La società civile nella interpretazione gramsciana e oggi · in collaborazione con International...
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Libera Università popolare Reggio Emilia
Anno Accademico 2013-2014, I semestre – Corso di Scienza della Politica
SOCIETÀ CIVILE E MOVIMENTI SOCIALI NELLE SOCIETÀ POSTDEMOCRATICHE
in collaborazione con International Gramsci Society Italia
Sala G. Di Vittorio, Camera del Lavoro, Via Roma, 53 - Reggio Emilia, 2-12-2013 ore 17,30-19,30
SOCIETÀ CIVILE ED EGEMONIA IN GRAMSCI
Interviene: Guido Liguori, Presidente International Gramsci Society Italia
La società civile nella interpretazione
gramsciana e oggi
Guido Liguori
Ringrazio in primo luogo la Libera Università Popolare, e in particolar modo Guido
Giarelli e Lorenzo Capitani, per questo invito, che rinverdisce anche una antica
collaborazione della Igs Italia con Reggio Emilia e fa tornare alla mente un bel
convegno del dicembre 1997 su ‟Scuola, intellettuali e identità nazionale nel pensiero
di Gramsci‟ che si tenne qui a Reggio. Igs Italia, lʼassociazione di cui sono presidente
(potete vedere il sito www.igsitalia.org), sta per International Gramsci Society ed è
un libero network non istituzionale di studiosi di Gramsci di tutto il mondo: la nostra
è ovviamente solo la sezione italiana di questo network.
Il tema che mi è stato chiesto di trattare oggi è molto controverso e direi anche
delicato.
Controverso perché sul concetto di società civile vi è – nella storia delle
interpretazioni gramsciane – un passaggio complesso, dovuto al fatto che un grande
studioso come Norberto Bobbio attirò per primo (nel convegno internazionale di
Cagliari del 1967) lʼattenzione sul tema della società civile in Gramsci, dicendo molte
cose interessanti, ma anche confondendo non poco le carte e finendo per dare una
lettura di Gramsci che la critica successiva, quella più agguerrita, più legata a ciò che
Gramsci ha davvero scritto in unʼopera molto complessa come i Quaderni del
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carcere, avrebbe del tutto falsificato, per dirla con Popper, o – se si preferisce usare
un linguaggio scolastico – avrebbe “bocciato” del tutto.
Delicato perché è importante vedere da una parte cosa veramente ha scritto
Gramsci in merito, ma poi avere anche la capacità – se lo si ritiene mecessario e utile,
ovviamente – di vedere se e come la realtà che è di fronte a noi oggi sia la stessa sulla
quale rifletteva Gramsci negli anni Trenta. Avendo dunque con Gramsci lo stesso
rapporto aperto e non dogmatico, di sviluppo creativo, di traduzione, per usare un suo
termine, che egli ha avuto con Marx.
Io vorrei dunque qui oggi
1) ricordare brevemente lʼinterpretazione di Bobbio,
2) vedere cosa effettivamente dice Gramsci in tema di società civile nei
Quaderni del carcere;
3) abbozzare una riflessione per capire se la realtà che abbiamo di fronte oggi sia
la stessa che aveva di fronte Gramsci.
È chiaro che le tre questioni si intersecano, si intrecciano. Cercherò comunque di
mettere a fuoco questi aspetti.
Quella di Norberto Bobbio1 è stata a lungo l’interpretazione di Gramsci che più
ha influenzato, dopo Togliatti, la ricezione dell’autore dei Quaderni del carcere.
In seguito soprattutto alla lettura avanzata da Bobbio a metà degli anni ‘60,
infatti, Gramsci è diventato per molti addirittura il teorico della società civile.
Nella sua relazione cagliaritana del 1967 Bobbio sottolineava i motivi di
autonomia di Gramsci rispetto alla tradizione marxista: sia per Marx che per Gramsci
1 N. Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, Roma, Editori Riuniti - Istituto Gramsci, 1969, vol. I (da qui le citazioni che seguono). Bobbio ripubblicherà questo scritto nel 1976, in un volumetto presso l’editore Feltrinelli (nella collana «Opuscoli marxisti a cura di Pier Aldo Rovatti»), e poi in nella raccolta del 1990, presso lo stesso editore, dei suoi Saggi su Gramsci (Milano, Feltrinelli, 1990). Mi sia consentito il rinvio, per una trattazione storico-teorica più approfondita del rapporto di Bobbio con Gramsci, a due miei libri: Sentieri gramsciani, Carocci 2004, e Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Editori Riuniti university press 2012.
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– egli affermava – la società civile è il vero «teatro della storia» (la celebre
espressione dell’Ideologia tedesca)2.
Ma per il primo essa fa parte del momento strutturale e per il secondo di quello
sovrastrutturale; per Marx il «teatro della storia» era la struttura, l’economia, per
Gramsci la sovrastruttura, la cultura, il mondo delle idee.
Bobbio segnala non a torto la differenza tra i concetti di «società civile» in
Gramsci e in Marx: mentre Marx identifica la «società civile» con la base materiale,
con l’infrastruttura economica, «la società civile di Gramsci non appartiene al
momento della struttura, ma a quello della superstruttura»3.
Tuttavia, a partire da qui, Bobbio perveniva a una conclusione errata: mentre in
Marx la società civile (la base economica) era il fattore primario della realtà storico-
sociale, Bobbio suppone che la trasformazione effettuata da Gramsci sposti dalla
«struttura» alla «sovrastruttura» (e precisamente alla società civile) questa centralità.
Egli scrive: «In Marx, questo momento attivo e positivo è strutturale, in Gramsci è
superstrutturale»4. Gramsci era dunque per Bobbio soprattutto il teorico delle
sovrastrutture, nel senso che il momento etico-politico aveva nel suo sistema teorico
un posto fondante inedito rispetto a Marx e al marxismo. In tal modo Gramsci era di
fatto assimilato alla tradizione liberale. Il momento delle sovrastrutture, delle idee,
era il motore primo della storia.
Per costruire la sua tesi, però, Bobbio doveva assumere e dare per scontata una
lettura meccanica del rapporto struttura-sovrastruttura, dove la determinazione di uno
dei due termini diveniva determinazione forte e immediata dell’altro livello di realtà:
«teatro di ogni storia», appunto. La struttura, o la sovrastruttura, cioè, a seconda di
quale dei due termini era considerato più importante (in Marx o in Gramsci),
sembrava determinare completamente l’altro. Questa è però la posizione del
marxismo che Gramsci definisce «volgare», e che egli respinge. Sembravano cioè
non esservi più momenti insieme di unità e di autonomia, e azione reciproca, fra i
2 K. Marx, F. Engels, Lʼ ideologia tedesca [1946], Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 26. 3 N. Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, cit., p. 85. 4 Ivi, p. 86.
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diversi livelli di realtà, propri di ogni concezione dialettica, quale è la concezione di
Gramsci.
È indubbio che vi sia in Gramsci una forte rivalutazione della soggettività, della
politica, del momento del consenso (e per lui la «società civile» è – come vedremo –
il luogo in cui si crea il consenso). Ma questa rivalutazione delle sovrastrutture tipica
di Gramsci avveniva in un senso diverso da quello registrato da Bobbio: il tentativo
presente nei Quaderni di costruire una teoria delle sovrastrutture era pur sempre a
partire da Marx. Gramsci scrive ad esempio, nel Q 8: «il contenuto dell’egemonia
politica [...] deve essere di ordine economico» (Q 8, 185, 1053). Per Gramsci, e cito
sempre da Q 8: «la struttura e le superstrutture formano un “blocco storico”, cioè
l’insieme complesso e discorde delle soprastrutture sono il riflesso dell’insieme dei
rapporti sociali di produzione» (Q 8, 182, 1051).
Fissare correttamente questo punto è essenziale per valutare la posizione di
Gramsci rispetto al marxismo, così come il suo concetto di società civile: Gramsci
non nega le scoperte essenziali di Marx, ma le arricchisce, le amplia e le completa,
alla luce delle novità sociali e politiche proprie della realtà che ha di fronte.
In altre parole, si tratta di prendere le distanze da una lettura meccanica e
meccanicistica del rapporto struttura-sovrastruttura, lettura che invece Bobbio fa sua.
Si tratta di prendere le distanze – lo ripeto – da una concezione in cui la
determinazione di uno dei due termini (struttura o sovrastruttura) diverrebbe
determinazione forte e immediata dell’altro livello di realtà: «teatro di ogni storia».
Vi sono in Marx alcuni passaggi che indubbiamente inducono a questa
interpretazione deterministica, ma Gramsci ne privilegia altri e nei Quaderni dà
addirittura una lettura antideterministica di uno di questi testi di Marx, la Prefazione
del ʼ59, ovvero la Prefazione al Per la critica dellʼeconomia politica, scritta da Marx
nel 1859.
Il problema è che il pensiero di Gramsci è profondamente dialettico, quello di
Bobbio è di tipo dicotomico.
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Nei Quaderni del carcere, il concetto fondamentale di Gramsci non è la società
civile ma il «blocco storico». Il che vuol dire, in primo luogo, che la distinzione tra
Stato e società civile è di natura metodica e non organica. Sono molte le citazioni
possibili dai Quaderni, i passi in cui Gramsci torna sulla unità reale di Stato e società.
Una almeno va ricordata. È tratta da Q 4:
si specula […] sulla distinzione tra società politica e società civile e si
afferma che l’attività economica è propria della società civile e la società
politica non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà
questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita
storica società politica e società civile sono una stessa cosa. D’altronde
anche il liberismo deve essere introdotto per legge, per intervento cioè del
potere politico (Q 4, 38, 460).
Viene dunque meno in Gramsci la separazione rigida fra economia, politica e società.
Stato e società civile non sono realtà autonome, l’ideologia liberale che le dipinge
come tali è esplicitamente negata.
Ripeto: la distinzione rigida tra le sfere della realtà sociale per il marxismo
dialettico di gramsci è più apparente che reale. È da questa convinzione che nasce il
concetto, centrale nei Quaderni, di «Stato allargato» (o Stato integrale).
Cosa vuol dire Stato integrale o allargato?
Gramsci ha una concezione dialettica della realtà storico-sociale, nel cui quadro
Stato e società civile sono intesi in un nesso di unità-distinzione, per cui concepire
l’uno senza l’altro vuol dire negarsi la possibilità di leggere correttamente la realtà –
e pure i Quaderni del carcere.
Che senso ha l’assunzione di questa categoria di «Stato allargato»? Essa indica
due fatti:
- da un lato, accoglie il nesso dialettico (unità-distinzione) di Stato e società
civile, senza «sottostimare» alcuno dei due termini;
- dall’altro, indica contestualmente che tale unità avviene sotto l’egemonia dello
Stato.
Cioè che, fermo restando che non esiste una fagocitazione concettuale dell’un
termine da parte dell’altro, esiste però – nella realtà del Novecento su cui Gramsci
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riflette e che la sua teoria riflette – un protagonismo dello Stato che egli coglie, come
altri pensatori politici, marxisti e non marxisti.
L’«allargamento» del concetto di Stato avviene nei Quaderni in due direzioni:
a) la comprensione del nuovo rapporto tra politica ed economia, che Gramsci
individua come uno dei tratti peculiari del Novecento, riflettendo sul
«corporativismo» fascista, sulle esperienze dell’Unione Sovietica, sulla situazione
che ha fatto seguito al «crollo di Wall Street»: facce diverse di una stessa medaglia
che aveva iniziato a evidenziarsi almeno a partire dalla prima guerra mondiale.
Da notare che queste tematiche erano presenti nei dibattiti teorici della Terza
Internazionale come dell’austromarxismo già all’inizio degli anni Venti, quando
Gramsci ebbe a soggiornare prima a Mosca e poi a Vienna.
Rapporto nuovo politica-economia, ma non tale – per Gramsci – da inficiare la
tesi marxiana e marxista della determinazione «in ultima istanza» dell’economico;
L’«allargamento» del concetto di Stato avviene poi in una seconda direzione:
b) la comprensione del nuovo rapporto tra «società politica» e «società civile»
(intesa in senso propriamente gramsciano, come «luogo del consenso»), cui Gramsci
perviene mettendo a punto la sua teoria dell’egemonia.
È un rapporto, questo tra società politica e società civile, che inizia a mutare –
per Gramsci – già nell’Ottocento, per affermarsi pienamente nel secolo successivo.
Per il primo allargamento, cito un breve passaggio dal Q 10:
È certo che lo Stato ut sic non produce la situazione economica ma è
l’espressione della situazione economica, tuttavia si può parlare dello
Stato come agente economico in quanto appunto lo Stato è sinonimo
di tale situazione (Q 10 II, 41. VI, 1310).
Lo Stato, dunque, è «espressione della situazione economica».
Bisogna anche sottolineare come per Gramsci lo Stato incida profondamente
nella composizione di classe della società, ad esempio facendo diminuire o meno il
peso dei ceti parassitari con la sua politica finanziaria (Q 1, 135, 125).
Ma gli esempi potrebbero ovviamente moltiplicarsi, nel momento in cui lo Stato
entra direttamente nella «organizzazione produttiva». Qui vi è quasi una produzione
della società da parte dello Stato (elargitore di reddito, direttamente e indirettamente,
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per quote crescenti di popolazione, non necessariamente parassitarie, come invece a
Gramsci sembrava, all’altezza dell’Italia fascista degli anni trenta). Ciò rappresenta la
maggiore novità del rapporto Stato-società nel Novecento, prima che arrivasse la
rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan.
Veniamo alla seconda direzione in cui si realizza l’«allargamento del concetto di
Stato» proposto da Gramsci, quella per cui Gramsci è giustamente famoso. Cito qui
una lettera alla cognata Tania del 7 settembre 1931 (in realtà diretta a Piero Sraffa e a
Palmiro Togliatti: ma non abbiamo tempo di dilungarci nei rapporti complessi tra
tutti questi personaggi). Abbiamo in questa lettera una fotografia di rara efficacia di
questa scoperta teorica gramsciana. Cito:
Lo studio che ho fatto sugli intellettuali è molto vasto […] Questo studio
porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è
inteso come Società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per
conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia
di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la
Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intiera società
nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la
chiesa, i sindacati, le scuole ecc.) e appunto nella società civile
specialmente operano gli intellettuali5.
Studiando dunque storia e ruolo degli intellettuali, ed enucleando così la propria
teoria dell’egemonia, Gramsci è giunto a un nuovo concetto di Stato.
L'attenzione di Gramsci si appunta soprattutto, in questo ambito, sugli «apparati
egemonici», apparati che si aggiungono agli «apparati coercitivi», tipici dello Stato
strictu sensu, dello Stato ottocentesco, su cui si era appuntata l'attenzione di Marx e
anche di Lenin. Di qui discende l'importanza decisiva che Gramsci assegna agli
intellettuali, con un nesso intellettuali-Stato che vive anche di suggestioni hegeliane.
La «Società civile» è intesa come insieme di «organizzazioni così dette private».
Tornano sempre nei Quaderni alcune espressioni («organismi volgarmente detti
“privati”», «organismi così detti privati», l’uso delle virgolette nell’espressione «così
dette» che precede «private»... son tutti sono segnali e indicatori della massima
5 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996, pp. 458-9.
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importanza: essi ci dicono che per Gramsci tali apparati egemonici, apparentemente
«privati», fanno in realtà parte a pieno titolo dello Stato.
Ecco perché parliamo di «Stato allargato».
È importante sottolineare anche un altro aspetto: se gli organismi della società
civile gramscianamente intesa fossero «privati» tout court, si aprirebbe la strada a una
lettura «culturalista», «idealista», «liberale», alla Bobbio, di Gramsci, tendente a
enfatizzare l’importanza del «dialogo», ad esempio, o dell’habermassiano «agire
comunicativo», visti come slegati dai rapporti di forza: una visione ingenua della
democrazia e dell’egemonia.
Il fatto invece che tali organismi preposti alla formazione del consenso siano
incardinati dialetticamente nello Stato permette di dire che Gramsci sta proponendo
una lettura forte della morfologia del potere nella società contemporanea.
Un potere egemonico, in cui – ancora una volta, dialetticamente – nessuno dei
due aspetti (forza e consenso, direzione e dominio) può essere cassato. Un potere
egemonico il cui soggetto è la classe, un insieme di classi o gruppi sociali (come dice
Gramsci complicando il concetto di classe, ma non abolendolo) ma una classe o
insieme di classi subalterne che – per essere davvero egemoni – devono, per
Gramsci, «farsi Stato».
Se la nuova visione gramsciana viene dallʼosservazione del mondo a lui
contemporaneo, non si può sottolineare come il primo accenno di interpretazione
peculiarmente gramsciana di questa visione della società civile e del suo nesso
dialettico con lo Stato sia in rapporto esplicito con la Filosofia del diritto di Hegel.
La nota 47 del Quaderno 1, intitolata Hegel e l’associazionismo, pare essere il
primo luogo dei Quaderni in cui fa capolino una concezione dello Stato
comprendente anche gli «organismi» della società civile.
Essa recita:
La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata»
dello Stato. […] Governo col consenso dei governati, ma col consenso
organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle
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elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo
consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono
organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente
(Q 1, 47, 56).
Per Gramsci però «società civile» non è né la «struttura» intesa come la intende
Marx, né l'hegeliano «sistema dei bisogni», quanto piuttosto l’insieme delle
associazioni sindacali, politiche, culturali, generalmente dette «private» per
cdistinguerle dalla sfera «pubblica» dello Stato.
Gramsci – a partire da una lettura di Hegel che non è esente da forzature, a mio
avviso – sostiene fin dal Quaderno 1 che partiti, associazioni (e poi dirà scuole,
giornali, ecc., persino la toponomastica) costituiscono i momenti tramite i quali si
costruisce il consenso, si educa il consenso al sistema sociale dato.
Lo Stato è il soggetto dell’iniziativa politico-culturale pur agendo per mezzo sia
di canali esplicitamente pubblici, sia di canali apparentemente privati.
La capacità interpretativa di questo schema appare tanto più evidente oggi,
quando lo sviluppo dei mass media e la loro incidenza politico-culturale appare così
largamente riconosciuta: ai vecchi «apparati egemonici» come la scuola o la stampa
si sono infatti aggiunte – fondamentali nella creazione del senso comune (concetto
gramsciano fondamentale) – le televisioni, i mass media, terreno sul quale spesso la
distinzione netta di «pubblico» o «privato», di «politico» o di «economico», incontra
molte difficoltà.
(Abbozzo appena un tema di riflessione, sotto forma di domanda: in questo
quadro come si situa la rete, Internet: pubblica o privata? Apparato del consenso o
luogo di controegemonia?)
È il Quaderno 6 quello in cui si trovano alcune delle definizioni di «Stato
allargato» più pregnanti.
Il Quaderno 6 è datato 1930-1932. Vediamo alcuni brani su Stato e società
civile:
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Q 6, 87, 762-3:
l’iniziativa giacobina dell’istituzione del culto dell’«Ente supremo»,
che appare pertanto come un tentativo di creare identità tra Stato e
società civile, di unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi
dello Stato in senso organico e più largo (Stato propriamente detto e
società civile)6.
Q 6, 88, 763-4:
nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare
alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato =
società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di
coercizione).
Q 6, 136, 800:
organizzazioni e partiti «in senso largo e non formale» costituiscono
l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione
(o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato
governativo-coercitivo.
Q 6, 137, 801:
Concetto di Stato […] per Stato deve intendersi oltre all’apparato
governativo anche l’apparato «privato» di egemonia o società civile.
Q 6, 155, 810-1:
Nella politica l’errore avviene per una inesatta comprensione di ciò
che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia).
A questo punto dei Quaderni, dunque, Gramsci è pervenuto al concetto di «Stato
allargato» che descrive nella lettera a Tania del settembre 1931: società politica +
società civile, apparati governativo-coercitivi + apparati egemonici.
Vorrei qui richiamare l’attenzione sul termine «apparato egemonico», che
compare in Q 6, 136, 800, espressione che mi sembra di fondamentale importanza
perché rimanda alla materialità dei processi egemonici: non si tratta solo di «battaglia
delle idee», ma di veri e propri apparati preposti alla creazione del consenso.
6 Qui si parla di «identità tra Stato e società civile», e la società civile è senza dubbio da intendersi «in senso gramsciano».
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Al tempo stesso, va rimarcata la distanza di questa concezione gramsciana da
quella di Althusser degli AIS («Apparati ideologici di Stato»), probabilmente derivata
dai Quaderni, anche se in modo distorto: lo «Stato integrale» di Gramsci è
attraversato dalla lotta di classe, i processi non sono mai univoci, esso costituisce
anche il terreno dello scontro di classe. Scrive Gramsci (Q 8, 227, 1084): «C’è lotta
tra due egemonie, sempre».
Siamo distanti, dunque, da una teoria struttural-funzionalista: sia lo Stato che la
società civile sono attraversati dalla lotta di classe, la dialettica è reale, aperta, l’esito
non predeterminato. Lo Stato è insieme strumento (di una classe), ma anche luogo (di
lotta per l’egemonia) e processo (di unificazione delle classi dirigenti).
È possibile mettere in essere momenti di «contro-egemonia», è possibile per una
classe «già prima di andare al potere essere “dirigente” (e deve esserlo): quando è al
potere diventa dominante ma continua ad essere anche “dirigente”» (Q 1, 44, 41).
Come ha sottolineato Joseph Buttigieg7, dunque, la storia della società civile per
Gramsci è storia del dominio di alcuni gruppi sociali su altri, essendo la trama
dell’egemonia fatta sempre anche di subordinazione, corruzione, esclusione dal
potere, è storia di lotta di classe.
Gramsci non è il teiorico della società civile e ancor meno della autonomia della
società civile.
È importante sottolineare e ripetere che se vi è un momento di innovazione
teorica in Gramsci rispetto a Marx è soprattutto perché nel marxismo di Gramsci
irrompono le novità registrate nel rapporto tra economia e politica nel Novecento,
l’allargamento dell’intervento statale nella sfera della produzione, l’opera di
organizzazione e razionalizzazione con cui il politico si rapporta alla società e anche
la produce. Bolscevismo, fascismo, keynesismo, welfare state sono tutti esempi – sia
pure con le ovvie differenze – di questo nuovo rapporto tra economia e politica che
7 J.A. Buttigieg, Sulla categoria gramsciana di «subalterni», in G. Baratta, G. Liguori (a cura di), Gramsci da un secolo all’altro, Roma, Editori Riuniti, 1999.
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si afferma a partire dalla prima guerra mondiale e che costituisce rispetto al
capitalismo di Marx una novità enorme. Non solo l’economia viene – dalla fine
dell’Ottocento e poi sempre più nel corso del Novecento – sempre più invasa dalla
politica. Come ha scritto il politologo e sociologo brasiliano Marco Aurelio Nogueira,
«il politico dilaga, occupa molti spazi. La “politicizzazione del sociale” è seguita
dalla “socializzazione della politica”»8. Gramsci, in campo marxista, è fra coloro che
meglio colgono teoricamente e politicamente questo fenomeno.
Gramsci ha ridefinito il concetto di Stato, ma ha anche allargato il concetto di
politica. Se si separa società e Stato, politica ed economia, società e politica, in
qualsiasi direzione si voglia procedere, si è fuori del solco del suo pensiero.
La società civile è dunque in Gramsci un momento dello «Stato allargato», uno
spazio nel quale si determinano relazioni di potere, sebbene si tratti di uno spazio
dotato di autonomia relativa rispetto alla «società politica», vale a dire allo «Stato-
coercizione». Gramsci, pertanto, non accetta una posizione dualistica e manichea che
contrappone la «società civile» allo «Stato» (concepito come qualcosa di
intrinsecamente cattivo): la società civile non è omogenea, ma è uno dei principali
teatri della lotta tra le classi in cui si manifestano intense contraddizioni sociali. E la
società civile è un momento della superstruttura politico-ideologica, condizionata «in
ultima istanza» (come scriveva Engels) dalla base materiale della società e, in quanto
tale, non è in nessun modo una sfera situata – come si è sostenuto negli ultimi anni –
«oltre il mercato e oltre lo Stato».
Per Gramsci, non tutto ciò che fa parte della società civile è «buono» (in essa
non prevale la «legge della giungla»?) e non tutto ciò che viene dallo Stato è
«cattivo» (esso può esprimere istanze universali che si originano nella lotta delle
classi subalterne, può servire da diga contro lo strapotere dei «poteri forti», può
essere strumento atto a redistribuire risorse secondo criteri di giustizia).
Soltanto un’analisi storico-concreta dei rapporti di forza presenti in ogni
momento può definire, dall’angolo visuale delle classi subalterne, a cui Gramsci non
8 M. A. Nogueira, Gramsci e la nuova politica, in Critica marxista, 1997, n. 5-6.
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cessò mai di fare riferimento, la funzione e le potenzialità positive o negative tanto
della società civile come dello Stato.
Negli anni recenti ricordiamo che il neoliberismo trionfante aveva preso in mano
la bandiera della società civile contro la società politica, per liberare lʼiniziativa
economica privata dallʼimpaccio dei freni che a essa poneva il potere pubblico; per
far vivere la “legge della giungla”, la legge del più forte. Del più forte
economicamente, ma anche culturalmente e politicamente.
Per reagire a questo clima, credo che non sia oggi inutile polemizzare contro chi
fa oggi del concetto di “società civile” il centro del pensiero gramsciano, e il centro di
un possibile pensiero della sinistra nuova di cui avvertiamo il bisogno.
E soprattutto contro chi fa della società civile un concetto, un luogo sociale in sé
positivo, da contrapporre alla politica, ai partiti e allo Stato, in sé negativi.
Tutte le sfere della realtà storico-sociale sono attraversate dalla lotta tra soggetti
che, sia pure con molte complicazioni, introdotte in parte dallo stesso Gramsci,
possono ancora essere definiti classi sociali. O gruppi sociali, se vogliamo
evidenziare sia lʼelemento della complicazione sociale sia il fatto che sono
determinanti in una definizione marxista delle classi sociali elementi di tipo
sovrastrutturale.
Vi sono state ovviamente negli ultimi decenni molte novità. Vi è stata –
soprattutto in Europa e negli Stati Uniti – la cosiddetta «crisi fiscale dello Stato», cioè
la crisi del welfare, dello Stato sociale, per una mancanza di risorse – dovuta in realtà
al fatto che i «rapporti di forza» non permettevano alle classi subalterne di imporre
alle classi «egemoni» e «dominanti» una maggiore e migliore distribuzione del
reddito e delle risorse. È una crisi che viviamo tuttora.
Inoltre la mondializzazione ha portato a parlare in anni non lontani, con molta
esagerazione, di superamento del ruolo dello Stato. Il neoliberismo ha parlato
addirittura di superamento della politica. Vi è stato chi immaginava un mondo diviso
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non più in Stati, o in confederazioni di Stati, ma in aziende multinazionali: invece di
un passaporto – dicevano costoro – avremo solo la tessera della grande azienda
multinazionale per cui lavoreremo..
Di contro a questo attacco teorico, ma anche politico, allo Stato, la «società
civile» diveniva il nuovo «grido di battaglia» di molti protagonisti, anche diversi tra
loro, del dibattito culturale e politico. Essi tutti reclamavano una cosa: la fine dello
Stato, o almeno un forte passo indietro dello Stato.
Ma in nome di che cosa? A favore di che cosa?
In alcuni casi a favore del mercato, per quel che riguarda i teorici più
apertamente neoliberisti.
In altri casi, in favore dell’individuo. Avanzava il mito della “società degli
individui”, che non sarebbero più soggetti a determinazioni sociali univoche e
durature.
In altri casi ancora l’esaltazione della società civile avviene in nome di
associazioni prepolitiche o prestatuali.
La mia convinzione, allora, era che in realtà, in molti casi, lo Stato continuasse
invece addirittura a produrre la società.
Facciamo un esempio: le Ong vivono spesso proprio grazie al sostegno di fondi
pubblici. Sono non governative perché indipendenti dai governi? Ma da dove
prendono fondi? Anche se sono fondi di organismi internazionali, tali organismi
(Onu, Fao…) non hanno in pratica la funzione di mediazione rispetto agli Stati,
poiché i loro fondi sono fondi che vengono dai singoli Stati, e così via? Le Ong,
come tantissimi altri settori della società (gli insegnanti universitari, ad esempio, visto
che siamo in una università) dipendono dalla spesa pubblica. Sono in realtà il
prodotto, sia pure mediato, di soggetti politici statuali o sovrastatuali. Persino le
banche statunitensi che dominano Wall Street non si sarebbero salvate senza l’aiuto
di Obama: esse sono società civile, ovvero soggetti privati, perché continuano a fare
interessi dei loro azionisti, ma soggetto pubblico perché senza i soldi dello Stato non
si sarebbero salvate. Solo i «rapporti di forza» tra capitalisti e subalterni che
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determinano il salvataggio delle banche con soldi pubblici e poi il loro ritorno a
produrre utile per gli azionisti.
Sono solo rapporti di forza: chiaramente favorevoli alle classi dominanti,
almeno in questo esempio.
In ogni caso, il «ritorno alla società civile» è stata dagli anni 90, ed è ancora, la
parola d’ordine del neoliberismo: basta con lo Stato – in primo luogo con lo Stato
sociale, ovviamente –, lasciate fare alla società. Basta con la politica, basta con i
politici di professione, lasciate fare ai rappresentanti della società civile.
Sottolineo solo per inciso che in Italia questo tema è particolarmente scottante,
perché venti anni fa la “discesa in campo” di Berlusconi avvenne proprio all’insegna
del grido di battaglia: basta politici, arriva la società civile. Ovviamente la riduzione
dello Stato sociale, della spesa pubblica, era ai primi posti del suo programma.
Naturalmente vi erano, e vi sono, due versioni di questo «ritorno alla società
civile», o «ritorno della società civile», entrambe incentrate sulla critica del politico
ed entrambe rafforzate dal leit-motiv della globalizzazione.
Una versione di destra, che mette al centro del proprio universo gli «spiriti
animali del capitalismo», ed è chiaramente la versione neoliberista.
E una versione di sinistra, che vuole garantire i diritti e allargare la cittadinanza,
ma che – proprio nel momento in cui pone come centrali tali categorie – sposa una
visione propriamente liberale.
Nel senso che un tale orizzonte teorico ha comunque alla sua base, cioè si fonda,
su una concezione antropologica del soggetto che è una concezione inevitabilmente
liberale: l’individuo come prius, come ciò che viene prima del suo essere in società,
e per questo è portatore di diritti.
Mentre Marx (sulla scorta di Hegel), e il marxismo, e Gramsci, hanno un’altra
concezione dell’individuo, fondamentalmente relazionale, in cui l’individuo non va
negato ma considerato nel suo fondamentale e insopprimibile essere-in-relazione con
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gli altri, e dunque parte di precisi contesti socio-culturali: i «gruppi sociali» di cui
ognuno fa parte.
Come è noto, trasformismo è unʼaltra categoria gramsciana che indica le
trasformazioni opportunistiche che le élite politiche fanno per conservare il potere, è
uno degli aspetti dellʼoggi, che ancora continua oggi. Insieme al trasformismo, si
afferma un modo di fare politica sempre più corrotto, moralmente riprovevole.
La corruzione prende il posto degli ideali politici e della rappresentanza degli
interessi sociali.Tutto ciò allontana la gente dalla politica. Ma è un errore: in questo
modo si butta via il bambino con l’acqua sporca. Si rinuncia non solo alla cattiva
politica, ma anche alla politica tout court.
Si dimentica che una società politica corrotta è sempre espressione di una
società civile anche essa dominata dagli egoismi, dalla mancanza di solidarietà, dalla
lotta di tutti contro tutti. I soggetti in campo, che si affrontano, non sono la società
civile versus lo Stato, ma soggetti e gruppi sociali che si combattono.
Quando tale combattimento prende l’aspetto della lotta della società civile
contro la società politica, è perché le forze del cambiamento non sono abbastanza
forti da proporre un progetto politico complessivo. Ma se esse cresceranno e vorranno
davvero conquistare l’egemonia, non potranno che lanciare un progetto politico e
culturale rivolto a tutta la società. Dunque, dovranno portare la lotta dentro lo Stato,
dentro le istituzioni statali, sia politiche che del consenso.