non a caso Cantimori aveva collocato gli scritti di Gramsci, peraltro ancora ignoti, fra gli studi utili alla « precisa penetra­zione » del pensiero marxista, e aveva affermato che occorreva rileggere la storia d’Italia dal punto di vista della storia del movimento operaio. A tutti era verosimil­mente ignota quella riflessione storica che, sia pure con differenze di rilievo, era stata propria al gruppo dirigente del partito comunista negli anni del carcere e dell’esilio, e che nella storia dell’Italia unita e delle sue classi dirigenti aveva tro­vato il suo centro (si pensi a Gramsci, Sereni, Grifone, lo stesso Togliatti). Inoltre proprio l’origine del gruppo animatore di « Società » rendeva particolarmente arduo rileggere la più recente storia italiana, di cui essi sentivano il disagio di aver fatto parte: non bastavano certo né la distinzione fra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo, avanzata sul « Politecnico » da Vittorini43, né gli accenni al « nicode- mismo » di Cantimori35. Del resto assai significativo era un articolo anonimo, Let­teratura d’occasione, dove si affermava: « C’è stata la guerra, ed è finita da poco: nessuno di noi, in certi istanti, è più capace di ricordare quale fosse la sua vita di uomo, prima [ . . . ] Per questo ciascuno di noi non riconosce il proprio passato [ . . . ] Il nostro passato ci sembra, ormai, l’unica storia incomprensibile di tutte le storie dell’uomo, e crediamo più vicino a noi, non sappiamo, il Rinascimento o l’Ottocento, che i tristi anni di ieri [ . . . ] Siamo disarmati di fronte ai fatti ». Senso quindi di una « crisi », di una « instabilità delle coscienze », da cui nasceva

32 Cfr. delio cantim ori, ree. a D. Thomson , The Babeuf plot. The making of a republican legend, in «Società», 1947, n. 3.33 Cfr. em ilio sereni, La formazione del mercato nazionale e Le classi agricole e lo Stato nella politica della Destra, in «Società», 1945, n. 3 e n. 4 e 1946, n. 5.34 Cfr. elio Vitto rin i, Fascisti i giovani?, in « Il Politecnico », 5 gennaio 1946, n. 15.35 Cfr. D. cantim ori, ree. a G. perticone, Storia del socialismo, cit.

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l’unica letteratura possibile, una « letteratura d’occasione », appunto36. L’articolo riprendeva gli argomenti di un intervento di Piazzesi, nel quale si notava: « L’evi­denza immediata dei fatti ha sempre spaventato gli storici e gli artisti, perché non possono avere ancora quel distacco necessario, in un diverso senso, ad ambedue, per vedere le cose; ma una cronaca, questo genere quasi dimenticato di narrazione, è ancora possibile e socialmente di una non prevedibile importanza » 37 38. Non si vorrebbero forzare troppo i testi, ma non possono non tornare alla mente la con­trapposizione una volta accennata da Cantimori fra storia e cronaca, e un’osserva­zione con cui Manacorda aveva concluso una sua recensione, criticando l’autore per aver guardato ai fatti «ancora <dal di dentro> e non <dal di fuori>. Cronaca, non storia » 3S. È come se in qualche modo i limiti della cronaca, se rivolta al pas­sato storico, divenissero non più accettabili, ma quasi inevitabili di fronte al passato più recente, di fronte a una realtà che poteva per ora essere letta solo « dal di dentro ». Ma si apriva così, anche, una forma di supplenza della letteratura nei confronti della storia contemporanea.Una difficoltà, questa, di cui peraltro i redattori di « Società » sembravano almeno in parte consapevoli. Sull’ultimo numero del 1946, in apertura dell’articolo di Emi­lio Sereni su Napoli, già apparso su « Stato operaio » nel 1938, una nota redazionale affermava:

Troppo spesso si dimentica che certe verità, certe affermazioni, che per l’antifascismo mili­tante sono divenute, attraverso una faticosa elaborazione, luogo comune ormai indiscusso, non sono state né conosciute né tanto meno digerite da centinaia di migliaia di italiani, e particolarmente dalle giovani generazioni [ . .. ] Quanti sono gli italiani della giovane generazione che conoscono le vivaci e fruttuose polemiche che nella stampa antifascista clandestina si sono sviluppate intorno alla natura e al carattere di classe del fascismo? [ . . . ] Per questo reputiamo necessaria, sulle pagine della nostra rivista la pubblicazione di documenti, di articoli di impostazione e di polemica antifascista39.

Sullo stesso numero della rivista era pubblicata la prima parte dell’ampia testimo­nianza di Antonio La Penna sull’itinerario dei giovani negli ultimi anni del fasci­smo, e la seconda parte era accompagnata anch’essa da una nota redazionale: « Lo scritto di La Penna ha valore di testimonianza e come tale è stato pubblicato qui. Molti giovani si riconosceranno in esso. Ma crediamo che molti altri, anch’essi giovani intellettuali comunisti, non riconosceranno in esso la strada da loro per­corsa [ . . . ] Li invitiamo a discutere » 40. Di fatto si trattava di una proposta per conoscere reciprocamente i diversi itinerari che avevano condotto dall’interno del fascismo o dalla lotta antifascista a ritrovarsi nelle file comuniste; un tentativo di superare in questo modo la « cronaca ». Ma le due iniziative non ebbero seguito, e ciò avrebbe avuto un peso nella successiva fase di « Società ».Nel 1947, a proposito dell’introduzione di Barbagallo alla ristampa del volume di De Rosa su Sismondi, Cantimori affermava: « Diventa semplicemente questione di pulizia, di richiamo al dovere che tutti abbiamo di distinguere pulitamente fra propaganda, polemica, azione politica mediante l’oratoria in tutte le sue forme e con tutti i suoi tranelli, ricerca e giudizio storici, critici, filologici, scientifici: dovere che abbiamo tutti, modesti ricercatori e filologi come grandi studiosi, giovani e

36 Cfr. L e tte r a tu r a d 'o c c a s io n e , in «Società», 1945, n. 4.37 Cfr. G. pia z ze si, N e c e s s i tà d i un a c ro n a c a , cit.38 Cfr. delio cantim ori, ree. a G. walter , H is to ir e d e s J a c o b in s , cit. e gastone Manacorda, ree. a E. lazzareschi, D a v id e L a z z a r e t t i , il m e ss ia d e l l’A m ia ta , in «Società», 1946, n. 7-8.39 Cfr. la premessa redazionale a em ilio sereni, N a p o li , in «Società», 1946, n. 7-8.40 Cfr. Antonio la penna, / g io v a n is s im i e la cu ltu ra n e g li u lt im i a n n i d e l fa s c is m o , II, cit.

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vecchi, ignoti e illustri. Altrimenti non ci si intende più, non ci si può più inten­dere » 41. Considerazioni che rientravano, come si è visto, nell’atteggiamento con­sueto della rivista, ma che apparivano ora messe in discussione da Giuseppe Berti, che, sempre nel 1947, si soffermava, in una recensione, sulla situazione degli studi in Italia. Certo, nulla di più utile che una ricerca condotta « con onestà intellet­tuale, con rigore di metodo, sulla base di un continuo scambio di vedute »; ma Berti aggiungeva:

È possibile questo? Disgraziatamente è un fatto che noi marxisti ci troviamo oggi, in Italia, in una particolare situazione. Da una parte c’è la schiera numerosa e spregevole di quelli che hanno l’abitudine di porre la vela come spira il vento [ . . . ] Il loro « spirito » che da destra s’era spostato verso sinistra tre anni fa di nuovo tende a spostarsi a destra: miserabile pendolo! Dall’altra ci sono uomini di più elevata struttura intellettuale e mo­rale [ . . . ] a cui tuttavia, questa situazione fa comodo perché permette loro di svolgere con maggiore efficacia alcuni elementi tradizionali del loro pensiero [ . . . ] Non c’è da stupirsi, quindi, se questa avvelenata atmosfera [ . . . ] turba non diciamo la serenità nostra [ .. . ] ma la serenità degli studi, il loro coordinamento, il loro vigore, trasportando nel campo di quella che dovrebbe essere la disinteressata ricerca del vero considerazioni ed elementi di tutt’altro genere 42.

Un mutamento d’accento che non negava la richiesta di « distinzioni » avanzata da Cantimori, ma la legava all’esistenza di un clima di collaborazione, ormai venuto meno, ne rifiutava in sostanza il valore assoluto. Un mutamento d’accento tuttavia che va posto in relazione al mutare del clima politico del paese, al progressivo ridursi, col modificarsi del quadro internazionale e nazionale, degli spazi anche culturali impliciti nella proposta di « democrazia progressiva ». Senza tener conto di tutto ciò sarebbe difficile comprendere, con il 1947, non solo il cambiamento dei temi storiografici della rivista, ma anche del modo di trattarli.Già alla fine del 1946, del resto, gli editoriali Situazione registravano con preoc­cupazione il delinearsi, sempre più netto, dello scontro « tra forze reazionarie e progressiste » 43, e il progressivo affermarsi di una ricostruzione solo economica, volta a « ripristinare il passato », contro quella « ricostruzione indivisibile » econo-

« Cfr. DELIO CANTIMORI, ree. a L. de ROSA, G ia n C a r lo S i s m o n d i e la s u a o p e r a , con prefa­zione di C. Barbagallo, e a S tu d i s u G .C . S i s m o n d i , in «Società», 1947, n. 2.42 Cfr. Giu se ppe berti, ree. a j . thomas et f . venturi, D o m D e s c h a m p s : le v r a i s y s tè m e e a F. venturi, D a lm a z z o F r a n c e s c o V a s c o , L a je u n e s s e d e D id e r o t , L e o r ig in i d e l l’E n c ic lo p e d ia , L ’a n t ic h i tà s v e la ta e l ’id e a d i p r o g r e s s o in N .A . B o u la n g e r , in «Società», 1947, n. 4. Le consi­derazioni con cui Berti apriva la sua recensione erano presentate in contrapposizione all’attività di Franco Venturi, « che opina diversamente da noi per tanti aspetti ma che è rimasto finora, nel campo della cultura, uno studioso serio ed obbiettivo » con cui era possibile discutere « in un’atmosfera serena e nell’ambito dell’indagine seria e disinteressata ». Un giudizio tuttavia limitato da quel « finora », che meglio si precisava quando, più avanti, Berti notava che in alcune osservazioni « anche Venturi il cui pensiero è così agile e vivo, così aderente alla realtà [. . . ] purtuttavia tradisce talvolta certe origini ». E ancora Berti criticava alcune conclusioni cui era pervenuto (sia pure « in contraddizione » con le sue stesse premesse) Venturi, quando aveva osservato che gli enciclopedisti non erano in fondo che degli utopisti, sottovalutando la « profonda rivoluzione della società » che essi avevano preparato e che si era espressa nel gia­cobinismo e nel « movimento comunista egualitario moderno ». Diverso il giudizio espresso da Cantimori che, contrapponendo Venturi ad Hazard, aveva affermato, sempre a proposito degli enciclopedisti : « quanto più vicina alla realtà, la storia che ce ne ha fatto Venturi [ . . . ] il Ven­turi ci mostra quegli uomini in movimento, calati entro la società, le istituzioni, la vita civile e politica [ . . . ] : onde tutto il lavoro degli < enciclopedisti > acquista rilievo, prospettiva, signi­ficato in riferimento alla società nella quale agivano », cfr. delio cantim ori, ree. a P. hazard, L a p e n s é e e u r o p é e n n e a u X V I I I / é m e s iè c le , d e M o n te s q u ie u à L e s s in g , in «Società», 1947, n. 2.43 Cfr. S itu a z io n e , in « Società », 1946, n. 6.

mica, morale, culturale, politica, amministrativa, da cui sarebbe dipeso il futuro del paese 44. Timori a cui si accompagnava il restringersi degli spazi di confronto. Pur all’interno della polemica contro la « cultura sintetica », Arturo Massolo, nel 1945, dopo aver indicato nell’esistenzialismo « la coscienza in sé lacerata del mondo borghese », aveva così concluso il suo intervento: « Accetterà l’esistenzialismo di riconoscersi in questo giudizio? Ma quello che più importa, sarà il suo venire al dialogo » 4S. Per contro nell’ultimo numero del 1946 veniva tradotto l’articolo diJ. Frid in cui il pensiero di Sartre veniva indicato come un « perfido, cinico, vele­noso scetticismo e agnosticismo », la cui funzione era quella di un « cavallo di Troia gettato dalla reazione nel campo delle forze progressive » 46.Sintomi di cambiamento evidenti anche nel nuovo assetto di « Società » dal 1947: a Bilenchi, Bianchi Bandinelli, Luporini (dal 1947 responsabile), si affiancavano Delio Cantimori, Giuseppe Berti, Ambrogio Donini, Emilio Sereni, e, per il solo 1947, Ludovico Geymonat; nel 1948 entravano a far parte della redazione Gastone Manacorda e Carlo Muscetta. Contemporaneamente diminuivano, o quasi scompa­rivano, le collaborazioni di Cantimori e Bilenchi.Alcuni dei nuovi nomi, Cantimori, Manacorda, provenivano dall’interno della rivi­sta; altri, come Muscetta, avevano iniziato dal 1947 la loro collaborazione, ma avevano alle spalle un itinerario politico-culturale non dissimile da quello peculiare al gruppo fondatore di « Società ». Ma altri ancora, Berti, Donini, Sereni, prove­nivano da quel diverso cammino su cui la rivista aveva cercato di aprire una riflessione con la pubblicazione dello scritto di Sereni su Napoli. Un incontro, ma anche un permanere delle differenze, che influiva sul tono della rivista: i due iti­nerari rimanevano, per certi aspetti, reciprocamente irriducibili. Quella crisi della cultura borghese che era stata vissuta dai componenti del gruppo fondatore negli ultimi anni del fascismo come crisi della « propria » cultura, e che aveva avuto un peso non secondario nella faticosa ricerca di una cultura diversa, non attraverso schemi generali, i cui rischi erano personalmente noti, ma attraverso la cautela filologica e lo scrupolo analitico, era sentita dai comunisti che provenivano dalle file dell’antifascismo militante come crisi di un’« altra » cultura. Era, in fondo, quanto segnalava il differente orientamento dell’articolo di Massolo e dell’articolo di Frid su Sartre.Differenze che, ancora nel 1949, Giuseppe Berti registrava nella sua recensione a Dal diario di un borghese ed altri scritti di Ranuccio Bianchi Bandinelli, di cui ampie parti erano state anticipate su « Società »: « Per noi che ci siamo orientati verso il marxismo da giovanetti, e abbiamo vissuto per tanti e tanti anni nel cerchio ristretto dell’attività clandestina comunista, il libro rivela un mondo nuovo. Si ha come l’impressione di un incontro con qualcuno che avevamo mal conosciuto ». Si trattava di due tipi di intellettuali, quello espresso da Berti e quello espresso da Bianchi Bandinelli, di « specie diversa », che provenivano da « un cammino oppo­sto », ma che avrebbero potuto raggiungere un arricchimento reciproco nell’inte­grazione della doppia esperienza che essi esprimevano: « In realtà non vi può essere vera adesione ai principi del marxismo la quale non si accompagni sin dagli inizi a un processo di conoscenza e di aderenza intima e profonda alla realtà

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44 Cfr. Situazione, in «Società», 1946, n. 7-8.45 Cfr. arturo massolo, Esistenzialismo e borghesismo, in «Società», 1945, n. 3.46 Cfr. J. frid , J.P. Sartre e l’individualismo borghese contemporaneo, in «Società», 1946, n. 7-8. Una nota redazionale avvertiva che si trattava di una traduzione dalla « Literaturnaja Gazeta » del 19 ottobre del 1946.

politica e storica del proprio paese, così come non c’è orientamento politico e culturale il quale vada alla ricerca della giusta via (sia pure gradualmente e quasi a tentoni) che non finisca col portare ad un certo momento ad un’adesione ai principi su cui si fonda la visione marxista del mondo » 47.Era quanto era stato delineato nell’editoriale Nuova serie, nel sottolineare la diver­sa qualità fra l’aver aderito al partito comunista e l’essere marxista, fra « un impegno morale, maturato moralmente » e qualcosa che riguardava invece « la mente » 48. Ma se nell’editoriale Nuova serie si sottolineava il valore del marxismo come «metodo di lavoro della mente », la congiunzione di marxismo e comuniSmo nell’articolo Treni’anni, da attribuire verosimilmente a Giuseppe Berti49, si collo­cava in una data storica precisa, nella Rivoluzione d’ottobre: « La Rivoluzione di cui noi oggi ricordiamo l’anniversario per i principi che l’hanno mossa, per gli ideali che l’hanno animata, non è più un fatto esteriore a noi, ma piuttosto un fatto interiore, un fatto nostro, più nostro di quanto fossero i principi del 1789 e quel giacobinismo che li portò alle loro conseguenze estreme ». Una rivoluzione in cui « la teoria e la pratica », che alcuni volevano ancora considerare « quasi mondi diversi », si congiungevano, e da cui anzi era iniziata una « rivoluzione ideale », un « modo di essere » e un « modo di pensare », che appartenevano ad « uno stadio di sviluppo differente dal nostro » 50, e a cui si guardava in un duplice modo, come a un passato, una tradizione « interiore », e come a un futuro.Una sottolineatura che non modificava, apparentemente, gli interessi storici di « Società », ma che, anche in relazione agli interventi di Berti sul romanticismo, ne metteva fra parentesi il filo conduttore, il motivo ideale. Quella tradizione di « pensiero sociale », cui la rivista si era richiamata, si frantumava in rivoli diversi nell’ambiguità colta da Berti della sua doppia matrice razionalista e romantica nel pensiero di Rousseau, delle sue « oscillazioni » spietatamente messe in luce dalla « cruda lezione degli avvenimenti del 1848 » 51, e, per altri aspetti, non era più frutto di una ricerca aperta, di esperienze da verificare e con cui confrontarsi, ma aveva ora nella Rivoluzione russa un punto d’arrivo preciso, un termine di para­gone d’obbligo.Il sovrapporsi a quella tradizione dell’altra, « più nostra », della Rivoluzione d’ot­tobre, e lo spostarsi della battaglia politica più immediatamente nel campo della ricerca culturale —• evidente tanto nel venir meno nella rivista di spazi di inter­vento politico autonomo come gli editoriali Situazione o la rubrica « Riviste poli­tiche », quanto nelle numerose recensioni di Berti, fra cui quella famosa a Wet- ter 52 — comportavano conseguenze di un certo significato.

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47 Cfr. Giu se ppe berti, ree. a R. bianchi bandinelli, Dal diario di un borghese ed altri scritti, in «Società», 1949, n. 2. Anticipazioni del volume di Bianchi Bandinelli erano apparse, firmate con lo pseudonimo di Giovanni Douro, nella prima annata di « Società ».48 Cfr. Nuova serie, cit.49 Tale attribuzione è resa verosimile dal confronto testuale fra Trentanni, in «Società», 1947, n. 4, pp. 439-40, e Paimiro Togliatti e il movimento operaio italiano, in «Società», 1948, n. 2, p. 150. Anche questo secondo articolo era anonimo, ma si trattava della ristampa dell’ar­ticolo pubblicato in occasione del cinquantesimo compleanno di Togliatti su « Stato operaio » nel 1943, quando la rivista usciva a New York, con la direzione di Berti.50 Trentanni, cit.51 Cfr. Giuseppe berti, Appunti sull’epoca romantica, in « Società », 1946, n. 7-8.52 Cfr. Giu se ppe berti, ree. a g.a. w etter , Il materialismo dialettico sovietico, in «Società», 1947, n. 5. Su questa recensione di Berti e le sue ripercussioni cfr. G. Manacorda, L o storico e la politica. Delio Cantimori e il partito comunista, cit., pp. 78-81. e s. Bertelli, Il gruppo, cit., pp. 334-37 e pp. 339-41.

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Da un lato, infatti, la preesistente attenzione per temi come quelli delle origini ottocentesche del movimento operaio cominciava a dare i suoi frutti — basti pensare al saggio di Gastone Manacorda Sulle origini del movimento operaio in Italia nel primo numero di « Società » del 1947 — frutti tali da indurre lo stesso Manacorda a proporre a Luporini la creazione di una « rubrica fissa, che potrebbe essere < Materiali per la storia del movimento operaio in Italia > » 53; dall’altro lato si ha sempre più l’impressione di trovarsi di fronte al proseguire di ricerche indi­viduali, che non apparivano più legate a un’ipotesi unitaria. L’attenzione della rivista veniva ora sollecitata nella direzione che era stata più peculiare alla forma­zione dei comunisti che avevano vissuto intera l’esperienza dell’antifascismo, e che nella specifica lettura di Berti era da una parte ricerca delle antiche cause del « male italiano » 54 e dall’altra energico richiamo all’origine del comuniSmo più nella rivoluzione russa, nella pratica e nel fatto rivoluzionario, che nella storia del pensiero sociale e dei movimenti democratici del XIX secolo, che pure, come è noto, ebbero proprio in Giuseppe Berti uno dei loro maggiori studiosi e interpreti.Sembra così di poter cogliere una sorta di dicotomia fra la specifica ricerca storio­grafica che proseguiva su « Società », e il tessuto connettivo, di fatto proposto da Berti, cui non corrispondevano, a loro volta, ambiti di ricerca e di indagine scien­tifica omogenei. Il mancato approfondimento, o addirittura l’assenza di analisi, relativamente all’URSS, alla storia dell’Internazionale, alla storia specifica del par­tito comunista, al fascismo, e in genere alla storia dell’Italia contemporanea, già sottolineati per i primi due anni, divenivano ora decisivi. Il recupero d’identità, la complessa definizione del « dentro dove » operare che « Società » si era prefissa, con la diversa accentuazione promossa da Berti, rimanevano in qualche modo patri­monio personale dei protagonisti della storia del partito e della lotta al fascismo, di coloro che « non soltanto conoscono la lingua russa ma da molti anni seguono questi problemi », come aveva severamente ammonito Berti nella recensione a Wetter 5S, o venivano affidati ai testi gramsciani, che cominciavano ad essere anti­cipati su «Società» e su «Rinascita». E d’altronde i primi contributi di Roberto Battaglia sulla Resistenza, pur affermando in linea di massima la necessità di colle­game la storia a quella del fascismo e dell’antifascismo, ne sottolineavano di fatto il valore di punto di partenza, di inizio di una diversa, seppure in fieri, storia d’Italia 56.In questo senso la progressiva pubblicazione dei Quaderni di Gramsci non sembra aver avuto nell’immediato riflessi significativi nella rivista. Fino ai più tardi articoli di Giorgio Candeloro 57 i Quaderni sembrano più supplire alla mancata riflessione

53 Lettera di Gastone Manacorda a Cesare Luporini del 13 febbraio 1947. Ringrazio il prof.Gastone Manacorda per avermi permesso di utilizzare questa e le altre lettere citate più avanti. 5+ Cfr. Giu se ppe berti, Il «male» italiano, in «Società», 1948, n. 3. In questo articolo Berti ribadiva che « la misura di ogni movimento democratico non è da cercarsi tanto nelle idee quanto nei fatti. I fatti sono il legame col popolo [ . . . ] » , e indicava nel pensiero di De Sanctis e Spaventa « il limite estremo a cui giunse rintellettualità progressiva italiana del secolo XIX », limite che il solo Antonio Labriola sarebbe stato in grado di superare.55 Cfr. G. berti, ree. a g.a. w etter , Il materialismo dialettico sovietico, cit.56 Cfr. Roberto battaglia, Il problema storico della resistenza, in « Società », 1948, n. 1.57 Cfr. soprattutto Giorgio Candeloro, Adolfo Omodeo, storico del Risorgimento, in « So­cietà», 1949, n. 4. Ancora una volta va sottolineato come il problema fosse stato intuito, ma non risolto, già negli anni precedenti. Il 16 novembre del 1947 Luporini aveva scritto a Mana­corda di ritenere urgente « mettere < dettagliatamente > le cose a posto con l’Omodeo della Restaurazione ecc., con tutto quel gruppo di studi deH'Omodeo che sta, se non sbaglio, facendo un gran male e recando una gran confusione. Se Delio si facesse un po’ di coraggio. Questo compito toccherebbe proprio a lui ».

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sulla storia italiana nel suo complesso, che pure era stata patrimonio specifico della tradizione politico-culturale del partito comunista, che divenire consapevole avvio di ricerca storica concreta. Bisognerà aspettare, sembrerebbe, la pubblicazione di Letteratura e vita nazionale nel 1950 perché il richiamo a Gramsci, generalizzato quanto anche generico, assumesse contorni più precisi ma, forse, riduttivi, e co­munque con un sintomatico spostamento, che trovava preciso riscontro nelle pagine di « Società », dalla storiografia alla letteratura come centro aggregante degli inte­ressi della rivista.Rimanevano così senza svolgimento, ed era difficile potesse essere altrimenti, il richiamo di Sereni alla continuità di pensiero fra il quasi ignoto — per chi non aveva personalmente vissuto la storia del partito comunista — Gramsci dell’« Or­dine nuovo » e il Gramsci dei Quaderni5S; ma anche il tentativo di Berti di recu­perare il pensiero democratico russo dell’Ottocento 58 59 *, esplicitamente caratterizzato dall’analogia suggerita con la riflessione gramsciana e dall’esaltazione dei legami con la cultura italiana 6°, quasi a sottolineare la non estraneità della tradizione russa e delle lontane origini culturali del 1917 rispetto alla storia d’Italia. Sembra comunque significativo del profilarsi di una nuova centralità della letteratura come strumento di coscienza nazionale e di rinnovamento sociale il fatto che Berti stesso precisasse: « La letteratura e la critica letteraria specialmente furono appunto il sintomo più elevato di questa coscienza, furono non una parte soltanto della vita nazionale russa, ma lo specchio luminoso e completo di questa vita nella sua interezza [ . . . ] La critica letteraria non fu, quindi, critica letteraria pura e sem­plice. Fu filosofia, fu storia, fu pensiero sociale, fu la vita civile e politica russa » 61.L’asserita volontà di « Società » di porre al suo centro la storia e di aprire un confronto con la cultura italiana sul piano dei materiali proposti, veniva così a dar vita ad un esito contraddittorio. Da un lato infatti era sempre più insistente la richiesta della cultura come strumento ideologico complessivo più adeguato alla

58 Cfr. em ilio sereni, Gramsci e la scienza d’avanguardia, in «Società», 1948, n. 1.59 Ci si riferisce alla pubblicazione di v. b ielin sk ij, Uno sguardo alla letteratura russa, N. dobroliubov, Lettera da Torino (1861), a.j . herzen , Polemiche e discussioni filoso fico-letterarie, N. cerniscevski, Lessing nella storia del popolo tedesco, rispettivamente in « Società », 1947, nn. 1, 2, 4 e 1948, n. 3, tutti introdotti da una premessa anonima, ma di Giuseppe Berti. Una riflessione, quella sul pensiero democratico russo, che ora diveniva caratterizzante, ma che non era stata estranea al primo periodo di «Società»; nel 1945 era stata tradotta la Storia della rivolta di Pugaciov, di A. Puskin, da Maria Bianca Gallinaro (cfr. «Società», 1945, nn. 3 e 4), seguita l’anno successivo da un commento della stessa m .b. gallinaro, Pusckin e Pugaciov (cfr. «Società», 1946, n. 5). Allora tuttavia l’accento era soprattutto, nella consueta linea della rivista nei suoi primi due anni, sul confronto « tra i materiali e la cronaca, tra la cronaca e la crea­zione poetica ».80 Nella nota introduttiva a N. dobroliubov, Lettera da Torino, cit., si osserva: « L’elogio più alto che si può fare di Dobroliubov è di constatare che il giudizio che questo giovane straniero venticinquenne dà delle forze politiche e sociali a lui contemporanee del Risorgimento italiano è lo stesso giudizio a cui è giunto il nostro Gramsci [. .. ] Gramsci, maturato nella coscienza politica e storica di un secolo dopo, Gramsci che rifletté la vita intera su questi pro­blemi e che li esaminò non solo dopo due generazioni di studi e di indagini, ma, quello che più conta, dopo una lunga riprova storica. Il giovane viaggiatore russo venticinquenne vide chiaro nel Risorgimento nostro, in maniera viva e completa. Né egli fu il solo. Prima di lui v’eran state le note sull’Italia di Herzen, dopo di lui gli articoli su Cavour di Cernicevski [. .. ] che sono quanto di meglio si sia scritto sull’Italia nell’Europa degli anni sessanta». Nella nota introduttiva a a.j . herzen , Polemiche e discussioni filosofico-letterarie, cit., venivano sottolineati i rapporti di Herzen con Garibaldi, Mazzini, Saffi, Orsini e l’influenza, « la cui portata è difficile delimitare oggi », che egli ebbe su Pisacane.61 Cfr. la nota introduttiva a v. b iel in sk ij, Uno sguardo alla letteratura russa, cit.

Società »: storia e storiografia nel secondo dopoguerra 53

diversa collocazione politica del partito comunista, al suo isolamento, al rapido deterioramento del panorama politico nazionale e internazionale; dall’altro lato pro­seguiva, ma solo parzialmente in sintonia con tale richiesta, la ricerca dei fram­menti perduti della storia del movimento operaio, la paziente e ricca esplorazione su fonti dimenticate, su materiali dispersi. Una contraddizione che sembra confer­mata dal progressivo allontanarsi da « Società » di Delio Cantimori. Le due « anime storiche » di « Società », prodotto di quei « cammini opposti » di cui Berti aveva parlato, invece che integrarsi, come pure era stato auspicato, sembravano sovrap­porsi e in qualche modo indebolirsi a vicenda. Già nel 1947, del resto, Luporini segnalava a Manacorda che la storia e le recensioni, in cui si era espresso nei primi due anni, forse, il meglio della rivista, erano divenute « i due punti critici di < Società > » 62; e i problemi della rivista si accentuavano nel 1948, quando an­cora Luporini scriveva a Manacorda: « Sono molto preoccupato per lo sviluppo di <Società>. Non c’è verso di pianificare almeno in un minimo la collaborazione; non c’è verso di legare i collaboratori a un lavoro regolare. Non ho ancora rivisto Cantimori; ho solo qualche speranza che le ultime vicende lo riavvicinino un po’ alla rivista. D’altra parte smettere proprio ora la rivista mi sembrerebbe uno sbaglio [ . . . ] » 63.

Con il 1949 la struttura di « Società » si modificò sensibilmente. Il comitato di redazione, che aveva nel 1947 sostituito l’originaria direzione, si allargò ulterior­mente con l’ingresso di Mario Alicata, Massimo Aloisi, Antonio Banfi, Vezio Cri- safulli, Raffaele De Grada, Franco Ferri, Maria Bianca Gallinaro, Concetto Mar­chesi, Rodolfo Morandi, Emanuele Rienzi, Carlo Salinari, Natalino Sapegno. Un comitato che, accanto a nomi, per così dire, di facciata, segnalava anche un allar­gamento degli interessi della rivista verso il settore scientifico, lo spettacolo e le arti, e i problemi scolastici. La rivista, inoltre, si articolava ora in rubriche fisse (« Note e discussioni »; « Rassegne »; « Recensioni »). Era la premessa al passaggio di direzione, nel 1950, a Gastone Manacorda, affiancato da un comitato di reda­zione nuovamente più agile (Massimo Aloisi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Delio Cantimori, Vezio Crisafulli, Ambrogio Donini, Antonio Giolitti, Lucio Lombardo Radice, Cesare Luporini, Natalino Sapegno), direzione e redazione che rimasero immutate fino al 1953, quando la direzione venne assunta da Gastone Manacorda e Carlo Muscetta, e venne meno il comitato di redazione.Dal 1949 cominciava inoltre l’ampia e caratterizzante collaborazione di Natalino Sapegno 64, accompagnata da una ripresa di interesse per la letteratura italiana con­temporanea 6S, tema che era quasi scomparso nel 1947-48, probabilmente in rela­zione alla messa ai margini di Bilenchi66: è la conferma di quella maggiore atten­zione per la letteratura e per la critica letteraria, che culminò nella serie di articoli

62 Lettera di Cesare Luporini a Gastone Manacorda del 29 marzo 1947.63 Lettera di Cesare Luporini a Gastone Manacorda del 26 gennaio 1948.M Nel 1949 (nn. 1 e 3) apparivano i due ampi saggi di Natalino Sapegno, Storia di Carducci e Alfieri politico. La collaborazione di Sapegno sarebbe continuata costante fino al 1953.63 Anche la ripresa di interesse per la letteratura contemporanea italiana appare legata al nome di Natalino Sapegno, di cui nel 1950 (n. 2) appariva il saggio su II narratore Jovine. Un interesse confermato dal numero crescente di interventi di Giuliano Manacorda e Niccolò Gallo, e soprattutto dalla sempre più vivace collaborazione di Carlo Muscetta.66 Cfr. romano bilen ch i, Amici. Vittorini, Rosai e altri incontri, Torino, Einaudi, 1976, pp. 142-45. Sui rapporti Bilenchi-« Società » tra il 1946 e il 1947 cfr. s. Bertelli, Il gruppo, cit., pp. 317-18 e pp. 331-33.

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dedicati a Francesco De Sanctis fra il 1952 e il 1953 67. In questo senso, come si era accennato, i nuovi interessi della rivista si combinavano con i temi di Lettera­tura e vita nazionale di Gramsci, riassorbendo spunti anche dagli altri Quaderni, e si risolveva, almeno in parte, quella contraddizione fra ricerca e ipotesi di lavoro complessiva in un campo, tuttavia, diverso da quello propriamente storiografico, e in termini innovativi, ma non certo antagonistici rispetto alla tradizionale cultura italiana, di cui pure proprio « Società » aveva un tempo criticamente segnalato i limiti « umanistico-letterari ».Del resto sempre nel 1949 venivano fondati l’Istituto Gramsci e l’Istituto Feltri­nelli, e una nuova rivista, « Movimento operaio », quasi a indicare da un lato una maggiore settorializzazione della ricerca storiografica e dall’altro il fatto che la sua collocazione editoriale non appariva più essenziale in «Società», tanto che, dopo i primi e più difficili rapporti, ricerche e collaboratori apparivano di fatto interscambiabili fra « Movimento operaio » e « Società », dove Manacorda poteva dar vita a quella rubrica « Materiali per la storia del movimento operaio », auspi­cata fin dal 1947, ma a cui il sorgere del nuovo periodico dava un significato diverso 68. In effetti su « Movimento operaio », e non su « Società », nel 1955 si

67 Era ancora Natalino Sapegno ad aprire questo tema con un articolo significativamente intitolato Manzoni tra De Sanctis e Gramsci («Società», 1952, n. 1). Nel 1953 il tema desancti- siano sarebbe stato portato avanti con i contributi di Sapegno, Cantimori e Ferretti. Nel 1954, inaugurando la decima annata di « Società », i due direttori, Gastone Manacorda e Carlo Mu- scetta, in un articolo intitolato Gramsci e l’unità della cultura, così tracciavano sommariamente la vicenda della rivista: «Gli anni trascorsi dalla sua nascita sono quelli stessi che ci separano dalla data della definitiva caduta del fascismo. (Società) nacque allora, ad opera di nostri amici che sono ancora e sempre fra i suoi migliori collaboratori, nel momento in cui era ope­rante la forza unificatrice della Resistenza, e rifletté allora con vivace immediatezza questa situa­zione; poi si raccolse in un gruppo più ristretto, quasi per un bisogno di approfondire, di chiarire nella mente stessa dei suoi promotori le premesse teoriche e storiche di un rinnova­mento della cultura italiana. E questa esigenza venne avvertita nel momento stesso in cui si iniziò la pubblicazione degli scritti del carcere di Antonio Gramsci, che ebbero un significato e una portata decisiva, con la loro ricchezza problematica e le loro molteplici indicazioni di me­todo, nel chiarire a noi stessi i nostri compiti ». Un Gramsci di cui, nello stesso articolo, veni­vano sottolineati gli accenni in positivo a Bertrando Spaventa e « i richiami pieni di < simpatia > a Francesco De Sanctis, considerato punto di riferimento centrale per i problemi dell’arte », elementi essenziali per comprendere come per Gramsci « una cultura nuova si debba fondare in una tradizione nazionale ».68 Nel 1951, sotto la rubrica «Materiali per la storia del movimento operaio», apparivano su « Società » i contributi di Gianni Bosio raccolti sotto l’unico titolo La diffusione degli scrini di Marx ed Engels in Italia del 1871 al 1892 (nn. 2 e 3). Come è noto, su « Movimento ope­raio», sin dal primo fascicolo, Bosio aveva curato il Carteggio da e per l'Italia (1871-1895) di Marx e Engels, e nel n. 15/16 del 1951 di «Movimento operaio» era pubblicato il contributo sempre di Bosio La fama di Marx in Italia dal 1871 al 1883. Un tema che era proseguito su entrambe le riviste da Ernesto Ragionieri con le riflessioni sul Risorgimento italiano nell’opera di Marx ed Engels e sulla fortuna del carteggio marx-engelsiano. Nella stessa rubrica « Mate­riali per la storia del movimento operaio» di «Società» (1951, n. 4), appariva la pubblicazione delle lettere fra Engels e Cafiero a cura di Paolo Basevi; su Cafiero si era soffermato Bosio in «Movimento operaio». Su «Società», inoltre, vennero pubblicate le ricerche di Franco Bella Peruta su Le condizioni dei contadini lombardi nel Risorgimento (1951, n. 2) e un’appendice relativa alla stampa socialista in Sicilia, sempre a cura di Della Peruta (1949, n. 1), pubblica­zioni che si collegavano ai minuziosi studi di Della Peruta su « Movimento operaio » e alle sue indagini sulle « fonti » del movimento operaio e socialista. Ancora su « Società » apparve Le origini della lotta di classe nell’agro romano (1870-1915) di Alberto Caracciolo (1949, n. 4), che portava avanti questo stesso tema su « Movimento operaio » col taglio più proprio di que­sto periodico di ricognizione delle fonti. In alcuni casi poteva capitare che una stessa ricerca fosse iniziata su « Società » e proseguita in una parte successiva su « Movimento operaio » : era il caso di un articolo di Nicola Badaloni, la cui prima parte, col titolo Struttura sociale e lotta politica a Livorno negli anni 1847-49, venne pubblicata su «Società» (1950, n. 3), e la seconda, col titolo La lotta politica a Livorno tra il ’60 e l’80, apparve su « Movimento ope-

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svolse un dibattito sui compiti della rivista e sulla storiografia marxista 69; né sembra che un tema come quello della transizione dal feudalesimo al capitalismo, proposto da Giuliano Procacci e non riconducibile alla gamma di interessi di « Movimento operaio », riuscisse a destare in « Società » riscontri più che parziali70.Significativo appare che nel progetto di Manacorda per la trasformazione della rivi­sta in mensile, discusso nel 1952 ma non realizzato, delle 48 rassegne annual­mente previste ben 14 fossero riservate ad argomenti letterari, 17 a cinema, musica e teatro, e solo 6 alla storia71.Una particolare difficoltà, quella in cui versava la storiografia, da mettere anche in relazione, probabilmente, con le incertezze nel partito comunista a riaprire il discorso sul proprio passato, sull’Internazionale, sul fascismo: un dato difficile da definire allo stato della documentazione. Certo, degna di riflessione appare la vicen­da del volume Trentanni di vita del Partito Comunista Italiano (1921-1951), co­struito su un’ampia base documentaria, corredato da introduzioni storiche ai singoli periodi, che non venne mai pubblicato72; e vale anche la pena di ricordare che nel 1952 fu pubblicato un testo di Togliatti, A proposito del fascismo™, del 1928, ben anteriore, quindi, a quella tanto più ricca riflessione degli anni trenta, rimasta fino allora nella maggior parte ignota.

Fra il 1949 e il 1950, tuttavia, si svolgeva sulle pagine di « Società » un dibattito particolarmente significativo e per l’argomento di discussione, sollevato da Ernesto De Martino, e perché nella replica di Luporini apparve particolarmente evidente rinfluenza esercitata da Berti nella rivista.Nel suo articolo Intorno a una storia del mondo popolare subalterno De Martino poneva questioni nuove per « Società », che, dal suo specifico punto di vista, ripro­ponevano da un lato la centralità del compito dello storico e dall’altro il delicato problema della contemporanea presenza, in un unico individuo, del ricercatore e del militante politico: si trattava di quel rapporto teoria-prassi su cui « Società » insisteva particolarmente in quegli anni74. Non solo, ma De Martino, collocando al centro dell’attenzione il mondo popolare subalterno, suggeriva un’estensione di questo concetto fino a comprendere, accanto alle « forme culturali [ . . . ] dei popoli coloniali e semicoloniali », anche quelle « del proletariato operaio e contadino delle

raio » (1952, n. 3). Più specifici di «Società» sembravano essere gli interventi storiografici a carattere generale, come quelli di Zangheri o di Caracciolo sugli studi italiani e francesi di storia del movimento operaio (1951, nn. 2 e 4).69 11 dibattito era stato inaugurato da Armando Saitta nella rubrica « Pro e contra » del primo numero della nuova serie di « Movimento operaio » (1955) ed era proseguito con inter­venti di Enzo Santarelli, Rosario Villari, Leo Valiani, Guido Vicario, Roberto Zapperi; dopo la prima provvisoria conclusione di Saitta, nel primo numero dell’anno successivo apparivano ancora la lettera di Luigi Tassinari, Aldo Zanardo, Roberto Zapperi, Renzo De Felice, Piero Melograni e la replica di Delio Cantimori.70 Cfr. in particolare giuliano procacci, Per la storia delle origini del capitalismo in Francia e Dal feudalesimo al capitalismo: una discussione storica, in «Società», 1951, n. 1 e 1955, n. 1.71 Devo alla cortesia del prof. Gastone Manacorda l’aver potuto prendere visione del pro­getto tecnico di una « Società » mensile, elaborato nel 1952.72 Del volume esistono le bozze di stampa. Un’avvertenza precisa che tali bozze compren­dono i primi dodici capitoli completi e i tre successivi incompleti dei ventuno previsti nelpiano di pubblicazione. Si tratta di un ampio materiale che raggiunge, pur incompleto, le sette­cento pagine, e che ho potuto vedere nella copia in possesso del prof. Gastone Manacorda.73 Cfr. «Società», 1952, n. 4.74 Basti l’esempio della recensione di Emilio Jacomelli al Profilo di Antonio Labriola diLuigi Dal Pane, e della successiva discussione tra Dal Pane e Jacomelli, proprio su questopunto. Cfr. «Società », 1948, n. 2 e 1949, n. 1.

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nazioni egemoniche »: un processo vastissimo di emancipazione, quindi, accentuato dalla vittoria del socialismo « in un paese solo », che si dilatava irresistibilmente dai « popoli coloniali e semicoloniali che si sollevano contro il giogo imposto dai paesi egemonici » agli « strati subalterni, che, pur entro i singoli paesi egemonici, vengono lentamente acquistando coscienza della loro situazione reale e delle con­traddizioni che la caratterizzano, e che si schierano a fianco della frazione pili avanzata, più cosciente e più organizzata del movimento proletario ». Un’irruzione del mondo popolare nella storia che metteva in crisi la cultura tradizionale e sol­levava questioni la cui portata andava pienamente compresa. Da un lato, infatti, « queste masse irrompendo nella storia portano con sé le loro abitudini culturali, il loro modo di contrapporsi al mondo, la loro ingenua fede millenaristica e il loro mitologismo, e persino certi atteggiamenti magici. In una certa misura, questo imbarbarimento della cultura e del costume è un fenomeno inevitabile e concerne lo stesso marxismo »; dall’altro lato, dovere dell’azione politica era tener conto di tali tradizioni e utilizzarle in senso progressivo, ma compito dell’« alta cultura tra­dizionale » rimaneva quello di « storicizzare » il popolare e il primitivo. Compito, quest’ultimo, tanto più essenziale in quanto già una volta, e il sintomatico esempio fatto da De Martino era la Germania nazista, il « potenziale di energie » della cultura popolare era stato utilizzato in senso reazionario: « la storicizzazione delle forme culturali del mondo popolare subalterno, assegnando all’arcaico il suo esatto luogo storico, costituisce un mezzo importante per combattere il pericolo che l’ar­caico si tramuti, sotto la spinta di determinati interessi pratici, in una ideologia reazionaria attualmente operosa». Naturalmente questa «opera profilattica di sto­ricizzazione » era valida solo se accompagnata dalla lotta per la « reale inserzione nella storia » del mondo popolare subalterno. Da ciò De Martino traeva spunto per un ampio riconoscimento nei confronti della storiografia sovietica in questo spe­cifico campo: in essa, infatti, «i popoli cosiddetti < primitivi > appaiono all’orizzonte storiografico per entro il compito storico del loro riscatto [ . . . ] Il compito teore­tico della comprensione e quello pratico della trasformazione sono certamente distinti, ma non indipendenti e irrelativi »; non solo, ma tale storiografia aveva opportunamente rivolto la sua attenzione anche al « folklore operaio ». Una storio­grafia, peraltro, che non poteva essere meccanicamente trapiantata nei paesi occi­dentali, e perché era diversa la situazione obbiettiva — « nell’URSS il mondo popolare ha oramai soppresso la propria condizione subalterna » ■— e perché, so­prattutto in Italia, la « problematica etnologica e folkloristica » non poteva non entrare « in reazione » con la tradizione di pensiero storicistico. E De Martino concludeva rivendicando la « connessione organica » fra il suo « interesse teore­tico di capire il primitivo » e il suo « interesse pratico di partecipare alla sua libe­razione reale » 75.Naturalmente, e De Martino ne era consapevole, i nuovi interessi per la etnologia erano strettamente connessi alla crisi della civiltà occidentale, che si esprimeva in Italia nelle forme culturali del « catastrofismo » 76 e di una lettura « irrazionalista » dell’etnologia stessa, di un’attenzione per « il lato oscuro della nostra stessa anima

75 Cfr. ernesto de martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in « So­cietà », 1949, n. 3.76 Un problema questo particolarmente presente nella riflessione di quel periodo di Felice Balbo, che sarebbe stata duramente attaccata da Valentino Gerratana su « Società » (cfr. Le strane pretese della « filosofia dell’essere », 1950, n. 2). A Balbo era collegato il tentativo di dar vita nel 1950 a una nuova rivista, «Cultura e realtà», che esplicitamente nella sua Pre­messa affermava di voler uscire dagli « aut-aut disperati», dai «dilemmi insolubili» rifiutandosi di « aspettare dalla soluzione pratica della crisi materiale della società la soluzione della crisi

di occidentali », di cui già da questo momento De Martino indicava uno dei sintomi in quella collana etnologica di Einaudi, che non poche polemiche aveva provocato fra lui e Cesare Pavese, e contro la quale nel 1953, sempre su « So­cietà », avrebbe svolto un’ampia contestazione77.Nel 1950 Cesare Luporini si assumeva il compito di replicare al saggio di De Mar­tino, e, pur riconoscendo che esso rappresentava « un decisivo salto in avanti » rispetto all’originaria impostazione « idealistica » delle sue prime opere, ne indicava alcuni limiti: innanzi tutto « la tesi dell’imbarbarimento » della cultura, connessa all’irruzione nella storia del mondo popolare subalterno, una tesi forse dettata da una « deformazione professionale », ma non per questo meno errata; in secondo luogo il permanere di una distinzione di ruolo dell’« alta cultura » nella « storiciz- zazione del popolare, del primitivo »; infine la convinzione di De Martino che la cultura etnologica sovietica dovesse entrare necessariamente « in reazione » con la « tradizione di pensiero storicistico » italiana. Problemi in realtà riconducibili a un nodo unico, ma decisivo, che era alla base della critica di Luporini: l’avere De Martino indicato come mondo sulbalterno anche il « proletariato operaio e contadino delie nazioni egemoniche », sottovalutando radicalmente la « funzione particolare della classe operaia, come classe conseguentemente rivoluzionaria e pro­gressiva del mondo moderno », funzione alla quale era strettamente connessa « la situazione culturale della classe operaia » stessa, il suo « possesso di una dottrina d’avanguardia, di una scienza d’avanguardia, il marxismo, che è il prodotto più avanzato, più elevato del sapere umano, e non cultura subalterna » 7S.Implicito, ma evidente, nel discorso di Luporini, il richiamo al partito, punto di raccordo delle avanguardie coscienti, e depositario di quella non subalterna dot­trina che era il marxismo.Ma ciò che interessa sottolineare è il trasparente riferimento alla riflessione di Giuseppe Berti su « Società », presente nella contestazione, da parte di Luporini, dei due assunti di De Martino circa 1’« imbarbarimento » della cultura e l’antago­nismo fra pensiero russo e storicismo italiano. Sul primo punto, infatti, Luporini si rifaceva a una specifica obbiezione avanzata un anno prima da Berti alla con­vinzione di Bianchi Bandinelli che « agli uomini di cultura spetterebbe il compito di salvare ed estrarre dal patrimonio del passato quei veri valori che possono inte­grare il presente e il futuro impedendo così una rottura nel campo della cultura. Secondo lui non bisogna opporsi alla nuova civiltà che egli chiama (sia pure tra virgolette) la nuova <barbarie> ma armonizzarla con la civiltà vecchia»79. In quell’occasione anche Berti aveva indicato in tale atteggiamento il prodotto di una

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della cultura», ma agendo subito per la creazione di «mezzi concettuali nuovi» (1950, n. 1). Non dissimile, da un altro versante, l’esigenza che animava i promotori nel 1949 di quel «Fo­glio di discussioni », che nel 1950 si sarebbe trasformato nella rivista « Discussioni ».77 Cfr. ernesto de martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in « So­cietà », 1953, n. 2. Proprio su «Cultura e realtà», nello stesso numero in cui era apparso il suo saggio su II mito, Cesare Pavese recensiva l’intervento di De Martino su «Società», sotto­lineando il rischio che del mito lo studioso « scientifico » perdesse di vista « il carattere più importante: l’assoluto valore conoscitivo» che esso rappresentava, la sua «perenne vitalità nella sfera dello spirito» (cfr. c.p., Discussioni etnologiche, in «Cultura e realtà», 1950, n. 1). 75 Cfr. cesare Lu porini, Intorno alla « storia del mondo popolare subalterno », in « Società », 1950, n. 1. Anche De Martino, del resto, nella sua replica, si soffermava su questo unico punto, individuato evidentemente come quello centrale delle argomentazioni di Luporini (cfr. ernesto de martino, cesare lu porin i, Ancora sulla « storia del mondo popolare subalterno », in « So­cietà », 1950, n. 2).79 Cfr. G. berti, ree. a R. bianchi bandinelli, Dal Diario di un borghese ed altri scritti, cit.

« deformazione professionale », ed aveva aggiunto che a nessuno, individualmente, non certo ai « chierici », poteva spettare il compito di integrare valori culturali del presente e del futuro, in quanto questo era un processo « interiore » di cui « principale agente » era quel partito comunista cui peraltro Bianchi Bandinelli aveva aderito. « Processo interiore » che viene naturale collegare a quel « fatto interiore » che era stata, per Berti, la rivoluzione russa, punto di arrivo della tra­dizione democratica del pensiero russo dell’Ottocento. E Luporini, forzando in verità, o forse solo rendendo pienamente espliciti, gli assunti che Berti si era proposto con la sua ampia indagine, in « Società », sulla tradizione democratica russa, appunto, affermava ora, rifiutando il distinguo avanzato da De Martino fra una cultura nata dalla rivoluzione e lo storicismo europeo ed italiano:

Tutto il pensiero democratico e rivoluzionario russo del XIX sec., che ora si comincia a conoscere anche da noi, è un pensiero storicistico [ . . . ] La catena deH’imperialismo si è spezzata in Russia, non solo perché là vi era l’anello più debole, non solo perché là vi era il maggior cumulo di contraddizioni, non solo perché là vi fu il movimento operaio rivoluzionario meglio guidato e politicamente e ideologicamente più conseguente, ma per­ché la via ad esso era stata aperta dalla tradizione democratica rivoluzionaria russa del XIX sec. e dal movimento intellettuale che l’aveva accompagnata, nato daH’hegelismo, oltrepassante l’hegelismo, movimento storicistico allo stesso titolo per cui si deve chiamare storicistico il principale movimento intellettuale italiano dopo il 1848, il movimento del pensiero italiano dei De Sanctis e degli Spaventa. Vi è anzi qui qualcosa che apparenta il moto intellettuale italiano della seconda metà del XIX sec. e quello democratico rivo­luzionario russo e che li differenzia dagli altri paesi europei [ . . . ] Solo che quello stori­cismo democratico russo, dalle sue posizioni già più avanzate, è trapassato nella social- democrazia russa e poi nel partito bolscevico e nella Rivoluzione d’ottobre, mentre lo storicismo italiano, dopo Labriola, si è ritratto nella seconda fase del nostro storicismo, nell’idealismo gentiliano e crociano, cioè nella filosofia della borghesia italiana nell’epoca deU’imperialismo 80.

Il discorso di De Martino veniva così, nonostante il preventivo consenso di Lu­porini, respinto in nome di quella tradizione per cui erano stati affini, nel passato, l’esperienza russa e quella italiana, e che andava adesso ricomposta, respingendone gli esiti idealistici, e ricollegandosi pienamente alla rivoluzione sovietica. Era una messa a punto, una sistemazione, ed un rendere manifesto quanto Berti, che pure nel 1950, anno della replica di Luporini a De Martino, non faceva più parte della redazione di « Società », era andato sostenendo per frammenti, per indicazioni di nuovi campi di indagine, nel 1947 e nel 1948. Ed era anche, sembrerebbe, la dimostrazione di quanto le indicazioni di Berti facessero parte di una proposta unitaria che ora, nelle considerazioni di Luporini, diveniva pienamente esplicita.

LUISA MANGONI

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80 Cfr. c. LUPORINI, Intorno alla « storia del mondo popolare subalterno », cit.