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itudi e documenti Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia* Il testo che pubblichiamo è stato presentato dal gruppo centrale di ricerca del- l’Istituto nazionale come relazione introduttiva al seminario su « Storiografia po- litica e storiografia economica sull’Italia dal fascismo alla repubblica », tenutosi ad Ariccia nel gennaio di quest’anno, di cui la rassegna ha dato notizia nel n. 114 del gennaio-marzo. Il testo ha subito qualche ritocco dovuto al necessario aggior- namento e adattamento per la pubblicazione, mentre ne è stata soppressa la par- te conclusiva in quanto, per il suo contenuto propositivo di ipotesi di ricerca, ave- va un carattere maggiormente provvisorio e maggiormente « interno » al lavoro del gruppo stesso. Occorre qui richiamare, per intendere il significato e i limiti della relazione, sia il modo con cui è nata e gli scopi che si proponeva, sia — in sintesi — il dibatti- to cui ha dato luogo, che permette di coglierne meglio le aperture problematiche. Le difficoltà intrinseche ad un lavoro di ricerca che voglia mantenere carattere di collegialità pur sviluppandosi su piani e con approcci diversificati, hanno consi- gliato al gruppo di procedere ad un primo bilancio comune della storiografia sul periodo preso in esame, allo scopo di raggiungere una certa omogeneità di giudi- zio attraverso questo confronto necessariamente preliminare. Nello stesso tempo tale esame critico della storiografia intendeva porre le premesse per un dibattito con studiosi anche esterni al gruppo e all’Istituto, nell’intento — tra gli altri — di raccogliere tutte le indicazioni che un confronto « interdisciplinare » poteva offrire allo sviluppo della ricerca. Il risultato di questo — per quanto sommario e rapido — bilancio, può essere considerato, e viene in effetti proposto, come con- tributo ad un primo approccio agli studi sul periodo, anche in considerazione del crescente interesse da essi oggi suscitato. * Benché impostata e discussa collettivamente dal gruppo centrale di ricerca dell’Istituto nazionale, questa rassegna è stata affidata, per quanto riguarda la redazione dei singoli para- grafi, ad autori che conservano la responsabilità individuale dei giudizi espressi: N icola G allerano, II contesto internazionale-, L uigi G anapini, I partiti politici-, Marcello F lores, I problemi politico-istituzionali-, G ianpasquale S antomassimo, Il dibattito economico-, Mariuccia S alvati, Ricostruzione e disegno capitalistico-, Claudio Dellavalle, Il sindacato e Lotte sociali nell'Italia settentrionale-, P aolo de Marco, Aspetti del problema del Mezzo- giorno. Al dibattito collegiale hanno partecipato anche Antonio G ibelli (che ha redatto la presentazione della rassegna e ha collaborato alla parte sul sindacato) e Massimo L egnani, come componenti del gruppo centrale.

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Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia*

Il testo che pubblichiamo è stato presentato dal gruppo centrale di ricerca del­l ’Istituto nazionale come relazione introduttiva al seminario su « Storiografia po­litica e storiografia economica sull’Italia dal fascismo alla repubblica », tenutosi ad Ariccia nel gennaio di quest’anno, di cui la rassegna ha dato notizia nel n. 114 del gennaio-marzo. Il testo ha subito qualche ritocco dovuto al necessario aggior­namento e adattamento per la pubblicazione, mentre ne è stata soppressa la par­te conclusiva in quanto, per il suo contenuto propositivo di ipotesi di ricerca, ave­va un carattere maggiormente provvisorio e maggiormente « interno » al lavoro del gruppo stesso.

Occorre qui richiamare, per intendere il significato e i limiti della relazione, sia il modo con cui è nata e gli scopi che si proponeva, sia — in sintesi — il dibatti­to cui ha dato luogo, che permette di coglierne meglio le aperture problematiche. Le difficoltà intrinseche ad un lavoro di ricerca che voglia mantenere carattere di collegialità pur sviluppandosi su piani e con approcci diversificati, hanno consi­gliato al gruppo di procedere ad un primo bilancio comune della storiografia sul periodo preso in esame, allo scopo di raggiungere una certa omogeneità di giudi­zio attraverso questo confronto necessariamente preliminare. Nello stesso tempo tale esame critico della storiografia intendeva porre le premesse per un dibattito con studiosi anche esterni al gruppo e all’Istituto, nell’intento — tra gli altri — di raccogliere tutte le indicazioni che un confronto « interdisciplinare » poteva offrire allo sviluppo della ricerca. Il risultato di questo — per quanto sommario e rapido — bilancio, può essere considerato, e viene in effetti proposto, come con­tributo ad un primo approccio agli studi sul periodo, anche in considerazione del crescente interesse da essi oggi suscitato.

* Benché impostata e discussa collettivamente dal gruppo centrale di ricerca dell’Istituto nazionale, questa rassegna è stata affidata, per quanto riguarda la redazione dei singoli para­grafi, ad autori che conservano la responsabilità individuale dei giudizi espressi: N icola Gallerano, II contesto internazionale-, Luigi G anapini, I partiti politici-, Marcello F lores, I problemi politico-istituzionali-, G ianpasquale Santomassimo, Il dibattito economico-, Mariuccia Salvati, Ricostruzione e disegno capitalistico-, Claudio Dellavalle, Il sindacato e Lotte sociali nell'Italia settentrionale-, Paolo de Marco, Aspetti del problema del Mezzo­giorno. Al dibattito collegiale hanno partecipato anche Antonio G ibelli (che ha redatto la presentazione della rassegna e ha collaborato alla parte sul sindacato) e Massimo Legnani, come componenti del gruppo centrale.

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4 II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia

La scelta del tema specifico del seminario, vale a dire il rapporto tra storiografia « politica » e storiografia « economica », veniva dettata dalla constatazione larga­mente comune di un insufficiente livello di compenetrazione dei due piani del di­scorso, di modo che ai processi politico-istituzionali attraverso cui si viene attuan­do il passaggio dall’Italia fascista a quella repubblicana, finiscono per mancare, nel quadro tracciato dalla storiografia, i necessari riferimenti alla profondità della crisi economico-sociale e al suo graduale ricomporsi, che pure costituisce il punto nodale di verifica delle trasformazioni in atto nei paese. Da questo punto di vista è facile comprendere colite le linee interpretative di quel periodo certamente cru­ciale della storia contemporanea d’Italia e del movimento operaio, si siano sot­tratte fino ad oggi alle tentazioni di un atteggiamento deterministico e giustificato­rio da un lato, che vede nella ricostruzione e nel dopoguerra un seguito di passag­gi obbligati dettati dal peso di fattori interni e internazionali; o di un soggetti­vismo recriminatorio dall’altro, che si concentra sulle scelte delle forze politiche attardandosi a lamentare le « occasioni perdute ».

Occorre peraltro dire che su questo punto sono stati di recente compiuti passi avanti assai significativi, di cui la relazione ha cercato di tener conto adeguata- mente. Ciò nel senso appunto di passare da una controversia astratta sulle « re­sponsabilità » dei deludenti esiti del movimento di liberazione, quasi sempre fon­data sul confronto tra aspirazioni ed attese a posteriori e l ’evoluzione reale dei fatti, ad un più maturo confronto tra livello dello scontro sociale e sbocchi poli­tici, che tenta di delineare la dinamica effettiva e complessiva dei rapporti tra le classi lungo l’arco di tempo che va almeno dal ’43 al ’48, per molti versi decisivo ai fini dell’assestamento, non di breve durata, di tali rapporti. Ciò che si tenta di fare oggi — in una direzione che appare senza dubbio proficua sia sul piano dei suggerimenti interpretativi generali, sia su quello delle ricerche locali — è di dare ragione della globalità dei processi in corso, cogliendo nell’assestamento po­litico-istituzionale anche una risposta ed un tentativo di chiusura della crisi so­ciale; e reciprocamente nell’evolversi dei rapporti di forza tra le classi sul terreno più propriamente economico un momento e una premessa di quell’assestamento moderato del quadro politico che sia compie sulle soglie degli anni cinquanta. Questo nonostante le profondità delle lacerazioni prodottesi con l’entrata dell’Ita­lia in guerra e la crisi del regime.

Come semplice rassegna storiografica, il testo non può che rimanere molto al di qua di questa problematica. E tuttavia si è voluto almeno sommariamente richia­marla in quanto implicitamente sottesa, pur con diverse accentuazioni, ai contri­buti che compongono la relazione. L ’articolazione tematica in cui essi sono distri­buiti, non intende dunque configurare una separazione rigida in settori, ché anzi come si è detto l’angolazione da cui il gruppo di ricerca si pone è quella di una critica e di un superamento di ogni approccio settoriale, e in particolare di ogni separazione implicita o esplicita del momento internazionale da quello nazionale, del momento economico e di quello politico.

Quanto alla discussione apertasi nel corso del seminario, di cui è stato dato un ampio resoconto nel numero citato della rassegna, vale la pena di richiamarne al­meno i punti fondamentali, quelli intorno a cui il dibattito ha sostanzialmente ruotato.

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Innanzitutto la questione della periodizzazione. E parso ad alcuni che la limita­zione del discorso al periodo 1944/48 (particolarmente per quanto riguarda il termine ad quem) fosse non solo riduttiva, ma quel che più conta funzionale ad una accentuazione artificiosa degli elementi di arretramento e di sconfitta del mo­vimento operaio assunti come connotazione centrale del periodo stesso. Ora è senza dubbio vero che il discorso svolto intende dare a questo elemento il neces­sario rilievo, anche a correzione di una prospettiva che, dislocando le valutazioni sui tempi lunghi dei processi economici e politici, tende a mettere in ombra i bi­lanci anche parziali e quindi la sottolineatura delle potenziali alternative. Tutta­via, pur riconoscendo l ’importanza di un orizzonte cronologicamente meno angu­sto (che permetta di tornare a interrogarsi tanto sulle trasformazioni produttive e sugli orientamenti culturali maturati negli anni trenta, quanto sulle possibilità aperte ad un avanzamento del movimento operaio oltre il limite del ’48), è parso che l ’attenzione potesse e dovesse correttamente concentrarsi sugli anni in cui si vengono definendo, a grandi linee, i connotati costituzionali del regime repubbli­cano, la fisionomia delle forze politiche e i loro rapporti con la realtà sociale e con lo stato, determinati equilibri e rapporti di forza tra classi di modo che, per quanti siano gli elementi di continuità tra il prima e il dopo, una fase — quella della ricerca di un nuovo assetto complessivo dei rapporti sociali dopo la rottura dell’equilibrio proprio del regime fascista — può dirsi conclusa ed una nuova aprirsi, le cui linee fondamentali si prolungano in qualche modo sino al presente.

Per quanto riguarda l ’ipotesi di un rapporto « solidale » tra le forze politiche nel concorrere alla definizione di tale assetto sodale-politico, il dibattito -—■ pur sen­za superare in definitiva la diversità di interpretazione in proposito — ha alme­no chiarito che tale concetto non intende evocare una identità della « classe poli­tica » o un appiattimento della dialettica politica, né ignorare gli elementi di con­flittualità anche profonda che si determinano e si sviluppano tra partiti e schiera- menti; quanto piuttosto cogliere i non secondari elementi di consenso tra essi nel­la costruzione di un modello (democrazia delegata ed anche, sotto certi aspetti, fortemente centralizzata) di sviluppo e di dispiegamento della dinamica sociale, anche nella ipotesi di una sostanziale componibilità dei conflitti entro un quadro di equilibrato sviluppo economico e politico. Ne consegue la necessità di guar­dare con più attenzione di quanto non si sia in genere fatto, non solo ai rapporti di incontro e scontro tra i partiti e gli schieramenti, quanto al rapporto tra il qua­dro politico complessivo (che ha necessariamente una configurazione dialettica) e le istanze emergenti nella realtà sociale, evitando di esaurire queste in quello, e di trascurare i momenti di antagonismo e di contraddizione, sul piano delle esi­genze materiali e di potere, che queste hanno rispetto a quello.

L ’attenzione della discussione si è soffermata anche sul peso, da taluni giudicato troppo scarso, dato alla presenza dei ceti medi sulla scena politica italiana, e ai problemi che vi sono connessi del qualunquismo e del potenziale reazionario che condiziona l’intero sviluppo delle vicende. Quantunque tale fattore sia stato in genere amplificato, anche a motivazione delle scelte prudenti compiute allora dal­la sinistra sindacale e politica, nella preoccupazione di un precipitare della situa­zione che vanificasse anche i risultati minimi del movimento di liberazione prima che essi fossero consolidati in stabili conquiste, non vi è dubbio che il fenomeno

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merita attenzione e approfondimento forse maggiori di quello che non si è volu­to leggere nella storiografia, portando in primo piano l ’antagonismo di classe ope­raia e grande capitale. La preoccupazione dev’essere quella di riuscire a cogliere, anche nella presenza di tali pericoli e spinte involutive, non tanto un dato scon­tato e statico della situazione, quanto un aspetto della difficoltà e dei limiti regi­strati dal movimento operaio nella costruzione di un blocco sociale capace di esprimere un orientamento autonomo e alternativo rispetto alla restaurazione pa­dronale. Il che significa in altre parole che il peso dei ceti medi va visto nel qua­dro dell’evoluzione dei rapporti di forza complessivi, più che non come problema a se stante, e soprattutto superando ogni tendenza ad un riferimento indifferen­ziato ad essi, che ne trascuri le interne articolazioni ed i diversi rapporti con gli altri protagonisti dello scontro sociale.

Un ultimo punto di dibattito ha riguardato il ruolo e la fisionomia della Demo­crazia cristiana. È stato giustamente osservato che accentuando l’interesse per i protagonisti in qualche modo, almeno nel breve periodo, soccombenti, si trascu­ra talvolta di approfondire l’indagine sulle motivazioni, i modi, le forme, i tipi di consensi attraverso cui la Democrazia cristiana, sostituendosi perentoriamen­te alle tradizionali forze liberali, viene a conquistare l ’egemonia e il controllo del­lo stato, esprimendo un blocco di potere destinato a conservarsi a lungo nel tem­po. Una domanda posta nel dibattito — alla quale la storiografia non ha dato an­cora risposte sufficientemente articolate e soddisfacenti — è quella se la DC deb­ba essere considerata e si muova fin dall’inizio come forza organicamente e coe­rentemente conservatrice e restauratrice, ovvero se si possano cogliere elementi di una sua evoluzione in funzione dell’area elettorale e politica che tende a co­prire, i cui connotati sono essi stessi in evoluzione.

Al di là di questi richiami al dibattito in corso, che accentuano se possibile il ca­rattere problematico ed in certo senso provvisorio del testo, giova ripetere in con­clusione che esso vuole essere innnanzitutto proposto come strumento di lavoro offerto a quanti, in numero sempre crescente, vedono nel periodo post-bellico una fase cruciale della recente storia italiana, oggi tanto più degno di essere stu­diato quando gli equilibri da esso scaturiti sembrano essere messi profondamen­te in discussione.

Il contesto internazionale

Un punto di partenza per l’analisi del contesto internazionale può essere l’osser­vazione che Gastone Manacorda fece qualche anno fa a proposito delle origini e dei caratteri della « democrazia progressiva ». Secondo Manacorda, quella strate­gia si fondava sull’ipotesi « che l ’Italia si sarebbe ricostruita con le sole proprie forze, che le risorse mondiali sarebbero state scarse, che ad esse l’Italia come pae­se vinto non avrebbe potuto accedere se non in scarsissima misura. La “ democra­zia progressiva” dipendeva strettamente da questa ipotesi: cadendo l’una, cadeva necessariamente anche l ’altra. Non, dunque, la mancata educazione delle coscien­ze al socialismo, non un difetto di propaganda, ma piuttosto una sottovalutazione

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della forza del capitalismo mondiale, cioè in pratica degli Stati Uniti, è all’origine del fallimento della democrazia progressiva »

L ’indicazione che proviene da un tale giudizio rinvia pertanto a una valutazione del ruolo degli Stati Uniti e della coscienza che la classe dirigente americana ebbe delle possibilità espansive del capitalismo americano nel dopoguerra. Allo stesso tempo, risulta di grande importanza stabilire quale fu, viceversa, la valutazione che di questo stesso problema venne data dall’URSS. Si tratta, in sostanza, di ana­lizzare il carattere della « Grande Alleanza » antifascista fra stati costituitasi nel corso della guerra, distinguendo le tendenze profonde, connesse alle caratteristi­che strutturali dei due principali paesi che la formarono, dalle manifestazioni po­litiche che non meccanicamente vi corrispondono. Una volta definito sommaria­mente questo problema, sarà anche più agevole arrivare ad un giudizio sulla mi­sura del condizionamento a cui venne sottoposta l’Italia.

La letteratura esistente, o per lo meno quella di cui si è potuto prendere visione, mentre è assai ricca di titoli circa le linee della politica estera americana e, ma so­lo di riflesso e come contrappunto, su quella sovietica, non consente di definire in modo soddisfacente le modificazioni apportate dalla guerra alle società ameri­cana e sovietica.

In particolare, mentre esistono numerosi studi sull’imperialismo americano degli anni recenti, manca una bibliografia anche solo iniziale sulle caratteristiche nuove che esso assume proprio con la seconda guerra mondiale e nell’immediato secon­do dopoguerra. La storiografia marxista e comunista ha infatti evitato di impe­gnarsi su questo tema forse proprio in ragione della ambiguità e delle contraddi­zioni politiche che nascono dal giudizio contrastante dato del ruolo degli USA durante e dopo il conflitto mondiale. La storiografia democratica americana, ap­partenente al filone cosiddetto « revisionista » 1 2, che pure ha avuto il merito di smascherare il contenuto ideologico delle interpretazioni della guerra fredda co­me unicamente provocata dall’espansionismo e dall’aggressività sovietiche, non contempla tuttavia neppure l’uso della categoria dell’imperialismo e si sofferma sugli errori se non sulla « tragedia » della politica estera americana postbellica3 * * * * * * * il.

1 G astone Manacorda, II socialismo nella storia d’Italia, Bari, 1966, p. 770 1 Sulla storiografia « revisionista », cfr. l’ampia rassegna di E lena Aga Ro ssi, Recentiorientamenti della storiografia americana sulle origini della guerra fredda: l'interpretazione « revisionista », in Storia contemporanea, IV, 1973, pp. 143-166.3 II titolo del volume dell’autore che ha dato inizio al filone « revisionista », WilliamA. Willia m s , suona appunto The Tragedy of American Diplomacy, New York, 1959. Nelcorso della nostra analisi abbiamo utilizzato altresì i seguenti volumi: D ienna F. Fleming,The Cold War and its Origins, New York, 1961 (trad. it. Storia della guerra fredda, Milano,1964), G ar Alperovitz, Atomic Diplomacy: Hiroshima and Potsdam. The Use of theAtomic Bomb and the American Confrontation with Soviet Power, New York, 1965 (trad,it. L'asso nella manica. La diplomazia atomica americana: Potsdam e Hiroschima, Torino, 1966). Su una linea che nasce dentro il filone « revisionista » ma se ne distacca in moltipunti significativi anche di natura metodologica, cfr. G abriel K olko, The Politics of War. Allied Diplomacy and War Crisis of 1943-1945, London, 1969 (ed. ingl. di The Politics of

■ War. The World und United States Foreign Policy, New York 1968). Per una bibliografia più ampia, cfr. la rassegna citata di Aga Rossi e la bibliografia in appendice al volume di Alperovitz, L ’asso nella manica, cit. Fra le opere « revisioniste » può invece essere collocatoil volume dell’inglese J ames P. Warburg, The United States in the Post-War-World, London, 1966.

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Qualche spunto può al contrario ricavarsi paradossalmente proprio dal filone « or­todosso », almeno nella misura in cui fornisce i connotati soggettivi e l’ideologia della classe dirigente americana4.

Ancor meno è dato conoscere della società sovietica negli anni di guerra, al di fuori del classico, ma insufficiente, Stalin di Deutscher, e di qualche reportage giornalistico occidentale, a tacere della mancanza di fonti dirette sovietiche sul­l’argomento 5.

L ’avere accertato le carenze e le lacune profonde della letteratura disponibile ob­bliga pertanto a proporre soltanto alcuni spunti e ipotesi di lavoro.

Per quanto riguarda l ’Unione sovietica, ad eccezione della storiografia « ortodos­sa », c’è concordanza nel sottolineare l ’entità delle rovine apportate dalla guerra all’economia e alla società sovietiche e quindi la debolezza estrema dell’apparato produttivo uscito dalla guerra stessa. A ciò fa da contrappunto l ’esaltazione del « miracolo », non a caso sottovalutato dal filone « revisionista », compiuto dalla società sovietica con l’intensificazione della produzione bellica mediante il trasfe­rimento degli impianti industriali al di là degli Urali, nonostante la perdita enor­me, in termini di materiali e di attrezzature industriali, rappresentata dalla con­quista nazista dei territori occidentali dell’URSS. Un altro elemento largamente sottolineato è lo sforzo di coesione nazionale esercitato da Stalin e dal gruppo diri­gente sovietico per il successo, appunto, della « grande guerra patriottica ». È nota l’accentuazione russa assunta da questa politica e, per altro verso, il gonfia­mento del Partito comunista sovietico durante la guerra (attuato con la riduzio- *

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* Pensiamo in particolare modo al volume di Walt W. Rostow, The United States in the World Arena, New York, 1960 (trad. it. Gli Stati Uniti nell'arena mondiale, Bologna, 1964), che riassume i risultati di un lavoro di équipe da lui diretto e offre una sistemazione ufficiale e in qualche modo dignitosa, anche se entro un quadro fortemente apologetico, delle tesi, assai più rozze e semplicistiche, apparse negli anni precedenti. Su una linea più equilibrata cfr. Herbert G. Fe is , Churchill, Roosevelt, Stalin. The World they waged and the Peace they thought, Princeton, 1957; Idem, Between War and Peace. The Potsdam Conference, Princeton. 1960.

I saac Deutscher, Stalin. A. Political Biography, London, 1949 (trad. it. Stalin, Mila­no, 1951), Russia: what next?, New York, 1950. Idem, The Great contest, London, 1960. Sono poi da vedere i due volumi di Alexander Werth, Russia at War, London, 1961 e Russia: the Post-War Years, London, 1971 (trad, it., L'Unione sovietica nel dopoguerra.1945-1948 Torino, 1973). Alquanto deludente sul periodo in questione il volume di A Roy Medvedev, Let History judge, The Origins and Consequences of Stalinism, pubblicato in in­glese dall’originale russo da Alfred A. Knopf, New York, 1971 (trad. it. Lo stalinismo, Milano, 1972), che contiene una critica dell’atteggiamento « duro » di Stalin nei confronti degli occiden­tali ̂negli anni 1947-48, ma offre qualche indicazione sulla stretta cui fu sottoposta la società sovietica nel dopoguerra (incremento della quota di capitali trasferita forzatamente dall’agricol­tura all’industria, blocco dell’inurbanamento e del lavoro artigianale nelle campagne, diminuzio­ne dei salari reali della classe operaia). Sulla situazione economica dell’URSS si può ancora ve­dere il volume di Maurice D obb, Storia dell’economia sovietica, Roma, 1957, mentre una utile raccolta di dati è contenuta in N ikolai A. Vorneslensky, L'economia dell’URSS durante la seconda guerra mondiale, Mosca, 1948. Qualche spunto interessante in P ierre Sorlin, Breve storia della società sovietica, Bari, 1966. Sulla politica estera dell’URSS l’unica fonte sovietica apparsa in occidente è Documents on Foreign Policy during the Great Patriotic War, London, 1950, oltre al carteggio di Stalin con i suoi partners occidentali. Per una storia della politica estera vedi, di parte occidentale, Adam B. Ulam , Expansion and Coexistence: the History of Soviet Foreign Policy, 1917-1967, New York, 1968 (trad. it. Storia della politica estera sovietica, 1917-1967, Milano, 1970).

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ne del periodo di « candidatura » e l ’ingresso massiccio dei soldati al fronte); mentre esecrazione e provvedimenti repressivi vengono riservati non solo alle popolazioni o ai gruppi accusati di collaborazione con i nazisti, ma anche a coloro che si sono arresi ai tedeschi. Dalla storiografia « revisionista » viene inoltre sot­tolineato quali conseguenze tutto ciò abbia avuto al livello di indicazioni fornite ai partiti comunisti, nel senso di agire come elemento di coesione nazionale e non di rivoluzione sociale: di cui sono esempio non solo lo scioglimento dell’Interna­zionale del maggio del 1943, ma anche e soprattutto le pressioni esercitate nei confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, da una parte, e nei con­fronti di Tito e di Mao dall’altra (per non parlare della vicenda greca).

Se tuttavia su questi elementi concorda una larga parte della produzione storio­grafica esistente, essi vengono utilizzati a fini interpretativi assai diversi e spesso radicalmente contrastanti. Per alcuni (è il caso soprattutto di Fleming, di Werth e di una larga parte della storiografia « revisionista ») il fatto che l’Unione sovie­tica fosse giunta stremata alla conclusione della guerra, l’accentuazione nazionale, gli aspetti non « ideologici » della stessa politica estera sovietica non sono che conferme dell’interesse sovietico a una « coesistenza pacifica » con il capitalismo occidentale, a un lungo periodo di pace che avrebbe consentito al paese di risol­levare le proprie condizioni materiali di esistenza (tanto più gravi in quanto nel ’46 l’URSS dovette lamentare i danni gravissimi di una carestia senza preceden­ti). Di ciò costituirebbero una prova la disponibilità e l’interesse di Stalin a un prestito americano di sei o sette miliardi di dollari, ancora nel ’46 e nel ’47, e la stessa indecisione manifestata inizialmente a proposito del piano Marshall. In que­sta prospettiva, l’« espansionismo » sovietico in Europa centrale viene giustifi­cato, da una parte, come risultato necessario e inattaccabile del modo in cui ven­ne combattuta la guerra (fu l ’Unione sovietica a sopportare il peso principale del­la pressione nazista e ad occupare da sola i territori in questione); dall’altra, si mette in evidenza (si vedano in particolare le pagine di Kolko) il ritardo relativo o comunque il carattere di ritorsione assunto dal processo di « sovietizzazione » dei paesi dell’Oriente europeo (con l’unica eccezione della Polonia) e in ogni caso se ne rintracciano le ragioni in motivi di « sicurezza » che non avrebbero neces­sariamente comportato l’instaurazione di regimi socialisti, essendo sufficiente l’esistenza di governi amici dell’Unione sovietica. Fleming elenca al riguardo le condizioni che avrebbero consentito di mantenere nell’Europa orientale una serie di Finlandie o di Cecoslovacchie pre-colpo di stato: provvedimenti economici in grado di realizzare riforme agrarie e nazionalizzazioni onde consentire l ’elimina­zione delle vecchie caste reazionarie colpevoli di mire aggressive o comunque suscettibili di essere utilizzate in funzione anti-sovietica; riduzione del potere del­la Chiesa cattolica, potente baluardo di quelle stesse classi sociali; disponibilità a un flusso commerciale orientatelo prevalentemente verso l’URSS.

Per altri, al contrario — e lasciamo da parte le interpretazioni da « crociata » fio­rite in Occidente dopo lo scoppio della guerra fredda — , quegli stessi elementi servono a proporre conclusioni di altro genere. Per Ulam, che pure non sottova­luta le responsabilità occidentali nello scatenamento della guerra fredda, l’abban­dono da parte sovietica del tono conciliante nei confronti degli Stati Uniti e l ’ir­rigidimento del controllo sui paesi dell’Europa orientale si spiegano prevalente­

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mente con considerazioni di politica interna. La debolezza estrema del paese, i sacrifici inenarrabili sopportati durante la guerra (20 milioni i morti, di cui solo 6 e mezzo rappresentati da soldati, condizioni di vita drammatiche) che prolun­gavano, accentuandole, le conseguenze dei piani quinquennali prebellici, le ten­denze centrifughe manifestatesi durante la guerra in alcune nazionalità di confine, lo scontento delle masse contadine rappresentavano un potenziale di tensione so­ciale che non poteva consentire una liberalizzazione del regime. Al contrario, nuo­vi sacrifici dovevano essere richiesti al popolo sovietico, come provò il nuovo piano quinquennale varato nel ’46 — Dobb afferma che in esso venne confermata la prevalenza data allo sviluppo dell’industria pesante e in generale dei beni stru­mentali rispetto alle previsioni di incremento della produzione di beni di consu­mo o agricoli — e, di conseguenza, un maggiore controllo doveva essere eserci­tato a livello politico e amministrativo: in questo quadro si spiegherebbe anche la trasformazione dei paesi dell’Europa orientale in paesi « satelliti ». Insomma, per l ’URSS queste esigenze interne non sarebbero state compatibili con l ’instau­razione di stretti rapporti con gli occidentali: il resto del mondo doveva al con­trario essere presentato come ostile, doveva essere creata un’atmosfera di peri­colo e di vigilanza.

Gambino6 accoglie queste considerazioni, sottolineando, con riferimento più spe­cifico al problema della « satellizzazione », il mancato appoggio di massa ai gover­ni dei paesi occupati (ma non considera il caso della Cecoslovacchia) e il carattere stesso dell’occupazione dell’Armata Rossa, che, a differenza degli eserciti anglo- americani, il cui compito era semplicemente di confermare i regimi sociali e po­litici esistenti, doveva procedere a modifiche profonde del tessuto economico e sociale, elementi, questi, che avrebbero comportato un controllo sempre più stret­to da parte sovietica. Infine Salisbury, nella postfazione al volume di Werth, sot­tolinea un elemento che meriterebbe attenta considerazione: e cioè che fu pro­prio la spinta della guerra fredda a consentire all’Unione sovietica di fare progres­si tanto rapidi nel campo industriale e tecnologico. Questa osservazione può es­sere completata, per una migliore comprensione della logica con cui si mosse l ’URSS, sottolineando il carattere di continuità delle scelte sovietiche in materia di sviluppo economico e sociale, che fanno ritenere poco probabile, senza peral­tro sottovalutare gli aspetti più strettamente politici, una svolta in questa dire­zione, anche in presenza di un atteggiamento diverso della controparte occiden­tale. Ma, a questo punto, il dibattito storiografico si chiude proprio quando do­vrebbe incominciare. Che rapporto esiste, infatti, tra queste tendenze di lungo periodo e le scelte concrete della politica estera sovietica, la disponibilità in più occasioni manifestata da Stalin di un rapporto non conflittuale con gli Stati Uniti e viceversa le accentuazioni polemiche e dure rilevabili a partire dal 1943? In che misura la coscienza della debolezza relativa del potenziale industriale e mili­tare sovietico in relazione a quello americano (tanto più dopo lo scoppio della bomba atomica) agì su quelle stesse scelte? Non sembrano condurre nella giusta direzione quelle interpretazioni che insistono sugli elementi di continuità delle

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6 Antonio G ambino, Le conseguenze della seconda guerra mondiale. L ’Europa da Yalta a Praga, Bari, 1972.

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tendenze espansionistiche dallo stato russo a quello sovietico, non foss’altro che per i mutamenti qualitativi avvenuti nella società sovietica nel senso del passag­gio da un paese agricolo e feudale dotato di una modesta base industriale al paese industrialmente avanzato dell’epoca della seconda guerra mondiale e del secondo dopoguerra. Qualche indicazione feconda può al contrario venire dal problema del­la valutazione della forza deH’imperialismo americano. È certamente vero che, almeno a quanto risulta dalla documentazione esistente, Stalin dette prova in nu­merose occasioni di puntare su un accordo di lungo periodo con Timperialismo americano e mostrò la sua disponibilità a una cooperazione economica nel dopo­guerra, compresa la possibilità di utilizzare consistenti prestiti americani: ba­sti ricordare la dichiarazione del novembre 1944, nella quale Stalin, dopo aver affermato il carattere non imperialistico della seconda guerra mondiale, os­servò come « l’alleanza tra URSS, Gran Bretagna e Stati Uniti fosse fondata non su considerazioni casuali, di breve durata, ma su interessi vitali e durevoli ». Que­sto atteggiamento può essere interpretato come un riconoscimento obiettivo dei rapporti di forza, della debolezza sovietica in rapporto alla forza crescente degli Stati Uniti. Ma non deve essere dimenticato un elemento « ideologico » e pur di grande rilievo politico complessivo. La valutazione obiettiva della forza del ca­pitalismo americano si accompagna sempre ad una sopravvalutazione delle con­traddizioni di cui esso era portatore. La tradizione teorica della Terza Interna­zionale agisce ancora nel senso di fornire un’immagine del capitalismo mondiale fermo al periodo pre-1929, senza un’analisi dei mutamenti intervenuti nella strut­tura di quello trainante, appunto quello americano, nel corso degli anni Trenta. Stalin appare convinto che l’espansione senza precedenti da esso conosciuta nel corso della guerra sia destinata a lasciare il passo ad una crisi grave nel dopoguer­ra. Vanno in questo senso l ’insistenza con la quale si informa, presso giornalisti americani, delle previsioni di crisi formulate negli stessi Stati Uniti; e le conclu­sioni cui giunge un congresso di economisti sovietici subito dopo la fine delle ostilità.

Si ritorna così all’osservazione iniziale di Manacorda; cui si deve aggiungere che a questa valutazione si accompagna una coscienza, rafforzata dalle prove sostenute durante la guerra, della superiorità, nella prospettiva storica, del sistema sovie­tico. Questo ribadisce l’interesse sovietico per un lungo periodo di pace, ma com­porta altresì l ’esistenza di condizioni irrinunciabili perché la « coesistenza paci­fica » possa svilupparsi. In questo contesto vanno recuperate le osservazioni di Ulam e di Salisbury e della stessa storiografia « revisionista » sulle esigenze di « sicurezza » da cui è dettata la politica sovietica nei confronti dei paesi dell’Est europeo. L ’URSS poteva anche accettare forme di coperazione con l’Occidente e accendere debiti con gli Stati Uniti; ma a patto che venisse modificato profonda­mente il carattere dei regimi sociali e politici di quell’area geografica e i loro mer­cati non fossero aperti « con uguali opportunità » (sono non a caso le richieste americane del 1945-1947) alla penetrazione dei capitali occidentali. Non va infine dimenticato, per una migliore comprensione del carattere nuovo dello sfruttamen­to sovietico delle risorse economiche dei paesi « satelliti », la punta duramente repressiva nei confronti dei comunisti nazionali, che caratterizza l’atteggiamento dell’URSS ancora durante la guerra (da Tito a Mao).

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Se è giusta pertanto la svalutazione, operata dalla storiografia « revisionista » delle componenti « ideologiche » (nel senso leninista, dello sfruttamento delle contraddizioni imperialistiche a vantaggio della rivoluzione mondiale) nella rea­lizzazione della politica estera sovietica, e l’insistenza sul fatto che l ’URSS si muo­ve stimolata da motivazioni di potenza, non può essere esclusa l’analisi delle ca­ratteristiche e delle cause di questa politica, che costituiscono un fatto qualita­tivamente nuovo della storia dell’URSS e si realizza e si sviluppa proprio nel qua­dro della guerra fredda.

Un riscontro della validità di questo tipo di ipotesi e parziali conclusioni è costi­tuito dall’esame della politica americana. Abbiamo già accennato alle caratteristi­che e ai limiti della storiografia esistente. Essa è una storiografia prevalentemente politica, con motivazioni ideologiche fin troppo scoperte, che svalutano anche alcu­ne importanti acquisizioni sul terreno della ricostruzione analitica presenti quasi esclusivamente nel filone « revisionista ». L ’interpretazione « ortodossa », nata nel clima della guerra fredda, pure nel quadro di una valutazione apologetica de­gli scopi della politica estera americana, appunta la sua critica nei confronti degli errori e delle illusioni che sarebbero state nutrite da Roosevelt verso la possibili­tà di accordo con Stalin, anzi col « mondo comunista ». La presidenza Truman, pur nel quadro di una sostanziale continuità, avrebbe preso atto dell’ostilità cre­scente e dell’aggressività dei sovietici e sarebbe stata costretta a rispondere con fermezza per difendere le sorti del mondo libero contro l’espansione comunista. La storiografia revisionista nasce invece, benché possa vantare qualche primogenitura in anni precedenti, nel periodo in cui il « disgelo » sovietico e la « nuova fron­tiera » kennediana si incontrano per realizzare, sulla base dell’equilibrio nucleare, una coesistenza pacifica. Ed è esattamente da questa nuova fase attraversata dai rapporti sovietico-americani, considerati esclusivamente nei termini di un accordo che allontana i pericoli di guerra ma non negli obiettivi di potenza e di controllo bipartito del mondo che lo rendono possibile, che nasce l’impulso a ricercare se per caso un’occasione del genere non fosse stata perduta all’indomani della secon­da guerra mondiale e quindi a rivedere opinioni e giudizi consolidati. Non a caso, questa storiografia è molto attenta ai problemi dei « tempi », delle « origini » della guerra fredda e tende a spezzare la continuità delle posizioni americane e sovietiche, viste quasi esclusivamente nelle loro manifestazioni politiche esterne. Il cavallo di battaglia della storiografia revisionista è, con qualche oscillazione di giudizio, la tesi secondo cui la morte di Roosevelt e l’ascesa alla presidenza del suo vice Truman rappresenterebbero un momento di svolta nella politica americana, aggressiva e inutilmente dura quanto quella di Roosevelt era stata meglio disposta a intendere le ragioni della controparte sovietica. I punti a favore di questa inter­pretazione sono rappresentati dalla contestazione del giudizio fino allora preva­lente, secondo cui le concessioni degli alleati occidentali, e in particolare di Roose­velt, al partner sovietico sarebbero stati degli errori e che con una maggiore fer­mezza sarebbe stato possibile evitare la conquista sovietica dell’Europa orientale.

I « revisionisti » hanno messo al contrario giustamente in luce come l’ipotesi di Churchill di puntare sul « ventre molle » dell’Europa per contenere e condiziona­re l ’avanzata sovietica verso l ’Occidente fosse irrealizzabile e che la situazione de­terminatasi in quell’area geografica era condizionata da esigenze di natura quasi e­

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sclusivamente militare, derivanti dalla strategia complessiva americana, imposta da considerazioni di politica interna e dal desiderio di ridurre al minimo lo spreco di vite umane americane. Se mai, proprio il ritardo con cui gli Alleati si decisero ad aprire il secondo fronte (richiesto insistentemente dai sovietici fin dal 1942) favorì il realizzarsi di una situazione di fatto che non poteva non sanzionare il predominio sovietico nella zona da essi liberata. La netta cesura posta tra presi­denza Roosevelt e presidenza Truman — che secondo Fleming si sarebbe mani­festata subito, il 12 aprile 1945, secondo altri nel periodo intercorso tra Yalta e Potsdam, secondo altri ancora (è il caso di Alperovitz) subito dopo lo scoppio della prima bomba atomica — appare invece assai poco convincente. Se è forse troppo semplicistico il giudizio di Gambino secondo il quale la politica americana cambiò nella forma ma non nella sostanza, non è possibile accettare una interpre­tazione che svaluta tutti gli elementi di continuità della posizione americana e ri­duce a errori di segno contrario di quelli messi in luce dall’interpretazione orto­dossa il contenuto della politica di Truman. « Roosevelt era convinto che nel do­poguerra Stalin avrebbe messo sopra ogni altra cosa l’“ interesse nazionale russo” , — osserva Werth, sintetizzando il punto di vista revisionista — mentre Truman basò tutta la sua politica sul mito antiquato del babau comunista, sostituendo co­sì alla politica rooseveltiana di una pacifica coesistenza con il mondo socialista, senza dubbio difficile ma perfettamente possibile, la crociata contro il comuniSmo mondiale ». Abbiamo già osservato che l ’« interesse nazionale » della Russia non era necessariamente compatibile con un’ipotesi di coesistenza pacifica, mentre il carattere ideologico attribuito all’impostazione di Truman non tiene in alcun con­to le motivazioni profonde e di più lungo periodo della politica estera e dell’impe­rialismo americano. Con Truman cambiò il tono della politica americana; ma sembra più giusto sottolineare, con Ulam, che, almeno fino al 1947, Truman fu più incerto che aggressivo.

Un giudizio più interessante e maturo, concepito nell’ambito del filone « revisio­nista » ma che se ne distacca proprio su questo punto decisivo, è quello di Gabriel Kolko. Come è stato già osservato, Kolko è per la continuità della politica ameri­cana; per lui, inoltre, la coalizione antifascista era una necessità imposta dall’ag­gressione tedesca ed era destinata inevitabilmente a rompersi dopo il consegui­mento del suo obiettivo, tanto più che essa fu l’eccezione nei rapporti tra l’URSS e il mondo occidentale nell’intero periodo che va dal 1917 al dopoguerra. Non senza forzature e qualche unilateralità di giudizio, il lavoro di Kolko delinea anali­ticamente il quadro dei rapporti interalleati nel periodo 1943-1945 su tutto lo scacchiere mondiale. Il tributo al filone revisionista è visibile nella svalutazione delle motivazioni ideologiche della politica estera sovietica, che giunge ad attri­buire il crollo dei regimi reazionari nell’Est Europa esclusivamente al fallimento storico delle vecchie classi dirigenti e del capitalismo, nell’osservazione che, alme­no fino all’autunno del ’44, gli aiuti militari, persino quelli proposti da Churchill, facevano aggio, per l’Unione sovietica, sui vantaggi politici di lungo termine, nel­la sottolineatura dell’appoggio, fornito dagli USA, alle classi dirigenti reaziona­rie nei paesi dell’Europa orientale in funzione antisovietica, e ciò però ben prima della morte di Roosevelt. Ma la novità sostanziale del saggio di Kolko consiste nel considerare le motivazioni economiche prevalenti e anzi condizionanti quelle politiche nelle scelte della politica estera americana. Secondo Kolko, per quanto

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gli obiettivi politici fossero incerti o non ancora compiutamente definiti, quelli economici erano invece assai chiari e precisi, a partire almeno dal 1943. La stessa tattica dilatoria adottata nei confronti della definizione delle frontiere e delle con­quiste territoriali in Europa, insomma l ’opposizione americana alle « sfere d’in­fluenza » così come erano concepite dagli inglesi e, in via subordinata, dai sovie­tici, era giustificata dal proposito, comune a Roosevelt e a Truman, di aspettare la fine della guerra per poter impiegare il potenziale economico in espansione de­gli Stati Uniti nei confronti degli alleati esausti e del resto del mondo. La pretesa di dominio mondiale, e cioè del controllo di un mercato unico mondiale liberato dagli impacci delle politiche protezionistiche anche a livello dello sfruttamento delle materie prime, doveva però rivelarsi un compito troppo grande per il capi­talismo americano, troppo sicuro della sua forza e incapace di prendere coscienza della crisi apertasi nell’intero mondo capitalistico e dell’ascesa di forze sociali e politiche decise a trasformare (piuttosto contro che a vantaggio dell’URSS) il vec­chio ordine. Sicché, con un certo ritardo, l’imperialismo americano prende co­scienza della necessità di intervenire a salvare gli interessi generali del sistema, impegnandosi nella « ricostruzione » dell’Europa occidentale.

La documentazione offerta da Kolko sulla coerenza e concordanza degli obiettivi economici enunciati da fonti ufficiali americane a partire dal 1943 è senza dubbio assai consistente, e tende a dimostrare come non si trattasse solo di affermazioni teorico-ideologiche ma di programmi precisi. Nei suoi termini complessivi, l ’obiet­tivo della politica americana era l’espansione del commercio mondiale ed il suo supporto ideologico il giudizio (esplicito nella visione del segretario di stato Cor­dell Hull e del suo successore Stettinius) che la crisi e le guerre erano state pro­vocate dall’acceso protezionismo prebellico7. « Una grande espansione nel volu­me del commercio mondiale dopo la guerra — affermava un rapporto del dicem­bre 1943 dello Special Committes on the Relaxation of Trade Barriers, che di­pendeva dal Dipartimento di stato — sarà essenziale per il conseguimento di una occupazione piena ed effettiva negli Stati Uniti e altrove, per il mantenimento del­l’iniziativa privata e il successo di un sistema di sicurezza internazionale per pre­venire guerre future ». Questa esigenza non nasceva solo, secondo Kolko, dal ti­more di una depressione postbellica negli USA, che andava fronteggiata con la ri­cerca di nuovi mercati all’estero e l’esportazione di capitali di investimento. L ’esportazione di beni e di capitali doveva avere come contropartita il riforni­mento di materie prime indispensabili all’economia americana, ciò che provocò una ridefinizione della politica dell’Open Door, nel senso che « al capitale o alle imprese di tutti i paesi dovevano essere concesse eguali opportunità (anche rispet­to al capitale e alle imprese del paese in cui la risorsa esiste) di partecipare al possesso e allo sviluppo delle risorse naturali ».Senza volere sottovalutare il peso della documentazione fornita, sembra tuttavia che Kolko conceda insieme troppo e troppo poco agli obiettivi del capitalismo

7 Sull’espansione del commercio mondiale e la sua regolamentazione cfr. E dward S. Ma­son, Controlling World Trade. Cartels and Commodity Agreements, New York, 1946 e General Agreement on tariffs and trade (GATT), Trends in International Trade. A Report by a Panel of Experts, Geneve, 1958.

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americano. Intanto, il timore di una crisi postbellica appare in contraddizione con l’ostentata sicurezza che l ’autore gli attribuisce. Sembra d’altra parte assai poco credibile che un’ideologia vecchiotta e sommaria come quella di Hull o di altri burocrati e funzionari potesse davvero coincidere con gli obiettivi dell’intero siste­ma capitalistico americano, dopo l’esperienza del New Deal e il salto qualitativo da esso compiuto attraverso quella esperienza. Contrasti di linea e di indirizzi dovettero senz’altro manifestarsi entro i settori capitalistici americani: ma di que­sto Kolko non ci informa, perché tutta la sua analisi è basata su dichiarazioni e rapporti di funzionari o politici americani e non offre alcun elemento per valutare le trasformazioni subite dall’industria e dall’apparato statale durante la guerra e dalle contraddizioni interne del blocco sociale dominante. Per altro verso, l ’imma­gine che ci restituisce del capitalismo americano è troppo riduttiva e non tiene conto del ruolo nuovo che gli Stati Uniti si apprestano ad assumere nel contesto internazionale, di cui la politica di sostegno alla ricostruzione economica in Euro­pa non è un momento di ripiego, ma è condizione per una successiva espansione. Inoltre Kolko sottovaluta alcuni aspetti che gli storiografici apologeti hanno mes­so in luce. Se si prende il volume di Rostow, il teorico degli stadi di sviluppo, si trovano alcuni spunti di grande interesse per la comprensione della ideologia del­la classe dominante USA e delle acquisizioni permanenti della struttura di pote­re americana a seguito della guerra. Rostow sostiene che, nella conduzione della guerra, « le considerazioni militari hanno la prevalenza nell’indirizzo di politica estera »: tesi che, se non può essere accettata integralmente, rappresenta un cor­rettivo delle ipotesi di Kolko. Soprattutto se si considera il ruolo sempre più im­portante che il Pentagono viene ad assumere nella struttura decisionale del gover­no americano. Un altro elemento sul quale Rostow porta l’attenzione è il legame sempre più stretto che grazie alla guerra si stabilisce tra « tecniche militari e scienza moderna ». « In uno sforzo continuo, l’impegno della nazione era diretto non solo a creare nuove armi ma anche a conservare e a sviluppare le fonti da cui provenivano. La scienza e gli scienziati — e un ordinamento sociale e un siste­ma di educazione capace di produrli — assunsero così negli anni postbellici un nuovo significato per la sicurezza nazionale ». Detto in altri termini, durante la guerra, venne realizzata una collaborazione assai stretta e solidale tra militari, scienziati e tecnici, senza contare — e l’omissione di Rostow è significativa — l’integrazione sempre più evidente tra stato e grande industria nella politica degli armamenti. Questo elemento, che è completamente trascurato da Kolko, serve forse a spiegare l ’interesse che ambienti assai influenti, come tutte le forze inte­ressate alla politica degli armamenti e in particolare all’energia atomica, portano allo scatenamento della guerra fredda e non di quella calda. Per concludere su que­sto punto, si deve lamentare la carenza di analisi e di informazioni sulle trasfor­mazioni subite dalla società americana nel corso della guerra, che servirebbero a definire meglio gli obiettivi economici, che non possono essere indicati solo nei termini proposti da Kolko. Sembra attendibile, al contrario, sul problema cruciale dell’Europa orientale, la tesi dello stesso autore secondo il quale l’atteggiamento americano era motivato dall’interesse economico a sfruttare i mercati est-europei e quindi dall’esigenza politica di mantenere in piedi regimi sociali in grado di ga­rantire la « libera concorrenza »: esattamente la condizione che, come abbiamo

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visto, l ’Unione sovietica non poteva accettare. Se si accoglie la definizione che uno dei revisionisti, Warburg, ha dato della politica di Roosevelt, secondo cui alla posizione di predominio sovietico in Europa orientale « avrebbero fatto da con­trappeso la grave debolezza economica risultante dalla guerra e la conseguente necessità di aiuti economici che soltanto gli Stati Uniti erano in condizioni di fornire », ci si rende immediatamente conto, come osserva Werth, che gli aiuti avevano una funzione di controllo sulla stessa politica sovietica nell’Europa orien­tale e che pertanto — ci sembra di poter concludere — Truman si trovò nella condizione di continuare una politica nelle sue linee essenziali già avviata. Se a questi contrasti relativi al controllo dei mercati si aggiungono gli interessi pa­ralleli che entrambi i paesi vedono esaltati dalla politica della guerra fredda, il dibattito sulle sue origini può essere spostato agevolmente dall’analisi delle re­sponsabilità prevalenti dell’uno e dell’altro paese e ricollocato su un terreno og­gettivo.

Gli effetti sulla nuova struttura dei rapporti internazionali quale si viene deli­neando nel corso della guerra e nell’immediato dopoguerra non mancano di agire sull’Italia. Il processo attraverso il quale il predominio americano nell’Eu­ropa occidentale si afferma incontrastato mette in luce l ’esistenza di contrasti interimperialistici esemplificati dai rapporti con la Gran Bretagna8. Sono due impostazioni strategiche assai diverse, cementate, in negativo, dal proposito co­mune di contenere l’avanzata delle forze di sinistra. Torna qui assai utile rifarsi alla impostazione di Kolko, che su questo problema — è stato già osservato dalla Aga Rossi — porta un contributo importante e originale. La strategia in­glese è semplice e chiara, definita anche nei suoi aspetti politici: una sorta di dottrina Monroe europea in funzione antisovietica ma anche di autonomia dagli Stati Uniti. Vanno in questo senso, ad esempio, i tentativi di intesa con la Fran­cia e la politica mediterranea e balcanica. Gli Stati Uniti non definiscono chiara­mente i termini politici del loro intervento, ma sono molto espliciti nel sottolinea­re il loro interesse economico per un’Europa aperta agli scambi commerciali con gli Stati Uniti e perciò non rigidamente inquadrata in uno schieramento dominato dall’Inghilterra e capace di autonoma iniziativa. La conquista dei mercati europei e mediterranei non sembra comportare per gli Stati Uniti, come invece avviene per l’Inghilterra, l ’esistenza di regimi politici necessariamente spostati a destra, anche se il loro atteggiamento, che è spesso dettato da considerazioni empiriche contingenti, va nel senso di non alterare, nella misura del possibile, lo statu quo. Nel caso specifico dell’Italia, il contrasto anglo-americano — che è stato più volte esaminato e descritto, anche da chi scrive — appare con particolare evidenza; ed è soltanto con la fine del ’44 che comincia a profilarsi l’egemonia americana ri­spetto a quella inglese. Il ritardo con cui, da parte americana, si definisce una politica italiana nonostante il peso del condizionamento britannico sembra deli­neare un quadro assai meno chiuso e determinato di quello descritto dalla sto-

! Sui rapporti USA-Gran Bretagna nel campo economico, cfr. Richard N. G ardner, Sterling. Dollar Diplomacy. Anglo-American Collaboration in the Reconstruction of Multilate­ral Trade, Oxford, 1956. V. anche il recente Franco Catalano, Europa e Stati Uniti negli anni della guerra fredda. Economia e politica. 1944-1956, Milano, 1972.

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riografia esistente o dalla pubblicistica politica delle forze di sinistra. Ciò vale in particolare per il terreno delle istituzioni e del nuovo assetto democratico che non appare condizionato nella misura che, ad esempio, lo stesso Kolko sembra proporre9.

Seguire l’evoluzione della politica alleata nei confronti dell’Italia comporta in primo luogo la presa di coscienza che l’integrazione economica italiana nel nuovo mercato internazionale avviene soltanto con il piano Marshall e che i termini di questa integrazione sono piuttosto definiti dalle prospettive del blocco capitali­stico interno e dalla sua capacità di egemonia, con l ’ideologia liberista, su tutte le forze politiche: ciò significa assegnare un margine relativamente ampio di au­tonomia ai fattori interni il cui definitivo assestarsi non appare rigidamente de­terminato prima dell’avvio del piano ERP. È già noto, peraltro, a questo propo­sito come si siano verificati momenti di frizione, per quanto secondari, tra diri­genti italiani e statunitensi circa le scelte di politica economica. Sul terreno so­ciale e politico, un tema di grande rilievo è il problema della scelta, da parte de­gli americani, degli interlocutori interni. In particolare, sarebbe di grande inte­resse uno studio dei rapporti con la Democrazia cristiana, che nel corso del pro­cesso sostituisce la classe dirigente prefascista come interlocutore privilegiato. La premessa di questo cambiamento va evidentemente ricercata nei rapporti assai stretti stabiliti con il Vaticano; e il problema non può essere liquidato con l’os­servazione che gli americani si limitarono a scegliere le forze che trovarono.

Un terzo problema da affrontare è quello della coscienza che le forze politiche interne ebbero del contesto internazionale. Per quanto riguarda le forze conserva­trici e moderate, la stessa produzione esistente e il tipo di dibattito politico sui temi di politica estera (quasi esclusivamente centrato sulle quesioni del trattato di pace e dei problemi territoriali) lasciano chiaramente comprendere la scarsa consapevolezza complessiva delle novità della situazione internazionale postbelli­ca ed evidenziano la scarsa fecondità di una ricerca in quella direzione “ .

Nel caso delle forze di sinistra, che pure appaiono prigioniere del terreno di di­scussione imposto dai loro avversari, sembra di grande rilievo un elemento che solo in apparenza è ideologico, e che invece agisce al livello sociale e politico. È la continuità del giudizio dato dalla Terza Internazionale sul capitalismo mon­diale, sul suo crollo prevedibile e quindi in ultima istanza sulla sua sostanziale debolezza. In questo senso si può anche recuperare l ’abusato discorso del « con­dizionamento » esercitato dall’URSS sulle scelte del movimento operaio italiano. Esso agisce in un duplice senso: da una parte come elemento intrinseco alla stra-

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’ Cfr. N icola G allerano, II contributo degli Alleati alla ricostituzione dello Stato italiano, in Italia contemporanea, n. 114, 1974. Un contributo assai importante alla migliore definizione della politica anglo-americana nei confronti dell’Italia, è naturalmente costituito dalla disponibilità- di raccolta di fonti, come le Foreign Relations of United States per gli anni in questione e il volume di Coles-Weinberg, Civil Affairs: Soldiers become Governors, Washington D.C., 1164.10 Norman K ogan, La politica estera italiana, Milano, 1955; Adstans, Alcide De Ga­speri nella politica estera italiana. 1944-1953, Milano, 1953; Carlo Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma, 1952.

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tegia complessiva delle sinistre nel senso di restringerne l’autonomia e di ridurne i propositi di modifica di un sistema destinato rapidamente a soccombere; dal­l’altro, come coscienza diffusa e di massa di una tattica di attesa di liberazione dall’esterno, dal paese del socialismo, che troverà più tardi espressione nelle lotte di piazza contro il Patto atlantico e per la pace. A patto naturalmente, e in que­sto senso si può tornare alla citazione di partenza del Manacorda, che questo giu­dizio non venga inteso come semplice indicazione di un « errore » di valutazione, ma come una posizione intrinsecamente connessa alla strategia delle sinistre da una parte e alla stessa coscienza antagonista delle masse dall’altra.

I partiti politici

Nel panorama della storiografia dedicata all’Italia del secondo dopoguerra gli studi sulla vita politica occupano uno spazio di tutto rispetto, in armonia, del resto, con tendenze più generali della storiografia e della cultura italiana che solo negli ultimi anni sembrano accennare a un mutamento di tendenza.

L ’aspetto più rilevante di questo indirizzo generalizzato è tuttavia non tanto quello della prevalenza quantitativa, rispetto ad altri tipi di studi e di ricerche, quanto piuttosto la tendenza a presentare la storia politica dell’Italia come ambito esclusivo e terreno d’indagine privilegiato, che mette in secondo piano ogni rap­porto col quadro sociale e complessivo del paese. La separazione tra il « politico » e il « sociale », tra « paese legale » e « paese reale », è ancor prima che ipotesi di ricerca o motivo di polemica politica (piuttosto infido per le facili connessioni con proteste di sapore qualunquistico) un dato caratterizzante le analisi storiche oggi prevalenti. Ben pochi studiosi hanno avuto sufficiente spirito critico per partire dalla considerazione che « la nostra democrazia si riassume in una specie di potere delegato, come soleva dire De Gasperi, esercitato da ristrettissimi grup­pi politici » \

Non si tratta di contrapporre in modo indiscriminato quella che, in termini pla­teali, viene definita la partitocrazia alle esigenze e alle opinioni di masse indistin­te di cittadini. Si tratta piuttosto di allargare il quadro in cui l’azione dei partiti e delle istituzioni va collocata in modo da cogliere il rapporto che lega le lotte e le soluzioni politiche al processo reale che contraddistingue la società italiana. E ciò è tanto più importante per il periodo dell’immediato dopoguerra in quanto dal 1945 al 1948 la verifica degli esiti della lotta politica è incompleta, anche nei termini consueti delle democrazie parlamentari per le limitazioni introdotte nei poteri dell’Assemblea Costituente in merito all’esercizio della funzione legisla­tiva e ai rapporti col governo. Una simile assenza priva lo studioso di punti di riferimento utili per misurare i modi e i termini dell’esercizio della delega che i partiti hanno assunto. E se ciò non diminuisce il valore di analisi — come quel­le di Gelso Ghini — sul comportamento del corpo elettorale, lascia tuttavia evi-

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Celso G hini, Le elezioni in Italia (1946-1968), Milano, 1968, p. 9.

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denti lacune per chi voglia seguire in concreto l ’articolarsi della struttura orga­nizzativa dei partiti di massa, del processo decisionale, e dei « tipi di rapporti che intercorrono fra partiti, gruppi d’interesse e pubblica amministrazione e le con­seguenze di essi » 2.

Una risposta almeno parziale su questi temi parrebbe venire, ancor più che dalla storiografia di origine direttamente politica, dalla letteratura che si ispira a ri­cerche sociologiche e a studi politologici. Sono questi i settori di studio nei quali pare essere stato maggiormente valorizzato il significato di lungo periodo del 1945-48, come momento della formazione di un sistema politico assestatosi in termini rimasti sostanzialmente immutati attraverso tutte le successive vicende. La restante letteratura, al contrario, sembra essersi confinata al limitato e diretto riferimento alla stretta cronaca politica e alle analisi di responsabilità, personali o di gruppo, a corto raggio. Simile impostazione dipende in larga misura dall’as­soluta prevalenza del materiale memorialistico o comunque legato ai termini della polemica politica immediata. Sarebbe in ogni caso inutile insistere su questi aspetti se non si sottolineasse nello stesso tempo come proprio da tale stretto legame storiografia-politica possano emergere valide indicazioni per individuare le origini e i caratteri ideologico-politici delle interpretazioni via via emergenti; in modo tale che è questa letteratura quella che può offrire, malgrado le carenze fin troppo facilmente rilevabili, le più solide e stimolanti indicazioni di ricerca.

Sotto la patina un po’ ostentata di oggettività, la letteratura sociologica e polito- logica (non è sempre facile stabilire tra i due generi confini precisi)3 4 offre invece allo studioso di storia scarsi spunti ai fini dell’approfondimento critico della vita politica italiana soprattutto per il carattere mistificante, che in essa assume la constatazione del costituirsi, dal 1947 in poi, di un’« area democratica » che esclu­de il Partito comunista \

Va tenuto presente che in genere queste ricerche hanno come centro di interesse gli anni ’50 e ’60 e quindi il riferimento al periodo immediatamente postbellico è o frettoloso e superficiale o palesemente strumentale alle tesi elaborate per gli anni successivi. Pur con le cautele che da questa limitazione cronologica possono venire è necessario osservare che sul piano metodologico, malgrado il disegno di ampio respiro interpretativo al quale vorrebbe ispirarsi, questa letteratura appare soffocata dalle preoccupazioni di definire tipologie o schemi teorici interpretativi che non di rado risultano indifferenti alla verifica degli stessi dati storici su cui sono impostati. Il dissenso metodologico sotteso a simili limitate osservazioni è probabilmente più ampio di quanto sia possibile esplicitare nel corso di questa

2 cfr. Alessandro Pizzorno, Elementi di uno schema teorico con riferimento ai partiti politici in Italia, in Partiti e partecipazione politica in Italia. Studi e ricerche di sociolo­gia politica, a c. di G. S ivini, Milano, 1972, p. 6.3 Cfr. le osservazioni di G iordano S ivini nell 'Introduzione a Sociologia dei partiti politici, Bologna, 1971.4 Sulle implicazioni politiche di questa constatazione ha richiamato l’attenzione anche Sidney G. T arrow in Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, 1973, p. 73, riferendosi in particolare a G iovanni Sartori, European Political Parties: the Case of Pola­rized Pluralism, in Political Parties and Political Development, a c. di J. La Palombara e M. Wiener, Princeton, 1966.

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rassegna; né ci aiuta molto a chiarirne i termini lo stato del dibattito sui rapporti fra sociologia e storia, essendosi limitati i cultori delle due discipline a un recipro­co e concorde disinteresse. Le questioni di fondo non possono quindi che rima­nere impregiudicate. Ma, per quanto riguarda i problemi che stanno al centro dei nostri interessi, occorre sottolineare che nessuna delle definizioni del sistema po­litico italiano dal dopoguerra ad oggi sembra utilizzabile ai fini di un approfondi­mento dei termini in cui il sistema stesso è venuto formandosi. Anche se non si può chiedere a un tale tipo di studi l’impianto analitico necessario alla ricerca storica, è quanto meno singolare che tutti i tentativi di definizione del sistema politico italiano partano da un quadro di riferimento all’interno del quale il mo­mento della mediazione politica assume un rilievo assolutamente prevalente5. Nasce di qui la difficoltà ad utilizzare sul piano della ricostruzione storica non solo le indicazioni e suggestioni di ricerca che escono dagli studi sul sistema politico, ma anche gli stessi elementi conoscitivi che alcune ricerche sociologiche dirette riescono ad offrire. Ci riferiamo in particolare alle indagini di sociologia politica promosse dall’Istituto Carlo Cattaneo, i cui risultati, per quanto di notevole in­teresse sul piano del costume politico e dello studio dei rapporti interni, si rive­lano poi assolutamente inutilizzabili per l’impossibilità di circostanziarne il valore e riportarli in un contesto storico determinato6 7. Analogo il discorso da fare per alcuni dei saggi di ricerca segnalati e in parte riportati da Farneti nella sua rac­colta antologica, pur più attenti alla determinazione dell’ambito in cui la ricerca viene svolta. Nel caso di questi studi (di Bagnasco, di Bettin, di Graziano) il pro­blema finisce solo per spostarsi: se possiamo collocare in un contesto preciso ma circoscritto i risultati, non possiamo poi collocare l ’area-campione nel contesto del paese; e risulta quindi impossibile determinarne il valore1.

Ai limiti rilevabili nelle ricerche sociologiche e negli studi politologici corrispon­dono d’altra parte gli scarsi spunti critici della storiografia. Quelle che è consue­tudine definire opere generali sul periodo esemplificano abbondantemente in qual modo i rapporti all’interno della sfera politica si presentino quale ambito privile­giato ed esclusivo, che media e riassume al proprio interno — senza verifica — ogni fenomeno attinente al quadro sociale e alle lotte che lo contraddistinguono. Sul piano delle sintesi e delle storie generali il contributo della storiografia si esaurisce, nei migliori dei casi, nel constatare che lo stato tradizionale torna ad affermarsi dopo la liberazione contro le « tendenze politiche rivoluzionarie », e che la Democrazia cristiana, sorretta dall’appoggio della Chiesa, emerge quale forza garante dell’ordine borghese — come nel caso delle lezioni alla Sorbona di Federico Chabod; altri tentativi di presentare un quadro d’insieme (pur tenendo presenti le nette differenze qualitative, ci riferiamo ai lavori di Catalano e Kogan

5 Ci riferiamo in particolare all’antologia a c. di Paolo Farneti, Il sistema politico italiano, Bologna, 1973; anche G iorgio G alli, Il difficile governo, Bologna, 1972, si presta ad analoghe osservazioni.6 Ci riferiamo in particolare ai volumi II comportamento elettorale in Italia, L ’organizza­zione partitica del PCI e della DC e L ’attivista di partito, Bologna, editi rispettivamente nel 1966 (I e II) e 1967 (III).7 Arnaldo Bagnasco, Il partito che controlla Polidia; G ianfranco Bettini, Partito e comunità locale-, Luigi G raziano, Clientela e politica nel Mezzogiorno, in II sistema politico italiano, cit., pp. 169-240.

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o a quelli assai meno attenti di Mammarella e Colapietra) si esauriscono nel ri­percorrere puntualmente i passi della complessa vicenda sottolineando le con­traddizioni e i limiti delle conquiste democratiche conseguite, senza tuttavia usci­re dai binari di una storia in sé conclusa e definita. La schematicità dei riferi­menti al quadro internazionale, con le conseguenze interpretative analizzate nel precedente paragrafo di questa rassegna, contribuisce ad accentuare l’aspetto poco articolato e scarsamente problematico di queste opere8.

Anche il saggio di Giuseppe Galasso, nel primo volume della Storia d’Italia edita da Einaudi, non fa eccezione. Nella considerazione pur critica (anzi, addirittura violentemente negativa) del quadro politico della « democrazia di massa » rea­lizzata in Italia nel secondo dopoguerra, non entrano nemmeno di scorcio o per accenni valutazioni che coinvolgano una considerazione delle forze e dei gruppi sociali che i partiti politici si sono proposti di rappresentare9.

Al paragone la memorialistica d’origine direttamente politica appare molto più varia e suscettibile di essere usata anche come fonte per una ricostruzione diretta: se non altro in quei casi in cui è messo in atto un tentativo di individuare le ca­renze e gli errori delle forze politiche della sinistra nell’opera di consolidamento e di definizione dei risultati della lotta antifascista ed antitedesca. Resta tuttavia, come limite di fondo comune alla massima parte di tale saggistica, la netta frattura fra analisi politica ed istituzionale e momento economico-sociale.

Tali osservazioni valgono in particolare per la storiografia di matrice azionista (sarà necessario utilizzare spesso categorie d ’origine strettamente politica, per quante imprecisioni ciò possa comportare), alla quale spetta il merito di avere per prima messo in discussione il tema della « crisi della Resistenza ».

Nata sull’onda di un ripensamento precoce e quasi autobiografico del fallimento del partito (si veda il n° 11-12 de II Ponte, del nov.-dic. 1947) questa problemati­ca è stata al centro di battaglie non solo storiografiche, ma anche civili e politiche per tutti gli anni ’50. La lunga polemica sulla « Costituzione inattuata » — che ha in Dieci anni dopo ampi riflessi storiografici — si è nutrita tra l’altro di analisi cui la pubblicistica e la storiografia di matrice azionista hanno notevolmente con­tribuito 10.

« [...] il problema storiografico di questi ultimi dieci anni — ha scritto Leo Va- liani nel 1955, sintetizzando in modo paradigmatico un orientamento ricorrente — si apre con il quesito se la Resistenza fosse, al di là dei risultati e dei suoi la-

' Federico Chabod, L ’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, 1961; F ranco Catalano, L ’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, Milano, 1970, vol. II ; Norman K ogan, L'Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Bari, 1966; Raffaele Colapietra, La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Costituente, Bologna, 1969; G iu seppe Mammarella, L ’Italia dopo il fascismo: 1943-1968, Bologna, 1970.5 G iu seppe G alasso, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d ’Italia, vol. I, I caratteri originali, Torino, 1972.10 II Ponte, a. II , n. 11-12, nov.-dic. 1947 (scritti di G. Salvemini, P. Calamandrei, A.C. Jemolo, V. Foa, R. Levi, R. Battaglia, A. Predieri, D. Livio Bianco, C. Galante Garrone, P. Barile, D.G. Peretti Griva, G. Ravagli, M. Bracci, L. Bianchi D ’Espinosa, M. Vinciguerra); Dieci anni dopo (1945-1955). Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, 1955.

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sciti [...] un movimento di rivoluzione oppure una restaurazione legale ». Dietro il « quesito » stanno non solo la coscienza (qui più avvertibile che in altre opere di autori diversi) dell’unità del periodo storico tra crisi del fascismo e instaura­zione della Costituzione repubblicana, ma anche e soprattutto le delusioni e i ripensamenti di una parte cospicua dell’antifascismo, vissuti attraverso le vicende stesse del Partito d’azione. Il « fallimento » della Resistenza viene quindi identifi­cato — il riferimento è sempre a Valiani, ma vale anche, tra gli altri, per Franco Catalano — con il fallimento del Pd’A, che degli obiettivi di rinnovamento po­litico e sociale della lotta di liberazione sarebbe stato il più intransigente sosteni­tore in quanto espressione di quella piccola e media borghesia che era rivolta « verso gli ideali comuni del vecchio generoso socialismo italiano e del giovane movimento G L ».

Questa identificazione tra Pd’A e borghesia progressista, trapassata con facilità in buona parte della storiografia corrente, non è tuttavia così pacifica come appare dalle pregevoli pagine di Valiani. Di parere abbastanza diverso era ad esempio Paimiro Togliatti, quando indicava nei ceti medi la presenza di una « massa intermedia incerta, la quale sentiva il grande prestigio del movimento di libera­zione nazionale », ma che « non era ancora né organizzata, né orientata in modo certo e subiva l’influenza di quei numerosissimi fattori di disturbo di una co­scienza politica che agivano in quella situazione [...] ». E , del resto, lo stesso Valiani offre motivi tali da suggerire un accurato ripensamento sia dell’identifi­cazione tra azionisti e borghesia progressista, sia dell’esistenza e consistenza stessa di una borghesia progressista. Quando, all’indomani della liberazione, il Partito socialista si rivelò alleato « non già col Pd’A, ma col PCI » — ha scritto Valiani — « la classe operaia festeggiò l ’evento come la prova della sua vittoria. Il ceto medio ne rimase disorientato. I possidenti vi scorsero una minaccia mor­tale ». Borghesia progressista? A questa stregua appare infinitamente più fondata la tesi di Togliatti, che sembrava considerare la borghesia progressista un nucleo da creare e da conquistare, piuttosto che una realtà di fatto, e che affermava che il Pd’A aveva mancato alla sua funzione « di assicurare e penetrare con una agitazione progressiva masse nuove e diverse, di ceto medio lavoratore e di in­tellettuali, a cui i socialisti e noi non potevamo giungere »

Sono a confronto due tesi d’origine strettamente e immediatamente politica; ma su questo argomento, che pure è centrale rispetto a tutte le ipotesi della sinistra e delle forze progressiste nel post-liberazione, gli apporti della storiografia, an­che della più recente, si limitano a ribadire quanto, con maggior vigore polemico e più profonda passione, hanno già ampiamente detto i contemporanei.

Il dibattito sulla funzione e le vicende del Pd’A serve a sottolineare — al di là delle specifiche questioni di linea e di scelte politiche — un elemento su cui sto­riografia e memorialistica insistono quasi con monotonia: la possibilità, o meno, di un esito « rivoluzionario » della Resistenza italiana. Il fatto che il problema debba essere sottoposto a una definizione che ne riduca il carattere mitologico 11

11 L eo Valiani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, 1949; l’intervento di Togliatti in Fa­scismo e antifascismo (1918-1948). Lezioni e testimonianze, Milano, 1962, vol. II , pp. 634-46.

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assunto attraverso un dibattito più che ventennale, non può esimere dal verificare se e in quale misura esso abbia consentito di procedere all’acquisizione di nuovi elementi di giudizio.

« Non è [...] che noi dovessimo fare una scelta tra la via di una insurrezione legata alla prospettiva di una sconfitta e una via di evoluzione tranquilla, priva di asprezze e di rischi. La via aperta davanti a noi era una sola, dettata dalle circo­stanze oggettive, dalle vittorie riportate e dalla unità e dai programmi sorti nella lotta. Si trattava di guidare e spingere avanti, sforzandosi di superare tutti gli osta­coli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittorioso dalle prove di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario che allora si ponesse, e per adempierlo concentrammo le forze ».

In questi termini Togliatti riassumeva al X congresso del PCI — con una for­mulazione che ancora recentemente Enrico Berlinguer definiva « magistrale sin­tesi » — una tematica che la storiografia del partito ha largamente svolto. La validità di una simile prospettiva generale è stata tuttavia contestata da parte di chi ha creduto di ravvisare nel movimento di liberazione nazionale un potenziale rivoluzionario che le forze di sinistra — e il Partito comunista in primo luogo — avrebbero rifiutato di utilizzare.

In questa lunga polemica, che si è snodata in termini vari, legati a momenti di­versi della vita politica italiana e del dibattito all’interno della sinistra, studiosi e polemisti di estrazione marxista si sono affiancati a quelli di matrice azionista, su posizioni di critica al PCI. Per quanto ciò non risponda a un costume diffuso, è bene distinguere le riserve e gli spunti critici espressi dagli uni e dagli altri. Mentre infatti gli azionisti insistono su una polemica che fa carico al PCI di aver lasciato via libera alle forze conservatrici principalmente mediante l ’abbandono o la non sufficiente difesa di obiettivi democratici e laici (dalla « svolta » di Sa­lerno, alla questione istituzionale, ai CLN, all’articolo 7 della Costituzione) — ma hanno accompagnato tutto ciò (e valga ancora l ’esempio di ValianiI2) con un vigoroso biasimo della « smania di popolarità » che avrebbe reso i comunisti troppo corrivi nei confronti delle rivendicazioni operaie e popolari — gli altri hanno tenuto una strada sostanzialmente diversa. Al PCI essi hanno fatto carico soprattutto di aver depresso e svalutato la spinta rivoluzionaria presente nelle masse popolari e soprattutto operaie al termine della lotta antinazista. In linea generale, tuttavia, riesce difficile negare a questi studi — da quelli di Maitan o di Del Carria o al più recente e più rigoroso lavoro di Di Toro-Illuminati (pre­gevole su altro terreno) — un carattere fortemente ideologico, che ne limita de­cisamente l’incidenza sul piano dell’indagine storiografica, spesso assai carente dal punto di vista tecnico e dell’informazione. Non vale tuttavia la pena di in­sistere su quest’ultimo aspetto, in considerazione anche del ridotto supporto do­cumentario della maggior parte della produzione storiografica in materia; ben più decisivo si rivela, piuttosto il sottolineare come l’ipotesi « rivoluzionaria », sollevata da questi studiosi in alternativa alle analisi di derivazione togliattiana, finisca inevitabilmente per riproporre il dibattito sulla minaccia della catastrofica

L. Valiani, L’avvento di De Gasperi, cit., pp. 25-31.

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soluzione greca, gravante sul paese occupato dalle armate angloamericane. Per quanto sia rilevabile nel comportamento dei rappresentanti dell’AMG un indirizzo che avrebbe concesso all’antifascismo italiano ben maggiori possibilità di suc­cesso di quelle che furono effettivamente esperite, riproporre oggi il tema della « rivoluzione mancata » significa impostare il problema in termini troppo ristretti perché esso risulti fecondo 13.

Una via d’uscita a questo vicolo cieco è stata peraltro indicata da studiosi come Liliana Lanzardo (in un’opera in cui, fra l ’altro, il livello dell’indagine documen­taria non è certo l ’ultimo pregio)14. Se anche la contrapposizione di tendenze e aspirazioni di « base » alla linea moderatrice del partito acquista nelle pagine della Lanzardo ben diversa consistenza rispetto alla tematica della « rivoluzione mancata », i reciproci rapporti tra classe operaia e partito richiedono ancora di essere definiti e analizzati nelle diverse componenti. Né d ’altra parte si può far a meno di notare come da più parti sia stata data per scontata — e non solo ai fini polemici o in termini negativi — la funzione di « freno » assolta dal PCI, e dal PSIUP, nei confronti di certe lotte di massa nel dopoguerra, senza che vi sia stato uno sforzo adeguato per approfondire, al di là dell’astratto richiamo al tra­guardo della democrazia progressiva o del fin troppo concreto ammonimento ad evitare una soluzione greca, le ragioni positive che spingevano i partiti della si­nistra in quella direzione. Tra le quali (e ciò vale per il PCI in particolare) il primo posto dovrebbe spettare di diritto — lo ha ricordato con molta efficacia Gastone Manacorda con osservazioni che sono riprese nella prima parte di questa rassegna — alle valutazioni del quadro internazionale; anche perché, su questo terreno, è opportuno un recupero di più largo respiro sui rapporti con il patri­monio ideologico della III Internazionale, troppo spesso svilito dalla polemica reazionaria nel rapporto subordinato « agli ordini di Mosca ».

Al centro di questa problematica sta l’azione del Partito comunista. La premi­nenza che la storiografia gli ha accordato anche rispetto al Partito socialista è per molti aspetti quanto mai giustificabile se si guarda alla capacità di iniziativa politica e alla solidità organizzativa. Ciò non significa che sia da considerarsi pro­duttiva la frusta tematica della subordinazione del PSIUP alle direttive comuni­ste: questa, che è il cavallo di battaglia di polemiche ricostruzioni di ispirazione socialdemocratica, risulta un’umiliante banalizzazione del rapporto tra i due par­titi storici della classe operaiaI5. Il problema dell’unificazione tra di essi si rivela piuttosto uno dei nodi centrali per la verifica della capacità della sinistra nel suo complesso a condurre a buon esito il programma gradualistico che era legato alla « democrazia progressiva ».

13 L ivio Maitan, PCI 1941-1965. Stalinismo e opportunismo, Roma, 1969; Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano, 1966; vol. II ; Claudio Di T oro - Augusto Illuminati, Prima e dopo il centro- sinistra. Capitalismo e lotta di classe in Italia nell’attuale fase dell’imperialismo, Roma, 1970.14 Liliana Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla FIAT. La strategia della collaborazione 1945-1949, Torino, 1971.14 Cfr. ad es.: L. Faenza, La crisi del socialismo in Italia (1946-1966), Bologna, 1967 e A. Landolfi, Il socialismo italiano. Strutture, comportamenti, valori, Roma, 1968.

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Lo hanno ben chiarito Benzoni e Tedesco in un lavoro che, pur mantenendo il centro dell’interesse sul dibattito all’interno del partito, formula con chiarezza estrema i termini in cui esso si muove: dalle ragioni della scelta dell’unità d’azio­ne, risalente alle « traumatiche » esperienze del periodo fascista e alla necessità di ricostruire la coesione delle forze proletarie, alla formulazione dei « postu­lati rivoluzionari » su cui si baserà tutta la sua linea nel corso della Resistenza, al « forzato » adattamento post-bellico alle scelte di collaborazione « imposte dalla presenza alleata e dall’orientamento del PCI » e infine al definitivo assestamento « anche sul piano dell’impostazione teorica » alla « strategia gradualistica ». Una scelta quest’ultima, sostengono Benzoni e Tedesco, che rende ragione del suc­cesso socialista nelle prime elezioni postbelliche, in quanto permise un più chiaro orientamento delle forze del partito “ . E, se questa è una spiegazione certo più convincente di quella di chi preferisce vedere nel successo socialista il risultato del­la fedeltà alla poco definibile tradizione socialista, essa suona tuttavia come con­ferma dell’origine esogena e contingente della forza e della solidità, politica oltre che elettorale, del partito. Lo conferma, per altra via, lo studio di Agosti su Mo- randi: nel periodo postbellico la linea strategica complessiva della sinistra appare il limite invalicabile al di là del quale non si spinge, né come ministro né come uomo di partito, il dirigente socialista, che pure fortemente sentiva l’esigenza del­la « preminenza della lotta di classe » 16 17.

Il baricentro di ogni analisi sulla condotta delle sinistre nel dopoguerra resta quindi la linea dei comunisti. Testimonianze della continuità di uno scavo cri­tico ed autocritico attorno ad un nodo di problemi centrali per il partito e per il paese, diverse pubblicazioni di parte comunista offrono spunti di notevole inte­resse per approfondire dall’interno la complessa tematica; basterà riferirsi, in questa sede, ai sobri spunti contenuti nel quaderno di Rinascita dedicato al tren­tesimo del PCI, alla relazione di Amendola al convegno del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano e al saggio di Chiaromonte nel quaderno n. 5 di Critica marxista. « Errori », « incertezze » ed « approssimazioni » non vengono certo sottaciuti nell’analisi dei dirigenti comunisti. La battaglia sul terreno delle ri­forme, afferma per esempio Gerardo Chiaromonte, « non solo non fu vinta, ma — tranne che in alcuni campi — non fu nemmeno ingaggiata ». E Amendola, dal canto suo, ricorda che CGIL, PCI e PSIUP « non si impegnarono a fondo per il riconoscimento giuridico dei Consigli di gestione »; che l ’integrazione della « politica del controllo dello Stato » con « una politica di mobilitazione dal bas­so » fu « soltanto in parte attuata » ; e che infine « di fronte ai problemi nuovi posti dalla programmazione democratica e dalle riforme di struttura, il movimen­to operaio italiano [...] si dimostrava non ancora sufficientemente preparato». « Debole era ancora la comprensione del nesso che doveva stabilirsi tra le riforme della struttura economica e le riforme della struttura politica, e della necessità di una vasta articolazione autonomistica dello Stato, con un largo appello per lo sviluppo originale di forme di autogoverno, di iniziativa dal basso, di organi di democrazia diretta che introducessero elementi nuovi nella struttura centralizzata

16 Aldo Benzoni - V iva Tedesco, Il movimento socialista nel dopoguerra, Padova, 1968.17 Aldo Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Bari, 1971.

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del vecchio Stato ». Sono giudizi che nel loro complesso riprendono e sviluppano l’osservazione del quaderno di « Rinascita » del 1951: « una più forte pressione dei comunisti e dei socialisti alla testa del popolo sarebbe però forse riuscita a spingere più avanti tutta la situazione » ia. Sono anche indicazioni che legittimano e sostengono un tentativo — che in altra parte di questa rassegna si articolerà sul terreno dell’analisi storiografica — di verifica del rapporto tra le lotte di massa e le organizzazioni del movimento operaio (in primo luogo i sindacati).

È tuttavia sufficientemente chiaro, da questo punto di vista, che rimproverare al PCI l’« errore » di aver posto l ’accento « sulla necessità di costruire un sistema politico democratico per il movimento dei lavoratori » piuttosto che sulle riforme di struttura correrebbe il rischio di essere, come ha scritto Chiaromonte, « una specie di scoperta dell’ombrello » ; ed è pienamente accettabile che « una qua­lunque risposta (e anche qualunque critica) deve partire da una giusta valuta­zione di ciò che si è conquistato, del valore enorme del quadro politico comples­sivo che abbiamo conquistato con la Repubblica e la Costituzione » 18 19.

Ma, se tali conquiste non possono essere misurate sul metro di principi astratti, ciò che appunto occorre fare è analizzarne il concreto processo di definizione, at­traverso l’opera della Costituente e dei governi postbellici: anche a questo ri­guardo è necessario rimandare all’esame degli aspetti storiografici relativi a tale questione, condotta in una successiva sezione di questa rassegna. Si può tuttavia rilevare fin da questo momento che di un simile lavoro non sono nemmeno stati costruiti i presupposti, attraverso un soddisfacente quadro delle stesse forze po­litiche che hanno contribuito all’opera della Costituzione.

È singolare il silenzio che attornia, nella storiografia italiana, le forze moderate e conservatrici. Se è vero, come ha scritto Guido Quazza, che sul mondo politico italiano incombeva nel dopoguerra « l ’ossessione [...] se non del fascismo aperto, almeno d’una reazione più o meno mascherata », lo scarso rilievo accordato allo studio delle rappresentanze dei settori più retrivi della società italiana è ancor meno giustificato. Scarsissime e di nessun conto, infatti, le opere dedicate ai li­berali; che nei lavori d ’insieme si limitano ad apparire come la sparuta pattuglia d’avanguardia di mandanti indefiniti: l ’opera di Arnaldo Ciani si presenta d’altro canto come una cronistoria apologetica priva di rilevanza storiografica. Sul feno­meno del qualunquismo il lavoro di Gino Pallotta va appena citato per un minimo di completezza bibliografica; sul neofascismo e sui monarchici non esiste, si può dire, alcuna ricerca20.

Lacune che in buona parte si giustificano considerando come, più che gli studi

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18 Trenta anni di vita e lotte del Pei, «Quaderni di Rinascita », n. 2, Roma, s.d. [ma 1951]; G iorgio Amendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, in G. Amendola, Classe operaia e programmazione democratica, Roma, 1966, pp. 201-286; G erardo Chiaromonte, Riforme di struttura e direzione politica del paese, in « Quaderni di Critica marxista », n. 5, 1972.19 G. Chiaromonte, Riforme e direzione politica, cit., pp. 35 e 39.20 La citazione da G uido Quazza, Storia della Resistenza e storia d ’Italia: ipotesi di lavoro, in Rivista di storia contemporanea, 1972, 1, pp. 70-71. Sui liberali: Arnaldo Ciani, Il partito liberale italiano, Napoli, 1968; sul qualunquismo: G ino Pallotta, Il qualunquismo e l’av­ventura di Guglielmo Giannini, Milano, 1972.

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sull’organizzazione politica, valgano per questi settori le indagini sulla base di massa che li sostenne e sulle forze economiche dalle quali trassero ispirazione.

Per quanto riguarda queste ultime sarà bene osservare che l’assenza di lavori che raccolgano il pur ampio materiale, elaborato da diversi economisti (in particolare del PCI) sulla struttura del capitalismo italiano nell’immediato dopoguerra, ri­sponde a un impianto riproducente — ancora una volta — il rapporto tra « po­litico » e « economico-sociale » a suo tempo scelto dalla sinistra. (Ma per una con­siderazione più approfondita di questi aspetti si vedano i paragrafi successivi della presente rassegna). Meno spiegabile l’assenza di studi che diano corpo, tra l’altro, alla diatriba sulla funzione e la collocazione dei « ceti medi »: il noto saggio di Sylos Labini, utilizzato spesso anche in sede di dibattito politico, sembra richie­dere in sede storica sostanziose integrazioni che permettano di individuare le forze dei gruppi di pressione che hanno influenzato o tentato di influenzare tali strati di popolazione; a meno di non volerli considerare — come è stato non senza fondamento riproverato a Sylos Labini — se non proprio una classe, almeno « un dato che ha nel suo complesso una qualche coesione » a cui sia possibile asse­gnare comportamento e funzioni in qualche misura autonomi21 22.

Qualunque sia, su questo tema, la soluzione che si voglia dare, resta tuttavia in­discutibile come sia necessario fare i conti anche con l’arretratezza di studi che accertino attraverso quali strumenti le forze più decisamente retrive siano riu­scite, dopo due anni di ampie lotte popolari, a riconquistare (se pure l’avevano perso) il controllo di vaste zone dell’opinione pubblica: è notevole infatti che per l ’Italia del secondo dopoguerra non sia stato effettuato alcun tentativo di deli­neare una storia delle comunicazioni di massa, e nemmeno del più facilmente accessibile ad esse, la stampa. Solo Paolo Murialdi ha osato affrontare il tema in un lavoro che, date le condizioni di partenza, non ha potuto riuscire altro che un approccio conoscitivo 2\ Tuttavia i problemi della stampa — e in particolare quelli della stampa cosiddetta « d’informazione » — meriterebbero di essere af­frontati con un taglio che si richiami a quello usato da Valerio Castronovo per la stampa defl’Italia dall’unificazione al fascismo. Senza dimenticare, in questo con­testo, un’indagine — che non deve necessariamente essere scandalistica — sugli elementi di continuità corporativa all’interno dei manipolatori dell’informazione.

Rispetto alle forze moderate e conservatrici, la Democrazia cristiana ha ovvia­mente goduto di interesse ben maggiore; ma se le opere ad essa dedicate da av­versari o da uomini di partito e di cultura ad essa legati sono numerose, non per questo il quadro può dirsi soddisfacente: se si prescinde dall’interesse documen­tario e di testimonianza, sul tappeto restano ben pochi lavori degni di discus­sione. Sono opere che si collocano ancora negli anni ’50 (il saggio di De Rosa in

21 Paolo Sylos L abini, Sviluppo economico e classi sociali in Italia, in Quaderni di so­ciologia 1972, 4; Francesco F orte, Classi economiche, classi sociali e quaternario, in Econo­mia e lavoro, n. 2, 1969; Camillo D aneo, Struttura e ideologia del ceto medio, in Problemi del socialismo n. 5, 1967; la citaz. nel testo è tratta da II discorso sui «ceti m edi»: realtà e mistificazioni, a c. del collettivo Note e rassegne, in Note e rassegne, 1973, n. 1-2.22 Paolo Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra (1943-1972), Bari, 1973.

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Dieci anni dopo e quello di Togliatti) e le valutazioni espresse da Valiani nel- VAvvento di De Gasperi23.

Per quanto Valiani e Togliatti tendano entrambi a presentare l ’opera di De Ga­speri come pretta restaurazione del tradizionale stato italiano (con le incrostazioni fasciste e le relative degenerazioni burocratiche) esistono fra l’uno e l ’altro diffe­renziazioni abbastanza nette. Valiani dà infatti largo spazio al « senso dello Sta­to », caratteristico dell’uomo politico trentino; mentre Togliatti ritiene di dover­ne sottolineare lo scarso « spessore » politico e lo riduce a semplice esecutore del­le direttive del Vaticano e delle forze più conservatrici della Chiesa. Sono due caratterizzazioni che hanno goduto larga fortuna, anche in espressioni meno lim­pide; ma che oggi devono essere considerate largamente insufficienti. De Rosa, dal canto suo, rivendica a De Gasperi il « merito storico » di « non aver mai cedu­to [...] alle sollecitazioni interne ed estere di trasformare il partito parlamentare e rappresentativo della Democrazia cristiana nel grande partito vagheggiato dalla tradizione clericale popolaristica, nel grande partito cioè solidaristico vagheggiato dagli idolatri dell’interclassismo finalistico »; ma deve anche sottolineare co­me non si possa « escludere » una accentuazione delle sue tendenze conserva­trici di fronte al timore di « un blocco resistenziale di popolo » che attenuasse le istanze di « parlamentarismo e della democrazia politica ». Difficilmente il « senso dello Stato » che Valiani rivendica per De Gasperi può sfuggire a una in­terpretazione riduttiva come quella suggerita da De Rosa. Se si dà qualche ri­lievo, anzi, alle varie opere apologetiche (da Andreotti a Magri), che insistono sull’importanza determinante del pericolo bolscevico nel determinare le scelte di De Gasperi, il conclamato « senso dello Stato » sembra piuttosto concretarsi in un puro e semplice richiamo all’ordine. Che il pericolo rivoluzionario fosse poi, nelle condizioni oggettive dell’Italia postbellica e nella volontà delle opposizioni, un semplice motivo polemico su cui lo statista trentino intendeva far leva, cambia poco: contribuisce, casomai, a chiarire la precarietà di un’indagine che prescinda troppo affrettatamente dai problemi politici contingenti.

Potrebbe parere eccessivamente riduttivo richiamarsi quasi solo ad opere dedi­cate a De Gasperi: ma la storiografia (si veda lo studio di Galli e Facchi24 sulla sinistra democristiana) sembra concorde nell’attribuire alla centralità degaspe- riana una forza che esaurisce di fatto, sul terreno politico, l ’intera dialettica delle tendenze.

E attorno alla figura di De Gasperi si accentra anche l’altro grande tema, relativo alla Democrazia cristiana: il rapporto con la Chiesa cattolica. Un posto di rilievo spetta tuttora anche su questo terreno al giudizio di Togliatti, che nel suo saggio raccolse e condensò spunti interpretativi espressi in diverse sedi e destinati a se­gnare un orientamento che la storiografia della sinistra seguì per oltre un decen- 25

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25 Ci riferiamo a: G iulio Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Milano, 1964; G iorgio Tupini, I democratici cristiani. Cronaca di dieci anni, Milano, 1954; G iu seppe Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, Milano, 1968; Maria Romana Catti De G asperi, De Gasperi uomo solo, Milano, 1964; D e Rosa, I partiti politici dopo la Re­sistenza, in Dieci anni dopo, cit. (partie, pp. 145-160); L. Valiani, L ’avvento di De Gasperi, cit.; P. Togliatti, L'opera di De Gasperi, Firenze, 1958.24 G iorgio G alli - Paolo Facchi, La sinistra democristiana, Milano, 1962.

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nio nelle sue analisi sul movimento cattolico. AI centro dell’interesse di Togliatti sta l’evoluzione della Democrazia cristiana da partito popolare a partito conser­vatore, improntato a un « clericalismo di tipo nuovo », « che non è alieno dal parlare di riforme sociali anche avanzate, ma rinnega e vorrebbe cancellare le con­quiste delle rivoluzioni liberali e democratiche per quanto riguarda l ’indipendenza della vita politica dalla religione e dalle autorità religiose ». In questi termini To­gliatti, che nell’azione politica aveva tenacemente mirato al superamento di ogni tematica anticlericale, finisce per attribuire « agli indirizzi delle autorità eccle­siastiche » una responsabilità determinante, risalente alla lunga a una tradizione storica reazionaria. Più che da una considerazione banalmente polemica, l’inter­pretazione togliattiana sembra derivare da una profonda fede nella validità delle « conquiste delle rivoluzioni liberali e democratiche »; dalla profonda simpatia, cioè, per un orientamento cattolico-liberale che coraggiosamente scindesse l’ambi­to del « politico » da quello « religioso ».

Ma simili criteri di valutazione valgono poco a definire il senso del rapporto DC- Chiesa cattolica se non si tiene conto della complessa strategia di riconquista in­tegrale della società italiana che la gerarchia ecclesiastica era andata sviluppando, come è stato messo in rilievo, negli anni della crisi del fascismo25.

Ed è quanto ha fatto, in un articolo che si limita per la verità a presentare alcune anticipazioni di ricerca, Piero Scoppola esaminando il significato della scelta cen­trista di De Gasperi nel 1947: essa nacque dall’incontro di « una realistica valu­tazione » delle varie forze in gioco e della « lunga riflessione compiuta negli anni del fascismo alla ricerca di una linea politica che conciliasse insieme i valori del cattolicesimo sociale con quelli della tradizione liberale ». Di qui il distacco dai socialcomunisti, ma anche il contemporaneo rifiuto di ogni invito oltranzista — anche da parte degli ambienti vaticani — « a favore di un grande blocco di tutte le forze anticomuniste senza discriminazioni sulla destra » 26.

Se non si può non riconoscere che in questo modo la figura di De Gasperi riceve un’equilibrata collocazione all’interno della Democrazia cristiana e nei confronti del Vaticano e degli orientamenti del Dipartimento di Stato degli USA, è anche vero che il giudizio sulle scelte del 1947 non si può esaurire nel riconoscere che esse furono il minore dei mali. Resta ancora aperto in realtà il problema di una valutazione di più lungo periodo circa il contributo che tali scelte diedero a raffor­zare il «cemento reazionario » — come è stato definito — dell’ideologia catto­lica e resta insoddisfatta l’esigenza di analizzare in concreto l’articolarsi dello stes­so magistero ecclesiastico come strumento dell’organizzazione del consenso 27.

25 Cfr. il saggio di T eodoro Sala, Un’offerta di collaborazione dell’Azione cattolica italiana al governo Badoglio (agosto 1943), in Rivista di storia contemporanea, 1972, n. 4, pp. 517-533; e gli aspetti posti in rilievo da P ietro Scoppola in La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari, 1971, partie cap. V II, La guerra e la rinascita democratica.“ P ietro Scoppola, De Gasperi e la svolta politica del maggio 1947, in II Mulino, 1974, n. 231, pp. 25-46; alcuni temi dell’articolo, comparso successivamente al seminario di Àriccia, erano stati anticipati dallo stesso Scoppola nel corso del dibattito.27 Ci sembrano stimolante e chiarificatrice testimonianza di un orientamento diffuso, so­prattutto in gruppi e ambienti legati al dissenso cattolico, le Considerazioni sulla « politica ec­clesiastica» del PCI (1921-1947), apparse in Chiesa e società, novembre 1973: analizzando

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Né è infine indifferente che da siffatti orientamenti di studi sembri uscire ancora una volta sacrificato il rapporto tra il partito e la sua base di massa, tra il partito e le rappresentanze del potere economico, tra il partito e le strutture dello stato che esso si appresta a conquistare. La tendenza, più volte sottolineata in queste pagine, a chiudere l’ambito della vita politica nei confronti di tutti i fenomeni che si verificano su altri terreni della vita contemporanea, per quanto risponda a orientamenti radicati in vari settori del mondo politico postbellico, non sembra possa più trovare valide giustificazioni in sede di ricostruzione storiografica.

I problemi politico-istituzionali

Gli studi sul problema politico-istituzionale negli anni 1944-1947, cioè dalla tre­gua istituzionale alla conclusione dei lavori della Assemblea Costituente, sono numerosi ma presentano un quadro frammentario e disomogeneo. Ad una prima analisi sommaria (che esclude il materiale archivistico, gli atti ufficiali del governo e degli altri organi di potere, i dibattiti alla Consulta e alla Costituente), sembra mancare una ricostruzione organica d’assieme e quindi anche un’analisi delle vi­cende politico-istituzionali e del ruolo degli istituti di potere in questo periodo.

La storiografia politica in senso stretto che, per il periodo e il tema in esame, spes­so si confonde con una letteratura memorialistica di alto livello, risente in maniera profonda di una ricostruzione prevalentemente ideologica, ancorata alla polemica, retrospettiva o attualizzata, tra le forze politiche protagoniste del periodo resi­stenziale e postbellico. Si può in genere sottolineare, senza severità ma con chia­rezza, come manchi costantemente negli studi sul nascere dello stato e delle istitu­zioni repubblicane, una dimensione complessiva, sociale, della stessa tematica isti­tuzionale; che rimane così angustamente circoscritta in un interesse, prevalente quando non esclusivo, per le posizioni e gli atti dei partiti e in subordine per l’azione di governo. Interesse non meramente giustificativo o descrittivo, che evi­ta però di fare i conti con la dinamica sociale che sottende ed avvolge la rinascita della democrazia e con essa il problema del potere inteso nelle sue più ampie ar­ticolazioni e più vaste implicazioni.

Queste caratteristiche di fondo sono presenti anche nelle ricostruzioni più attente ed evidentemente sono il frutto di un atteggiamento tradizionalmente consolidato nella storiografia politica. Se ne discosta per la vivacità delle posizioni e per l’inte­resse ad un discorso storico che è insieme testimonianza di protagonista, l ’opera di Valiani ', che affronta però il problema della ricostruzione istituzionale preva­lentemente attraverso il filtro della politica dei partiti, le sinistre in particolare.

la politica comunista nei confronti del mondo cattolico l’articolo afferma che essa implicava « un’insufficienza radicale di analisi nella misura in cui il Partito [comunista] veniva ad accettare su questo problema [i rapporti all’interno del mondo cattolico] il punto di vista del proprio interlocutore, rinunciando così a mettere in discussione quel privilegio di ma­gistero che costituiva, in un arco molto più vasto di problemi, il cemento reazionario del mon­do cattolico e del partito della conservazione italiana » (p. 8). Sono osservazioni che hanno il pregio di mettere in luce con estrema chiarezza problemi che la storiografia italiana, condi­zionata da una visione cattolico-liberale, preferisce accantonare.' .G L .^E0 Valiani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, 1949 e II problema politico, in Dieci anni dopo. Saggi sulla vita politica italiana, Bari, 1955.

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Quello che l ’autore mette in discussione è soprattutto l’utilizzazione riduttiva e minimalistica degli spazi e degli organi esistenti operata dai partiti democratici: dall’incapacità dei governi di CLN di far fruttare il vantaggio di possedere con­giuntamente il potere esecutivo e quello legislativo, al disinteresse delle sinistre per la Consulta, dal rifiuto di battersi per affidare all’Assemblea Costituente anche l ’attività legislativa, alla utilizzazione contraddittoria e negativa dell’epura­zione prima e dell’amnistia poi. Non è tanto il succcedersi dei compromessi su varie questioni (da Salerno ai CLN, dalla tregua istituzionale al 2° governo Bono- mi, dall’epurazione al ritorno della normalità in fabbrica) o il compromesso più generale che viene messo in discussione: è l’utilizzazione che ne fanno PCI e PSI (il Pd’A, così sembra sostenere Valiani, se non fosse stato il piccolo partito che era, avrebbe agito diversamente) per motivi di partito interni e internazionali, che avrebbe soffocato l’interesse a un reale rinnovamento nazionale. Infatti « sa­rebbe stato sufficiente che questi tre uomini (Parri, Togliatti, Nenni) sincera­mente repubblicani, portati al potere dai partigiani si mettessero d ’accordo tra loro e preparassero in silenzio con la massima rapidità possibile, i provvedimenti legislativi per prendere i quali erano saliti alla direzione dello stato: sistemazione legale dei partigiani, militare ed assistenziale, legge elettorale, compimento e chiusura dell’epurazione, disciplina conforme e senso giuridico dei tribunali eccezionali [...] sarebbe stato necessario che i rispettivi decreti-legge fossero por­tati un bel giorno, il più vicino possibile, al tavolo dei consigli dei ministri, per affrettare con i fatti la data delle elezioni ». Tutto si risolverebbe quindi in mag­giore o minore astuzia, in maggiore o minore capacità di contrattazione all’interno del governo; le posizioni dei partiti di sinistra sarebbero da giudicare al tempo stesso miopi e strumentali; strumentali perché avrebbero puntato su alcune con­quiste immediate per la classe operaia (blocco dei licenziamenti, aumenti salariali) o per i mezzadri allo scopo di guadagnare i suffragi di queste categorie lavoratri­ci; miopi perché « sfuggiva loro che alcune grandi leggi fiscali e sociali votate alla Costituente, la maggioranza dei componenti la quale era in cuor suo favorevole alla soluzione progressista, sarebbero state assai più utili alla causa dei lavoratori, ancorché i testi votati fossero stati più conformi al programma democristiano che a quello marxista, che non il rinvio di tali questioni strutturali da una fase all’al­tra della attività governativa, sovraccarica di ordinaria amministrazione e infine al verdetto di nuove elezioni » 2.

Puramente descrittivo è il contributo di Raffaele Colapietra3, frutto di una inda­gine operata prevalentemente sulle fonti giornalistiche e con un’ottica fondamen­talmente moderata. Il tema dello stato è tutto ridotto ai termini del dibattito po­litico, con una posizione di esagerata attenzione nei confronti del Partito liberale, fautore di una continuità con la democrazia risorgimentale prefascista e una in­comprensibile sottovalutazione del ruolo egemonico della Democrazia cristiana anche sul terreno della rinascita istituzionale, riducendo ad abile prassi empirica tutto il disegno politico degasperiano.In un’ottica abbastanza simile, ed anzi con un carattere esplicitamente divulga­

2 Le citazioni da Valiani, L ’avvento, cit., rispett. a pp. 27-28 e 78.3 Raffaele Colapietra, La lotta politica in Italia dalla liberazione di Roma alla Co­stituente, Bologna, 1969.

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tivo, si pone Permoli4; la particolare attenzione riservata alla Costituente non rappresenta niente più che un prolungamento necessario e lineare della strada, a volte accidentata, che i partiti del CLN avevano intrapreso precedentemente. In tal modo non solo l’opera della Costituente appare svincolata dalla situazione ge­nerale del paese, ma lo stesso rapporto tra essa e i partiti non privilegia una rico­struzione delle ideologie statuali e delle intenzioni « istituzionali » che essi anda­vano sviluppando, ma si limita a ripercorrere l ’attività di governo e le diverse dichiarazioni programmatiche.

Studi più articolati e approfonditi ma circoscritti a temi parziali della ricostruzio­ne istituzionale, esistono solo nei confronti dei CLN, e per lo più limitatamen­te al 25 aprile. Il loro essere prevalentemente una ricostruzione cronologica o il puntare in maniera esclusiva sui CLN centrali o su quelli periferici o sulla struttura e il funzionamento, non permette di ricavarne direttamente utili in­dicazioni ad una comprensione generale del problema del rinnovo istituziona­le 5 * * * * * Il. Manca cioè anche rispetto a questo centralissimo problema un’analisi che riesca a fondere gli avvenimenti, i provvedimenti, le strutture, con la realtà sociale circostante, offrendo quindi un quadro vivo e dialettico dell’evolversi di questi organismi. L ’aver comunque quasi sempre contenuto lo studio dei CLN in un ambito cronologico che non supera la liberazione, già testimonia l’ottica, di pura continuità o di netta separazione, con cui si è guardato alla lotta di libera­zione e al periodo postbellico nei confronti del tema statuale e istituzionale.

Anche il problema della giustizia e della magistratura è stato oggetto di ricerche particolari, che hanno spesso aggiunto la passione civile e l’interesse politico più diretto e attuale alla ricostruzione storica più propriamente intesa. Il lungo sag­gio di Battaglia, I giudici e la politica, pur a volte contraddittorio nelle consi­derazioni generali non sempre condivisibili, è lo studio che meglio di tutti offre una ricostruzione dell’apparato della giustizia e del funzionamento della magistra­tura negli anni del dopoguerra. Studio che, anche se parziale, riveste un’estrema importanza per valutare la ricostruzione dello stato non solo attraverso i suoi organismi ma anche attraverso l’opera che questi hanno svolto. Battaglia parte dall’idea che se le leggi non vengono attuate non è perché esse sono oscure o difet­tose, ma perché è fiacco lo stato: e infatti « nel 1945 l’antifascismo al potere pos­sedeva forza politica sufficiente a rendere effettive tutte le sue leggi [...] negli anni successivi la forza politica dei suoi avversari crebbe in tal modo da riuscire a vanificarne non poche ». Sul tema dell’indipendenza della magistratura Battaglia

4 Piergiovanni Permoli, La Costituente e i partiti politici italiani, Bologna, 1966.5 Sull’opera dei CLN: Mario Bendiscioli, La Resistenza: gli aspetti politici, in II secondoRisorgimento, Roma, 1955, pp. 291 e sgg.; F ranco Catalano, Storia del Clnai, Bari, 1955;Emilio Sereni, I Cln nella cospirazione, nella ricostruzione, Milano, 1945. Si spingono oltre il limite del 25 aprile, con un tentativo di affrontare il problema del post-liberazione sottoalcuni aspetti particolari, vari articoli e saggi di ricerca: Massimo L egnani, Documenti sul­l’opera di governo del Clnai, in II movimento di liberazione in Italia, 1964, n. 74; R iccardo Levi, L’azione economica e sociale dei Cln dell’Alta Italia, in II Ponte, 1947, n. 11-12; einfine la relazione di G. G rassi e M. Legnani sul governo dei Cln in Alta Italia ora in Italia Contemporanea, 1974, n. 115 e quella di C. Pavone (Autonomie locali e decentramento nellaResistenza) al convegno «Stato e Regioni» (ottobre 1973, Milano): testi che, benché ricchi di indicazioni, non hanno potuto essere utilizzati in questa sede. Il saggio di Volterra inIl governo dei Cln, Torino, 1966, appare troppo schematico per fornire utili suggerimenti.

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nota che si fece ben poco: sono i trasferimenti e le punizioni che rappresentano la moderna corruzione; lo stesso moderato Einaudi diceva infatti che dare l ’indi­pendenza alla magistratura significava abolire assolutamente ogni carriera all’in­terno della stessa. Sulla polemica riguardo i prefetti e ai questori, oltre alla scarsa combattività dimostrata dalle sinistre per non esautorare quelli eletti dal CLN, Battaglia sottolinea l’incostituzionalità — nemmeno questa combattuta — della dipendenza dei questori dal ministro degli interni, che sottrae di fatto la polizia al controllo della magistratura. La maggiore attenzione è comunque rivolta al­l’epurazione il cui fallimento ha, oltre che motivi politici, cause profonde nelle contraddizioni legislative e nella rapida cessazione delle magistrature speciali. In meno di due anni infatti furono promulgate ben dieci leggi per regolare l’attività dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo; si vollero « trasferire sul piano della responsabilità penale le maggiori responsabilità politiche del fa­scismo [...] il tentativo di trattenere sul terreno legalitario la insurrezione popo­lare contro il nazifascismo e di placarne le acque con sentenze penali fu illusorio e controproducente »; « tutti i testi di legge offerti alla interpretazione dei giudi­ci erano tecnicamente assai difettosi », tanto che le leggi contro il fascismo furono più spesso applicate dalla Cassazione che non dalla magistratura di merito tradi­zionalmente più democratica; con l’amnistia non solo si mandarono a casa i fa­scisti ma si offrì anche l’avallo giuridico per iniziare il processo alla Resistenza che continuò negli anni cinquanta. In una parola si mancò « la trasformazione dello stato di polizia in uno stato di diritto ». Quanto questo tortuoso cammino all’indietro fosse motivato da sconfitte politiche e quanto invece da imperizia, superficialità, disattenzione che quelle sconfitte favorirono, non è problema risol­to dal saggio di Battaglia. Da esso esce però una ricostruzione utile, attenta non alle cause ma agli effetti delle scelte intraprese in un campo ben delimitato, che è un modo sia pure parziale per impostare un’analisi più generale6.

I contributi di Neppi Modona7 riguardano solo in misura assai ridotta gli anni della ricostruzione postbellica, presentandosi invece come excursus sul lungo pe­riodo. Malgrado la debolezza quantitativa dell’indagine, bisogna però riconoscere all’autore la capacità di individuare i punti essenziali delle tematiche affrontate e i momenti cruciali in cui si decide o si potrebbe decidere il rinnovamento del par­ticolare aspetto istituzionale affrontato. C ’è forse, proprio per l’angolazione così specifica con cui si guarda al periodo, una accettazione un po’ troppo frettolosa della tesi della continuità istituzionale della recente storia d’Italia, che evidente­mente può essere sostenuta solo sulla base di un discorso complessivo sullo stato e sulla società; anche se evidentemente il problema dell’assetto della magistra­tura o del sistema carcerario appare di centrale importanza per un discorso sulle istituzioni che solo la forza dei fatti e delle argomentazioni quali quelle offerte da Neppi può contribuire ad allargare e ad approfondire 8.

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6 Achille Battaglia, I giudici e la politica, Bari, 1962; le citazioni, nell’ordine, alle pp. 5, 77-85, 89 e 113.7 G uido Neppi Modona, La magistratura e il fascismo in Fascismo e società italiana, To­rino, 1973; Carcere e società civile in Storia d’Italia. V. I documenti, Torino, 1973.! Cfr. sempre sulla magistratura: Z. Algardi, Processi ai fascisti, Firenze, 1973; Vassalli e Sabatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica, ed. La Giustizia penale, Roma, 1947.

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Assai più nutrito è l ’elenco dei contributi più squisitamente giuridici e di quelli propriamente costituzionali, il cui limite naturale è ovviamente quello di essere in­dagini tutte interne al testo e alla norma della carta costituzionale, isolate dal contesto storico e inserite tutt’al più in un discorso dottrinario o culturale-giuri- dico9. Vi sono tuttavia una serie di testi che, o per l’angolazione da cui viene con­dotta l’analisi giuridica, o per la natura dei temi parziali affrontati o, ancora, per l ’ampiezza di un discorso costituzionale più generale che abbraccia la problemati­ca della democrazia moderna, risultano, anche allo storico, di profonda utilità per la ricchezza della problematica che l’ottica particolare riesce spesso a suggerire.

Esemplari per la profondità e l’attualità delle tesi sono gli studi di Calamandrei che, grazie alla diretta e insostituibile partecipazione alla stesura del testo costi­tuzionale è riuscito a rendere la diatriba giuridico-costituzionale pregnante di sen­so storico e di attualità politica. Il saggio apparso in Dieci anni dopo ad esempio, forse il meno scientifico dal punto di vista del giurista, è senz’altro tra i contri­buti ancora oggi più stimolanti ed è esemplare di quella polemica politica che, partendo dalle inadempienze costituzionali, ed esaminandone le cause interne ed esterne, ricostruisce anche a livello giuridico e politico-formale il cammino della restaurazione borghese. Più che riassumere il saggio di Calamandrei sarà forse utile trarne qualche spunto: il giudizio di fondo attorno a cui ruota l’analisi delle carenze costituzionali è felicemente sintetizzato nell’affermazione che « per com­pensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa » I0. Il senso di questo compromesso costituzionale è abbastanza evidente, come lo sono i mo­di in cui fu attuato: carenze del legislatore che non promulgò leggi adeguate per imporre l ’attuazione della carta; carenza del governo che non approntò organi legislativi funzionanti; carenza della magistratura che, retriva, favoriva l ’inadem­pienza costituzionale dimostrandosi prona al governo. Se sono ben delineati il momento del compromesso, la sua conseguenza immediata (frattura limitata alla forma dei supremi organi costituzionali e continuità di tutto il resto dell’ordina­mento giuridico e statale), la sua conseguenza a lungo termine (e cioè il regime democristiano), ben poco ci offre il saggio di Calamandrei per capire come e per­ché si giunse a questo compromesso. Se le sinistre non videro nella Costituzione una fotografia dei rapporti di classe esistenti (per loro sempre più sfavorevoli: la Costituzione fu approvata dopo l ’estromissione delle sinistre dal governo), ma la videro come prefigurazione dei rapporti di classe da essi auspicati, questo non fu causato solo dall’affievolirsi (più o meno documentabile) di un’« istinto » di classe. Si trattò insieme di una sopravvalutazione dell’elemento giuridico (una fidu-

9 Cfr A G uarino, Due anni di esperienza costituzionale, in Rassegna di diritto pubblico, 1946; C. Mortati, La Costituente, Roma, 1946; Balladore-Pellier i, Diritto costituzionale, 1949; P. B iscaretti D i Ru ffia , L o stato democratico moderno nella dottrina e nella legisla­zione costituzionale, 1946; Sica, Studi sulla Costituzione, II , Milano, 1958; A. Predieri, I par­titi politici in Commentario alla Costituzione, Firenze, 1950; Calamandrei-Levi, Commenta­rio sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950; Falzone-Grossi, Assemblea Costituen­te in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1958, III .10 Piero Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla in Dieci anni dopo, cit., p. 215.

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eia troppo ingenua nella forza coercitiva della legge) o di una sua sottovalutazione (di qui le varie carenze tecniche dal punto di vista giuridico)? o anche di una so­pravvalutazione della propria forza che si pensava dovesse venire evidenziata il 18 aprile; oppure di una lungimirante ritirata strategica in vista di un riacutizzarsi internazionale ed interno dei contrasti di classe che tendeva a salvaguardare, nella Costituzione, un punto fermo da cui riprendere le mosse? Sono domande a cui evidentemente può dare risposta non uno studio costituzionale, ma una indagine storica ben più complessa.

Sempre da un punto di vista giuridico, ma con spunti che non dovrebbero essere lasciati cadere, è interessante la parte finale del saggio di Ambrosini nella Storia d’Italia che enuclea tutte le contraddizioni giuridico-legislative senza dimenticare che esse ebbero deleterio effetto pratico proprio nel passaggio dal fascismo alla repubblica. Innanzitutto l’atteggiamento verso il fascismo, « per cui si deve pen­sare ad un giudizio di illegittimità relativa, quasi a dire che il fascismo si impose in modo formalmente legale pur realizzando fini illegali » e che portò alla contrad­dizione tra le leggi punitive del fascismo da una parte e l ’inapplicazione di tali leggi e la sopravvivenza di leggi fasciste dall’altra. E infatti « i decreti e le leggi successivi al 25 luglio 1943 si sono limitati ad una condanna dei modi, lasciando inalterati molti fini ». Inoltre la compresenza, nel passaggio giuridico dal fasci­smo allo stato repubblicano di atti che si conformavano ai dettami dello Statuto con atti innovativi destinati a sostituirlo (confusione alimentata dalla tregua isti­tuzionale) porta ad una lunga fase ibrida e di compromesso che si scioglierà solo con la Costituente (tipica la figura del luogotenente che sanziona formalmente gli atti legislativi ma è escluso dal potere). Interessante è anche l’accento posto sulle fonti di produzione giuridica. Se negli anni a noi più vicini si sono affermate nuove fonti di diritto accanto a quelle tradizionali e proprio in virtù di lotte poli­tiche e sociali che hanno mutato oltre i rapporti di forza anche l ’ideologia e la dottrina (si pensi alla Corte Costituzionale, alle Regioni, ai sindacati stessi), que­sto problema non ha avuto nell’immediato dopoguerra alcun rilievo, contribuen­do (sul piano giuridico ma anche sugli effetti che esso ha sulla realtà) ad avvalo­rare il tema della continuità. Con fine senso politico, Ambrosini conclude che « il fatto stesso di consolidare in un testo giuridico articolato le conquiste operate nella lotta politica costituisce un freno alle tendenze più avanzate » “ .

Su un terreno squisitamente dottrinario si muove Crisafulli in I partiti nella Co­stituzione n. Tralasciando il discorso di fondo sulla sovranità popolare, quello che preme sottolineare è come una valutazione — forse eccessiva — del ruolo dei partiti nella Costituzione, è qui svolta soprattutto sulla base dei fatti precedenti 11 12

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11 G. Ambrosini, Diritto e società, in Storia d’Italia, I. I caratteri generali, Torino, 1972; le citazioni, nell’ordine, a pp. 385, 386, 391; cfr. anche Costituzione e società in Storia d ’Italia V. I documenti, Torino, 1973, e Profilo storico del costituzionalismo italiano, in Studi per il X X anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. I, Firenze, 1969.12 Vezio Crisa fu lli, I partiti nella Costituzione, in Studi per il X X anniversario del­l’Assemblea Costituente, Firenze, 1969, col. II ; cfr. anche Idem, La sovranità popolare, in Studi in onore di V. E. Orlando, Padova, 1951, discorso formalmente ineccepibile, ma gra­vemente contraddittorio con la realtà dei fatti.

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alla Costituzione stessa. Infatti, osserva Crisafulli, il fatto nuovo rappresentato dall’art. 49 è, concretamente, il punto di approdo e la risultante di una situazione reale verificatasi in Italia negli anni 1943-48, il suggello di un « fatto » che preesi­steva alla Costituzione repubblicana ed anzi può ben dirsi ne sia sostanzialmente alle origini. E nella stessa prospettiva il ruolo del CLN centrale viene ad essere quello di un normale parlamento. Il momento di rottura con il fascismo e di con­tinuità tra Resistenza e repubbHca è dunque da ricercare nei partiti: « Il ricono­scimento — espresso, formale, univoco — dei partiti è come un filo continuo che passa attraverso la legislazione del periodo transitorio, che nelle sue varie fasi precede e prepara l’avvento del nuovo ordinamento repubblicano ». Già nel ’44 infatti la Consulta siciliana e quella sarda erano formate sulla base di rappresen­tanze partitiche; nel febbraio ’45 la rappresentanza di delega di governo al CLNAI veniva espressa a quell’organo come organo di partiti (e, se questa inter­pretazione è riduttiva, è però in linea con l’interpretazione non « rivoluzionaria » della Resistenza e dei suoi organismi); ancora nel ’45 la Consulta, che per Crisa­fulli rappresenta una sorta di preparlamento, sarà formata nella maggioranza di persone nominate dai partiti; in attesa delle elezioni amministrative gli organi di governo comunali e provinciali vennero costituiti su designazione dei principali partiti; furono i CLN — e cioè i partiti — chiamati a designare i giudici popolari componenti le corti straordinarie d ’assise e gli elementi da inserire negli uffici del pubblico ministero. Questa interpretazione dei CLN come organi di partito — che in larga parte risponde a verità e che comunque fu quella accettata nei fatti anche dalle sinistre all’indomani della liberazione — permette al Crisafulli di met­tere in luce, in un processo di continuità che trova sanzione nella carta costitu­zionale, come siano appunto i partiti la novità del periodo in esame. Il vedere nei partiti, nel loro ruolo e soprattutto nella loro unione, il germe del futuro or­dinamento, già dice molto sulla funzione e l ’opera che essi svolsero.

Se insomma anche da parte giuridica (e sia pure con alcune forzature) si tende a mettere in evidenza il valore giuridico dei partiti, questo può essere uno spun­to per il discorso fatto sul nuovo tipo di potere democratico (non più liberale) che appare nella repubblica e che trova appunto nei partiti il suo nuovo sostegno.

E infatti così conclude Crisafulli: « In sintesi dunque: l’affermazione dei partiti quali effettivi centri decisionali in ogni settore della vita pubblica nazionale pre­cede lo stesso riconoscimento formale del diritto dei cittadini ad associarsi in par­titi ».

Sulla stessa linea, anche se con differenze non sempre superficiali si muove Ama­to 13 che vede nei partiti lo strumento principale della sovranità popolare in quan­to trait-d’union tra collettività e stato-governo; sono infatti « soprattutto i par­titi politici cui è affidato il compito di mantenere permanentemente aggiornato il rapporto della organizzazione governativa con la collettività popolare ». Siamo qui su un terreno che spesso confina con la scienza politica e dei partiti e non a caso intere pagine sono dedicate alla diversità tra popolo e corpo elettorale e alla

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G iuliano Amato, L a sovranità popolare nell’ordinam ento italiano, s.n.t.

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discussione sulla personalità giuridica del popolo e dei partiti. Non si tratta, co­me può sembrare, di un dibattito puramente giuridico, ma soprattutto di una proposta tecnica di lettura costituzionale e di prassi politica che superi l’impasse delle interpretazioni o delle divisioni ideologiche. Ê una impresa che, proprio per il feticismo del fatto, del dato, della norma, ci sembra trovarsi al limite del vel­leitarismo e dell’equivoco, ma che comunque rientra in un tentativo di revisione giuridica interessante anche se di matrice nettamente tecnocratica. E infatti Ama­to insiste sui vincoli che renderebbero non liberi i governanti nell’esercizio del potere, vincoli reali (quali l’eleggibilità e la rappresentatività degli organi costi­tuzionali e le forme di democrazia diretta presenti nel testo costituzionale) ma evidentemente valutati in modo esagerato rispetto alla loro realtà effettuale. E il centro del discorso tornano ad essere ancora una volta i partiti (« cui è affidato il compito di mantenere permanentemente aggiornato il rapporto della organiz­zazione governativa con la collettività popolare ») visti non come entità storica­mente determinate, ma formalmente definite sulla base della dottrina.

Anche Maranini ", sebbene con ottica differente, considera fondamentale per il periodo immediatamente postbellico, il problema dei partiti e quello dei rapporti tra essi e l’Assemblea Costituente. Non solo come un riconoscimento di fatto e cioè perché « dietro la sua sovranità teorica — dell’AC — stava la sovranità effet­tiva dei partiti che ne avevano voluto la convocazione e che la componevano », ma anche come motivo di un giudizio blandamente negativo sul modo di far rina­scere la democrazia italiana. Dietro il riconoscimento delle ragioni ideali e prati­che che hanno spinto gli uomini della Costituente alla ricerca di un sistema di garanzie giuridiche sufficienti ad evitare nuovi tracolli della vita parlamentare in senso assolutistico, si nota nelle parole di Maranini una malcelata sfiducia verso quegli ordinamenti speciali e settoriali (quali egli considera i partiti) che hanno di fatto tenuto a battesimo « le nuove strutture dello stato italiano e cioè dell’or­dinamento giuridico generale ». È una considerazione che, non approfondita nei suoi termini storici, politici e giuridici, si colloca in una sorta di difesa, indiretta e blandamente polemica, della tradizione liberale accompagnata dalla presa d’atto dell’evolversi e del mutarsi delle condizioni storiche.

Assai carenti sono i contributi volti a definire il retroterra culturale dei partiti e degli uomini che hanno contribuito alla formulazione del testo costituzionale. Ca­renza tanto maggiore se si pensa che proprio l’inadeguatezza ideologica e giuridi­ca dei partiti antifascisti è sempre stata una delle accuse rivolte con più facilità e giustezza, ma anche con una buona dose di superficialità, ai padri della nostra Costituzione. È una ricerca che andrebbe fatta, e non solo nei riguardi dei partiti di sinistra, ma anche della Democrazia cristiana, per poter valutare coscientemen­te che tipo di egemonia culturale, se è possibile verificarla, sia esistita nel mentre si stava sviluppando una precisa egemonia politica, e quale rapporto o autonomia sia possibile cogliere tra questi due elementi: onde evitare di separare l ’analisi 14

14 G iu seppe Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Firenze, 1968; le citaz. a p. 326.

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della carta costituzionale e delle sue singole formulazioni dalla battaglia politica che l’ha accompagnata e che comunque ha avuto luogo simultaneamente.

Nel saggio di Paolo Ungari, Lo Stato moderno 15, che fa proprie le tesi della de­stra azionista a proposito di una trasformazione delle istituzioni statali da attuarsi attraverso leggi organiche e soprattutto apparati amministrativi efficienti in un quadro che, nonostante la fraseologia, è nella sostanza di restaurazione piena del­la democrazia rappresentativa di tipo liberale, viene avanzata la tesi secondo cui ogni discorso che puntasse sui CLN come organi statali o comunque ogni discor­so « rivoluzionario » sul tema dello stato, non poteva che essere velleitario a par­tire dagli accordi Medici-Tornaquinci « con i quali i CLN si impegnavano ad amministrare nell’interregno con piena osservanza della legalità, per rimettere poi i loro poteri all’AMG e al governo centrale trasformandosi in organi con­sultivi ».

È a partire da questi accordi, cioè, che sparirebbe di fatto quella dialettica restau­razione/trasformazione radicale e l’unica alternativa ad una restaurazione piena diventerebbe una riorganizzazione efficientistica. Anche se le posizioni dell’Ungari riprendono una polemica poco produttiva contro l’estremismo verbale-conserva­zione reale che praticherebbero i partiti di sinistra, non mancano delle osserva­zioni acute come quella secondo cui non fu il CLN « a porgere la modellistica istituzionale sulla quale si articolò il dibattito delle forze politiche antifasciste nella fase precostituente e costituente, se non in ridottissima misura »; tuttavia non si cerca di individuare i motivi e soprattutto di capire che risultati questo fatto comportò. Infatti non volendo utilizzare modelli costituitisi nel corso della guerra di liberazione e evitando che autonomamente ne sorgessero altri (col voler esaurire tutta la « politica » all’interno dei partiti stessi) non restava nei fatti che il vecchio modello liberale da aggiornare e modificare ma non trasformare radi­calmente.

Assai scarso è il contributo di sociologi, politologi, studiosi dei partiti, i cui studi in genere 16 sorvolano con noncuranza proprio il periodo della ricostruzione isti­tuzionale per affrontare invece con maggiore attenzione gli anni a noi più vicini. È evidente che proprio questo tipo di studi, per la loro impostazione e per il loro fine, abbisognano di una maggiore documentazione e difficilmente, per il loro porsi sul lungo periodo, possono essere utilizzabili ad una indagine circoscritta a pochi anni sia pure tumultuosi e particolarmente significativi. Ma è proprio la ricerca di una tipologia, la volontà classificatoria e statistica che rende difficile cogliere i problemi nodali, dal punto di vista istituzionale, del periodo 1944-48.

Si veda ad esempio come Farneti17 tenti da una parte una classificazione dei di­

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15 Paolo Ungari, Lo Stato moderno (Per la storia di una ipotesi sulla democrazia, 1944- 1949), in Studi per il X X anniversario, cit. vol. I.16 Cfr. soprattutto gli scritti di Sartori, Pizzorno, Galli in Quaderni di sociologia, 1966 e 1968; Politica del diritto, 1971; Rassegna italiana di sociologia, 1972; Rivista italiana di scienza politica, 1971; il volume collattaneo Partiti e partecipazione politica in Italia, Milano, 1972, oltre alle opere di Duverger, Poulantzas, Kirchheimer e anche Weber.17 Paolo Farneti, Il sistema politico italiano, Bologna, 1972.

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versi momenti della società, con sottogruppi, variabili, etc., dall’altro di verificar­ne la validità attraverso una analisi cronologica delle vicende politiche dal dopo­guerra ai giorni nostri. Il discorso generale è senza dubbio il più debole, incen­trato com’è su una contrapposizione assai poco convincente tra stato e politica, dove appunto la « società politica raccoglie tutto ciò che è espressione di volontà politica non statuale (non istituzionale); essa si pone come concorrenza al mono­polio del politico da parte dello stato », Ma a parte le considerazioni teoriche nel cui merito non è il caso di entrare, anche sul terreno dell’analisi concreta non si va al di là di ovvie constatazioni quali la mancanza dell’egemonia di un partito e quindi la necessità di una coalizione di maggioranza (ma l’ottica è evidentemente tutta quantitativa), e la democratizzazione che investì solo gli organi elettivi, ma non si estese ad altre formazioni di potere quali la burocrazia, etc., e il conside­rare il parlamento e il governo « struttura intermedia tra società politica da un lato e istituzioni statuali dall’altro ». Di maggiore utilità è senz’altro l ’opera di Sartori18 che pur nella rigidezza di uno studio compilativo e statistico può offrire una serie di dati che permettono, inseriti in una indagine più complessiva e inte­grata con altra documentazione, una verifica sul terreno del personale politico che si colloca alla direzione del paese nel dopoguerra.

L ’approccio comunque più interessante sul tipo di problemi in esame, proprio per l’apertura storica e lo stimolo a non rinchiudere in alvei precostituiti lo stu­dio delle istituzioni, è offerto da due contributi, diversissimi tra loro sotto ogni punto di vista, che sono il risultato di una acuta conoscenza scientifica, di una profonda passione politica e della diretta esperienza e partecipazione agli avve­nimenti.

Ne II principe senza scettro di Basso, che forse è l’opera più interessante sul pro­blema politico-istituzionale, è evidenziato meglio che altrove il limite strutturale dell’atteggiamento delle sinistre sulla questione. Il giudizio di Basso sui CLN è insieme realistico e critico (cosa difficilmente riscontrabile invece nelle posizioni comuniste dove prevale solo il primo aspetto): essi infatti « da un lato avrebbero dovuto essere espressione di questa iniziativa che saliva dal basso, organo del po­tere popolare, strumento della nuova democrazia, ma dall’altro lato erano espres­sioni di una coalizione di partiti soggetti alle regole della pariteticità e dell’unani­mità nelle loro decisioni [...] . Questo conflitto tra iniziativa popolare e rinnova­mento dal basso e, dall’altra, restaurazione conservatrice e direzione dall’alto fu il problema centrale della Resistenza, pressoché unanime nella prima posizione nella sua base di massa, ma frenata, in modo sempre più evidente, dall’intervento centrale di alcuni partiti, la cui presenza nel CLN favoriva quest’azione di re­mora ». Quando però si passa al dopoguerra sembra si accetti che quella dicoto­mia interna alla Resistenza sia ormai risolta sfavorevolmente, per cui, pur rico­noscendo all’antifascismo italiano una scarsa elaborazione di idee e tecniche costi­tuzionali (bilanciata però da un maggior desiderio di rinnovamento), pur ricono­scendo i limiti del compromesso istituzionale, pur riconoscendo le molte scadenze

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G iovanni Sartori, Il Parlamento italiano, 1946-1963, Napoli, 1963.

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non rispettate o lasciate passare senza lotta, il discorso diventa quasi esclusiva- mente « costituzionale », e la Costituzione viene giudicata al suo interno e non già in relazione ad una lotta politica che ancora non era chiusa. Di qui non solo il giudizio estremamente positivo sulla Costituzione e l’esagerato valore attribuito al referendum, ai poteri del capo dello stato, all’autonomia della magistratura, ma anche il vedere nei partiti, « il cui concreto fondamento ritrova nel CLN la sola autorità politica e legittima della Resistenza che era nato e viveva come coali­zione di partiti », il fatto nuovo politico e anche giuridico della democrazia repub­blicana rispetto alla democrazia liberale 19.

La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra di Foa, malgrado sia dedi­cato agli aspetti economici del periodo 1944-48, offre notevoli stimoli per una comprensione anche della problematica politico-istituzionale. E questo a ripro­va di come l ’analisi settoriale di un problema anche decisivo debba essere ne­cessariamente ricondotta a una visione d’insieme della dinamica che percorre la società tutta nel periodo preso in esso. È quanto accaduto invece nelle ri­cerche finora ricordate che, per vedere il problema politico-istituzionale come a se stante o nel migliore dei casi come puramente riferibile alla opinione e al­l’azione dei partiti politici, non sono riuscite a dare, sia nella descrizione che nei giudizi, un quadro d ’assieme del problema del potere visto nei suoi rapporti con tutte le articolazioni della società. Così il problema dell’intervento dello stato nell’economia (decisivo non solo per una comprensione dello sviluppo economico ma anche per una comprensione del tipo di stato, del livello di integrazione tra forze economiche e forze politiche, etc.) non è mai risultato trasparire dagli scrit­ti esaminati: e l’ipotesi di Foa per cui « solo dopo la caduta del fascismo e già nel periodo della ricostruzione, si avviò una utilizzazione razionale e su vasta scala degli strumenti di intervento statale nell’economia forgiati dal fascismo » si può così dimostrare utile da verificare anche in relazione a uno studio sullo stato sia nella sua funzione politica mediatrice, sia nella sua veste di apparato organizzati- vo-burocratico. Il contributo di Foa è comunque più ampio. Sul tema del CLN si sottolinea come nel corso della Resistenza e soprattutto a livello intermedio e di base « il tema della nuova democrazia, di una trasformazione dello Stato cen­tralizzato in una organizzazione politica fondata su autonomie di base, trovò la sua elaborazione più ricca » 20. Con una indicazione ad approfondire meglio la portata che ebbe a tutti i livelli il dibattito sulle forme del potere democratico e l ’eventuale contrasto o dialettica tra gli organismi intermedi e periferici con i ver­tici dei partiti e 'l’influenza reciproca che ne derivò. E un discorso del genere è comunque da estendere soprattutto al dopoguerra dove la verifica è possibile non solo sul piano della ideologia o del consenso quantitativo.

Occorre infine menzionare due lavori che ultimamente, con intenti diversi e diver­sa prospettiva, hanno ripreso la tematica istituzionale nel periodo transitorio e

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19 Lelio Basso, Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costi­tuzione e nella realtà italiana, Milano, 1958, p. 101 e 102.20 V ittorio Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4; le citazioni, nell’ordine, alle pp. 453 e 451.

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costituente, offrendo materiale per un rilancio di questi studi in una prospettiva più ampia. Il governo di coalizione21 di Ferrara parte infatti da una analisi della struttura dei centri decisionali del periodo di transizione, e cioè del governo, scorgendovi una delle costanti che verranno mantenute posteriormente e forma- lizzate tanto nel testo costituzionale che nell’ordinamento politico più generale che nella prassi parlamentare. Non potendo ripercorrere tutte le considerazioni dell’autore, basterà ricordare come il Ferrara veda soprattutto nella struttura go­vernativa la rottura profonda del regime transitorio col fascismo, scorgendo un legame inequivocabile tra l’uguale partecipazione dei partiti al potere politico nei governi di CLN e nel tripartito e la formulazione degli articoli 3 e 49 della Costi­tuzione, dove il primo assicurerebbe, con la pari dignità sociale, una paritaria par­tecipazione a livello politico, il secondo individuerebbe nei partiti lo strumento per rapportare società e stato e far così funzionare quest’ultimo secondo istanze che nascono e si fondano sulla società civile. Anche se nella seconda parte l’in­fluenza della più aggiornata scienza politica e la necessità di far rientrare il discor­so in una problematica pienamente giuridica e costituzionalistica portano ad una progressiva sfumatura ed evanescenza del solido senso storico cui è ancorata la prima parte del volume, il contributo di Ferrara va senz’altro preso come un in­vito ad approfondire i legami reali e formali tra periodo transitorio, nuove isti­tuzioni democratiche e testo costituzionale, che è l ’unica ottica che permette di uscire dal mero terreno del diritto e di affrontare il problema statuale del secon­do dopoguerra con un discorso storico più completo. Intervenendo sulla polemi­ca aperta dal libro in questione, Zagrebelsky 22 tenta, recuperando con intelligenza i contributi di diverso orientamento, di ripresentare la ortodossa posizione comu­nista, mantenendo però al discorso un carattere di problematicità e di apertura che testimonia l ’intensità e la sincerità dello sforzo iniziato da più parti per ridefinire in termini il più possibilmente scientifici il problema del trapasso istitu­zionale dal regime fascista a quello democratico. « Dove, come in Italia dopo la liberazione, la scelta consapevolmente operata dalle grandi forze politiche antifa­sciste fu quella di una trasformazione dall’interno delle strutture del potere, co­sicché la costruzione del nuovo stato fu impostata non sulla macerie ma sui pila­stri del vecchio, appare evidente la difficoltà di percepire sul piano delle strutture di potere elementi significativi in una discussione sulla continuità o discontinuità degli ordinamenti ». È questa indubbiamente una giusta impostazione che va sot­tolineata e ripresa, non importa se poi contraddetta dalle conclusioni troppo sem­plicistiche per cui il ’47 e l ’estromissione delle sinistre dal governo « individua­li no] una frattura tra un ordinamento democratico e progressivo ed un altro se­gnato dalla discriminazione verso le forze popolari e democratiche della sinistra », avvalorando la tesi, non nuova, che il carattere traumatico del ’47 è da ricercare in una improvvisa sterzata filocapitalistica della DC.

Di diverso tenore è il saggio che Cheli ha dedicato al problema storico della Co­

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21 G iovanni F errara, Il governo di coalizione, Milano, 1973.22 G ustavo Zagrebelsky, Coalizione di governo e regime transitorio, in Democrazia e diritto, 1973, n. 4; le citaz. a p. 202.

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stituente, tentando di ritrovare, in modo più descrittivo che interpretativo, il si­gnificato di questo breve periodo nella recente storia italiana. Non si tratta co­munque di una ricostruzione puramente cronologica e precisa dei fatti, delle leg­gi, degli ordinamenti, della composizione dell’Assemblea, dei canali di formazio­ne culturale-istituzionale che trovarono la loro sintesi nella elaborazione della Costituzione. Anche se proprio la chiarezza espositiva permette con una visione d’assieme di cogliere i vari nodi storicamente ancora irrisolti e meritevoli di ulte­riore approfondimento. Il riconoscimento del distacco tra Costituente e paese e il tentativo di individuarne le cause, la continuità tra classe dirigente della lotta antifascista e del periodo transitorio e dell’Assemblea Costituente, che si accom­pagna ad una accentuata unanimità sulle grandi prospettive e ad una acutizzazione della polemica sulla politica contingente, la natura del compromesso costituzio­nale e le condizioni culturali e politiche che permettono il realizzarsi di tale pat­to: sono tutti problemi affrontati, sia pure di sfuggita, ponendo l’accento sul ca­rattere intricato e contraddittorio della situazione reale, senza voler giungere a definizioni precise o risposte esaurienti. « Il risultato finale — sostiene l’autore sintetizzando il periodo della Costituente — è presto indicato: la Costituzione nasce come prodotto autentico (caratterizzato cioè da una sua intrinseca omoge­neità) ma anche notevolmente sfalsato dalla realtà contingente del paese » È una formulazione ancora troppo generica e problematica: ma esprime meglio di ogni altra — come tutto il saggio del Cheli che da questo punto di vista risulta emblematico — lo stato degli studi sul problema della rinascita delle istituzioni democratiche nel secondo dopoguerra e il punto di partenza da cui occorre muo­versi per il futuro.

Il modo di indagare la problematica politico-istituzionale in un periodo come quello 1944-47, non può che essere quello di vedere il potere (sia quello reale che quello legale con i rispettivi intrecci e opposizioni) in rapporto all’evolversi dei rapporti sociali, cioè di classe, nella società,, privilegiando lo studio, da una parte dei partiti, dall’altra degli organismi democratici e misurandone la dialetti- cità sempre più opaca e frammentaria per risalire alle cause e offrire alternative possibili alla realtà della situazione esistente.

È chiaro che muoversi in una simile direzione significa compiere una ben precisa scelta storiografica che si contrappone tanto a una pura ricostruzione documen­taria che a una riduzione al terreno giuridico di tutta la problematica istituzio­nale, sia a risolvere nuovamente il problema all’interno di una disamina critica della linea dei partiti quanto a una separazione meccanicistica tra struttura e sovrastruttura per cui il momento politico-istituzionale sarebbe necessariamente il frutto di una battaglia che si svolge solo nella società civile, in fabbrica o negli uffici della Confindustria.

Esaminare lo svolgimento politico-istituzionale del periodo ’44-47 significa quin­di esaminare lo sviluppo delle fonti (reali e legali) del potere, l’articolazione del potere nei vari istituti, i meccanismi di funzionamento del potere, il rinnovamen-

u Enzo Ch eli, II problema storico della Costituente, in Politica del diritto, 1973, n. 4-5, p. 520.

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to degli istituti del potere e del loro funzionamento, il personale delle istituzioni, le decisioni prese e i provvedimenti adottati in relazione alla dinamica sociale del periodo, riscontrabile soprattutto nell’azione dei partiti e nella vita degli orga­nismi democratici approntati prima e dopo la liberazione. Ed è attraverso tale esame che può essere possibile un discorso anche generale sullo stato in termini non puramente giuridici e che sostanzi di fatti e giudizi il carattere di mediazio­ne politica che esso ha nella società moderna; così come può ripartire di qui uno studio dei partiti che, sfuggendo ad una impostazione meramente sociologica, sappia recuperare in un’analisi concreta il carattere che essi hanno di espressione politicamente mediata degli interessi di precise forze sociali.

Il dibattito economico

A differenza che per altri aspetti del periodo 1945-48, può dirsi che sul dibat­tito intorno alla ricostruzione economica esistano già contributi di una certa im­portanza e veri e propri tentativi di sistemazione della materia. Retro Barucci, l’autore che si è occupato della questione con maggiore continuità e con i risul­tati analiticamente più soddisfacenti, ha scritto recentemente, abbracciando l’in­tera storiografia sulla ricostruzione: « Fra le vicende dell’Italia contemporanea pochi periodi, come quello qui indagato, sono stati studiati con altrettanta accu­ratezza. [...] La storiografia sul periodo è non soltanto folta e di buona qualità; è anche una storiografia caratterizzata da un’attenta sensibilità verso i fatti eco­nomici » *.

A parte l ’eccessivo ottimismo di una simile valutazione, è certo che fin dal 1960 una pubblicazione della rivista Economia e storia aveva offerto una prima rico­struzione, partecipe ma onesta, delle posizioni dei partiti politici italiani intorno alla programmazione economica ad opera di Fiorentino Sullo e un’ampia e detta­gliata bibliografia, che poteva essere usata con profitto, a patto di non tener con­to di divisioni della materia quasi sempre arbitrarie, ad opera di A. Fiaccadori1 2. Erano quindi seguiti spunti di grande valore di Foa e di Macchioro relativi alla caratterizzazione storica del dibattito ideologico sulla ricostruzione3, saggi come quelli di De Cecco sulla stabilizzazione della lira nel 1947 e di Piscitelli sul man­cato cambio della moneta che contribuivano a chiarire aspetti essenziali della que­stione 4, e, soprattutto, era venuta, ad opera dello stesso Barucci, un’ampia e pre­

1 P ietro Barucci, La politica economica internazionale e le scelte di politica economica dell’Italia (1945-1947), Rassegna Economica, 1973, n. 3, p. 669.2 A A .W ., I piani di sviluppo in Italia dal 1945 al 1960. Studi in memoria del prof. Jacopo Mazzei, presentazione di A. Fanfani, Milano 1960.3 V ittorio Foa, Le strutture economiche e la politica economica del regime fascista, in Fa­scismo e antifascismo. Lezioni e Testimonianze, Milano, 1962, vol. I ; A. Macchioro, J.M. Key­nes e il keynesismo in Italia, in Studi di storia del pensiero economico e altri saggi, Milano, 1970.4 Marcello D e Cecco, Sulla politica di stabilizzazione del 1947, in Saggi di politica mo­netaria, Milano, 1968 (una versione, con leggere modifiche, dello stesso saggio, dal titolo La politica economica durante la ricostruzione 1945-1951, è pubblicata in Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di Stuart J . Woolf, Bari, 1974, pp. 283-318); Enzo Pisc itelli, Del cam­bio o meglio del mancato cambio della moneta nel secondo dopoguerra, nei « Quaderni del-

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cisa catalogazione delle posizioni degli economisti italiani intorno al problema della ricostruzione economica5.

Da questa serie di contributi è possibile rilevare i molti pregi ma anche i grossi limiti di questa letteratura: viene colto il carattere anacronistico del predominio liberistico nella cultura italiana, che rappresentava un unicum rispetto all’espe­rienza contemporanea degli altri paesi europei, ma non vengono colte le radici storiche e teoriche di tale egemonia; vi è un generale riconoscimento della debo­lezza della sinistra, senza però che si vada al di là della semplice constatazione, che rimane inesplicata, se non in termini di opportunismo o di tatticismo più o meno deteriori. Se si aggiunge che proprio intorno ai limiti politici e ideologici della sinistra si è prodotta la mole maggiore di studi, e che le posizioni dei catto­lici (tranne alcune figure eccentriche) sono state scarsamente studiate o addirittu­ra scarsamente divulgate, e per lo più in termini apologetici, si avrà un’altra no­tevole caratteristica negativa della situazione degli studi.

I limiti maggiori ci sembrano, comunque, questi:1) uno scarso respiro storico-genetico di questi saggi;2) una certa residua astrattezza della trattazione, che non riesce mai a collocare questi dibattiti come momenti di lotta politica: è il caso anche dell’Introduzione a Saraceno di Barucci, che è una intelligente classificazione delle diverse posizioni assunte innanzi al problema della ricostruzione, ma che astrae però dai nessi con la lotta politica e sociale e dal rispetto per la cronologia, unificando in una com­plessiva e indifferenziata risultante elaborazioni e acquisizioni che non possono non esser viste invece nel processo del loro farsi e attraverso l ’impatto con la lot­ta dei partiti e delle classi;3) l’assenza di un inquadramento nel dibattito generale che si apre nella cultura italiana sul rinnovamento della società postbellica. Si tratta di verificare quanto il dibattito economico sulla ricostruzione sia coerente al più generale clima ideo­logico che caratterizza il periodo (la cosiddetta « ideologia della ricostruzione »), o sia inserito in esso, o addirittura lo condizioni forgiando e suggerendo alcune caratteristiche di esso. Non solo non esiste nulla del genere, ma anche i lavori di storia della cultura sul periodo appaiono carenti da questo punto di vista; il sag­gio di Luperini che ha intrapreso per primo un tentativo del genere appare trop­po ideologizzato e fondato su ricerche assai circoscritte; gli sporadici tentativi che sono seguiti sembrano ancor meno soddisfacenti6.

Vediamo in dettaglio. È facile avvertire come l’assenza di una restaurazione sto­rico-filologica dei termini del dibattito favorisca oscurità e incomprensioni. I pro­tagonisti della discussione parlavano a lungo e astrattamente di piano o di pro-

l’Istituto romano per la Storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza », n. 1, 1969; si veda anche Paolo Ba ffi, Memoria sull’azione di Einaudi, in Studi sulla moneta, Milano, 1966.5 Introduzione a Pasquale Saraceno, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari, 1969.6 Romano Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopo­guerra, Roma, 1971; l’approccio più utile al problema rimane pur sempre la lettura delle pa­gine di E ugenio G arin, Quindici anni dopo 1943-1960 in La cultura italiana fra ’800 e ’900. Bari. 1962.

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gramma (la differenza era che una parola faceva paura, l’altra no, come si disse con arguzia) per atterrire l’opinione pubblica o per propugnare una (moderata) forma di programmazione, ma a quale idea di piano essi si riferivano, cosa inten­devano con questa espressione? La questione è di sapere fino a che punto espe­rienze economiche degli anni ’30 quali la pianificazione sovietica e il New Deal o degli anni ’40 quali il piano Beveridge, e teorie come quella keynesiana fossero conosciute e correttamente interpretate.

L ’unico esempio di questo tipo di ricerca di cui disponiamo, il saggio di Macchie­rò, mette in luce la profonda incomprensione e il vero e proprio travisamento, talvolta in malafede, del pensiero di Keynes ad opera dei liberisti italiani, che in­fluiva anche, e profondamente, sulle sinistre: « Esse arrivavano — aggiunge Foa — per esigenze di giustizia distributiva, a condividere le posizioni keynesiane sul­la tassazione dei ricchi e sui prezzi politici per i beni di massa, ma riluttarono a riconoscere che il risparmio nasceva dall’investimento e che si potesse affrontare una spesa di disavanzo per sostenere la domanda » 1.

Certamente maggiore era la conoscenza dell’esperienza inglese, per quanto solo nel 1948 l’editore Einaudi avesse tradotto la Relazione sull’impiego integrale del lavoro in una società libera di F.W. Beveridge (e il fatto che questo editore, ge­neralmente considerato quasi come l’espressione editoriale del Fronte popolare in nuce o in atto, avesse pubblicato due anni prima il manifesto antipianificatorio Pianificazione economica collettivistica di von Hayek, Pierson, von Mises e Halm, con perentoria introduzione di Bresciani Turroni, dice molto sull’arretra­tezza della sinistra nel campo della cultura economica); molte suggestioni doveva­no anche venire dall’azione di governo in Francia, con la nazionalizzazione delle ferrovie, delle officine Renault, dell’elettricità, del gas, del telegrafo e della radio, del credito e di larga parte delle miniere di carbone, intervenuta nel 1945-inizio ’46 : ma in questo caso diremmo che si trattasse di una suggestione per lo più ne­gativa, in quanto il rigetto popolare del primo progetto di nuova Costituzione non poteva non ammonire a non tirare troppo la corda e a non spaventare troppo le classi medie: il lancio del moderato (ma fin troppo utopistico per l’Italia) piano Monnet non avrebbe, anche in virtù di questi fattori, trovato grande spazio nel­le discussioni di quegli anni.

Forse può ipotizzarsi che il tipo di « piano » più diffusamente conosciuto fosse quello teorizzato da Henri De Man negli anni della grande crisi: noto sia agli esponenti del movimento operaio che lo avevano largamente discusso, approvato o confutato, sia agli esponenti del corporativismo clerico-fascista che ne avevano tratto autorevole conferma alla tendenza al superamento non collettivista dell’eco­nomia di mercato che essi propugnavano, rappresentava con ogni probabilità un antecedente non solo terminologico del Piano del Lavoro della CGIL, nel bene e nel male.

Nuoce, da questo punto di vista, a tutti gli studi presi in esame (con l’eccezione dei saggi di Macchioro e di Barucci) il non aver fatto riferimento se non fugace-

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’ Vittorio F oa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, nella Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4, p. 439.

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mente ai dibattiti e alle elaborazioni del ventennio fascista. È lì che vanno ricer­cate le radici di molti orientamenti e il retroterra culturale di molte asserzioni ". I liberisti pongono le basi dell’enorme prestigio del quale godono nell’ambito del­l’antifascismo italiano nel corso della polemica da essi condotta contro il corpo­rativismo. Ad essa si rifanno spregiudicatamente anche nel vivo delle dispute post­belliche, facendo pesare e fruttare il capitale di prestigio accumulato. Le teorie keynesiane verranno per molti anni equiparate al dirigismo fascista, fino a quando la pressione delle cose e l’emergere di una nuova generazione di economisti meno provinciale e culturalmente meno protetta costringerà alcuni fra i massimi espo­nenti liberisti ad un tartufesco adeguamento in direzione dell’economia « corby- nesiana » 9, nuova e non ultima versione teorica dell’autoctono « protezionismo liberale » 10.

Ma è forse più importante notare come agli sgoccioli del regime si discutesse di piani e di esperienze concrete di pianificazione in maniera già omogenea e, in ta­luni casi, più approfondita perché libera da eccessivi assilli polemici, alle discus­sioni del dopoguerra. È il caso di alcuni contributi al convegno pisano sui proble­mi economici dell’Ordine nuovo del ’42, ingiustamente ricordato di solito soltan­to in virtù del coraggioso ma mediocre e retrogrado intervento di Demaria in di­fesa dei principi dell’economia di mercato. Le relazioni di Dami e di Fortunati sono, dal nostro punto di vista, assai più significative Né possono essere dimen­ticati i contributi di Papi e del Di Nardi, esempio di un’attenzione insolitamente sollecita da parte di liberisti12; né si può tacere dei contributi, quantomeno a li­vello di agitazione politico-culturale, promossi da De Stefani e dalla Rivista ita­liana di scienze economiche intorno al keynesismo e, nel 1943, al piano Beveridge, capziosi e non sempre correttamente informati, ma che comunque mettevano in circolazione gli echi di quanto avveniva altrove.

Senza prendere le mosse dal periodo fascista è, pure, impossibile rendersi conto della dialettica esistente all’interno del partito cattolico, se non in termini di « ani-

‘ Cfr. G. G allo, « Cesura » e « Continuità » nelle interpretazioni dell’economia italiana dal fascismo al secondo dopoguerra, negli Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Uni­versità degli Studi di Perugia, 1970-72, n. 11, Perugia 1973, pp. 279-348; G iorgio Mori, Per una storia dell’industria italiana durante il fascismo, in Studi storici, 1971, n. 1; E ster Fano Damascelli, La « restaurazione antifascista liberista ». Ristagno e sviluppo economico durante il fascismo, in II movimento di liberazione in Italia, n. 3, luglio-settembre 1971.5 L ’espressione è di A. Macchioro, nzWart. cit.10_ Il termine, che ha un significato più ampio ed estensivo del precedente, è tratto dal­l’introduzione di G iuliano Amato all’antologia II governo dell’industria in Italia, Bologna, 1972, da lui curata." L ’intervento di D emaria può leggersi in appendice alla raccolta dei suoi scritti Problemi economici e sociali del dopoguerra, a cura di T. Bagiotti, Milano 1951; per gli altri scritti citati, cfr. gli Atti del Convegno per lo studio dei problemi dell’ordine nuovo, Pisa 1942 e 1943. Degno di nota è anche il volume di G uido Carli, La disciplina dei prezzi, edito da Einaudi nel 1943, che è una analisi critica della politica economica nazista.12 Cfr. G iu seppe Ugo Papi, Preliminari ai piani per il dopoguerra, Roma 1944; G iu­seppe D i Nardi, Il controllo sociale dell’economia, Milano 1967. Barucci ha sostenuto la tesi di una « priorità » del pensiero economico italiano moderno « nell’impostazione di alcuni problemi teorici sulla pianificazione », riferendosi a Pantaleoni, Pareto e Barone, alla quale sarebbe seguito « un declino di questo tipo di interessi », ma anche in periodo fascista non sarebbe mancata una informazione « di notevole livello scientifico » {L ’idea di pianificazione nella letteratura economica italiana, nella Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1972, n. 3).

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me » contrapposte o divergenti. A differenza degli altri gruppi politici antifascisti, i cattolici avevano potuto formare i propri quadri dirigenti in Italia, a contatto con la realtà del paese e in regime di blanda vigilanza poliziesca, intervenendo e spesso confluendo nelle iniziative culturali fasciste. L ’interscambio fra le riviste cattoliche e quelle fasciste-corporative negli anni ’30 è senza dubbio impressio­nante; in taluni casi è difficile capire quale sia l’elemento dirigente o egemone di particolari campagne politico-sociali (la ruralizzazione, la campagna demografica, ecc...). In questo clima, il gruppo di studiosi di economia raccolto da padre Ge­melli intorno alla Rivista internazionale di scienze sociali (Vito, Fanfani, Taviani, Mazzei, ecc...) si qualificava come il più attento alle esperienze economiche inter­nazionali (degni di nota soprattutto i saggi di Vito sul New Deal) e come il più incline a rifuggire i dogmi tradizionali dell’economia di mercato per abbracciare una politica economica paternamente investita dall’intervento statale. Ci sembra giusto insistere sul gruppo dei discepoli di Gemelli perché è il più significativo e perché sarà l’unico a mantenere una certa coerenza di presupposti.

Resta il fatto che tutto ciò, nel periodo 1945-48, si ridusse a enunciazioni pro­grammatiche, di cui i documenti democristiani non furono mai avari, all’attività di alcune riviste, all’esperienza in larga misura isolata dei vari centri di studio e di Saraceno (l’unico che formulò davvero un « piano »): poca o nulla l ’attività di governo. Non sembra credibile l’affermazione di Sullo secondo la quale l’inter­mezzo di Campilli quale supremo timoniere della politica economica italiana si muovesse in un senso di « moderata programmazione », tentativo subito schiac­ciato dall’avvento di Einaudi.

In realtà emergono in questo periodo nel campo democristiano figure destinate ad assurgere a simboli della completa sottomissione ideologica all’ortodossia libe­rista, quali quelle di Pella e Malvestiti13.

L ’attività dei cattolici programmatori si svilupperà in parallelo all’attività di go­verno, soprattutto nei settori del credito e del parastato che la provvida legisla­zione fascista aveva posto sotto il pieno controllo statale, a cui l’ancor più prov­vida ortodossia liberista di Einaudi aveva rinunciato, favorendo quindi un con­trollo governativo anziché pubblico, che avrebbe significato in breve la rapida con­quista democristiana delle banche e degli enti a vario titolo esistenti o di nuova costituzione 14 15. Dell’errore i liberisti si sarebbero accorti solo negli anni ’50, di fronte al pieno sviluppo dell’ENI non solo in quanto organismo economico. Solo all’avvio della piena ripresa produttiva la tendenza pianista sarebbe riaffiorata a livello governativo, con il primo piano Fanfani sull’edilizia popolare “ .

Allo stato degli studi (pressoché inesistenti) non può essere suggerita altra spie-

13 P iero Malvestiti, Economia programmatica o economia libera?, prefazione di G. Pel- la, Milano s.d. (1948); Id., Saggi e polemiche sulla Linea Velia, Milano 1951.14 M. De Cecco, Note sugli sviluppi della struttura finanziaria nel dopoguerra, nei Saggi di politica monetaria, cit., pp. 35-89.15 D ’altronde il numero dei « pianisti » si ridurrebbe ulteriormente, se fosse accertata l’ipo­tesi di Barucci secondo la quale molti « furono indotti a parlare di piano perché quest’ultimo era richiesto come condizione per l’utilizzazione degli aiuti americani » (La politica economica internazionale, cit., p. 673).

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g azione se non quella tradizionale, solida ma non onnicomprensiva, della piena egemonia del « quarto partito », in quel periodo liberista e assolutamente con­trario a ogni forma di controllo o di ingerenza non richiesta nell’attività privata, la quale egemonia avrebbe messo la sordina alle tendenze non coerenti con tale indirizzo esistenti nel partito cattolico, confinandole in secondo piano.

Ma è bene ripetere che il problema dell’avvento della DC quale grande partito conservatore di massa è ancora tutto da studiare, soprattutto per quanto concerne la sua compenetrazione con lo stato e l’uso da essa fatto delle strutture di potere economico e politico ereditate dal fascismo, e che solo all’interno di un’analisi complessiva di questo tipo potrà essere compiutamente analizzata la vicenda di uomini « carichi sì di schemi dottrinari ma solo formalmente, in realtà poveri, anzi privi di un’ideologia sociale precisa, e aperti e disponibili alla sperimenta­zione più spregiudicata e più vuota di valori »

La letteratura più numerosa è senza dubbio sul PCI. Gran parte di essa si limita a scoprire ciò che Togliatti diceva esplicitamente ogni volta che se ne presentava l’occasione: che i comunisti non intendevano instaurare un regime socialista, non ritenendo peraltro di averne la possibilità, e che consideravano utopistico un pia­no generale dell’economia italiana, nonché una nazionalizzazione generalizzata delle grandi imprese private, affermando inoltre che essi avrebbero fatto ricorso all’iniziativa privata anche se fossero stati al potere da so li16 17 *.

Sulle motivazioni di questo atteggiamento ci sembra stimolante anche se forse unilaterale l’interpretazione di Cafagna, per il quale l ’obiettivo principale della strategia comunista era « il partito stesso, cioè la massimizzazione della sua forza nella società italiana, il suo consolidamento in quest’ultima » 1!. Ciò presuppor­rebbe fin dall’inizio la lucida consapevolezza della fragilità della coalizione antifa­scista fondata sull’alleanza dei tre partiti di massa, e, soprattutto, della solidarietà internazionale fra le due grandi potenze: di qui l’apprestamento di una linea di resistenza volta a operare nei tempi lunghi all’interno di una società uscita da vent’anni di dittatura reazionaria e difficilmente acquisibile nell’immediato a una prospettiva socialista.

Tuttavia, come è noto, l’Unità valutava positivamente lo scoppio della bomba atomica a Hiroscima, che oggi è difficile non vedere quale primo cinico atto della guerra fredda, più che doloroso epilogo della seconda guerra mondiale, e salutava come grande vittoria dei lavoratori l’avvento di De Gasperi al governo, a conclu­sione della crisi seguita alle forzate dimissioni di Parri.

Bisogna dire che questi errori di valutazione durano poco, e fin dall’inizio del ’46 la situazione si presenta più chiara, se non altro per quanto concerne il quadro internazionale. È proprio all’esempio greco d’altronde che il PCI si richiamerà

16 Mario T ronti, Macchina statale e potere della DC, in Rinascita, 20 luglio 1973; ma tutto l’articolo è da tener presente come tentativo di approccio inconsueto alla storia della DC.17 Cfr. in particolare l’intervento al Convegno economico del PCI, ne l’Unità, 28 e 29 ago­sto 1945." Luciano Cafagna, Note in margine alla « Ricostruzione », in Giovane Crìtica, n. 37, estate 1973, p. I.

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più spesso quale esempio ammonitore di ciò che avrebbe potuto comportare la scelta di un’altra strategia. Sembra indubitabile, peraltro, che fin dall’inizio la visione personale di Togliatti, che egli cercò di trasmettere a tutto il partito, fos­se improntata a un « pessimismo dell’intelligenza » che non avrebbe tardato a rivelarsi valutazione quanto mai realistica dei reali rapporti di forza.

Questa interpretazione non spiega del tutto, comunque, la freddezza manifestata sovente dai comunisti nei confronti dell’idea di piano. Ancora nel 1950 Togliatti presentava con molta cautela su Rinascita la proposta di un Riano del Lavoro lanciata dalla CGIL, chiarendo che essa non poteva intendersi come vera e pro­pria pianificazione dell’economia italiana. Nello stesso fascicolo, un articolo di Renato Mieli criticava aspramente le esperienze di pianificazione del mondo capi­talistico, presentandole quali più aggiornate e ingannevoli lusinghe del nemico di classe. Nessuna concessione fu mai compiuta, nonostante ciò che potrebbe far pensare l ’idiota e ininterrotta campagna reazionaria intorno al « modello » dei comunisti, nel senso di una imitazione, anche parziale, dell’esperienza sovietica, che pure era patrimonio politico e teorico non indifferente per il movimento co­munista internazionale. La polemica Dami-Pesenti del 1950 è, da questo punto di vista, molto significativa 19. Barucci ha scritto che l’esperienza sovietica, quando fu usata nel dibattito sulla ricostruzione, lo fu solo in senso anticomunista20 21. An­cora Cafagna scrive, felicemente, che Togliatti evitò sempre di parlare del model­lo sovietico come di qualcosa da imitare, « lasciandolo nell’indistinto di qualcosa di grande che era avvenuto in un luogo lontano, e che non poteva non avere influ­enza determinante sull’avvenire di ciascuno, ma in modi che toccava alla storia precisare [...] . Fu così che di piani, pianificazione, programmazione, parlarono altri in Italia in quegli anni, non i comunisti » “ .

I comunisti tesero subito a caratterizzarsi come interpreti della realtà italiana del tempo, scevri da ipoteche culturali troppo gravose22.

Di più, i comunisti sembravano presentarsi sulla scena politica, e, soprattutto, parlamentare, come un partito che non aveva alle spalle alcun passato di analisi della società italiana. Ai lavori dell’Assemblea Costituente, se non andiamo erra­ti, fu Sullo, subito seguito da Lussu, a citare per la prima volta le Tesi di Lione, in trasparente polemica con l’atteggiamento dei comunisti sull’ordinamento re­gionale. È significativo rilevare, anche se non rientra che marginalmente nel no­stro tema, come accanto alla tepidezza nei confronti della programmazione si ac­compagnasse da parte dei comunisti una svalutazione di quegli strumenti che nel­l’immediato futuro sarebbero stati visti come chiave di volta di una prospettiva

19 Polemica intorno al libro di Cesare Dami, Esperienze di economia pianificata, Torino, 1950, portata avanti da Pesenti su Critica Economica, agosto 1950. La rivista avrebbe poi ospitato un dibattito sulla questione; cfr. l ’intervento di A. Macchioro, pubblicato negli Studi di storia del pensiero economico, cit., pp. 688-698. Un contrasto fra i due deputati comunisti si era già verificato al Convegno economico del PCI del ’45, dove Dami era stato uno dei pochi sostenitori dell’urgenza di un piano economico, contestata duramente dal Pesenti.20 La politica economica internazionale, cit., p. 674.21 L. Cafagna, Note in margine, cit., p. 4.12 P. Barucci, La politica economica internazionale, cit., p. 686.

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di programmazione democratica: è il caso, appunto, delle Regioni. Certo, in tutta la vicenda delle discussioni all’Assemblea Costituente può vedersi la proiezione di uno schema tradizionale nella storia dell’Italia unitaria, che vuole i partiti go­vernativi fautori della centralizzazione e quelli d’opposizione, o che presumono di poter diventare tali, sostenitori del decentramento e di un quadro di leggi che ne garantiscono i diritti a livello centrale o locale, con il rapido interscambio di ruoli che è finora sempre avvenuto e che si sarebbe riprodotto anche fra DC e PCI dopo il 1947, ma forse si può ipotizzare che, in generale, gravi su tutto l ’at­teggiamento del PCI un condizionamento internazionale più pesante, in termini di elaborazione teorica e politica, di quanto non appaia da una valutazione di breve periodo: indubbiamente è solo dopo il XX Congresso del PCUS che molti nodi verranno sciolti e la strategia comunista assumerà, a grandi linee, la confor­mazione che mantiene tuttora. Per tornare alle Regioni, è significativo che nel primo Consiglio nazionale del PCI seguito alle rivelazioni del XX Congresso (3-5 aprile 1956) Togliatti ponesse al centro della sua relazione i problemi della lotta dei comunisti a livello delle amministrazioni e degli enti Locali, e assumesse con forza la parola d ’ordine della rivendicazione dell’istituto regionale e dell’aboli­zione dei prefetti, senza citare Stalin se non alla fine del discorso, e in termini non negativi: atteggiamento che stupì e provocò critiche esplicite nel corso dei lavori, oltre che perplessità. In realtà, oggi si può concludere che non si fosse trattato di reticenza o di una presa di tempo rispetto ai quesiti sollevati dal crollo del mito di Stalin, quanto di una risposta che traeva le prime debite conclusioni, con enor­me anticipo su tutti, da quanto era avvenuto e impostava subito una strategia di trasformazione dello stato libera da residui condizionamenti dogmatici.

Ma, tornando al nostro tema, va detto che il collegamento con le discussioni e le elaborazioni nate all’interno del partito nel corso degli anni ’30 è ancora tutto da istituire; il saggio di Sereni sul capitale monopolistico nelle analisi dei comunisti italiani lascia comunque presagire la ricchezza di questo terreno di ricerca 23 24.

Quanto al resto della sinistra, c’è da dire che i socialisti emergono con gli stessi limiti culturali dei comunisti, lievemente corretti e differenziati in talune persona­lità di spicco: è il caso di Morandi, la cui figura acquista talvolta nella letteratura i connotati di un « profeta disarmato » all’interno del governo e all’interno del movimento operaio !4. Si ha però l’impressione che l’uomo impersoni una tenden­za non salda e priva di addentellati concreti, e che si faccia portatore di propen­sioni prive di strumentazione concreta e non inserite in una strategia organica e realistica. Del resto, e qui il discorso riguarda l ’intero PSI assai più che Morandi, sarà caratteristica costante dei socialisti darsi slogans brillanti e immaginosi più che programmi e strategie di lungo respiro. Non c’è dubbio tuttavia che Morandi

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23 E milio Sereni, Fascismo, capitale finanziario e capitalismo monopolistico di Stato nelle analisi dei comunisti italiani, in Critica marxista, n. 5, sett.-ott. 1972; utili osservazioni anche in S. N atale, Studi recenti sulla politica economica fascista, in Rivista di storia contempora­nea, n. 4, 1973.24 _ Cfr. Rodolfo M orandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica 1945-1948, Torino, 1960; Lotta di popolo 1937-1945, Torino, 1958 (in particolare gli appunti carcerari Analisi dell’economia regolata, pp. 37-49); Aldo Agosti, Rodolfo Morandi. I l pensiero e Razione politica, Bari, 1971.

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rappresenti un polo dialettico insopprimibile all’interno della sinistra italiana per una ricostruzione esauriente del quadro culturale di quegli anni. Analoga atten­zione andrebbe posta a esperienze più sotterranee e che forse per certi tratti pos­sono apparire in anticipo sui tempi, come quella della rivista Socialismo e, in ge­nere, dell’attività culturale promossa da Panzieri.

Gli azionisti, presi nel complesso (sorvolando quindi su alcune personalità la cui collocazione nel Pd’A appare ancora più provvisoria rispetto agli altri) sono all’in­terno dell’antifascismo italiano coloro che più profondamente risentono dell’ege­monia liberista, presentandosi talvolta, in alcune correnti, come gli eredi e i con­tinuatori del liberismo radicale con tutto il contorno tradizionale di fiere invettive contro i « trivellatori » e i « succhioni » dello stato. È noto, ed è divulgato per­fino da ricostruzioni cinematografiche, come Parri volesse sopprimere, fra gli in­utili carrozzoni fascisti, anche l’AGIP di Enrico Mattei. Anche personalità che negli anni successivi si sarebbero caratterizzate per vera o presunta modernità concettuale, come La Malfa, non sembrano sfuggire completamente a questo giu­dizio. È pur vero che il curatore della raccolta degli scritti più significativi del personaggio 25 cercherà di suggerire un non inconsueto valore profetico ai suoi pri­mi interventi post-’45, ma non ci sembra condivisibile tale interpretazione: né l ’attività ministeriale di La Malfa al Commercio estero sembrerà accreditare que­sta tesi. D ’altronde La Malfa proveniva, anch’egli, da un passato di polemica dife­sa dell’ortodossia liberista in chiave anticorporativa 26t

Interessante e generalmente trascurato il ruolo dei socialdemocratici, che sem­brano all’interno dell’Assemblea Costituente gli assertori più decisi di una poli­tica di programmazione. Ivan Matteo Lombardo compie il 24 febbraio ’47 la di­fesa più lucida dell’idea di piano, che Tremelloni il 9 giugno rivendica come ban­diera dei socialdemocratici.

C’è indubbiamente in questo momento storico una coerenza di fondo degli scissio­nisti, che hanno formato parte a sé proclamando la possibilità dell’evoluzione del­la società capitalistica verso il socialismo democratico attraverso l ’intervento del­lo stato e delle sue leggi, e che peraltro sono momentaneamente liberi da respon­sabilità governative, in attesa di legarsi alla DC con un prolungato abbraccio su­balterno, e possono pertanto esplicitare in forma pressoché pura le loro convin­zioni ideologiche, che assumono anche valore propagandistico e polemico contro quanti li accusano di avere buttato a mare gli ideali del socialismo 27.

Non avrebbe senso trattare, in questo contesto, del Partito liberale vero e pro­prio, quanto dei liberisti, per lo più confluenti in esso e ruotanti attorno ad esso. È tipico, fra l ’altro, come essi si mostrassero legati a una concezione del « parti-

25 Ugo La Malfa, La politica economica in Italia. 1946-1962, scritti e discorsi a cura di L. Magagnato, introduzione di L. Valiani, Milano, 1962.“ Cfr. ad es. U. La Malfa, Evoluzioni dottrinarie, nei Nuovi studi di diritto, economia e politica, 1934, III.27 Per una analisi dettagliata dei programmi socialdemocratici subito dopo la scissione, cfr. Lelio Basso, La funzione reazionaria del partito di Saragat nella vita politica italiana, su Rinascita, aprile 1954. I contributi dell’economista più noto del partito, Roberto T remelloni, non sono di grande originalità: cfr. soprattutto L ’Italia in una economia aperta, Milano, 1963.

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to » spiccatamente prefascista: i casi di Corbino che si dimette dal PLI per poter restare al suo posto di ministro dopo l’uscita del partito dal governo a seguito dei risultati elettorali del 2 giugno, che nel ’53 fonda, assieme a altri, un’Alleanza elettorale volta a contrastare la legge-truffa, che nel ’58 si presenta candidato nelle liste DC a Napoli perché considerate più sicure di quelle liberali “ , esempli­ficano utilmente il discorso.

Oltre a quanto richiamato in precedenza, bisogna sottolineare come dato più im­portante che in questa breve e più assoluta stagione di egemonia dei liberalisti si verifica una nuova e singolare coincidenza delle loro tesi canoniche con gli orientamenti del grande capitale italiano. Tutti i grandi capitani d ’industria, con qualche accentuazione in più o in meno, si professano liberisti nel corso dell’in­chiesta della Costituente guidata, non senza preconcetti, dal DemariaZ9.

Significativo il furore liberista che emerge dai libelli che il conte Gaetano Mar- zotto di Valdagno-Castelvecchio scrive, stampa e distribuisce ai suoi operai, e che vanno letti anche come documento della coscienza di classe del capitale italiano nella sua forma più rozza e meno reticente“ .

Con questa convergenza fra liberisti e capitani d ’industria si colmava uno iato pressoché cinquantennale di dissapori, perplessità e dissensi ed emergeva in piena luce il ruolo di vera e propria « guida della nazione » che il gruppo si era tradi­zionalmente riservato e che solo in questi anni poteva illudersi di esplicare con convinzione e determinatezza. Costituisce valida riprova di questo anche la sin­golare affermazione politica personale di alcuni esponenti del liberismo italiano: da Einaudi a Corbino, a Del Vecchio, Papi, Jannaccone.

Questa « fortuna » dei liberisti, il suo significato, le sue motivazioni e le rovino­se ripercussioni che essa ha prodotto non hanno trovato finora una esauriente trat­tazione storica. Così, più in generale, si può dire che anche gli studiosi di storia economica tendono a giustificare come ineluttabile e, alla lunga, positivo (in quan­to premessa del boom economico degli anni ’50) il loro operato (con l’eccezione sostanziosa del De Cecco, che è l’unico che tenti di far emergere le alternative di sviluppo, non certo rivoluzionarie ma intercapitalistiche e, comunque, più « mo­derne » e « civili » che furono sacrificate sull’altare di quella che già dieci anni prima era stata definita la « barbara » religione del pareggio del bilancio). 28 29 30

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28 Su queste vicende, cfr. E picarmo Corbino, Racconto di una vita, Napoli, 1972.29 « Se il peso dei membri della Commissione si fosse dovuto stabilire in relazione al loro numero, cioè in base alle loro tendenze e coloriture economiche, ne sarebbe uscito, in vitro, un programma di pianificazione o, comunque, un mosaico che invece di orientare gli onorevoli costituenti, spesso digiuni di problemi economici, ne avrebbe accresciuta la confusione d’idee. Si deve airilluminata energia del suo Presidente, se il Rapporto della Commissione è un do­cumento di coerenza il quale, nel meglio delle condizioni obiettive, indica in un aggressivo liberismo la strada maestra della nostra rinascita economica » (dalla introduzione di T. Ba- giotti alla raccolta di scritti del Demaria citata in precedenza, p. 28). Un significativo cam­pionario di deposizioni di industriali è raccolto in Lucio V illari, Il capitalismo italiano del novecento, Bari, 1972.30 Sotto il titolo complessivo Panorama della ricostruzione, gli opuscoli (editi a Vicenza nel 1947) portano titoli diversi in base alla loro tematica: da vedere soprattutto Bolscevismo o libertà?, che si chiude con l ’invocazione ai due grandi eroi della civiltà contro la barbarie, nell’ordine: Pio XII e Truman.

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Concludendo, si può convenire con Barucci che « anche allora, come poi spesso è accaduto nel nostro paese, i termini “ socializzazione” , “nazionalizzazione”, “programmazione” (oppure “pianificazione” ) comparivano con monotona insisten­za, ma come in una grande danza di ombre. L ’uso diffuso delle “parole amianto”, impenetrabili e suscettibili di molte interpretazioni, era pressoché la norma comu­ne. La disputa terminologica, ricchissima e variegata, non sottintendeva una cor­rispondente chiarezza prospettica » 31 32.

In effetti è pur vero che furono due soltanto i problemi concreti su cui si discus­se, o, per meglio dire, quelli sui quali fu possibile scegliere fra soluzioni diverse: la forma da assegnare al prelievo fiscale, e il modo in cui fermare l’inflazione a metà del 1947 3\

Ma in fondo l ’impressione di astrattezza e di sterilità emerge solo ove si guardi a questa disputa cercando di scorgere ciò che era impossibile che fosse, ossia un confronto elevato, costruttivo, onesto e distaccato dalla mischia di posizioni intel­lettuali e dottrinarie convergenti disinteressatamente verso il fine comune di ri­costruire nel migliore dei modi il tessuto economico del nostro paese. Un clima del genere durò in effetti pochissimo, e fu tenuto in vita già allora a gran fatica.

L ’esperienza unitaria di Critica economica alla quale ci si riferisce spesso a questo proposito fu di breve durata, e il clima di operoso ma sterile idillio si prolungò solo in settori abbastanza marginali o paralleli ai centri dove lo scontro era più intenso.

Ci sembra cioè che l ’astrattezza sia propria anche della storiografia sulla questio­ne, che stenta a riconoscere il carattere eminentemente politico del confronto, confronto fra schieramenti politici e sociali di cui gli economisti furono parte, co­me esponenti talvolta rilevanti e dirigenti, talvolta puri e semplici mediatori di posizioni politiche e di classe in virtù della loro fama o del proprio bagaglio tecni­co. È impossibile uscire dalle secche di una storia delle idee astratta e perciò dete­riore se non si comincia a porre al centro della ricerca il ruolo politico degli econo­misti, che si esplica ad esempio nella collaborazione diffusissima e influente ai quotidiani « indipendenti », attraverso i quali incidono nel breve periodo della lotta politica assai più che con la loro produzione dottrinaria e specialistica. An­che qui basti citare qualche caso fra i più noti: Il Corriere della sera con la firma prestigiosa di Einaudi, La Nuova Stampa con Jannaccone e Demaria, fino alle combinazioni editoriali di Corbino che pubblicando gli stessi articoli su II Gior­nale di Napoli, Il Tempo di Roma e di Milano, La Gazzetta del Popolo di Torino, Il Giornale dell’Emilia di Bologna, La Nazione di Firenze e La Sicilia di Catania, riesce a coprire praticamente tutto il territorio nazionale.

31 P. Barucci, La politica economica internazionale, cit., p. 704; da tener presente anche l’invito dello stesso Barucci a distinguere due tempi della ricostruzione (uno in cui il « rico­struire » sarebbe stato senza aggettivi, l’altro in cui i partiti avrebbero teso a darsi veri e propri programmi) e a soppesare attentamente i vincoli « di ordine strettamente economico ed altresì di rapporti di forze » entro cui i partiti dovettero scegliere.32 Ibid., p. 694.

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Peraltro, restando in tema di stampa, bisogna sottolineare con forza che una rico­struzione storica che voglia cogliere il dibattito in tutta la sua interezza e com­plessità non può limitarsi a prendere in considerazione soltanto la produzione de­gli economisti professionali e i documenti economici dei partiti, ma deve riuscire a includere nella trama della ricerca tutto quanto concorre a determinare e preci­sare le linee fondamentali del quadro, dalla pubblicistica al giornalismo, sia pure dozzinale, in quanto concorra a orientare o a consolidare le tendenze e le convin­zioni dell’opinione pubblica e a influire sugli stessi orientamenti dei partiti.

Ricostruzione e disegno capitalistico

Se il dibattito intorno alla ricostruzione ha ricevuto da politici e studiosi — come si è visto nel paragrafo precedente — un’attenzione particolare e alcune prime sistemazioni di indubbio valore, il giudizio sulla storiografia muta sensibilmente una volta si affronti il tema stesso della ricostruzione, tanto nei suoi aspetti quan­titativi e statistici (persino dei settori più rilevanti) quanto, soprattutto, nella individuazione dei legami tra potere economico, indirizzi governativi e sistema politico. Su questi aspetti si sa ancora molto poco, anche se sono stati pubblicati negli ultimi anni alcuni saggi che offrono nuovi e più credibili modelli inter­pretativi.

La prima memorialistica e storiografia sul secondo dopoguerra fu, per forza di cose, storia dei partiti politici, ma — osserva giustamente il Barucci1 — data la rilevanza dei fatti economici divenne necessariamente « una ricerca in buona par­te orientata a ricostruire ciò che essi proposero, vollero e realizzarono nel campo più strettamente economico » 2. La filiazione diretta dalle diverse correnti politi­che e dalle battaglie allora sostenute fece si, tuttavia, che di quel dibattito si mu­tuassero valutazioni generali e temi di scontro (la pianificazione, la disoccupazio­ne, il cambio della moneta) senza che si ponesse nel dovuto rilievo quanto, con minore pubblicità, veniva concretamente operato nella struttura produttiva del paese. Giudizi generalmente catastrofici sul sistema economico uscito dalla guerra sono infatti riscontrabili tanto in testi ufficiali3 o apologetici, quanto in prese di posizione della sinistra, data la sua ben nota e altrove documentata scelta « con­cretista ».

1 Pietro Barucci, La politica economica internazionale e le scelte di politica economica dell’Italia (1945-1947) in Rassegna economica, 1973, n. 3.2 Cfr. E picarmo Corbino, L ’economia, in Dieci anni dopo (1945-1955). Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, 1955; Ugo La Malfa, La politica economica in Italia, 1946-1962, Milano, 1962; Mauro Scoccimarro, Il secondo dopoguerra, Roma, 1956; Pasquale Sarace­no, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari, 1969; F iorentino Sullo , Il dibattito politico sulla programmazione in Italia dal 1945 al 1960 in Economìa e storia, 1960.3 Cfr. CIR, L ’economia italiana nel 1947, Roma, 1946, rapporto presentato dalla delega­zione del governo italiano al V Consiglio generale dell’UNRRA (di qui l’utilità di una valu­tazione tendente « a l ribasso»); si vedano anche: Banca d’Italia, Relazione del governatore all’adunanza dei partecipanti per il 1947, Roma, 1947, p. 30 (ancora nel marzo del 1947 Einaudi calcolava in 3000 miliardi le spese da affrontare per la ricostruzione) e CIR, Lo svi­luppo dell’economia italiana nel quadro della ricostruzione europea, Roma, 1952, pp. 2-7 (il voi. ha una funzione apertamente propagandistica della politica economica italiana e degli aiuti americani).

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Questi giudizi, alla luce di studi più recenti e dello sviluppo economico degli an­ni ’50, sono apparsi sempre più come il frutto di una valutazione esclusivamente quantitativa, — « fisica » — dei danni, che non teneva conto delle capacità di ripresa e di rapida crescita dell’apparato industriale (meno gravemente colpito del settore agricolo, delle infrastrutture e in generale degli approvvigionamenti di materie prime4), mentre, d ’altra parte, sottovalutava il costo della ristruttura­zione che la nuova collocazione internazionale richiedeva al paese.

Quanto ai temi che il dibattito del tempo considera come discriminanti delle due linee di politica economica (i piani, le misure antinflazionistiche, ecc.), essi rischia­no di perdere il loro valore di battaglie emblematiche se non si inquadrano nel processo di ricostruzione del potere padronale che ha i suoi cardini nella rapida riconquista (legale) della fabbrica, nell’acquiescenza dell’amministrazione statale5, nel sostegno offerto dalla politica finanziaria e creditizia6.

Lo stesso Barucci, che tanto nella Introduzione agli scritti di Saraceno, quanto nel saggio di Rassegna economica, sembra ritenere che una « politica economica eclettica » durò per un lungo « periodo di attesa » che andò dalla liberazione al­la fine dei governi di coalizione, non può fare a meno di constatare nella politica finanziaria (cioè nell’unico campo di cui si sappia qualcosa, perché i tecnici hanno voluto raccontare il loro operato7) una continuità dal 1946 e « una determinazio­ne che colpiscono ». Anche Manzocchi che, coerentemente con la storiografia di parte comunista, tenta di rinviare al 1947 la fine di ogni alternativa democratica, non può fare a meno di rilevare proprio in campo monetario una coerenza riscon­trabile fin dal 1945. Il segno della continuità appare qui più preciso per l ’omoge­neità e l’organicità del gruppo di economisti che lo manovrarono e soprattutto perché fu questo il campo in cui la sinistra, attraverso Scoccimarro, si batté con maggiore coerenza. Ma gli studi recenti di Graziani e Amato 8 lasciano intravve- dere come tale determinazione di intenti da parte padronale sia riscontrabile an­che altrove.

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4 Cfr. Augusto G raziani, (a cura di), L’economia italiana: 1941-1970, Bologna, 1972, p. 15. Si veda anche quanto scrive Postan, (Storia economica d’Europa. 1947-1964, Bari, 1968, cap. II) a proposito della ripresa industriale in Germania dove le distruzioni belliche non annullarono la capacità produttiva addizionale creata durante e prima del conflitto; in Ger­mania, come in Inghilterra, i danni di guerra dimostrarono effetti più gravi nell’immediato che a lungo termine perché poterono essere riparati con spese modeste. La situazione non si presentava in modo dissimile in Italia dove i costi più gravi furono sostenuti per il rinnova­mento degli impianti.5 È ancora da studiare la funzione dei Comitati industriali, vera e propria sopravvivenza del regime corporativo, che tanta parte ebbero nello spingere al liberismo la piccola e media industria. Cfr. Arrigo Cajum i, Dirigenti e pianificazione in La Nuova Europa, 1945, n. 39.6 Si veda quanto scrive B ruzio Manzocchi sull’uso dell’inflazione da parte delle forze conservatrici in Introduzione a Scoccimarro, op. cit. p. XXXVI e in Lineamenti di politica eco­nomica in Italia (1945-1959), Roma, 1960, p. 42.7 Oltre alle Relazioni del governatore della Banca d ’Italia Einaudi, v. in particolare Paolo Ba ffi, Memoria sull’azione di Einaudi (1945-1948) e L ’evoluzione monetaria in Italia dal­l ’economia di guerra alla convertibilità (1935-1958), scritti rispettivamente nel 1954 e 1958, entrambi in Studi sulla moneta, Milano, 1965.8 II governo dell’industria in Italia. Testi e documenti a c. di G. Amato, Bologna, 1972.

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L ’opera di Manzocchi rimane tuttavia una delle prime ricostruzioni critiche del periodo e una delle più pregevoli. Il suo limite è quello di essere stata concepita in anni di dura polemica difensiva del Partito comunista e di condividerne fino in fondo l ’impostazione « verticistica » e chiusa all’ambito governativo della bat­taglia sulla ricostruzione economica. Risultano cioè omessi — o rinviati a dopo la fine del tripartito — i nessi tra la sconfitta delle misure economiche proposte dal ministro Scoccimarro e, da una parte, una realtà produttiva che cresce e acqui­sta forza da quella sconfitta, dall’altra, una realtà sociale in movimento che non è mai chiamata a lottare per quegli obiettivi in nome dei quali il partito giustifica la sua presenza al governo.

Abbiamo detto che l’opera del Manzocchi è una delle prime ricostruzioni criti­che. È noto che non mancarono già nel 1948 e 1949, soprattutto da parte ameri­cana, dubbi sull’opportunità della feroce stretta creditizia di Einaudi9. Nel com­plesso, tuttavia, l’inatteso ritmo di incremento del prodotto nazionale negli anni ’50 fece momentaneamente spegnere quella polemica e scomparire dietro il mira­colo economico tanto i pesanti costi sociali e l’aggravarsi degli squilibri interni, quanto la forte dipendenza da quei costi della possibilità di continuare a soddi­sfare la crescente domanda dei paesi « sviluppati ».

Un tipico esempio di uso « celebrativo » delle statistiche è il citato volume del C.I.R del 1952 (Lo sviluppo dell’economia italiana nel quadro della ricostruzione europea): la ricostruzione è un fenomeno oggettivo, non selettivo, e come tale le sue vicende sono percorse dal 1946 al 1950, anno in cui il prodotto nazionale tornò finalmente ai livelli prebellici. Non dissimile come impostazione, nonostan­te sia stato pubblicato vent’anni dopo la Breve storia della grande industria di R. Romeo 10 che si limita per gli anni 1945-1950 ad una semplice esposizione di dati molto aggregati con scarsa attenzione a periodizzazioni interne. Va osservato an­che che Romeo riprende un argomento largamente usato dalla letteratura di parte « einaudiana » e cioè la stretta dipendenza tra l’accumulazione accelerata di scorte valutarie nel 1948-49 (che caratterizza, nel contesto europeo, la politica moneta­ria italiana) e la liberalizzazione degli scambi operata nel 1950-51. Anzi, Romeo vede in questo raffermarsi — di contro alla tradizionale battaglia tra liberisti e sostenitori dell’industria protetta — dei « più responsabili fautori di un graduale ritorno a una maggiore libertà degli scambi in relazione a una politica di generale sviluppo del paese ».

Baffi si sofferma a lungo su questo argomento: il rafforzamento della lira, prima di intraprendere un programma di espansione, avrebbe evitato all’Italia una cri­si di bilancia dei pagamenti, come subirono invece altri paesi nel processo di libe­

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9 Cfr. il Country Study dell’ECA sull’Italia, Milano, 1949, di cui alcuni capitoli sono stati riprodotti da Lucio V illari, Il capitalismo italiano del novecento, Bari, 1972. V. anche i brani da A.O. H irschman (Inflation and Deflation in Italy in « American Economic Review », 1948) e B. Foa’ (Monetry Reconstruction in Italy, New York, 1949) pubblicati da A. G ra- ziani nell’antologia cit.10 Rosario Romeo, Breve storia della grande industria in Italia. 1861-1961, Bologna, 1972,

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razione del commercio e dei pagamenti esteri. De Cecco, a sua volta, ha replicato con esempi della scuola economica opposta (il caso del Giappone) dimostrando come tassi elevati di reddito furono ottenuti con un diverso rapporto riserve-com­mercio estero e riserve-reddito nazionale e aggiungendo in sede di conclusioni: « L ’analisi economica recente sembra [...] concordare nel considerare piena occu­pazione e massimo sviluppo del reddito nazionale gli unici obiettivi della politica economica, e il livello delle riserve e il bilancio dello stato strumenti di essa, in quanto ne assicurano il mantenimento nel tempo » 11.

Quello che rimane nell’ombra di questo contrasto tra due scuole economiche (e politiche) opposte è l’analisi del rapporto — storico, non teorico — tra politica economica e mondo della produzione: il fatto, ad esempio che la liberalizzazione degli scambi fu accompagnata dalla entrata in vigore della tariffa doganale del 15 luglio 1950 che introdusse una protezione media del 24 per cento ad valorem-, alcuni dazi, nonostante la riduzione imposta dai successivi negoziati del GATT, rimanevano ancora nel 1953 tra i più alti di quelli in vigore nei paesi dell’OECE. Sarebbe interessante riesaminare la politica di liberalizzazione degli scambi alla luce dei compensi pagati (attraverso opportuni dazi protettivi) a determinate in­dustrie nazionali.

Nelle vicende della storiografia economica del secondo dopoguerra, la fine del miracolo economico e la formazione del centrosinistra segnano una ripresa di in­teresse per gli anni della rinascita economica e del tripartito. I nodi della rico­struzione riacquistano il loro carattere di scelte tra alternative diverse: se ne va­lutano i costi sociali, ma anche i limiti che comportarono per la produttività del­l’intero sistema. Tanto gli interpreti « ottimisti » quanto quelli « pessimisti » della crisi iniziata negli anni ’60 sono concordi nel rintracciare in quelle scelte l’origine dei successivi sviluppi: per gli uni, che vedono nella crisi solo un proble­ma di domanda, si tratterebbe di ripercorrere determinati orientamenti di politica monetaria, per gli altri invece si sarebbe giunti al punto di dover rivedere alcune scelte economiche di fondo che hanno portato a quell’abnorme sviluppo di setto­ri improduttivi (nell’agricoltura, nel terziario, nella pubblica amministrazione) nel quale si vede il principale responsabile degli elevati costi di produzione dei settori industriali trainanti.

L ’intento positivamente polemico è alla base del bel saggio di De Cecco, Sulla politica di stabilizzazione del 1 9 4 7 , che individua pur nell’ambito di una gestione capitalistica le alternative che avrebbero risparmiato all’economia conseguenze tuttora pesanti. Nella stessa linea il saggio di Graziani sulla politica monetaria 12.

L ’intento polemico diviene critica organica dell’intero processo di sviluppo del dopoguerra nell’antologia — citata — curata dallo stesso Graziani, che rimane finora l ’opera più completa sull’argomento. Più breve, ma con utili spunti inter­

11 Cfr. P. Baffi, L ’evoluzione monetaria in Italia, cit., pp. 26 e 27; Marcello D e Cecco, Sulla politica di stabilizzazione del 1947 in Saggi di politica monetaria, Milano, 1968, p. 140.12 Augusto G raziani, Problemi di politica monetaria in Italia nel voi. curato da V. Bal- loni, Lezioni sulla politica economica in Italia, Milano, 1972.

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pretativi, soprattutto sulla politica delle sinistre, il saggio di Silva e Targetti Diversa l’impostazione dell’antologia curata da G. Amato, Il governo dell’indu­stria, che viene a colmare, pur con una impostazione prevalentemente giuridica, le lacune, già rilevate, degli studi sulla storia dei rapporti tra politica governativa e imprese pubbliche e private. Partendo da un’analisi dei dati istituzionali, Amato analizza l ’evolversi dell’intreccio stato-industria in Italia e costruisce un coerente modello interpretativo in cui trova la sua collocazione quella realtà così eminen­temente confusa pur nella sua continuità.

Se l ’ottica del presente accentua utilmente, in questa letteratura recente, il signi­ficato politico delle scelte del passato, il rischio è quello di tralasciare i nessi tra realtà sociale e lotta politica, di appiattire nel tempo la gravità della « frattura tra l ’ampia partecipazione popolare allo sforzo di sollevamento civile del paese e il successivo prevalere » — come scrive Caffè con una valutazione forse discu­tibile — « di una politica prevalentemente per i “ ceti medi” » u. L ’altro limite — peraltro in gran parte dovuto alla insufficienza degli studi disponibili sull’econo­mia fascista — è la scarsa attenzione che in quest’ottica ricevono, da una parte, l ’eredità del fascismo e le innovazioni della ricostruzione nella struttura del cre­dito, del parastato 13 * 15 e della produzione, dall’altra, la gravità della crisi sociale apertasi con gli scioperi del 1943. La ricerca delle ragioni storiche della crisi del­l ’economia italiana tende invece al momento a tradursi in una rigida accettazione del 25 aprile come termine a quo e in una visione, anche critica, della ricostru­zione che accetta in sostanza la tesi della « novità » della classe politica che ge­stisce il potere economico, ne accentua la sistematicità teorica e ne omette i le­gami con le forze economiche del passato e del presente.

La domanda che, di fronte alla frattura ricordata da Caffè, si pone spontanea — nel tentativo di superare una visione manichea di un capitalismo sempre « razio­nale » e coerente al suo interno (visione che ha avuto una sua utilità polemica)16 — è come si sia potuto cementare il blocco dominante, come cioè la enorme ca­rica combattiva delle masse si sia potuta risolvere nella subordinazione di fatto e senza scontro aperto ad un disegno capitalistico legato al mantenimento di bassi costi del lavoro e al pieno utilizzo di strumenti ereditati dal fascismo e che nel

13 F. Silva e F. T argetti, Politica economica e sviluppo economico in Italia: 1945-1971, in Monthly Review, 1972.“ F ederico Caffe ’, Un riesame dell'opera svolta dalla Commissione economica della Co­stituente in Teorie e problemi di politica sociale, Bari, 1970, p. 169.15 Con l ’eccezione del saggio di De Cecco, Note sugli sviluppi della struttura finanziaria nel dopoguerra nel voi. cit., Saggi di politica monetaria. V. anche Franco Bonelli, Protago­nisti dell’intervento pubblico: Alberto Beneduce in Economia pubblica, 1974, n. 3.16 Si veda ad es. in Di Toro e Illuminati (Prima e dopo il centro-sinistra, Roma, 1970) la collocazione della ripresa capitalistica italiana nel nuovo ciclo economico dell’imperialismo iniziato negli USA con la guerra mondiale. La definizione del nuovo schema istituzionale (Bretton Woods, Fondo Monetario Internazionale, GATT, ecc.) che sancisce l ’unità impe­rialistica, pone in una luce diversa la collaborazione offerta dal movimento operaio italiano alla riattivazione della produzione e ne sottolinea la gravità della scelta in un momento de­licato (il periodo aprile 1944 - dicembre 1945) che consente la riorganizzazione borghese. Il limite di questa interpretazione sta in uno schematismo eccessivo che tende ad esagerare la « razionalità del capitale » in qualsiasi momento e luogo, finendo per ignorare la varietà delle alternative interne al sistema.

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lungo periodo si è rivelato anche sostanzialmente inefficiente sul piano della pro­duttività e degli investimenti.

È chiaro che la risposta si deve trovare nel confronto sulle scelte qualificanti della ricostruzione tra le forze economiche e sociali in gioco. Nell’organizzazione del consenso, tuttavia, non andrà sottovalutato il peso che alcuni filoni ideologici con­gelati dal ventennio fascista ebbero nel frenare la lotta di classe su alcune idee- forza (il mito del progresso, della tecnica, della democrazia) legate ad un evolu­zionismo di stampo ottocentesco17. Lungimirante anche il giudizio di Silone ri­cordato da Caffè nel passo citato: « Il tempo è un fattore essenziale di ogni crisi politica, perché le energie rivoluzionarie non si possono mettere in conserva co­me le prugne, col pensiero di servirsene più tardi, quando saranno stagionate ». Il recente saggio di Foa sulla Rivista di storia contemporanea pone l ’accento sui condizionamenti decisivi che la Resistenza incontrò nella seconda metà del ’44, sia con i trattati alleati, sia con la partecipazione comunista al secondo governo Bonomi. Ciò non toglie — come osserva lo stesso Foa — che le masse operaie (oltre a non avere di questi condizionamenti la stessa consapevolezza dei diri­genti) non fossero disposte a subirli senza contropartite; mentre, d ’altra parte, il radicalizzarsi delle lotte nelle campagne poteva far sperare in un sostegno di mas­sa ad un programma di rivendicazioni organiche.

È, comunque, di fronte ad un intero corpo sociale in attesa di profondi mutamen­ti — nell’assetto istituzionale se non nei rapporti di produzione — che si avviano già nei primi due anni di collaborazione governativa orientamenti economici de­cisivi per l ’uno e per l’altro campo.

Dalla letteratura economica recente emergono come nodi qualificanti la ricostru­zione — e destinati a tradursi negli anni ’60 in altrettanti freni all’espansione del­la domanda — i punti seguenti:

1. Il ruolo trainante ed esclusivo affidato ai settori industriali esportatori, fin dai piani di primo aiuto.2. La differenziazione dei settori produttivi e il dualismo territoriale (problemi dell’agricoltura e del Mezzogiorno).3. La subordinazione alle scelte precedenti del problema dell’occupazione e la conseguente ripartizione del mercato del lavoro in sfere incomunicanti.4. Il ruolo tradizionale dello stato, tanto sul piano economico — nel farsi diret­to sostenitore del disegno industriale, secondo un modello di interdipendenza classico nella storia italiana, come risulta dall’analisi di Amato — quanto sul pia­no politico, nel mediare le spinte sociali alternative in un quadro istituzionale di democrazia elettiva.

L’insieme di queste scelte ha concorso — con i fattori politici esaminati in altra parte della presente rassegna — ad un indebolimento e frantumazione della lotta di classe e ad un rafforzamento della stabilità politica in funzione di un più in­

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17 Si veda su questo V ittorio Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4, p. 443.

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tenso sfruttamento del lavoro, primo motore del miracolo all’italiana: un miraco­lo basato sul solido intreccio politico ed economico degli oligopoli industriali con la rendita dei settori privilegiati e « improduttivi ».

Le scelte del mondo imprenditoriale — ed è questo l ’assunto delle pagine seguen­ti — appaiono fortemente caratterizzate e orientate già prima che la crisi del 1947 sancisca la saldatura tra grande capitale e Democrazia cristiana mediante il pas­saggio, con l ’aiuto americano, da una politica di inflazione ad una stretta deflattiva. Non si vuole qui cadere in schematismi che denunciano una continuità con il pre- ’47 inesistente sul piano politico-istituzionale, ma richiamare quanto è già stato osservato 18 e cioè la mancanza, già negli anni della collaborazione governativa, di una vera alternativa al disegno capitalistico vincente e di un vero confronto su scelte decisive di cui fu sottovalutata la portata nel lungo periodo.

Come scrive Amato, la stretta monetaria del ’47 « fu la risultante necessaria del­l ’intervento pubblico meramente adesivo che caratterizzò il periodo ». L ’aver scelto la deflazione — anziché la sola svalutazione come sarebbe stato più logico da un punto di vista strettamente economico 19 — era coerente con il disegno di ricostruzione capitalistica, prima schematizzato, che si era andato affermando sen­za sostanziali contrasti nel corso della ricostruzione « eroica ». L ’assunzione di Einaudi alla vicepresidenza del Consiglio, seguita alla fine del tripartito, sancì con la forza del ricomposto quadro politico e istituzionale la coincidenza di obiet­tivi tra stato e industria che aveva fino allora vissuto sulla universalmente accet­tata ideologia del progresso. Nello stesso tempo il piano di deflazione, oltre a fre­nare il proliferare di imprese improduttive conseguenza dell’inflazione, consenti­va di ristrutturare il sistema industriale con una « frustata » che ne stimolò l ’« ef­ficienza » eliminando « le imprese non competitive, “ sfrondando’’gli organici di quelle che sopravvissero dei lavoratori superflui, inducendo ad utilizzare tecniche più moderne e con maggiore intensità di capitale ». La « frustata », dunque, cadde essenzialmente sulle spalle dei lavoratori, perché l’occupazione industriale andò calando dal ’48 fin quasi alla metà degli armi ’50 19bis. La deflazione confermava così, con la forza strategica che le derivava dagli aiuti americani, scelte e orienta­menti che dal punto di vista dei costi sociali, non differivano sostanzialmente da quelli maturati negli uffici della Confindustria. Anzi, sul piano delle scelte effet­tivamente compiuto sorprende la coerenza e la relativa facilità con cui la linea della Confindustria uscì vincente al termine dei due anni decisivi20. Si direbbe che il ceto industriale sia stato la forza più consapevole nell’orientare, se non la produzione, l’assetto istituzionale in cui avviare la ricostruzione.

” Cfr. Massimo Legnani, Contributi e tenti di ricerca sul 1945-48 in Italia in Rivista di storia contemporanea, 1974, n. 1, pp. 15-25.19 De Cecco (nel saggio cit.) spiega la scelta einaudiana con la volontà politica di catturare i ceti medi e i contadini legati ad un’agricoltura di sussistenza, Amato, invece (nell’antologia cit.), con i pericoli di allargamento del mercato interno connessi alla svalutazione. La seconda spiegazione appare più coerente con il disegno economico generale, mentre la vantata difesa dei « peculi » contadini non troverebbe conferma nelle vicende elettorali successive che videro l’avanzata elettorale della DC concentrata soprattutto nei centri urbani.19 bis Michele Salvati, L ’origine della crisi in corso, in Quaderni piacentini, marzo 1972, p. 6. '° Per un primo approccio sulla linea della Confindustria, cfr. Lucio D e Carlini, La Con­findustria, in La politica del padronato, Bari, De Donato, 1972.

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La Confindustria si contraddistingue fin dall’inizio per la sua compattezza orga­nizzativa e per la coerente difesa dei suoi interessi di classe tout court. Il 10 di­cembre 1945, convoca la prima assemblea generale con i rappresentanti di tutta Italia. Il 1° gennaio 1946 sono già organizzate nella Confindustria circa 70.000 ditte con due milioni di dipendenti. Nel ’47 le ditte associate sono 76.251 con 2.666.566 dipendenti. I dati mostrano anche l’importanza che le ditte minori ri­vestono nella struttura confederale. Il 95,3% nel 1946 e il 94,9% nel ’47 delle ditte associate hanno meno di 100 dipendenti. Un raffronto tra la consistenza organizzativa della Confederazione del 1947 (volontaria) con quella del ’40 (ob­bligatoria) mostra che « lo sviluppo delle forze associative risulta più elevato nel settore delle grandi aziende che in quello delle piccole e in questo più elevato che fra le medie aziende » (con oltre 100 o meno di 250 dipendenti).

Quanto alle singole categorie, il confronto è più che soddisfacente per le industrie tessili (il 97,0% delle ditte e l ’80,5% dei dipendenti), metalmeccaniche (94,3% delle ditte e 79,3% dei dipendenti) e chimiche (rispettivamente 94,3 e 73,7% ), cioè i tre settori qualificanti dell’industria privata. Valori molto minori per le altre categorie2’ .

Nonostante la compresenza di settori industriali che nel lungo periodo si rive­leranno portatori di indirizzi contrastanti, nel breve periodo della ricostruzione la Confindustria oppone un fronte compatto ad ogni battaglia innovatrice e que­sta battaglia si incentra su alcuni cardini, come la traduzione del liberalismo teo­rico nel suo corrispondente reale, e cioè non solo il rifiuto dell’intervento statale negli orientamenti produttivi dell’industria privata a, ma la lotta contro una ge­stione degli investimenti pubblici che sul piano finanziario entrasse in rivalità con il settore privato23. Più in generale il rifiuto di una pianificazione degli inve­stimenti pubblici che fosse in contraddizione con un disegno esplicito e coeren­te di subordinazione dell’espansione del mercato interno alle esigenze delle indu­strie esportatrici.

Il sistema dei rapporti stato-industria è stato del resto analizzato molto attenta­mente da Amato: quello che risulta evidente dalle relazioni confindustriali è che 21 22 23

21 Confindustria, Annuario 1947, p. 246 e Annuario 1948, p. 467.22 È sufficiente d’altra parte scorrere l’indice degli Annuari confindustriali per rendersi con­to degli interventi operati dalla Confindustria presso l’amministrazione statale, sempre sotto la veste di un indirizzo volto a ristabilire la libera iniziativa privata, e sostenuto, a quanto pare, dalla burocrazia statale.23 All’assemblea generale dei delegati del 3 die. ’46, Costa disse nel suo discorso: « noi non domandiamo che lo Stato finanzi l’industria, anzi desideriamo che non la finanzi; noi de­sideriamo che lo Stato non monopolizzi la raccolta del risparmio, e soprattutto che non ostacoli il diretto afflusso del risparmio verso gli investimenti industriali [...] Con la nominatività dei titoli e la limitazione dei dividendi il capitale non può più rivolgersi agli investimen­ti industriali, per i quali praticamente è stata mantenuta soltanto l ’alea negativa ». E candi­damente aggiungeva « il mancato afflusso del capitale all’industria rappresenta la causa prin­cipale dei bassi salari reali attualmente esistenti in Italia » (Annuario 1947, pp. 215-16). Per meglio comprendere i lamenti degli industriali occorre ricordare che nella primavera del ’46 erano già stati abbattuti « con vero gusto » dal min. Corbino in pratica tutti gli ostacoli agli investimenti in titoli posti dalla legislazione di guerra con la sola eccezione della nominatività dei titoli. La nuova disciplina provocò un’ondata di euforia in borsa tra aprile e agosto del ’46, frenata poi per qualche tempo da alcune misure restrittive prima del nuovo e decisivo balzo in avanti dell’aprile maggio 1947 (cfr. P. Baffi, L ’evoluzione monetaria in Italia, cit. p. 254).

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gli obiettivi di politica economica che Amato vede prevalere nel governo (forse con qualche forzatura) già dai primi piani di importazione (il raggiungimento del­la competitività dell’industria sul mercato internazionale e il pareggio della bilan­cia commerciale) e che saranno sanciti dalla creazione dei fondi IMI-ERP e FIM, non sono altro che l’assunzione da parte governativa di quanto gli industriali an­davano chiedendo già dal ’45 2\

È vero che per i primi anni — salvo eccezioni — per settori esportatori si in­tendevano prevalentemente i tessili (che raggiunsero nel ’46 per alcuni articoli un volume di esportazione pari a quello prebellico) e non si pensava ai settori capitalistici moderni24 25, ma questo dal punto di vista della definizione del quadro istituzionale non cambia nulla. Non a caso, dopo un avvio molto lento della pro­duzione, sono dapprima i tessili (usciti indenni dalla guerra e con limitati bisogni di carburante) che impongono nel marzo del ’46 la liberalizzazione del 50 per cento della valuta ottenuta con l’esportazione 26 27 ; poco dopo saranno i meccanici ad ottenere il FIM e a trasformarlo rapidamente in « ospedale di salvataggio » (l’espressione è di Amato). L ’impegno della Confindustria nell’impedire un di­verso utilizzo delle materie prime e dei capitali andrebbe inoltre misurato sui numerosi interventi presso l’amministrazione statale a livello centrale e sulla pressione fin dal ’45 a livello settoriale e locale.

È ormai appurato, comunque, che sul piano della politica finanziaria la linea della Confindustria fu totalmente vincente, seppure tra incertezze e contraddizio­ni ” , nelle diverse fasi della ricostruzione. Sono queste le vicende che appaiono più chiare per gli studi di Baffi, De Cecco e Graziani. L ’industria ricostruì gli impianti con diverse fonti di finanziamento, ma senza rilevanti sacrifici per il li­vello dei profitti, utilizzando:

1) anzitutto gli aiuti americani: dopo la fase di primo aiuto in alimentari e me­dicinali, gli aiuti acquistarono una maggiore organicità con l’ammissione dell’Ita­lia (13 agosto ’45) al programma UNRRA. Il Consiglio di Atlantic City aveva stabilito che i rifornimenti industriali avrebbero dovuto consistere prevalente­

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24 È infatti la tesi di Amato che nella ricostruzione vi sia stata « coincidenza fra le pro­spettive di sviluppo che l’industria era naturalmente in grado di coltivare e il disegno trac­ciato e perseguito dalla classe di Governo ». Non una complicità omissiva da parte dello stato, ma un « calibrato programma nel quale erano previsti fini e mezzi dello sviluppo » (pp. 48-49).25 Anche perché in una prima fase si prevedeva uno sviluppo del commercio estero con i paesi balcanici. Nel discorso citato del 3 die. ’46, Costa osservava: « la posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo — la cui importanza è attualmente aumentata in conseguenza della deficiente disponibilità di mezzi di trasporto, che avrà una durata prevedibile di qualche anno — gli spostamenti di mercato dipendenti dalla mutata situazione politica dell’Europa centro orientale, fanno sperare che l’Italia possa essere il Paese di transito per la esportazione oltre Oceano di molta parte dei prodotti di tutto il bacino mediterraneo ». (Annuario 1947, pag. 216).26 Fu questo un metodo che permise agli industriali tessili « di aumentare ancor più la rendita di posizione che essi possedevano sul mercato internazionale » (per l’assenza di con­correnti validi) e di speculare sul mercato interno dominando allo stesso tempo il mercato delle importazioni. Cfr. D e Cecco, La stabilizzazione del 1947, cit., p. 125.27 Cfr. in particolare i paragrafi 14, 15 e 16 del saggio cit. di Baffi {L ’evoluzione monetaria in Italia) sulla contraddittorietà della linea del Tesoro su tre piani in particolare: la disciplina della borsa valori, il controllo dei prezzi, l’imposta sul capitale.

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mente in materie prime, macchinari e parti di ricambio, atti a facilitare al paese assistito la produzione e il trasporto dei prodotti essenziali, alla sua economia, la ripresa dei lavori pubblici e la riattivazione dei servizi pubblici essenziali, quali luce, acqua, energia elettrica, trasporti. Industrie essenziali si consideravano quelle che provvedevano alla lavorazione di prodotti alimentari, materiali per l ’edilizia, prodotti farmaceutici e industrie tessili. Sul totale degli aiuti ricevuti dall’Italia con i vari programmi dal 1° gennaio 1944 al 31 dicembre 1947, gli alimenti rappresentavano il 42,11 per cento, i combustibili solidi e liquidi il 21,50 per cento e i tessili il 9,63. Furono ancora i tessili che ricevettero il primo prestito rilevante dalla Export Import Bank, 25 milioni di dollari che alimenta­rono l’unica rilevante corrente di esportazione di quegli anni e permisero anche una parziale ricostruzione delle scorte28. Diversi, com’è noto, i presupposti del programma ERP con il quale si tentò di incoraggiare, senza successo, una politica economica più « aggressiva » 29 ;2) altra fonte fu l ’autofinanziamento delle imprese favorito dai continui rinvii e poi dall’abbandono di misure fiscali straordinarie (il cambio della moneta e l’imposta progressiva sul patrimonio) e dalla scarsa incidenza di quelle ordinarie;3) la terza, non per ordine d’importanza, fu l’espansione creditizia del ’46-47.

L ’espansione monetaria conseguente alla politica governativa di pura « adesione al mercato » (Amato) fu la principale causa dell’ondata inflazionista cui si ac­compagnarono gli effetti scontati di redistribuzione del reddito a scapito del la­voro e di accresciuto potere per i gruppi economici a scapito dello stato.

Riveste particolare interesse, a questo proposito, lo studio citato di Marcello De Cecco sulla struttura finanziaria postbellica che analizza il passaggio alla Banca centrale dei poteri di controllo che la riforma del ’36 aveva conferito al governo e il mutamento di equilibri che ne consegue all’interno del sistema bancario. Si assiste infatti ad un ritorno — incoraggiato — alla libera concorrenza e quindi alla riprivatizzazione del sistema finanziario, che ha la sua origine proprio nel tentativo, sopra ricordato, delle banche nell’immediato dopoguerra di abbando­nare i crediti allo stato in favore dei crediti, più remunerativi, all’economia. Le conseguenze di lungo periodo della politica monetaria inaugurata da Einaudi e continuata da Menichella sono di eccezionale rilievo sia per le modificazioni nella struttura del credito (espansione nei piccoli centri delle Casse di risparmio, Monti e Banche popolari cooperative — favorite dalle rendite di posizione con­cesse loro dalle autorità a scapito dei depositi postali — forzata razionalizzazione delle banche di interesse nazionale volutamente indebolite dalla Banca centrale, accentuazione del carattere « misto » del sistema bancario e ritorno alla concor­renza tra le banche maggiori per ottenere i depositi raccolti da quelle piccole) sia per i riflessi sul costo del credito e quindi sull’aggravarsi del dualismo tra piccole e medie imprese, da una parte, e grandi imprese, dall’altra, queste ultime in grado di acquistare banche private o controllare banche di credito ordinario e di accrescere così la loro autonomia nei confronti del governo.

28 Confindustria, Annuario 1948, pp. 648-51 e CIR Lo sviluppo dell’economia italiana, cit., parte IL29 Così si esprimeva il rapporto dell’ECA (Hoffman), cit.

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Il breve saggio di Canale 30 aggiunge una significativa qualificazione politica al­l’analisi della struttura finanziaria compiuta da De Cecco che aveva lasciato nel­l’ombra i rischi di involuzione politica connessi, nel nostro paese, anche ad una struttura finanziaria eminentemente « pubblica » come quella auspicata per l’eco­nomia italiana. Infatti la minore rigidità introdotta dalla legislazione bancaria del dopoguerra, oltre a mutare la funzione dell’intervento statale bloccando la possi­bilità di un controllo qualitativo del credito, ha avuto come effetto quello di po­liticizzare l’intero sistema finanziario. L ’osservazione di De Cecco che le Casse di risparmio sono inevitabilmente dominate da gruppi di pressione economici e politici locali vale a maggior ragione per le grosse aziende di credito le cui cariche, essendo per la gran parte pubbliche, cioè di nomina politica, sono tradizional­mente nelle mani del partito al potere da trent’anni, la Democrazia cristiana.

È lo stesso De Cecco del resto ad avanzare l’ipotesi che il potere politico delle Casse di risparmio non sia stato estraneo alla decisione di potenziarle, data l’im­portanza che il decentramento del potere finanziario riveste per i partiti al go­verno. In questo modo la « riprivatizzazione » del sistema bancario, che si è dimostrata dannosa per la gestione efficiente della economia italiana, trova una sua più che convincente motivazione politica.

L ’altro — e più noto31 * — cardine della politica confindustriale negli anni del do­poguerra fu la battaglia contro qualsiasi forma di partecipazione operaia alla ge­stione (anche in subordine) dell’impresa, il che significò rifiuto dei consigli di gestione (e più in generale di qualsiasi strumento di partecipazione democratica33, difesa a oltranza del diritto di licenziamento, accettazione delle commissioni in­terne purché prive del potere di contrattazione aziendale. L ’accordo dell’agosto ’47 sulle CI (collegato al problema del blocco dei licenziamenti che si voleva ap­punto subordinare al parere della CI) fu visto e presentato dalla Confindustria ai propri associati come una sostanziale vittoria in materia di licenziamenti: esso sanciva infatti il potere deliberativo della direzione aziendale indipendentemente dal parere espresso dalle CI; precisava inoltre che la materia riguardante la re­golamentazione contrattuale esorbitava dalla competenza delle commissioni. Que­st’ultimo punto veniva sottolineato con particolare soddisfazione33 perché con­trariamente alle speranze degli industriali, la contrattazione nazionale non aveva

30 A. Canale, Dimmi come speculi e ti darò quanto vuoi in Giovane critica n. 37, estate 1973.31 La Confindustria curò con estrema attenzione la propria propaganda presentandosi nelruolo di organismo tecnico senza legami con i partiti e il governo: in particolare la linea confindustriale sul blocco dei licenziamenti e i consigli di gestione fu oggetto di apposite pubblicazioni o di opportune divulgazioni in linguaggio « più piano e popolare », dal signi­ficativo titolo Li facciamo questi consigli di gestione? e Lo Stato tiranno.33 Sulle cinque pagine che l’Annuario 1948 dedica alla Costituzione (con prevedibili critiche degli articoli più controversi in materia di iniziativa privata e di diritti del lavoro), più di due sono dedicate alle autonomie regionali sulle quali la pubblicazione esprime un parere ne­gativo « perché pregiudizievoli al miglior funzionamento dell’economia nazionale ».33 La contrattazione nazionale e il mantenimento dei livelli salariali concordati è un punto fermo sul quale Costa insiste anche sul « fronte interno ». Parlando nel ’47 delle trattative sul blocco dei licenziamenti, la direzione confindustriale chiede apertamente « solidarietà » agli associati, lasciando così capire che accordi separati venivano ancora stipulati: « [...] gravi ripercussioni hanno spesso avuto nei confronti della categoria atteggiamenti di debolezza o di eccessiva larghezza nei confronti dei lavoratori, assunti da determinate associazioni o aziende ».

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fino allora impedito che le CI interferissero nelle materie regolate dai contratti collettivi, né che più in generale le stesse organizzazioni dei lavoratori cercassero « di riporre sul tappeto le condizioni concordate appellandosi quasi sempre alla insoddisfazione dei loro organizzati » 34. Nella seconda metà del ’46 si calcolava che su tre milioni di operai occupati nell’industria oltre due milioni fossero stati interessati dalle agitazioni: solo nell’ultimo trimestre, dopo la conclusione della tregua, il numero delle agitazioni e degli scioperanti andò diminuendo 35.

Del resto, pur senza cadere in schematismi, si può osservare che tutte le più grosse conquiste del movimento operaio in questi anni o vennero aspramente com­battute e cancellate o vennero accettate perché inoffensive o funzionali. La scala mobile, ad esempio, fu concessa consapevolmente dagli industriali « nel presuppo­sto che tale meccanismo potesse costituire un mezzo idoneo per assicurare sul terreno delle relazioni sindacali adeguati periodi di tranquillità per le masse e per la produzione senza compromettere le basi dell’equilibrio economico e monetario del paese » 36. Quando il meccanismo concordato risultò, nel corso dell’ondata inflattiva del ’47, troppo « efficiente » e troppo « egualitario » per il sistema sa­lariale, ma soprattutto incapace di frenare la spinta di lotta delle masse, la Confin- dustria si affrettò a rivederlo.

Il tema della rivalutazione (monetaria) del lavoro qualificato è un altro dei punti su cui gli industriali insistono nella loro battaglia antioperaia. L ’obiettivo è quello di una frantumazione categoriale dei salari operai usciti livellati dalla guerra e dall’applicazione della scala mobile37.

Oltre a un disegno antioperaio in fabbrica, matura anche un più ampio progetto riguardante il mercato del lavoro nazionale. Le proposte di allargamento della occupazione attraverso un programma di investimenti pubblici non vennero prese in considerazione se non dopo qualche anno, una volta assicurata la ripresa. Nel breve periodo, dei disoccupati ci si preoccupò solo per motivi di ordine pubblico: operando, da una parte, per creare nuovi sbocchi per un’emigrazione massiccia e dall’altra rinforzando le forze di polizia38. Nel frattempo la strada scelta compor-

E ancora: « occorre che penetri neffe coscienze e negli intelletti il convincimento che il man­tenere determinati trattamenti salariali in questo delicato momento della vita nazionale è una esigenza di ordine assolutamente superiore » (Annuario 1947, p. 366).34 Confindustria, Annuario 1948, pp. 267 e 755.35 Confindustria, Annuario 1947, p. 136.36 Confindustria, Annuario 1948, p. 761.37 Questo era il prospetto comparativo dei salari contrattuali:

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(fatto = 100 il salario del manovale comune)

1938ott.-nov.

1946salari reali (1938-100)

operaio spec. 153 115 74,51operaio qualificato 132 110 82,31manovale spec. 106 105 90,50manovale comune 100 100 97,27donne 53 76operaie senza carico famiglia

Rapportando gli stipendi al salario medio degli operai ( = 100), mentre nel ’38104,75

l’indice dellostipendio medio era 198, nel ’46 lo stesso indice era 115 (Confindustria, Annuario 1947, p. 126).35 Cfr. i dati in D e Cecco, Sulla stabilizzazione del 1947 cit. p. 129.

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tava un aumento della produttività del lavoro (nel ’47 la produttività veniva va­lutata dalla Confindustria inferiore al 25-30 per cento a quella prebellica), ed una sua maggiore qualificazione, ma uno scarso, se non inesistente, assorbimento di nuova mano d’opera. Il problema perciò veniva scaricato sull’intero corpo so­ciale, cioè su un uso « assistenziale » dei lavori pubblici, sull’agricoltura e sul Mezzogiorno, nell’ambito di una visione ruralista dell’economia italiana che non differiva da quella degli anni ’30 se non per il peso minore dei lavori pubblici.

Scartata, per motivi politici, un’ipotesi di riforma agraria, l’agricoltura fu, sul piano finanziario, in una prima fase lasciata a se stessa: fino al settembre ’47 la scarsità di derrate agricole e la redistribuzione del complesso delle spese per i vari consumi (limitati negli altri settori dalla mancanza di beni industriali, dal blocco sugli affitti e i servizi pubblici) favorì elevati redditi agricoli e quindi l’au­tofinanziamento delle aziende; di quelle aziende, naturalmente, che producevano per il mercato. Il processo di ricostruzione negli anni ’45-47 è avviato in queste aziende con notevolissimi investimenti interni o con affluenza di capitali anche da altri settori che vedevano negli investimenti agricoli un rifugio dai pericoli inflazionistici.

Particolarmente rapido il processo di ricostruzione del patrimonio zootecnico, con larghe importazioni dall’Olanda, dalla Svizzera e dall’America39, ma prevalente­mente finanziate dalla disparità dei redditi provocata dagli squilibri dei prezzi. L ’abbandono troppo brusco del vincolismo bellico e la maggiore severità esercitata nei confronti dei prodotti agricoli fondamentali (i cereali), provocò squilibri colturali a vantaggio di produzioni meno essenziali per le quali erano aboliti o erano meno severi i controlli. Dopo l’insuccesso della campagna ’45-46, il prezzo dell’ammasso del grano viene triplicato nel maggio ’46, ma venne mantenuto fermo il prezzo di vendita. Dopo essersi battuto per l’abolizione dei controlli, Einaudi inizia la sua più tenace battaglia contro il prezzo politico del grano — denunciato come il principale responsabile dell’inflazione — rifiutando di pren­dere in considerazione gli effetti moltiplicativi che il sicuro aumento del prezzo del pane sul mercato libero avrebbe avuto sui salari monetari.

Baffi ha affermato 40 che l ’incertezza della politica seguita nella definizione dei prezzi e l’aumento del prezzo del ’4 6 / ’47 a circa 17 volte quello del ’3 8 /’39 in­fluenzò profondamente gli operatori economici perché « esso palesò che il governo abbandonava ogni idea di ricondurre il livello generale dei prezzi verso quella quota di 78 volte l’anteguerra a cui, fino al maggio 1946, erano stati mantenuti i prezzi ufficiali dei prodotti di prima necessità e le tariffe dei servizi pubblici ».

Albertario41 a sua volta ha rilevato che fu un errore dello stesso pensiero liberista ritenere che fossero già ritornate le condizioni per restituire il mercato alla libertà di contrattazione e che gli orientamenti antivincolistici prevalenti già prima della unificazione del paese, si basarono sulla convinzione di una automatica quanto impossibile discesa dei prezzi reali. 35 * *

35 CTR Lo sviluppo dell’economia italiana, cit., p. 179.40 P. Baffi, L ’evoluzione monetaria, cit., p. 255.

Paolo Albertario, La situazione economica dell’agricoltura, Roma, 1947, p. 238.

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Le misure del settembre ’47 (e il contemporaneo miglioramento delle produzioni agricole interne e internazionali) fecero crollare i prezzi agricoli bloccando il pro­cesso di autofinanziamento (e quindi un probabile processo di ristrutturazione agricola). Se nella prima fase gli aiuti finanziari all’agricoltura furono irrisori e prevalentemente volti ad alleviare la disoccupazione con lavori di bonifica (21 miliardi di lire sul bilancio, 14 milioni di dollari sui 589 dei contributi UNRRA e 5 miliardi sul Fondo-lire)42, anche nella seconda non si andò molto al di là della formulazione di piani. Il freno imposto dalla deflazione einaudiana al processo capitalistico nelle campagne fu accolto con particolare favore dai settori indu­striali perché rinsaldava le alleanze con la rendita fondiaria e contributiva a sta­bilizzare il mercato del lavoro.

L ’Annuario della Confindustria del ’48, valutando il graduale assestamento del mercato mondiale di cereali, calcolava che entro due o tre anni l ’Italia non avrebbe più avuto bisogno di razionamento e avrebbe potuto dedicarsi a colture più adatte. E aggiungeva: « Tale trasformazione deve però essere lenta e graduale, per non creare nuovi e più gravi problemi ». Una eventuale diminuzione dei cereali a vantaggio delle foraggere potrebbe realizzare un assetto produttivo più economi­co, perché il grano verrebbe coltivato su terreni più adatti, ma « contemporanea­mente, in quanto le colture foraggere e l’industria zootecnica richiedono meno mano d’opera, si verrebbe, data l’alta intensità della nostra popolazione rurale, ad immettere sul mercato del lavoro un’offerta di mano d’opera che, in assenza di un corrispondente sviluppo dell’industria, aggraverebbe il nostro già difficile problema della disoccupazione ». Al momento inoltre una contrazione delle col­tivazioni cerealicole creerebbe dei problemi valutari e di investimento di capitali. « Si manifesta pertanto la necessità di una politica agraria che sappia contempe­rare le esigenze attuali del paese con la necessità a più larga scadenza della nostra agricoltura o della nostra economia e che pertanto sia armonicamente collegata con la politica industriale, monetaria e creditizia ».

Giustamente quindi Foa osserva che quello che fu conquistato nelle campagne si deve al fatto che « i lavoratori non si limitavano a chiedere e manifestare, ma sviluppavano azioni che modificavano la realtà nell’atto di chiedere la modifi­cazione ». Altrove però aggiunge — e il passo citato di Costa sembrerebbe con­fermarlo — che una soluzione democratica della lotta mezzadrile del ’45 e di quella bracciantile del ’47 si ebbe perché gli agrari vennero abbandonati dalla Confindustria decisa a imporre il primato delle esigenze industriali.

Quanto al Mezzogiorno e all’ennesima occasione mancata per la soluzione del problema si vedrà in altra parte della relazione. Anche qui è interessante ripren­dere il giudizio di Foa sull’opera di Saraceno, uno degli esperti più consapevoli del problema e principale autore dei piani di primo aiuto: « La soluzione racco­mandata — scrive Foa — e poi adottata fu la rianimazione mediante la spesa pubblica della domanda meridionale di prodotti industriali del Nord: la crescente coscienza del problema meridionale e dell’inaccettabilità del divario dei consumi fra Sud e Nord forniva così la giustificazione per la creazione di un mercato più

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42 Lo sviluppo dell’economia, cit., p. 179.

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ampio all’industria del Nord » 43. Va rilevato tuttavia che il disegno dei « pianifi­catori » era strettamente collegato ad una rapida ed efficiente assunzione da parte dello stato (e quindi dei partiti di governo) di tutti gli obiettivi del piano. Così, ad es., al momento dell’unificazione la riattivazione delle principali industrie del nord e dei trasporti doveva essere accompagnata dalla tempestiva emissione di un prestito e del mantenimento o miglioramento delle provvidenze alimentari (mense e spacci) per contenere i costi di produzione. Solo così, si sperava, il nord poteva diventare un « fattore di riequilibrio, uno dei cardini su cui imperniare gli sforzi antinflazionistici ». Il programma44, che nelle intenzioni dei suoi ideatori intendeva « quasi agganciare l’Italia liberata al Nord anziché il Nord all’Italia liberata », richiedeva « rapida risoluzione e impostazione dei provvedimenti ne­cessari »: il che voleva anche dire un sostegno coerente delle forze economiche e sociali.

Nella realtà gli industriali appoggiarono la parte del disegno che loro conveniva, e cioè la riattivazione dei trasporti e dell’industria del nord, meno danneggiata di quella meridionale (l’apparato produttivo che aveva subito danni valutati in media l’8 per cento secondo i calcoli della Banca d’Italia45 e il 20 per cento se1- condo i calcoli della Confindustria46, era già ritornato alla fine del ’46 sui livelli del ’39). Sull’insieme del programma invece, nessuna forza politica si impegnò a fondo decretandone così l’insuccesso, sancito definitivamente dall’approvazione del piano ERP che ne distrusse il presupposto di una ricostruzione basata solo sulle forze interne 47.

Se il disegno industriale qui riassunto appare così strettamente ancorato ad una solida base di classe, il modello economico della sinistra (legato ad una compre­senza tra settore privato, impresa pubblica e spesa pubblica) risalta non solo per la sua quasi impossibilità di realizzazione pratica 48 (fatto che in parte spiega le continue modificazioni della linea di attacco), non solo per i limiti culturali rile­vati da Foa (l’influenza della scuola liberista), ma soprattutto per i limiti politici e teorici che vi stanno all’origine e sui quali ci si è soffermati nei paragrafi pre­cedenti.

Il tentativo di distinguere tra le forze capitalistiche sane e quelle malate, inten­dendo con le prime Valletta, appare ancora più irrealistico quando risulta chiara la compattezza dell’avversario di classe. La rinuncia a porsi obiettivi socialisti, anche nel lungo periodo, comportò la rinuncia a dare battaglia su obiettivi di de­mocrazia dal basso puntando tutte le carte sulla lotta a livello elettorale o go­vernativo. La vera sconfitta — così conclude Foa il suo saggio — fu essenzial­

43 V. F oa, La ricostruzione capitalistica cit.; le citazioni, nell’ordine, a pp. 441, 454 e 442.44 Ministero dell’Italia occupata, Programma di primo intervento nel Nord nato da un incontro tra Vanoni, Saraceno, Cianci, Saibante, in ISRT Fondo Medici-Tornaquinci, Filza n. 416; ins. Uff. Econom.43 Cit. in D e Cecco, Sulla stabilizzazione del 1947, cit., p. 112.4° Annuario 1947, p. 36, ripreso anche dalla pubblicazione cit. del CIR, Lo sviluppo del­l’economia italiana.47 Massimo Legnani, Contributi e temi di ricerca sul 1945-48, cit.4! Cfr. Silva-Targetti, Politica economica e sviluppo economico in Italia, cit.

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mente sul problema della democrazia, l ’aver dissociato lotta democratica e lotta socialista nella convinzione di « una pacifica avanzata democratica in un quadro di rafforzamento del capitalismo ». Pur tenendo presente che il problema pratico e teorico della democrazia socialista ha acquistato una diversa urgenza negli ul­timi anni, e che la rinuncia a quelle posizioni non significò allora una rinuncia alla combattività, il chiarire quali furono gli obiettivi e i risultati della lotta della si­nistra ha un suo valore nel momento in cui quegli anni si ripropongono come mo­dello di nuove alleanze.

La « meditata piattaforma alternativa » che Cafagna49 attribuisce a Togliatti (lo obiettivo vincente del consolidamento del partito in una società capitalista) può essere un utile strumento interpretativo dopo il ’48, ma sicuramente non ha alcuna base negli anni in cui le sinistre dimostrarono la più completa impreparazione alla cacciata dal governo. Rimangono invece da chiarire tutti i problemi sollevati da Cafagna con le sue Note: il problema della doppia linea anzitutto, il cosiddetto « concretismo » del vertice accettato dalle masse in visita di un pegno futuro. Si vorrebbe capire, cioè, se il radicamento del partito nel paese (nell’ipotesi che que­sto fosse il vero obiettivo di Togliatti) doveva proprio passare attraverso la scon­fitta della linea economica immediata ideata dal suo vertice, mentre l’adesione delle masse veniva fondata su una continuità di tradizioni di lotte che con quella linea aveva ben poco a che fare.

Il sindacato

Un esame, per quanto sommario, dello stato della questione riguardante il sinda­cato per il periodo 1944-48 porta ad una prima considerazione di carattere gene­rale: e cioè la maggiore disponibilità dimostrata dal movimento sindacale rispetto ai partiti a ripensare in termini critici l’esperienza degli anni 1944-48, esperienza che coincide con la costituzione della CGIL unitaria fino alla scissione È suffi­ciente prendere in esame le riviste del sindacato, per cogliere questa disponibilità in numerosi scritti di militanti e di studiosi del movimento sindacale2.

Questo atteggiamento è dovuto al salto qualitativo compiuto dalle organizzazioni sindacali nella loro collocazione politica nel paese a partire dagli anni ’60, nei rapporti nuovi che si sono stabiliti tra le varie correnti sindacali avviate ad un processo di unità che per quanto diffìcile non pare reversibile, e soprattutto nel nuovo rapporto che i sindacati hanno cercato di stabilire con i movimenti di massa. Molte preclusioni di carattere ideologico sono cadute sotto la spinta dei nuovi livelli sui quali si è attestato lo scontro di classe nel nostro paese. Il mo­vimento sindacale si è adeguato a questa realtà corrispondendo positivamente

49 Luciano Cafagna, Note in margine alla « Ricostruzione », in Giovane Critica, cit.1 Per i documenti relativi alle scadenze congressuali della C G IL unitaria, cfr. I congressi della CGIL, voli. I-II, Roma, 1970.2 Cfr. in particolare i numeri monografici di « Quaderni di Rassegna sindacale », la rivista della C G IL dedicati a L ’unità sindacale, n. 29, mar.-aprile 1961; Sindacato e partiti, nn. 33-34, nov. 1971 - febbr. 1972; I congressi della CGIL, n. 41, marzo-aprile 1973; ma vedi anche gli Annuari del Centro studi CISL e i « Quaderni di azione sociale » delle Adi.

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alla richiesta di unità che è cresciuta dal basso e che ha costretto le diverse com­ponenti a un ripensamento della propria strategia e della propria azione quoti­diana. Il processo si è tradotto in una ricerca, spesso difficile, di una nuova iden­tità del movimento sindacale, e quindi di un riesame del proprio recente passato per rapportare gli elementi di differenziazione o di continuità, presenti in un’espe­rienza contraddistinta dal segno dell’unità e della richiesta politica, alla nuova realtà del sindacato caratterizzata, come quella, da una fortissima richiesta politica, da una forte spinta unitaria ma anche da una precisa esigenza di autonomia. Il movimento sindacale, chiamato prepotentemente a giocare un nuovo e originale ruolo nel rapporto stato-società, non può non fermarsi a riflettere sul proprio passato per capirsi e capire la realtà in cui si trova ad agire.Questa esigenza si è tradotta in tempi recentissimi (e nuovi risultati saranno presto disponibili) in una serie di lavori che se non possiedono ancora i caratteri di una soddisfacente sistemazione critica e storica dell’esperienza unitaria, testi­moniano però del rapido crescere di una « cultura sindacale » che ha operato un netto salto qualitativo rispetto ai risultati disponibili fino a qualche tempo fa. Per capire i termini della crescita e dell’approfondimento compiuto possiamo as­sumere come punto di riferimento la rassegna di studi condotta alcuni anni fa da un gruppo di ricercatori torinesi3 4, nella quale i limiti della produzione storio­grafica e della memorialistica venivano riassunti (e ci pare correttamente) nell’os­servazione che « la storia del quinquennio successivo alla liberazione [venne vi­sto] come storia della rottura dell’unità sindacale ». Da un lato appare ovvio che il tema dell’unità, caratterizzando in modo specifico l’esperienza del dopoguerra rispetto a tutta la precedente storia del sindacato, fosse al centro dell’attenzione e che il tema della scissione dominasse l ’interesse di chi scriveva sul sindacato così come dominò l’opinione pubblica e la polemica politica. Dall’altro lato appare evidente, però, che la scissione diventa per la gran parte degli autori il momento di verifica della bontà di tesi precostituite, frutto più di una carica polemica spinta a portare avanti il gioco delle responsabilità che di uno sforzo di riflessione sui modi, tempi e significato della costruzione unitaria, la quale finisce per assumere nella quasi totalità delle interpretazioni il segno di una forzatura operata dai partiti. Così per il Gradilone * la scissione del ’48 è il giusto correttivo al peccato di origine dell’unità sindacale; per altri autori5 è uno strumento pericoloso nelle mani dei comunisti, ai cui fini essa viene piegata; di qui la necessità storica della scissione come momento della difesa della democrazia e della libertà. La tesi del­la strumentalizzazione si ritrova come giustificazione della rottura anche in autori democratici e laici6 ed è ripresa nelle opere di storia generale7, nelle quali, tutta­

3 Cfr. AA. W ., Il movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi 1945-1969, Torino, 1970. Ai fini del nostro lavoro cfr. in particolare le parti curate da Dora Manteco e Aldo Agosti, pp. 83-140.4 Aldo G radilone, Storia del sindacalismo, Italia, vol. I l i , 1-2, Milano, 1959.5 Così A. Toldo, Il sindacalismo in Italia, Milano, 1953; valutazioni più meditate in Francesco Magri, Dal movimento sindacale cristiano al sindacalismo democratico, Milano, 1957 e G iancarlo G alli, J cattolici e il sindacato, Milano, 1969.6 David L. Horowitz, Il movimento sindacale in Italia, Bologna, 1963; I. V iglanesi, Dieci anni di sindacalismo democratico (1950-1959), Roma, 1960; G iorgio G alli, La sinistra ita­liana nel dopoguerra, Bologna, 1958.7 ' Cfr. Norman K ogan, L ’Italia del dopoguerra, Bari, 1972; G iu seppe Mammarella, L'Italia dopo il fascismo, Bologna, 1970.

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via, al sindacato è riservato poco spazio, proprio perché si ritiene che le sue scelte siano largamente ricomprese in quelle dei partiti. Anche in autori della sinistra le tesi della strumentalizzazione trova spazio, sia pure con segno contrario, per ribaltare sulla corrente cattolica e sulla DC la responsabilità della rottura, ma in genere l’operazione si accompagna ad un tentativo di analisi che tende ad inserire le vicende italiane in un contesto più ampio. Significativamente il Candeloro 8, il cui breve saggio resta pur sempre il lavoro con l ’impostazione più solida, sottoli­nea i movimenti del quadro internazionale e lo sviluppo della guerra fredda come cause delle svolte interne politiche e sindacali.

Senza scendere in considerazioni più analitiche, per le quali si rinvia alla citata rassegna, ci pare di dover sottolineare come il criterio di leggere le vicende sin­dacali attraverso il filtro esclusivo dei partiti e dell’influenza che su di esse eser­citarono, non fa compiere alla ricerca grandi passi avanti, ma anzi la fossilizza su un solo aspetto. Che questa impostazione ci fornisca del sindacato un’immagine ridotta e riduttiva è già stato denunciato da chi ad un’unità frutto di scelte verti- cistiche ha contrapposto un’unità frutto anche di una reale spinta dal basso, ri­fiutando una realtà sindacale ridotta all’aspetto istituzionale, a un gioco di sim­boli, ad una parvenza di rapporti il cui significato reale è riconducibile a quelli esistenti tra le forze politiche, per sottolineare invece la necessità di rapportare le scelte dell’organizzazione sindacale al contesto generale delle vicende del paese, da un lato, dall’altro ai movimenti delle forze sociali di cui l’organizzazione sindacale bene o male tende ad essere espressione ’. Si tratta, dunque, della ri­scoperta di un rapporto meno meccanico tra forze politiche e sindacato per un verso, tra sindacato e realtà sociale per un altro verso, scavando al di là della natura e dei limiti di quel patto di Roma che dà vita alla CGIL unitaria per verificare che cosa significhi la ricostruzione del sindacato a livello centrale e periferico, evitando di far discendere le sue scelte da un marchio d’origine defi­nito una volta per tutte e da una filiazione senza contraddizioni dalle decisioni e dagli orientamenti dei maggiori partiti. Il quadro rigido, che ci veniva proposto, si apre, si amplia, si articola e la realtà sindacale viene restituita ad una com­prensione dialettica ricca di problemi e di contraddizioni. Nei più recenti lavori sul sindacato questo sforzo è stato intrapreso con risultati, che pur nella loro parzialità, danno certamente ragione, per la ricchezza dei motivi e la potenzialità, di ulteriori sviluppi oltre che per l’originalità delle acquisizioni, a questa impo­stazione.

Già il lavoro del Turone 10, pur con i limiti che gli derivano da un taglio narrativo che riduce lo spazio dell’approfondimento critico, offre, specialmente nella prima parte dedicata alla nascita dell’esperienza unitaria, una serie di spunti assai utili. L ’aver seguito il formarsi dell’organizzazione sindacale durante la guerra nel sud e nel nord come due momenti distinti di elaborazione gli consente di dare il giu-

' G iorgio Candeloro, II movimento sindacale in Italia, Roma, 1950; vedi anche l’inter­vento di Fernando Santi in I sindacati in Italia, Bari, 1955 e di E milio Lussu in Dieci anni dopo, 1945-1955, Bari, 1955.9 Questo sforzo, già evidente nel citato lavoro del Candeloro, è una costante delle riflessioni e dell’impostazione perseguita da Vittorio Foa nei suoi numerosi scritti dedicati ad un riesame del periodo 1944-1948.10 Sergio T urone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Bari, 1973.

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sto spazio, nell’unità sindacale che si realizza pienamente con la liberazione, sia alle componenti partitiche sia a quelle scaturenti dalla base, di collegare quanto avviene nella clandestinità con il dopoguerra cogliendo il senso della continuità di un processo estremamente diversificato, anche nella sua manifestazione terri­toriale, e soprattutto individuando lo stretto nesso esistente tra azione politica e azione rivendicativa nell’esperienza realizzata nelle fabbriche del nord nei lunghi mesi dell’occupazione tedesca. Questa indicazione si va però man mano spegnen­do con il procedere della ricostruzione; le forze sociali finiscono sullo sfondo e riaffiora un tipo di impostazione più tradizionale che tende a spostare a livello partitico la chiave interpretativa, anche se non mancano ricchezza di particolari sulle vicende del dopoguerra e un non secondario interesse per personaggi e mi­litanti di maggior rilievo del movimento sindacale (Di Vittorio, Grandi, Pasto­re)

Più saldamente organizzato appare sotto questo profilo lo studio del Pillon11 12 che affronta il tema del rapporto Partito comunista-sindacato, tentando di dare una risposta ad un interrogativo di fondo, analizzando le cause per le quali « l ’im­mensa carica rinnovatrice messa in moto dalla guerra armata di liberazione non riesce nemmeno a creare le strutture di un’effettiva “democrazia progressiva” , e si logori anzi così rapidamente da mettere addirittura in pericolo i due obiettivi “minimi” della Resistenza — la Repubblica e la Costituzione ».

La risposta viene cercata dal Pillon non tanto nelle difficoltà oggettive, (così fre­quentemente richiamate nella pubblicistica di sinistra) del dopoguerra, difficoltà che se chiudevano gli spazi a soluzioni rivoluzionarie, altri ne lasciavano aperti ad iniziative di rinnovamento strutturale e istituzionale, quanto nelle sfasature e nelle incongruenze delle scelte strategiche e tattiche delle forze di sinistra, sinda­cato compreso. Uno di questi errori viene individuato nell’assunzione in proprio da parte della sinistra dell’obiettivo della ricostruzione senza la garanzia di un rinnovamento democratico da condurre parallelamente sul terreno della fabbrica e dello stato, con la conseguenza che « una ricostruzione economica che vede la classe operaia ancora una volta in posizione subalterna sarà in effetti una restau­razione capitalistica e pregiudicherà di conseguenza la costruzione di una vera democrazia popolare ». Da questa valutazione politica iniziale discende anche la linea rivendicativa della CGIL unitaria, che se individua correttamente i problemi dei lavoratori, offre delle soluzioni (vedi gli accordi sui licenziamenti, la politica salariale con le « tregue » conseguenti) che non possono non tradursi in « sacri­fici inutili » perché senza contropartite politiche nel momento in cui si rinuncia ad utilizzare quella spinta dal basso che, vittoriosa nella Resistenza, avrebbe po­tuto contrastare nel dopoguerra la ricomposizione di un blocco di forze moderate.

Questa rinuncia, che è mediata dal sindacato ma è propria di tutta la sinistra e in particolare del PCI, viene giustificata dal Pillon (ma la giustificazione non con­vince) prima come una rassegnazione fatalistica al deteriorarsi dell’alleanza di

11 Per gli scritti di Di V ittorio nel periodo 1944-1951 cfr. G iu seppe D i V ittorio, L ’uomo11 dirigente , vol. II, Roma, 1969, antologia a cura di A. Tato; su Grandi cfr. L. Bellotti, Achille G ran di , Roma, 1966.12 Cesare P illon, I com unisti e il sindacato , Milano, 1972.

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governo e poi come una necessità del movimento operaio di adeguarsi in modo difensivo al rapido deteriorarsi dei rapporti sul piano interno ed internazionale. Anche Pillon, come il Candeloro, vede la scissione sindacale come il risultato di un dato generale internazionale, di un gioco esterno, che supera le possibilità di manovra sul piano nazionale. Molta attenzione dedica ancora l ’autore, proprio per il tipo di problemi affrontati, agli organismi di base sul luogo di produzione, in particolare alle commissioni interne, ai commissari di reparto, ai consigli di gestione. Vere rappresentanze dirette della classe operaia e nello stesso tempo articolazione, anche se formalmente non riconosciuta, del sindacato in fabbrica, le commissioni interne vivono con drammaticità questa loro ambivalenza a volte portatrici di una .spinta classista che scavalca accordi e impone nuove soluzioni, a volte traduttrici a livello di fabbrica di una linea elaborata all’esterno della fabbrica stessa 11.

Costretti dalle scelte generali del sindacato a muoversi in spazi sempre più ri­stretti (accordo del 1947 sulle commissioni interne) questi istituti costituiscono il punto d ’incontro delle contraddizioni poHtiche e sociali del dopoguerra ed è per questo che su di loro (come sui commissari di reparto, sui quali però le infor­mazioni disponibib sono assai scarse) si è appuntata l’attenzione di alcuni recenti studi, che guardano agli anni della ricostruzione sotto l’angolazione di uno scon­tro sociale in cui le possibilità aperte di fronte alle classi subalterne risultano as­sai più articolate e ricche di quanto superficialmente non appaia.

Già la rapida sintesi della storia del sindacato condotta da Vittorio Foa 13 14, pone esplicitamente il problema del rapporto tra lotte sociali e movimento operaio, individuando per il periodo considerato (ma il discorso si amplia fino ai nostri giorni) la compresenza di due differenti concezioni del sindacato: « quella che lo vuole diretta istituzione ed espressione della classe operaia, intesa come forza autonoma che si muove nel rapporto subalterno per superarlo, e quella che lo vuole istituzione dello Stato democratico, organo di una società pluralistica in cui il sindacato opera come rappresentante di “un fattore della produzione” ac­canto ai rappresentanti degù altri “ fattori” , ed opera come soggetto e parte di una struttura mediatrice a livello sociale ».

Queste due concezioni coesistono all’interno della CGIL unitaria non solo come puro riflesso delle diversità politiche e ideologiche delle correnti sindacali, ma passano all’interno delle singole correnti, sia pure con accentuazioni diverse, e quindi attraverso l ’intero movimento operaio. Va tuttavia osservato che solo in rare occasioni la compresenza delle due linee si traduce a livello di vertici sinda­cali in una dialettica aperta, almeno fino a quando non si avvia esplicitamente il

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13 Per un esame teorico e storico delle commissioni interne cfr. Franco Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Torino, 1966.“ Cfr. V ittorio Foa, Sindacato e lotte sociali, in Storia d’Italia, voi. 5 (2°), I documenti, Torino, 1973; per un esame dello sviluppo delle idee dell’A. sul sindacato cfr. V ittorio Foa - Bruno T rentin, La C G IL di fronte alle trasformazioni tecnologiche dell’industria italiana, in Lavoratori e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo, a cura di F. Momigliano, Milano, 1962; V. Foa, La C G IL e l’unità sindacale, in Idee e documenti per l’unità sindacale, ACLI - Cbllana ricerche n. 10, Roma, 1969; V. F oa, La ricostruzione capi­talistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia contemporanea, 1973, n. 4.

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processo della scissione, mentre la linea « mediatrice » prevale, nel periodo ini­ziale e decisivo della ricostruzione, in consonanza con la linea politica di alle­anze e di collaborazione che la sinistra porta avanti. E la prevalenza di questa seconda linea si traduce per il sindacato in alcune scelte di fondo, destinate a giocare nel lungo periodo, su un terreno specifico come quello rivendicativo.

La contrattazione centralizzata I5, aspetto tipico dell’azione sindacale nel dopo­guerra, se significa da un lato il recupero in chiave minimalista di una spinta egualitaria fortemente presente nelle lotte operaie e la riduzione di pericoli cor­porativi, dall’altro significa la mortificazione della ricchezza politica delle lotte sul luogo di produzione e la concessione al capitale di margini certi di manovra attraverso i quali pianificare la propria ripresa e la propria strategia, senza altre garanzie per la classe operaia che un relativa assicurazione dei margini per la propria riproduzione (scala mobile). Significa ancora, nel momento in cui si decide di spostare nella fabbrica la centralità dello scontro politico (e non sem­pre l’operazione riesce per il riaffiorare prepotente in più occasioni di un’autono­mia operaia tanto più interessante quanto più priva di strumenti operativi), di operare una « dissociazione fra lotta e prospettiva politica, da cui deriva una progressiva astrazione della “politica” dei problemi reali. Anche la scissione sindacale per Foa va letta in termini di lotta di classe: prodotto della guerra fredda, essa viene condotta in porto quando la ricostruzione capitalistica è ormai compiuta e « si trattava di renderla irreversibile, di piegare gli operai ad accettarne passivamente tutte le conseguenze ».

Il punto che Foa sottolinea più volte (in apparente contraddizione con la linea del discorso portato avanti, ma probabilmente per individuare correttamente un problema da sottoporre all’analisi) è che la non congruenza tra la linea politica del movimento operaio e le tendenze oggettive del movimento di classe non si traduce in una frattura del rapporto organizzazione-massa; anzi, egli parla ora di identificazione, ora di delega della classe operaia nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio, di un rapporto quindi di fiducia che solo nel lungo pe­riodo rivelerà delle incrinature.

Il problema viene affrontato anche dalla Lanzardo 16 in uno studio che ha al cen­tro il rapporto tra Partito comunista e classe operaia in quel grande complesso industriale che è la Fiat, utilizzando una documentazione particolarmente ricca e minuziosa. Largo spazio viene dedicato alle condizioni di vita, alle lotte della classe operaia e all’azione del sindacato in fabbrica. Quest’ultimo è visto sostan­zialmente come strumento che, per il modo con cui si è formato e per i legami di dipendenza dal partito, condiziona, frena e canalizza la spinta operaia lungo i binari delle scelte operate dal PCI. Il significato delle continue agitazioni e lotte operaie, tendenzialmente e spontaneamente indirizzate ad una rottura dei rap­porti sociali in senso rivoluzionario, è piegato, attraverso un controllo dei canali

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15 Sulla contrattazione centralizzata cfr., ma con scarsi riferimenti storici AA. W ., Sindaca­to e contrattazione 'collettiva, Milano, 1971.16 L iliana L anzardo, Classe operaia e 'Partito comunista alla Fiat. La strategia della colla­borazione, Torino, 1971.

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di comunicazione e di trasmissione della lotta o attraverso una limitazione e ri­discussione degli obiettivi, alle scelte di collaborazione sul terreno politico ed economico con le forze moderate e il capitale. Solo nei momenti di tensione più acuta la spinta operaia riesce a coinvolgere e a far marciare nella propria direzione gli strumenti organizzativi di base, soprattutto le commissioni interne e solo par­zialmente riesce a toccare le strutture superiori del sindacato. L ’uso operaio del­l’organizzazione si ferma quindi al livello più basso e non decisivo, senza riuscire a diventare momento unificante del conflitto che si apre sul terreno della fabbrica. Sullo stesso schema si muovono le analisi di tre studiosi ” , dedicate al periodo della ricostruzione nel triangolo industriale. L ’analisi delle lotte operaie confer­ma in tutte e tre le situazioni esaminate la sfasatura tra lotte e linea del movimen­to operaio, tra tensioni sociali e linea politica che le traduce. Particolare attenzio­ne è dedicata, oltre che ai movimenti della classe operaia, alle agitazioni di strati di popolazione non occupata o « emarginata » (disoccupati, reduci, internati, don­ne, ex partigiani, ecc.) per sottolineare una disponibilità ed una combattività gene­ralizzata che potrebbe permettere alla lotta operaia di trovare anche fuori dalla fabbrica un terreno di estensione, purché l’organizzazione, e in particolare il Par­tito comunista, lo volesse. Forse a questi saggi, per molti versi stimolanti, nuoce l’intenzione troppo scoperta di sottolineare i vuoti, le mancanze, gli errori della sinistra col risultato di lasciare senza risposta la legittima domanda sulla sostanza del rapporto tra Partito comunista e classe operaia.

Con un respiro più ampio e più problematico Bianca Beccalli17 18 affronta in un re­centissimo saggio alcuni nodi fondamentali della concreta ricostruzione del sin­dacato, cogliendo alcuni caratteri fondamentali dell’esperienza unitaria. Intanto quello della « centralizzazione » che riguarda sia la priorità data alla ricostru­zione delle strutture « orizzontali » (Camere del lavoro, Confederazioni) rispetto a quelle « verticali » (Federazioni di categoria), sia i metodi e i poteri della con­trattazione, sia il parallelo ridimensionamento delle strutture di base. La « cen­tralizzazione » sembra rispondere, e così verrà giustificata dal movimento operaio, alle esigenze della composizione della forza lavoro, estremamente composita e articolata nell’Italia del dopoguerra, e alla aspirazione del sindacato di essere espressione unitaria delle esigenze, potenzialmente corporative e settoriali, che questo tipo di mercato del lavoro potrebbe esprimere. Ma risponde anche ad una esigenza del carattere di « politicizzazione » che il sindacato assume fin dalle sue origini per il suo legame funzionale con i partiti, in contrapposizione con un al­tro tipo di « politicizzazione » verificabile a livello di base come risultato del­l’esperienza resistenziale vissuta come fenomeno di massa. La « debolezza con­trattuale », che contraddistingue il sindacato in questa fase della sua storia e in modo ancor più evidente negli anni ’50, è il risultato dell’insieme di queste scelte politiche organizzative.

Riassumendo rapidamente i risultati dell’esame della più recente produzione sul

Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia 75

17 F abio Levi, Paride Rugafiori, Salvatore Vento, II triangolo industriale tra ricostru­zione e lotta di classe 1945-1948, Milano, 1974, con una introduzione di V. Foa.1! B ianca Beccalli, La ricostruzione del sindacalismo italiano 1943-1950, in Italia 1943- 1950. La ricostruzione, a cura di Stuart J. Woolf, Bari, 1974.

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sindacato unitario si può osservare come le linee di ricerca convergano con insi­stenza su alcuni problemi di fondo, che ruotano attorno ad un tema che, espresso brutalmente, è quello del rapporto tra Partito comunista - organizzazione sinda­cale - lotte sociali. Evidentemente spingono in questa direzione le connotazioni politiche degli autori, anche se obiettivamente non si può disconoscere la rile­vanza dell’argomento.

Tuttavia ci pare giusto sottolineare che esso non esaurisce affatto la gamma dei problemi aperti o più semplicemente non affrontati. Ci limiteremo ad indicarne alcuni la cui importanza non è secondaria per sciogliere gli interrogativi legati alla esperienza unitaria della CGIL: intanto è necessario un esame più approfondito delle altre correnti sindacali, socialista e democristiana. La prima è stata ingiu­stamente identificata in base a giudizi non verificati con quella comunista19; la seconda ha avuto finora una scarsissima attenzione, mentre ci pare che il condi­zionamento che essa ha indotto sul comportamento complessivo del sindacato unitario, giustifica un approfondimento che non può essere eluso facendo appa­rire come errori delle correnti di sinistra quella che si è dimostrata una sensibi­lità politica e una capacità tattica di grande respiro.

Accanto all’analisi della corrente democristiana, vanno messe quelle organizza­zioni « parasindacali » come le A C L I20 che giocarono un ruolo di primo piano nel costruire le condizioni della rottura dell’unità e nell’elaborare una linea sindacale alternativa; o ancora quel vero strumento di supporto al potere democristiano che fu la Coltivatori diretti21 che seppe inserirsi e radicarsi nel mondo conta­dino, incautamente abbandonato, o appena sfiorato dagli appelli solidaristici delle sinistre. D ’altra parte le campagne aspettano ancora chi scriva, anche dal punto di vista sindacale, la loro storia nel dopoguerra22.

76 II secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia

Lotte sociali nell’Italia settentrionale

Fino a poco tempo fa l’analisi delle lotte sociali del periodo 1943-48 presentava due facce assai diverse: mentre era disponibile un certo numero di studi riguar­danti il periodo resistenziale, scarsissimi o quasi nulli erano i contributi sul pe­riodo postliberazione.

Il dato non era affatto casuale, ma era piuttosto il risultato di un orientamento generale prevalente nel considerare questo periodo della storia italiana, nella quale la Resistenza costituiva un capitolo a parte, anche se ad essa si faceva frequente

19 Purtroppo il saggio di A. Forbice - P. Favero, I socialisti e il sindacato, Milano, 1968, prende le mosse dagli anni 1950, trascurando il periodo della C G IL unitaria.20 Cfr. i riferimenti alle ACLI nell’intervento di G. Rapelli, in AA. W ., I sindacati in Ita­lia, Bari, 1955, e con più sistematicità in F. Magri, Bai movimento sindacale cristiano, cit. Vedi anche G iancarlo G alli, I cattolici e il sindacato, cit.21 Per un primo approccio al problema cfr. A. E sposto, Politica agraria e unità contadina, Roma, 1972; E rnesto Ro ssi, Viaggio nel feudo di Bonomi, Roma, 1965.22 Per un primo approccio ai temi e ai problemi aperti del cosiddetto mondo contadino, cfr. E manuele T ortoreto, Lotte operaie nella valle Padana nel secondo dopoguerra 1945- 1950, in Movimento operaio e socialista, 1967, n. 30.

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richiamo per spiegare le vicende dell’Italia repubblicana. Entro questo quadro si collocava anche l ’analisi delle lotte sociali sviluppatesi nel corso della Resistenza, la cui interpretazione si traduceva, pur con sfumature diverse, nella sottolineatura della partecipazione delle classi subalterne alla lotta di liberazione.

Le opere generali sulla Resistenza, fossero esse la testimonianza di militanti anti­fascisti 1 o risultato di una riflessione in sede storica2, così come gli studi di carattere più generale che prendevano in considerazione il periodo3 4, mantenevano ben ferma l’interpretazione delle lotte sociali come espressione di uno scontro in cui le connotazioni più specificatamente sociali, di classe, erano chiaramente su­bordinate al carattere prevalente di lotta contro tedeschi e fascisti. Anche da parte di coloro che, come Pietro Secchia, furono più attenti al contenuto di classe delle lotte operaie e contadine, il rapporto lotta di classe e lotta nazionale veniva risolto, non senza sforzo, in una chiave interpretativa volta a far coincidere i due momenti giungendo, per dimostrarne la compatibilità, ad assumere come dato di fatto che ciò che era accettato da una avanguardia era valido anche per la massa \ L ’egemonia della classe operaia nella guerra di liberazione veniva interpretata come capacità della classe di autoregolare le proprie esigenze per farle coincidere con gli interessi più vasti della nazione, ossia delle altre classi; di qui si ricavava la funzione di guida della classe nel processo di ricostruzione post-bellico.

Un secondo filone interpretativo ha finito per assumere invece le lotte sociali del periodo come l’espressione di una carica rivoluzionaria che potenzialmente si po­neva al di là del quadro nazionale in cui la sinistra tradizionale voleva costrin­gerle. Di qui l ’accusa al movimento operaio di non aver utilizzato questo poten­ziale fino in fondo, tradendo i principi teorici e la prassi rivoluzionaria del mo­vimento socialista5. Per la verità il contributo di questi studi è sul piano storio­grafico (ma anche su quello politico) estremamente carente, poiché il momento dell’analisi è del tutto sopravanzato dalla polemica politica ed è tanto più disar­mato e disarmante in quanto non trova, o non ha ancora trovato, un retroterra teorico e pratico sul quale fare marciare la propria contrapposizione di principio. Più complesso e articolato si presenta il panorama degli studi di carattere par­ziale o locale sulle classi sociali e sui loro movimenti nel periodo resistenziale, studi che sono incentrati sulla classe operaia dei grossi centri industriali del nord.

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1 Cfr. Luigi L ongo, Un popolo alla macchia, Milano, 1947; Pietro Secchia, I comunisti e l ’insurrezione, Roma, 1954.2 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1953; Carli-Ballola, Storia della Resistenza, Milano, 1957; G iorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Bari, 1965; Il ComuniSmo italiano nella seconda guerra mondiale, Roma, 1963.3 N orman K ogan, L ’Italia del dopoguerra, Bari, 1972; G iu seppe Mammarella, L ’Italia dopo il fascismo, Bologna, 1970; E nzo Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma, 1973.4 Cfr. Pietro Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione (1943-1945). Ricordi documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973. Vedi in particolare pp. 202-205.5 Lungo sarebbe citare tutto il materiale che è stato prodotto, specie negli ultimi anni, dalla sinistra extraparlamentare e dagli studiosi che a questo filone fanno riferimento. Basterà ricordare per tutti le pagine dedicate alla Resistenza e al dopoguerra da Renzo D el Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano, 1966.

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Alcuni di questi sono riconducibili al primo filone interpretativo e in parte ne hanno costituito il supporto: così le analisi di Massola, sugli scioperi del marzo- aprile ’43 tese sostanzialmente a dimostrare la presenza e le capacità organizzative del PCI nelle prime lotte « aperte » della classe operaia dopo il ventennio fasci­sta 6. Gli studi li Luraghi e Gibelli dedicati rispettivamente alle lotte degli operai torinesi e genovesi, ricostruiscono con rigore storico le lotte nei due centri indu­striali del nord con maggiore fedeltà allo schema interpretativo di ispirazione co­munista il primo, tendente a ridurre a problemi organizzativi le contraddizioni che si aprono fra partito e classe; con maggiori capacità critiche il secondo che riesce a vedere il rapporto dialettico intercorrente tra movimento e organizza­zione, e tra lotte operaie e contesto sociale.

In questa dimensione critica si collocano anche gli studi di Giorgio Vaccarino sulla Resistenza a Torino e in Piemonte7 nei quali l’autore, muovendo da ipotesi non riconducibili nell’ambito dell’interpretazione tradizionale del movimento operaio, conclude sulla partecipazione come scelta soggettiva della classe operaia alla lotta di Resistenza, offrendo però una ampia gamma delle articolazioni delle componenti in gioco sia politiche che sociali. Ad esempio, per primo il Vaccarino dedica particolare attenzione agli industriali e alla loro presenza tutt’altro che neutrale e secondaria nelle vicende di quegli anni, come Castronovo ha verificato nella sua storia su Agnelli e la F ia t8.

L ’impostazione prevalente negli studi sopra ricordati, non tanto di quelli speci­fici, quanto piuttosto di quelli a carattere generale in cui viene fornito un giudi­zio complessivo sul significato e valore delle lotte sociali, è stata messa in di­scussione da una serie di lavori che, pur nella differente struttura e impostazione presentano alcuni punti di incontro. Tra questi i più significativi ci sembrano il rifiuto della frattura del 25 aprile e la sottolineatura della componente di classe presente nelle lotte sociali del periodo resistenziale, componente che viene recu­perata con eguale segno nelle lotte del periodo della ricostruzione. Questo tipo di impostazione risale evidentemente ad un discorso più generale sul modo di inten­dere la storia recente del nostro paese nel senso che i movimenti delle forze so­ciali vengono assunti come il filo conduttore che permette di leggere una realtà che non si ritiene completamente assorbita e interpretata dalle forze politiche istituzionali. Per la verità questo sforzo non si è tradotto ancora in un discorso sistematico, data la parzialità dei risultati, di cui tuttavia si incominciano a in­travedere le linee di fondo sostanzialmente unitarie. Alcune osservazioni sui sin­goli lavori possono chiarire che cosa si intenda per questa tendenziale unità.

Ai movimenti sociali nel periodo resistenziale è dedicata la ricerca in corso di pubblicazione, promossa dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di

6 Cfr. Umberto Massola, Marzo 1943: ore 10, Roma, 1953, ora ampiamente ripreso e rivisto in U. Massola, Gli scioperi del ’43, Roma, 1973. Da queste interpretazioni, sia pure inserite in un giro d’orizzonte assai più ampio, non si discostano le pagine dedicate agli scio­peri del 1943 da Paolo Spriano, Storia del Partito comunista. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Torino, 1973.7 G iorgio Vaccarino, Problemi della Resistenza italiana, Modena, 1966.8 Valerio Castronovo, Agnelli, Torino, 1972.

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liberazione in Italia, che affronta l ’analisi della crisi italiana del 1943-44 e, in quest’ambito, degli scioperi operai nei centri industriali del nord (Milano, To­rino, Genova)9. L ’analisi delle lotte di fabbrica, nettamente prevalenti nel pe­riodo considerato, ricostruisce da un lato gli atteggiamenti e le iniziative operaie in rapporto alle condizioni materiali di esistenza (salario, condizioni di lavoro e di vita, ecc.); dall’altro il crescere del rapporto tra classe operaia e sue organizza­zioni; dall’altro ancora le reazioni che le lotte operaie inducono sulle forze che le contrastano (capitalisti, tedeschi, fascisti). Il nesso tra lotta di classe e lotta di liberazione rivela, a questa prima verifica, una notevole complessità come testi­moniano le difficoltà incontrate dal movimento clandestino a stabilire una soddi­sfacente mediazione tra i due momenti, dovendo continuamente' misurarsi con una emergente autonomia operaia. Ricca di risvolti interessanti si rivela anche la strategia della classe padronale che nel momento in cui deve fronteggiare le ini­ziative di parte operaia, è costretta ad uscire allo scoperto, fuggendo allo schema della collaborazione con i nazifascisti, alla ricerca di soluzioni che non ne pre­giudichino le possibilità future di riaffermazione, in un difficile equilibrio tra le esigenze nazifasciste e quelle dei lontani (ma non troppo) alleati.

11 tema dell’autonomia operaia è presente, sia pure con sfumature diverse, in altri recenti lavori. Costituisce ad esempio, il punto centrale del discorso che Gobbi dedica alle lotte operaie nella Resistenza 10, assumendole come momento dello scontro tra capitale e classe operaia, scontro che negli anni 1943-45 è tutto uti­lizzato da parte operaia a recuperare quegli spazi di iniziativa che gli sono stati negati nel ventennio fascista. Viene quindi negata l’interpretazione della parte­cipazione della classe operaia alla « ideologia » resistenziale, in quanto ideologia estranea agli interessi diretti di classe; in questa chiave il rapporto partito-classe è fortemente ridimensionato nel senso che esso investe solo la parte politicizzata, i militanti, non la classe nel suo insieme per la quale il rapporto con l’organizza­zione è un rapporto di uso ai suoi fini specifici.

Diversa interpretazione del concetto di autonomia si ritrova in altri lavori che hanno in comune sia il periodo esaminato (il dopoguerra) sia l’impostazione di fondo. Lo studio della Lanzardo sulla F ia t11 e i saggi di Levi, Rugafiori, Vento 12 sottolineano le sfasature tra la linea delle organizzazioni del movimento operaio (partiti e sindacato) e le esigenze operaie quali si esprimono nelle lotte. Lotta politica e lotta sociale nel dopoguerra muovono per strade diverse, dopo aver trovato, secondo gli autori, momenti significativi d ’incontro nel periodo della Resistenza. L ’accento batte più sul concetto di spontaneità che non su quello di autonomia, la quale non può dispiegarsi senza il momento di coscienza co­stituito dal partito. La spinta operaia resta pertanto nel periodo della ricostru­zione ad uno stato potenziale e non trova uno sbocco alternativo alla presenza

9 Operai e contadini nella crisi italiana del 1943, Milano, 1974.10 Cfr. R omolo G obbi, Operai e Resistenza, Torino, 1973." Cfr. L iliana L anzardo, Classe operaia e Partito comunista alla Fiat. La strategia della collaborazione, Torino, 1971.12 Cfr. Fabio Levi, Paride Rugafiori, Salvatore Vento, Il triangolo industriale tra rico­struzione e lotta di classe. 1945-<1948, Milano, 1974.

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egemone del Partito comunista fra le masse, traducendosi al massimo in contin­genti frizioni tra spinte di base e soluzioni di vertice 13. Ma, lasciando ad ulteriori approfondimenti il tema dell’autonomia, e guardando all’insieme del quadro for­nito dagli studi considerati, possiamo tentare di riassumere quegli aspetti che, secondo noi, offrono la possibilità di un ulteriore sviluppo dell’indagine e di in­dicare al tempo stesso i limiti con i quali è necessario misurarsi.

Un primo dato è costituito dalla ricchezza degli elementi che vengono offerti alla riflessione da un approccio che privilegi le forze sociali e i loro movimenti. Questa ricchezza non è solo il risultato scontato di avere affrontato un terreno relativa­mente nuovo disponendo di una notevole strumentazione documentaria, ma è data dalla potenzialità di sviluppo di un discorso che muovendo dalle forze so­ciali, consente un accostamento « globale » alla realtà permettendo di riconside­rare sotto un’angolazione inesplorata i processi di aggregazione politica, le solu­zioni istituzionali, le strutture economiche. Tutto questo in una dimensione dina­mica dei rapporti intercorrenti tra società, stato ed economia, che vede sì al cen­tro lo scontro di classe ma senza fornirne una interpretazione definita una volta per tutte, evitando le paralizzanti contrapposizioni ideologiche ma non sfuggendo ad un giudizio storico politico. Infatti, se è vero che una parte rilevante dei saggi è dedicata all’esame del rapporto partito-classe, è anche vero che questo interesse non si è trasformato in giudizi aprioristici. Anzi, proprio a proposito di questo tema ci pare di dover sottolineare come esso resti « aperto » e come, accanto al riaffiorante ma non definito concetto di autonomia operaia, si ponga (e la ricerca è tutta da compiere) il tema dell’autonomia delle organizzazioni e in particolare del partito. E ancora ci pare senza una risposta soddisfacente il problema del nesso tra Resistenza e dopoguerra, vuoi perché alcuni studi si fermano al 25 aprile o prima, vuoi perché gli altri muovono proprio da quella scadenza dando per scon­tati assetti sociali e politici tutti da verificare.

Se lo sguardo si allarga all’insieme delle componenti sociali, alcuni vuoti appaiono evidenti: è andata avanti l ’analisi della classe operaia dei grandi centri e delle grandi fabbriche, ma sono rimasti inesplorati larghi strati di classe operaia dei centri minori, degli operai occupati in piccole e medie aziende così come atten­dono una attenzione specifica ampie fasce di lavoratori come i braccianti, i mez­zadri la cui azione nel dopoguerra è di primo rilievo. Basterà accennare, infine, di sfuggita al grosso problema dei « ceti medi » che restano, malgrado tutto, avvolti nella fumosità dei luoghi comuni.

Un discorso a parte richiede poi l ’iniziativa capitalistica in relazione all’uso che riesce a fare del suo antagonista di classe, ai rapporti che riesce a stabilire con il movimento operaio e soprattutto in relazione alle ragioni della scelta operata sul piano politico in direzione di un ceto di governo che capitalistico non era (e non è).

Ma per non continuare in una enumerazione di temi, che si giustifica solo per

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13 Su questa linea d’interpretazione cfr. l’introduzione di V. Foa ai saggi cit. di Levi, Ru- gafiori e Vento; cfr. anche B ianca Beccalli, La ricostruzione del sindacalismo italiano 1943- 1930, in Italia 1943-1930. La ricostruzione, a cura di Stuart J. Woolf, Bari, 1974.

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l ’intenzione di voler dar conto delle possibili linee di sviluppo della ricerca, si può passare all’esame della periodizzazione. È presente in alcuni studi14 un’ipotesi che tende a inserire le lotte sociali degli anni 1943-48 in un ciclo decennale che vede il suo inizio negli scioperi del marzo 1943 e la conclusione agli inizi degli anni ’50. Questa ipotesi poggia su alcune considerazioni che ci appaiono fondate: in primo luogo lo sviluppo delle lotte nel decennio si caratterizza in modo netto rispetto a quella che sarà la situazione di stallo, di relativa staticità caratterizzante gli anni ’50, nei quali si registra una netta caduta dell’estensione, dell’intensità, della circolazione dei conflitti sociali. Su un altro piano, complementare al primo, concorre a definire il ciclo decennale l’andamento del ciclo capitalistico, che nel­l ’alternanza delle fasi congiunturali di segno opposto in esso presenti, realizza il superamento della crisi indotta dalla guerra. L ’assestamento su nuove posizioni quale si realizza all’inizio degli anni ’50 (controllo del mercato interno, apertura a quello internazionale, avvio di un processo di ristrutturazione e di riorganizza­zione generale attraverso la scelta della meccanizzazione spinta dei settori trai­nanti) presuppone un riconquistato controllo sulla forza lavoro, una raggiunta stabilità politica che passa attraverso il contenimento dei conflitti nella fabbrica e nella società. Il processo lento, contraddittorio, ma continuo si costruisce per fasi successive che possiamo, in prima approssimazione, indicare, adottando come criterio discriminante (con gli inevitabili rischi di arbitrarietà che ogni schematiz­zazione comporta) i momenti di aggregazione delle forze sociali in movimento. Il periodo resistenziale ci pare possa essere diviso in due parti. La prima (marzo 1943 - marzo 1944) è contraddistinta dalla iniziativa della classe operaia, parti­colarmente nei grandi centri del triangolo industriale, che con gli scioperi del marzo ’43, dell’agosto, del novembre e dicembre successivi scende in campo a difesa dei propri livelli di sussistenza. Forti caratteri di autonomia, o se si vuole di spontaneità, sono riscontrabili in questi momenti di lotta poiché scarso o tardi­vo è il collegamento al movimento delle organizzazioni clandestine, così come qua­si nulla è la presenza di altre forze sociali, se si escludono i momenti di partecipa­zione di massa agli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre. Lo sciopero ge­nerale del marzo 1944 (che pure registra vistose assenze: Genova, Trieste, il Biellese) segna una svolta nel senso di un primo organico incontro tra movimen­to organizzato e lotta operaia.

La seconda fase copre il periodo giugno 1944 - aprile 1945. Il salto di qualità segnato dallo sciopero generale del marzo non trova nei mesi successivi fino agli scioperi insurrezionali, una verifica nelle lotte che caratterizzano mese per mese la situazione nelle fabbriche. I punti di scontro si moltiplicano; gli operai sono impegnati quasi senza interruzione da un lato nella difesa del salario, eroso dal­l’inflazione, dell’occupazione minacciata dai trasferimenti di manodopera voluti dai tedeschi, dall’altro contro l’organizzazione capitalistica del lavoro (cottimo, estensione dell’orario di lavoro). Le lotte, che in singole situazioni raggiungono livelli altissimi, non ricuperano quella coordinazione, prima circolare e poi com­plessiva che ha caratterizzato l ’anno precedente, malgrado l’obiettiva ricomposi­zione materiale e politica della classe dovuta alla spinta egualitaria messa in moto

Cfr. in particolare L. L anzardo, Classe operaia e partito, cit.

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dall’inflazione. Si registra tuttavia un ampliamento del fronte sociale in movi­mento. Non solo nuovi segmenti dell’articolazione della classe operaia scendono in lotta, ma alcune componenti dei ceti medi cittadini vengono coinvolte dalle lotte operaie e soprattutto anche il « mondo » contadino è scosso dalle agitazioni. Prima i braccianti della pianura Padana, poi i mezzadri, i piccoli e medi affittuari scendono in campo, trovando spesso un felice collegamento con il movimento di Resistenza. Ma, come si è detto, la crescita numerica e politica nelle forze dispo­nibili alla lotta non trova un coordinamento politico adeguato; anzi, proprio sul terreno politico, nell’autunno 1944 si deve registrare una strozzatura che spinge all’indietro il movimento cresciuto nella calda estate del 1944. La ricomposizione di uno schieramento di forze moderate, costituitosi utilizzando le contraddizioni specifiche e generali del quadro interno ed internazionale, avvia una strategia volta a contenere la spinta sociale crescente a separare nettamente la lotta antifa­scista dalla lotta di classe, usando abilmente il ricatto dell’unità antifascista. Nep­pure gli scioperi insurrezionali e il clima di aperta contestazione sociale che ac­compagna le giornate della liberazione riescono a smantellare le ipoteche mode­rate avanzate sul dopoguerra. L ’indomani della liberazione verifica infatti, di fronte a questa strategia, l’insufficienza di un’impostazione, fatta propria dalle sinistre, che ha rimandato al dopo le definizioni dei rapporti che devono inter­correre tra le forze sociali in gioco.

Il periodo che va dal 25 aprile 1945 al luglio 1948 si può schematicamente di­videre in tre fasi successive 15. La prima fase può essere definita quella della « normalizzazione », in cui cioè si tenta da parte capitalistica e da parte delle forze democratiche antifasciste, di ricondurre a livelli accettabili i contrasti sociali esi­stenti nella fabbrica e nella società attraverso l’uso dell’ideologia della ricostru­zione. Il problema da risolvere è come attenuare la tensione sociale che, convo­gliata e interpretata politicamente durante la guerra di liberazione in un quadro di opposizione al fascismo e ai nazisti, la faccia ora funzionare dentro un quadro che non comprometta la stabilità democratica appena raggiunta. L ’operazione ri­sulta difficile perché ogni movimento di classe contraddice la natura del patto di collaborazione sottoscritto, sia pure con intendimenti diversi, da tutte le forze antifasciste.

Il rifiuto operaio di sottoporsi alla disciplina produttiva, le richieste salariali avanzate con una serie di scioperi in giugno e culminanti in luglio in lotte estese ai maggiori centri industriali, testimoniano una continuità dello scontro di classe con il periodo resistenziale, continuità che si esprime anche nelle forme di lotta prevalentemente spontanee e coordinate solo a livello di base attraverso un uso tutto operaio delle commissioni interne. I restanti mesi del ’45 vedranno impe­gnate le forze politiche e sindacali in uno sforzo teso ad attenuare il livello dello scontro che investe anche le campagne. I mezzadri con le agitazioni avviate nel

15 Per la rapida e schematica esposizione dei principali momenti delle lotte sociali nel periodo 25 aprile 1945 - luglio 1948 sono stati utilizzati i dati raccolti nei saggi più volte citati dalla Lanzardo, di Levi, Rugafiori, Vento e di una prima schedatura di alcuni quotidiani {Stampa, Unità, Avanti!)-, per le lotte nella valle padana qualche utile riferimento in E manue­le T ortoreto, Lotte operaie nella valle padana nel secondo dopoguerra 1945-1950, in Movi­mento operaio e socialista, 1967, n. 30.

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luglio mantengono aperta una conflittualità che toccherà le punte più alte in Si­cilia e soprattutto in Emilia Romagna, dove i proprietari non vogliono riconoscere i patti strappati durante la guerra di liberazione. L ’intervento personale di De Gasperi non chiuderà le agitazioni che continueranno fino alla legge del 7 maggio 1947 e oltre. La lunga battaglia garantirà una forte crescita organizzativa della categoria. La relativa tregua che si stabilisce nelle fabbriche nell’autunno con­sente agli industriali che si stanno riorganizzando (la Confindustria verrà rico­stituita ufflcialmente nel dicembre 1945), di impostare una strategia destinata a dare i suoi frutti sul lungo periodo. Essa punta su alcuni obiettivi qualificanti: far passare il principio dello sblocco dei licenziamenti, introdurre in alcuni settori chiave un nuovo meccanismo di incentivazione del lavoro destinato a rompere le spinte equalitarie, aprire una battaglia di principio sui consigli di gestione, porre fine all’epurazione di industriali o di quadri tecnici per preparare il completo recupero del controllo capitalistico sul processo di produzione. Come contropar­tita viene offerto alla CGIL un consistente pacchetto di concessioni (la scala mo­bile, le 200 ore per gli operai e la 13a mensilità per gli impiegati) il cui costo, malgrado vengano ottenute senza lotte, apparirà nelle sue giuste dimensioni solo più tardi.

I meccanismi di mediazione messi in atto, tra cui fondamentale risulta quello della contrattazione centralizzata, riescono ad attenuare lo scontro a livello di fabbrica anche se la tensione riaffiora in altri punti della società attraverso le manifestazioni, spesso violente, di masse di disoccupati, reduci, partigiani a nord e a sud del paese (gennaio-marzo ’46), intersecandosi con forti agitazioni di operai e impiegati sulla questione dei contributi unificati, con le lotte dei lavoratori del settore commerciale.

La relativa ripresa economica nel corso del 1946 segna il passaggio alla seconda fase, che durerà fino alla tarda estate del ’47, ed è caratterizzata da una minore incidenza delle lotte operaie. Queste, che per la crescente tensione sul salario do­vuta alla galoppante inflazione tendono a esplodere in scioperi durissimi, come avviene a Torino e in Piemonte nel luglio, spingono nell’autunno ’46 la Confin­dustria ad una parziale accettazione delle rivendicazioni, ma la contropartita che gli industriali strappano è altrettanto importante: una tregua salariale di sette mesi (frutto del « nuovo corso ») che in pratica disarma gli operai di fronte al­l’inflazione. Il nuovo anno si apre con un forte sciopero dei braccianti contro la mancata applicazione dell’imponibile di manodopera in diverse province del sud (Caserta, Reggio, Cosenza, Catanzaro), indice della progressiva ricomposizione politica della categoria bracciantile.

Agitazioni si hanno anche tra alcune categorie di dipendenti statali retribuiti in modo notevolmente inferiore ai dipendenti dell’industria, e tra i bancari per la retribuzione dello straordinario. Il crescente costo della vita innesca a ripetizione agitazioni e scioperi nelle fabbriche del nord (a Sesto S. Giovanni, a Torino); la spinta è tale che le commissioni interne si vedono costrette a far proprie le ri­chieste operaie malgrado la tregua salariale.

In aprile e maggio l ’agitazione per il carovita si trasforma in movimenti di piazza sempre più frequenti ed estesi nelle città; in queste manifestazioni parte

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attiva hanno soprattutto le forti aliquote di disoccupati che il movimento sin­dacale non riesce a controllare. Malgrado questo clima l ’espulsione dei comunisti dal governo, che avviene senza contrasti di ridevo, appare come la prima tappa di una svolta della quale il movimento operaio non pare rendersi pienamente conto, come confermano gli accordi firmati tra Confindustria e CGIL sulla rego­lamentazione delle CI.

L ’attacco agli operai, alle classi subalterne, alle organizzazioni del movimento operaio si fa scoperto. Alla svolta autoritaria del governo fa da contrappeso la svolta in campo economico che segna il passaggio alla terza fase: si dà inizio a quella politica deflazionistica che permetterà alla Confindustria di portare avanti le esigenze « oggettive » dell’economia per operare un attacco a fondo contro la classe operaia e le sue organizzazioni. La risposta delle classi subalterne è per la verità adeguata a fronteggiare l’attacco: iniziano i braccianti (settembre 1947) che aprono una vertenza la quale vedrà per la prima volta uniti i seicentomila lavoratori della pianura Padana e i braccianti della Puglia, mentre in Lucania, Ca­labria e Sicilia si registrano frequenti occupazioni di terre. Le principali categorie industriali (tessili, chimici, metalmeccanici) in ottobre-novembre aprono in ser­rata successione delle vertenze incentrate sulle rivendicazioni salariali, mentre il fronte delle agitazioni si estende a nuovi settori (statali, dipendenti comunali, degli istituti previdenziali, insegnanti elementari). Si giunge a scioperi generali locali (a Milano a fine ottobre), a scioperi di importanti categorie di lavoratori a Reggio Emilia, La Spezia, Venezia, Novara, ma non ad un’azione coordinata, men­tre nel clima incandescente di aperto scontro sociale, ad acuire la tensione, ricom­paiono le squadre fasciste (Roma, Milano) e la polizia in più occasioni non esita a sparare sui dimostranti.

Ma le prossime scadenze elettorali impediscono alle organizzazioni del movimento operaio di utilizzare in modo efficace l’enorme spinta che viene dal basso: le forme di lotta si diluiscono nella « non collaborazione » dei metalmeccanici che così non riescono neppure a chiudere un contratto che si trascinerà a lungo. Anzi, si finisce per accettare nei primi mesi del ’48 una tregua sindacale subito con­traddetta dalla ripresa della lotta da parte dei braccianti.

Intanto l’attacco ai livelli di occupazione, conseguenza della scelta deflazionistica, continua attraverso le sospensioni, la chiusura di piccole e medie aziende, le ri­duzioni di orario. La sconfitta elettorale del 18 aprile non attenua la combattività operaia: i mesi di giugno e luglio vedono crescere ed estendersi movimenti di lotta con occupazioni di fabbriche nel Milanese, con lo sciopero generale del­l’industria a Torino (2 luglio), con scioperi di chimici e metalmeccanici. Ancora in giugno i mezzadri sono costretti a scendere in campo per fare rispettare le norme sulla ripartizione dei prodotti.

L ’attentato a Togliatti si inserisce in questo clima di scontro sociale aperto. La reazione operaia è massiccia proprio perché a lungo preparata dalle lotte prece­denti. Lo sciopero generale si colloca al culmine della parabola crescente delle lotte del periodo postbellico e chiude di fatto una lunga stagione. La scissione sindacale apporrà il sigillo al riconquistato controllo da parte delle forze mode­rate sulla società e da parte del capitale sulla classe. Il passaggio alla fase de­

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crescente delle lotte non è né immediato né lineare anche se il colpo è avvertito in profondità. Negli anni che seguono lotte persistenti e dure saranno ancora combattute, ma non saranno in grado di contrastare seriamente l’iniziativa ca­pitalistica che già a partire dall’autunno ’48 (Fiat) incomincia in forme rozze un processo di ristrutturazione degli impianti che è l ’indice più signficatvo di una riappropriazione in chiave capitalistica della contestazione operaia e del pas­saggio dell’iniziativa nelle mani del capitale.

Aspetti del problema del Mezzogiorno

Nell’ambito degli studi sul secondo dopoguerra la situazione economica e sociale del sud all’indomani del crollo del fascismo, lo schieramento delle classi, l ’effet­tiva azione dei partiti di massa e le resistenze opposte dalle vecchie strutture di potere sono rimasti tra i temi meno studiati e approfonditi. Si spiega così come venga dato facilmente per scontato che nell’immediato dopoguerra il più potente freno alla spinta della classe operaia e delle forze di rinnovamento sia stato co­stituito dal « vento del sud », Piscitelli giunge a parlare di un « “deep. South” [...] ribollente di torbidi umori vecchi e nuovi, in procinto di battersi per la meta finale: il mantenimento della monarchia » Turone vede nel sottoproletariato meridionale un « alleato inconscio » dei « cauti ambienti imprenditoriali dello stesso Nord » 2, riconoscendo una matrice eversiva e reazionaria nei tumulti di piazza nel sud, almeno durante i governi di coalizione; lo stesso Spriano insiste sul peso determinato nel sud dalla mancata esperienza della Resistenza3. Non mancano naturalmente voci di dissenso all’accettazione dell’inevitabilità del suc­cesso reazionario nel Mezzogiorno: già nell’immediato dopoguerra Valiani avan­zava l’ipotesi di una possibile alternativa rivoluzionaria nelle campagne meridiona­li sull’onda delle nuove speranze scaturite dalla liberazione, in un’opera troppo ristretta al rammarico dell’occasione perduta per offrire utili indicazioni4. Negli ultimi tempi l’indagine si è fatta più attenta ai fenomeni meridionali, pur pre­sentando ancora una serie di limiti. In un suo acuto saggio Foa dà ancora cre­dito incondizionato al moderatismo meridionale considerandolo, fino alla stabi­lizzazione democristiana dell’aprile ’48, « terreno di rigurgiti nostalgici e reazio­nari anche a livello di massa », cogliendone però il carattere di protesta, di ri­fiuto di ogni autorità centrale che « non tarda a mostrare il suo volto estraneo e autoritario » 5. Un utile contributo è stato offerto da precedenti ricerche sulla

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' Enzo P isc itelli, II governo Farri e i problemi della terra (I), in II Movimento di libe­razione in Italia, 1972, n. 107, p. 95.2 Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia, Bari, 1973.3 Paolo Spriano, Bue operai comunisti nel Sud, in Rinascita, 22 settembre 1972, p. 21 (a proposito di S. Cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, Roma, 1972, e G. Calan- drone, Comunisti in Sicilia [1946-51], Roma, 1972).4 Leo Valiani, L ’avvento di De Gasperi, Torino, 1949.s Vittorio F oa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in Rivista di storia contemporanea, 1973, p. 442.

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crisi italiana del 1943-44, da parte dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione in Italia6 7 che hanno confermato l’importanza del processo di disgre­gazione del blocco sociale garantito dal fascismo nel Meridione, riconoscendo implicitamente la possibilità di una diversa collocazione politica del Mezzogiorno nell’immediato dopoguerra. Da parte di certa letteratura che contesta ai partiti di sinistra un mancato carattere di classe non solo si riconosce uno specifico con­tributo del sud alle lotte sociali nel generale processo di crisi che investe l’Italia nell’immediato dopoguerra, ma vi si è voluto vedere « il livello più alto di in­subordinazione proletaria » 1. Ciononostante manca ancora una seria ricostruzione di tali lotte e in genere della dinamica sociale del Meridione per cui occorre pro­cedere a prime sommarie ipotesi.

Il materiale disponibile sembra giustificare l’inserimento di queste lotte in un unico ciclo, come per il nord, con caratteristiche, però, in una certa misura di­verse, In primo luogo, per la periodizzazione, se è identico il termine a quo, il ’43 (con punte fino al ’42), la conclusione del ciclo non può essere anteriore al­meno al ’53. Così, se è accettabile su scala nazionale la divisione del ciclo in due fasi principali, crescente fino al ’47, difensiva dal ’48 al ’50, questa divisione è valida per il Mezzogiorno solo in misura relativa per quel che riguarda le lotte in fabbrica, con il passaggio da una limitata linea offensiva ad una rigida difesa (che non implica però minor capacità di mobilitazione), e non è affatto valida per le campagne dove anzi il periodo ’49-51 segna l’acme del movimento. Per quel che riguarda la partecipazione di altre categorie alle lotte, la fase di riflusso deve essere anticipata almeno alle elezioni del ’46.

Altra fondamentale differenza troviamo nella composizione sociale del movimen­to: se il proletariato di fabbrica è una componente essenziale, al pari di quello del nord, in grado di dare alle lotte un carattere di continuità, pur disponendo di una forza di gran lunga inferiore, sia per la ridotta consistenza sia per la bassa produttività dell’apparato industriale meridionale che riduce sensibilmente il suo potere contrattuale, la seconda componente di primaria importanza non può esse­re riconosciuta nel proletario contadino puro e semplice, il bracciante, quanto piuttosto nella tipica figura del contadino povero, in parte bracciante, in parte piccolo affittuario di appezzamenti assolutamente insufficienti al suo stesso man­tenimento: il che rende forzata l ’attribuzione di precisi contenuti di « classe » ad un movimento estremamente articolato. Anche il ruolo delle altre forze che ruotano attorno a queste due componenti, pur non necessariamente sulla stessa linea, è diverso rispetto al nord. Ruolo fondamentale hanno nelle città le masse di disoccupati o sottoccupati, attratte in una prima fase, almeno in una certa mi­

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6 Si fa riferimento ai saggi contenuti in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943, Mi­lano, 1974.7 Luciano Ferrari Bravo - Alessandro Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del mezzogiorno italiano, Milano, 1972, p. 134. Sono ancora da citare Renzo D el Carria, Prole­tari senza rivoluzione, Milano, 1966 e C. D emarco, La costituzione della Confederazione ge­nerale del lavoro e la scissione di « Montesanto » (1943-44) in Giovane Critica, 1971, n. 27. Molto interessante è il libro di Sidney G. T arrow, Partito comunista e contadini nel Mez­zogiorno, tr. it., Torino, 1973.

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sura, nella sfera d ’influenza del movimento operaio, per la sua generale pro­spettiva di lotta per l’occupazione e per l’attenzione prestata alla soluzione di problemi urgenti e particolarmente sentiti da questi gruppi come il carovita o il mantenimento del razionamento, ma che la sinistra non riesce a legare com­pletamente alle lotte degli occupati, lasciando ampi spazi per la penetrazione delle forze di destra.

Per gli altri gruppi sociali si deve ricordare che il vero e proprio ceto medio pro­duttivo ha scarsissima incidenza nel movimento data la sua scarsa presenza nelle strutture meridionali; maggiore interesse è invece rivolto dai partiti di sinistra agli artigiani, ai professionisti, agli stessi imprenditori, almeno piccoli impren­ditori, di aziende industriali e agrarie. Questa apertura viene giustificata con la necessità di un ampio fronte meridionalista che non trascuri nessuna compo­nente. Non è per il momento possibile ricostruire nella loro interezza i rapporti del movimento operaio con i gruppi imprenditoriali: risulta però evidente come questi si siano mostrati interessati ad una collaborazione, almeno fino a quando sentirono minacciata l’esistenza stessa dell’apparato industriale meridionale.

La rigida difesa'del principio di gerarchia e il rifiuto di qualunque pressione ope­raia sul momento decisionale se accomunano l’atteggiamento di questi gruppi a quelli degli esponenti del grande capitale settentrionale, non sono sufficienti a na­scondere le preoccupazioni di quegli imprenditori locali, piccoli e medi, che pro­prio dai programmi di quest’ultimo vedono minacciata la loro stessa sopravviven­za “. Ancora più aspri i rapporti col cosiddetto ceto medio improduttivo. Si tratta indubbiamente di uno dei ceti maggiormente colpiti dalla crisi inflazionistica e dalla crisi d’autorità degli anni ’44-45. Questo aspetto psicologico non è affatto da trascurare, non tanto per la sopravvivenza di un legame con la terra da parte di questi ceti, che si è notevolmente attenuato durante il fascismo, quanto per il peso esercitato dall’apparato propagandistico conservatore, che riusciva a co­prire la politica di piena restaurazione liberistica, portata avanti in campo finan­ziario (mancato cambio della moneta, esenzioni fiscali, accentuata deflazione) in nome della difesa dei ceti medi ’ . I privilegi sociali di questi gruppi, che di fatto sono superati ma che mantengono ancora una notevole carica emotiva per gli interessati, sono abilmente utilizzati dalle forze moderate. È tipica la difesa avan­zata dalla DC della figura dell’« onesto impiegato », esaltato come baluardo dei tradizionali valori religiosi, dello stato e della famiglia, la contrapposizione por­tata avanti tra i ceti a reddito fisso e gli operai e i contadini, che sono presentati come maggiormente in grado di difendersi (se non di giovarsi) dell’inflazione 10. 1 * * * * * * * 9 10

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1 Sul divario Nord-Sud cfr. Marcello D e Cecco, La politica economica durante la ri-costruzione in Stuart J . Woolf, Italia 1943-1950. La ricostruzione, Bari, 1974. Sulla posi­zione degli imprenditori locali può essere di qualche utilità un’opera estremamente ufficialecome quella di G. R usso, L ’Unione Industriale di Napoli, Napoli, 1973. Mancano studi diun certo peso. Tra i documenti utilizzabili si possono citare i verbali delle riunioni dellaConsulta economica provinciale di Napoli, l ’« Adunanza napoletana dei ministri per la ria>struzione della Campania (1945)», le relazioni presentate dalle varie commissioni per il 10°Congresso per la difesa dell’industria meridionale (Napoli 4-5/12/1948).9 cfr. D e Cecco, op. cit. pp. 293-294.10 Una parte importante per questa ricerca è per questi aspetti II domani d’Italia, organo della DC meridionale, per il 1944-45.

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È infine appena il caso di accennare al peso esercitato dal mito di Giannini, di « un impiegato a capo dello Stato ».

Passando ad una più precisa articolazione delle lotte nelle città meridionali, si può far coincidere con il triennio 1943-45 il periodo di riorganizzazione sindacale e in generale di ripresa del movimento democratico.

La storiografia ha sempre prestato scarsa attenzione al sindacato nel Mezzogiorno. Eppure, nonostante il peso certamente inferiore dell’organizzazione sindacale del sud rispetto a quella settentrionale, lo studio dei suoi rapporti interni ed esterni potrebbe costituire un’interessante verifica della strategia sindacale nel secondo dopoguerra. Per quel che riguarda i rapporti interni è certo che sin dall’inizio la dirigenza sindacale si è impegnata a frenare le spinte rivendicative della base, tanto da far prospettare un’autonomia del « movimento » dall’organizzazione

A mio parere questo fenomeno indica una sostanziale debolezza del sindacato, che da un lato è impegnato a non ostacolare lo sforzo bellico del paese, riducendo il proprio potenziale di lo tta11 12, dall’altro non riesce ancora a presentarsi come protagonista della costruzione di un nuovo tipo di società direttamente gestita dalla classe operaia (come è invece il caso delle grandi fabbriche del nord)13. Circa le relazioni esterne, gli stretti rapporti con i partiti politici provocano sin dal­l’inizio ostacoli ad un’azione unitaria che è costretta, già nel 1944, a fare i conti con l’accanita resistenza democristiana.

Nel secondo periodo, che potremmo definire della ricostruzione, 1945-1947, co­mincia a delinearsi con maggior chiarezza la strategia sindacale. Dalla pubblici­stica dell’epoca appare sempre più evidente lo sforzo del sindacato di presentarsi come garante della ricostruzione, come grande forza nazionale disposta per quel­l’obiettivo a sacrificare gli stessi interessi dei propri iscritti, rinunciando alle ri­vendicazioni economiche settoriali. Non sono risolte però tutte le contraddizioni all’interno del sindacato. Se il predominio dell’organizzazione orizzontale (che costituisce un punto di forza nel sud, data la mancanza di grandi concentrazioni operaie con forte potere contrattuale), la stessa richiesta di una partecipazione delle maestranze alla direzione delle aziende attraverso i consigli di gestione e i comitati di fabbrica tendono a contenere le lotte salariali, il continuo aggravarsi dell’inflazione, la crescente tensione nelle fabbriche per il mancato intervento dello stato, la strenua difesa fatta dai sindacati dei governi di coalizione, che im­pedisce uno sbocco politico alle lotte, finiscono per porre come obiettivo quelle

11 Cfr. le indicazioni emerse dai citati saggi sulla « crisi italiana del 1943-44 » e C. D emar­co, La costituzione della CGL, cit. Per i dissensi sulla linea da tenere in campo sindacale si ricordino le violente polemiche che dividevano Battaglie Sindacali, organo della CGIL, e La Voce, giornale unitario di socialisti e comunisti, nel 1945.12 Non bisogna sottovalutare anche le notevoli pressioni esercitate dall’AMG, contrariamente a quanto pensa Stuart J. Woolf (cfr Stuart J. Woolf, op. cit. p. 402).11 II senso di debolezza delle prime organizzazioni sindacali del Sud è chiaramente espresso dal messaggio inviato dalla Camera del Lavoro di Napoli al Congresso di Bari, in cui manca qualsiasi affermazione di iniziativa autonoma (Cfr. Aurelio Lepre, La svolta di Salerno, Roma, 1966, pp. 4143).

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stesse richieste rivendicative che si volevano evitare (si pensi all’accordo sulla scala mobile). Gravi problemi si pongono nel rapporto con gli altri gruppi: l’ac­cettazione di una ricostruzione tesa a rimettere in efficienza « quello che già c’era, dov’era », privilegiando relativamente la condizione operaia, creava una barriera insormontabile con le masse disoccupate che non potevano certo consi­derarsi, come per il nord, solo temporaneamente emarginate dal processo pro­duttivo, dato il carattere cronico del fenomeno nel sud. Non a caso Turone può citare il malcontento dei meridionali per gli accordi stipulati al nord per la con­cessione del 75 per cento del salario ai disoccupati14 15 : risulta evidente la preoc­cupazione che si volesse garantire l’occupazione settentrionale a spese di analoghe misure per il sud. L ’agitazione dei disoccupati acquista comunque caratteri di notevole estensione, radicalizzata dalla presenza di un numero altissimo di reduci, coincidendo con le altrettanto numerose manifestazioni per il carovita.

Questo potenziale di lotta non può essere utilizzato, se non occasionalmente, dalle forze di sinistra, appunto per il suo carattere spesso soltanto sovversivo. L ’interesse dei partiti operai è tutto rivolto, invece, all’organizzazione di un mo­vimento democratico che sappia saldare l’azione dal basso con le iniziative par­lamentari, come nel caso dei decreti Gullo, capaci di estendere la propria in­fluenza sui più svariati strati sociali, in una prospettiva di « riscatto meridionale » che va al di là degli interessi contingenti,5. GÜ ostacoli incontrati da un simile programma sono però difficili da superare; alcuni di ordine soggettivo come l’in­capacità del PCI di generalizzare l’esperienza dei decreti Gullo 16 o la mancanza di una spinta dalla base che sappia dare reale contenuto ai nuovi organismi (nelle fabbriche, ad esempio, i consigli di gestione mantengono sempre un ruolo mar­ginale mentre l ’azione politica e sindacale resta prevalentemente legata alle com­missioni interne), altre di ordine oggettivo dovute al progressivo deterioramento del quadro politico. Il timore di imprevedibili sviluppi nella direzione dello stato, che sembravano preannunciati dalla formazione del governo Parri e poi del tri­partito, provoca la violenta reazione delle forze conservatrici (si pensi al separa­tismo siciliano e alle minacce di rivolta armata all’indomani del referendum isti­tuzionale) che si ripercuote anche nei rapporti tra i partiti di massa, che, del resto, non erano mai stati particolarmente distesi17.

Nella terza fase, 1947-1948, il sindacato e le forze di sinistra sono colpite dalla generale svolta involutiva della politica italiana. Le elezioni del 1946 hanno, poi, chiarito i reali rapporti di forza nel Meridione incoraggiando l’attacco diretto alla

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14 S. T urone, Storia del Sindacato, cit., p. 119.15 Cfr. Il Consiglio nazionale del Partito comunista italiano, 7-10 aprile 1945, Roma 1945.16 Un’autocritica dell’azione del PCI è già espressa nel 1947 da Sereni che riconosceva « la volontaria limitazione delle lotte delle masse [...], l’ingenua fiducia nell’efficacia di una lotta che si svolgesse esclusivamente sul piano parlamentare e governativo » (Emilio Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, Torino, 1947, p. 61).17 La lettura del Domani d ’Italia mostra chiaramente come sia stata soprattutto la direzione nazionale e frenare le impazienze di gran parte della DC meridionale per una rottura con i partiti di sinistra. Il clima teso tra questi partiti è particolarmente avvertibile nelle zone dell’interno dove è meno sentita la preoccupazione democristiana di trovare sempre una co­pertura a destra.

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classe operaia meridionale e alle sue espressioni politiche. La priorità data alla organizzazione politica comincia però a dare i suoi frutti: in una fase di generale riflusso del movimento operaio, nel sud si assiste ad una crescita della sua forza organizzata16 * 18 ed elettorale. Se è vero che l ’esperienza del Fronte democratico del Mezzogiorno ha deviato verso una prospettiva elettorale le energie del movimento, è anche vero che essa ha costituito la prima esperienza di partecipazione demo­cratica di massa nel Mezzogiorno, coinvolgendo a tutti i livelli le popolazioni at­traverso le Assisi del popolo, le carte di rivendicazione e tutti gli organismi unitari rapidamente diffusisi in tutto il sud 19.

Nella nuova situazione non bisogna però dimenticare Pimpossibilità della classe operaia meridionale di porsi come diretta protagonista delle lotte, dovendo re­sistere all’interno della fabbrica alla nuova offensiva antioperaia e alla politica di smobilitazione portata avanti dal governo.

La « razionalizzazione », in senso capitalista, delle campagne meridionali intra­presa durante il fascismo provoca delle gravi fratture nel blocco contadino. Il precario equilibrio economico su cui questo si reggeva viene ulteriormente ag­gravato dalle modificazioni fondiarie e culturali, in particolare con la battaglia del grano e la conseguente riduzione delle produzioni pregiate e del patrimonio zootecnico. Le stesse campagne di bonifica e di colonizzazione, puntando ad una riqualificazione « produttiva » dell’agricoltura, a tutto vantaggio delle grosse pro­prietà agrarie, creano insostenibili problemi d’occupazione20.

La « capitalizzazione » dell’agricoltura meridionale non implica però una sem­plificazione del quadro sociale. Recenti studi21, alla luce di un « ritorno a Marx », tendono a mettere in evidenza la componente capitalista tra i contadini; sono però validi, a mio parere, le considerazioni di Macaiuso 22 quando contesta l ’arbi­trarietà dei parametri usati nelle classificazioni, riaffermando la assoluta premi­nenza delle figure m iste23. I rapporti di lavoro non sono ancora direttamente capitalistici, anche se funzionali ad una agricoltura sempre più integrata nelle strutture capitalistiche, con una pluralità di ruoli per cui gli imprenditori agricoli sono anche percettori di rendita e spesso imprenditori in altri rami dell’economia,

16 Una tappa importante è data dal Congresso di Pozzuoli del Fronte democratico del Mezzogiorno, tenutosi il 19 dicembre 1947 alla presenza di 7.000 delegati.19 La validità del « Fronte » è dimostrata fra l’altro dal fatto che anche dopo il 18 aprile rimase in vigore. Sul « Fronte » cfr. G iorgio Amendola, La democrazia nel Mezzogiorno,Roma, 1957; Il balzo del Mezzogiorno, in Critica marxista. Quaderno n. 5, 1972 e Lo svi­luppo democratico del Mezzogiorno dal 1944 al 1954, in Cronache Meridionali, 1954, pp.747-789.20 Cfr. le osservazioni di Augusto G raziani, L ’economia italiana 1945-70, Bologna, 1972.21 Cfr. G. Bolaffi - A. Varotti, Agricoltura capitalistica e classi sociali in Italia, 1948- 1970, Bari, 1973.22 E manuele Macaluso, Arretratezza e patti agrari nel Mezzogiorno, prefazione L ivio Stefanelli, Bari, 1974.23 « La realtà è che nella struttura sociale delle campagne si passa dal proletariato puro, privo di ogni mezzo di produzione, attraverso tutta una serie di figure miste, all’imprenditore capitalistico puro, cioè al puro organizzatore dello sfruttamento della forza-lavoro altrui. E si badi bene, sia il bracciante puro che l’imprenditore agricolo puro sono del tutto eccezionali nel quadro delle nostre campagne » (E. Macaluso, Prefazione cit. p. 13).

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i braccianti sono anche emigranti stagionali, per lo più edili nelle vicine città e la massa dei contadini, anche quando lavora in proprio, per raggiungere il livello di sussistenza, è costretta ad accettare contratti di mezzadria, di affitto, di enfiteu­si, di colonia parziaria o migliorataria, che hanno spesso rapporti giuridici capi­talistici, ma sempre una condizione economica con forti residui feudali24 *.

In questa economia prevalentemente basata sull’autoconsumo, è chiaro come non ci sia alcun margine per l ’aumentato valore dei prodotti agricoli che poteva in­vece essere sfruttato dai mezzadri del centro-nord.

È questa la premessa indispensabile per comprendere la risposta delle organizza­zioni di sinistra alla « fame di terra » dei contadini meridionali. Le forme di lotta corrispondono a questa struttura arretrata, mantenendo un carattere esasperato, che risente della tradizione spontaneistica, ribellistica tipica dei moti contadini del sud; compaiono però anche caratteri nuovi di organizzazione, di generalizza­zione delle lotte, di più vaste prospettive politiche, per il passato del tutto ine­sistenti.

Il problema chiave nelle campagne è quello delle alleanze, particolarmente a cuore al PCI, che per questo obiettivo frena in tutti i modi le occupazioni indifferen­ziate di terre. Sulla politica del movimento operaio persistono tuttora grosse la­cune 23; recentemente, in relazione al dibattito aperto nella sinistra dalle vicende della legge sui fitti agrari v ’è stata una ripresa dell’interesse verso questi argo­menti, anche se persiste una certa incomprensione verso la condizione contadina del sud quando si contesta la scelta del PCI di rivolgersi ad un fronte contadino indifferenziato, senza un preciso carattere di classe. Non si coglie infatti il legame tra la strategia « democratica » del PCI, che del resto risaliva a Gramsci e al­l’elaborazione svolta durante il fascismo 26, e la realtà dei contadini meridionali che, a prescindere dal loro particolare stato di salariati e coltivatori diretti, com­partecipanti o coloni, erano accomunati da una generale povertà27.

La specificità della situazione meridionale non implica però un’azione del PCI per il sud in contraddizione con l’orientamento generale, secondo l’interpreta­zione di Tarrow del « dualismo economico » 28. Non si tiene infatti nel dovuto conto la lotta alla jacquerie condotta con fermezza dal partito, essenziale per su­perare il livello della rivendicazione immediata, e il ruolo assegnato all’organizza­zione come momento unificante delle lotte tra nord e sud.

L ’insistenza della direzione comunista per un continuo rafforzamento dell’orga­nizzazione si spiega anche con la consapevolezza dell’effettivo stato del movimen-

24 Interessante la ricca documentazione in L. Stefanelli, Arretratezza e patti agrari, cit.23 Utili spunti di ricerca si possono trarre dalla recensione di A. Mattone, Partito Comu­nista e contadini nel Mezzogiorno, in Studi Storici, 1973, n. 4.26 Cfr. le Tesi sul lavoro contadino nel Mezzogiorno approvate dalla Conferenza meridionale comunista del 12-13 settembre 1926 e gli articoli di Grieco per Stato operaio raccolti in R. G rieco, Scritti scelti, Roma, 1956.27 Cfr. i dati sulla povertà tra le diverse categorie agricole ricavati dalla inchiesta sulla miseria dell’apposita commissione parlamentare del 1952-53 (L. Stefanelli, Arretratezza e patti agrari, cit., p. 101.21 Sidney G. T arrow, Partito comunista e contadini, cit.

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to nelle campagne che, pur essendo dotato di una notevole carica contestativa, non riesce ad esprimerla pienamente.

È ancora prematuro avanzare delle considerazioni definitive da una prima rile­vazione delle fonti archivistiche disponibili (in particolare del fondo del ministero degli Interni), ma è possibile ipotizzare che nell’immediato dopoguerra il fer­mento nelle campagne è maggiormente legato al disagio per il caroviveri o per la politica degli ammassi che non ad una vera e propria contestazione dei rapporti di proprietà. Il grado di maturità espresso dal movimento contadino, soprattutto, è del tutto insufficiente per prospettare soluzioni rivoluzionarie. Nelle zone che avevano già visto nel primo dopoguerra le masse contadine impegnate nell’occu­pazione delle terre si registra una notevole radicalizzazione delle lotte con una adesione quasi messianica delle popolazioni ai programmi comunisti, non si riesce però a estendere queste agitazioni a tutte le campagne meridionali dove le vec­chie forze dominanti mantengono pressoché intatto il loro potere, servendosi spesso degli stessi CLN e, soprattutto, potendo contare su quel formidabile strumento di conservazione sociale costituito dal clero locale. Un altro grosso limite era, infine, costituito dalla mancanza di chiarezza negli sbocchi politici del movimento che non riesce facilmente a distaccarsi da un certo elementare po­pulismo.

È evidente allora come fosse sentita la necessità di garantire una continuità del movimento per impedirne il riflusso, rivendicando un ruolo prioritario al partito e alla sua capacità di direzione39. Si tratta di un processo lento che si svolge tra seri limiti e ritardi del partito29 30 che non riesce perciò a impedire una lunga fase di riflusso.

Il notevole salto qualitativo delle lotte del 1948-50 non può spiegarsi comple­tamente senza tener presente la nuova situazione politica che vede il passaggio del Mezzogiorno « all’opposizione ». Il 18 aprile non solo vede la fine di certe remore nell’azione delle forze di sinistra, ma segna il passaggio da una lotta legata a motivi contingenti ad un rifiuto aperto della politica governativa che porta realmente, per la prima volta, a unificare le agitazioni dei contadini e le lotte della classe operaia al nord e al sud. Ciononostante è azzardato parlare di situa­zione rivoluzionaria31: l ’avanguardia operaia del nord è già in fase di riflusso,

29 « L ’esperienza ci dice, infatti, che innovazioni contrattuali o legislative ottenute dal mo­vimento contadino organizzato e profondamente sentite dalle popolazioni, per la insufficiente messa a punto da parte delle forze politiche e sindacali degli strumenti atti ad agevolarne e diffonderne l’applicazione, con la caduta della pressione di massa, rimangono sovente poco conosciute agli stessi interessati [...]. Cosicché [...] persino il decreto Gullo [...] più che dare l’avvio al ridimensionamento della rendita parassitarla provocava, come ricorda Grieco, il “ terrorismo giudiziario” dei padroni contro i miglioratati » (L. Stefanelli, Arretratezza e patti agrari, cit., pp. 133-134).30 Cfr. A. Mattone, Partito comunista, cit., p. 946.31 « Solo la politica decisa dai comunisti riuscì a mantenere le lotte che vi si svilupparono entro il limite oltre il quale si ha l ’insurrezione o l ’attacco diretto allo Stato, riuscì a circoscri­vere ̂l ’orizzonte politico degli obiettivi entro la riforma agraria, con ciò stesso indicando il nemico da battere nella frazione più arretrata del capitale, i latifondisti », (F. Ferrari Bravo - A. Serafini, Stato e sottosviluppo, cit., p. 15).

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la capacità di mobilitazione del PCI nel Mezzogiorno è ancora insufficiente ” , soprattutto viene a mancare l ’apporto della classe operaia meridionale, il cui ruo­lo è stato erroneamente sopravvalutato dal partito32 33, che resta isolata all’interno delle fabbriche nella difesa della propria esistenza.

Nello stesso movimento contadino si presentano seri limiti che vengono accen­tuati da errori del PCI. Se non si può accettare l ’interpretazione di Tarrow sulla « doppiezza » del PCI, è infatti innegabile che in alcuni settori del movimento la scelta frontista va a discapito della coscienza di classe, provocando fenomeni di opportunismo seguiti con preoccupazione dalla stessa direzione34.

I limiti del movimento contadino, che hanno permesso alla DC di varare una riforma agraria che non si ponesse in contraddizione con i programmi del capi­talismo industriale e che non colpisce alla radice gli interessi delle forze piu retrive del Mezzogiorno, sono stati al centro dell’interesse del dibattito meridio­nalista 3’ .

II filone « democratico », in particolare con Rossi-Doria36, tende a ridimensionare il ruolo delle agitazioni nelle campagne nella convinzione che una corretta poli­tica agraria avrebbe dato maggiori risultati nella lotta al latifondo che non una generale riforma agraria37. Secondo questa interpretazione il movimento conta­dino avrebbe dato, sì, la spinta decisiva ad un nuovo tipo di intervento statale nel Mezzogiorno, ma, cadendo sotto l ’egemonia comunista, avrebbe esaurito ra­pidamente il suo ruolo progressista, causando anzi un’ulteriore involuzione po­litica del sud perché i tempi di attuazione della riforma agraria hanno coinciso con il suo esaurimento consentendo una « gestione democristiana » della riforma.

Analoghe considerazioni vengono fatte da altre parti. Per Tarrow il risultato di queste lotte sì può definire piuttosto deludente: dal punto di vista sociale con il

32 La risposta all’attentato a Togliatti è molto dura in alcuni centri operai (ad esempio a Castellammare di Stabia). La capacità di reazione del PCI nel sud si rivela però complessiva­mente debole. Cfr. Pietro Secchia, L o sciopero del 14 luglio, Roma, 1948.33 « Per la prima volta nella storia del Mezzogiorno, non solo la classe operaia “ in gene­rale” , ma proprio la classe operaia del Mezzogiorno ha assunto la funzione dirigente in que­sta lotta » (E. Sereni, Il Mezzogiorno, cit., p. 117).34 Grieco è costretto ad un energico richiamo ad una più rigida discriminante di classe, denunciando un pericolo di « inquinamento » dello stesso partito che tende a ostacolare i contatti diretti tra le direzioni dei sindacati e del partito e le masse contadine: « è frequente il caso che i contadini economicamente più forti siano a capo della cooperatva, siano membri del partito comunista e socialista e molte volte dirigenti locali di questi partiti..., lo strato dirigente delle cooperative, in mancanza di una vita democratica interna alle cooperative e identificandosi spesso con la direzione politica locale, ha resistito alle lotte o a nuove occu­pazioni, per il timore che venissero pregiudicate le sue posizioni di vantaggio nelle coopera­tive »; si viene così a determinare una « “barriera d’opportunismo” con una base sociale ca­ratterizzata » (Ruggero G rieco, I contadini meridionali all’attacco del latifondo, Roma, 1949, p. 15).35 Per una ricostruzione delle posizioni dei meridionalisti sono di grande utilità le biblio­grafie dei libri di Tarrow e di Ferrari Bravo.36 Cfr. di Manlio Rossi D oria, Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna, 1956 e Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari, 1958.37 Nell’immediato dopoguerra Rossi-Doria era stato invece uno dei più convinti assertori della riforma agraria. Cfr. Manlio Ro ssi D oria, Prospettive dell’agricoltura italiana, Roma, 1945.

Il secondo dopoguerra in Italia: orientamenti della storiografia 93

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rafforzamento del ceto sociale a suo avviso più conservatore, quello dei piccoli proprietari, dal punto di vista politico con un saldo controllo delle campagne at­traverso l’organizzazione della « clientela » e la piena subordinazione del contadi­no non più al latifondista ma alla Cassa o agli Enti di riforma3’. Giudizio molto simile avanza Ferrari Bravo, secondo il quale « l ’insorgenza proletaria nelle cam­pagne » spezza la tradizionale struttura di potere nel Mezzogiorno, senza però che si esprima una nuova classe politica nella gestione locale del potere, dando così spazio alle nuove ipotesi di sviluppo portate avanti in prima persona dalla DC.

In realtà queste interpretazioni trascurano il fatto che la DC già da tempo ha ac­quistato un ruolo primario presentandosi come espressione politica immediata di quei gruppi sociali più conservatori che si erano mostrati capaci di ricomporre rapidamente la vecchia struttura clientelare. È nella mancata utilizzazione in senso democratico dei C L N 38 39 e nella sistematica scalata alle cariche pubbliche da parte degli esponenti democristiani, sostenuti apertamente dagli Alleati, che bisogna cercare le premesse del successivo uso spregiudicato dei centri di potere da parte della DC “ .

Delle posizioni autocritiche degli esponenti comunisti s’è già accennato in pre­cedenza. È chiaro che dalla ricostruzione delle agitazioni risulta maggiormente evidenziata la difficoltà del Partito comunista ad assorbire tutta la spinta conte­stativa meridionale nella prospettiva della costruzione democratica di « un qua­dro di riferimento istituzionale unitario ». Una difficoltà che deve essere fatta risalire alle scelte complessive fatte dal PCI su scala nazionale, all’accettazione della priorità della ripresa produttiva (e quindi della restaurazione padronale) che di fatto rinviava (per poi annullare) la soluzione degli squilibri sociali, in primo luogo l’eliminazione, del divario nord-sud.

Alla contrapposizione tra nord e sud, portata avanti dalle destre, il movimento organizzato dà una risposta giusta individuando, nei reali contenuti delle lotte, il vero nemico nello stato, ma questo giudizio positivo non deve far trascurare il grave ritardo con cui la sinistra prende coscienza dell’importanza della riforma agraria, di cui si privilegia il carattere di riforma dei contratti e che comunque viene vista, per lo più, come mezzo per un maggior collegamento con i ceti mez­zadrili, con i gruppi intermedi delle campagne. È tutta l’importanza del problema meridionale che tarda ad essere avvertita dal PCI e, del resto, anche quando i reali termini del problema si mostreranno in tutta la loro drammaticità, si tar­derà molto ad uscire dalla semplice enunciazione di una lotta contro il restaurato blocco conservatore industriali-agrari, rimanendo troppo genericamente legati alla visione del sud come sintesi delle insufficienze del sistema capitalistico italiano e come massimo problema dello sviluppo nazionale, senza entrare nel merito di

38 L ’attenta analisi di Tarrow della struttura clientelare della DC nelle campagne era già stata preceduta da diverse denunce. Cfr. E rnesto Ro ssi, Viaggio nel feudo di Bonomi, Roma, 1965.39 5^r’ Stuart J. Woolf, Italia 1943-1950, cit., p. 397. G. Ciranna, Partiti ed elezioni in Basilicata nel secondo dopoguerra. I, in Nord e Sud, febbraio 1958.4“ C&- di Percy A. Allu m , Il Mezzogiorno e la politica nazionale dal 1945 al 1950, inStuart J. Woolf, op. cit. e Politics and society in post-war Naples, Cambridge, 1973.

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questo tipo di sviluppo. Nella linea di orientamento meridionalistico « democra­tico » questo problema viene invece espresso subito con estrema chiarezza: in Rossi-Doria l’esigenza di porre in primo piano il criterio di « produttività » è chiara, così come in Saraceno, attraverso la politica di « infrastrutture industriali » che, ponendo le basi di un aumento del reddito funzionale, di fatto, ad un am­pliamento del mercato per le industrie del nord, riconferma il ruolo di subordi­nazione dell’industria meridionale e la sua costante sottoutilizzazione. Ciò com­porta la tendenza a privilegiare il mercato estero eliminando così ogni illusione di piena occupazione e impedendo lo sfruttamento del mercato locale, per evitare qualsiasi concorrenza all’industria del nord 41. Da altra angolazione Ferrari Bra­vo riprende questa analisi, sviluppando la teoria del sottosviluppo come funzione dello sviluppo capitalista. L ’unica forma possibile di intervento al sud, compa­tibile con gli interessi del grande capitale, non può essere altro che la politica di sostegno al reddito meridionale, legata sempre al criterio di produttività e con l ’unico scopo di passare da una fase di autoconsumo a quella di « consumo ca­pitalistico ». Alla luce di questa analisi è chiaro che la ricostruzione non può che riproporre il modello dualistico, ovvio risultato di ogni programma di sviluppo capitalistico. Ma quando si riconosce che « al di fuori di una scelta esplicita di stagnazione, l’alternativa neppure si pone » 42 si finisce con lo sfuggire ad un preciso giudizio sull’azione e sulle scelte avanzate dalle forze di sinistra.

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42Cfr. Pasquale Saraceno, Ricostruzione e pianificazione, Bari, 1969. F. Ferrari Bravo - A. Serafini, Stato e sottosviluppo, cit., p. 25.