La Seduzione

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8/17/2019 La Seduzione http://slidepdf.com/reader/full/la-seduzione 1/116 L’IPPOGRIFO  LaTerra vista dallaLuna  In questo numero: La seduzione Doveri di cittadinanza •••••••••••••••••••••••••••••• ••••••••••••••••••••••••• Estate 2006

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L’IPPOGRIFO LaTerra vistadallaLuna

 In questo numero:

La seduzioneDoveri di cittadinanza

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Estate 2006

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EDITORIALE3 Parvenze di seduzione

di Piervincenzo Di Terlizzi  5  L’intelligenza

e la passionedi uno psichiatradi Sandra Conte

LA SEDUZIONE

7  Metamorfosi della seduzionedi Lucio Schittar 9 La solitudine delle sirene

di Marina Giovannelli 14 La seduzione è un “vestito” che non

riusciamo o non possiamo più toglierci?di Teresa Santin

17  Così fan tuttedi Piero Feliciotti 

23 Amarne tante pur di non amarne nessunadi Orfeo Verdicchio

26  Mozart, o la musica come seduzionedi Ettore Perrella28  Don Giovanni e il lavoro post-fordista

di Marco Cerri36  Un Gesù “seducente”?

di Livio Corazza38  Stefania e le altre

di Piervincenzo Di Terlizzi 40  La seduzione del Bene

di Luigi Piccoli 41 La seduzione di una voce sovversiva e stonata

di Patrizia Gilli e Moreno Blascovich

43 C’era una volta un lupo seduttoredi Francesco Stoppa47  La seduzione del male come “cupio dissolvi”

di Camilla Guaita 51 Far posto all’altro

di Claudia Furlanetto 56  La seduzione dello spirito

di Margherita Venturelli  58  Sulla seduzione una seducente ipotesi

di Martino Giuliani 59 Tecniche di seduzione

di Franco Luchini 60  Sguardi e bacidi Carlo Pontesilli 

62 Seduzione e psicopatologiadi Alessandro Vegliach

SOMMARIO

L’IPPOGRIFO LaTerravistadallaLuna

66  Vecchiae Nuova Seduzionedi Massimiliano Santarossa

DOVERIDI CITTADINANZA

70  Tra doveri e diritti,tra domanda e rispostadi Fabio Fedrigo

72 Educare la domandache viene dalle famigliedi Fulvio Tesolin

75  Il «Dopo di noi» per i figlidi Vittorina Rinaldi 

77  La partecipazione dei pazientie delle associazioninelle scelte della salute mentaledi Tali Mattioli Corona

78  Comunità e famiglia,quale punto d’incontro?di Davide Natta

81 Il mondo di Silviadi Marisa Anastasia83 Come aggiungere vita agli anni

di Gian Luigi Nicolosi 86  La domanda di scolarizzazione

di Massimo Riccetti 88  I malati di demenza, i famigliari

e gli operatori dei servizidi E. Naibo, G. Pavan e R. Tonus

FORMAZIONE93 Dentro o fuori

di Paola Zaretti 98  Raccontarsi per conoscersi

di Chiara Schifilliti e Patrizia Zanet

L’ORCOLAT102 Alle nove della sera

di Carlo Sgorlon105  Dopo il terremoto nulla è più come

prima di Giacomo Miniutti 

LIBRI107  Rapporti tra poesia, musica e cinema

di Manlio Piva109 Omaggio insolito a Dario Bellezzadi Christian Poccia

110  Lesa maestàdi Francesco Maria Di Bernardo-Amato

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Libreria al Segno Editrice

Questa pubblicazione è promossadall’Associazione «Enzo Sarli»,via De Paoli, 19 - 33170 Pordenone.

Coordinamento editorialee di redazioneMario S. Rigoni,Francesco Stoppa,Patrizia Zanet.

RedazioneFlavia Conte,Fabio Fedrigo,Piervincenzo Di Terlizzi,

Roberto Muzzin,Lucio Schittar,Silvana Widmann.

Progetto graficoe impaginazioneStudio Rigoni.

VideoimpaginazioneGianluca Betto.

StampaTipografia Sartor - Pordenone.

Stampato nel mesedi luglio 2006

Vicolo del Forno 233170 Pordenone

Telefono 0434 520506Fax 0434 21334

Copyright© del progetto editoriale:

«L’Ippogrifo» by Studio Rigoni.È vietata la riproduzione, senza citarne la fonte.Gli originali dei testi, i disegni e le fotografie,non si restituiscono, salvo preventivi accordicon la Redazione. La responsabilità dei giudizie delle opinioni compete ai singoli Autori.

Hanno collaborato a questo numero:Marisa Anastasia, assistente sociale.Moreno Blascovich, psicoanalista.Marco Cerri, sociologo.Livio Corazza, direttore Caritas diocesana, Pordenone.Francesco Maria Di Bernardo-Amato, medico e poeta.Sandra Conte, presidente Associazione «Enzo Sarli».Tali Mattioli Corona, presidente Aitsam.Piero Feliciotti, neuropsichiatra infantile.Claudia Furlanetto, insegnante.Patrizia Gilli, psicoanalista.Marina Giovannelli, insegnante e scrittrice.Martino Giuliani, pubblicitario.Camilla Guaita, ricercatrice universitaria.Franco Luchini, già Provveditore agli Studi.Giacomo Miniutti, geometra.Emanuela Naibo, assistente sociale.Davide Natta, educatore.

Gian Luigi Nicolosi, cardiologo.Giuseppina Pavan, psicoterapeuta.Ettore Perrella, psicoanalista.Luigi Piccoli, presidente cooperativa sociale.Manlio Piva, docente Dams, Università di Padova.Christian Poccia, giornalista.Carlo Pontesilli, autore e regista.Massimo Riccetti, preside.Vittorina Rinaldi, educatrice.Massimiliano Santarossa, redattore.Teresa Santin, psicoterapeuta.Chiara Schifilliti, tecnico della riabilitazione.Fulvio Tesolin, psichiatra.Renato Tonus, assistente domiciliare.Alessandro Vegliach, psicoterapeuta.Margherita Venturelli, bibliotecaria.Orfeo Verdicchio, psicoanalista.Tamara Zambon, illustratrice.Paola Zaretti, psicoanalista.

Sostengono la pubblicazione de «L’Ippogrifo»:Azienda per i Servizi Sanitari n. 6 «Friuli Occidentale»e Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone.

Comune di Pordenone.Coop Acli, Cordenons.Coop Fai, Porcia.Coop Service Noncello.Coop Itaca, Pordenone.Licei riuniti «Leopardi-Majorana», Pordenone.

Un particolare ringraziamento a Michele Rigo per il suo prezioso contributo.

Per inviare contributi, riflessioni e impressioni, scrivere a:Redazione «L’Ippogrifo» c/o Studio Rigoni, viale Marconi, 3233170 Pordenone. Telefono e fax: 0434 21559.E-mail: [email protected] [email protected]

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 In letteratura, nell’arte,nella psicanalisi, nei rap-

 porti quotidiani, la sedu-zione è una forza che agi-sce in ogni ambito dell’esi-stenza, che in ogni ambitoè rappresentata. Come tut-te le forze elementari (ele-mentari nel senso checompongono l’alfabeto di base dell’esperienza uma-na), la seduzione attraver-sa le persone indifferente-mente da ceti e culture, etàe convenienze.

 La sua matrice, per quan-

to esplorata da secoli di ri- flessioni, risulta in defini-tiva indicibile; è vero, tut-tavia, che, essendo l’uomoincline al desiderio, e laseduzione manifestandosi nell’accensione del deside-rio, si son potute delinearedelle casistiche di seduzio-ne, finanche dei manuali,a partire dall’accorta ma-nipolazione della disposi-zione desiderante dei sin-goli o delle masse. E tutta-via questa è seduzione di secondo grado, imitazionedella forma primaria, ri-

cettario retorico, caso mai buono comemonito, per avvertirci delle tante, troppeoccasioni nelle quali, presi individual-mente o in gruppo, cediamo le istanze

della vita autentica per una più comoda pantomi-ma della medesima. La se-duzione vera si offre sem-

 pre nell’esatto contrario di quella sua mercantile cari-catura che è il discorso

 pornografico, basato sul-l’innesco pavloviano ; co-me nella citazione in eser-go a queste brevi note), es-sa spiazza le sicurezze, de-struttura i sentieri sicuri della fantasticheria forzo-sa – quella che chiamerei il “disimmaginario” – per 

rimettere, con atto eversi-vamente politico, l’imma-ginazione al potere.Nella sua sostanza, la se-duzione è un colpo di spu-gna, un’abrasione fulmi-nea e irriguardosa su cu-muli di abitudini e di esperienze. Quello che c’e-ra prima, semplicemente,non basta più, non ha lostesso gusto; ne scatta una

 forma d’abiura, il deside-rio subitaneo per qualcosadi altro che attrae con in-defettibile forza.

 La seduzione priva delle

 proprie abitudini, priva di sé: il sedottoaspira a farsi parte di un universo deter-minato dall’oggetto della propria accen-sione, e di qui si spiega la dirompente

EDITORIALE

Parvenzedi seduzione

Piervincenzo Di Terlizzi

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Quando l’orologio segnò lenove e mezza, la ragazza si alzòdal letto, raccolse i suoi vestitiche erano caduti a terra, e len-tamente, senza fretta, li indos-sò. Sempre disteso, appoggiatoal gomito, con la coda dell’oc-chio guardavo i suoi movimen-ti. Metteva gli indumenti a unoa uno, con la snella morbidez-za di un uccello in inverno,senza fare un gesto di troppo,tranquilla e silenziosa. Tirò sula cerniera della gonna, abbot-tonò tutti i bottoni della cami-cetta cominciando dall’alto, eper finire si sedette sul letto e siinfilò le calze di nylon. Poi miposò un bacio su una guancia.Ci sono tante ragazze che san-no svestirsi in maniera sedu-cente, ma quelle capaci di se-durre vestendosi sono pochis-sime. Quando ebbe finito rac-colse con una mano i capelli,come per tirarli su, e nella stan-za sembrò che qualcuno avessecambiato l’aria. (Da:  La finedel mondo e il paese delle mera-viglie di Haruki Murakami).

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Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), Beatrice incontra Dante ad una festa nuziale e gli nega il saluto (1855).

implicazione politica di questaforza. Valore politico che ineri-sce, prima di tutto, la messa incrisi della struttura più intima-mente politica della società oc-cidentale: quella del dominiomaschile, tutto volto ai risultatied invece, nel gioco seduttivo,tutto inclinato a godere di undifferimento e delle sue poten-zialità (è il potere seduttivo del-la Beatrice dantesca: «Unosguardo, quello di Beatrice,cioè tre volte niente, un batterdi palpebre e il cascame squisi-to che ne risulta: ed ecco sortoquell’Altro che non dobbiamoidentificare che al godimento di

lei, che lui, Dante, non puòsoddisfare, perché da questa edi quello egli non può avere chequesto sguardo, questo ogget-to, ma di cui egli enuncia cheDio la colma; ed è dalla boccastessa di lei che egli ci provoca ariceverne assicurazione» – esat-ta focalizzazione di Jacques La-can, suggerita dal ricordo delcompianto Flavio Gallio.Eppure, alla ragione – certo:dopo – si apre sempre un var-co, come sempre nella giornatadi ciascuno si aprono dei var-chi – che follemente occupia-mo, anziché lasciarci illumina-re dalla forza dei momenti di

noia – e la seduzione può esse-re, in qualche modo, contem-plata. Magari, prima che la re-torica dell’azione orienti la for-za della seduzione verso solu-zioni d’accatto.Una sorta di contemplazione“pubblica” della seduzione(utilissima dunque e inefficace)vuol essere questo numero de«L’Ippogrifo». Il quale presen-ta, in apertura, un ricordo diEnzo Sarli a venti anni dallascomparsa, ed una nuova ru-brica di approfondimento, ches’intitola Doveri di cittadinanza,e che viene dedicata al rappor-to tra servizi sociali e cittadini.

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 La redazione de «L’Ippogrifo» ha chiesto aSandra Conte, presidente dell’Associazione

 per l’Integrazione Sociale «Enzo Sarli», di ri-cordare a vent’anni dalla sua morte, Enzo Sar-li. Insieme a Lucio Schittar a cui era subentra-to all’inizio degli anni Ottanta, Sarli è statoun po’ il padre fondatore dei Servizi di salutementale di Pordenone. La sua visione clinicae politica, il suo stile aperto e determinato

hanno lasciato un segno profondo e duraturonelle pratiche di quanti hanno avuto la fortu-na di lavorare con lui, ma anche nell’imposta-zione generale del servizio, contribuendo inmaniera decisiva a dare forma ad una moda-lità pordenonese di approccio ai problemi del-la sofferenza psichiatrica.Enzo Sarli è stato anche Segretario nazionaledi Psichiatria Democratica.

Certi incontri nella vita sonoimportanti, determinanti. «Seiil nuovo medico?». Una facciada napoletano vispo, unosguardo vivace, una brillanteintelligenza, ottima cultura,grande cordialità e un cuoregrande così.Dopo mezz’ora avevo la sen-sazione di conoscerlo da sem-pre e per dieci anni ho avutol’onore, il piacere di lavorarecon lui. Siamo diventati amicie oltre l’amicizia ci ha legatouna visione del mondo comu-ne, una voglia di cambiamen-to personale e collettivo (erala fine degli anni Settanta).Ho imparato molto da lui pro-fessionalmente, umanamente,

politicamente. Ciò che hacontraddistinto Enzo è statala capacità di mettere insiemeintelligenza, cuore, passionepolitica, amicizia, curiosità in-tellettuale, rispetto per tuttidall’ultimo degli ultimi (pove-ri e pazzi) ai colleghi e amici.Sapeva confrontarsi con lepiù belle intelligenze del mo-mento, con i potenti, con la

stessa affabilità, lo stesso ri-spetto, la stessa attenzioneche aveva per i pazienti piùdifficili. Aveva la capacità di

sdrammatizzare “alla napole-tana” ogni situazione trovan-do sempre l’aspetto simpati-co, ironico, della situazione,diceva: «Fai le cose seriamen-te senza prendere tutto trop-po sul serio» (soprattutto sestessi). Guardava avanti, pre-correva i tempi, aveva fretta.A distanza di tanto tempo miviene da pensare che i suoi so-li quarant’anni erano già unavita piena, densa di esperien-ze; sembrava più vecchio ditutti noi, spesso coetanei, enello stesso tempo mantenevala freschezza del bambino checontinua a meravigliarsi e aessere curioso di tutto.Vent’anni fa siamo rimasti

senza la sua presenza fisicama in ognuno che lo ha cono-sciuto da vicino è rimastodentro un pezzo di lui e nonsolo come ricordo ma comeparte integrante di sé. Era en-trato nelle nostre vite e avevalasciato il segno.A distanza di tanti anni il suonome fa aprire ancore molteporte. Ho il piacere di presen-

ziare l’Associazione che portail suo nome e spesso mi capitain molti ambienti di incontra-re qualcuno che mi dice: «Sa,

l’ho conosciuto ed era ungrande, di cuore oltre che ditesta». I pazienti lo hannoamato, i colleghi, gli amici, lafamiglia, i concorrenti politi-ci, pure quelli avevano ungrandissimo rispetto per lui(aveva una capacità specialedi farsi amare da tutti).Cosa mi manca di Enzo oggi?Vorrei che fosse qui per ripor-tare quell’entusiasmo, quellasua capacità di leggere i feno-meni sociali e politici, istitu-zionali, a trecentosessanta gra-di. Questa epoca così diversada allora, quasi un altro mon-do, ha bisogno di uomini,donne “completi” come lo eralui: il suo «personale è politi-

co», la sua grande umanità neirapporti. Medico in quantoaveva a cura il suo prossimo,psichiatra in quanto curiosodelle cose dell’anima, politicoin quanto attento ai fenomenisociali, ma anche amico inquanto riconosceva semprenell’altro un valore. Ha amatomolto la sua famiglia, la mo-glie, i figli. Oggi sarebbe uno

splendido nonno; di lui, i ni-poti potranno esserne fieri.

Sandra Conte

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L’intelligenza e la passione di uno psichiatra

 Ricordo di Enzo Sarli 

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La seduzione (parola che deri-va dal latino secum ducere,“condurre con sé”) rappresen-ta una vera arma sociale, usataper avere potere su una perso-na. Spesso sono donne a sedur-re uomini (magari senza farlocapire all’inizio), più spesso so-no uomini a sedurre donne,pensando di farlo per ragionidi attrazione sessuale, mentreoggi sappiamo che nel giocoseduttivo spesso ciò che reci-procamente attira non è l’ap-parenza esterna ma, anche in-consciamente, il potere o ilsuccesso sociale di una perso-na. Troviamo forse la più anti-ca descrizione di seduzionenell’Odissea: la maga Circe,“specialista” in seduzione, tra-sforma in maiali i compagni diUlisse; dopo averli blanditisomministra loro una pozionea base di alcol. È possibile chetutto il racconto abbia un in-tento moraleggiante: l’alcoltrasforma gli uomini in maiali;oltre a cambiare il loro aspet-to, fa che essi preferiscano lemollezze, e fa sì che essi per-dano il loro comportamentovirile. Non per caso i romanidistinguevano tre stadi nell’u-briachezza, di cui il peggioreera il terzo, tamquam sus (co-me un maiale), che cercava didescrivere com’è una personaquando beve troppo vino, evomita, eccetera.Ma l’epitome della seduzione èil Don Giovanni , opera di Mo-

zart su libretto di Lorenzo DaPonte; anch’essa non nascondeun intento moraleggiante, eaveva come sottotitolo Il disso-luto punito (recentemente è

stata rappresentata una paro-dia moderna del Don Giovanni col sottotitolo  Il dissoluto as-solto). Alla fine Don Giovanniviene trascinato all’Inferno perle sue varie colpe, compresol’omicidio del padre di DonnaAnna. Ebbene, ciò che ci col-pisce anche oggi, oltre alla mu-sica di Mozart e alle sue arie, dicui alcune sono diventate pro-verbiali (penso a Là ci darem lamano), è la consapevolezza chenella seduzione alla fine gover-nano le emozioni, che godonodi uno statuto privilegiato e diregole ambivalenti («Vorrei enon vorrei» dice Zerlina, di-mostrando la sua incertezza difronte alla prospettiva di unrapporto sessuale con DonGiovanni). Oggi nei media èenfatizzato soprattutto l’ap-porto delle emozioni: nelladanza, nella reciproca cono-scenza, nei rapporti interper-sonali vengono evidenziate so-prattutto le emozioni superfi-ciali, assai poca parte vi ha laragione, e la parte emotiva di-viene oggetto di spettacolo, al

quale assistono turbe di spetta-tori, che cercano di capire co-me si deve vivere guardandodal divano i loro nuovi inse-gnanti*. Nell’opera di Mozartvi è anche l’eco di quello stori-co privilegio dei signorotti lo-cali (lo  jus primae noctis) checoncedeva loro come un dirit-to la prima notte di nozze diuna loro dipendente.Nel  Don Giovanni  il protago-nista ad un certo punto ricorread un argomento che sembre-rebbe “non pertinente”. Inuna sua aria egli canta: «Iocangerò tua sorte»; fa cioè in-tendere a Zerlina di aver tantopotere da riuscire a cambiareil suo destino. Insomma, già aitempi di Mozart si riconosceche la seduzione può avere deifini diversi dalla conquista ses-suale. Per i materialisti in fon-do è il denaro che una perso-na possiede a qualificarla sulpiano sociale, e quindi la se-duzione può non riguardarele attrattive visibili e riguar-dare invece altre cose: la posi-zione sociale appunto, o lagiovinezza (come succede an-che ne  Les liaisons dangereu-ses), o persino, senza render-sene conto (in modo non in-conscio, ma sconosciuto), unparticolare profumo naturaleemanato dal corpo.La seduzione per soli motivisessuali in realtà è una cosa og-gi considerata “di vecchio ti-po”, definita in passato “una

conquista”, che serviva soprat-tutto a rinforzare l’autostimadel seduttore, per confermar-gli di essere ancora desiderato.Oggi la seduzione appare cer-

LA SEDUZIONE

Metamorfosidella seduzione

Lucio Schittar

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Nella pagina precedente:Henri Marie de Toulouse-Lautrec(1864-1901), La toilette (1896).

Parigi - Museo D’Orsay.

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tamente più facile; più facile èevitarne le conseguenze “sgra-dite”, prima fra tutte una gra-vidanza (si pensi alla diffusio-ne dei farmaci anticonceziona-li); rispetto ad un tempo le re-gole sanitarie sono più cono-sciute (ciò riguarda soprattuttole possibili malattie), e certistereotipi in prevalenza sociali(come la perdita della vergi-nità) sono assai meno temuti.In compenso, almeno in Occi-dente, le differenze fra i sessivanno diminuendo (anche se aparere di molti non abbastanzavelocemente), le donne in al-cuni Paesi riescono ad accede-re ai piani più alti dell’econo-mia, e il bisogno di dominaregli uomini con la seduzione(unica arma in mano anche alledonne per molto tempo) lenta-mente diminuisce, mentre pro-gressivamente le differenze tragli umani emergono come dif-ferenze soprattutto d’intelli-genza. Certamente, la seduzio-ne è tanto più frequentementetentata quanto più sono dispa-

ri le opportunità fra i sessi.Oggi sicuramente la seduzionenon ha più il senso di un tem-po. Persino in Lolita HumbertHumbert, che all’inizio pensa-

va di essere lui il seduttore del-la ragazzina, e che percorre unlungo itinerario sociale per ac-costarsi a lei, alla fine viene dalei sedotto. La giovinezza dellapartner è di sicuro un forte ar-gomento (si pensi alla danza ri-volta ad Erode dalla giovanissi-ma Salomé), ma poi si scopreche i cosiddetti “segnali infan-tili” (occhi grandi, volume delcranio pronunciato: come inMarilyn Monroe) sono impor-tanti nella scelta inconscia, al-

meno alla pari dei “segnali ma-terni” (gambe lunghe perchéviste dal basso, seni accentuati,eccetera). Possiamo ipotizzare,come affermato in un recentenumero della rivista «Elle», chenel futuro prossimo ci sarà unvistoso incremento dell’attivitàsessuale, poiché le donne, conl’età (che, non dimentichiamo-lo, va aumentando) si sarannoaffrancate dalle loro paure, e inparticolare dai fantasmi delcontrollo materno, peraltrosempre presenti. Ma questo infondo c’interessa di meno. Piùimportante è considerare che sipuò esser sedotti da molte altrecose che non siano la disponi-bilità, la bellezza, la giovinezza,il potere, il successo: per esem-pio si può esser sedotti da unacorrente filosofica, da un mododi vedere il mondo, eccetera (inrealtà il calcolo delle possibilitàdi seduzione è quasi senza fi-ne). La storia dell’umanità havisto progressivamente cam-biare il significato della sedu-zione: da un significato solo

sessuale a un mutamento delmodo di vedere, cui hanno ap-portato il loro contributo lapsicologia, la scienza antropo-logica e la demografia.   ■

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* Non solo la televisione inse-gna a chi la guarda, ma ancheInternet si assume questo pe-santissimo onere: sul computerè possibile trovare la pubblicitàdi manuali di seduzione “perlui” e “per lei”. Si trovano le pa-gine di un Seminario di seduzio-ne che vuol rispondere, fra le al-tre, a queste domande: «Ti sen-ti poco interessante o poco at-traente? Hai l’impressione chegli altri non ti considerino nellagiusta misura? Vuoi miglioraredefinitivamente la tua vita senti-

mentale e sociale?» ecc. Nonsolo, ci sono corsi di seduzioneper chi fa attività politica, peraiutare a convincere gli elettori.

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Quando i marinai per improv-visa vertigine di spazio o permiraggio da accecante lucemediterranea non avevano piùsicura nozione del mare e av-vertivano qualcosa d’indistintoma anche di straordinariamen-te seduttivo, sapevano per cer-to d’essere sul punto di per-dersi: di lì a poco avrebberoudito il canto delle Sirene.Forse qualcuno riusciva a cam-biare velocemente la rotta del-la sua imbarcazione e si salva-va, forse già si abbandonava alsempre più preciso e ineludibi-le richiamo della voce che daun remoto scoglio irradiava. Sidice che attorno a quello sco-glio si ammucchiassero ossa dinaviganti naufragati nel tenta-tivo di raggiungere quel canto,quella parola. Inusitato fascino, quello della vo-ce, né si può argomentare che i marinai ritenes-sero di incontrare dietro alla bella voce una bel-la forma. Niente, se non illazioni di interpretiposteriori agli eventi, suggerisce che la bellezzadelle Sirene costituisse il vero motivo della se-duzione. Ma si trattava solo del suono, del tim-bro incantevole del doppio flauto o della lira odel nitido arpeggio della cantatrice ad attrarreirresistibilmente i marinai o c’era qualcosa dipiù, qualcosa di ignorato e segreto in ciò che es-se andavano cantando? Musica e parole eranotutt’uno per i greci. E allora, che cosa dicevanole Sirene che in realtà nessuno doveva sentire,pena la perdita di sé? A chi e a che cosa si indi-rizzava l’interdetto?Circe amava Odisseo e volle consentirgli l’a-scolto del canto delle Sirene senza correre ri-schi col noto stratagemma della cera per i suoicompagni e della fune che legava lui stretta-

mente all’albero dell’imbarcazione. Ma con leorecchie bene aperte. A che scopo? Che tipo didono, perché di dono e di privilegio si trattòcertamente, fu mai quello? Piantata davanti al-la rocca di Tebe, la Sfinge proponeva con esa-

sperante monotonia un indo-vinello, al quale Edipo diede sìuna soluzione che gli aprì leporte della città, ma che forsenon era proprio la rispostagiusta, dal momento che loportò alla mis-conoscenza disé e alla rovina1.La Pizia, a Delfi, seduta su untripode sopra la spaccatura diuna roccia da cui esalavano va-pori inebrianti, vaticinava am-bigui responsi che andavanopoi ricomposti e interpretatida chi li ascoltava, con tutte leprobabilità di fraintendimentoche questo comportava. Qual-cuno sostiene che le Gorgoniavessero voce simile al flauto,acutissima, ma non si sa checosa dicessero (né se i loro fos-sero propriamente discorsi).

Anche le Esperidi cantavano con voce melodio-sa, ma che cosa? Queste difficoltà di decifrazio-ne delle parole pronunciate da alcune figurefemminili della mitologia preolimpica hannofatto dire che il compito che il dio (Apollo) ave-va assegnato a Pizie e Sibille era quello di nonpermettere di «penetrare l’oscuro. Non [far]mangiare del frutto dell’albero del bene e delmale»2. Non si trattava dunque di indicare agliuomini la via della verità ma al contrario diconfonderli, di distoglierli da questa.Anche ammettendolo, ma consentendo solo apatto di avere ben presente che l’oracolo diDelfi era votato al culto di Era prima che adApollo, e questi le subentrò nel potere con laviolenza, le Sirene comunque non si esprime-vano con le stesse modalità: con prerogativeanaloghe a quelle delle Muse, anche se dalleMuse erano state un tempo sconfitte e ne ave-vano avute strappate le ali per punizione (ma

questo significa solo che erano più antiche del-le Muse stesse)3, con capacità dunque di me-moria, conoscenza e mantica, le Sirene inveceparlavano chiaro, solo che le loro parole dive-nivano così compromettenti che era meglio

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La solitudine delle sirene

Marina Giovannelli

Potrai ascoltare con viva gioiala voce delle due Sirene.

Omero, Odissea, libro XII

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non udirle per niente. Dove stava il problema?Figlie di Archeloo (o di Forci), a sua volta figliodi Teti e Oceano, dunque dio acquatico, un uo-mo barbuto con corna di toro o antenne digranchio, con la parte inferiore del corpo similea un pesce serpentiforme, le Sirene erano natedalle gocce delle ferite che il padre si era procu-rato combattendo contro Eracle per Deianira,nascita simile a quelle delle Erinni (Gea fu fe-condata dal sangue dello sposo Urano ferito).Della madre non si è certi, pare si trattasse diSterope oppure di Ctonia (Gea). Imparentate(per via di Forci) alle Arpie, avevano formad’uccello con testa umana e mammelle e brac-cia di donna. La parte inferiore poteva esseremodellata anche a forma di uovo, come i cigni,e in questo ricordavano le Graie, le vecchie fan-ciulle, una delle quali si chiamava Penfredo,cioè vespa, la cui particolarità (di nuovo) era diemettere un verso particolarmente acuto.Oltre all’affinità con le Gorgoni a ragione dellavoce, ne presentavano una singolare con laSfinge perché gli artigli che avevano al postodei piedi erano a volte fortissimi e ricordavanole grinfie di un leone.A ben vedere la somiglianza più inquietante trale Sirene e le altre divinità menzionate riguardail loro essere plurali . Si trattava infatti di esseriche, ad esclusione della Sfinge, non si presenta-vano individualmente agli umani, ma in grupposolidale, in congrega, fatto che induce a ulterioririflessioni sul terrore che incutevano in chi le in-contrava. Erano, tutte loro, ritenute monstra, siaper le sembianze tra il ferino e l’umano, sia perl’aura di terribilità che le avvolgeva. Ci volevaun dio o almeno un eroe particolarmente forte oparticolarmente astuto per sconfiggerle, un uo-mo qualunque non aveva speranze di riuscirci.I migliori usavano l’astuzia per smantellare il si-stema difensivo di donne sole o di un gruppo,ma il modo più frequente e più sicuro per vin-cere una donna nell’antichità (oh, solo nell’an-tichità) era quello di sottometterla sessualmen-te, anche con la forza. La mitologia pullula distupri e di violenze più o meno riuscite ad ope-ra di dei e semidei e secondo alcune versionidel mito di Edipo, anch’egli usò il metodo con-sueto per averla vinta sulla Sfinge4.A maggior ragione perciò queste congreghe didonne erano considerate monstra, perché rifug-

givano dal matrimonio, e dunque dalla possibilesoggezione agli uomini, e non si prestavano adassecondare quella funzione che alle donne ve-niva attribuita come loro propria (e doverosa),la fertilità. Nessuna di queste donne, tranne Me-

dusa che, decapitata da Perseo, diede alla luce ilguerriero Crisaòre e il cavallo Pegaso, generaticon Poseidone, aveva figli o figlie, anche se nonerano necessariamente votate alla castità. Unasessualità dunque non controllabile, e suppostapertanto sfrenata, rendeva ancora più sospetti igruppi di donne che apparivano autosufficienti,autonomi, autocrati, ergo pericolosissimi.

Per fortuna vivevano ai margini Perseoebbe bisogno di tutta la sua astuzia per farsi ri-velare dove vivessero le Ninfe Stigie rubando,in un attimo di loro disattenzione, alle Graie,che se ne stavano anch’esse remote sull’Atlante,l’unico occhio e dente che possedevano in co-mune e si scambiavano a turno, servendoseneper ricattarle. E dovette da quelle ottenere inprestito dei sandali alati per poter raggiungerela terra lontana degl’Iperborei, al di là del fiumeOceano, staccata dall’Europa, dall’Asia e dal-l’Africa, dove vivevano le Gorgoni.Eracle ebbe più di qualche problema per supe-rare l’undicesima sua fatica, che consisteva nelrecarsi nel giardino delle Esperidi e cogliere tremele d’oro. Non fu tanto difficile farsi conse-gnare i frutti da Atlante, il custode, quanto veni-re a capo della reale collocazione geografica delgiardino, che alcuni ponevano alle pendici delmonte Atlante nella terra degli Iperborei, altri inMauritania, altri ancora oltre il fiume Oceano.Quanto alle Sirene, abitavano in una verde iso-la del Mediterraneo, ma non si sa se alla focedel fiume Acheloo, presso le isole Echinadi,nello Jonio, o presso il Capo Peloro in Sicilia opresso Napoli o a Capri, e questa incertezzageografica dà anche conto della indetermina-tezza numerica loro attribuita, a volte indicatecome due, a volte tre, a volte quattro o più an-cora. Quello che risulta evidente è che per in-contrare questi gruppi isolati di donne temibili,era proprio necessario andarle a cercare condeterminazione, o avere la disgrazia (ma era poiveramente tale?) di capitare da loro per caso.Per il resto Graie, Esperidi, Gorgoni se ne sta-vano per i fatti propri, tenendosi compagnia avicenda e incontrando raramente qualcuno.Questo ha indotto a ragionare sul fatto che essenon dispongono di una storia propria, dato checompaiono occasionalmente con qualche fun-zione secondaria e di supporto nelle vicende al-

trui, ostacolando o aiutando qualche eroe pre-diletto dagli dèi olimpici nel compiere fino infondo il suo percorso di formazione che lo con-durrà all’immancabile successo. In ogni casoscompaiono appena la loro funzione narratolo-

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gica è esaurita. La Sfinge si getta dalla rupe do-po che l’indovinello ha ottenuto una risposta eMedusa con la testa mozzata da Perseo trion-fante esce di scena. Anche le Sirene si suicidanoripetutamente, salvo poi rinascere in altre storieo in altra forma. In questo senso sarebbero em-blema del millenario “silenzio” delle donne5.Per le Sirene, le cose sembrano però più com-plicate. Anch’esse passavano il tempo tra loro.Si sa che sapevano suonare flauto e lira, che unacantava deliziosamente6, che conoscevano sto-rie infinite e infinite altre ne avrebbero cono-sciute, quello che inquieta è che intanto atten-devano. Nell’incommensurabile distanza oveerano collocate, sulla frontiera del nulla, sullasoglia tra il noto e l’ignoto, sul limite estremo,confine e tramite, esse attendevano. Che cosa, omeglio, chi?Attesa significa non passiva quiete, ma tensioneverso, desiderio di, e questo desiderio era certa-mente indirizzato a coloro che di lì si trovavanoa transitare, ai marinai spersi nel grande mare,seducenti (s-vianti) sì e intanto sedotte. Maquale la ragione del desiderio, quella di entrarea far parte di una storia, una qualunque per vi-vere, anche se di riflesso, o quella di realizzarela “propria” storia?Anche se le vicende delle Sirene sono pervenu-te a frammenti inducendo a propendere per laprima ipotesi, a uno sguardo più attento il mitodelle Sirene si compone in modo altro rispettola tradizionale lettura che le vuole strumenti,funzioni, entro l’epopea di un uomo, Orfeo op-

pure Ulisse.Ma cominciamo dal principio In principiole Sirene erano compagne di giochi di Core.Core, la fanciulla, un giorno insieme a loro co-

glieva spensierata fiori profumati dai coloriscintillanti che sbocciavano nei verdi prati pri-maverili e non poteva immaginare che Ades siera invaghito di lei. Invaghirsi, per un dio, si-gnifica decretare un possesso, e così a un trattola terra si spalancò e Ades rapì Core facendonea forza la sua compagna nel silenzio degli dèi,ad esclusione di Demetra, sua madre. Le Sirenerimasero attonite, senza capire o comunquesenza opporsi in alcun modo al ratto.Questa mancanza di reazione costò loro l’iradella dea, e la vendetta fu pensata anche con loscopo di facilitare la ricerca della fanciulla: leSirene ne ebbero l’improvvisa crescita di ali sul-le scapole e la trasformazione delle gambe inzampe d’uccello.Questa prima metamorfosi consentì il volo e re-stò per molto tempo caratteristica delle amichedi Core, divenuta ormai Persefone, reginadell’Averno. Dopo il ritrovamento e l’accordointervenuto fra gli dèi per ritmare l’esistenza diPersefone fra regno dell’Oltretomba e residen-za terrena, le Sirene rimasero al servizio delladea, sue vicine e sodali, sue emissarie. Se vive-vano abitualmente nella loro isola sospesa nelvuoto dell’assolato Mediterraneo, le ali indica-vano la possibilità del volo verso l’Altrove, lavoce esprimeva la sapienza di chi ha visto tutto,nel profondo dell’Averno, unico luogo che con-sente la conoscenza intera, che inevitabilmenteè per ciascuno “postuma”.Nella loro solitudine in mezzo al mare le Sirenedesideravano raccontare le loro straordinarie

narrazioni a qualcuno, volevano regalare a chiavesse avuto il coraggio di avvicinarle e di ascol-tarle la storia della sua vita. Di ciascuno cono-scevano le imprese compiute e da compiere, ederano in grado di narrargli la sua storia dal

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principio alla fine, se l’avesse voluto. E ciascu-no, dopo aver udito la propria storia non saràpiù lo stesso di prima, avrà vita diversa, otterràciò che da sempre aveva cercato di conseguire:il sapere di sé. Al naufragio segue la rinascita,ma bisogna avere la capacità di entrare in rela-zione con l’altro da sé per poter sapere la veritàsu se stessi, perché ciascuno è attore della pro-pria storia, ma non suo autore7.In questo senso la marginalità delle Sirene,piuttosto che indicare una tendenza all’isola-

mento che le priverebbe di storia individuale,segnalerebbe al contrario e il desiderio di entra-re in relazione da parte delle narratrici ma an-che la difficoltà di trovare chi, disposto ad af-frontare il rischio di conoscere se stesso, osi av-vicinarsi a loro e compiere quel terribile viaggiodentro di sé che ha il potere di trasformare. LeSirene dunque non sono passive “funzioni” masoggetti propositivi, interpreti della specificapropensione femminile alla condivisione (dellavita, del mutamento, della morte)8.Presenti nella vita altrui ma con caratteri di sa-pienza, forza e potere trasformativo, a ben vederela loro immagine risponde al tentativo delle don-ne contemporanee di riuscire a dire insieme «illinguaggio dell’uomo e il silenzio delle donne» e

cioè la vincente cultura patriarcale con la sua pa-rola irrimediabilmente connotata al maschile, e lapotenza rimossa della cultura femminile che siesprime «dentro, attraverso, contro al, al di so-pra, al di sotto, al di là» di quel linguaggio9.Non a caso consigliera di Odisseo a propositodelle Sirene fu una donna. Circe sapeva che laseduzione più grande è quella che inaugura larelazione fra umani: il dono della parola, la pro-messa della conoscenza attraverso la dolcezzadella voce amorosa. Nemmeno a lei mancava

questa virtù, e certo l’aveva esercitata, ma a suavolta sedotta e consapevole del desiderio di lui,che era di ripartire, aveva rinunciato al potereche era suo, e si era comportata con Odisseo co-me una madre buona, aiutandolo, consigliando-lo, conducendolo per mano fino a quella voce:«Noi sappiamo tutto quello che nell’ampia pia-nura di Troia soffrirono gli Argivi e i Troianiper volontà degli dei. E sappiamo anche quantoavviene sulla terra che nutre tanta gente»10.Odisseo è il primo a poter riferire ciò che le Si-rene dicono e da allora diventerà simbolo del-l’irrinunciabilità alla conoscenza. Riuscirà araggiungere Itaca ma l’aver udito quel canto loindurrà a non fermarsi nella sua terra e a porta-re a termine il suo destino oltre il mare noto, ol-

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Marina Giovannelli vive a Udine. Insegnantedi Lettere, si occupa in particolare di scritturadelle donne e dei giovani. Ha pubblicato nume-rosi racconti e romanzi tra i quali: Sotto le ali del 

 Leone, Gremese, 1990;  Le fanciulle del mito,Loescher, 1996; Tre lune (storia di Arianna), Ga-zebo, 2001; Morte di carta, Mobydick, 2003; Ia-coba ancilla, Kappa Vu, 2005. In poesia ha pub-

blicato: (An)estesie, Campanotto, 1998;  Del si-lenzio, Dars, 1999; Voci dal campo di Drepano,Donne in Nero, 2001; Una condizione ablativa,

 Joker, 2003; Cantata per la donna al telaio, Circo-

lo Culturale Menocchio, 2004. Ha scritto, inol-tre, vari saggi, collabora a riviste culturali e alsettimanale «Il Nuovo».E-mail: [email protected]

 John William Waterhouse (1849-1917), Sirena e, a destra, Hylas and the Nymphs.

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tre la “soglia”. Non c’erano state esperienze si-mili nel passato degli eroi, anche se, per il vero,qualcosa era accaduto ad Orfeo, mentre viag-giava con gli Argonauti. All’approssimarsi degliscogli abitati dalle Sirene, timoroso, Orfeo ave-va cominciato a suonare la cetra con tale periziae passione che il suono aveva coperto, renden-dola inoperante, la voce delle seduttrici, e l’at-tenzione dei marinai fu catturata dal musico ec-cellente, cosa che – si dice – li salvò tutti.Diversamente da Ulisse, Orfeo dunque avevasfiorato lo scoglio fatale ma non aveva udito ilcanto delle Sirene, aveva ascoltato solamente lapropria musica e se stesso, impedendosi di entra-re in relazione con loro. La situazione apparente-mente simile, in realtà si rivela significativamenteopposta: Orfeo si tutela e non subisce danni dalleSirene ma non trae dal loro canto alcuna espe-rienza, conseguentemente non vi trova nulla.Come Narciso, chiuso nella propria bellezza,Orfeo è preso da sé senza conoscersi fino infondo. Sublime musico e poeta è incapace direlazione con l’“altro da sé”, con quella vocefemminile e sapiente che viene dal profondo,dalle viscere della terra.Forse, se avesse ascoltato, al momento giustonon si sarebbe girato anzitempo e sarebbe statocapace di riprendersi Euridice. O forse ridarlevita avrebbe significato privarsi della ragione delproprio canto, dell’indispensabile “assenza”11.

Come finisce la storia delle Sirene? Nelsegno proprio delle grandi potenze femminilipreolimpiche sconfitte dalla storia: un lento de-grado che implica ridimensionamento delleprerogative divine e contemporaneamente unaresa alla misoginia sempre più esplicita dellacultura classica e poi medievale.Dapprima le Sirene mantengono connotati di unpotere che, se non è più sacro, appartiene co-munque all’area del sovrannaturale: da rigenera-trici si fanno semplici accompagnatrici dell’ani-ma dei defunti, compaiono scolpite sulle tombequasi ad alleviare la durezza del distacco, prelu-dono all’“angelo” che tuttora adorna le tombe,allusivo al “volo” del defunto nell’aldilà, sono il“doppio” del morto, che viene a volte rappre-sentato o indicato come “vespa”, “ape”12.Nel Medioevo subiscono un ulteriore scacco evengono separate, disperse nei mari e trasfor-

mate in donna-pesce. Questo mutamento con-sente ai marinai di affrontarle isolate e quindi diriuscire più facilmente a vincerle. Ancora peri-colose, vittime della mentalità del tempo chenel rapporto tra potere maschile e femminile

considera solo la possibilità di uccidere o resta-re uccisi, vengono sopraffatte dall’uomo corag-gioso o degradano a megere assassine dall’a-spetto solo ingannevolmente incantevole.Occhieggiano leziose dalle carte geografiche adindicare i territori inesplorati, solcano il maresulla prua delle imbarcazioni con valore apo-tropaico, a volte rammentano l’origine immor-tale chiudendo le due punte della coda sopra latesta, in un significativo cerchio. Entrano nellaletteratura a inquietare la veglia e il sonno, a se-durre con l’aspetto e con la promessa del canto,o perfino col loro silenzio che è avvertito comepiù terribile della loro voce13, diventano unodei fantasmi del femminile, tanto più demoniz-zato quanto più rimosso dal desiderio vitale.Degradano a nome comune: “sirena” è usatoper qualunque cosa attragga, affascini e sia con-temporaneamente avvolta in un mistero densodi funesti presagi, metafora di tutto ciò chel’uomo sano e saggio deve rifuggire, si banaliz-zano nel linguaggio quotidiano e inconsapevo-le, diventano denominazione di bar estivi e didancing equivoci.Ma forse l’essere ormai presenti solo nel lin-guaggio è la traccia estrema del loro essere dasempre legate alla parola e il ricordo non giàdell’interdetto, ma della proposta di narrazio-ne, che si rinnova immancabilmente appena cisi avvicini a loro con desiderio di conoscenza.

1. Muriel Rukeyser,  Mith, in Collected poems, New York 1972.2. Franco Rella, Figure del male, Milano 2002, p. 37.3. Robert Graves, I miti greci , Milano 1983, p. 565.4. Vladimir Ja. Propp, Edipo alla luce del folclore, Tori-no 1975, p. 122.5. Teresa de Lauretis, Sui generis, Milano 1996, p. 22.

6. Maria Corti , Il canto delle Sirene, Milano 1992, p. 22.7. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana,Torino 2000, p. 174.8. Argomentare che ci furono Sirene con barba, cioèmaschi, non cambia i termini della questione, dal mo-mento che di solito le Sirene erano donne e si sa che leprerogative femminili sono sempre state imitate, nelmito, dagli uomini.9. Teresa de Lauretis, Op. Cit., p. 25.10. Omero, Odissea, canto XII, traduzione di Giusep-pe Tonna, Milano 1968.11. Sostiene invece Cavarero in Tu che mi guardi, tu

che mi racconti , Milano 1996, p. 149, che Orfeo si gi-rasse verso Euridice per «raccontare a lei la sua storia».12. Graves, Op. Cit., p. 278.13. Franz Kafka, “Il silenzio delle Sirene”, in  Il mes-saggio dell’imperatore. Racconti , Milano 1990, p. 295.

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Nel gennaio scorso si sonoaperti a Salisburgo i festeggia-menti mozartiani e con varieiniziative, sia in Italia sia in Ce-coslovacchia ed in Austria, sicelebra e si illustra l’opera diquesto genio che rivoluzionò lamusica. Sicuramente il  DonGiovanni , l’opera summa, con-siderata “perfetta”, rappresen-ta l’espressione della genialitàsensuale come seduzione. DonGiovanni è un seduttore e mol-to è stato detto intorno alla sualeggenda e alla sua figura, che,appunto, concepita in musica,non si stanca mai e non ha maifinito di sedurre. Ma non è l’u-nico prototipo di seduttore, disciupafemmine, interessato allacompilazione di un catalogo diprede: anche Giacomo Casa-nova è attratto dalle donne,cerca l’amore gioioso, senzadrammi e senza pena, e attra-verso la leggerezza e la felicitàdell’attimo, in virtù del suo es-sere amante incostante, offrel’immortalità alla sue amanti.E, si sa, come scriveva Platonenel suo Simposio, «La naturamortale cerca per quanto pos-sibile di essere immortale. Malo può fare solo a questo modo,con la generazione, in quantolascia sempre dietro di sé, inluogo del vecchio, qualcos’al-tro di giovane […] non meravi-gliarti dunque che ogni essere,per natura, tenga in pregio ilproprio germoglio: in vista del-l’immortalità, difatti, ciascuno

è accompagnato da questoslancio e da questo amore».La seduzione, però, non è soloun’esperienza saltuaria nellanostra vita sentimentale, è qual-

cosa di più, afferma Aldo Caro-tenuto: «è una costante dellanostra intera esistenza», e, siasubita, sia esercitata, rappre-senta la “trama” del nostro en-trare in contatto con il mondo.L’uomo è sempre e continua-mente sedotto dalla vita, affer-ma ancora, è cioè invitato acoinvolgersi, a conoscere sestesso attraverso il richiamodelle cose e degli affetti. Lo èda bambino attraverso la sor-presa che ogni acquisizionecomporta e che accende la suafantasia, incrementando e ac-crescendo le sue esperienze.Da adolescente non sarannopiù solo i profumi, i suoni adavere influenza seduttiva, masaranno il richiamo dell’utopiao il potere del sogno le forze acui lasciarsi andare e da cui “la-sciarsi condurre” altrove, nellasensazione appagante e onni-potente che sia possibile con-quistare il mondo e realizzareogni aspirazione. Più in là neltempo, da adulti, la seduzioneassumerà molte forme e forgeràvari modi per padroneggiarel’impotenza o la solitudine esi-stenziale, e ci aiuterà a tessereracconti per darsi un’identità euna collocazione per radicarsinel mondo. E allora si può par-lare non solo di seduzione amo-rosa, ma anche di seduzionedelle idee o dello spirito. Lad-dove s’intravede la possibilità ola promessa di un appagamen-to, di una ricomposizione delle

proprie tensioni, di sentirsi piùpienamente partecipi della vita,attraverso la sfida del perdersi edel ritrovarsi, lì è in atto la se-duzione che, appunto, “ci con-

duce più in là”. Seducere, infat-ti, deriva dal latino sed (a parte)composto con ducere (condur-re) e quindi significa “condurrein disparte”; l’individuo sedot-to è catturato, condotto altro-ve, portato da una forza a cuinon si può sottrarre. Quando cis’innamora, ad esempio, succe-de proprio così: si è afferrati dauna forza che “ci conduce daun’altra parte”, che turba il no-stro equilibrio, che introducedegli elementi nuovi, e cioè l’e-sistenza e le esigenze dell’altro.L’amore, insomma, richiedeuna rottura del “guscio narcisi-stico” e anche se comunementesi crede che l’innamoramentosia il movimento interiore piùovvio e più spontaneo per l’es-sere umano, che amare sia faci-le e che non occorra “impara-re” ad amare o ad essere amati,non è così. Non sempre si rie-sce ad innamorarsi, a lasciarsisedurre, “condurre in dispar-te”, anche temporaneamente,e spesso siamo incapaci di ama-re, d’instaurare una relazioneprofonda con qualcuno.Le “radici” della seduzioneche aiuta a crescere, che fa par-te del crescere, sono moltolontane. Per cominciare ad esi-stere e per diventare persona,c’è bisogno di un ambiente ini-ziale sufficientemente buono, diuna comune madre devota co-me dice Winnicott, che per-mette al bambino di “costruirese stesso”. Il bambino vede se

stesso quando guarda sua ma-dre, quando la guarda per ac-certare il proprio senso di sé.«Occupandosi del corpo delbambino, la madre diventa la

La seduzione è un “vestito” che non riusciamoo non possiamo più toglierci?

Teresa Santin

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sua prima seduttrice. In questedue relazioni (nutrimento e ac-cudimento, seduzione) affondale sue radici l’importanza parti-colarissima, inconfrontabile einalterabile della madre come

 primo e più forte oggetto d’amo-re, che fungerà da prototipo per tutte le successive relazioni amo-rose di entrambi i sessi ». CosìPier Mario Masciangelo, para-frasando le parole di Freud,considera la seduzione, e con-clude che «se amore è nostal-gia, è nostalgia della madre,[…] è ricerca della sua immagi-ne mestica, ristabilimento diuna felicità perduta». Il corpodella madre e il suo amore, in-somma, restano nella memoriadel singolo come luoghi assolu-

ti e proibiti cui va il desiderio.Non solo: anche la voce dellamamma ha qualcosa di magicoe suadente… di… deduttivo, cidicono ancora Alberto Schön e

Guido Buffoni: «Normalmentela madre sceglie il tono di vocee il ritmo adatti a far addormen-tare il bambino e, per avere unmiglior risultato, deve provarepiacere insieme a lui»; così, ap-punto, «il campo acustico puòfacilmente entrare nel gioco se-duttivo della vita quotidiana».Il desiderio del bambino per lamadre subisce però limitazionie frustrazioni: la presenza ma-terna è inevitabilmente discon-tinua e la sua assenza può esse-re avvertita dal bambino comeuna ferita, una triste separazio-ne. È fisiologica la separazioneche il bambino, se tutto va be-ne, si trova ad affrontare neltempo, e ad essa, anche in que-sto caso se tutto va bene, con-

corre l’intervento di un “ter-zo”: il padre. Egli rappresentail limite che serve ad allentarel’abbraccio fusionale e che fain modo che la relazione della

coppia-madre bambino acqui-sisca un ritmo equilibrato, cosìcome dice Masciangelo, «capa-ce di arginare il prolungarsidelle esperienze di assenza, odi troppa presenza, della ma-dre in un vissuto destruente diannientamento». È a partire daquesta distanza che la qualitàdel materno risulta seduttiva;solo se l’accudimento maternonon è intrusivo, se la madre “silascia usare” senza proporsi,solo se avviene una separazio-ne tra loro due, il bambino riu-scirà ad entrare in contatto conse stesso e con lei e a non rima-nerle “incollato”. E nella suavita, ci insegna ancora PaoloRoccato, magari, non cercheràin modo “maldestro” di ripri-

stinare quell’antica felicità per-duta, ad esempio, attraverso«la quantità nella seduzione,secondo il modello di DonGiovanni o di Casanova».

L’attrice Rita Hayworth e, a destra, Lietta con i guanti a bolli , monotipia su acrilico di Tamara Zambon.

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Da quanto si è detto si capisce,insomma, che la natura del rap-porto ha certo a che fare piùcon la qualità che non con laquantità delle cure materne;anche nel corso della relazionepsicoanalitica, psicoterapica, ocomunque “di aiuto” psicologi-co, è bene tenere presente chela seduzione interviene sempree, indubbiamente, siamo noi te-rapeuti i primi a doverci con-frontare con il nostro “deside-rio di curare gli altri”, “di se-durre”? Come scrive Anteo Sa-raval, «la seduzione intervienesempre e merita di essere com-presa e interpretata, anziché re-spinta con timore e sospetto».Nella società odierna siamo inqualche modo più che mai se-dotti dalla vita, più sedotti da“nuovi poteri” che se da un la-to ci hanno aiutato ad emanci-parci, a liberarci, dall’altro, si-curamente, non ci hanno por-tato altrove come “normal-mente” la sorpresa per unanuova acquisizione dovrebbefare, ma ci hanno portato trop-

 po in là. Viviamo in un mondofatto di tecnica e siamo quasilusingati ed affascinati da que-sti progressi e da queste sco-perte rispetto alle quali dob-biamo essere continuamenteall’altezza… pena l’esclusione.Non solo: viviamo in un’epocadi migrazioni massicce, di vio-lenza dilagante che viene agitae che risulta difficilmente pen-sabile e rappresentabile, di cri-si economica che per moltissi-mi è senza via di scampo, di“differenze” che non siamopiù capaci di contenere e ditollerare e che tentiamo invanodi comprendere e di dominare.Se ci pensiamo bene vienemessa in pericolo anche “la vi-

ta psicologica”, “l’identità” diciascuno, se non altro per ilfatto che, accanto all’intolle-ranza più sfrenata, si assiste adun aumento di aspetti della

personalità più incerti e indefi-niti… e, spesso, più conformi-stici, probabilmente anche perdifesa, perché il mondo appare“pericoloso”. Esistono oggi“nuove povertà”, fatte di de-privazioni sul piano dello svi-luppo dell’identità, di mancan-za di confini, di confusione diruoli e, quindi, di difficoltà nelraggiungimento di una autono-mia personale.Oggi nessuno si fa più caricodi porre limiti all’aggressività ealla sessualità (stampa, televi-sione Internet e via dicendodiffondono più liberamenteimmagini, stimoli richiami),ma non sembra che questo cirenda più felici. C’è una pres-sione sociale all’edonismo: pa-radossalmente l’autostima deisingoli è vincolata alla propriacapacità di godere e di poteree, se ciò non avviene nella ma-niera auspicata, ne derivanosentimenti di vergogna.

Negli ultimi decenni la preven-zione sanitaria, almeno nelmondo occidentale, ha registra-to un’ampia diffusione e consi-derevoli successi profilattici,anche se il mondo della preven-zione psicosociale si presenta inmodo alquanto confuso e piùnominato che realizzato, spe-cialmente se pensiamo al disa-gio familiare e al maltrattamen-to ai minori. In questo nostromondo così tecnolocizzato evelocemente computerizzato,dal quale dipendiamo grande-mente proprio perché è difficileavere degli “spazi di pensiero”,anche il vivere i sentimenti (lapaura soprattutto) e l’affronta-re le scadenze della vita sonomolto cambiati. Si privilegial’urgenza del corpo, la seduzio-ne in virtù del corpo, il nonavere paura, e ciò assomigliamolto al trionfo dell’onnipo-tenza, all’incapacità di fare iconti con se stessi e con i proprilimiti. Si cresce, quasi, nellaconvinzione (seduttiva!) che cisarà sempre uno specialista ingrado di risolvere i nostri pro-blemi, da un guasto al televiso-re ad una crisi depressiva, pen-sando, cioè, che «si può tutto,c’è una risposta a tutto».Non si può aspettare e si mar-ginalizza la conoscenza fattapian piano, attraverso l’esplo-razione dei sentimenti in quel-la dimensione individuale cheè il mondo interiore. Non cre-do sia una conquista la frene-sia di seduzioni, tecnologichee non, che paiono così rag-giungibili da sembrare allaportata di tutti. Alla fine rima-niamo molto delusi e confusinello scoprire che la sofferen-za non può mai essere debella-ta totalmente, che le prepoten-

ze sociali restano e che, so-prattutto, non si può cancella-re la fatica che ognuno devefare per dare forma alla pro-pria esistenza.   ■

Riferimenti bibliografici

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Cortina editore, 1998.Donald W. Winnicott,  Dalla Pe-diatria alla Psicoanalisi , Martinel-li, 1991.Anteo Arval, “La seduzione co-me modalità di relazione” in  Laseduzione, Raffaello Cortina edi-tore, 1989.Paolo Roccato, “La seduzionecome relazione collusiva” in  Laseduzione, Raffaello Cortina edi-tore, 1989.

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Alla seduzione si addicono di-screzione e superficialità. Dun-que argomenti e maniere chenon la soffochino nella pedan-teria dei commenti; che le ri-sparmino – peggio! – l’oltrag-gio di spiegazioni psicologiche.Allo scopo, Mozart mi pareadattissimo. Perché «di pochialtri artisti la grandezza incon-testabile riposa su ragioni al-trettanto segrete… (e) ancorasi disputa sul significato da at-tribuire a quel prezioso lascitodi valori spirituali che noi desi-gniamo col nome di Mozart».Scrive così Massimo Mila inuna raccolta di saggi1, che An-na Mila Giubertoni cura per iduecentocinquanta anni dellanascita del Musikus: un’opera-zione di lucida filologia e altempo stesso un vero omaggioalla seduzione. Dissolve gli ste-reotipi in cui una critica affa-mata di definizioni incrostal’immensità di Mozart, cosìamplificando il potere e il pia-cere della sua musica. La sedu-zione è un’arte, e intelligente.O non è affatto. E allora, Mehr 

 Mozart!, si esclama alla fine diquesto libro raffinato, allusivoe aguzzo: più Mozart!Andiamo subito al nocciolodella rara naturalezza del tea-tro mozartiano, che parla conl’immediatezza e la semplicitàstessa della vita. La quale, tra-sposta in musica senza le me-diazioni di qualche idea poeti-ca o di qualche pensiero logi-

co, è frutto sapiente e squisitosegno di civiltà. E per meglioliberare il campo del nostro in-teresse, sforziamo al massimol’artificio (che Mila smonta) di

un Mozart a senso unico, e fis-siamone lo stereotipo nelle duemanifestazioni teatrali più alte:

 Le nozze di Figaro e  Don Gio-vanni . Nel primo si vedrebbeallora un quadro di vita con-temporanea, à la Watteau, glo-rificazione dell’amore galantein un’aura diffusa di sensualitàvoluttuosa; il Mozart dell’asso-luta maturità musicale, tuttoequilibrio, trasparenza e bel-lezza cristallina; dove l’inclina-zione al piacere pare sgorgaredalla natura ingenua di eternoadolescente, poi tanto cara aMilos Forman. Lo stile dellaciviltà della conversazione (co-

me l’ha chiamata BenedettaCraveri), fiorisce in un intrec-cio che è immagine schiettadel melodramma settecente-sco, brillante, ottimista e liber-

tino, scevro di ogni staticitàmusicale. Insomma, sarebbe ilMozart “apollineo”, rotondo,senza spigoli, senza salti bru-schi, che per vie segrete instillail fascino della melodia, invecedi strillarlo con la violenza del-le passioni scomposte. Nonper niente questa conciliazionedi tutti i caratteri musicali nelloro accordo armonioso, si ri-trova poi nella riconciliazionee nel perdono universale checonclude  Le nozze di Figaro(come già Il ratto dal serraglio):terminato il gioco degli intri-ghi, une fois jeunesse passée, laContessa perdona il Conte diAlmaviva, scapestrato e man-drillo, le coppie si ricompon-gono secondo affinità e cetosociale. Figaro sposa Susanna,in barba a convenzioni e con-tratti matrimoniali. La pacedomestica trionfa (e per qual-cuno, questo Mozart del 1785saprebbe già di Restaurazionee  Biedermeier e mondo picco-lo-borghese! Figuriamoci, conquella musica).Certo, Mozart è sublime e gar-bato, limpido e misurato. Manon solo. Forse “questo” Mo-zart è troppo aggiustato sul cli-ché  del suo proprio rovescio,quello del  Don Giovanni , chesi vuole allora dionisiaco e sul-fureo, portatore di un messag-gio sovrumano, misterioso allimite dell’incomprensibile oassai difficile da esprimere inparole. Adesso, a prevalere

(ma è appena un anno dopo,nel 1786), sarebbe un sensoprofondo della morte, che in-vade la sua musica, in una spe-cie d’attrazione erotica e osses-

Così fan tutte

Piero Feliciotti

Lui suona cose difficili, manon si conosce che lo siano; sipenserebbe di poter fare altret-tanto, e questa è la vera arte.

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siva, insieme alla rivelazionesempre più esplicita che la suavita è un fallimento. Non c’èdubbio che le opere degli ulti-mi anni siano caratterizzate dauna intensificazione dei valoriespressivi, anche perché la vitanon era stata tenera con lui.Ma  Don Giovanni è pur sem-pre un dramma giocoso e nonsi può dire che Mozart evolvaverso l’ineffabile metafisico(per qualcun altro, la sua musi-ca è tanto inespressiva quantomodernissima, puro arabescoformale, combinazione astrattadi volumi e ritmi, svuotata diogni nota autobiografica).Giustamente conclude Milache a questi due stereotipi ab-biamo sacrificato abbastanza:

«egli non ha realizzato né l’as-surdo di un’arte che sia puraforma esteriore, impassibile eastratta… né il mistero diun’arte che sia trascendente ri-

velazione dell’inconoscibile».Piuttosto: «ogni netta distin-zione del buffo e del serio, delcomico e del tragico nell’operamozartiana è chimerica… Loscherzo nasce talora dall’affan-no. E l’espressione di letizia edi dolore è simultanea… Tuttoè unità di vita, frutto di un solorespiro».Per dirla con Montale dellePrime alla Scala2, «resteràsempre vano il tentativo diestrarre dalla musica mozartia-na qualcosa come una Weltan-schauung esplicita… Il fatto èche… mai (sentì) il bisogno diattaccare alle sue opere il car-tellino segnaletico delle sue in-tenzioni… egli non supponevaancora che l’artista dovesse

predicare. È curioso di notareche l’età dei lumi producesseun’arte in cui la ragione nonsconfinava mai. Fu l’età suc-cessiva – quella che condanna-

va l’intellettualismo – a intro-durre il discorso razionale nel-le arti. Perciò Mozart potràsempre apparire, se non oscu-ro, enigmatico, bifronte».Questa intrinseca ambiguità, lastessa di cui vive la vita, avvici-na Mozart a Shakespeare ed èpropizia a restituire la seduzio-ne del suo teatro, che è quelladi un realismo incantato.Perciò alle date dei due capo-lavori assoluti ne aggiungeròuna terza: 1789. Il mondo del-l’ Ancien Régime sta sull’orlodell’abisso, e Mozart mette inscena Così fan tutte. Ci sonodue accostamenti storici folgo-ranti. Il primo è cronologico, enaturalmente tragico: l’opera èscritta sulla soglia di una scon-

volgente crisi di valori, è il tra-monto di un’era colto in unfermo immagine; eppure visentiamo un miscuglio inestri-cabile di serio e faceto! Il cre-

Una veduta di Vienna.

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puscolo tra verità e menzogna!Il secondo accostamento stanel nome del committente, chefu Giuseppe II, figlio di MariaTeresa d’Austria, con lei reg-gente a lungo, e prototipo delmonarca settecentesco. Per co-gliere il tragicomico della fac-cenda bisogna fare un salto dipoco più di cento anni, e ritro-vare in un altro libro, La criptadei cappuccini , la stessa aria so-spesa, immobile, gravida ditempesta con cui Joseph Rothdescriverà la drammatica vigi-lia della Prima guerra mondia-le e del tracollo asburgico. Mipare una beffa del destino che,nell’anno della presa della Ba-stiglia, il despota illuminatocommissioni un’opera che è

come il funerale di prima clas-se della società stessa (e delladinastia) che egli rappresenta.Inconsapevole come sempre,Mozart fiuta l’aria con un sog-

ghigno sulle labbra e si interes-sa di un aspetto forse seconda-rio di questa fine d’epoca: ilrapporto tra i sessi. Che inveceinteressa molto noi, freudiani elacaniani, perché sappiamo,col senno di poi, quanto essosia problematico. E perché ilsottotitolo è  La scuola degli amanti , e alla fine sarà Freudche ricaverà da questa scuolala lezione più acuta e realistica.Senso della storia, valori musi-cali e valori teatrali, tutto stanel gioco di simmetria e nel-l’ingranaggio da «movimentodi orologeria musicale» – dixitMontale.La storia, semplice e inverosi-mile, è un gioco di coppie.Due donne, Dorabella e Fior-

diligi; due amanti, Ferrando eGuglielmo, in estasi davanti ailoro idoli, ma che ne provoca-no la fedeltà e fingono di parti-re per la guerra: si ritroveranno

prestamente e sorprendente-mente sostituiti. L’affaire èmesso in moto per gli intrighimaliziosi di due registi: DonAlfonso, vecchio libertino e ci-nico filosofo e Despina, servet-ta scatenata che in quanto a di-sincanto non gli è da meno:Despina E che vorrebbe? Èl’oro il mio giulebbe.Alfonso Ed oro avrai; ma civuol fedeltà.Despina Non c’è altro? Sonqua.In seguito le coppie si ricom-pongono altrimenti, cioè peruno scambio dei due amiciche, spinti da una scommessasfrontata, si camufferanno percorteggiare e sedurre recipro-camente l’amante dell’altro.

Dopo alcune peripezie di ma-niera, la burla, che si è fattaamara, viene svelata, e tutto siconclude con il perdono e lariconciliazione. La meccanica

Un ritratto di Wolfgang Amadeus Mozart.

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erotica è ridotta all’essenziale,depurata da ogni sentimentali-smo, rappresentata in modoprovocatorio e parodistico. Illegame, concepito come con-tingente, è tutt’altro che eter-no: prima Dorabella e poi Fior-diligi capitolano, tutto somma-to di buon grado, rivelando sa-ni appetiti sessuali. Che scan-dalizzeranno Beethoven. Sen-nonché i due uomini non sonodiversi dalle loro belle, e in fon-do gli uni si meritano le altre:se così fan tutte è perché tuttepiacciono così a lor signori, iquali avviano la tresca per puravanità e tracotanza.Non è affatto una riedizionedella galanteria settecentesca,come credettero i diligentiviennesi, ritenendo il librettodemodé  e più adatto a un Ci-marosa che a Mozart. L’atmo-sfera molle e sensuale della ga-lanteria, la stessa morale diquella società si trovano ades-so osservati e giudicati con di-stacco e ironia. Come se lo spi-rito razionale tirasse con logicaimplacabile le conseguenze diquel gioco fra le parti sociali esessuali inaugurato dall’illumi-nismo. L’introduzione di DonAlfonso nei panni di registadell’intrigo erotico fa sembraretutti i personaggi delle mario-nette e trasforma la pièce in untrionfo della menzogna. MaDon Alfonso altri non è cheDon Giovanni tornato dall’in-ferno, o il Conte di Almavivache (come il  Barry Lyndon diKubrik) si è sposato per me-glio corteggiare straniere e do-mestiche. Per questo lo sguar-do sul gioco dell’amore non sicompiace più di un accesso algodimento, ma è venato diamarezza e di lucida rassegna-

zione alla lezione dei fatti (evedremo quali). Forse a nes-sun’altra opera mozartiana siconfà di più l’idea di Busonidell’opera come “gioco assolu-

to”, “della scena quale simula-zione manifesta e dichiarata”,basata sul principio dell’inve-rosimile “affinché una cosa im-possibile regga l’altra”.Il musicologo nota che qui vie-ne sviluppato sistematicamen-te «un motivo che nelle dueopere precedenti era già ap-parso di sfuggita: la capacità disimulazione della musica, lasua attitudine ad esprimeresentimenti e smentirli contem-poraneamente in qualche ma-niera ineffabile. La sua evasi-vità concettuale fa di quest’ar-te la sovrana della bugia e del-l’imbroglio, capace di direbianco e nero nello stesso tem-po». Infatti la musica può af-fermare una cosa con la melo-dia e smentirla col contrap-punto, con l’armonia dire di sìe col ritmo no, può variare sul-la lentezza e sulla velocità, ecosì via in combinazione con leparole e con lo sviluppo deldramma. Mila è delizioso neldispiegarci i mezzi della sua fi-lologia e sottolineare gli ele-menti caratteristici della fasci-nazione mozartiana: il rimandocontinuo dalla partitura al te-sto perché «raramente la melo-dia è completa nella sola voce»e dunque, essa viene integratanell’orchestra circolando frapalcoscenico e golfo mistico(penso all’aria di Despina:  Inuomini, in soldati – con l’or-chestra che riprende e svilup-pa le frasi cantate dalla servet-ta, che paiono allora lasciate ametà); il fraseggio e il tipico so-vrapporsi dei personaggi, cheanimati da sentimenti contra-stanti cantano, nei duetti e neiquartetti, parole diversissimesulla stessa aria (penso all’ad-dio degli amanti,  Di scrivermi,

ogni giorno che viene scanditoda Don Alfonso con  Io crepo,se non rido!); oppure il fattoche «molte arie non sono cir-coscritte al personaggio che

canta ma lumeggiano e com-pletano la personalità di qual-che altro». È con questi mezzie procedimenti che si determi-na una dimensione «gremita dicose non dette e di deduzionipotenziali», «un intreccio che è– in valori puramente musicali– immagine schietta della vita».La musica secca, magra, quasigeometrica nella simmetriadelle combinazioni vocali, ètutta un calcolo di equivalen-ze, di botte e risposte, di corri-spondenze e di equilibri. Chemoltiplicano allora un «giocodell’essere e del parere», rettosul «confronto dei suoni conle parole, dei disegni melodicicoi gesti, del movimento dellamusica con quello dell’azio-ne». Insomma, un realismo in-cantato perché costruito sulsottile e costante esercizio del-la finzione.Ecco allora che i personagginon hanno caratteri precisi; enon li potrebbero avere per-ché, con questo gioco di om-bre cinesi, Mozart parla dellacommedia umana tale e quale,ben convinto che dietro il velodella musica, che dietro il gio-co del significante c’è… nien-te. Quel niente di cui «la musi-ca è un calcolo segreto, che l’a-nima fa a sua insaputa». Ciòche l’uomo può fare di meglio,allora, non è strappare il velo,ma sviluppare questa funzioneche avvolge il vuoto e che siidentifica col lavoro stesso del-l’amore e della civiltà. Insom-ma, Così fan tutte non si puòridurre ad una satira antifem-minile, perché incarna il lavorodi incivilimento del femminilein quanto tale (Despina checanta Una donna a quindici an-ni  non è, come dice Mila,

un’ancillare filosofia nel bou-doir , ma la risposta femminile aSade, che profana il boudoir con la filosofia). Non per nien-te Lacan indica nella civiltà

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della conversazione la ripresasettecentesca di quello stranofenomeno che fu, sul finire delMedio Evo, la poesia cortese.Come dire, l’essenza dell’amo-re occidentale e la radice stessadell’arte classica figurativa – ilcui tramonto Roberto Longhiponeva, non a caso, proprionel Settecento.Solo in questo senso si può di-re che Così fan tutte osserva eaccetta la realtà per quelloche è. Solo passando per lafunzione dell’inganno e del di-singanno si arriva alla saggez-za, come canta Don Alfonsonel finale: V’ingannai, ma ful’inganno / Disinganno ai vo-stri amanti, / Che più saggi omai saranno / Che faran quel ch’io vorrò.E che cosa deve fare il saggio,alla fine? Qual è l’evidenza deifatti di cui Freud farà tesoro?Ebbene, che adesso, proprioadesso è il momento giusto persposare le due donne. Freud

dirà che il “primo” matrimoniospesso fallisce perché è ancorasotto il tabù e il peso mortiferodell’ideale (ai tempi di Freud edi Mozart, un tabù della vergi-nità di altra portata, ora sosti-tuito da quella formazione reat-tiva e angosciante che è il godi-mento sessuale ad ogni costo).E infatti, all’inizio, Don Alfon-so voleva sapere dai due giova-ni infatuati proprio: Che razzad’animali son queste / Vostrebelle, se han, come tutti noi, car-ne, ossa e / Pelle, se mangian co-me noi, se veston gonne, alfin, / se dee, se donne son.E ammoniva i due amanti cheforse erano invaghiti dell’ara-ba fenice e che con l’ideale nonsi combina niente (ben folle èquel cervello, che sulla frascaancor vende l’uccello). Allora,una certa “degradazione” del-la vita amorosa è necessaria,come dice Freud, a portareverso la caduta dell’ideale per«familiarizzarsi con l’incesto»,

cioè per accedere ad un godi-mento possibile, anche se me-no esaltato. Così, a questopunto non si tratta per nientedi ritirarsi dal gioco e restare“celibi in eterno”.Ferrando  Mancheran forsedonne ad uomini come noi?Alfonso Non c’è abbondan-za d’altro. Ma l’altre che faranse / Ciò fer queste? Infondo voi le amate, queste vostre / Cor-nacchie spelacchiate.La rivelazione finale non è perniente «di che pasta son fatte leloro donnette», ma che non so-no né fenici né cornacchie,semplicemente donne. Col che,per fortuna, siamo di nuovo ri-mandati alla vita e al lavorod’amore, perché quanto a sape-re che cosa è, e che cosa vuoleuna donna, Freud ha chiusosconsolato la sua opera senzatrovare risposta. Che altra nonè se non: provare per credere.Qui Mozart è forse superiore aFreud. Per rendersene conto

Ryan O’Neal e Marisa Berenson in una scena del film Barry Lyndon (1975) di Stanley Kubrick.

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bisogna vedere che cosa riescea fare nel finale. Consiglieròdunque il mio lettore di affret-tarsi e prenotare direttamente ibiglietti per una buona rappre-sentazione dell’opera, che inquesto anno di celebrazionimozartiane non faticherà a tro-vare. Ad ogni buon conto, silegga la stupefacente analisi del«Come par che qui prometta / Tutto gioia e tutto amore!» edel «tocca, bevi, bevi, tocca»con cui Massimo Mila (pag.229-234) ci spalanca «una si-tuazione delle più alte e vertigi-nose di tutta la storia della mu-sica, un mixage di stili storicipiegati a funzione drammaticaper pura virtù d’intuizione».Garantisco, al mio volenterosolettore, che la lettura non lofarà morire di spiegazioni, anziraddoppierà il godimento del-l’ascolto. E viceversa.La verità di Così fan tutte, diceMassimo Mila con una nota difreudiana (e beaudeleriana)tristezza, sta nel fatto che allafine la giusta distribuzione del-le due coppie non era, ahimé!,quella della realtà, ma proprioquella della finzione! «Queste

donne… hanno una volta solaintravisto la possibilità di sce-gliere il loro amore, e poil’hanno perduta: impulsivo,spaccone, vanitoso, leggero,Guglielmo era fatto per inten-dersi con Dorabella, e non conla sua sensibile sposa Fiordiligiche conserverà forse a lungoquell’inclinazione per Ferran-do, così tenero e così ingenuo,e che lei non ha diritto d’ama-re». Tuttavia, con l’ottimismodella ragione, il critico musica-le rimanda l’equivoco alla “ve-rità del sentimento” schiaccia-ta dalle convenzioni sociali.Così, è ben giusta l’osservazio-ne che il tragico deragliamentodelle coppie ne Le affinità elet-tive (1807), abbia le sue radiciproprio nel comico di Così fantutte (1789). Ma se prendiamosul serio che Mozart è l’altrafaccia di Goethe gli potremmochiedere: quale è la verità delsentimento?Forse è proprio la psicoanalisiche si rivela all’altezza del fina-le mozartiano. Infatti, dice La-can, quando finisce il gioco e lemaschere cadono c’è sempresorpresa ed equivoco. Perché

lui non era lui e lei non era lei!Per fortuna è raro che le ma-schere cadano. Saggiamente,gli amanti non se le tolgonomai. Non possono, del resto,nemmeno quando sono sottole lenzuola e arrivano all’ab-braccio dei corpi. È meglio co-sì, è meglio che non si trovi laverità del sentimento, perchésolo il “vero” amore finiscenell’odio. Dice Lacan: «È piut-tosto nel regno dell’uomo chec’è sempre la presenza di qual-che impostura». La donna –quanto alla sua funziona socia-le – è vaso: proprio il famosovaso di Heidegger. Pieno ovuoto che sia, poco importa,perché non le manca niente.Così la donna non tanto men-te, quanto piuttosto fa velo alReale. E questa è la funzionedella civiltà, la stessa dell’in-conscio. Col che siamo di nuo-vo rinviati al gioco della vita edel significante. Credo cheMozart sarebbe contento.

1. Massimo Mila,  Mozart, Einaudi,Torino.2. Eugenio Montale, Prime alla Sca-la, Mondadori, Milano.

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Mariano arrivò da me poco piùche ventenne in preda ad unprofondo stato confusionale.Era ossessionato dal non poterdistinguere la realtà dall’imma-ginazione e che di questa pote-va esserne vittima inconsape-vole. Era terrorizzato inoltredal fatto che poteva non essercidifferenza tra un figlio e un pa-dre, dunque che la generazionenon esistesse. Era alla deriva,completamente preda dell’Al-tro, e inutilmente ne cercava unriparo dietro ad un’organizza-zione ossessiva della sua vita.La diagnosi, purtroppo, erapressoché certa. Così per mol-to tempo mi venne a trovarecon regolarità, fino agli ultimianni in cui la cadenza pian pia-no si fece sempre più lenta.Questo lavoro analitico gli ne-cessitava per vivere e nessuno,oltre il padre e la madre, sape-va di ciò. Questa segretezza eratale da costringerlo spesso achiedere appuntamenti alla se-ra, quando era buio e, quandonon era possibile, cercava disopperirvi con camuffamentiche andavano da vistosi occhia-li da sole in estate e grandisciarpe di lana in inverno.Non mi dilungherò sulla suastoria segnata così tanto dallasofferenza e sul suo lavoro cli-nico, stimolante come pochiper chi vi partecipa ascoltan-dolo. Volutamente però, voglioportare qualche nota su un pe-riodo durato un paio d’anni, in

cui la sua “clandestinità” nellavita, la monotonia strutturaleche regolava la sua giornata,mutarono all’improvviso in se-guito, preso da un fare, da un

agire, fin da sorprendere luistesso. Sembrava infatti un’al-tra persona, e a prima vista, co-me gli dissi un giorno, sembra-va «una specie di Don Giovan-

ni che ha tante donne pur dinon amarne nessuna».Mariano ha avuto dall’adole-scenza alla maturità una solastoria importante con una don-

na, ma forse lui era troppo ma-lato ed il suo desiderio altroveper capirne il senso e che cosavolesse dire avere una compa-gna. Dopo diversi anni di que-sta ritualità, quasi improvvisa-mente questa ragazza gli comu-nicò che lo avrebbe lasciato perandare a stare con un altro concui si sposò da lì a poco. L’ef-fetto traumatico dell’abbando-no non durò più di qualchegiorno e se da un lato tutto perlui continuava senza dramma,dall’altro, però, si incominciò amanifestare in lui l’esigenza diisolarsi sempre di più fino a na-scondersi fisicamente dalla vi-sta degli altri. Nessuno dovevasapere che fine avesse fatto; l’a-vrebbero dovuto scordare e lasua vita sarebbe dovuta cam-biare completamente. Comin-ciò cambiando lavoro, poi an-cora un altro in un’altra città,dove stabilì il suo domicilioabituale. Una cosa veramentenotevole per Mariano che maiaveva osato allontanarsi nean-che per un giorno da casa. Co-munque quest’ultima è in unaperiferia abbastanza prossimaal mio studio.Passarono diversi mesi in que-sta nuova casa senza che nientecambiasse del suo isolamento,ma poi, quasi all’improvviso,con la complicità e sotto laspinta di nuovi amici, si tra-sformò in un attivismo freneti-co. Comincia così con questiad uscire nei dopo cena, nei fi-

ne settimana; si allontana dallacittà, frequenta sale da ballo econosce donne a ritmo soste-nuto e riesce a stabilire conqueste relazioni di amicizia e,

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Amarne tante pur di non amarne nessuna Don Giovanni in analisi 

Orfeo Verdicchio

Una scena dal Don Giovanni ,e, sopra, locandina del film.

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con alcune, anche sessuali. SeDon Giovanni interessa glipsicoanalisti perché contri-buisce a dire qualcosa in piùsulla sessualità maschile, Ma-riano mi sorprende poiché,dallo stallo in cui versava, ri-trova in sé la capacità peruscire dal suo nascondigliograzie alle donne, o meglio al-l’audacia nel conquistarle enel sedurle senza per questoscivolare nel sadismo.Mariano non fa nessuna faticaad istaurare questo nuovo stiledi vita, tanto da far pensare cheper lui la conquista era quasi lanorma. Manifesta gusto e pia-cere per questo fare ma, a diffe-renza di Sade, non è interessatoa sottomettere la donna e ci tie-ne al suo desiderio; che questadesideri, anche se non è lui ildestinatario. Sade, al contrario,non si curava del desiderio del-la sua vittima. Mariano incon-trava le donne casualmente,nelle discoteche, ma queste,pur ingannate, non erano purioggetti; esse rimanevano e do-vevano mantenere la loro sog-gettività desiderante. Del suotentativo di seduzione non co-nosceva a priori il risultato edera incuriosito dall’esito dellarisposta che gli poteva giunge-re. Anche in questo era diversoda Sade, che conosceva semprein anticipo la risposta della suavittima e che, a contrario diDon Giovanni, non amava lesue vittime e per di più nonaveva il tempo di sedurle. PerSade non era importante con-vincere la sua vittima, bensì co-stringerla fino alla morte. Que-sto era il suo vero piacere.Ma nonostante i successi, Ma-riano sembra non accontentar-si, uno spazio rimaneva sem-

pre da riempire e una nuovaconquista doveva compiersi.Non era la donna in sé che cat-turava il suo desiderio ma ilmomento in cui la conquista

era certa. Ebbe a dire un gior-no: «È quell’attimo, quello sìlo cerco; poi finalmente, quan-do ci sono, ciò che può succe-dere dopo poco importa».Neanche in Sade c’è questapienezza del desiderio e questoabbandono immediato delladonna sedotta che invece Ma-riano manifesta. Infatti non ri-cava nessun vantaggio dallasua conquista e subito dopo simette alla ricerca di una nuovadonna da sedurre.Se un sadismo c’è in Don Gio-vanni, questo è molto raffinatoe poggia proprio su un elemen-to fondamentale tramite cuiesercita la sua missione: sedur-re. In questa azione infatti c’ètanto più fascino e misteroperché preannuncia l’abban-dono. Del resto il piacere checerca Don Giovanni con le sueamanti è di portarle ad una ri-nuncia della loro identità, delleloro convinzioni morali, perpoi farle accorgere, una voltaabbandonate, che questa lororinuncia, questo loro sacrificio,è ciò che provocava godimentoal seduttore stesso.In una cosa Mariano è tuttaviadiverso sia da Don Giovanniche da Sade: le donne sedotte,pur perdendo il loro fascinodopo la seduzione, venivano sìdisinvestite dal suo desiderio,ma poi non riusciva ad abban-donarle. Arrivò così, dopo al-cuni mesi, ad avere sette, ottodonne contemporaneamente equeste, naturalmente, non sa-pendo delle altre, credevanoessere ognuna l’unica donna.Mi disse un giorno esausto:«Mi creda, non ne posso più;mi confondo l’una con l’altra enon riesco più a sostenere que-sta divisione che opero in me

con loro. Ognuna conosce soloqualcosa della mia storia e perognuna di loro io sono diverso.Per fortuna ho questo luogo,c’è lei, che conosce tutto di me

e la mia storia si ricompone eio finalmente mi ritrovo. È l’u-nico posto dove mi ricompon-go interamente e mi sento fi-nalmente intero». Ci volleroun paio d’anni perché questamoltitudine di donne si allon-tanassero una dopo l’altra. Aciò contribuì una di queste, co-nosciuta in uno di questi perio-di di sconforto e che credo siastata una delle ultime da luiconquistate. Adriana, così lachiamerò, non si accorse maidella particolarità di Marianoné della sua malattia; allacciòcon lui un legame e riuscì amantenerlo fino a sposarlo. Maquesta è altra storia. Ritornia-mo a Don Giovanni e al biso-gno di Mariano di incontrarlo.In un tratto Mariano ancora sidistaccava da Don Giovanni.Aveva il bisogno di specchiarsinon appena incontrava unospecchio o una superficie ri-flettente ed aveva la necessitàdi contemplare il suo lavoro diseduzione. Insomma era Nar-ciso ma tuttavia era semprespinto all’esterno verso l’og-getto della sua brama. Era ve-loce nell’avvicinare la donna;con il suo sguardo cercavaquasi di fiutarla e, posatosi sudi lei, come un rapace la cattu-rava. Spesso le sue donne veni-vano ammaliate da questa au-dacia inaspettata da un giova-ne dall’aspetto così ordinatoed elegante e da un volto defi-nito “serio”. Posso dire che ledonne gli servivano in primoluogo per tentarlo sessualmen-te, così come per il Don Gio-vanni di Mozart.Mariano pur essendo colto,non conosceva tutte le parole,o almeno così pensava; portavacosì con sé, sempre, un voca-

bolario di italiano durantequesti incontri. «Per farciche?», gli chiesi un giorno.«Potrebbe sempre venirmi amancare una parola, magari

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quella decisiva, e senza voca-bolario non potrei trovarla».In questi incontri spesso tene-va anche a portata di manomateriale, gadget sessuali. «Miservono allo scopo, a volte astupire, in quel particolare mo-mento. Lei capirà!».Ci si potrebbe chiedere se la ri-cerca del fallo in questo mo-derno Don Giovanni avesseuna funzione e se questa fossepatologica. Ma quale? Che co-sa cercava Mariano nella don-na? Anche se il corredo che loaccompagna potrebbe indurrea pensare ad uno sfrenato desi-derio sessuale, a lui interessavain fondo solo la conquista e ipericoli ad essa legati; questasì, è sicuramente una brama.Mi resi conto ben presto che seio avevo di fronte un Don Gio-vanni, la mia funzione non po-teva essere che quella del ser-vo, di Leporello, che con scru-polo annotava e teneva il contodelle sue conquiste. Ne ero lamemoria, ma non solo.Un giorno gli chiesi: «Mariano,si è accorto che io ricordo piùdi lei delle donne che ha sedot-to?». «È vero», rispose, e ri-peté: «Chissà cosa avrei fattosenza questo suo lavoro notari-le? Sarei finito per smembrar-mi e questo essere sempre di-verso con ognuna di loro, que-sto ridurmi ad una cozzaglia dipezzi senza la possibilità di riu-nirli in queste sedute, miavrebbero portato a perdermidefinitivamente».È indubbio che io con il mioascolto, accogliendo le sue pa-role, rappresentassi per luiquel doppio necessario affin-ché potesse precipitare nellaricerca di quell’istante. Anchenel Don Giovanni di Mozart

l’istante, l’attimo, non si iscrivenella memoria. Ciò che conta èquella magia che permette dimantenere alta la bramosia diconquistare la donna.

Se non conoscessimo di Maria-no la sua storia, la sua segre-gante sofferenza prima di arri-vare a questa rappresentazionedi Don Giovanni, rimarremmocolpiti dalla spontaneità e dallalibertà con cui si avvicina allesue donne. Perché così libero?Mariano, come Don Giovanni,non ha un passato ma non haneanche un futuro, non ha sto-ria. È eterno, è mitico e, inquanto mito, non si iscrive nel-la generazione, nel discorso incui si impernia la parentela do-ve diviene inevitabile fare iconti con la colpa e l’angosciache sostengono il suo atto. Ma-riano sembra non avere radici,si sposta in questo periodo daun paese ad un altro, da un lo-cale all’altro. Proprio lui, che,nel momento in cui pensò chepotesse non esserci una diffe-renza tra padre e figlio, scoppiònella più nera disperazione.Proprio lui, ora, abbracciandoquesto personaggio, si permet-te il lusso di essere un apolide,non schiavo dell’origine graziead un desiderio sempre prontoad eternizzarsi e perdersi quasimortalmente nell’attimo.Le donne rimanevano spessocatturate dai suoi modi gentili,a volte quasi femminei. Maria-no aveva l’abilità, così facendo,di identificarsi nell’amante chedirige il gioco della seduzionema contemporaneamente an-che nella vittima che si perdenell’attimo fino a poterne mori-re. In ciò Mariano era vera-mente come Don Giovanni chesi identificava all’amata ma nonper essere uguale, effemmina-to, ma solo simile e pertantomantenerne l’estraneità. Eraproprio questa estraneità chein fondo interrogava e incurio-

siva le donne che Mariano co-nosceva di continuo, e questamancanza nell’altro aveva la ca-pacità di far nascere in molte diesse il desiderio e di far dichia-

rare il loro amore. È questo chesenza dubbio ha reso così po-polare Don Giovanni.Mariano, smessi i panni di DonGiovanni, si è ritrovato, nonsenza affanno, dapprima spo-sato e poi padre. Svaniscono dicolpo le sue conquiste e il desi-derio ad esse collegato; le sueuscite, i suoi facili spostamenti,la ricerca dell’attimo e, al con-trario, torna di nuovo il suo bi-sogno di nascondersi. Riescesempre più di rado a venire afare delle sedute; però mi te-lefona ogni tanto per dirmi chefarà del tutto per tornare qual-che volta. Sembra che in unprimo tempo il matrimoniocatturi la sua attenzione, vuoleun figlio ma teme perché nonsa cosa significhi volerne uno.Il figlio poi arriva, me ne parlaper telefono e periodicamenteme ne mostra le foto. Ha biso-gno di venire ma non sa comefare perché la moglie non è aconoscenza del lavoro analiticofatto per anni e non sa che direper allontanarsi da casa senzagenerare sospetti. I suoi sognisono più cupi ed inquietanti edil suo desiderio sembra non losostenga più. Parla a volte dipensieri melanconici e in unodegli ultimi colloqui parlandodel figlio mi dice: «Sa cosa pen-so? Che ora che c’è lui non po-trò più uccidermi». In tanti an-ni non lo avevo mai sentito par-lare di morte. Ogni Don Gio-vanni invecchia e muore quan-do il desiderio non lo sostienepiù. I Don Giovanni potrebbe-ro difendersi ma finiscono percalare le difese di fronte ad untempo che si storicizza, diame-tralmente opposto a quello del-l’attimo magico che muovevatutte le loro imprese.

Mariano, che aveva provato anegare la generazione, si trovaora, in quanto padre, a testimo-niarla. Riuscirà? Me lo auguro;ma il mio lavoro continua.   ■

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La seduzione è senza dubbiouno dei grandi temi toccati daMozart nei suoi melodrammi,tanto che, come tutti sanno,Kierkegaard aveva fatto pro-prio del Don Giovanni delcompositore di Salisburgo unaspecie d’archetipo della sedu-zione. Ma perché di quello diMozart, invece che di quello diMolière, o degli altri dramma-turghi che hanno affrontato ilmito del seduttore maligno?La risposta è semplice: perchéil Don Giovanni di Mozartnon si limita a parlare, ma can-ta, e cantare è già di per sé unmodo per sedurre.Del resto la musica di Mozart èsempre – o quasi sempre –molto seducente. Che lo fosse,era uno scopo che egli si pro-poneva appositamente, perchéda questo dipendeva il succes-so delle sue composizioni, ed ilsuccesso, quando si vive con lamusica, non è certo un fattoresecondario (cosa di cui sembra-no essersi dimenticati i compo-sitori del secolo finalmentescorso). È per questo che Mo-zart parte sempre dalla conven-zione, vale a dire da quello chegli uditori s’aspettano di senti-re, ma solo per introdurvi deglielementi nuovi – oppure anti-chi e démodés, per esempio lapolifonia bachiana –, che dasoli non avrebbero attirato l’at-tenzione degli ascoltatori. Inquesto modo Mozart seduce ilproprio pubblico, portandolo

con sé, lontano da quel gustorococò, del quale pure sembraun fedele accanito, verso lefonti più alte della melodia, va-le a dire del canto.

Sono pochi i pezzi in cui Mo-zart non si sia curato di questo(per esempio il Quartetto delle

dissonanze, che ad alcuni ac-quirenti parve pieno d’erroridi stampa). Ma spesso la sedu-zione diviene l’anima stessa delpezzo musicale, anche quando

nulla, nel testo cantato, evocaquesto tema, come nel duettodi Così fan tutte, o addiritturanell’Et incarnatus est dellamessa in do minore, pezzo de-dicato alla moglie, che avrebbedovuto cantarlo a Salisburgo,al rientro del compositore, or-mai sposato, nella città natale(inutile dire che non se ne feceniente; poche città, in Europa,sono meno seducenti di que-sta, nonostante la sua splendi-da posizione naturale e l’ambi-zione un po’ tronfia degli edifi-ci che vi sono costruiti; per ca-pire perché Mozart abbia pre-ferito ogni altra città alla pro-pria, basta andarci).Ma naturalmente è nel  DonGiovanni , come dicevamo, cheil tema della seduzione divienepropriamente l’oggetto dellamusica e del dramma. Certo, adifferenza della seduzione mu-sicale, compatibilissima anchecon una messa, quella di DonGiovanni è totalmente malva-gia, Ma Don Giovanni, si sa,mente con buona coscienza,come se non mentisse, e pro-prio per questo seduce. Lo sipuò constatare nel pezzo cele-berrimo dedicato a questo te-ma, il duetto fra Don Giovannie Zerlina, Là ci darem la mano.Perché questo duetto ha avutoun successo così enorme, tantoda divenire quasi un luogo co-mune della seduzione musica-le? Infatti, non si tratta solodella trama, e del fatto che qui

vediamo finalmente all’operala rara bravura del protagoni-sta nel mentire come se nonmentisse. In effetti qui la musi-ca e la menzogna del seduttore

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Mozart, o la musica come seduzione

Ettore Perrella

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fanno, propriamente, tutt’uno,e si vede chiaramente che Zer-lina, nonostante i suoi fondatitimori «io so che raro colledonne voi altri cavalieri sieteonesti e sinceri» non vede l’oradi farsi portare alla rovina.La domanda è allora: che cosariesce a dirci Mozart, con lamusica, in realtà semplicissi-ma, di queste poche battute?Riepiloghiamo la situazione.Zerlina sta per sposarsi conMasetto. La festa è contadine-sca, condita di luoghi comuniarcadico-bucolici, anche seconditi da tocchi molto reali-stici («parmi toccar giuncata efiutar rose»), non che di qual-che generica rivendicazioneantinobiliare; alle parole diZerlina risponde Don Gio-vanni: «È un’impostura dellagente plebea. La nobiltà ha di-pinta negli occhi l’onestà».Ma tant’è: il nobile Don Gio-vanni ha la partita facile a farcredere alla giovane che la spo-serà: «Quel casinetto è mio: so-li saremo e là, gioiello mio, cisposeremo».E, qualunque cosa intendaDon Giovanni per “sposare”,per rendere piena la seduzio-ne, il testo passa dal recitativoal canto, vale a dire al duettovero e proprio: «La ci darem lamano, / là mi dirai di sì; / vedi,non è lontano, / partiam, benmio, da qui».Tutto è semplice, non c’è cheda fare pochi passi per “spo-sarsi”. E la musica realizzaquesta semplicità con pochenote, nella tonalità luminosa dila maggiore (chi può mentirein la maggiore?) e nel ritmosemplicissimo di 2/4. Zerlinariprende il motivo, trascinatadalla promessa, anche se la me-

lodia, sulle parole «ma puòburlarmi ancor» – ma anchequi riprendendo le semicromefinali di Don Giovanni –, di-viene tremante come l’esitazio-

ne della ragazza. Don Giovan-ni non cede. «Vieni mio bendiletto». Zerlina risponde: «Mifa pietà Masetto» (in effetti hagià ceduto, visto che ha già sa-crificato al suo sogno coluiche poco dopo avrebbe dovu-to diventare suo marito) e laprima parte dell’aria non tar-derà a concludersi con un ri-petuto «andiam», che segna ilpassaggio alla seconda parte,questa volta in 6/8 (ritmo tra-scinante, da danza popolare):«Andiam, andiam, mio bene, /a ristorar le pene / d’un inno-cente amor».Ed il giuoco sarebbe fatto, se ilcaso non ponesse fra i due il«fermati, scellerato» di DonnaElvira, che da tempo segue il«perfido seduttor», per trarnela giusta vendetta (che, alla fi-ne del dramma, si compirà gra-zie all’intervento della statuadel Commendatore).Perché, allora, tanto successo?Per lo stesso motivo per cuiDon Giovanni avrebbe ag-giunto un’altra vittima al «ca-talogo», come s’esprimeva Le-porello: per la chiarezza e lasemplicità del motivetto. Rara-mente Mozart ha scritto melo-die così popolari, con tre ac-cordi e poche note, tutte in-cluse nelle battute regolamen-tari della frase. In fondo, è po-co di più che una schitarrata,che andrebbe benissimo perqualunque pic-nic popolare-sco. Don Giovanni s’adeguaalla cultura della bella di tur-no, e Mozart fa lo stesso. Macerto non con lo stesso scopo.Il protagonista del drammamerita senza dubbio il precipi-zio infernale con cui si conclu-de l’opera, con un finale che ciporta in pieno romanticismo:

nonostante la paura di Lepo-rello continui a farci sorridere,non c’è dubbio che la situazio-ne è serissima, ed anzi la piùseria; ci sono colpe – quelle

contro lo spirito – che nonpossono essere perdonate achi rifiuta di fare un passo in-dietro rispetto al male com-piuto. Ma appunto, la sedu-zione della musica di Mozartnon ha lo scopo di condannarenessuno, neppure Don Gio-vanni. Al contrario, il re mino-re con cui interviene il Com-mendatore alla fine del dram-ma ci porta già nel clima apo-calittico del  Requiem. Certo,Mozart seduce i suoi uditori,ma li seduce all’assoluto, infondo presentando se stesso –con le proprie miserie umane,troppo umane – al giudiziod’un giudice che solo potrà ca-pire la sua musica, e che non èdi certo l’uditore. Di questonoi siamo chiamati ad esseresolo i testimoni muti.Per questo, e soltanto per que-sto, nonostante le apparentismancerie rococò, e le sempli-cità popolaresche, o persinopopuliste, con cui Mozart hacondito la sua musica, per ren-derla accettabile ai palati gros-solani del suo pubblico, ognisua composizione ci porta sem-pre, anche quando sembrasemplicissima, al nucleo delproblema della vita e della mor-te. La vita e la morte, sembradirci fin da ragazzo questo en-

 fant prodige salisburghese, nonsono che una convenzione, co-me quelle con cui ci si presentala musica, con tutti i suoi arma-mentari ripetitivi di formule di-venute abituali. Certo, le con-venzioni non sono affatto prived’importanza, perché, senza diesse, non si potrebbe dire nulla.Ma la verità della musica è al-trove, non solo rispetto alleconvenzioni, ma anche rispettoalla vita ed alla morte. Dove, al-

lora? Dove riusciamo ad esserequando ci lasciamo sedurre –appunto – dalle sue note, vale adire nel luogo stesso del giudi-zio senza appello.   ■

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Prendendo le mosse dalle sug-gestioni di uno dei più celebripersonaggi letterari della mo-dernità, provo in questo testoad esplorare gli aspetti sedutti-vi che attraversano le pratiche,immateriali e relazionali, dellavoro post-fordista.

Il servo di Don Giovanni Il Don Giovanni  di Mozart/ DaPonte e quello di Molière: ledue narrazioni sicuramente piùcelebri di una consistente e va-riegata tradizione letteraria(Macchia, 1978) che hannocontribuito a costruire il mitodel seduttore. In entrambe ini-zio e fine del dramma sono pre-sidiate dal servo di Don Gio-vanni. Di straordinaria efficacial’incipit di Da Ponte: «Notte egiorno faticar per chi nulla sagradir / Pioggia e vento sop-portar / Mangiar male e maidormir / Voglio fare il gentiluo-mo e non voglio più servir».Capranico (1992) rileva comesi evidenzi l’eterno ritorno(notte e giorno), del lavoro ser-vile di Leporello, la sua ciclicitàinterminabile, a fronte di unareiterata indifferenza di DonGiovanni alle sue prestazioni( per chi nulla sa gradir ). Unasorta di bambino insaziabile edavido e al tempo stesso un pa-drone ingrato, indifferente aglisforzi e alla fatica del servo.In Molière invece, Sganarelloinizia con la celebre lode al ta-bacco, alle sue capacità tera-

peutiche per lo sviluppo dellevirtù della cortesia e del garbo;simbolo della domesticità edell’ozio nobiliare, evidente-mente contrapposti all’iperci-

netismo isterico del suo padro-ne. Il finale del dramma, comesi diceva, vede ancora protago-nista il servo di Don Giovanni;è suo infatti il discorso chechiude l’opera di Molière conquell’invocazione, di chiaraderivazione dalla commediadell’arte italiana (Curi, 2002):«Ah i miei salari!, i miei salari,i miei salari!».Da Ponte sceglie invece un fi-nale enfatico che registra l’ap-parentemente liberatorio luttodi Leporello con un dolenteprincipio di realtà: «Ed io va-do all’osteria a trovare padro-ne migliore».La figura del servo Leporel-lo/Sganarello, una sorta di alterego di Don Giovanni, segnalala strategica centralità che rive-

ste, per l’impunito seduttore, ilmuto testimone delle sue gesta.In altri termini Don Giovanninon può accontentare il pro-prio inguaribile narcisismo con

la sola presenza delle sue vitti-me ma richiede una figura sim-bolica attraverso la quale pro-pagare la straordinaria sequen-za delle sue conquiste. «Ma inIspagna son già milletré» enu-mera così il servo, con un mistodi disapprovazione e malcelatainvidia, le straordinarie impre-se del proprio padrone.Senza Leporello/Sganarello, ilportatore delle istanze di tra-sformazione e al tempo stessoil dolente registratore del prin-cipio di realtà, Don Giovanninon sarebbe Don Giovanni masemplicemente un inguaribileadolescente rinchiuso nei suoiincubi. Chi fa la sua grandezzaè il suo petulante e rancorososervo. Qui il servo non ha lafunzione hegeliana del supera-mento della relazione in virtùdella sua centralità nel rappor-to con le cose del mondo e conil loro cambiamento.Leporello/Sganarello è il dop-pio di Don Giovanni; con luicondivide tutte le gesta sedut-tive e la scomparsa del suo pa-drone si configura come un’in-tollerabile mancanza che deveessere riempita attraverso unprocesso di semplice sostitu-zione, conferma dell’impossi-bilità del superamento di unadipendenza ontologica.

Elogio dell’assenza di me-moria Ma anche Don Gio-vanni per essere quello che è,richiede la presenza di un pub-

blico muto che registra, nonimporta se ammirato o inorri-dito, la sua potenza seduttiva.Don Giovanni non ha nulla ache fare con la potenza dell’ho-

Don Giovanni e il lavoro post-fordista

Marco Cerri

Lorenzo Da Ponte.

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mo faber ; con la costruttività ti-tanica che prefigura un futuroe una socialità del proprio pro-dotto; il suo fare è inscritto inuna circolarità senza inizio esenza fine, all’interno dellaquale l’esito di ogni agire èpremessa per un’identica azio-ne successiva, in un reiterato einfinito ciclo.Promessa, consumo e abban-dono; il ciclo seduttivo di DonGiovanni si ripete costante-mente in un bulimico processo,indifferente all’altro; la seduzio-ne si nutre pertanto di simula-zione, apparire diversi da ciòche si è e dalla proprie intenzio-ni. La finzione e il segreto ap-partengono in pieno all’oriz-zonte di senso del processo se-duttivo. Anche in questo casoDon Giovanni non ha nessuncarattere comune con il produt-tore; alla trasparente investi-mento di sè nel prodotto, il se-duttore contrappone l’opacitàdei propri sentimenti e l’elusi-vità dei propri comportamenti.Alla lentezza, alla progressi-vità cumulativa, al suo esseretutto all’interno di una consa-pevolezza storica, Don Gio-vanni oppone la velocità, l’im-prevedibilità, la sorpresa re-pentina che sospende la storiae si compie in se stessa. Nel se-duttore non vi è memoria sto-rica, lenta stratificazione delsenso dell’agire e progressivacostruzione dell’io; laddove larappresentazione di sé si mo-dula sulla l’aleatorietà e prov-visorietà dei contesti e dellecircostanze, la memoria nonpuò che essere computativa edevenemenziale.Così come non vi è in DonGiovanni un passato, in quan-to questo è sussulto all’interno

di una ciclicità che si rinnovacostantemente, così non vi è al-cun futuro. Certamente Mac-chia (1978) ci fa notare che ilcelebre catalogo narrato dal

servo Leporello si conclude si-gnificativamente con un nume-ro dispari, quasi a prefiguraresimbolicamente un ulterioreseguito. Ma questo futuro è in-scritto inevitabilmente in uneterno ritorno dove non si so-stanzia alcuna cumulabilitàprogressiva.

Il mito dell’autogenerazioneCome nel mito della fenice, nelciclo infinito di creazione e di-struzione, viene meno la di-stinzione tra origine e fine, vitae morte, causa ed effetto, sog-getto e desiderio. In questosenso il mito auto-generativo èla più potente negazione dellastoria e del mondo, della di-pendenza e dell’altro, della di-stinzione tra pensiero e realtà ela più straordinaria manifesta-zione dell’onnipotenza narcisi-stica del soggetto. Un indivi-duo che non è in grado, men-talmente ed emotivamente, diriconoscere la propria dipen-denza e i propri limiti, vive unapermanente confusione tra de-siderio e realtà che non puòche riempire con continui pas-saggi all’atto. In questo conte-sto è inibito l’accesso al pensie-ro, inteso come elaborazionementale di significati della pro-pria presenza nel mondo e nel-la storia; è il riconoscimentodella propria origine, dellapropria dipendenza dalla cop-pia genitoriale la condizioneper l’elaborazione di un pen-siero in grado di padroneggia-re il limite tra fantasia e realtà,autonomia e dipendenza, sé eil mondo.Il sentimento autogenerativoevoca in altri termini una di-retta connessione non solocon una dimensione orizzon-

tale, un’autonomia dell’indivi-duo dal mondo, dall’altro edalle inevitabili costrizioneche l’agire mondano compor-ta; ma anche e forse soprattut-

to una dimensione verticale,una sottrazione ai vincoli dellastoria e della cultura, trasmes-sa attraverso i processi di so-cializzazione.In questo senso quindi il con-cetto di auto-generazione in-terroga la collocazione dell’in-dividuo nella dimensione della“generazione”, dell’apparte-nenza cioè ad un mondo, e del-la “discendenza”, ossia del-l’appartenenza ad una storia altempo stesso privata e pubbli-ca, famigliare e mondana.Ciò che è all’opera nella fanta-sia di un processo auto-genera-tivo è, per il pensiero psicoana-litico, la rimozione del fanta-sma di castrazione e della sce-na primaria, i luoghi cioè dovel’individuo riconosce il pro-prio essere ontologicamentedipendente dalla coppia geni-toriale e dalla storia del mondodi cui questa è espressione.La rimozione del debito onto-logico dell’individuo nei con-fronti della coppia genitorialeabbiamo visto essere connessoalla negazione del riconosci-mento della discendenza; lapermanenza cioè in uno statodi onnipotenza che precede ilriconoscimento dell’esistenzaautonoma degli oggetti e inprimo luogo del seno maternocome distinto da sé.Nella rielaborazione di Mela-nie Klein (1994) l’invidia vienericondotta ad un sentimentoreattivo di rabbia nei confrontidell’avvenuta percezione dellapropria ontologica carenza; at-traverso la proiezione dellapropria rabbia sulla fonte delproprio nutrimento, il bambi-no tende a negare la propriadipendenza. I sentimenti di-struttivi, avidi, competitivi tro-

vano in questo contesto la lororagione; la frustrazione svilup-pa sentimenti persecutori nonconsentono l’evoluzione psi-chica verso il riconoscimento

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dell’esistenza di un mondoesterno e l’accesso a quella cheKlein definisce posizione de-pressiva. In questa dimensioneil bambino può rielaborare lafrustrazione della propria im-perfezione e dipendenza, attra-verso la distinzione dall’altro elo sviluppo della capacità disostenere la perdita della pro-pria autosufficienza e sviluppa-re le proprie facoltà di adatta-mento al mondo esterno. Lad-dove ciò non avviene vi è unasorta di fissazione ad uno sta-dio psichico precedente (posi-zione schizo-paranoide) doveviene mantenuta tutta la den-sità dei sentimenti persecutorie viene inibito l’accesso allagratitudine, al sentimento cioèche consente di riconoscere lapropria dipendenza e svilup-pare le proprie capacità ripara-torie e sublimative.

La crisi del codice paternoÈ evidente che questa rappre-sentazione dell’individuo co-struita sulla rimozione dellascena primaria e sulla tensioneal superamento di qualsiasiforma di dipendenza, rimandaalla crisi dei codici parentali disignificazione sociale.Da un punto di vista simbolicoil padre, favorendo la rotturadella a-temporale simbiosi af-fettiva tra madre e bambino1,consente l’accesso dell’indivi-duo alla storia e alla cultura. Viè infatti un intimo legame trala figura paterna e la dimensio-ne del tempo storico così comeè altrettanto evidente la carat-terizzazione paterna comeistanza che introduce al mon-do e alle sue regole di convi-venza sociale.Il padre infatti non viene defi-

nito naturalmente ma necessitaper accreditarsi in quanto taledi una manifestazione di vo-lontà, di un’assunzione pubbli-ca di responsabilità. Pater sem-

 per incertus, dicevano gli anti-chi; la figura paterna richiedeun mondo sociale per potereaffermare la propria identità2 efavorire il superamento dellacondizione naturale, a-tempo-rale e asociale della relazionemadre/bambino e porre così lecondizioni per l’accesso allacultura e alla società.Don Giovanni è il prototipoper eccellenza della sfida adogni divieto e ad ogni limite.Rank (1987) individua proprionella mancata separazione dal-la madre l’impossibilità identi-ficatoria con il codice del pa-dre. La sfida di Don Giovanniè una sfida al divieto edipico.Non è certo un caso che l’ucci-sione del Commendatore pre-ceda la narrazione e il ritornodel convitato di pietra la con-cluda; il fantasma paterno ri-torna con tutta la valenza ag-gressiva e mortifera a determi-nare la fine del seduttoreD’altro canto è Macchia a se-gnalare come all’origine delmito starebbe propria la rivoltavitalistica contro il mementomori che informa così pesante-mente la stagione contro-rifor-mistica; non dissimilmenteRousset (1980) segnala la di-mensione mortifera che aleggiasulla predatorietà compulsivadell’eroe barocco. In questosenso non vi è alcuna capacitàtrasgressiva in Don Giovanni;il mimetismo, l’inganno, la ca-pacità camaleontica di adattar-si ai vari contesti per garantirsila immediata scarica pulsionalenon ha nulla della contestazio-ne radicale allo stato di cosepresenti.Carotenuto (1998) segnala co-me l’inganno e la finzione, labeffa e lo sberleffo rinviano ad

un deficit elaborativi della di-mensione simbolica del divie-to; è all’interno di questa di-mensione affettiva che non sida la possibilità di assunzione

della colpa e del conseguentebisogno di ricostruire ciò che siè danneggiato3.Autogenerazione onnipotente,rimozione simbolica del codicepaterno, elogio dell’assenza dimemoria, edonismo vitalistico,finzione e pratiche camaleonti-che, provvisorietà ed aleato-rietà delle relazioni, vita comerappresentazioni di sempremutevoli ruoli, narcisismo ecomportamenti predatori.Questi aspetti tipici della figu-ra mitica di Don Giovanni mipare siano fortemente presentinell’immaginario e nelle prati-che quotidiane del lavoro post-fordista.

L’astuzia e la presenzaL’elevata competizione, l'alea-torietà delle regole che gover-nano il successo lavorativo edesistenziale, costringono il lavo-ratore post-fordista ad una co-stante presenza sul mercato allaricerca di nuove commesse eopportunità di conoscenze; ladilatazione dello spazio/ tempodi lavoro investe direttamentequello della socialità e convivia-lità. L’accesso e il mantenimen-to della possibilità di lavoro sialimenta infatti attraverso l’in-tensificazione delle reti di rela-zioni micro-sociali; amicizie su-perficiali e conoscenze occasio-nali, maturate all’interno dicontesti informali e ricreativi,diventano risorsa produttiva.In questo contesto diventapertanto strategicamente cen-trale posizionarsi nei nodi si-gnificativi delle reti relazionalie produttive per potere goderedel più consistente flusso diinformazioni e occasioni di la-voro; in questo caso si creanole possibilità di vantaggi com-

petitivi determinati dal poterefruire delle asimmetrie infor-mative e del conseguente au-mento della propria reputazio-ne produttiva.

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L’essere all’interno di una mol-teplicità di circuiti relazionaliproduce risorse aggiuntive dicapitale sociale; queste ultimedevono essere costantementealimentate da saper fare convi-viali, i quali, nel momento incui si sostengono su presuppo-sti opportunistici, ciò nondi-meno devono però manifestar-si come spontanei.In altri termini la persistenzadelle possibilità di successo dellavoratore autonomo si svilup-pa su qualità tra loro apparen-temente contraddittorie; dauna parte la capacità di conser-vare segreti strategici di impor-tanza vitale per godere seletti-vamente delle opportunitàconsentite dalle reti, e al tem-po stesso, apparire come indi-vidui trasparenti, naturalmentepredisposti all’altro e alla curadisinteressata delle relazionisociali. L’intenzionalità di ma-nifestare la propria capacitàproduttiva deve essere dissi-mulata, presentarsi cioè comepuro interesse conviviale, svin-colato da qualsiasi rimando diopportunismo, strumentalità,avidità acquisitiva.Il successo lavorativo, oltre cheal possesso di competenze spe-cifiche nell'esecuzione di unadeterminata prestazione, di-pende anche, e forse soprattut-to, dalla capacità di intessererelazioni con soggetti in posi-zione significativa nei circuitiproduttivi, di attivare processidi collaborazione competitivacon colleghi, di costruireun’appetibilità di sé, attraversol’utilizzo di tecniche comuni-cative e seduttive.

Il marketing di sé stessi Inuno dei tanti manuali dell’arte

di vendere sé stessi (Varvelli R.M. L., 1999) vengono espressa-mente prescritte una serie di at-tenzioni all’offerta della propriapersona come marchio acqui-

stabile sul mercato. Gli autoriinvitano chiaramente a fare disé stessi «un prodotto o un ser-vizio da offrire agli altri» (pag.16). Il self-marketing non puòche comportare una particola-re attenzione al pack-aging, os-sia al confezionamento di sécome prodotto, avendo speci-fica cura nel modularsi dalpunto di vista comportamenta-le con modalità differenti a se-conda dei contesti plurali neiquali ci si rapporta.È evidente che in queste pre-scrizioni per l’efficace offertadi sé sul mercato non vi è solouna consapevole sorta di mer-cificazione dell’Io ma ancheun’apoteosi della flessibilitàcomunicativa e dell’opportuni-smo relazionale.All’insegna della fantasia auto-generativa per cui ognuno di-venta il sé che decide, il model-lo proposto delle “cinque V”,consiste nel ritenere strategica-mente centrale la cura del sog-getto al lavoro delle proprieverbalità, vestibilità, visibilità,vivibilità e vitalità; conseguen-za implicita quindi dell’auto-mercificazione è un processoprogressivo di disciplinarizza-zione del corpo. Alla capacitàcomunicative empatiche si de-ve infatti accompagnare un’e-leganza sobria ma accattivantein grado di rendere visibile ememorabile la percezione di sénell’altro. Viene inoltre pre-scritta l’attiva partecipazionealla vita sociale (culturale,sportiva, ricreativa, associativa,di volontariato, ecc.) per co-struire una notorietà non effi-mera, ritenuta indispensabileper potersi situare in posizioneprivilegiate nella rete e nelmercato.

A queste qualità camaleontichenecessarie per potere sostenerenel tempo la propria appetibi-lità sociale, vengono associatedagli autori, senza soluzioni di

continuità, le esortazioni allavivibilità e alla vitalità. Con laprima si identificano le capa-cità di amare sé stessi, la sere-nità, l’equilibrio, la naturalez-za, mentre con la seconda inve-ce le retoriche new age del pen-sare ottimisticamente positivo,l’assertività, il coraggio, l’entu-siasmo, eccetera.Ora è evidente che mentre leprime tre qualità (comunica-zione, cura di sé, presenziali-smo) possono essere sviluppa-te attraverso un investimentosulle cognizioni strumentalidell’individuo, le qualità essen-zialmente psichiche della vivi-bilità e vitalità, difficilmentepossono essere auto-indotte. Ameno che non si presuma unindividuo singolarizzato e sen-za memoria plasmabile da gu-ru della formazione personaleoppure mutabili attraversol’apprendimento puramentecognitivo di qualità eroichepresenti nella psiche ma sco-nosciuti all’individuo stesso.

Il lavoro senza memoria esenza politica Nel vissutosoggettivo del lavoratore flessi-bile e precario post-fordista sisviluppa l’attitudine ad un di-simpegno emotivo dal legamesociale di produzione; oppor-tunismo e cinismo, figure topi-che delle nuove rappresenta-zioni dell’individuo singolariz-zato, trovano così, dentro lamaterialità dei rapporti produt-tivi, la loro ragione principale.L’instabilità del lavoro, la re-versibilità degli impegni, l’alea-torietà dei legami, rendonoinutile e dannoso un investi-mento, affettivo e cognitivo, dilungo periodo sull’impresa esulla professionalità, comune-

mente intesa. All’individuo sin-golarizzato viene richiesto, perla propria riuscita nel percorsoprofessionale, la paradossalepresenza di due competenze

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affettive tra loro intimamentecontraddittorie; da una parte lacapacità di consistente investi-mento emotivo, l’entusiasmodel neofita. Dall’altro la altret-tanto determinante capacità didisimpegno dai contesti (il di-sincanto dell’adulto) per poter-si preservare emotivamente anuove avventure produttive4.È evidente che ciò che vienerichiesto al lavoratore post-fordista non è tanto e solo lavivacità intellettuale e l’apertu-ra mentale di apprendere sem-pre nuove competenze cogni-tivi e nuovi saperi; ma è anche

e soprattutto la capacità emo-tiva di sostenere frequenti luttiaffettivi, connessi ai contesti,alle persone, ai saper fare, aiprodotti, ecc. Tali competenze

rinviano ad un individuo capa-ce di un continuo pendolari-smo emotivo tra affettivizza-zione e deaffettivizzazione, ap-prendimento e disapprendi-mento dalle esperienze.Il lavoro non è più riconduci-bile né alla pratica dell’animal laborans che, nella ciclicità delsuo agire e nel rinnovarsi pe-riodico dei suoi compiti trovala memoria delle proprie prati-che; né tanto meno è ricondu-cibile alla materialità del pro-dotto dell’homo faber che atte-sta in sé il ricordo e il senso delproprio agire produttivo; lad-

dove il lavoro diventa immate-riale, nell’individuo la memo-ria di sé come produttore nonpuò che essere rintracciabile onel ricordo individuale oppure

nelle tracce che persistono neifruitori delle prestazioni. Sitratta in ogni caso di una me-moria debole, reversibile, eva-nescente, inscritta in una realtàdiventata narrazione soggettivae parziale; in questo sensocoincidente con una rappre-sentazione, o meglio una rap-presentazione di rappresenta-zioni, che nega la possibilità diaccesso ad un principio direaltà. Quest’ultima non esistepiù nella sua dimensione mate-riale e simbolica ma solo comeproiezione delle rappresenta-zioni dell’io; nel momento in

cui vengono meno le distinzio-ni tra soggetto, processo e pro-dotto lavorativo, il principio direaltà non funziona più comepremessa ed esito della dimen-

Scuola ferrarese del Quattrocento, particolare del Trionfo di Vulcano. Palazzo Schifanoia - Ferrara.

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sione costruttiva, e costrittiva,del lavoro bensì come un limitepersecutorio alla proliferazionedelle possibilità offerte dallapluralità dei linguaggi e dellenarrazioni, attraverso i quali sirappresenta l’onnipotenza del-l’individuo singolarizzato.Vi è quindi un nesso forte travirtualizzazione del lavoro im-materiale, indistinzione confu-siva tra io e lavoro e indifferen-za alla memoria del produrre.Questa dimensione deboledella memoria si connette all’e-sigenza di mantenere plausibi-le le fantasie auto e rigenerati-

ve dell’individuo nel suo no-madismo produttivo e all’al-trettanto centrale esigenza dellavoro post-fordista di sostene-re il peso emotivo dei continui

lutti che i processi di flessibi-lizzazione comportano. L’im-materialità degli esiti lavorativi,la singolarizzazione autogene-rativa, la flessibilità emotiva ecognitiva; queste caratteristichedel lavoro post-fordista tendo-no a depotenziare la dimensio-ne tragica che la pratica pro-duttiva ha assunto nella moder-nità. I dilemmi del lavoro traautonomia e dipendenza, co-struttività e distruttività, libera-zione e oppressione, norma ediscrezionalità tendono ad es-sere rimossi e negati; laddovetutto viene assunto come rever-

sibilità, singolarità irripetibile,non solo la memoria individua-le diventa un fardello inutile eingombrante per sostenere laaspirazione alla leggerezza e al-

la aleatorietà, ma anche quellacollettiva subisce lo stesso pro-cesso di invalidazione.De-storicizzazione e de-poli-ticizzazione del lavoro vannoquindi di pari passo; se è purvero che il lavoro immaterialerichiede una reiterata disponi-bilità alle relazioni e la messa incampo di qualità comunicative,è altrettanto vero che la centra-tura sul presente non consenteuna prefigurazione collettivadel futuro. Il lavoro quindi,mentre assume i caratteri del-l’azione e si situa nell’infra del-le relazioni umane, si congeda

dalla politica come progettocomune di trasformazione con-sapevole dell’esistente.La sfera pubblica diventa unaplatea vuota dove esercitare la

Scuola ferrarese del Quattrocento, particolare della Potatura della vite. Palazzo Schifanoia - Ferrara.

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propria competenza narrativa,in solipsistico isolamento op-pure in una socialità strumen-tale; non vi è spazio per l’azio-ne collettiva che anzi vienerappresentata come l’abdica-zione alla propria volontà dipotenza, la certificazione dellainadeguatezza personale ad af-frontare le criticità.

Lavoro immateriale e per-versione Nel processo dide-identificazione paterna l’iodiventa l’ideale di sé stesso; leprescrizioni sociali della convi-venza societaria perdono la lo-ro effettività e riducono le pro-tezioni simboliche contro le fe-rite narcisistiche. Il venir menoinfatti della legittimazione so-ciale delle regole paterne se dauna parte consente all’indivi-duo una maggior libertà diazione, dall’altra non gli con-sente più di scaricare sui vin-coli societari le ragioni dei pro-pri insuccessi e dei propri limi-ti. In questo senso quindi lacrisi del codice paterno ridefi-nisce i rapporti tra principio dipiacere e principio di realtà einduce una regressione dellapresenza prescrittiva del supe-rio ad un’istanza intermediatra quest’ultimo e il narcisismoprimario. A questo livello in-termedio dell’evoluzione psi-chica, la letteratura psicoanali-tica ha dato il nome di idealedell’io, il quale si basa sul rico-noscimento della distinzionetra io e l’altro e in questo sensorappresenta un superamentodelle istanze narcisistiche diunità primigenia; ma a questapromessa in qualche manieraritorna, aspirando cioè con-traddittoriamente alla realizza-zione del desiderio arcaico di

fusionalità. In altri termini l’i-deale dell’io implica la neces-sità di un processo mentale diprogettazione di sé che lo di-stanzia dalla pura scarica pul-

sionale tipicamente narcisisti-ca; in questo senso introducel’esistenza del principio di

realtà. D’altro canto, non con-sentendo il processo identifica-torio con il padre, produceforme perverse di idealizzazio-ne dello stadio pre-genitale; inquesto contesto trova spaziol’idealizzazione delle pulsioni edegli oggetti parziali che fannoritornare all’io, motore di tuttoil processo di costruzione di unprincipio di realtà difettoso eincompleto.Chasseguet-Smirgel (1991) rin-traccia proprio nella figura delperverso gli intimi legami trade-identificazione paterna, ri-mozione della differenza tra isessi, svalutazione della genita-lità e depotenziamento delledifferenza generazionali.Per la psicanalista francese,l’indisponibilità dell’edipo edei suoi derivati non consenteall’individuo la proiezione sul-la figura paterna dei processidi idealizzazione, venendo cosìa mancare la possibilità di radi-care una forte identità perso-nale nel contesto sociale e ge-nerazionale; il farsi da solo nonrappresenta quindi solo il se-gnale di una generale libera-zione dalle consuetudini stori-che ma la costrizione, il doveressere, indispensabile alla so-pravvivenza sociale. L’identitàè quindi compito dell’indivi-duo in assenza della possibilitàdi situare il proprio operare al-l’interno di un contesto storicoe generazionale. La creazionee l’auto-creazione diventanoquindi un compito impossibi-le poiché avvengono senza piùriferimento affettivo al padre,rappresentante simbolico del-la continuità storica. È indi-sponibile pertanto una rap-presentazione simbolica delprocesso creativo; così come il

produttore è figlio di nessuno,così pure la sua opera non po-trà essere riferita ad un pro-cesso simbolico di filiazione,ma a quello che Chasseguet-

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Smirgel definisce di «fabbri-cazione», confezionamentoesteriore di un prodotto che sifa immediatamente merce.

Oggetti parziali e illusioni-smo Nell’epoca delle econo-mie digitali, della circolazionecontinua di informazioni e im-magini e, contestualmente, del-la competizione economica si-tuata intorno alla centralitàstrategica assunta dall’estetiz-zazione delle merci, l’impossi-bilità di un’autentica filiazionedel prodotto diventa parados-salmente una risorsa per il la-voro immateriale e imprendito-rializzato. In altri termini dauna parte è indisponibile al-l’individuo singolarizzato lapossibilità del riconoscimentorealistico della relazione tra ioe prodotto, possibile solo gra-zie all’esistenza di identifica-zioni paterne e conseguente-mente la capacità di attivaremeccanismi sublimatori. Madall’altra si apre tutta la possi-bilità di investimento sulla ri-combinazione, potenzialmenteinfinita, degli elementi parzialidell’oggetto lavorativo.Il prodotto immateriale si sot-trae perciò alle dicotomie uti-le/inutile, tipiche del periododell’apoteosi delle merci mate-riali; così come a quelle di au-tentico/inautentico, proprio diuna fase precedente alla ripro-ducibilità tecnica delle merci.I confini tra vero e falso, proto-tipo ed imitazione si fanno la-bili ed è in questa volatilità del-le distinzioni che si offronostraordinari spazi per le formeperverse di creatività.In questo contesto assumonocentralità le capacità creativadi produrre variazioni sul te-

ma, di esprimere competenzevirtuose nella introduzione dielementi perturbanti, inaspet-tati, sorprendenti. Pertanto sel’imitazione, la riproduzione

cioè tendenzialmente perfettadell’autentico, rappresenta ilsoddisfacimento allucinatoriodel desiderio, espressione diuna fissazione a forme di narci-sismo primario, l’introduzionedi varianti puramente quanti-tative consente di mantenerepsichicamente accettabili lasfasatura tra io e il proprioideale. In altri termini consen-te un’identificazione incom-pleta, un tentativo identificato-rio con la figura magistrale maal tempo stesso registra l’im-possibilità di metabolizzarel’ontologica alterità dell’ogget-to. In questo senso si tratta diuna strategia di “aggiramentodell’ostacolo” che, registrando

l’impossibilità di accesso adun’autentica sublimazione ingrado di modificare qualitati-vamente la pulsione, rendefunzionale il processo di idea-

lizzazione alla pratica produt-tiva. Chasseguet-Smirgel ricor-re qui all’esempio della diffe-renza qualitativa e simbolicatra cucina post-moderna ebuona cucina. Nella prima vi èuna ridondanza barocca diestetismi, fantasie, leziositàmentre nella seconda invecetende a prevalere un’attenzio-ne alla qualità e una riduzionedell’ossessiva centralità delleapparenze.Ebbene nell’epoca della spet-tacolarizzazione delle merci,le distinzioni tra copia e inno-vazione, predazione e creati-vità, assimilazione e simula-zione tendono a venir meno;l’imprenditorializzazione dellavoro e la centralità dellemerci immateriali produconol’apoteosi delle capacità illu-sionistiche del prestigiatore,in grado di rivestire semprecon nuovi vestiti la solida con-sistenza dell’oggetto.Ed è in questa capacità alche-mica di trasformare costante-mente quest’ultimo che si regi-stra la potenza produttiva dellacreatività perversa.

Don Giovanni ha sostituitoPrometeo, forse per sempre.

1. Questo rapporto è uno dei treprototipi di relazione seduttiva (Sa-

raval, 1989), laddove il processoidentificatorio si nutre di reciprocidesideri e altrettanto reciprochegratificazioni.2. Nell’antica Roma il padre rico-nosceva il figlio attraverso un ritopubblico di elevazione.3. In questo senso la seduzione diDon Giovanni non ha nulla a chespartire con il laterale concetto disedizione, e pertanto con una di-mensione alternativa e trasformatri-

ce (Baudrillard, 1980)4. Bauman (2002) utilizza a tal ri-guardo una suggestiva metafora,laddove fa riferimento alla «houdi-nesca capacità di disincatenarsi».

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Non occorre essere degliesperti di comunicazione percapire che chi comunica mani-festa una volontà di potere suldestinatario del suo messaggio.C’è un limite a questo potereoppure esso può essere eserci-tato in qualsiasi modo, purchéa fin di bene? Secondo un’eticafilosofica questo confine esiste:agire moralmente, infatti, signi-fica rifiutarsi di esercitare unqualunque mezzo di manipola-zione sull’altro e quindi, positi-vamente, cercare di promuove-re la sua libertà. Ogni atto dicomunicazione che si prefiggaun cambiamento, ogni attoeducativo vuol dire dunque as-sumere parzialmente un poteresull’altro. Ora, però, tra assu-mere un potere e manipolare,tra l’essere seducenti e plagia-re, il confine è molto labile. Sipuò “alterizzare” l’altro (cioèrendere l’altro più altro) e indefinitiva aiutarlo ad essere sestesso. Ma lo si può anche “al-terare”, cioè cambiarlo a pro-pria immagine, secondo la pro-pria volontà. Si può “educare”,cioè contribuire a tirar fuori daognuno quella originalità che siporta dentro, oppure “sedur-re”, e quindi “trarlo a sé” per-ché riproduca i nostri atteggia-menti e le nostre convinzioni, ilnostro modo di pensare, di rea-gire… Si può, in definitiva ren-dere più liberi oppure omolo-gare e plagiare.Gesù comincia la sua missione

con un annuncio: «È arrivato ilmomento: Dio è presente inmezzo a voi e vuole cambiarela vostra vita». Questo annun-cio è accompagnato da una ri-

chiesta: «Convertitevi e crede-te a questa bella notizia/Van-gelo» (Mr 1,15).Com’è che Gesù ha cercato diraggiungere questo obiettivo?I suoi gesti e le sue parole, ilsuo modo di comunicare checosa ci mostrano: un Gesù “se-ducente” o “seduttore”?Se leggiamo i Vangeli noi ciimbattiamo in un uomo chenon manca di essere seducen-te. «Beato il grembo che ti haportato e il seno da cui hai pre-so il latte!» esclama con entu-siasmo una donna che lo staascoltando (Lc 11,27).Il suo modo di parlare franco eschietto, capace di raggiungereil cuore nelle sue attese più ve-re come nelle sue ferite piùprofonde, era certamente uni-co. Non ci si spiega altrimentiuna folla che è talmente presada quello che dice al punto dinon pensare al cibo. E in effettiera grande la speranza che eglisapeva destare nei poveri e inquelli che soffrivano, nei miti ein quanti cercavano la giustiziacon tutte le loro forze, nei pec-catori e negli emarginati. Unasperanza che non poggiava so-lo su belle parole, ma che tro-vava riscontro in gesti di guari-gione e di liberazione, di mise-ricordia e di risurrezione.Quale predicatore, quale lea-der, quale uomo politico di og-gi come di ieri non avrebbe ap-profittato di questi poteristraordinari?

E invece Gesù, a questo pro-posito, si rivela piuttosto delu-dente. Sì, la sua strategia nonsembra coincidere affatto conquella di una comunicazione

“efficace”, tesa a trovare il con-senso e la popolarità.Al suo rientro ufficiale a Naza-ret, quando già si è formata at-torno a lui un’aura di entusia-smo dovuta ai suoi miracoli,egli non approfitta della situa-zione. Anzi, quando vede ser-peggiare tra il suo uditorio laperplessità ed il dubbio difronte all’affermazione che haappena fatto (in parole povereha dichiarato di essere il Mes-sia atteso), non fa nulla per ta-citarla. La porta alla luce per-ché tutti abbiano coscienzache «nessun profeta è accettoin patria». Questa decisione fasì che l’irritazione diventi pre-sto addirittura un rifiuto.Subito dopo il gesto della mol-tiplicazione dei pani, infatti, ilsuo discorso sul “pane della vi-ta” sembra essere un’autenticadoccia fredda per le categorie ele immagini che usa. Eppure difronte alla gente che se ne va,egli non fa niente per trattener-la, non smussa le asperità dellesue parole, non richiama allamemoria il gesto strepitoso cheha appena compiuto. Anzi, nonsembra neppure preoccupatodi tenere stretti a sé gli apostoli,quelli che ha chiamato a condi-videre le sue fatiche per il Re-gno. La sua parola è diretta elimpida: «Volete andarvene an-che voi?» (Gv 6,67).Del resto questo è perfetta-mente in linea con le scelte cheha compiuto all’inizio della sua

missione, nel deserto. È lì cheha scelto di essere non il Mes-sia forte, che seduce con i mi-racoli ed i mezzi a disposizio-ne, che si sottrae alle difficoltà

Un Gesù “seducente”?

Livio Corazza

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dei comuni mortali, ma il Mes-sia povero, che accetta di esse-re pienamente uomo e che po-ne tutta la sua fiducia in Dio.Per queste ragioni Gesù è unmaestro che ha cercato di eser-citare la sua opera di convinci-mento in modo chiaramenteetico perché è espressione diuna volontà non di efficacia,ma di vera “fecondità”. La ca-ratteristica della “fecondità” èinfatti quella di istituire un tipodi relazione che fa posto con-temporaneamente alla rinunciaal dominio, alla sorpresa, allareciprocità, in una parola all’al-terità del tempo e del prossimo.Il tempo è il primo indicatoreimportante per una relazioneautentica. E Gesù sa dare tempoal tempo. Ai due discepoli diGiovanni il Battista che lo se-guono perché l’hanno sentitodesignare come l’Agnello di Dioe ora vogliono seguirlo, Gesùpone una domanda: «Che cerca-te?». Gli rispondono: «Rabbì(che significa maestro), doveabiti?». Ed egli dice loro: «Veni-te e vedrete» (Gv 1,37-39).Niente di magico e di istantaneodunque nella relazione tra mae-

stro e discepoli, ma il tempo, ladurata, lo stare insieme, l’ascoltocome terreno fecondo di una re-lazione autentica. Il prossimo,nella sua alterità, è l’altro indi-

catore fondamentale. Per ilcieco di Gerico che gli gridadietro: «Gesù, Figlio di Davi-de, abbi pietà di me!» , Gesùnon ha una risposta bell’epronta. La prima cosa che glidice è: «Che cosa vuoi che iofaccia per te?» (Mr 10,51).L’altro non viene mai ingabbia-to nella lettura che noi faccia-mo dei suoi bisogni, ma vieneaiutato a prendere coscienzadei suoi desideri, delle sue at-tese e delle sue fragilità.Lo stesso comandamento diGesù  Ama il prossimo tuo co-me te stesso (Mt 22,39), richie-de che uno accetti se stesso,con i suoi limiti e i suoi difetti esolo passando per questo amo-re saprà accogliere ed amarel’altro. Uno che accetta se stes-so pacificamente non è pienodi sé, ma lascia spazio all’altro.Ama l’altro perché sa amare eaccettare se stesso.Un Messia “seducente”? Sì,certo. Un Messia che sa parlareal cuore degli uomini e delledonne. Un Messia “sedutto-re”? No, perché le sue paroleed i suoi gesti sono sempre ri-spettosi della libertà di chi ha

di fronte, sono un appellochiaro a questa libertà, ma cheattende una risposta coscientee determinata. Anche una co-munità che a Lui si riferisce

dovrebbe aver sempre benchiara la differenza tra l’essere“seducente” e l’essere “sedut-trice”. Seducenti sono le co-munità che attraggono con labellezza della fraternità e l’au-tenticità del ritrovarsi. Sedut-trici sono le comunità tentatedal fanatismo e dall’intolleran-za. Potremmo rileggere la sto-ria della chiesa (e delle religio-ni) con questi criteri!Infine, è l’estremo rispetto perogni persona che permette aGesù di avere uno sguardo lim-pido anche nelle situazioni im-barazzanti. Mentre è a pranzo incasa di Simone il fariseo, irrom-pe nella sala una peccatrice,probabilmente una prostitutadel luogo. I gesti che compie suGesù potrebbero metterlo a di-sagio: piange sui suoi piedi, glie-li asciuga con i suoi capelli, li co-sparge di profumo e li bacia.Tutti i presenti vedono in lei so-lo la poco di buono, la rovina fa-miglie, la donna dal comporta-mento immorale e si domanda-no come faccia Gesù ad accetta-re quei gesti che sta compiendo.Ma Gesù vede quello che ai piùsfugge: vede il suo amore, il suo

desiderio di vita nuova e di mi-sericordia. La sua parola è anco-ra una volta una parola liberatri-ce: «La tua fede ti ha salvata: Va’in pace!» (Lc 7,50).   ■

Enrique Irazoqui in una scena de Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini.

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In quella classe erano loro tre,soprattutto, ad attirare l’inte-resse di tutti: diversissime traloro, senza dubbio, ma ciascu-na dilatava attorno a sé unospazio, nel quale solo gli stolidinon arrivavano a percepire unanota originale e specifica.

Elena era, senza dubbio, la piùbella. Bella in maniera inflessi-bile, inesorabile: non c’eraniente da fare, chi le si avvicina-va ne era definitivamente con-quistato ed era disposto, lette-ralmente, a qualunque azione,lecita o no che fosse, per lei. Daparte sua, non c’era nessuna in-tenzionalità: certo, Elena sape-va di piacere, e di essere bella,ma ciò non la conduceva a co-struire nessuna forma di strate-gia, nessun piano per trarnevantaggio. Era consapevole delsuo fascino, e conviveva con glieffetti che scatenava.Si defilava, spesso, quandoqualcuno cominciava a litigare,a dar briga per lei; sempresommessamente, accettava chepoi le cose andassero come do-vevano andare.«Ce l’ho scritto, sai, nel nome»mi confidò un giorno. «Il mionome, che è greco, ma nontanto, perché viene da chissàquali altre lingue ancora, vuoldire “la distruttrice”».Una volta le chiesi se tutto que-sto fare e disfare in suo nomeda parte di uomini – uominiche mai e poi mai neanche lon-

tanamente si ponevano il pro-blema di quel che lei volessedavvero – non le desse fastidio,e la risposta che un giorno –l’ultimo che la vidi per lunga

pezza di tempo, c’era un tipoche andava in giro per la città adire che l’avrebbe portata via almarito (e questo davvero av-venne, così come capitò che ilmarito poi se l’andò a riprende-re, e né l’uno né l’altro, natural-

mente, le chiesero cosa volessedavvero lei ) – mi diede fu:«Tanto, i maschi devono di-struggere, è la loro natura. Di-struggere per poi ricostruire,

costruire qualcosa per poi anco-ra distruggerlo. Io sono la loroscusa; che cosa debbo farci?»

Bella era anche la seconda;ma più che la bellezza, in lei,spiccava l’intelligenza. Venivada lontano, e c’era dietro unastoria che ci raccontò un pocoalla volta, per non spaventarcitroppo, diceva, ma quando finìdi darcene ogni singolo pezzo,ci spaventammo tutti, eccome.Veniva da lontano, era intelli-gentissima – tutti ovviamentele chiedevano consiglio –, edogni tanto si ritirava tra sé e sé,e non si sapeva bene che cosapensasse. Era bella, e donna, eintelligente e straniera, e que-sto spaventava i maschi del cir-condario, ed era abbastanzaperché attorno a lei ne inven-tassero di tutti i colori.«Ero troppo intelligente, sai,sapevo troppe cose, e quandoil cervello si prende troppo, èinevitabile: da qualche parte sipaghi». Così si espresse, a pro-posito dell’antica vicenda d’a-more che l’aveva portata tranoi. Si era invaghita, del tuttotrasportata fuori di sé, disa-strosamente, per un bel tomodi fuori, stolido naturalmente efascinoso, e del tutto senz’artené parte, e quindi perfetto perscatenare in lei tutto quello chelei aveva e sapeva di avere –l’intelligenza e la cultura, in-somma – e quello che non sa-peva di avere – un maternissi-

mo senso di protezione. Comeovvio, lui l’ha lasciata quandonon ne ha avuto più bisogno –stupido zotico, dopo aver com-piuto la sua missione, quella di

Stefania e le altre

Piervincenzo Di Terlizzi

Dante Gabriel Rossetti (1828-1882),Elena di Troia.

Frederick Sandys (1829-1904), Medea.

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avvilire in lei tutte quelle qua-lità che avrebbero spaventatogli altri maschietti rampanti(perché i belli e stolidi sono leFurie vendicatrici che operanoper gli altri compari). L’ha la-sciata con dei figli piccoli, persovrappiù. Non ci ha mai det-to, Medea, com’è andata coipiccoli, a parlarne piangeva, equelle lacrime erano la tracciadi una sventura.

Stefania, invece, era la bellez-za indifesa: tanto inerte da tran-sitare nella bontà, pur avendola sua matrice nella carica ses-suale. La si desiderava: ma su-bito, in lei si leggevano prote-zione, amorevolezza, maternità– insomma, la possibilità, perun maschio, di perdersi total-mente, di gratificarsi in manieradefinitiva esclusivamente in lei.La sua cedevolezza incondizio-nata, innocente, però, ti resti-tuiva, d’un tratto, totalmente ate stesso, ti costringeva a guar-darti – e non era quasi mai unbello spettacolo. Le personeche l’amavano – e sono statedonne e uomini, lei colpiva in-differentemente, innocente-

mente – o cambiavano vita, oaffondavano nelle loro tristez-ze, non c’era verso d’altro. Eracome uno specchio: si guarda-vano, appunto, e qualcosa do-vevano fare.«Ma che ne pensi?». Le do-mandai, un giorno, mentre suomarito se ne stava in Francia, acombinare qualcosa che nonpareva essere tanto bello.«Niente: io non pretendo nien-te da nessuno».

Questa era, in effetti, la suaforza.

Elena vive con suo marito, cheha girato mezzo mondo per ri-trovarla: lei dice che si gode ivantaggi della mezza età. Però,un sacco di gente la ricorda,com’era, e rimpiange di nonaver brigato per lei. E chi nonla ricorda, è perché ha brigato,e s’è perduto per lei.Medea, ancora, la ammirano ela temono. Molti sperano chese torni in Oriente.Stefania ha attraversato inno-cente le stagioni della vita, ed haavuto in premio una vecchiaiache sembra solo anagrafica. An-cora, inflessibilmente, è capacedi scoperchiare le persone.Ognuna di loro spinge, o re-spinge. Comunque, porta fuo-ri-da-sé.

Ringraziamenti: ad Omero;Euripide ed Isocrate, per Ele-na; ad Euripide – ancora – edApollonio Rodio, per Medea; aBernardo Bertolucci, per l’in-terpretazione di Stefania San-drelli ne Il conformista (1971).

Una giovane Stefania Sandrelli e,

sotto, nel film Sedotta e abbandonatadi Pietro Germi.

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Ma la seduzione del bene esi-ste? Abbiamo sempre sentitoparlare della seduzione del ma-le. Difficilmente del contrario.Eppure son convinto che, se siscava a fondo si può trovaretraccia. Il bene può sedurre, neè capace. Ma quali occasioni cisono oggi per essere sedotti dalbene? Se pensiamo ai mass-me-dia, specie le televisioni, vien dadire ben poche… Ben pochesoprattutto se ci riferiamo a tra-smissioni su esperienze di vo-lontariato o di impegno solidaleche vanno in onda ad ore assur-de e poco abbordabili. Quantopoco spazio viene dato alle buo-ne notizie e alla cosiddetta cro-naca bianca! La nera, invece, haspazi sempre più dirompenti emartellanti. Penso che le giova-ni generazioni abbiano scarseoccasioni per seguire propostepositive. O, almeno, in numeroinferiore a quelle all’insegnadell’egoismo e dell’individuali-smo opportunista. In ogni casobisogna far attenzione che se-durre non voglia dire seguire unideale, anche buono, in manieraacritica e appiattita. Servirebbeben poco. Anzi, crollerebbe inmen che non si dica, lasciandocicatrici profonde.Mi piace pensare a una sedu-zione del bene esercitata non daun singolo ma da un gruppo.Un’operazione collettiva che dàfiato ad un sogno condiviso, unvenir affascinati, ammaliati,contagiati dal cercare di rag-

giungere una meta esaltante.Una fetta di bene, appunto. «Ilmondo ha bisogno più di testi-moni che di maestri» (PaoloVI). Ecco in chi ricercare le ca-

pacità di seduzione al bene. Masappiamo indicarli e valorizzar-li, soprattutto ai giovani, sem-pre alla ricerca di miti ed eroi?«Io penso positivo perché sonvivo» (Jovanotti). È sufficienteper posizionarsi sulla via del be-ne? Non so, certo è già qualco-sa, specie in un mondo, come ilnostro, dove tutti o quasi si la-mentano e si dichiarano delusiscoraggiati, “smontati”, senzapiù speranza nel presente e nelfuturo. Qui anche i cantantiispirati possono far la differen-za e favorire una inversione ditendenza. Verso un mondo chesa ancora stupirsi quando ibambini fanno oh… come ilcantante dei piccioni insegna.«Fa più rumore un albero checade che una foresta che cre-sce» (proverbio orientale). Seciò fosse vero del tutto alloranon ci sarebbe spazio per la se-

duzione del bene.Chi riesce a cogliere il silenzioassordante di qualcosa di buo-no che cresce, eccome, eppurein modo impercettibile?

«L’essenziale è invisibile agli oc-chi» (A. de Saint-Exupery). Al-lora, forse, la seduzione positivanon avviene sempre razional-mente ma coinvolgendo il cuo-re, la nostra componente piùprofonda. E dunque questa ca-pacità di percepire le cose è co-mune a chi è un po’ speciale,chi sa procedere contro corren-te, chi sa dire dei forti “no, nonci sto”, chi è per posizioni chia-re, eticamente ispirate, senza see senza ma. In poche parole, se-dotto sì dal bene, ma del tuttoconvinto e, in più, contento diquesta condizione.Un discorso a parte meritereb-be la seduzione del dono. Il do-no resta essenziale allo stessomercato, rispetto al quale sem-brerebbe assolutamente incom-patibile, in quanto crea fiducia,crea relazione: un valore indi-spensabile anche al mercato eall’intervento pubblico nell’e-conomia. Il dono, contribuen-do a radicare nelle persone va-lori di rispetto e di reciprocità,aiuta l’intervento pubblico asvolgere in modo appropriato ilproprio ruolo in termini di svi-luppo personale e sociale.Se ci fosse più consapevolezzache è fondamentale, specie og-gi, testimoniare l’aver incontra-to la positività, laica o religiosache sia, potrebbe nascere quasiil vezzo, il vanto di dire ad ami-ci e conoscenti, senza remore oimbarazzi: «Sì, sono stato se-dotto dal bene, da una visione

positiva della vita e delle rela-zioni. E ne sono orgoglioso!».Probabilmente la nostra societàavrebbe così un problema inmeno e una risorsa in più.

La seduzione del Bene

Luigi Piccoli

Tiburzio Donadon, Angelo.

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Sei maggio 2006: centocin-quanta anni, oggi, dalla nasci-ta di Sigmund Freud. La gran-de eredità clinica e umana chel’inventore della psicoanalisici ha lasciato è ancora e forsepiù che mai, oggi, un patrimo-nio da riconquistare; è Freudstesso a dirci – attraverso leparole di un poeta a lui moltocaro – che niente, di quantoun padre ci lascia, può essereposseduto e goduto, realmen-te, se non compiamo uno sfor-zo per appropriarcene. Sequesto lavoro viene mancato(disatteso) qualunque lascito,per quanto cospicuo e prezio-so possa essere, potrà solo es-sere dissipato o giacere sottoun cumulo di polvere. Le ulti-me parole di Freud, sulla psi-coanalisi, sono lucide e disin-cantate poiché la istituisconocome uno dei tre mestieri im-possibili; gli altri due sono go-vernare ed educare.Nella prospettiva freudianal’impossibile non è un punto dirinuncia al lavoro – tantomenouna causa di ciò – ma è piutto-sto un momento di incontrocon un reale, con un dato in-trinseco, strutturale nella ma-teria stessa del nostro lavoro –materia umana – nel quale siimbatte. Freud lo chiama «roc-cia della castrazione». Il rico-noscimento e l’assunzione diuna impossibilità soggettiva ciimpegna, eticamente, a cercaredi trattare questo reale, poiché

siamo alle prese con esso. Eti-camente: è etico, infatti, ciòche pertiene al desiderio delsoggetto diviso, al soggetto cheaccondiscende al proprio desi-

derio, assumendosi la propriamancanza, si può anche dire lapropria castrazione.La psicoanalisi è, crediamo,nell’attuale panorama culturalee scientifico, in quest’era di ful-gore e clamore tecnologico,uno dei pochi baluardi a difesa,a tutela di questo impossibile.Le promesse, le realizzazioni, leseduzioni della scienza sempredi più incoraggiano l’idea che“tutto” stia per diventare pos-sibile… la creazione della vitastessa in forme estranee alla vi-ta. Questo gioco d’anticipo,che impone un passo veloce,una continua accelerazione almovimento della scoperta, alcosiddetto progresso, collude,che ne siamo coscienti o menoe spesso non lo siamo, con le

lentezze e le inerzie e le stagna-zioni che segnano il tempo nel-lo psichico, il tempo propria-mente umano, soggettivo, delcambiamento; Freud fa pro-

pria e ama citare la frase di Ne-stroy «ogni passo avanti è gran-de sempre la metà di quello cheappariva all’inizio».Nell’esperienza, nella praticaanalitica, non si cessa di scopri-re la verità di questa afferma-zione; il movimento con il qua-le il sogetto umano evolve, im-para, mobilita le proprie risor-se o scioglie dei nodi sintomati-ci, non è mai un movimento li-neare, è un moto circolare, unva e vieni, ritmato da momentidi incontro con ciò che (gli) èpossibile e con ciò che non lo è.La tensione dialettica tra que-ste alterne vicende mette al la-voro il soggetto, lo risveglia, loscuote, fa sì che propriamenteesista e prenda consistenzaquel soggetto che volentieridorme nell’essere umano, cul-lato dalla seduzione ammalia-trice, fino a diventare mortiferacome il canto delle sirene, checi sia sempre un Altro total-mente capace di provvederecon risposte, ricette, soluzioni,facendosi garante della felicità,del sogno, del sonno forse.Il discorso del maitre sostieneoggi l’illusione che una cosìprodiga e prodigiosa alteritàesista. Come dire: non c’è(niente di) impossibile.La frontiera del possibile gua-dagna via via nuovi spazi, infi-nitizzando la prospettiva im-maginaria di una presa chepossa riuscire sul reale; è unacattiva infinità?, cattiva nel

senso letterale e antico di que-sta parola ossia captiva=prigio-niera… prigioniera dell’ideale,dell’ingiunzione superegoicache impone il godimento al-

La seduzione di una voce sovversiva e stonataPer i centocinquant’anni di Freud 

Patrizia Gilli e Moreno Blascovich

Pubblichiamo qui la relazioneintroduttiva al Convegno Il di-sagio della sessualità promossoil 6 e 7 maggio scorso pressola Scuola di San GiovanniEvangelista a Venezia dal Fo-rum Psicoanalitico Lacaniano.

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l’essere parlante, pretendendodi stabilirne i modi e i tempi.Ma ognuno gode come può,non come vuole a livello di unapadronanza immaginaria. Se ilSuper-io è “la voce grossa”cheinsegue il soggetto negli enig-mi e nei meandri del suo pro-prio godimento, forse il tempoin cui viviamo, per la risonanzae l’eco che offre al sapere degli“esperti” su come si debba sta-re al mondo, è un’amplificazio-ne assordante di quella voce.All’opposto, la voce della psi-coanalisi è, rispetto a questocoro, sovversiva e stonata. Nel-lo scritto del 1929  Il disagiodella civiltà Freud si pone unadomanda: «Se l’evoluzionedella civiltà è tanto simile aquella dell’individuo e se usa isuoi stessi mezzi, non è forselecita la diagnosi che alcune ci-viltà, o epoche civili, e magaril’intero genere umano, sonodiventati nevrotici per effettodel loro stesso sforzo di ci-viltà?». Freud ci dice, con que-ste parole, che la civiltà crea lanevrosi e la nevrosi crea la ci-viltà: la nevrosi è, per ciascuno,un prezzo da pagare per entra-re nel legame sociale e per po-ter dare ad esso un contributosoggettivo, umanizzando, en-tro una cornice simbolica, lapropria sessualità; è occorso, aFreud, inventare – sulla tracciadei fantasmi e delle fantasienevrotiche – una teoria dellaseduzione sessuale, per rendereconto della difficoltà che cia-scuno incontra nel trattamentodi quel reale così intimo e cosìestraneo che è il godimentosessuale, per renderlo vivibilenell’incontro con l’Altro, perricondurlo entro i binari diuna identificazione e di una

identità sessuale, che limitinoed orientino sia la scelta del-l’oggetto sessuale che le moda-lità dei comportamenti nelrapporto con esso. Possiamo

perciò dire non solo che c’è unnodo imprescindibile, necessa-rio, tra ogni forma di civiltà e imodi in cui la sessualità pren-de forma in essa, ma che la ses-sualità, per poter essere umanaè, essa stessa, quel nodo.La sessualità, per la psicoanali-si, non è riducibile né armoniz-zabile all’interno della genita-lità, non è una conseguenza dibisogni fisiologici e psicologici,essa è l’espressione e la proie-zione nel campo del legame so-ciale di un gioco di identifica-zioni e di un retaggio di rela-zioni amorose edipiche che siancorano temporalmente e lo-gicamente alla prima infanzia.Freud scopre, ascoltando i ne-vrotici, che la sessualità è arti-colata con l’inconscio e Lacanafferma che «la realtà dell’in-conscio – verità insostenibile –è la realtà sessuale» (sem. XI ).Colette Soler parla di «un an-nodamento del biologico e delsimbolico, della parentela e delsesso, della legge e del deside-rio»; questo annodamento, og-gi, lo vediamo allentarsi poichégli avanzamenti della scienza edella tecnologia scompaginanoquella che da sempre è statauna certezza, ossia che «l’esi-stenza, grazie alla divisionesessuale, riposa sulla copula-zione» (Lacan, sem. XX ).Vi è un’incognita nel destinosoggettivo di ciascuno, vistoche l’anatomia, per determi-nante che sia, non basta a de-ciderlo, e si tratta perciò perogni essere sessuato, uomo odonna, di divenire un uomo euna donna, di entrare in unarelazione singolare con il pro-prio sesso, con la differenzasessuale, con la castrazione econ i disagi che tali passaggi

tortuosi comportano. E con ilfallo, nella sua accezione disimbolo, lontano dall’esserepensato come organo sessualemaschile, tant’è che nella sua

accezione di simbolo è evi-dente il rimando sia al maschi-le che al femminile; ed è a par-tire dalla clinica che Lacan ar-riva a dimostrare che «la rela-zione del soggetto con il fallosi stabilisce senza riguardoper la differenza dei sessi» (da“La significazione del fallo”,in Scritti ).Nell’articolazione tra la sessua-lità e l’inconscio, Lacan ci ricor-da che «ogni amore trova sup-porto in un certo rapporto tradue saperi inconsci» (sem. XX );il gioco di seduzione tra questisaperi resta enigmatico e nes-sun sapere scientifico può spie-garlo né ricondurlo ad inscri-zioni genetiche, anche se ne hala pretesa. La sessualità, oggi,sembra così trasparente a séstessa, oggetto inesauribile didibattiti tra esperti, sovraespo-sto a livello mediatico, senza ve-li, senza segreti, essa sembra“godere” di grandi facilitazioniin campo sociale e di diritti or-mai acquisiti a livello della li-bertà, per ciascuno, di autoriz-zarsi ad essere, davvero, comevuole; le rimozioni, le costrizio-ni, le sublimazioni che la civiltàimpone all’individuo e che fon-dano l’Edipo, così come Freudl’ha teorizzato, sembrano tal-volta, oggi, lontane anni luce,come significanti e come opera-zioni psichiche, dal linguaggio edai fenomeni sociali.Si apre una questione: il disagiodella sessualità, strutturale perl’essere umano, e strutturante,si traduce oggi in atti e passaggiall’atto, piuttosto che in sintominevrotici, all’interno di legamisociali spesso molto infelici sep-pur “normali” e sempre piùinformi rispetto alle coordinateedipiche. Il desiderio dell’anali-

sta è così messo alla prova dauna umanità abituata a conse-gnarsi agli esperti e ad un sape-re che poco contempla le sedu-zioni dell’amore per esso.

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Nelle trattorie di un tempo nonera infrequente trovare, espostisu qualche mensola, piccoli ani-mali impagliati. Faine, donnole,lepri in abiti umani e con tantodi doppietta a tracolla.Tale simpatico e un po’ crudeletravestimento col quale la pre-da, suo malgrado, si fa cacciato-re rappresenta a ben vedereuna versione casereccia del fa-moso totemismo a cui gli antro-pologi riconducono il sorgeredella Cultura. L’animale protet-tore del clan era un po’ comequelle bestiole in vesti civili, unanimale de-animalizzato (il che,tra le varie cose, implicava lasua messa a morte rituale) e inquel caso addirittura eletto afondatore e rappresentante del-l’ordine sociale.

Civilizzare il padre è stato dasempre il compito della civiltà,affinché egli fosse il campionedell’amore e della spiritualità inalternativa sia al potere naturaledelle Madri, quello che si so-stiene sui vincoli di sangue, siaalla sua stessa bruta istintività.Ma anche se nella comunitàumana il padre-animale è statosoppiantato dal padre della leg-ge, nell’immaginario di ciascunsoggetto egli mantiene la suaduplice e non sempre facilmen-te conciliabile natura, a un tem-po simbolica e reale. Nella figu-ra del Mosè michelangiolescoFreud vede proprio questa ten-sione, questa problematica ma

fondamentale dialettica eviden-ziata, lì, dal contrasto tra lamassa muscolare dell’uomo e lapresenza delle tavole della Leg-ge di cui è risoluto custode. La

civiltà, che impone una serie dirinunce pulsionali, produce ne-vrosi, cioè insoddisfazione, ecosì, per quanto rimossa, la fi-gura del padre-animale è so-pravvissuta nei nostri fantasmi.E Freud, agli albori della psi-coanalisi, se la ritrova nei rac-conti delle sue pazienti, le qualilo inducono a credere alla teo-ria per la quale i loro sintomisarebbero l’effetto dell’azioneperversa di un padre seduttore.La psicoanalisi nasce quindi sudi un equivoco, sull’idea di untrauma che non sarebbe intrin-seco all’assunzione della pro-pria sessualità da parte del sog-getto, ma dipendente da quelladell’adulto seduttore. Questofino quando Freud rivoluzio-nerà la sua prima teoria del

trauma: da evento realmentesubito, egli lo recupererà comeuna necessità logica (il trauma –secondo una felice espressionedi Lacan – «inaugura la storia

che il soggetto pensa e ripen-sa») che ciascuno lavora nellesue fantasie inconsce: il trauma,quindi, come ferita iniziatica,lavoro psichico indispensabileal farsi dell’essere parlante. Ec-co allora che, nel secondoFreud, il bambino o la bambi-na, fino allora innocenti e al-quanto anonime vittime, diven-gono dei soggetti che nel loroinconscio invocano su di sé l’in-tervento fisico del padre: «Nonfarmi troppo male, papà, masculacciami un po’».Per capire quale fosse la funzio-ne chiave di questo padre im-maginario, che ama mentre pu-nisce, basta pensare agli effettidestabilizzanti conseguenti allapenalizzazione di tale figura adopera della cultura moderna,che ha sentito il dovere di ad-dolcirla, di neutralizzarne l’au-torità e il suo stesso portato car-nale nella convinzione di tutela-re così il Bambino. La nostrasocietà, sempre più orientata al-la comprensione psicologica,alla facilitazione delle relazionie all’eliminazione dei conflittigenerazionali, non perde occa-sione per dichiararsi dalla partedel Bambino, ma spesso, pergarantirne l’integrità, finisceper farne un feticcio da soddi-sfare e colmare d’affetto e dibeni, da proteggere in formablindata dal reale. In questomodo la società stessa rappre-senta la cornice civile dentro laquale, sui suoi stessi mezzi me-

diatici, può esercitarsi la pedo-filia più bestiale.

Più l’immaginario del padreseduttore svapora, più la per-

C’era una volta un lupo seduttoreSeduzione e umanizzazione

Francesco Stoppa

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versione si fa strada. Infatti èimportante cogliere come larassicurante figura del padregarante dei valori simbolici,della giustizia e dell’amore,non possa fare a meno di soste-nersi sulla sua realtà di uomo,la sua verità di soggetto reale;qualcuno che certo legifera emette ordine ma, contempora-neamente, ama, desidera, go-de. Vista però la difficoltà delnevrotico di conciliare le duenature del padre, in particolaredi pensare il mistero della cifravivente che si agita in lui, eccofiorire la fantasia del genitorecrudele o perverso. Ma è, co-me dire, una fantasia ortopedi-ca, serve a dar corpo ad unaquestione decisiva: su cosa siregge la legge, come si conciliacon l’amore e come entrambisi trasmettono da individuo aindividuo?Il buonismo, che tende a drib-blare le contraddizioni un po’dolorose della vita, devitalizzail padre della passione amorosae al suo posto, al posto del fan-tasma di un padre ancora capa-

ce di “traumatizzare” il figlio,troviamo, come contrappassodi questa obliterazione, unabatteria di sostituti in salsahorror-paranoidea (l’uomo for-te, il duce che, riesumato, siste-merà tutti) o radical-perversa(figure mediatiche di transes-suali, una delle quali da pocoapprodata in Parlamento, che,con fare da dolci e politica-mente corrette nonnine, di-spensano saggezza, buon sensoed ecumenica moralità).

Si sa, per dirne una, che Per-rault aveva concluso Cappuccet-to rosso con la scena dell’incau-ta protagonista tra le fauci dellupo, ma che successivamentesi dovette apportare una modi-fica alla trama giudicando la co-sa troppo cruda per i piccolilettori. Una questione che po-tremmo allora porci è se staredalla parte della modernità, co-sì premurosa nell’evitarci i trau-mi, o dalla parte del lupo. C’èanche l’ipotesi che un granderegista come Almodòvar fa sua(si veda in particolare il suo re-

cente Volver ) e cioè che, vistol’irreversibile decadimento co-gnitivo, psicologico e moraledei maschi, solo un mondo alfemminile ci potrà salvare, unneomatriarcato tanto affettivoquanto al bisogno risoluto.Sarà così? Sarà poi vero che lemadri d’oggi sanno gestire ilproprio desiderio e la propriaimpulsività («Io sono ciò chesento», mi diceva con fierezzauna di queste!) ed esercitarequindi sufficientemente bene illoro compito educativo, favo-rendo, nella fattispecie, il per-corso di umanizzazione dellapulsionalità dei loro figli?La questione dell’educazione,in effetti, è innanzitutto questa:far sì che le emozioni assumanoforma e si sposino alle necessitàdella convivenza anziché erut-tare in scariche motorie incon-trollate. In altri termini: comequalcosa che è dell’ordine del-l’immediatezza dei vissuti si fapsichico, mentale, come il mu-tismo delle pulsioni può dive-nire parola, farsi domanda? Ecome si forma la sessualità del-

Paul Gustave Doré (1832-1883), incisioni per i Racconti di Charles Perrault.

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l’essere umano, come si diventauomo o donna?

La risposta della psicoanalisi èquesta: in conseguenza di untrauma, non c’è infatti alcunautomatismo fisiologico o alcu-na predeterminazione naturaleche producano esseri umani .Bisogna che si generi una frat-tura nell’esperienza biologicadel vivente e che questi viva lacontraddizione, sperimenti finoin fondo la dissonanza che lodivide al suo stesso interno.Nell’incontro con questo limi-te, con questa alterità che sischiude dentro i suoi confini,egli si farà umano.La controprova di questo? L’in-capacità di molti dei giovaniche abbiamo in cura di trauma-tizzare la propria esperienza, diprendere sul serio, se si vuole,gli eventi, anche i più angoscio-si, della vita. Capita, ad esem-pio, che un adolescente scampia un tentativo di suicidio senzache una simile esperienza lasciin lui dei segni di reale sofferen-za o permetta alcun tipo di in-

terrogazione. Nemmeno unevento così estremo aiuta il sog-getto a drammatizzare la suaposizione, l’atto compiuto nonsi scrive, non diventa veramen-te ferita, non lascia cicatrici. Ilsoggetto non si divide e quindinon si legge, non legge quel ge-sto come un proprio atto da de-cifrare, qualcosa che facciascansione nel continuum diun’esistenza forse più virtualeche reale. L’apparato psichicofunziona come un telecomandoo un mouse, una cliccata e via,non è successo nulla di rilevan-te, si può cambiare canale. Unaspecie di crudele sortilegio,un’anestesia preventiva e re-troattiva, sembra avvolgere cer-te esistenze d’oggi.

Il trauma non è solo un evento,è già, allo stesso tempo, la ri-sposta intrapsichica che svegliala soggettività, che richiama ilsoggetto a se stesso. Egli è solle-citato a creare un nuovo equili-brio tra corpo e pensiero resosinecessario per l’irruzione di uneccesso che viene dal suo inter-

no e che va lavorato cercandoun’intesa possibile – per quantomai definitiva – con la sua realtàdi essere parlante e interagentecon altri.Nel percorso teorico di Freudla convinzione che il traumafosse dovuto all’azione sessualedel padre cede il posto alla rive-lazione che si trattava solo diuna fantasia del soggetto, e,passo ulteriore, alla considera-zione che all’origine di tale fan-tasia di godimento ci siano leprime e stranianti esperienzeautoerotiche, e non la volontàcostrittiva di un adulto; espe-rienze nelle quali il bambinoaveva dovuto confrontarsi, as-solutamente impreparato, conla dimensione problematica enon padroneggiabile della pro-pria sessualità, quanto di piùreale abita in lui. Se non c’erastata aggressione sessuale, se iltutto (perlomeno nella maggiorparte dei casi) poteva ridursi auna fantasia, pur tuttavia untrauma si era prodotto, tantopiù insidioso in quanto localiz-zato in un punto d’intimità del

Balthus, La camera.

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soggetto. Un trauma che inter-roga la sua natura e il suo desti-no di essere vivente e parlante.

Supporre il padre nel puntod’origine della propria sessua-lità, se pure ha le caratteristi-che di un fantasma perverso èanche il modo per porre da su-bito in essere una relazione tral’esperienza intima del corpo,il suo irrappresentabile godi-mento, e la legge, il mondosimbolico di cui il padre è il ti-tolare primo. Tra la pulsione el’amore. Come se noi chiedes-simo di essere sedotti, portati,grazie all’altro, a de-animaliz-zare gli istinti e a essere menosoli con le nostre emozioni:«Insegnami a godere, a soffri-re, a parlare». Educare (cosìcome curare – si pensi solo allaquestione del transfert – o go-vernare), per chi vuole assu-mersene il rischio, è sempre unsedurre. In caso contrario l’at-to formativo resta un addestra-mento o un condizionamento.Pratiche buone per gli animalida circo o da cortile.Tuttavia, per un genitore, perun insegnante, sedurre è unesercizio del limite, non una pa-rata narcisistica. Non si trattasolo di rendersi amabili al pun-to di condurre il figlio o l’allievolungo determinati, non facilipercorsi, ma si tratta, più nellospecifico, di indurre in certoqual modo degli effetti “trau-matici”, destabilizzanti, capacidi interrompere l’omeostasidelle cose perché qualcosa dellaverità si palesi e qualcosa dinuovo possa generarsi, trarsi-

 fuori . L’arte di educare è la ca-pacità di qualcuno di fare sem-bianza del trauma, di ciò che direale c’è ancora nella vita.

Oggi lo sport più in voga è lafuga dalla vita: la vita comeesperienza del limite, del dolo-re, della sessualità in quanto

incontro reale con l’altro sessoe con l’alterità del proprio; lavita, anche, come capacità uma-na di vivere, cioè di resistere al-la propria istintualità per tra-sformarla e piegarla al lavorodella civiltà.Per educarsi all’arte di viverebisogna però che il seduttoresia lì, nel punto strategico dovel’incontro/scontro con l’altronon può essere virtuale e si fareale. Solo così la pulsionalitàviene direzionata fuori di sé enon rimane una sterile spintaautoerotica. Solo così il sogget-to non resta vittima dell’ingor-go di sensazioni che lo abita eche, senza dei partner credibili,non può che scaricare in un’ir-ritabilità diffusa – incapacecom’è di reggere le frustrazioni,di rinunciare o attendere – onella rabbia cieca verso l’altro.Anche se spesso poi scopre chel’altro veramente ingestibile èlui stesso, in particolare la suacorporeità non umanizzabile.Senza la presenza del seduttore,del cattivo, del presunto perver-so, la sessualità – quella delbambino prima e dell’adole-scente poi – non si umanizzeràmai, non si farà trauma, feritache segna il corpo, interrogazio-ne che costringe a pensarsi nellapropria condizione umana. Ser-ve infatti passare attraverso l’al-tro per divenire uomini.La pulsione è una domanda an-cora muta, perché possa met-tersi a parlare bisogna che qual-cuno risponda, cioè che facciada sponda. Che ci sia e non siaindifferente alle emozioni e alleazioni del soggetto. La presen-za, la reazione dell’altro riman-dano al soggetto la possibilità diuna lettura dei propri impulsi e,soprattutto, causano in lui una

controreazione che a quel pun-to, vista appunto la presenza diun interlocutore, è già inseritain una logica discorsiva. Tuttociò – bisogna, nella fattispecie,

che l’interlocutore dell’adole-scente lo sappia – non suscitanecessariamente simpatia, mapiù spesso risentimento, fru-strazione, odio. Tuttavia è il le-game con l’altro, madre, padre,insegnante, partner sessuale,che ci rimanda costantementealla nostra umanità.Qualcuno deve fare resistenzaalla pulsione di morte, che essasia l’azzeramento soggettivo ola scarica motoria, etero o auto-distruttiva, fine a se stessa. Tor-nando al padre, se il soggettonon si sarà mai sentito sedotto(“stuprato” come Zeus usavafare coi mortali) da lui, queltrauma dovrà produrselo tuttoda sé, in un tragi-comico (a se-conda dei casi) fai-da-te di mu-tilazioni, incidenti, tagli sullapelle, tatuaggi, piercing.

Dato per certo che stiamo reci-tando il requiem del padre se-duttore, cosa ci resta da fare?Dove, in attesa che i due sessiritrovino il modo di parlarsi ericonoscersi (forse di traumatiz-zarsi a vicenda), sposteremo illuogo dell’agòne? Non restache sperare che le nostre istitu-zioni, aperti gli occhi sul deser-to che le circonda, istituiscanoluoghi di questo tipo, siti di ini-ziazione alla vita.Bisogna però, prima, che lascuola o i luoghi di cura e for-mazione la smettano di inebe-tirsi correndo dietro a certi mitiprogressisti, che le istituzioninon perdano la loro autorevo-lezza per lanciarsi sul mercato evendersi come servizi efficaci/ef-

 ficienti per tutte le tasche, for-giandosi magari del titolo di

 Azienda.Meglio sarebbe che tornasseroad essere occasioni di incon-

tro/scontro con la verità dellavita, così che al loro interno ilsoggetto possa trovare modo diessere sedotto, traumatizzato,umanizzato.   ■

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 Beatrice Cenci è il primo testoscritto da Alberto Moravia di-rettamente per la scena, conuna scelta che si distanzia dallaconsuetudine precedente cheportava l’autore a individuarela sua modalità compositivapiù congeniale nella riduzionein forma drammaturgica diopere precedentemente scritteper la narrativa.Il testo, composto nel 1955 ecomparso in «Botteghe oscu-re» con la definizione di trage-dia in tre atti , si presenta cometentativo di rifondare la prassiteatrale allora vigente attraver-so la proposta di un’opera che,ponendosi quale strumentoper il recupero di un teatro let-terario, trovasse il suo fonda-mento più autentico nella pa-rola poetica, in sintonia conquanto pochi anni dopo soste-nuto, con forza dialettica e teo-rica oltre che con l’adeguatosostegno pratico di un impo-nente lavoro drammaturgico,anche da Pier Paolo Pasolini.La vicenda della famiglia Cen-ci, celebre nelle cronache dellafine del Cinquecento e ripresanei secoli successivi da Shelley,Stendhal e Artaud, si presentaa Moravia come possibilità diattingere al genere teatrale che,sino dagli anni degli Indifferen-ti , avvertiva come il più conti-guo al suo modo di intenderela letteratura: «La mia idea do-minante mentre scrivevo Gli indifferenti  era di fondere la

tecnica teatrale con quella delromanzo. I miei romanzi sonodei drammi travestiti da ro-manzo» (Alberto Moravia-Alain Elkann, Vita di Moravia,

Bompiani, Milano 2000, pp.257-258).La tragedia si configura, dun-que, come momento di sintesidelle precedenti esperienze delsuo autore che egli fonde insie-me in una forma nuova per luistesso e insieme foriera di no-vità per il pubblico, chiamatoad assistere alla creazione diun’opera che trova nell’espe-rienza del romanzo le sue basistrutturali e, in maniera marca-ta ed evidente, anche concet-

tuali e poetiche. Beatrice Cenci porta sulla scenala vicenda della protagonistaeponima che, rinchiusa dal pa-dre Francesco in una rocca iso-

lata, ivi è costretta a vivere conla matrigna e con il maturo ca-stellano Olimpio, della giovaneinnamorato.Il dramma si articola intorno aicaratteri dei tre protagonisti, iquali, mentre rivelano legamiscoperti con la produzionemoraviana precedente e con itopoi caratteristici di tale lette-ratura, appaiono minutamentetratteggiati nei loro contornipsicologici.Particolare rilievo assume, nel-la vicenda, il tema della sedu-zione, che tocca secondo mo-dalità differenti i tre protago-nisti: costoro si definiscono co-me declinazioni alternativedella dialettica male-seduzio-ne, configurandosi tutti colpe-voli dell’esito tragico della vi-cenda e della corrotta vita fa-miliare, che di tale esito apparedi necessità prodromica. Ilrapporto tra i due elementi inoggetto si rivela dinamico, o,appunto, dialettico, all’internodell’intera opera, mentre nelcarattere di ciascuno dei treprotagonisti la relazione tramale e seduzione si manifestaquale costante in qualche mo-do cristallizzata, elemento sta-tico che consente un’analisi delvincolo intercorrente tra il sin-golo e la realtà esterna.Il primo personaggio che pareopportuno esaminare è Fran-cesco Cenci, rappresentantedel moravismo più classico epresente nell’opera come una

sorta di raisonneur . Nella co-struzione del carattere, Mora-via sembra avere presenti le fi-gure più problematiche deigrandi romanzi, dagli  Indiffe-

La seduzione del male come “cupio dissolvi” La Beatrice Cenci di Alberto Moravia

Camilla Guaita

Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia.

Camilla Guaita è dottoran-da di ricerca in Discipline delCinema e del Teatro e colla-bora con il Dipartimento diStoria delle Arti, della Musicae dello Spettacolo dell’Uni-versità degli Studi di Milano.

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renti alla Noia, le particolaritàdei quali appaiono qui lieve-mente esasperate. Si considericome, forse, la costruzionedrammaturgica richieda un’ac-centuazione degli elementi di-stintivi dei personaggi rispettoa quanto avviene in letteratura,perché, se la lettura consente disoffermarsi sui singoli passi alfine di comprendere appieno ilmessaggio dello scrittore, talediscorso non è valido per il tea-tro, ove la parola poetica, affi-data a un’espressione verbaleimmediata, non è reiterabile.Il malessere che estenua Fran-cesco si comprende immedia-tamente essere l’abulica apatiache tanta parte riveste nelle ri-flessioni degli intellettuali no-vecenteschi; a tale sentimentol’uomo oppone, quale nuovo einusitato farmaco, l’esercizio si-stematico della crudeltà, diret-ta in particolare verso la giova-ne figlia Beatrice. «[...] voi sieteconosciuto in Roma per la vo-stra crudeltà e la vostra corru-zione. Voi picchiate i servi, lamoglie, la figlia e quanti hannola disgrazia di incorrere nel vo-stro furore. Inoltre costringetea fare il piacere vostro le donneche avete in casa e anche gli uo-mini, senza distinzione di età edi condizione o di sesso. I vo-stri vizi sono celebri e più voltevi hanno rinchiuso in carcereper questi vizi e voi non ne sie-te uscito che pagando gravissi-me ammende, così che adessosiete rovinato. [...] Tutto vi èlaido, perverso e contraffatto[...]: e ciò nonostante vi an-noiate. Perché dunque nonprovate a cambiar sistema?Può darsi che ad esser buono,retto, onesto, generoso, mite eragionevole, a vivere da genti-

luomo, non vi annoiereste più»(Alberto Moravia, Teatro, a cu-ra di Aline Nari e Franco Vaz-zoler, Bompiani, Milano 1998,2 voll., I, pp. 213-214).

L’eccitazione che tale modo diagire provoca consente a Cencidi arginare, per qualche istan-te, il dolore esistenziale, chel’uomo individua come intrin-seco al suo modo di essere. Ilbisogno costante di sensazioninuove porta il protagonista arifiutare qualunque ipotesi ditemperanza, in una ricercaininterrotta di emozioni che loscuotano da un torpore che,mentre non trova ragione diesistere nelle condizioni mate-riali di vita che potrebbero of-frire agi e conforti di ogni sor-ta, si rivela costituzionalmentepresente nel di lui modo di in-tendere e di patire la realtà.Le parole di Francesco rivela-no con chiarezza il senso di talemancanza e le modalità cui laconseguente ricerca di un sol-lievo (beninteso puramentesoggettivo) non si spaventa disoggiacere: «Sono così intirizzi-to di noia che brucerei la casapur di riscaldarmi per qualcheminuto» (Alberto Moravia,Teatro, cit., I, p. 255).La seduzione esercitata sull’uo-mo dal male diviene, dunque,causa di un comportamentoche si definisce, a bene vedere,autodistruttivo, volto com’è al-l’abbrutimento e alla perditaprogressiva di ogni carattere diumanità. Trapela, dalle paroledi Francesco, una tensione al-l’annullamento, un languore dimorte che si precisa quale uni-co rimedio a una condizioneesistenziale insostenibile, ben-ché frutto di un malessere inte-riore che appare affatto immo-tivato a un occhio esterno:Beatrice Perché non andatea dormire?Francesco Ci vado, Beatri-ce, questa è la sola cosa in cui i

Cenci dovrebbero tutti quantiessere d’accordo: dormire, dor-mire, poiché la cosa più similealla morte è il sonno ed è pro-prio la morte che essi invocano

fin da quando si affacciano allavita (Alberto Moravia, Teatro,cit., I, p. 268).Il male, dunque, manifestaun’azione seduttiva sul perso-naggio, al punto da diveniremotore del di lui comporta-mento in sé: il vizio si configura,infatti, come elemento agente, ilquale esercita, sulla coscienzadi Francesco, un’influenza di-retta che, svincolata da circo-stanze o obiettivi contingenti, siautogiustifica completamente.Secondo modalità del tutto dif-ferenti si manifesta la seduzio-ne del male in Beatrice che, ca-ratterizzandosi sino dal primoapparire sulla scena per l’inna-ta innocenza della sua natura, èportata, proprio in virtù di talepeculiarità, a divenire altrettan-to eccessiva nel suo desideriodi autodistruzione quando lacrudeltà del genitore oltrepassail limite e costringe la giovane aun brusco ribaltamento di se-gno nel modo di condursi.Una siffatta mancanza di mo-derazione, comune al padre ealla figlia, è bene rilevata dalservo Marzio, il quale, a collo-quio con Olimpio, mette inguardia l’uomo dai potenzialipericoli derivanti dall’esaspe-razione di Beatrice:Marzio [...] la disperazione èuna cattiva alleata. E la figlia èfatta della stessa natura del pa-dre: quanto il padre è eccessivonella sua perversità, altrettantolo è lei nella sua innocenza.Olimpio Bah, la perversità èforse pericolosa, l’innocenzanon lo è mai.Marzio State attento, Olim-pio, voi vorreste un’innocenzaprudente. Non lo sapete, che,invece, proprio l’innocenzanon conosce moderazione?

(Alberto Moravia, Teatro, cit.,I, p. 231).

La violenza gratuita di France-sco, divenuta eccessiva, ragge-

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la la capacità di sentire della fi-glia, la quale vede bruscamen-te la propria disperazione tra-sformarsi in mero desiderio divendetta («Olimpio, io soadesso che tu hai calcolato sul-la mia disperazione per aver-mi. Mi avrai, ma io ormai nonsono più disperata e il darmi ate non sarà la conclusione delladisperazione, come credeviforse, ma il principio di qual-che altra cosa» Ivi , p. 232).Lo smarrimento della donnadiviene punto di partenza delprocesso di annullamento: inconformità con quanto intuitoda Marzio, la natura incorrottadi Beatrice non consente tem-peranza nel comportamento.Se la giovane si rivela estremanell’ingenuità del suo deside-rio di amore e di un’esistenzanormale, parimenti, perduta

l’innocenza, non si può ade-guare a un ridimensionamentodegli obiettivi cui tendeva, poi-ché tale modo di condursi siconfigurerebbe come un com-promesso intollerabile perun’anima che riconosce se stes-sa nella sola aspirazione all’as-soluto. Paiono chiarificatrici, atale rispetto, le parole di Bea-trice: «Senza grandezza, la vitanon ha sapore [...]. E io sononata per tutto ciò che è grandee nobile e bello e puro e alle-gro» (Alberto Moravia, Teatro,cit., I, p. 207). Ove grandezzasi deve intendere come sinoni-mo di magnanimità in sensoetimologico.L’animo di Beatrice si rivelaimmoderato, pertanto, nel de-siderio di rivalsa, per appagareil quale ella sceglie di indulgerenel vizio che avverte come par-

te di sé dopo che il manteni-mento della precedente condi-zione di purezza le è stato pre-cluso per volere altrui. SeFrancesco, dunque, subisce latentazione del negativo, Bea-trice esercita consapevolmentela seduzione, di cui fa unostrumento per ottenere ven-detta: alla seduzione del malesi sostituisce, di conseguenza,la seduzione per il male.Ancora una volta Marzio, assu-mendo una funzione che si rive-la affine a quella del fool shake-speariano, diviene interpretedelle intenzioni della donna,della quale scopertamente indi-vidua i moventi in un dialogocon Olimpio: «E non vi accor-gete [...] che siete stato portatoper il naso tutto il tempo. Dun-que per quale motivo credeteche Beatrice si sia data a voi?

 Ritratto di Beatrice Cenci attribuito a Guido Reni (1579-1642)

e, a destra, una foto di Julia Margaret Cameron ispirata al quadro dell’artista bolognese.

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Per la vostra statura aitante? Peril vostro glorioso passato? Per leferite che avete riportato a Le-panto? [...]. Ma perché voletefarmi credere di ignorare cheBeatrice si è servita di voi pervendicarsi di suo padre? Per-ché mai volete darmi ad inten-dere che non vi siete accortoche lei si è data a voi con il taci-to patto che voi in cambiol’avreste aiutata a disfarsi disuo padre?» (Alberto Moravia,Teatro, cit., I, p. 240).Moravia porta, dunque, sullascena il confronto tra due na-ture, affini per l’inclinazione dibase, ma profondamente di-verse negli esiti.Francesco Cenci, nel dramma,sembra cogliere – giustamente– le analogie tra il suo modo dirapportarsi alla realtà e quellodella figlia («La noia disgrega lamia vita Beatrice, e mi fa voleree disvolere; ma ancor di più di-sgrega la tua e ti rende incapa-ce di vivere e di volere vera-mente qualche cosa. È tardiper me Beatrice, ma è ancorapiù tardi per te»  Ivi , p. 265),ma confonde i piani e non indi-vidua precisamente l’elementocomune, che ritiene essereidentificabile con l’inclinazionealla noia. Tale elemento pare, inrealtà, più un effetto che unacausa di malessere: si coglie,nell’atteggiamento dei due per-sonaggi, come già rilevato pre-cedentemente, una tendenzaall’assoluto che, nello scontrocon la limitatezza del contin-gente, non può che originaregli esiti tragici descritti. Ciò cheaccomuna padre e figlia, dun-que, risiede nell’incapacità diaccettare l’insuperabile limitedell’uomo, che deve, di neces-sità, adeguare alla chiusura del-

l’orizzonte materiale la suaaspirazione all’infinito.Si avverte con evidenza il lega-me di Moravia con la specula-zione esistenzialistica di pochi

anni anteriore, e, in particola-re, con il Caligola di Albert Ca-mus. Identica appare, infatti,la sensazione dell’esserci per lamorte e dell’assoluta indiffe-renza del vivere, che sorprendeFrancesco in maniera imme-diata e, per così dire, naturale,mentre si manifesta in Beatricesuccessivamente alla perditadell’innocenza e dunque dellapossibilità di realizzare se stes-sa nel mondo in maniera com-piuta e priva di adeguamenti –o compromessi – con la realtàconcreta.Terzo polo della vicenda èOlimpio, il quale ben rappre-senta l’esito positivo – ossiaproduttore di un risultato – delrapporto tra l’individuo e ilmondo. La seduzione si mani-festa, infatti, in tale personag-gio, non nella veste di motoredell’azione (come si è visto ac-cadere, benché secondo moda-lità del tutto differenti, nei dueCenci), ma come fine cui ten-dere. Il mezzo, in codesto caso,è il male, ma l’obiettivo si pale-sa concreto e bene tangibile: ilcastellano esacerba l’ostilitàdel padre nei riguardi dellagiovinetta per costringere que-st’ultima a cercare ricovero trale sue braccia.La differente interpretazionedella realtà è efficacemente po-sta in luce da Francesco, ilquale rileva con pertinenza co-me l’interesse dell’uomo sia fo-calizzato sempre e solo su og-getti materiali, in qualche mi-sura quantificabili:Francesco [...] Olimpio [...]non è un Cenci, non è veroOlimpio?Olimpio Signor Francesco:non lo sono ma vorrei esserlo.Francesco Ottima risposta.

Sì, tu vorresti esserlo perchénon pensi alla noia che ciscorre nelle vene insieme conil sangue, bensì soltanto allenostre ricchezze. È una rispo-

sta che ti dipinge quale sei: unuomo d’ordine, un uomo ra-gionevole, un uomo ambizio-so che vuole salire e migliora-re il proprio stato. [...] Eccocome rispondono coloro chenon sono Cenci. Essi voglionocose concrete, denari, roba,potenza, le vogliono con co-stanza e sanno che le vogliono(Alberto Moravia, Teatro, cit.,I, p. 267).La ragionevolezza di Olimpio,sottolineata in più luoghi deldramma, gli impedisce di subi-re il fascino della perdita di sé:il castellano attraversa dunquela vicenda, unico fra i perso-naggi, con una sicurezza che sirivela sia nella chiarezza degliobiettivi, sia nella tranquillitàintorno al loro raggiungimen-to. Il piacere voluttuoso concui i due Cenci discutono dellamorte e dell’allontanamentodal mondo si definisce del tut-to estraneo a Olimpio, che pa-re legato alla vita in manieratanto salda da consentire unaprogettualità per il futuro in-compatibile con la mentalità dicostoro.Mentre, dunque, Francesco in-corre in una fine che, benchéviolenta, pare quasi invocata eBeatrice trova nella condannadel carcere un surrogato nondisprezzabile della bramataquiete del chiostro, la fuga diOlimpio per la salvezza rivelaun’indole attiva che si manife-sta ben riassunta dal fine prin-cipale del personaggio per tut-to il corso della tragedia. Taleobiettivo – il corpo della don-na – si eleva a immagine icasti-ca di una partecipazione allavita in tutti gli aspetti di cui es-sa è composta, adesione alienadal timore del vizio che sem-

bra, anzi, elemento connatura-to e fisiologico all’interno di unsistema prettamente mondanoquale quello che regola la vi-sione del castellano.   ■

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Normalmente nel raccontare ilrapporto tra un uomo e unadonna la seduzione viene evo-cata all’interno del rituale del-l’innamoramento, comune-mente inteso come la via d’ac-cesso all’amore pieno tra dueamanti. La seduzione diventacosì qualcosa, a tratti di sini-stro, che ammalia, fino a con-durre con sé, come le note se-ducenti del pifferaio magico, idue partner del rapporto. Ilcondurre con sé confonde inuno i due amanti e sfuma l’ini-zio del loro rapporto nell’inde-finito senza tempo, nel destinoche accade sopra le volontà deisingoli. La frase tipica che ac-compagna questo sfumare del-l’inizio suona: «È come se ticonoscessi da sempre…».Vorrei provare a presentare l’a-more e la seduzione in mododiverso a partire da due prezio-se testimonianze narrative: ilracconto di Isaac B. Singer , LoSpinoza di via del Mercato1 e ilromanzo di Georges Simenon,Tre camere a Manhattan2. Nelracconto di Singer la seduzioneè un preciso e concreto attoche dà inizio all’amore tra unuomo e una donna, evitando leinsidie dell’innamoramento,cioè di quella tentazione – chequi descrivo succintamente eche non approfondirò3 – difondersi subito con l’altro perevitare di incontrarlo e cono-scerlo. La seduzione è quell’at-to di pensiero che consente al

protagonista di far posto nellasua vita ad una donna.Anche nel romanzo, in parteautobiografico, di Simenon sievitano i raggiri dell’innamora-

mento. L’incontro con l’altrosenza la maschera dell’amorefatale comporta paure, diffi-coltà ed incertezze che rendo-

no il rapporto dei due amanticomplesso. È una complessitàmolto attuale, nevrotica, a trat-ti quasi perversa. L’incontro,anche qui, sarà reso possibile

da un atto di seduzione, consi-stente nel far posto nel proprio

 pensiero all’altro.Nella seduzione che preparaall’amore l’inizio è un’iniziati-va, non un accadere neutro,come lo è nell’innamoramentoil cosiddetto colpo di fulmine;l’iniziativa può essere di uno odell’altra, non ha importanza enon è una questione di eman-cipazione. Qualcuno ha l’ono-re e il merito di iniziare e que-sto atto, inaugurale, che nelsottotitolo ho chiamato «la se-duzione oltre la seduzione del-l’innamoramento» distinguel’inizio dell’amore dall’inna-moramento, che non ha inizio,ma soprattutto non ha chi ini-zia4, perché tutto sfuma in ununo indefinito, senza tempo.

Far posto all’altro Nelbreve racconto di Singer  LoSpinoza di via del Mercato siparla di un uomo, piuttostoanziano, che trascorre la suavecchiaia in una soffitta di Var-savia, studiando e ristudiandol’Etica di Spinoza. Un uomo li-bero nel pensiero, ma ancheattento a mantenersi libero davincoli, fossero anche quellimatrimoniali. Egli non ha altraoccupazione che quella digiungere prima o poi a com-pletare un’opera sul filosofo,cui da sempre si dedica. È af-flitto da mali continui e miste-riosi, a causa dei quali teme dimorire presto e che hanno se-

gnato il suo corpo, accartoc-ciandolo quasi e rendendolosgradevole d’aspetto e di odo-re. Quando non è impegnatonegli studi o nell’osservazione

Far posto all’altro La seduzione oltre la seduzione dell’innamoramento

Claudia Furlanetto

Locandina del film e, sopra,la copertina del libro di G. Simenon.

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del cielo stellato, il dottor Fi-schelson si cura di reintegrarenella sua dispensa le provvistesettimanali esaurite, e per farciò si reca al mercato o nei ne-gozi del quartiere.Fino a quando da un giorno al-l’altro tutti i negozi rimangonochiusi e il nostro uomo restasenza provviste. Prova a cerca-re vecchi amici per avere infor-mazioni e viveri, ma non trovanessuno e pensando che per luisia ormai giunta la fine, ritornanella sua soffitta ad attendererassegnato, ma anche fiduciosonell’ordine razionale dell’uni-verso, i prossimi eventi.Non lontano dalla sua soffittaabita una donna, detta Dobbela Nera, anche lei piuttostosgraziata, per l’altezza e la pe-luria, nera appunto, che lecontorna il labbro superiore.Per tutti è ormai una zitellona,senza più speranze a seguito didiversi “amori sfortunati”. Ladonna attende da tempo unalettera di un cugino emigratoin America, che le dovrebbeinviare del denaro per consen-tirle di raggiungerlo.Il giorno in cui il dottor Fi-schelson si corica a letto, senzaaver desinato per la mancanzadi viveri, Dobbe la Nera ricevefinalmente la lettera del cugino.Impaziente di conoscerne ilcontenuto, la donna, analfabe-ta, va alla ricerca di chi da sem-pre le leggeva le lettere, ma nonlo trova. Decide allora di rivol-gersi al filosofo del suo piane-rottolo e lo cerca nella sua stan-za. Accortasi dell’uomo steso aletto, in uno stato tale da sem-brare morto, caccia un urlo, masi riprende subito vedendo chel’uomo si muove. Si spiegano elui le chiede di porgergli l’Etica

e lei si premura di fornirgli an-che cure e cibo, che lo rianima-no completamente.Le premure della donna versoil dottor Fischelson continua-

no anche nei giorni a venire, fi-no a che una sera il filosofo, in-tento come sempre nella lettu-ra dell’Etica, senza profittoperché quella sera non riuscivaa capirci nulla, alza il capo dallibro, si rivolge alla donna e fi-nalmente le parla come nonaveva fatto mai (e come nessu-no mai prima di lui), ovvero ledomanda sinceramente, sem-plicemente, ma non banalmen-te, chi sia, e la ascolta. «Dobbesi stupì perché nessuno le ave-va mai fatto domande di quelgenere». La donna è generosanel raccontare di sé, ma anchecuriosa di sapere di lui, soprat-tutto del suo rapporto conDio. A questa domanda il dot-tore risponde così: «Dio èovunque, è nella sinagoga, nel-la piazza del mercato, persinoin questa camera, anche noisiamo parte di Dio». A questopunto Dobbe se ne va, facendopensare al dottor Fischelson diaverla fatta scappare con la fi-losofia. La donna subito doporientra con le braccia carichedi panni e annunciandogli:«Questo è il mio corredo».La breve sintesi del raccontodi Singer finisce qui, con que-sta offerta di sé al dottore daparte di Dobbe. Il racconto in-vece procede ancora con lamessa in scena di un lavorodella seduzione, che non hanulla di scontato e che, perquesto, è capace di aprire aiprotagonisti di questo straor-dinario rapporto accessi via viasempre più pieni e soddisfa-centi all’universo.«Chi è lei? Mi racconti di sé…mi fa piacere sapere di lei… seanche a lei fa piacere…». Que-sto è l’inizio del rapporto, serapporto allora amore, se amo-

re allora universo: «Anche noisiamo parte di Dio». Dobbeaveva capito benissimo chequesta non è una frase filosofi-ca, ma è la frase che le schiude

l’universo «Anche noi due sia-mo parte di Dio, non generica-mente noi uomini ».La seduzione è un atto delpensiero, collocabile nel tem-po e nello spazio, per questoprivo di angoscia, grazie alquale avviene uno sbilancia-mento, si apre uno spazio nuo-vo, non previsto, inatteso esorprendente, nel quale, l’al-tro, il partner del rapporto, sevuole, prende posto. Dobbe,donna piena di spirito, saprendere posto e onorare cosìpienamente l’offerta dell’altro,fino a ricambiare con il corre-do nuziale.La seduzione è un fare postoall’altro nel rapporto, anzituttofacendo sì che tale rapporto sicostituisca dal nuovo, o dinuovo, ovvero non sia già dato,presupposto. La seduzione èun atto costituente del pensie-ro. Dobbe non si aspettavaquella domanda, la stupisce ela onora, perché mossa da unpensarla bene, ovvero non pre-supponendo nulla di lei; da quil’inizio del rapporto, il suoparlare bene a lui, bene ovverocon beneficio per entrambi.Inoltre, sorprendendo Fischel-son, Dobbe coglie le dimensio-ni del posto che lui le fa, pro-prio a partire da quella precisarisposta sul rapporto dell’uo-mo con Dio. Dobbe, donnasemplice e concreta, alla rispo-sta «Dio è qui con noi», non nefa una questione di panteismo,che neppure sa cos’è, ma av-verte l’agio di un pensiero cheè aperto e la apre all’universo.

Far posto nel proprio pen-siero all’altro Diversa-mente che nel racconto di Sin-ger, nel romanzo di Simenon

l’incontro tra l’uomo e la don-na si complica a partire dallapresenza in entrambi, ma inparticolar modo nell’uomo, diuna profonda obiezione al rap-

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porto con la donna, dovuta adinquietudini e paure preceden-ti l’incontro. Diverse cose acca-dono prima che si amino. L’ini-zio del loro rapporto, anche secontrassegnato da una forte in-timità fisica e da un forte biso-gno di vicinanza reciproca, nonè l’inizio del loro amore. L’ini-zio in questa storia è l’accadereo piuttosto il cadere di un certopensiero, di un’obiezione, diuna diffidenza. La seduzioneanche qui si configura come unfar posto all’altro, previa prepa-razione nel proprio pensiero di questo posto. È il posto del de-siderio dell’altro, che avrà ilsuo inizio in un pensiero con-tro-corrente.Tre camere a Manhattan è unromanzo autobiografico che Si-menon scrisse in sei giorni, nelquale si ritrovano le vicende del

suo incontro con Denyse Oui-met, che diverrà la sua secondamoglie. Il romanzo è ambienta-to a New York, dove lo scritto-re era arrivato nel 1945. L’ope-ra non racconta eventi, ma pen-sieri, che si intrecciano, si sno-dano, si oppongono come le viedi Manhattan, che i due prota-gonisti spesso si trovano a per-correre a piedi.Vi si descrive la storia diFrançois Combe, attore france-se che va a vivere nella metro-poli americana. In un bar l’at-tore nota Kay e ne è attratto.Lei ha poco più di trentacinqueanni, lui ne ha quasi cinquanta.Inoltre lei non è particolarmen-te bella, ma ha una voce velatadi tristezza, che lascia intende-re una grande solitudine, lastessa di cui soffre François. Idue si mettono a parlare, bevo-

no molto, stringono amicizia,passeggiano a lungo per le viedi Manhattan e concludono lanotte in un albergoDa questi primi passi – le pas-seggiate sono un tema costante,una sorta di ritornello, un cal-mante all’angoscia di Françoise di Kay – se ne snodano altri,attraverso i quali entrambi iprotagonisti giungeranno infi-ne a sciogliere il loro pensiero,ad aprirsi reciprocamente.L’amore non è un “colpo di ful-mine” (l’amore da colpo di ful-mine è quello dell’innamora-mento). Né François, né Kaysono innamorati dell’altro, mal’assenza di questa possibiletentazione, che renderebbe fa-cile il reciproco abbandonarsi(anche nel senso di farla finitalì) li lascia consapevoli della lo-ro evidente difficoltà di pensa-

Edward Hopper (1882-1967), Hotel by a Railroad (1952).

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re bene il rapporto con l’altro.Soprattutto François soffre lalucida consapevolezza della suadiffidenza, della sua incapacità,che non è non-volontà – ad ab-bandonarsi a lei, senza l’ubria-catura dell’innamoramento,ma la tentazione è forte, quan-to la presenza nel romanzo dimanhattan drink e whisky.Quanto è difficile far posto al-l’altro. Tre camere a Manhat-tan, ovvero luoghi moltosquallidi e spogli, disabitatiinnanzitutto dal pensare beneil rapporto tra l’uomo e ladonna. L’altro, la donna, èpensata piuttosto come qual-cuno che occupa posto, che lo

invade fino a far soffocare.François parla con enfasi dellasolitudine: «Quel che contasono io… Io!… Io!…». E qua-si lo urlava, quell’“io”. «Io, che

mi sono ritrovato completa-mente solo! Nudo! Che ho vis-suto da solo, qui, sì, proprioqui per sei mesi. Se non capisciquesto, tu… tu… tu non seidegna di stare qui».È questo immenso io che occu-pa il posto dell’altro e chepreoccupa François in meritoai propri sentimenti per Kay.«La cosa più sconcertante fuche era stato lì lì per rallegrarsidi non trovarsela accanto,mentre a distanza di un’ora,anzi di pochi minuti soltanto,un sentimento simile gli sem-brava già assurdo, o addirittu-ra mostruoso». E ancora, a di-stanza di qualche giorno dal-

l’incontro con Kay: «La solacosa importante era che a casasua, nella sua camera, c’erauna donna di cui non sapevaquasi niente, di cui non si fida-

va, una donna che adesso giu-dicava con lo sguardo più fred-do, più lucido e più cattivo cheavesse mai avuto, una donnache a tratti disprezzava e dellaquale sentiva di non poter piùfare a meno».La svolta avviene grazie a Kay.È lei ad offrire a François unpensiero nuovo, che si concedeil piacere dell’abbandono al-l’altro. Da qui gli mostrerà lavia della fiducia. Recandosi al-l’aeroporto, per un viaggio ur-gente in Messico, dove si trovala figlia che è gravemente mala-ta, dice: «Adesso non mi sem-bra più una partenza, sai, maun arrivo».

La donna sta lasciando la città,o meglio la camera dove conFrançois ha sofferto per vince-re le reciproche solitudini, di-retta in Messico per un fatto

Edward Hopper (1882-1967), Second Story Sunlight (1960).

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grave, che potrebbe anche de-finitivamente allontanarla daFrançois, eppure lei ora ritrovanel suo pensiero il posto perl’altro. Se ne va portando in séil senso di un arrivo non di unallontanamento. Fatto questoposto in sé non ha alcun timo-re a partire, non sarà più sola.È questo per lei l’inizio delrapporto con François, ma losarà anche per lui, perché que-sto pensiero l’uomo, lo acco-glierà, lo respingerà, ma infine,lo ospiterà, lo farà suo.

(Kay) «Non credevo che sare-sti venuto, non osavo neppuresperarlo, mi succedeva perfinodi desiderare il contrario. Ri-cordi la stazione, il taxi, lapioggia, le parole che ti ho det-to allora e che credevo nonavresti mai capito?».(François) «Non era una par-tenza… Era un arrivo… […]».Domani non sarebbero piùstati soli, non sarebbero maipiù stati soli, e quando lei al-l’improvviso ebbe un brivido,quando lui sentì, quasi con-temporaneamente, una puntadell’antica angoscia ridestarsi estringergli la gola, entrambi ca-

pirono di aver gettato nellostesso istante, senza volerlo, unultimo sguardo sulla solitudinein cui erano vissuti fino ad allo-ra ed entrambi si domandaro-no come avessero potuto sop-portarla […] Niente più came-re a Manhattan. Non ce n’erapiù bisogno. Ormai potevanoandare dovunque…

Quel pensiero contro-correntedi Kay, arrivo, che è pensierodel desiderio e non della pauradell’altro, dopo essere stato ri-conosciuto e fatto proprio daFrançois , diventa la partenzadel loro rapporto. L’inizio delloro amore. Solo qui si comin-cia, senza fretta. Non sarannopiù soli, ma anche – a confer-mare che se amore, allora uni-verso – il luogo del loro incon-tro non sarà più solo una ca-mera da letto, ma il mondo,l’universo. Arrivo… è un pen-siero-controcorrente, autenti-co quasi come un lapsus, doveil desiderio filtra senza più ri-serve e obiezioni. François èun bravo amante, innanzituttoperché riconosce fino a deside-rare anche lui questa verità.La seduzione, che non ha nulla

a che vedere con quella dell’in-namoramento, è l’inizio dell’a-more, che accade per iniziativadi uno nel rapporto, cui l’altronon si oppone (Dobbe La Ne-ra), o non si oppone più(François Combe).La parola seduzione può assu-mere nuovi significati, quandol’accento va prima sul condur-re, sul movimento, sul lavorodi pensiero in funzione delrapporto, poi sul sé non piùconcluso – simbolicamenterappresentato da soffitte e ca-mere – ma che si apre all’altroe, per suo tramite, all’universo.

1. Isaac B. Singer, “Lo Spinoza divia del Mercato”, in Racconti , i Me-ridiani, Mondadori, Milano 1998.2. Georges Simenon, Tre camere a Manhattan, Adelphi, Milano 1998.3. Per la questione dell’innamora-mento si rinvia ai materiali consulta-bili nel sito www.associazione-salus.it.4. Qui si fa solo accenno ad una più

ampia questione rintracciabile apartire dalla prolusione di GiacomoContri al corso Il Lavoro Enciclope-dico, tenuta a Milano nel mese di ot-tobre del 2000, consultabile nel sito www.studiumcartello.it.

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La mamma ha portato Serena al parco, in attesa

di andare a prendere la sorella Celeste al puntoverde. La piccola è a suo agio, anche perché co-nosce bene gli attrezzi. Si avvicina ad una sbar-ra posata su molle che la rendono instabile (ilgioco è starci in equilibrio): lì, a far vedere “co-me si fa” c’è un bel bimbo, più o meno dellasua età, moro, sveglio... Quando Serena affron-ta la sbarra, lui, cavallerescamente, si siede suun’estremità per facilitare il percorso e, natu-ralmente, lo sottolinea.Serena, dopo, ricambia il favore e, intanto, guar-

da la mamma con due occhietti…Il maschietto, tipico maschietto italico, nel frat-tempo spiega tutto quello che lui sa fare su quel-la sbarra (sfumature, tra una cosa e l’altra, dav-

vero impercettibili, ma tant’è…) e Serena dimo-

stra molto interesse, ma, poi, non vista, guardala mamma, alza un po’ le sopracciglia, fa spal-lucce e sorride. Se ne va, all’improvviso, versoun altro attrezzo, con corsa leggera e guardandosolo una volta indietro, verso il maschietto cheabbocca e le corre dietro. Serena lo guarda e unpo’ melliflua gli chiede:«Come ti chiami?».«Emanuele» risponde il bimbo un po’ più timi-do di prima.«Io mi chiamo Serena…», risponde la piccola,

appesa per un braccio e con le trecce al vento.Poi guarda la mamma: inarca le ciglia, piega latestina da un lato e sorride come per dire:«Trooooppo facile!».

Serena & Celeste

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Nella rosa dei libri che, nellamia veste di bibliotecaria, ap-pioppo alle ragazze spicca nondi rado Jane Eyre, il romanzo diCharlotte Bronte. Arrivano intruppa, esibendo a tutte le sta-gioni l’immancabile piercingall’ombelico, goffamente am-miccanti nel loro look preado-lescente che confonde i compa-gni ancora indugianti nell’in-fanzia. E mi chiedono con im-pacciata spavalderia un librotrasgressivo. Facile sarebbe perme pescare tra i numerosi titoliche suggerisce lo scaffale di let-teratura contemporanea, daNew York alla periferia provin-ciale, ma con assoluto candorepuntualmente propongo il ca-polavoro della Bronte, spac-ciandolo per il manuale dellaseduzione per eccellenza!Non intendo in questa sede fa-re una trattazione critica di Ja-ne Eyre, ma il tema in gioco inquesto numero della rivista haimmediatamente in me evoca-to il personaggio creato dallagrande scrittrice inglese, inquanto stimola la riflessione suciò che io considero l’esattocontrario di seduzione come èoggi comunemente intesa.Se per seduzione si intende ilmettere in atto una serie distrategie di conquista, che pas-sano tutte attraverso un’inten-zionale esibizione dell’immagi-ne fisica – l’ostentazione del-l’ombelico nel caso delle tredi-cenni –, allora la modesta e di-

messa Jane non rappresentadavvero un esempio cui ispi-rarsi. Nulla ha a che fare con lapetulante ed appariscenteBlanche, uno dei personaggi

femminili che popolano il ro-manzo, in cui è possibile rico-noscere la folla di ragazzineaspiranti soubrettine della tele-visione nostrana del terzo mil-lennio. Nel caso della protago-nista del romanzo, all’ostenta-zione si oppone un’intelligenteritrosia, al vociare un misuratosilenzio, alle sfacciate intenzio-ni una pudica spontaneità.Va chiarito che nulla di roman-tico c’è nel pensiero che laBronte ha riversato nel suo per-sonaggio, suo alter ego come lodefiniscono i critici. Pur nontrattandosi di un’autobiografia,nell’opera è facile ritrovare leesperienze di vita dell’autrice,il mondo cui apparteneva, im-merso nel paesaggio nebbiosodella brughiera dello Yorkshiredella metà Ottocento.La mente della Bronte resta vi-gile, dotata di straordinaria ca-pacità percettiva. Non dalla vi-ta, che poche occasioni ha of-ferto a Charlotte ed alle sorelleAnne ed Emily, costrette tra leumide mura della canonica delpadre, ma attingendo al cala-maio dell’immaginazione lette-raria, ella ha saputo far emer-gere dalla nebbia il suo mondointeriore, dando contorno allecose e soprattutto voce alleemozioni.L’autrice ha compiuto un’ope-razione che nulla ha a che farecon il romanticismo d’appendi-ce ma che piuttosto va calata inun preciso contesto sociale e

culturale tale da rendere, que-sta, un’opera straordinaria-mente moderna ed, aggiunge-rei, attuale, che parla di senti-menti eterni ed universali con

un linguaggio delicato e direttonel contempo, senza dubbio ri-voluzionario per il 19o secolo.Quando propongo alle giovanilettrici la storia di Jane nonpenso ai sentimentalismi di unafanciulla che nella prima etàvittoriana da istitutrice trovaun riscatto sociale tra le bracciadi un lord. Ricordo piuttostoche esiste una seduzione dellospirito, al di sopra di ogni affer-mata intenzionalità, al di là delricorso a qualunque lusinga.Non va neppure consideratoun romanzo spirituale, anzi, lapassione, anche carnale, perva-de molte delle sue pagine; sitratta tuttavia di passionalitàallo stato puro che nella suamanifestazione trova il giustoequilibrio con l’interiorità dicui sono ricchi entrambi i per-sonaggi, Jane e Rochester.La forza interiore di Jane Eyrepoggia, a mio avviso, su quat-tro cardini:

 – L’aspetto esteriore in cui sonocompresi sia l’aspetto fisico –

 Jane sa di non esser bella, «solittle, so pale and had featuresso irregular and so marked»(«così piccola, così pallida, conlineamenti così irregolari emarcati» la citazione in linguaoriginale è tratta da The Worksof Charlotte and Emily Bronte,

 Jane Eyre, Wuthering Heighs,Longmeadow Press, Stamford1990, p. 94; la traduzione è acura di Ugo Dettore, per l’edi-zione Einaudi, Torino 1995, p.

118) – sia il comportamentoche trovano sintesi nel suo in-nato senso del pudore; non èl’esteriorità a sedurre ma è lospirito e con la vivace ed aper-

La seduzione dello spirito Il caso letterario di Jane Eyre

Margherita Venturelli

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ta intelligenza, la modestia, l’a-spetto dimesso, la giovane isti-tutrice scalda il cuore di Ro-chester e lo converte alla vita.Nel suo comportamento nonc’è aperta ribellione al ruoloassegnatole dalla società deltempo, non c’è la contestazio-ne cui arriverà la donna mezzosecolo più tardi, sostenuta, co-me Jane è, dalla consapevolezzadi possedere una forza interio-re, quella dello spirito, ben su-periore a qualsiasi convenzio-ne sociale, a qualunque model-lo accreditato dall’Inghilterravittoriana; ella, pur non oppo-nendosi apertamente alle rego-le sociali, sceglie di impostarela propria esistenza su altre lo-giche. « But women feel just asmen feel» («Ma le donne han-no gli stessi sentimenti degliuomini», op. in lingua orig.cit., p. 105; trad. a cura di U.

Dettore, op. cit., p.131

), affer-ma Jane in quella che può esse-re considerata una sorta di di-chiarazione femminista.–  L’indipendenza che le vienedata dall’autodeterminazione edall’istruzione. La possibilitàdi frequentare la scuola e di-ventare a sua volta lei stessa in-segnante le dà l’opportunità ditrasmettere ad altri non tanto

le nozioni apprese quanto tuttal’indipendenza di uno spiritoche attraverso la conoscenzaha la facoltà di scelta nella vita.Il romanzo è scritto non a caso

in prima persona in quantonessuno può parlare e rivelarela sua interiorità al posto suo,non un narratore, solitamentedi sesso maschile.–  La mancanza di intenziona-lità: non c’è da parte sua vo-lontà di conquista, non ne habisogno, pur desiderando ama-re ed essere amata. Torna utilea questo proposito fare un con-trollo etimologico dal Vocabo-lario della lingua italiana Zinga-relli (Zanichelli, Bologna 2003)dove alla voce “sedurre” è ri-cordata la provenienza dal ver-bo latino se-ducere ovvero svia-re, condurre via, e, in virtù del-la radice, in particolare del pre-fisso se che indica appunto l’al-lontanamento, il primo signifi-cato letterale proposto dal vo-cabolario è «indurre al male oin errore con lusinghe, alletta-menti, inganni». L’atto del se-durre ha in sé l’intenzione cal-colata di attrarre l’altro a scopiegoistici, non per fare il suobene bensì per soddisfare unproprio bisogno. Jane invecegiunge addirittura ad essere di-sposta a rinunciare alla felicitàconiugale. Ma tale rinuncianon equivale ad una sottomis-sione, è anzi l’occasione peresplicitare il proprio sentimen-

to e per affermare tutta le pro-pria libertà di spirito. Jane puòpermettersi di rinunciare a Ro-chester in quanto tale sceltanon rappresenterebbe una ri-

nuncia a sé. La doppia valenzadell’espressione che dà il titoloa questo mio contributo, la“seduzione dello spirito”, svelala duplice accezione introdottadalla preposizione di : la sedu-zione mediante lo spirito; la se-duzione esercitata dallo spirito.Su entrambe le accezioni pog-gia la personalità del personag-gio di Charlotte Bronte, la cuiforza sta appunto nell’indipen-denza del pensiero e nella suaprofonda capacità di amare. Aquesto proposito trovo straor-dinariamente illuminanti le pa-role che Jane usa nello spiegarea Rochester la decisione di ri-nunciare al matrimonio con lui:«I am not talking to you nowthrough the medium of custom,conventionalities, or even of mortal flesh: it is my spirit thatadresses your spirit […] I am a

 free human being with an inde- pendent will, which I now exertto leave you» («Io non parloadesso secondo gli usi e le con-venzioni, e neppure come unessere fatto di carne… è la miaanima che si rivolge alla vostraanima […] sono un essere libe-ro con una volontà indipenden-te di cui mi valgo adesso per la-sciarvi», op. in lingua orig. cit.,p. 252; trad. a cura di U. Detto-

re, op. cit., p. 299). Come dire,ecco l’affermazione piena dellospirito, posto come unico “me-dium” relazionale dal romanzodella Bronte.   ■

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Sulla seduzione una seducente ipotesi

Martino Giuliani

Dal punto di vista etimologico,definire la Seduzione è sempli-ce: se e ducere sono latino.Vogliono dire condurre consé (o a sé, o farsi seguire).Dal punto di vista concettualeo filosofico, ha invece la com-plessità delle cose vastissime,dove tutti hanno “intinto” leproprie mani. Prima di tutto lamorale (soprattutto cattolica)che ha reso il vocabolo unascorciatoia per l’Inferno: se-dotta era una via di mezzo(per le “brave giovani”) traplagiata e dannata e – oltre-tutto – abbandonata!Voglio riscattare il valore dellaSeduzione.C’è chi è stato sedotto da unadonna (o da un uomo), chi dal-la musica di Beethoven, chidalla logica di Cartesio. Chi daun tramonto o da un libro, chida un dipinto o dal profumo dicerti fiori. O, perché no, dalprofumo evocativo di certe mi-stiche cucine o struggenti ri-cordi di sapori.E c’è chi è stato sedotto daqualche ideologia, qualche reli-gione, e ha lui stesso, poi, se-dotto qualcuno. Perché i sedut-

tori ci sono: usano il proprio ca-risma o la propria sicurezza, illoro mistico fanatismo o la loroirridente gioia di vivere. Ci so-no perfino seduttori così prividi connotazioni, pregi e difetti,che seducono proprio perché«…fanno tanta tenerezza».Da parte mia (sedotto dalla…sincerità) voglio ammetterlo:non conosco nulla di più sedu-cente di immaginare di esseresedotto ogni giorno da unasplendida Seduzione, e di fug-gire con lei per un amore illi-mitato, immaginifico, felice,lungo e prolifico.Perché avremmo tanti figli(forse non intelligentissimi masicuramente meravigliosamen-te belli) che chiameremmoFantasia, Felicità, Immagina-zione, Libertà. Eccetera, per-ché anche un “eccetera” puòessere molto seducente!Ho trovato decisamente sedu-cente (anche se un po’ blasfe-ma) l’ipotesi di un mio amico,il quale sostiene che «Dio, peraver inventato la Seduzione,andrà sicuramente all’Infer-no». Il presupposto è sempli-ce: seduzione uguale peccato.

E Dio, a quanto pare, ha co-sparso di seduzioni cose, per-sone, idee, con una certa gene-rosità.Perché? Non lo sappiamo. Enella mia assoluta immodestia,non cerco nemmeno e non vo-glio saperlo. Mi va bene così.La Seduzione, c’è? E allora, vi-va la Seduzione.Può essere molto più intrigan-te, elegante, piacevole e creati-vo scatenarla, ammansirla, ge-stirla, strizzarle l’occhio, masoprattutto sorriderle o, talvol-ta, tenderle la mano. Quindi,lo ammetto, sono sempre statosedotto da qualche seduzione.E felice di esserlo stato.Penso, per concludere, che laSeduzione sia contemporanea-mente madre e figlia di sé stessa.Perché nasce essa stessa inquanto Sedotta, ma fa nascerealtre seduzioni in quanto Sedu-cente. Questo suo divenire con-tinuo fa concludere che la Sedu-zione è la Vita, la Vita stessa.Perché (e cedo così ad un’altraSeduzione: quella della sinte-si!) niente quanto la Vita è (im-mensamente, continuamente eirrimediabilmente) Seducente.

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Il “possén”

«Da Teresina ieri sera hannofatto il  possén!». Quand’eropiccolo, ad Aurava di SanGiorgio della Richinvelda,qualcuna delle ragazze che ditanto in tanto frequentavano lanostra casa per dare una manoa mia madre, qualche volta sene usciva con questa parola:

 possén, una parola che mi pro-vocava un senso di fastidio,probabilmente perché la fraseera pronunciata con tono allu-sivo ed accompagnata da risa-tine, che io non capivo.A fugare ogni fastidio ci pensòla Novella Aurora Cantarutti,mia insegnante di lettere allescuole medie di Spilimbergo,la quale un bel giorno ci spiegòche la parola possén era arriva-ta al friulano direttamente dallatino post cenam e voleva diresemplicemente “dopo cena”.Ma in che cosa consisteva il pos-sén? Tutti sappiamo che la no-stra società un tempo eraprofondamente maschilista: ledonne erano relegate in casa,solo i maschi potevano usciredopo cena a fare una briscola equattro chiacchiere con gli ami-ci. Solo in via del tutto eccezio-nale, una o al massimo due vol-te all’anno, alle donne era con-sentito ritrovarsi tra loro dopocena in casa di una di esse: chiportava la farina, chi portava leuova, si faceva una torta, la pa-drona di casa tirava fuori un fia-

sco di vino e le donne del borgofacevano un po’ di festa!Verso le undici i mariti usciva-no dall’osteria e si avviavanoverso la casa del possén, fingen-

do tra loro di non saperneniente. Arrivati nei pressi dellacasa, sentivano gli echi eccitati

dell’atmosfera della festa, il pa-drone di casa spalancava laporta ed entrava all’improvvi-so, seguito dagli altri mariti.Gli uomini urlavano, fingendodi arrabbiarsi: «Ma guarda tu,non puoi lasciarle sole un mo-mento che subito ne approfit-tano». Ben presto il clima sistemperava, i mariti si sedeva-no accanto alle mogli e la festa

continuava, assumendo un to-no di pienezza liberatoria!

Il cavalierato

Quando facevo il Vice Provve-ditore agli Studi, tanti anni fa,passavo parte del pomeriggionell’ufficio del Provveditore adaprire la posta, che gli passavo

senza leggerla (per rispettoverso il capo). Un giorno, do-po aver letto una lettera delDirettore Generale del perso-nale del Ministero della Pub-

blica Istruzione, che gli avevoappena passato, il Provvedito-re, visibilmente alterato, gettòla lettera per terra stizzito e midisse: «Dimmi tu, che cosadevo rispondergli? Leggila!».Raccolsi la nota: il Direttorechiedeva il parere del Provve-ditore su una proposta di con-ferimento del Cavalierato del-la Repubblica ad uno degli im-piegati del Provveditorato,uno dei collaboratori che eglistimava di meno.«E adesso, che gli rispondo?»insisteva schiumando tutta lasua stizza. «Non mi preoccupe-rei per la risposta» azzardai.«Rispondigli secco: “Si esprimeparere favorevole”. Così, il Di-rettore capisce che non sei entu-siasta della proposta, ma nonimpedisci all’interessato di rag-giungere l’agognato traguardo».Il dialogo finì lì. Il giorno do-po, appena arrivato in ufficio,fui chiamato dal Provveditore,che mi fece sedere e incomin-ciò a dettarmi una lettera per ilMinistero, nella quale il Prov-veditore, dopo aver fatto unosperticato elogio della mia per-sona, proponeva il conferi-mento del Cavalierato al dot-tor Franco Luchini.«Non sono per niente d’accor-do» lo interruppi all’improvvi-so. «E perché?» mi chiese. «Ioti ringrazio della proposta e so-prattutto degli elogi, ma vedi,io sono convinto che quandouno viene fatto Cavaliere, vuol

dire che non cavalca più e que-sto non mi garba proprio!».Fu così che gli feci fare una bel-la risata ed io mi giocai l’occa-sione per diventare Cavaliere!

Tecniche di seduzione

Franco Luchini

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A Seattle, nello Stato di Wa-shington, nella costa Ovest de-gli Stati Uniti esiste una scuolache insegna a sedurre il pro-prio partner, o altri, con il ba-cio. Sì, una scuola per baciato-ri. Gli studenti sono uomini edonne adulte, coppie di tuttele età, ad esclusione dei mino-renni, che vogliono sbalordirsimediante l’uso quasi scientifi-co, dell’organo buccale. Si sa,tutti lo sanno, che il bacio èuna manifestazione gioiosadell’innamoramento, soprat-tutto giovanile. Il bacio, quellovero, quello che si regala o siprende la prima volta da ado-lescenti, quando ci si innamoradella ragazza o del ragazzinodel banco vicino o dell’altraclasse che si vede durante la ri-creazione mentre parla conquella “smorfiosa” dai capellirossi “che ci viene una rabbiadentro” (nell’italianese gergaledi molti ragazzi) “che ci strap-perei i capelli a quella” (sem-pre in italianese), il bacio, ilprimo bacio dicevo, a volte èsofferto fino allo spasimo ed haun senso liberatorio di tutte letensioni emotive che vengonoscaricate nel momento in cui lelabbra e le salive si unisconofreneticamente e con dolcepassione. A volte, nelle festedegli adolescenti si incontrava-no coppie di ragazzi e ragazzeche si baciavano a lungo nelcorridoio di casa di un amicoche aveva dato una festicciola

in assenza di mamma e papà(erano sabati o domeniche se-ra, quando i genitori “moder-ni” lasciavano i ragazzi soli, adivertirsi). Ma come si arrivava

a quel “primo bacio”? Chi nonlo ricorda? Se non ricordo ma-le tutto iniziava da uno sguar-do: improvvisamente, dopomolti anni infantili, dedicati al-

la mamma, al gioco della sas-saiola (per alcuni) al gioco della“lizza e del bastone”, al giocodelle bambole e delle “smorfio-serie” (italianese mio), improv-

visamente, da fanciulli distratti,a causa di uno sconvolgimentochimico degli aminoacidi delcervello, le sinapsi destinate adassumere il ruolo di indicatricidei sensi cominciavano a “farescintille” facendoci diventareda imberbi “assenti” a precoci“presenti” seduttori. Sì, quellache ci faceva “il filo” (o vice-versa quella alla quale faceva-mo “il filo”) alla quale nonavevamo mai prestato atten-zione, cioè ci era indifferenteper il suo modo di guardarciche ci infastidiva, per la suacapigliatura nera, abbondante,anzi folta e riccioluta, che ve-stiva senza molto apparire (erasegno di buon gusto e di se-rietà femminea; ah, che tempimeravigliosi!), quella che fa-ceva gruppetto con le amichecomplici che erano poi anchetue amiche (ma più di lei) lequali all’uscita della scuola tichiamavano (e lei fremeva nel-l’attesa del momento di poter-ti vedere da vicino o di toccar-ti di sfuggita la mano nel salu-tarti) oppure si avvicinavanoper consegnarti un fogliettinopiccolo piccolo sul quale eradisegnato un cuore e una co-lomba e delle catene sangui-nanti… e tu stupido, imbaraz-zato, anzi infastidito di appa-rire di fronte ai tuoi sciocchiamici che ridevano, uno zim-bello delle “femmine”, strap-pavi il biglietto con un gestodi sprezzo e di irrisione, fe-

rendo inesorabilmente la po-vera creatura come un agnel-lo, no, una colomba impalli-nata dal cacciatore spietato.Beh, tutto incominciava con

Sguardi e baci

Carlo Pontesilli

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uno sguardo… quello del mesedopo, quando lei, diventatapiù donna aveva cambiatolook, cioè aspetto, espressione,sguardo! Capelli tagliati corti,un po’ mossi ma non troppo,una camicetta bianca che sem-brava fosse stata scolpita dalCanova, una gonna di seta fru-sciante scampanata che lascia-va scoperte le ginocchia (bel-lissime! Come mai non ce nesiamo accorti prima?), con unasottogonna bianca larga inami-data, orlata con un merlettosottile sottile che faceva fi-schiare l’aria durante il suo, dilei, incedere. L’incedere di lei!Ma chi non lo ricorda? Unamannequin: movimenti lenti,studiati (per ore ed ore per unmese a casa delle amiche com-plici); un sorriso da mozzafiatocon quei denti bianchissimi ele labbra lucide di burro di ca-cao intonato con i “fulmini”che sprizzavano dalle sue pu-pille. Non credevi ai tuoi oc-chi, l’hai vista e non era lei, no,non era più “quella” era un’al-tra… era… era… Basta! Erafatta, ormai eri stato sedotto ela tua vita, da quel momento,era nelle sue mani! Allora eritu a scrivere bigliettini amoro-si, pieni di tutte le meravigliosebanalità che ti venivano inmente, senza capo né coda matutto era importante, impor-tantissimo per farle capire cheil tuo cuore, la tua mente la tuavita, tutto lo donavi a lei: chene facesse quello che credeva,anche camminare sopra la tuapelle, l’importante era sentireche lei avesse ancora per te unbriciolo d’attenzione. E intan-to andavi a passeggiare di sera,d’inverno, con la pioggia ed ilfreddo, sotto le sue finestre ad

immaginarla china sui libri perprepararsi all’interrogazionedel giorno dopo; facevi chilo-metri a piedi per arrivare pri-ma dell’autobus e per smaltire

l’ebbrezza causata dalla per-manenza della sua immaginenel tuo cervello: ecco. È lassù,dietro quella finestra illumina-ta; forse mi starà pensando unpo’: oggi l’ho anche salutata trevolte, sì non mi ha risposto maperché stava parlando con lesue amiche ed io non l’ho volu-ta disturbare più del dovuto:bisogna essere gentili, oggi èpiù bella che mai, sì mammasto studiando (e nascondi il bi-gliettino con quattro versi d’a-more che ti fanno male allostomaco a che sono tutti perlei), sì, sì, mi sono preparato si-gnora professoressa ma adessoho un vuoto (chiaro nella tuamente c’è sempre lei, soltantolei, non senti nemmeno le do-mande della professoressa), tisenti un po’ stupido, i tuoicompagni ridono di te, qualcu-no ti ha anche abbandonato.Cosa non pensi la notte di fareil giorno dopo per salutarla,per incontrala fuori, o nei cor-ridoi della scuola o durante laricreazione o fuori alla fine del-le lezioni per darle quei quat-tro versi, prima che… Primache… salga sulla macchina disuo padre, no… di suo fratello(lui è giovane, un po’ più gran-de di lei, non può essere il pa-dre), forse lo zio ma sì lo zio,devono andare a casa sua peruna festa di compleanno… eresti lì, inebetito, con il fogliet-to tra le dita, solo, in mezzo al-la strada, con i cancelli dellascuola ormai serrati e nessunoche sia rimasto con te. E cosìgetti via, incautamente quel fo-glietto con quei quattro versi eti avvii lentamente, a testa bas-sa, a casa, arrivando un po’ piùin ritardo del solito; oggi è sa-bato, poi c’è domenica e poi si

torna a scuola ma che noia,non ci voglio più andare ascuola, non mi piace, mi fa sta-re male quella scuola. Voglia-mo cambiare di scuola, andare

in un altro Istituto, cambiarequartiere; ma non si può e cosìtutti i giorni sei costretto a ren-derti conto che lei proprio or-mai non ti pensa minimamen-te. Non sorridi più e la tua tri-stezza unita ad un malesseregenerale del corpo e dello spi-rito ti fanno “bocciare” in tuttele materie e devi ripetere l’an-no. Meglio così, almeno non lavedrai più. Ti senti forte ed al-lora decidi di passare sotto lasua finestra illuminata per ve-dere che effetto ti fa ma… nonc’è luce, la finestra è spenta…meglio… Allora mi fumo (dinascosto, quella volta ai mino-renni era proibito fumare inpubblico o bisognava esseredei ragazzi irrequieti e prontiad essere tacciati per scape-strati) dico, mi fumo una siga-retta che almeno mi riempio ipolmoni di un anestetico (la si-garetta è di quelle forti, senzafiltro perché ti vuoi far male:chiodo scaccia chiodo, forse cel’hai ancora nel cuore e nellamente… ma no) e vai ad aspi-rare a grandi boccate quel dol-ce veleno e aspetti che la cene-re cada silenziosamente a terra,in quel vicolo sterrato, buioche conduce verso i campi.Ormai è sera inoltrata e tutti aquest’ora sono seduti a tavolaper la cena, davanti alla televi-sione con Lascia o Raddoppia?Beh, proprio tutti no, sento deipassi nel buio, chi sarà? Ah, èuna coppietta che si sbaciuc-chia… ma… è lei! Lei! Conquello dell’automobile. M’havisto! Che figura! Io? Che figu-ra lei piuttosto, in mezzo a queicampi squallidi dove si raduna-no tutte le coppiette in “sma-nie”. Non ho parole. Un picco-lo, anzi piccolissimo tonfo del

cuore e poi più nulla. Non sen-to più nulla, è scomparsa daimiei sogni e mi sento libero, fe-lice di essere stato sedotto e poiabbandonato.   ■

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La danza relazionale della se-duzione, complessa e miste-riosa quanto pochi altri intrec-ci interpersonali, risulta, para-dossalmente, maggiormentedecrittabile laddove la perso-nalità di chi la attua possiedeconnotati patologici.Vi sono infatti, alcuni quadripsicopatologici che forzano ilsignificato dell’atto seduttivotrasformandolo da atto di pro-pensione verso l’altro in atto diconvalida del proprio Sé. Que-sta dinamica avviene in perso-nalità che presentano un Sédebole, spesso immaturo oframmentato, un Sé che nonha spazio per gli altri se nonnella misura di oggetti utilizza-ti strumentalmente per raffor-zare la propria labile identità.Tecnicamente i quadri di per-sonalità che attirano la nostraattenzione su questa tematicarelazionale sono quelli del Clu-ster B del DSM IV. I disturbidi personalità (Ddp) che sonoraccolti in questo cluster dia-gnostico sono:– Ddp isterico-istrionico– Ddp narcisista– Ddp antisociale– Ddp border-lineGli altri due clusters dell’assedue, quello A riferibile ai Ddpschizoidi, schizotipici e para-noici e quello C riferibile aiDdp ossessivi e dipendenti-evi-tanti si allontanano dall’usoforzato della seduzione per lecaratteristiche stesse dei distur-

bi personologici che le conno-tano: entrambi questi clustersdi personalità risultano avererelazioni d’oggetto segnate dal-la forte componente introversi-

va; infatti, anche dove il biso-gno dell’altro c’è (Ddp dipen-dente) esso risulta comunqueportare assetti non contrattualinell’atto seduttivo, il dipenden-te infatti non seduce e, forse,non si fa nemmeno sedurre,egli si affida all’altro di per sé .Sono invece gli assetti di per-sonalità riferibili al cluster B,quello che Lorna Benjamin de-finisce il cluster dei “dramma-tico-stravaganti” (Benjamin,1999) che, non solo mostranointeresse per l’oggetto, ma dal-la relazione con esso o meglio,dal successo della relazionecon esso, traggono forza di so-stentamento per un Sé insicu-ro e fragile.I pazienti isterico-istrionici,specie quelli isterici, sono sicu-ramente quelli che presentanouna maggiore complessità psi-

chica unita a un teatro interio-re ricco, drammatico, a fortitinte pulsionali.La personalità isterica è per-meata dalla necessità di sedur-

re. Attraverso la seduzione del-l’altro infatti protrae l’illusionedella conquista della figura pri-maria, idealizzata e mai dimen-ticata. Tutto ciò che avvienedopo la risoluzione del conflit-to edipico è una finzione. Nelsuo acuto saggio sull’isteria,Bollas (Bollas, 2000) fa parlareun paradigmatico bambinoisterico che si rivolge al padre:«Tu che domini la mamma eme ci chiedi di aderire alla tuaimmagine, ed è un ordine chenoi eseguiamo. Ma lo facciamosoltanto per via del tuo potere.Non possiamo sopraffarti. Ac-cetterò le tue leggi soltanto percrescere forte a sufficenza, co-sìcché un giorno potrò elimi-narti». Il padre rappresenta nelcomplesso edipico il supera-mento del principio del piace-re e l’adattamento al principiodi realtà. Bollas ben evidenziacome il bambino accetti solosuperficialmente l’adattamentoalla realtà mentre, nella suaprofondità psichica, inconscia-mente, mantenga intatto il de-siderio per la madre e l’odioper il padre, sentimenti propridello stato edipico. L’evidenzadel non superamento edipicosi manifesta in questi soggettigià in fase di raccolta anamne-stica: la loro vita sentimentale èspesso caratterizzata da ripetu-te storie relazionali di tipotriangolare, l’oggetto della se-duzione, se non dell’amore, èspesso un uomo o una donna

già sposato o già impegnato inun’altra relazione. Il fatto chespesso vi siano, inoltre, nellastoria di un soggetto isterico,più relazioni finite, pare con-

Seduzione e psicopatologia

Alessandro Vegliach

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fermare l’atto di costante ricer-ca della figura primaria, inte-riorizzata e idealizzata. Questaè chiaramente una rincorsa in-finita, che non si chiude mai, esi connatura, di fatto, con laforte seduttività della persona-lità isterica che non risulta maidiretta, grossolana o impulsiva.La donna isterica, viste le carat-teristiche che la pongono in co-stante competizione con la fi-gura materna e alla costantetentata conquista dell’idealepaterno risulterà spesso donnadi successo in campo lavorati-vo, sempre estremamente con-tenuta e raffinata nei modi, maivistosa nell’apparire ed estre-mamente curata nell’aspetto.L’uomo, al pari, non risulta unconquistatore florido, anzi sicaratterizza, come la donna,per la sua forte capacità di se-duzione mentale e mentalizza-ta, per i non detti e per le ca-pricciose inversioni d’umoreche frastornano, confondonoe affascinano l’oggetto dellaseduzione.Due buoni esempi di persona-lità isterica e delle loro forti ca-pacità seduttive li troviamo nelpersonaggio letterario di IsabelArcher tratto dal romanzo diHenry James Ritratto di signo-ra e nella persona del venezia-no Giacomo Casanova. Jamestratteggia la figura di una gio-vane donna che si oppone almatrimonio entro la cornicevittoriana di fine ’800. Benchècorteggiatissima, l’apparenteanticonformista Isabel rifiutamolti pretendenti salvo nell’in-teriorità, come magistralmenteraffigurato dalla regista austra-liana Jane Campion nell’omo-nimo film, desiderarli tutti, ar-dentemente. La gabbia in cui

si trova Isabel è la gabbia iste-rica: «Li voglio in quanto rap-presentano l’uomo (come ilpadre), non li voglio in quantonon sono il padre (ma solo uo-

mini)». Non cedere significa,anche e soprattutto per l’isteri-ca, non cedere alla sessualità, equindi al tradimento del padreo meglio dell’ideale paterno.Con le parole di Chiara Man-giarotti «il godimento istericoconsiste propriamente nel fat-to che il soggetto si rende as-sente là dove dovrebbe farsioggetto di godimento: eviden-temente questo procura insod-disfazione al partner ma allostesso tempo costituisce unguadagno d’essere per il sog-getto che diventa ciò che al-l’Altro manca» (Mangiarotti,2002). Così la nostra Isabel se-durrà e si sottrarrà, sintanto-ché non incontrerà GilbertOsmond, l’uomo che più diogni altro si avvicina per età eper caratteristiche di persona-lità a una figura paterna severae inconquistabile. E così, spo-sandosi con Osmond, Isabelripropone non solo il riavvici-namento al fantasma paterno,ma anche il riavvicinamentocon il fantasma inconscio del-l’altra, della concorrente ma-terna che, nel romanzo, è rap-presentata da madame Merle.Solo alla fine Isabel scopriràche madame Merle è l’amantedi Osmond nonché madre del-la sua unica figlia.L’inseguimento del fantasmaprimario si legge pure nellamovimentata vita di GiacomoCasanova. La madre di Casa-nova, attrice, affidò precoce-mente il piccolo Casanova allecure prima della nonna mater-na e poi di un istituto per l’in-fanzia padovano. Le rare visitedella madre rafforzano il sensodell’abbandono e del desideriodi prossimità alla madre di Ca-sanova che, nella prima età

adulta, scrive e traduce per leicommedie e pièce teatrali. Ca-sanova cercò forse così, un’ul-tima volta, di tenere accanto asé questa madre distratta e in-

curante, sempre in tourneè.Sentirsi poco amato e forsenon amabile forzò in Casanovala necessità di ottenere questoinsostituibile affetto e attenzio-ne non più dalla madre inarri-vabile ma dagli altri. Inizia cosìla sua vita relazionale, pregnadi seduzione agita che gli per-mette di allontanare, almeno inapparenza, depressione e sen-so di abbandono ma che nonallontanerà mai il fantasmamaterno. Casanova lo inse-guirà fino in tarda età attraver-so la seduzione seriale e com-pulsiva dell’Altra (splendida, aquesto proposito, l’interpreta-zione letteraria di Schnitzler in

 Il ritorno di Casanova di unGiacomo Casanova anziano estanco ma indomito nell’agireil suo schema coattivo).Il versante istrionico di questoassetto di personalità si mostraestremamente diverso nelle di-namiche relazionali. Proprio ilgioco seduttivo è quello cheevidenzia il maggior stacco trala sottile abilità isterica e laplatealità istrionica. Il soggettoistrionico risulta infatti avereuna modalità seduttiva diretta,grossolana. Gli aspetti sedutti-vi legati alla parola sono espli-citi e spesso elicitano reazioniavversive nell’altro. Il vestire èspesso appariscente, marcata-mente seduttivo. Sono estre-mamente più marcate rispettol’isterico la labilità affettiva el’impulsività. Da sottolineareche questo tipo di personalitàmostra spesso una sessualitàdiretta e scarsamente modula-ta al punto da far crollare il de-siderio sessuale negli oggettiche sceglie come bersaglio del-le sue attenzioni. In terminipatogenetici è probabile vi sia

nella storia evolutiva di questisoggetti un incesto o un tenta-to incesto da parte della figuraprimaria (Gabbard, 1994), vipuò essere quindi una forma di

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tentativo inconscio di padro-neggiare un antico trauma of-fendendo piuttosto che ripro-ponendosi, come in passato,con sottomissione e paura alledinamiche seduttive.L’accordo con questa ipotesipare derivare dal tipo di tran-sfert che caratterizza il rappor-to terapeutico dei pazientiistrionici; questo viene definitoda Blum (Gabbard, 1995)transfert erotizzato e si distin-gue dal transfert erotico pro-prio dei pazienti isterici, che sisviluppa gradualmente, convergogna e sentimenti egodi-stonici; si presenta con una do-manda di gratificazione sessua-le da parte del terapeuta diret-ta, egosintonica e ritenuta rea-lizzabile. La facilità di valica-zione del simbolo dell’incestoche si ripropone attraverso itentativi di violare le regoledella coppia terapeutica defini-sce la labilità dei confini trarealtà interne ed esterne diquesti soggetti.La personalità narcisista è ca-ratterizzata, con le parole diLowen «da un esagerato inve-stimento della propria immagi-ne a spese del Sé. I narcisisti

sono più preoccupati di comeappaiono che non di cosa sen-tono [...] Agendo senza senti-menti, tendono ad essere se-duttivi e manipolativi, aspira-

no ad ottenere il potere ed ilcontrollo sugli altri» (Lowen,1983). Potere e controllo suglialtri, questo è quanto interessaal narcisista. Così, il gioco se-duttivo è condotto sempre inmodo pesantemente asimme-trico, le fantasie grandiose delnarcisista sono atte a compen-sare la scarsità del Sé che si tra-duce nella costruzione ossessi-va della sua immagine esteriorea scapito dello sviluppo dellasua labile interiorità. Tutto ciòfarà si che il soggetto narcisistaconduca un gioco seduttivo diletterale “conquista” dell’altrocosì, come il forte esercito diuno stato aggressivo e totalita-rio conquista e sottomette gen-ti e territori, così il narcisista sidispiegherà in processi sedutti-vi che non contemplano il “no”dell’altro o il proprio insucces-so; laddove questo avvenga,l’altro viene velocemente ridi-mensionato, spesso attraversola derisione, la svalutazione ol’evitamento radicale, e pronta-mente rimpiazzato da un altrooggetto da conquistare. Il nar-cisista abbisogna di persone at-torno a lui che lo ammirino co-me essere unico e insostituibi-

le, confermandolo così in unaidentità che lui non riesce, inte-riormente, a darsi. Sempre conle parole di Lowen: «Senzal’approvazione e l’ammirazione

degli altri l’io narcisistico sisgonfia perché non è connesso,non è nutrito, dall’amore per sestesso» (Lowen, 1983). Il giocoseduttivo del narcisista non ègioco sentimentale bensì azio-ne di conquista egoica che sispoglia da ogni valenza relazio-nale. Un mito letterario che siavvicina alla tipologia narcisistaè quello di Don Giovanni. Ilborghese licenzioso ritratto daMolière mostra la violenza del-la conquista come eserciziocoattivo e coatto del propriopotere. C’è in Don Giovannil’incapacità di vivere l’amore senon come conquista: «[...] nonc’è niente al mondo del trionfa-re della resistenza di una don-na, e in questo campo ho lestesse ambizioni dei conquista-tori, che volavano di vittoria invittoria, senza mai rassegnarsi aporsi dei limiti [...] vorrei au-gurarmi che esistano altri mon-di, per potervi estendere le mieconquiste amorose» (Molière,tr. it. 1989).La componente manipolativanella seduzione si concreta inmodo ancor più esplicito nellapersonalità antisociale. Qui, ci-tando Borges «[...] si tratta di

un rigore di scacchisti , non diangeli» (Borges, 1977). Infatti imovimenti seduttivi degli anti-sociali non hanno nulla di sen-timentale, di angelico. La mani-

Ritratto di Giacomo Casanova e, a destra, Donald Sutherland nel Casanova di Federico Fellini.

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polazione degli altri è una viaattuata con rigore quasi scac-chistico da queste personalitàper sopravvivere alle violentedisattenzioni e trascuratezzeche, solitamente, hanno subitonell’infanzia. Cleckey sottoli-neò il buon grado intellettivo eil fascino superficiale dei sog-getti antisociali che nel contem-po presentano pure inattendi-bilità, falsità, mancanza di sensidi colpa, rimorso e vergogna,inconsistenza nelle reazioniemotive, vita sessuale imperso-nale, superficiale e scarsamenteintegrata, incapacità di seguirequalunque programma di vita(Benjamin, 1999). Basterebbequesto elenco parziale dei segnidistintivi dell’antisociale perdefinire come esigue, se non as-senti, le sue capacità affettivo-relazionali. La totale mancanzadi sentimenti degli antisociali ela loro propensione agli acting-out li configura come soggetticapaci di una fredda manipola-zione dell’altro. La grande sof-ferenza interiore del soggettoantisociale, sofferenza con cui ilsoggetto stesso non può contat-tarsi, pena la sua integrità, si os-serva proprio nella seduzione;qui tutto il cinismo dell’antiso-ciale si spende nel rendere af-fettivamente debole l’altro pertrarne egoisticamente il massi-mo beneficio.L’ultimo quadro che esaminia-mo, il ddp border-line, non è si-curamente l’ultimo del clusterB né in termini di importanzané in termini di prevalenza epi-demiologica. Anch’esso è ca-ratterizzato centralmente dauna forte labilità dell’Io (Kern-berg, 1997) e presenta, già inanalisi diagnostico-descrittiva,diverse caratteristiche patolo-

giche che investono le relazio-ni quali (DSM IV, 1996):– relazioni instabili e intenseche si alternano tra l’autosva-lutazione e l’idealizzazione

– impulsività– instabilità affettiva– tentativi frenetici di evitareun abbandono reale o immagi-nato.Già solo questi quattro ele-menti definiscono la centralitàdell’aspetto relazionale neisoggetti con personalità bor-der-line. La relazione nei sog-getti border-line è vissuta, chia-ramente, in modo immaturo,regressivo. L’attaccamento al-l’altro è cercato strenuamentema, quando c’è reciprocità nel-la risposta affettiva, la debolez-za del Sé border reagisce condistacchi impetuosi, spessotraumatici, dettati dalla paura,vista la loro fragilità egoica, diessere fagocitati dall’altro. Ciò

però non esaurisce la dinamicarelazionale del soggetto borderche, distaccatosi dall’altro persua volontà ne rimane, para-dossalmente, orfano. Da qui il

percepire il vuoto depressivodi tipo anaclitico che derivadalla sua inconsistenza egoica,l’insostenibilità dell’angoscialegata al non essere, al non sen-tirsi, e quindi la nuova ripar-tenza, alla ricerca del contattocon l’altro che, a questo punto,diviene fondamentale per laconferma di Sé e della propriacapacità di esistere. Stabilenella sua instabilità, il soggettocon personalità border ritmeràla relazione con l’altro concontinui abbandoni e riavvici-namenti, abbandoni e riavvici-namenti che non saranno maiprivi di una forte carica di

 pathos emotivo. Il border in-fatti sente di non riuscire a so-pravivvere senza l’altro quan-do esso non c’è, ma al tempostesso si sente divorato dall’al-tro quando lo sente vicino a sé.Se definiamo, in termini me-taforici, una coppia come unadualità contenitore-contenuto,il border è sicuramente il con-tenuto, un contenuto primitivoe quindi emotivamente intensoe instabile che cerca un conte-nitore così forte da non rom-persi al suo perpetuo agitarsi.La seduttività del soggetto bor-der sta proprio nell’unicità chepone nell’altro prescelto, uni-cità che risveglia nella contro-parte relazionale un’onnipo-tenza primaria, materna o pa-terna che sia, che viene poi vio-lentemente lesa dalle dinami-che incomprensibili di rotturaperpetrate dal border-line.Sin qui di alcuni aspetti pato-logici che possono caratteriz-zare l’atto seduttivo, di quanto(e tanto) riguarda la fisiologiarelazionale nella seduzione ri-teniamo non ci sia concesso diparlare; lasciamola, al pari del-

l’innamoramento, della vita edella morte, nell’ormai ristret-to novero delle cose che, con illoro mistero, determinano ilfascino della nostra esistenza.

Riferimenti bibliografici

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Borges L.B., Finzioni, Einaudi,Torino 1978.Caldironi B., Seminari di psicopa-tologia e psicoterapia, C. Nannieditore, 1992.DSM IV, Masson, 1996.Gabbard G.O., Psichiatria psico-dinamica, R. Cortina, 1995.Kernberg O., I disturbi della per-sonalità, R. Cortina, 1997. James H., Ritratto di signora, Ei-

naudi, Torino1997

.Schnitzler A.,  Il ritorno di Casa-nova, Adelphi, 1990.Lowen A.,  Il narcisismo Feltri-nelli, 2001.Mangiarotti C., Figure di donnanel cinema di Jane Campion,Franco Angeli, 2002.Molière,  Don Giovanni , Rizzoli,1989.

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La seduzione è un gran tema datrattare, mi sono detto da subi-to. E cosa racconto? Chi rac-conto? Ok, dai, hanno ragionequelli che mi dicono di cambia-re un po’ direzione, di lasciareper un attimo soli i miei perso-naggi sbandati. E allora chescrivo? Ma ho un casino di ro-ba da scrivere, sono stato o noun mezzo delinquentello? Allo-ra dai, coraggio Max, fuori gliattributi – che dire palle nonsta tanto bene – e raccontati unpo’, che ne hai a palate di storieda tirar fuori. Per cui, lo avetecapito, da qui parlo di Max.Cioè, insomma, di me bambi-no. Più o meno, perché poi nescrivo anche altre...

Vecchia Seduzione Se pen-so alla seduzione penso ai mieiundici anni. E mi vengono inmente: una bicicletta scassata,modello Zanella, bianca a stri-sce ruggine. Un mucchio dimonetine raggruppate in unsacchetto di plastica trasparen-te che in origine servirebbe amettere la carne nel  freezer ,tecnica che adotto ancora oggiche ho 32 anni per tenere lemonete sotto il sellino del mo-torino. Pantaloncini corti dellatuta da ginnastica, che eranolunghi e che pensai bene di ta-gliare tutti sbilenchi usando lavecchia forbice arrugginita la-sciata in eredità dalla nonna,quella morta tanti anni primaperché l’altra non l’ho neanche

mai vista… e scarpe AmericanEagle bianche, il modello peròalto fino alla caviglia, obbliga-torio se volevi fare il figo. D’al-tronde, gli anni Ottanta stava-

no toccando anche noi ragaz-zotti della periferia pordeno-nese. Ecco, a me la seduzionericorda queste robe qui. Robevecchie di un paio di decenni.Per la precisione era il 1985,21 anni fa. Di solito il pome-riggio andavo al negozio di ali-mentari Conad della signoraMarinella. Partivo solo, peda-lavo come una bestia e quandoarrivavo mi facevo fare il solito“pane e prosciutto”, pagavocon le monete da centolire del-la mamma e mi sbranavo feliceil mio panino.Ma un bel pomeriggio cambiaiprogetto.Presi la strada opposta e passaidavanti all’edicola che stavadall’altro lato del paesino, a ri-dosso delle case rosse, una filadi casermoni popolari dovedormivano gli operai Zanussi,Savio, Galvani; casermoni daiquali sbucavano a razzo i ra-gazzi più grandi per spaventar-mi e farmi cadere dalla bici-cletta: brutti bastardi. Se li tro-vo adesso...Andai fin laggiù e per caso la

seduzione mi arrivò addossocome un treno: nella vetrinadell’edicola faceva bella mo-stra di sé una rivista con unaragazza tutta tette appoggiata

sopra ad una bellissima FiatRitmo Abarth.Maremma maiala, pensai, quel-la la devo comprare, affanculoil panino. Ero già allora troppo“teppa” (è l’appellativo amore-vole che mia moglie Katia miattribuisce quando faccio il bi-ricchino) e passai subito la so-glia del lecito: io sono semprestato sedotto dalle bellezzefemminili e dai motori potenti:come tutti i maschietti ai qualifunzionano bene gli ormonid’altronde.Per cui quel bellissimo pome-riggio misi assieme le due cosee mi comprai, colpa di un edi-colante compiacente e affarista,quella rivista di auto con la pri-ma donna nuda della mia vita.Ma l’acquisto non fu propriocosì immediato: girai a lungoattorno all’edicola con la miabicicletta. Guardavo e riguar-davo la vetrina, mi fermavo mapoi ripartivo, riguardavo nuo-vamente, finché parcheggiai.Scesi deciso, misi la Zanellascassata sul cavalletto che me-ticolosamente avevo storto perfarla sembrare a una HarleyDavidson e giunto davanti al-l’edicolante dissi: «Scusi signo-re, vorrei quella». Già da pic-colo usavo il condizionale e da-vo del lei agli adulti: me lo hainsegnato mia mamma operaiae da allora ho sempre fatto co-sì. L’edicolante non fece unapiega: me la vendette subito.Poche monetine per una roba

tanto scandalosa. Un pugnettodi centolire per un piacere im-menso… al posto del solito pa-nino al prosciutto che sbranavoseduto sugli scalini degli ali-

Vecchia e Nuova Seduzione

Massimiliano Santarossa

Max visto da Max.

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la seduzione

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mentari; avevo investito i mieipochi soldi in una cosa piùgrande di me. Era proprioquella l’impressione: più gran-de di me.Lì iniziò il mio rapporto con laseduzione! Figata: avevo ledonne nude e le belle auto damostrare ai compagni di scuola.Il giorno dopo andai a scuolache non stavo nella pelle. Erala prima volta in vita mia che

ero felice di entrare in quellequattro mura. Mi era sempreparsa una prigione, quattromura con la calce gialliccia, ibanchi verde acqua, le finestre

grandi e la luce soffusa... damortorio, una noia infinita.Ma quella mattina no, quellamattina, e solo quella, andare ascuola per me è stata unagioia!Attesi la ricreazione, chiamaigli altri e diligentemente i com-pagni si misero attorno a meformando un cerchio, una sor-ta di fortino della perversione:in mezzo stavo io e da dentro

la cartella mostravo a queglisguardi innocenti e curiosi lebellezze che la vita e la naturariservano. Bellezze che tuttinoi avremmo scoperto toccan-

dole con mano molti anni do-po. Ma già la seduzione era en-trata a far parte del nostro pic-colo mondo personale. Da lì eper sempre. Questo è il latobello della seduzione: un pani-no, una bicicletta, un giornalecon due tette belle, sane e veree un’auto come cornice. Ogginon è più così.

Nuova seduzione Di questi

tempi il sesso, la seduzione el’amore sono temi di pubblicodisinteresse. Qui da noi – oggi– conta altro: il potere e la fa-ma. I soldi e il benessere.

La prorompente Edwige Feneche la mitica Fiat Ritmo.

La “velina”, bella riccae famosa. Ecco come

vorrebbe esserela ragazza italiana.

Bobo Vieri, brutto ma riccoe famoso. Ecco come vorrebbeessere il ragazzo italiano.

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la seduzione

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Ad una ragazza sedicenne cheaspira a scrivere libri ho chie-sto: «Ma perché vuoi scriverelibri?». E lei genuina come solouna sedicenne in piena fase or-monale può essere mi ha rispo-sto: «Per diventare famosa e fa-re la televisione e i soldi».E io stupidamente: «Ma lo saiche la televisione non è un po-sto per te?». E lei: «Ma io vo-glio diventare famosa, a tutti icosti. È un sogno e ce la farò».Io a sedici anni pensavo solo atrombare, a tutti i costi. Quellaai miei tempi era una questionedi vita o di morte, mica i soldi ela televisione. Poi che ci riu-scissi era un’altro discorso, an-zi non ci riuscivo mai, ma quel-lo era l’interesse: roba sincerainsomma. E come darmi torto?Per noi maschietti dell’epoca latelevisione era uno strumento,non un postaccio dove andarea lavorare. L’unica televisioneche ci interessava era quella diColpo Grosso, condotto da un“eroe”: Umberto Smaila; ai no-stri occhi l’uomo più fortunatodel mondo.Oggi quella sedicenne è la“portavoce” di una generazio-ne di ragazzi che aspirano a di-ventare ricchi e famosi, subito.Sesso e libertà non interessanopiù, se non come riempimentodi tempi morti o come stru-mento per raggiungere altro.

Allora mi sono fermato a pen-sare e sono arrivato ad unaconclusione: che c’è una formadi Moderna Seduzione. Oggisecondo me funziona così: l’u-nica seduzione forte è quelladella carriera, del raggiungi-mento di una posizione, dellaconquista della fama. In unaparola la seduzione dei soldi.«Voglio diventare famosa».«Voglio sfondare». «Voglioguadagnare». «Voglio compra-re». «Voglio tanti soldi».Voglio, voglio, voglio... Mal’erba voglio non si trova nean-che nel giardino del re!Tanti sono sedotti e imprigio-nati dal danaro, e non se nerendono neppure conto. Nem-meno una ragazzina acqua esapone, ben educata, che leggee scrive è immune dal cancrodell’avere.E quindi se fino ad un paio didecenni fa il fine della seduzio-ne era raggiungere l’amore, inquesti tempi moderni invecetantissimi vengono sedotti soloda quelle cose che potrebberoportarli alla ricchezza, al be-nessere, all’accumulo. E vistoche comunque alla fine sonoanch’esse persone, con menosensibilità ma sempre esseriumani, mi sono chiesto: cos’èche le spaventa? Davanti a co-sa si fermano? Di cosa ha pau-ra uno così? La risposta vien

da sè: uno così ha paura solodella povertà.Fino ad un po’ di anni fa face-va paura la solitudine, condur-re una vita solitaria, per cui ledonne diventavano zitelle obefane e gli uomini “inguaribi-li” e ridicoli scapoloni.Oggi invece all’epoca dei sin-gle rampanti fa paura viveresenza carriera, restare fermi,non accumulare danaro. Fapaura “fermarsi perché vienesera”. Oggi fa paura la po-vertà.

Amore e Povertà «L’italia-no medio piccolo borghese diconcezione televisiva vede or-mai la povertà come un pecca-to». Pier Paolo Pasolini.«Difficilmente un ricco entrerànel regno di Dio. Anzi, vi assi-curo che se è difficile per uncammello passare attravero lacruna di un ago, è ancor piùdifficile che un ricco possa en-trare nel regno di Dio». Gesùdi Nazaret.

Direi così: è veramente un“peccato” venir sedotti dal da-naro e dal potere. Credetemi,era meglio quando a sedurreerano le forme sinuose di unaragazza provocante e il motoredi una Fiat Ritmo Abarth.Forse è tempo di fermarsi unattimo, e pensare.

Celeste e la mamma stanno ascoltando un Cd diRicky Martin appena comprato, si aggiunge Se-rena che vuole guardare la copertina del Cd…«Che bello!», esclama assai compiaciuta.«Ti piace questa musica, eh?», chiede, illusa, lamamma.«Che bello questo ragazzo!», specifica, allora Se-

rena. «Hai visto che begli occhi che ha».«Sì, ho capito – dice la mamma – ma anche lecanzoni sono carine, allegre…».«… e anche i capelli sono belli…», continua

estasiata Serena che in auto aveva appena profes-sato il suo incontestabile amore per Lorenzo…«Va bene, lascia perdere…», conclude la mamma.«È già innamorata!», esclama Celeste, un po’schernendo la sorellina. La mamma non fa nem-meno in tempo a replicare che non può essere giàinnamorata, quando sente un bacio con schiocco

che Serena ha impresso sul Cd. E Celeste:«Hai visto che avevo ragione?».«Certo! – esclama con ovvietà Serena – quandovedo uno tanto bello io mi innamoro subito!».

Serena & Celeste

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DOVERIDI CITTADINANZA

 Domanda di salutee risposte dei Servizi 

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Tra doveri e diritti,tra domanda e risposta

Fabio Fedrigo

«L’Ippogrifo» presenta questa nuova rubricadedicata ai processi sociali ed alle trasforma-zioni in atto nei nostri sistemi di welfare. In particolare Doveri di cittadinanza si propo-ne come uno spazio dove alimentare ed ospi-tare il dibattito tra cittadini, istituzioni, ope-ratori e comunità sociale. Il titolo della rubrica rivela una prospettiva

di analisi inusuale, se vogliamo impopolare,una prospettiva che di fatto “capovolge” laspesso immaginaria e strattonata rivendica-zione del diritto: diritto di cura, di salute, di aiuto, d’integrazione, di delega.Tra doveri e diritti s’intersecano e sovrappon-gono equilibri, disequilibri e processi di sussi-diarietà; emergono dissimmetrie sociali e poli-tiche, si alimenta di fatto la contraddizioneumana, la corresponsabilità delle istituzioni,

delle famiglie, della società civile. La societàcivile, oggi come ieri, rimane una sorta di “cantiere aperto”, un ponte organico, un colle-gamento tra la “sponda” individuo/colletti-vità e la “sponda” degli ordini istituzionali esociali. Nella società civile respira la cultura ela vita sociale di ogni comunità, piccola ogrande, di ogni Paese. Semplificando si puòindicare la grande comunità mondiale comeun insieme di individui, legami sociali, societàcivili e codici regolamentari. Un insieme di unioni e divisioni, di speranze e lacerazioni.Tra doveri e diritti si muove l’individuo e si muovono le organizzazioni, pubbliche, priva-te, si muove il mercato, l’eco-nomia, si muove il processodemocratico con le proprie frammentazioni sociali. S’in-nescano i processi di delega, si 

orienta e disorienta la comu-nità locale, cresce e decresce la promozione umana e socialedi ogni individuo, delle fami-

glie, si formano e deformano i processi di re-sponsabilità. Il nostro sistema di welfare hasempre investito molto sul concetto di effi-cienza, sulla risposta universalistica capace di soddisfare ogni richiesta d’aiuto. Un investi-mento, per certi versi, su una “promessa socia-le”, promessa, divenuta parte integrante del “sistema”. Questa logica, o strategia, ha con-

tribuito a produrre una dimensione piuttostoautoreferenziale delle politiche sociali nel no-stro Paese, una sorta di “effetto ottico”; un au-tomatismo bisogno/risposta, reale e presunto,che di fatto trattiene lo stesso sistema socialecon un piede dentro le sabbie mobili dell’anti-ca palude assistenzialista, da dove, con fatica,sta comunque cercando di tirarsene fuori.Scrive Stoppa: «L’ideologia dei servizi a tuttocampo sta diventando la metafora reale di 

una logica degli scambi sociali totalmente pie-gata alle esigenze di un sistema binario biso-gno/risposta che col suo automatismo cancel-la le complessità soggettive che sono in gioco. Il mito dell’efficienza come anche, sul versan-te politico, l’ideologia dell’elargizione ecume-nica del godimento dei diritti (che diventa poi un diritto di godimento concesso agli indivi-dui su tutti i beni o i servizi disponibili) stan-no obliterando la funzione del soggetto all’in-terno del circuito degli scambi». La Legge 328 è, in questo senso, anche un po-tenziale strumento di “sdoganamento” cultu-rale, una via, un’apertura verso processi di re-

sponsabilizzazione sociale e di cittadinanza. Ma esistono an-che elementi di contraddizio-ne che la stessa Legge deve sa- per cogliere e “lavorare”. Si 

 può rilevare infatti che, pro- prio nella direzione della re-sponsabilizzazione e del coin-volgimento nei processi d’in-

Nella pagina precedente: Mappa di megalopoli immaginaria

di Ado Scaini.Nel riquadro e nella pagina

seguente: Allegoria del Buono e

del Cattivo Governo (1337-1339)affreschi di Ambrogio Lorenzetti(1290 ca - 1348). Sala dei Nove.

Palazzo Pubblico di Siena.

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doveri di cittadinanza

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tegrazione istituzionale e sociale, la 328  ri-schia di enfatizzare il ruolo della famiglia,chiedendole di divenire risorsa quando inve-ce, oggi, è sempre più “problema”. E la “crisi”della famiglia rappresenta indubbiamenteuno dei principali elementi della “crisi” del 

nostro welfare. Come scrive Tesolin, nell’arti-colo Educare la domanda che viene dalle fa-miglie, «forse è pleonastico, ma occorre ricor-dare che l’accelerazione del processo d’invec-chiamento, la riduzione della fecondità, il di-minuito numero di potenziali prestatrici di cura, ha prodotto delle trasformazioni demo-grafiche che hanno indotto un aumento del bisogno di cura, fenomeno questo che a sua

volta è il contraltare di cambiamenti avvenuti all’unisono nella struttura famigliare». Anche per queste ragioni il percorso in atto, finalizzato alla costruzione di un sistema in-tegrato di interventi, dovrebbe saper pro-muovere non solo l’interazione tra compe-tenze e aree (sociali, sanitarie, istituzionali)ma anche processi di maturazione e corre-sponsabilità tra domanda di salute e rispo-ste dei Servizi.

Scrive Ranci: «La crisi della cittadinanza mo-derna si esplica attraverso numerosi segnali.

È, innanzitutto, la crisi del principio univer-salistico, che stabilisce il diritto di tutti i cit-tadini ad una protezione sociale adeguata. La differenziazione sociale rende l’universa-lismo difficilmente applicabile a causa dei li-miti quantitativi e qualitativi all’estensione

indifferenziata dei diritti sociali: si pensi al  pesante sovraccarico del sistema amministra-tivo, alla crisi fiscale, all’esistenza di culturedifficilmente integrabili dentro un sistemaomogeneo di interventi» C. Ranci, Politicasociale. Bisogni sociali e politiche di welfa-re, Il Mulino. Le relazioni d’aiuto, i legami sociali, gli scambi e gli scarti sociali che ogni civiltà pro-

duce, costituiscono e caratterizzano l’incede-re imperfetto di una comunità nel propriotempo. La domanda di salute e le rispostedei Servizi  possono sembrare le due faccedella stessa medaglia ma in realtà necessita-no di uno spazio di condivisione, di matura-zione, di relazione individuale e sociale, di un impegno di co-costruzione. Tra doveri ediritti, tra funzioni e deleghe, si manifesta esi cela dunque la domanda di salute; si attiva

e s’interroga, forse e non sempre, nel bene enel male, la risposta. Buona lettura.

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doveri di cittadinanza

Premessa: la crisi della fa-miglia Tutti sanno quanto èimportante il ruolo svolto dallafamiglia nel preservare la salutedei propri membri. Da un altropunto di vista potremmo dire,e senza scomodare la scienzache ci dà ragione, che la fami-glia ha un ruolo determinantenei processi di cura, soprattut-to quando un suo membro pervari motivi sviluppa un’inabi-lità. Alla famiglia da questopunto di vista è riconosciuta,genericamente, una fondamen-tale funzione di luogo privile-giato di costruzione sociale enel caso sopraddetto di solida-rietà ai suoi componenti. Questa attribuzione difunzioni alla famiglia, che ha origini secolari,trova peraltro espressioni diverse nelle politichee nel diritto di famiglia nelle varie nazioni euro-pee, tanto è che in questi anni si discute moltosu quali obblighi spettino alla famiglia e qualiinvece allo Stato.La crisi del welfare che è sotto gli occhi di tuttipone in quest’ottica vari interrogativi che pos-siamo così riassumere: l’attuale politica fami-gliare, in Italia, che si regge sul modello delle“solidarietà familiari e parentali” è in grado disostenere e sussidiare la famiglia attraverso icambiamenti e le inevitabili sollecitazioni a cui èsoggetta e di cui siamo testimoni?Forse è pleonastico, ma occorre ricordare chel’accelerazione del processo d’invecchiamento,la riduzione della fecondità, il diminuito nume-ro di potenziali prestatrici di cura, ha prodottodelle trasformazioni demografiche che hannoindotto un aumento del bisogno di cura, feno-meno questo che a sua volta è il controaltare dicambiamenti avvenuti all’unisono nella struttu-ra famigliare.

Queste e innumerevoli altre considerazioni chevolutamente ho omesso esprimono la “crisi”nella quale si trova la famiglia contemporanea,crisi che allude, nello specifico della cura, a co-me avvengono e come sono regolati i fenomeni

di redistribuzione delle risorsee l’assegnazione di diritti e diobblighi nel campo delle politi-che famigliari.La “crisi” della famiglia chetroppo spesso è connotata, giu-stamente o ingiustamente, co-me l’abbandono della stessa alsuo destino, deve da questopunto di vista essere rivisitata ecollocata dentro ad una corni-ce di riferimento istituzionaleed operativa di cui il nostro sta-to sociale dispone. Nel partico-lare bisogna iniziare a ragiona-re in termini di economia mistanella quale Stato, famiglia, vo-lontariato e mercato sociale

compartecipano nella produzione e nel mante-nimento del benessere sociale.Questa premessa ci introduce al tema che cer-cherò di sviluppare di seguito e che parte dalleparticolari problematiche che si incontrano nel-la salute mentale e riguardano il disabile psichi-co, la sua famiglia e il processo di cura.

Il servizio e la questione della domanda disalute mentale Il tema della domanda ècentrale in psichiatria perché allude alle prioritàa cui è chiamato un servizio per la salute menta-le: saper condurre la cura delle persone affetteda gravi disturbi psichiatrici, prevalentementele psicosi, e sostenere le loro famiglie in questodifficile compito.Diversamente da quanto avviene solitamentenella pratica medica in cui è il paziente a chiede-re l’intervento sanitario, in questi casi la soffe-renza che la psicosi produce nel soggetto, perquanto profondamente vissuta, non viene quasimai interpretata come un fenomeno di malattiae non contribuisce a far emergere una domandachiara e diretta di cura. Questa peculiarità spie-

ga perché siano i familiari o altri istituti a chie-dere per il paziente.L’analisi della domanda che la famiglia pone, sindalle sue prime battute, rappresenta in questocaso un passaggio fondamentale che possiamo

Educare la domanda che viene dalle famiglie

Fulvio Tesolin

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doveri di cittadinanza

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far coincidere, almeno in parte, con la cura. Se-guire lo sviluppo della domanda nelle sue fasimaturative, nella sua migliore intenzione, è ilpreludio di quanto avverrà col paziente e ci for-nisce degli indicatori di processo ed esito di cuinon ci si può privare.Il primo compito di un servizio di salute menta-le consiste, allora, nel sapersi dotare di un profi-lo di permeabilità che permette a tali richieste ditrovare facilmente un luogo dove giungere e di-ventare interlocuzione.Un buon servizio inoltre è capace di porsi con-nettivamente rispetto alla comunità che lo ospi-ta, in modo tale da rendere l’attesa tra l’esordiodella malattia e la sua presa in cura il più brevepossibile. Questo ultimo aspetto, a mio parere,assume una importanza rilevante, perché, comeavviene per la maggior parte delle malattie, iltrattamento ritardato gioca a favore dell’aggra-vamento e della cronicizzazione del disturbo, ri-ducendo le possibilità di un intervento efficace.Nel caso specifico della psicosi, le disabilità cheil paziente viene progressivamente sviluppandocompromettono il suo funzionamento globale atal punto da divenire un serio e faticoso proble-ma per la sua famiglia. Ciò che avviene nellapratica quotidiana è trovarsi di fronte a richiestedi familiari che giungono alla nostra osservazio-ne anche dopo alcuni anni dall’esordio dellaproblematica. I familiari in questione motivanotale ritardo così: «Avevamo la speranza che ilproblema fosse solo passeggero e si risolvessespontaneamente» e/o «Abbiamo assecondato lesue richieste perché non accetta che si pensi dilui come ad un malato mentale».Tali dichiarazioni esprimono chiaramente l’im-passe in cui si trovano coinvolti i familiari, co-stretti tra il bisogno di dar voce al loro disagio el’omertoso silenzio che li vincola al proprio con-giunto malato. Uscire allo scoperto significa perloro da un lato violare l’intimità del delirio e dal-l’altro vincere l’imbarazzo della condivisione so-ciale della malattia mentale.Questi motivi variamente combinati tra loro e invario modo espressi impongono al servizio e aglioperatori di saper cogliere con empatica premu-ra queste richieste, ma nel contempo di spinger-si più in là chiedendo alla famiglia di assumersila responsabilità di un atteggiamento trasparen-te nei confronti del congiunto.

Il primo approccio alla domanda rappresenta,dunque, un momento topico e molto di quantoavverrà nel rapporto di cura con la famiglia e ilpaziente si fonda su queste preliminari intera-zioni. Calandoci nel merito della problematica,

possiamo con buon diritto definirla una “crisi”,intendendo con questo che la famiglia che siespone al nostro sguardo è disponibile, in que-sto frangente, a rivedere l’equilibrio in cui havissuto e a cercarne uno di nuovo con la nostracomplicità.Utilizzando una famosa definizione di crisi pro-posta da Cancrini e Onnis, è possibile affermareche all’operatore spetta il compito di dare unproprio contributo sapendo che «la crisi non èin sé né salute né malattia, non ha fisionomiache sia data a priori; in questo è l’ambiguità e,per certi aspetti, il suo mistero. Il volto della cri-si è quello che l’intervento psichiatrico le impo-ne». Questa modalità di approccio fa intuire chenelle prime battute si gioca non solo il futurodel nostro rapporto con l’intero nucleo ma an-che e soprattutto il ruolo che avranno le partidurante il processo di cura. Questo significa cheè necessario che si coltivi la fiducia reciproca,quella dimensione umana che è preliminare adogni rapporto, che infonde sicurezza e che per-mette una confidenza senza riserve.Si tratta di un premessa necessaria e fondamen-tale che favorisce la corresponsabilità nel cam-biamento avendo già chiaro che il percorso pergiungere al paziente-assente e al suo trattamen-to riabilitativo è nella maggior parte dei casi lun-go e faticoso.Ciò che avviene in realtà non è affatto così linea-re e scontato perché in fondo alla richiesta delfamiliare si cela sempre un bisogno pulsionale,che dobbiamo considerare naturale e per questoin parte legittimo, che vorrebbe una soddisfa-zione immediata e che si regge sulla pretesa logi-ca di delegare al tecnico la riparazione del pro-prio disagio. In casi estremi in cui queste esigen-ze emotive non sono gestite consapevolmente eal meglio dall’operatore si assiste a manifestazio-ni di aperta conflittualità, che rompono ognipossibilità di giungere ad una elaborazione delladomanda che risponda alla complessità che gli èimplicita. Sono i casi in cui il patto terapeuticoabortisce immediatamente e non è raro che visiano da parte della famiglia manifestazioni diaperta ostilità e di rottura del rapporto.Tale rottura con la famiglia, se da un lato può es-sere spiegata come una manovra di spostamentodel conflitto fuori dalle mura domestiche e in al-cuni casi ricompatta momentaneamente il clima

tra il paziente e i suoi congiunti, dall’altro lato èun fallimento del servizio che non ha saputosvolgere la sua attività di accoglimento nel mo-do più opportuno. La perdita del contatto conla famiglia diventa un chiaro esempio di falli-

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mento della capacità terapeutica e della funzio-ne di sussidiarietà che noi operatori dovremmoessere in grado di sostenere.Queste preliminari sequenze del rapporto delservizio con la famiglia fanno intendere tutte ledifficoltà di cui è seminato il percorso di cura,difficoltà che si ripresentano anche quando sigiunge al paziente ed il paziente accetta di in-trattenere insieme ai suoi famigliari un rapportoduraturo nel tempo. La cura dello psicotico cor-risponde alla continua crescita della sua doman-da e alla progressiva emancipazione delle suecapacità di essere un interlocutore attivo e il ve-ro soggetto dei propri bisogni.

Per un giusto equilibrio tra i diritti ed i do-veri La domanda delle famiglie che hanno unmembro gravemente malato che arriva ad unCentro di salute mentale mostra quanto siacomplicato tracciare un percorso univoco nellasequenza della risposta senza che avvenga uncontemporaneo lavoro che permetta una matu-razione e uno sviluppo della stessa.La grande difficoltà che s’incontra su questastrada è rappresentata, innanzitutto, dalla ne-cessità di dare tenore ad un’interlocuzione tra leparti che sfugga alla primitiva richiesta di aiutola quale, come facevo notare sopra, ha una baseprevalentemente pulsionale. Il problema che sipone è come uscire da una logica istintiva e col-lettiva, sempre più diffusa, che vorrebbe delega-re tutto alla tecnica. Questo vale per la famigliache porta il suo problema con l’idea di lasciarloin serbo al servizio che lo risolverà, vale per lacomunità che chiede il controllo ed il silenzia-mento dei comportamenti disturbanti, vale pergli operatori che pensano di standardizzare ledomande e gli interventi.Per uscire da questa comoda quanto imbaraz-zante semplificazione che aggiunge problemi in-vece di risolverli, è necessario chiarire che la do-manda di salute per essere tale deve riconoscerecome suo presupposto un movimento di scam-bio tra le parti, una corresponsabilità sociale,senza la quale si perde il particolare.La questione del particolare o meglio della spe-cificità che ogni famiglia porta, che a qualcunopuò sembrare una faziosa perdita di tempo, èinvece fondamentale poiché garantisce che sicerchi da tutte le parti la soluzione più idonea e

anche la più economica. L’esercizio che spessoci si dimentica di fare e che invece è richiesto, èquello di tracciare il limite delle proprie possibi-lità rendendole note. Questo consente subito diporre l’altro in una posizione di attiva responsa-

bilità e gli garantisce una contrattualità che lointerroga sui diritti e doveri che il patto terapeu-tico, in quanto patto sociale, gli impone.Il servizio ha in questo senso il dovere di inter-rogarsi sulla domanda sfuggendo alla logica direplicare secondo schemi e possibilità già adot-tate per altri, ha il dovere di attrezzarsi rintrac-ciando tutte le risorse di cui abbisogna per quel-la situazione particolare, ha il compito di tra-smettere il limite oltre il quale non può spinger-si, ha il diritto di chiedere alle parti, compresa lafamiglia, di tollerare che a qualcuno può essereelargito qualcosa di diverso, un trattamento an-che più oneroso.Se il patto terapeutico si forgia su questi presup-posti, la famiglia sfugge all’inganno di aspettarsidi diritto una soluzione miracolistica, esce dallalogica imitativa che al proprio congiunto malatospettano la cura, l’assistenza, la casa e il lavorosenza che questi diritti non siano anche dovero-se conquiste personali.La comunità dal canto suo ha il diritto di chiede-re che la domanda delle famiglie sia accolta consollecitudine e di essere rispettata nelle regoleche si dà, ma ha però anche il dovere di sentireproprie queste problematiche cercando di nondelegarle a qualcun altro fuori da sé o esclusiva-mente ai cosiddetti tecnici. Dalla comunità ci siaspetta che sia in grado di cogliere i bisogni chesi celano dietro alle vicissitudini famigliari e litrasformi, come accade spesso di scoprire nellapratica, da bisogni particolari in opportunità perla cittadinanza.Queste considerazioni che ho proposto e cheprovengono dalla pratica psichiatrica, sono dalmio punto di vista estendibili a tutte le proble-matiche sociali che riguardano la famiglia. L’e-sempio della Psichiatria può da questo punto divista fungere da pars pro toto e concorre grande-mente a sviluppare il diritto alla cittadinanza maanche i doveri che ad esso si legano.L’importanza che la famiglia riveste per il fun-zionamento più complessivo dello stato sociale,è ampiamente dimostrato; è però anche veroche un welfare moderno deve essere per forzacalato in una “economia mista” che necessitadella partecipazione di tutti i soggetti coinvoltinella comunità in qualsiasi progetto si debbaportare avanti. Questo impone, come abbiamocercato di spiegare, che via sia una presa di posi-

zione comune in cui sia coltivata la consapevo-lezza che partendo dal particolare si possono ot-tenere delle risposte ai bisogni dei singoli che fi-niscono per essere risposte a bisogni della co-munità tutta.

doveri di cittadinanza

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Sono un’educatrice professionale e da diversianni lavoro nell’area della disabilità, più preci-samente nell’ambito residenziale e diurno perhandicap adulto. Ho conosciuto diverse asso-ciazioni di genitori che con tanti sforzi e fatichesi stanno impegnando per creare “una casa” ailoro figli, per offrire un futuro quando non sa-ranno più in grado di prendersi cura dei propri“ragazzi”. Usando le loro parole per creare un

 Dopo di noi . Queste parole Dopo di noi parlanochiaro ed esprimono un’intenzionalità concretaseppur infelice del mondo della disabilità.Dire persona con handicap fa subito pensare aduna persona che ha bisogno di aiuto costanteper gestire la propria esistenza, aiuto che gene-ralmente, fin dove e quando rimane possibile, èdato dai familiari. Ecco quindi che nel concetto

 Dopo di noi traspare una nota di tristezza, di lut-to… un qualcosa che ora c’è e che domani nonci sarà più! E allora cosa sarà? Quale futuro?La risposta la stanno dando tutti i genitori cheassociandosi, lavorando sodo tra preoccupazio-ni, ansie e speranze, creano e sostengono i tanticentri residenziali Dopo di noi.Eppure, a me, rimane quella percezione di tri-stezza che generalmente non accompagna il so-gno che si sta materializzando. Ci dovrebbe es-sere un sentimento di gioia, soddisfazione, en-tusiasmo e invece non è proprio così!Perché, nonostante tutto, il Dopo di noi è vissu-to come un sostituire qualcuno (i familiari) equalcosa (la propria casa) non per libera sceltama perché viene a mancare il sostegno della fa-miglia. Perché – si sa – il disabile ha una vita di-versa dagli altri, rimane legato alle figure geni-toriali per necessità di continuo aiuto, non è enon sarà in grado di autogestirsi e mantenersieconomicamente, non sarà produttivo (in ter-mini economici), non farà quelle scelte – per al-tri normali – che lo porterebbero a tagliare il“cordone ombelicale” con la famiglia di origi-ne, non sarà in grado di scegliere! Ma è del tut-

to vero che un disabile non sa scegliere? E se cifosse un’alternativa? Perché non immaginareun futuro diverso?È vero che fin da piccolo il disabile è tenuto sot-to le ali protettrici del genitore, va curato, accu-

dito, accompagnato, sostenuto. Ma fino a quan-do? E come? Anche lui cresce e diventa adulto.Il figlio disabile percepirà le spinte all’autono-mia che ogni genitore manifesta verso un figlio?O perché è disabile le spinte all’autonomia nonci sono o non si possono manifestare perché sirischia di creare una frustrazione? E di questece ne sono già tante! Il figlio si sentirà spronatoa crescere? Ad assumersi le responsabilità chepuò sostenere? Quali aspettative avranno i ge-nitori verso il figlio disabile? Immagino quantosia difficile essere genitori.Ma i genitori non sono che cellule di una so-cietà e di una cultura.È idea comune, oserei dire fa cultura, che lapersona disabile sia più da assistere che da cre-scere, sia più da aiutare che da accompagnare.È cultura che il disabile rimanga a casa con i ge-nitori fin tanto che loro sono in grado di “vede-re di lui”, è cultura che il disabile sia un bambi-no non cresciuto da continuare ad accudire… avolte anche capriccioso o viziato.Cultura: cioè una serie di aspettative, azioni,comportamenti, modi di pensare, atteggia-menti mentali che appartengono ad una deter-minata società.È questa nostra Cultura e Società allora che ri-flette l’immagine dei Centri residenziali per di-sabili come alternativa di secondo grado alla fa-miglia che non c’è più, una forma di ripiego, diun divenire per forza maggiore. Ecco la tristez-za del dire Dopo di noi .Eppure la mia esperienza professionale nelladisabilità mi fa vivere altri sentimenti, altreemozioni, altre aspettative che nulla hanno ache vedere con la tristezza. Tutt’altro è vedere ildisabile che ha l’opportunità di farsi una vitaautonoma, staccarsi dalla famiglia per vivereun’identità propria, il suo poter fare esperienzadi vita di gruppo, di avere amici con cui condi-videre la quotidianità, di acquisire autonomie,di avere spazi d’azione, di contare su persone

professionalmente preparate che lo accompa-gnano verso un cammino di crescita individua-le ed esperienziale, è l’opportunità che ancheun disabile possa avere una vita piena, ricca ecome si usa dire una “qualità di vita”.

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Il «Dopo di noi» per i figli

Vittorina Rinaldi

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Vero è che fin tanto che l’ingresso in comunitàresidenziale è sancito da un evento triste, tristesarà l’inizio di una nuova vita. Penso ad esem-pio a chi si è trovato, dopo 40-50 anni passatisolo con la mamma, orfano, e si vede anchestrappare dalla sua casa, dal suo paese, dai suoiriferimenti di una vita e trapiantato improvvisa-mente in un ambiente mai conosciuto. La soffe-renza, il dolore sono doppi. Si potrebbe sperarein un percorso diverso?Mi domando poi, i genitori o familiari che per-cezione vivono della residenzialità? È una risor-sa o un progetto da rinviare il più possibile?Una conquista o un lutto? Un trampolino dilancio verso l’adultità del disabile o l’esauri-mento delle forze assistenziali della famiglia?Per fortuna l’esperienza mi consola e la vorreicondividere con gli altri per rassicurarli, anziincoraggiarli perché la vita in comunità davverorivela tante belle sorprese.Vedere i i beneficiari chiamare Casa la comunità,raccontare con orgoglio dove vivono, far capireai genitori che vogliono tornare in comunità, su-scitare invidia verso alcuni loro compagni chefrequentano solo il diurno, comunità vissuta co-me il posto bello dove si sta bene, e poi viverecome fanno i grandi senza i genitori “fra i pie-di”. Vivere esperienze che in famiglia non han-no vissuto. Ma anche fare od occuparsi di impe-gni nuovi verso sé e verso gli altri. Mettersi allaprova e scoprire di avere risorse non ancora spe-rimentate. Viversi in un percorso di crescita ver-so il divenire adulti. E poi ancora il sapersi adat-tare alle regole della comunità, regole che tuttiviviamo in famiglia ma anche fuori, nel lavoro,nel rapporto con gli altri, regole che a volte sa-

ranno forse un po’ diverse da quelle di prima.Vorrei che la mia esperienza professionale, con-divisa quotidianamente con tanti miei colleghi,riuscisse a scolorire quella patina di tristezzadel Dopo di noi .Vorrei sperare che proprio quei genitori, e cene sono, che vivono questo progetto della resi-denzialità come percorso di crescita per i pro-pri figli possano essere esempio concreto di co-me una cultura dalle note assistenziali possacambiare in cultura delle opportunità.Grandi sono quei genitori che serenamentepercorrono questa strada che hanno iniziatotanto tempo prima, che l’hanno fatta respirareal figlio dando il messaggio che il bello delle vi-ta deve ancora venire, che è normale, è così chesi cresce, si matura e si riuscirà a sciogliere dol-cemente quel legame così profondo e forte coni genitori, è il suo bene.È un’esperienza che ho toccato con mano, a cuiho partecipato; io ho visto solo la vetta di unamontagna e per farla so che i genitori insieme alfiglio hanno sudato granellino per granellino laconquista di una nuova e possibile vita.Vorrei sperare allora diventi cultura correnteche il genitore accompagni il figlio disabile ver-so un cammino di autonomia di vita, quando ilgenitore c’è ancora, lo lascia un po’ alla voltama non sarà abbandonato, ne sarà un addio maun sostegno che mano a mano verrà meno perdare spazio all’esperienza di vita autonoma,verso la realizzazione personale, attraverso unpercorso di crescita per diventare adulto.Il disabile è una persona con il diritto ad una vi-ta indipendente nel suo divenire adulto e nonsolo un utente bisognoso di cure.

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Nelle comunità educative per minori1 trovanoospitalità quei ragazzi che, per ragioni diverse,vivono lontano dalla famiglia d’origine per untempo più o meno lungo.I motivi dell’allontanamento dalla famiglia so-no dettati da condizioni socio economiche diffi-cili, come succede per la maggior parte dei mi-nori stranieri che giungono in Italia in cerca dimaggiori possibilità lavorative. Altre volte èl’intervento del Tribunale dei minori che dispo-ne per un diverso collocamento del ragazzo odella ragazza rispetto alla propria famiglia in se-guito a difficoltà da parte dei genitori a svolgerela propria funzione. Oppure la famiglia stessa sirivolge ai Servizi sociali affinché il figlio sia inse-rito in comunità, in quanto le difficoltà cheemergono nel rapporto tra genitori e figli nonsembrano trovare una soluzione se non tramiteuna temporanea separazione.Si tratta di tre diversi casi d’inserimento e,com’è facile intuire, anche di tre diverse tipolo-

gie di relazioni che il minore intrattiene con igenitori e che cambiano in base alle ragioni percui si trova nella nuova realtà rappresentatadalla comunità. Da questo punto di vista la si-tuazione che presenta il più delle volte meno

problemi è certamente quella dei ragazzi stra-nieri non accompagnati. Questi ragazzi hannole idee molto chiare rispetto alla loro perma-nenza in Italia e di conseguenza in comunità.Negli ultimi anni, pur lasciando a casa le pro-prie famiglie in molti casi in situazioni difficili,essi trovano in Italia una fitta rete di connazio-nali con i quali riescono presto a stabilire deirapporti di solidarietà molto concreti, anche sein certi casi non sempre auspicabili. Il compitodella comunità, in collaborazione con i Servizi,è quello di agevolare questi contatti quando siritiene siano proficui e di aiutare il minore a re-golarizzare la propria posizione in Italia sup-portandolo nel trovare opportunità formative edi lavoro.La famiglia d’origine rimane sullo sfondo: nelmaggior numero dei casi è vissuta come un ri-chiamo importante nell’impegno da mettere nelcostruirsi delle opportunità nuove e diverse ri-spetto a quelle offerte dal paese d’origine. Tra

la rete di connazionali spesso vi sono parentipiù o meno stretti in grado di dare al ragazzo ilsenso di quella familiarità che ha dovuto lascia-re. Inoltre questi ragazzi giungono in Italia conun bagaglio d’esperienze di vita ben superiore a

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Comunità e famiglia, quale punto d’incontro? Il lavoro con la famiglia d’origine del minore inserito nella comunità educativa

Davide Natta

te e familiare sul progetto terapeutico, nonmancano, oggi, incoraggianti esempi di proget-tazione partecipata.È significativo, in tal senso, che il Ministero affi-di alle associazioni – con il controllo del ISS – lagestione di progetti dalle stesse presentati inpartnership con le Aziende sanitarie2. Esempla-re e produttiva l’esperienza di collaborazionecreatasi tra Università, DSM veneti e Associa-zione intorno al Progetto Picos. Qui l’AITSaMè stata coinvolta sia nella messa a punto del pro-getto che nella sua realizzazione, ottenendo dal-l’ULSS un finanziamento per l’utilizzo di unopsicologo; fungendo da trait d’union tra pazien-ti, familiari e referenti Picos dei DSM aderenti,sollecitandone, in alcuni casi, l’adesione al pro-getto stesso3.

Crediamo che moltiplicare esempi come questisia utile a smentire la citazione d’apertura e aconsolidare la cultura civile del “fare insieme”.

1.  www.giustizia-amministrativa.it/veneto TAR: AIT-SaM/ULSS n. 11 – Regione Veneto – Comune di Vene-

zia/vertenza TAR VE Rg. 2842/1995 sentenza n.3929/2004.2. L’AITSaM sta conducendo nell’ULSS 9 del Venetoun progetto di ricerca ed intervento “screaning e tratta-mento pisco-sociale e psicoterapeutico della depressio-ne post-partum” nei Distretti socio-sanitari n. 3 e 4.3. Il Progetto Picos – primo studio multicentrico italia-no sull’esito di tutti i casi di psicosi giunti all’attenzionedei DSM aderenti nell’arco di 12 mesi – intende chiari-re il ruolo relativo dei fattori di natura, sociale, geneticae morfo-funzionale nel predire l’esito clinico e sociale.

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quelle d’un ragazzo italiano di pari età e questoli rende simili maggiormente a dei giovani adul-ti, pur mantenendo tutte le problematiche tipi-che dell’adolescenza con l’aggravante però dinon potersele riconoscere e di non vedersele al-trettanto spesso riconosciute. Sono ragazzi cre-sciuti in fretta o per lo meno così vorrebberofar credere agli altri.Altri ragazzi sono inseriti in comunità a seguitodi un decreto del Tribunale. In questo caso il la-voro con la famiglia, svolto dai Servizi sociali edall’equipé della comunità, è fondamentalepoiché determina e condiziona certamente labuona riuscita del progetto educativo per il mi-nore. Capita che vi sia da parte del giudice unaforte restrizione rispetto ai contatti del minorecon i propri genitori in seguito alle ragioni chehanno portato all’allontanamento, oppure chesiano i genitori a separarsi definitivamente dalfiglio. In questo caso, per gli operatori si trattadi permettere al minore di costruire un’imma-gine della propria famiglia che salvaguardi gliaspetti buoni e di forte legame, pur nella possi-bilità di riconoscere i limiti e le difficoltà chehanno portato ad un certo tipo d’intervento.Quest’operazione è complessa perché si giocasu un punto molto delicato. È facile in questesituazioni scivolare verso un atteggiamento chepossiamo definire moralistico nei confrontidella famiglia d’origine, ma questo sarebbe in-tollerabile per il minore anche quando è luistesso ad esprimere giudizi estremamente fortie categorici nei confronti della propria fami-glia. D’altra parte la relazione del minore neiconfronti dell’istituzione sarà giocata semprenel modo di chiedere implicitamente a questa,nelle figure dei suoi operatori, un giudizio ri-spetto ai propri genitori.I passaggi all’atto, le provocazioni e i comporta-menti lesivi sono tutti momenti interlocutoriche il minore mette in atto al fine di ricercareun limite rispetto ad una forma d’ingiustizia dicui lui stesso è stato vittima. In questo giocoproiettivo l’istituzione deve rispondere in mo-do capace sia di sospendere il giudizio rispettoalle ragioni che hanno portato a certe conse-guenze – poiché questo, qualora fosse espresso,sarebbe comunque fondato su un pregiudizio –sia di accogliere questa richiesta e interveniremostrando il senso del limite nei confronti del-

lo strapotere dell’altro. Questa duplice opera-zione è l’aspetto particolarmente difficile poi-ché si tratta di non porre l’accento sul versantegeneralizzante della funzione legale, bensì suquello dell’opportunità che la legge stessa offre

nel suo valore simbolico di aprire alla possibi-lità che un’istanza soggettiva e individuale pos-sa manifestarsi rispetto a certi dati e condizionidi partenza, che soltanto una certa miopiascientifica può considerare oggettivi. Propriosalvaguardando quest’aspetto etico dell’unicitàd’ogni soggetto, contro qualsiasi forma di gene-ralizzazione morale o istituzionale, è possibilericucire certi strappi generazionali con i qualiabbiamo a che fare quotidianamente nei loroaspetti più cruenti.Questo modo di darsi della legge2 che chiamain causa la soggettività è tale, in prima battuta,per gli operatori chiamati a svolgere un ruolo ditutela in situazioni in cui questo è stato disatte-so il più delle volte. L’operatore di comunità sitrova a svolgere una funzione educativa chenon può determinarsi esclusivamente dal fattodi essere inclusa e delimitata in un preciso con-testo istituzionale, ma deve essere supportataeffettivamente da un desiderio soggettivo reale,in mancanza del quale il minore non trovereb-be alcuna ragione per cui fidarsi.Una particolare attenzione, da parte degli ope-ratori, va rivolta a quei casi in cui la famiglia ri-mane in qualche modo a lato rispetto al proget-to educativo del minore. Pur in presenza di undecreto del Tribunale, i contatti con i familiarisono assidui in modi a volte difficilmente rego-labili. Sono queste le situazioni in cui è impor-tante riuscire a costruire un progetto comples-sivo in cui ogni attore coinvolto abbia un ruolo,degli obblighi e delle responsabilità espresse inmodo chiaro ed esplicito. In questo stesso casoè anche fondamentale che l’istanza legale, rap-presentata dal giudice minorile, non abbia pergli operatori coinvolti una valenza esclusiva-mente formale, ma che siano condivise e coor-dinate le modalità in cui si decide di farla fun-zionare in situazioni in cui proprio l’assenza diun chiaro riferimento alla legge ha condotto aconseguenze gravose per il minore.Solo impegnandosi soggettivamente, quindi inmodo etico, è possibile tradurre l’aspetto gene-rale della legge nella possibilità di produrre de-gli effetti reali di cambiamento in situazioniparticolari. Il richiamo alla legge dovrebbe es-sere per ogni operatore non solo la cornice al-l’interno della quale intervenire, ma anche unpunto d’articolazione soggettiva nel proprio

percorso d’individuazione.Solo distinguendo questi due aspetti, quelli delgenerale e del particolare che la dialettica dellalegge sempre determina nel suo apparire, pos-siamo affrontare quelle situazioni in cui la do-

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manda ai Servizi non è condizionata immedia-tamente da un intervento del Tribunale. Negliultimi anni si assiste alla richiesta d’interventimirati in situazioni in cui la famiglia stessa, inaccordo con i Servizi sociali, decide di affidareloro per un periodo stabilito il proprio figlio:saranno i Servizi a provvedere all’inserimentodel minore in una comunità educativa.Sono queste le situazioni in cui possono verifi-carsi delle difficoltà nella gestione del progettonel suo complesso: tutto ciò è conseguenza dellapresenza di contorni istituzionali meno definiti,poiché manca una cornice giuridica esplicita nonessendoci alcun decreto da parte del Tribunale.L’errore maggiore è quello di concentrare glisforzi progettuali sul minore anziché sulla fami-glia riproponendo così, sul piano istituzionale,le medesime dinamiche relazionali presenti nelnucleo familiare. In queste famiglie è chiaro co-me ad essere deficitario sia proprio il riconosci-mento da parte di un membro della coppia del-l’importanza della legge come origine e fonda-mento del legame simbolico e di come questomancato riconoscimento ricada pesantementesui figli. La legge in questi casi non è certamen-te assente, ma è fatta funzionare in modo arbi-trario e contraddittorio da parte dei genitori.L’aspetto paradossale risiede nel fatto che que-sta contraddittorietà è ammessa da entrambe leparti, ma da nessuna delle due è assunta cometale: assumersi soggettivamente il contrasto sa-rebbe possibile solo riconoscendosi, per alcuniaspetti, esterni al contrasto stesso acquisendonequindi un punto di vista altro che metterebbeimmediatamente in campo le responsabilità diognuno. Su quest’aspetto d’impossibilità sog-gettiva per la coppia si viene ad istituire il disa-gio del figlio, disagio che diventa funzionale al-la possibilità per i genitori di continuare a nonoccuparsi una volta tanto dei loro problemi e dicontinuare a farlo in perfetta buona coscienza.L’appello alla legge passa attraverso il disagiodel figlio: è un appello non articolato e spessoassume la valenza della delega.Il problema per l’istituzione è quello di saper co-gliere chi è il vero portatore della domanda for-mulata in maniera inconscia. Certamente è il mi-nore con il suo disagio, ma anche i genitori ouno dei due che, pur riconoscendo i propri limi-ti, si comportano come se questi non fossero una

questione che li riguarda. Per l’istituzione si trat-ta di far progredire questa domanda, ma nonsempre è una cosa semplice. In queste situazio-ni, proprio quando spostando gradualmentel’attenzione dal disagio del ragazzo si comincia a

delineare il nucleo problematico dei genitori, siverifica da parte di questi l’interruzione dell’in-tervento. Solo un ulteriore interessamento daparte del Tribunale, quando le condizioni lo ri-chiedano e lo permettano, potrebbe rimettere lecose al giusto posto? Come prevenire il momen-to in cui i progressi, seppur minimi, non fosserotollerati dalla famiglia con il conseguente abban-dono del progetto? Quali sono i criteri su cuifondare un intervento che non sia solo di sup-porto per la famiglia, ma di vera e propria rico-struzione dei rapporti tra le generazioni?In realtà, a nostro modo di vedere, sono proprioqueste le situazioni in cui un certo modo di im-postare il lavoro istituzionale mostra tutti i suoilimiti. Sono certamente limiti strutturali oltre iquali è bene essere consapevoli di ciò che si stafacendo. Per questo credo sia opportuno svol-gere un’attenta analisi delle condizioni semprepiù complesse in cui deve articolarsi la presa incarico del minore in quanto egli, spesso e volen-tieri, manifesta in modo lampante la patologiadella famiglia in cui si trova a vivere e lo fa sem-pre, se solo lo si vuole cogliere, in un orizzontein cui si pone esso stesso come depositario di unsenso possibile per i suoi stessi genitori.Le istituzioni chiamate a rispondere – i Servizisociali, le Comunità, la Neuropsichiatria – de-vono adattare il proprio intervento modifican-dolo e costruendolo in funzione della diversifi-cazione della domanda così come oggi si pre-senta, poiché il diffondersi sempre maggioredel disagio giovanile potrebbe essere la manife-stazione di una serie di problemi le cui causesono da ricercarsi altrove. Non è possibile pen-sare a una sola risposta precostituita: questo ingenerale per quanto riguarda i Servizi sociali ein particolare per la comunità educativa che sitrova a svolgere questo compito quotidiana-mente e in prima linea. È necessario attrezzarsidi strumenti nuovi per provare a riorganizzarealcuni rapporti familiari spesso compromessisul piano logico prima che su quello affettivo,attraverso un intervento istituzionale che partada logiche diverse.Alla psicanalisi può essere riconosciuto quel sa-pere necessario al fine d’articolare il difficilerapporto che nella nostra epoca ogni soggettointrattiene con quei significanti che maggior-mente chiamano in causa la propria responsa-

bilità rispetto ad un compito liberamente as-sunto sia questo di cura, di tutela o più sempli-cemente di filiazione.«Ma per consentire questa integrazione tra lavo-ro psicanalitico e lavoro istituzionale non basta

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Lavoro in questo campo da circa dieci anni el’esperienza e la formazione acquisita mi hannoportato a considerare che le risposte dei Servizisociali ai disabili e alle famiglie non sono rispo-ste risolutive ai loro problemi. Al contrario i Servizi intervengono assieme al disabile e alla fa-miglia per affrontare assieme il problema, per ri-conoscere quali sono le strategie di interventopiù adeguate per quel determinato caso o perquel determinato progetto , al fine di individua-re un percorso, un progetto di vita.Non si può intervenire a tavolino, a priori. Nonci sono risoluzioni predefinite. Ci sono invecedelle tappe di lavoro che, raggiunte una per vol-ta, ci permettono di capire come proseguire as-sieme al disabile e alla sua famiglia.Partendo da questa premessa, si può costruireun quadro di intervento tecnico che i Servizisociali possiedono o, quantomeno, dovrebberopossedere per operare. Questo quadro è costi-tuito dalle leggi che ci danno degli strumenti dautilizzare efficacemente per sfruttare al meglio lerisorse territoriali : scuola, lavoro, istituzioni

pubbliche e private, amministrazioni locali eprovinciali, servizi specialistici, volontariato, as-sociazioni. Queste realtà ci permettono di indi-viduare al loro interno spazi, luoghi e momentivolti a favorire l’integrazione e l’inserimento so-ciale del disabile.A questo punto sorgono alcune domande: co-me intervengono i Servizi sociali? Quale ruolohanno nei confronti del “mondo” dei disabili?Io penso che si debba partire da un presuppo-sto fondamentale: il disabile non è mai solo, fasempre parte di un contesto familiare, parenta-le e amicale. E allora se non è solo, la lettura cheviene fatta del problema non è solo del disabile,ma del disabile considerato come appartenentea un gruppo che, nella maggior parte dei casi, èla famiglia.Ci troviamo così inevitabilmente di fronte aquesta situazione in cui sono presenti due atto-ri. Da una parte il disabile con i problemi legatialla sua disabilità e con quelli legati al suo esse-re persona, dal momento che egli non è ugualea nessun altro. Dall’altra c’è la famiglia con i

Il mondo di Silvia Risposte dei Servizi sociali ai disabili e alle famiglie

Marisa Anastasia

di certo che la psicanalisi riveda molti dei propripresupposti, perché anche l’istituzione dovràessere ripensata in termini differenti da quelliclassici, solitamente dipendenti da un’imposta-zione statalista e centralizzante dell’interventomedico o terapeutico. Il sempre più chiaro esau-rimento delle significazioni chiave in tutte lepratiche educative, come quelle che dovrebberostare alla base della vita familiare, in realtà nonfa che aprire un campo nuovo al lavoro istitu-zionale, soprattutto nell’area del volontariato,nel quale le istituzioni dovranno non più limi-tarsi ad intervenire per affrontare situazioniestreme d’abbandono, di patologia e di perico-lo, ma anche tentare di ricostruire, per quanto èpossibile, proprio quelle significazioni – comead esempio quella paterna – dal cui esaurimentoo mancato intervento dipendono oggi semprepiù numerosi e gravi disturbi soggettivi»3.La comunità educativa non è solo un’alternati-

va alla famiglia in casi estremi, ma dovrebbe es-sere pensata come un aspetto parziale di unacomunità più vasta rappresentata dall’istituzio-ne nel suo complesso. L’istituzione, non consi-derata nella sua astrattezza, diviene strumentocapace di veicolare un desiderio comune, nonper questo totalmente desoggettivato comesempre più spesso accade.

1. Queste riflessioni nascono a seguito di un’esperien-za professionale che si è svolta nella Comunità educati-va per minori Ollin! di Mestre, parallelamente a un at-tività formativa al Cento Eidos dell’Accademia platoni-ca delle Arti di Padova.2. Per meglio chiarire questo aspetto duplice della leg-ge, sotto il versante giuridico ed etico, è consigliabile lalettura del testo di E. Perrella, Psicanalisi e diritto. Edi-zioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1995.3. E. Perrella. Per una clinica delle perversioni. FrancoAngeli, Milano 2000.

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suoi problemi specifici affrontati e riconosciuti.In questo contesto l’intervento non può esserecentrato solo sul problema del disabile, ma de-ve tener conto dell’insieme, perché ogni azioneinciderà sull’equilibrio famigliare.Sto lavorando con Silvia, trentenne, disabile,considerata da sé e dagli altri come persona to-talmente dipendente nello svolgere qualsiasiazione, sia di pensiero che di movimento.Durante questi tre anni, Silvia si sta riconoscen-do come persona capace di pensare, scegliere,decidere. Se la sua limitazione non le consentedi essere autonoma nella deambulazione ciònon significa che lo sia anche nel pensiero.Gli altri, soprattutto i suoi genitori con i qualivive da sempre, non riescono ad accettare leconquiste che Silvia sta facendo, le impedisco-no di fare quelle cose (lavarsi i capelli da sola,scegliersi un’amicizia o andare in vacanza noncon un gruppo di disabili) per le quali loro, finoa quel momento, erano indispensabili.Come si vede, ogni cambiamento anche positivodel soggetto, incide nel contesto in cui vive, inquanto rompe ogni volta un equilibrio.A loro volta il disabile e la sua famiglia non so-no soli, ma si collocano in un contesto territoria-le molto più ampio dove possono trovare dellepiccole e grandi opportunità. Ma da soli non cela fanno.Ecco che allora i Servizi sociali diventano il filoconduttore del disabile e della sua famiglia.Ciò significa che il Servizio individua e usa lerisorse, accompagna il disabile e trova le mo-dalità di intervento.È bene ricordare che i Servizi sociali non sono i soli detentori delle risposte, ma rappresentano laconoscenza che serve a fare in modo che non sial’utente e la sua famiglia che continuamente vain cerca di quello di cui ha bisogno, ma è il Ser-vizio che fa muovere gli altri e tiene le fila, lavo-ra in rete. Stiamo attenti che essere filo condut-tore non significa “mettersi al posto di”, ma“essere una coppia di lavoro” per evitare passi-vità, deleghe o doppioni di intervento.Altro aspetto rilevante dei Servizi sociali è il coinvolgimento e il confronto con e fra famiglie edisabili. Nel territorio dove lavoro, da una ana-lisi condotta, emergeva la necessità da parte dialcune famiglie con figli disabili adulti in casa diavere (trovare) delle riposte ai diversi problemi 

che i loro figli presentavano. Si è pensato allora,di promuovere degli incontri assieme ai famiglia-ri e alle amministrazioni comunali interessate,all’interno dei quali loro stessi potevano espri-mere le proprie richieste.

Quali sono gli esiti di una simile modalità d’in-tervento? Da una parte si è creato un gruppo di 

 famigliari che trova l’occasione per incontrarsi emettere insieme racconti ed esperienze di vita,che promuove e ottiene l’apertura di un Centrosocio-occupazionale e che individua e realizzal’inserimento in una struttura residenziale. Per le persone disabili , invece, è diventata l’occasio-ne per conoscersi, fare amicizia tra loro. Ha datoloro la possibilità di accedere alle risorse e ai Ser-vizi esistenti in quel territorio, fino ad allorasconosciuti per loro, oltre che rappresentarel’occasione per Silvia di “ritrovarsi”. Infine, hagenerato l’impegno dei Servizi a dare (offrire)interventi diversificati a seconda dei problemi 

 presentati (individuati).Questo modo di lavorare che ho cercato diesporvi permette, ancora adesso, di coinvolgerel’utenza nella costruzione del proprio progettodi vita.

Ciò che precede è la traccia dell’intervento Ri-sposte dei Servizi sociali ai disabili e alle famiglieche ho tenuto al Convegno Handicap FamigliaStrategie d’intervento organizzato dall’IstitutoVilla Santa Maria della Pace a Medea il 4 mag-gio 1996. Le parole in corsivo sono state evi-denziate allora: se le leggete saltando il resto deltesto avrete un’esemplificazione di una lineache ritengo valida a distanza di dieci anni.Ancora oggi la discussione sull’argomento nonè esaurita. Poco tempo fa, conversando con unamico, è emerso che «una pratica non è una po-sizione di diritto». Questa affermazione ci puòportare lontano ma, nello stesso tempo, la pos-siamo tener presente nel nostro lavoro quoti-diano di operatori sociali.Mi piace pensare che gli operatori impegnatinel cosiddetto sociale – lo sono tanto gli Adest(Assistenti Domiciliari e per i Servizi Tutelari),gli assistenti sociali, gli educatori, gli infermieri,i medici, gli psichiatri, gli psicologi, quanto gliautisti nei trasporti, insomma tutti coloro cheprestano la propria opera rivolta al consegui-mento di un fine particolare – possano metterel’accento sulla pratica non a partire da una posi-zione di diritto. Una pratica, ovvero un modo dilavorare, di esercitare un mestiere, indipenden-temente dalle regole e dai principi teorici cheregolano ciascuna professione. Una pratica, co-

me integrazione, lavoro di rete, coprogettazio-ne, che dovrebbe essere alla base del nostro es-sere operatori sociali, al di là di enunciazioni diprincipio con le quali non potremmo che ritro-varci. Ma cosa significa?

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Penso che partire dal considerare il soggettocon cui abbiamo a che fare sia la cosa essenzia-le, quella che ci può indicare la strada e il pro-getto da delineare. E allora la  pratica divental’operare dell’operatore sociale: ascoltare, cono-scere, pensare, cercare per poi proporre, pro-gettare un’idea, un pensiero. Operare significa

 prestare la propria opera, fare, agire, lavorare. Inquesto modo la pratica diventa il mezzo, lo stru-mento attraverso il quale noi esercitiamo il no-stro operare.È importante, direi fondamentale, che prima ditutto si presti attenzione alla  pratica. Se malusata, questa danneggia il soggetto per il qualenon facciamo altro che assolvere al nostro im-pegno/dovere istituzionale, cioè prenderlo in

carico per prendersi cura di lui. Questo vuol di-re mettersi in una posizione di ascolto. Significacercare, individuare risorse, servizi, altri opera-tori significativi con i quali tessere rapporti escambi per costruire assieme una traccia di la-voro, un percorso, un progetto itinerante.E questo è un altro aspetto fondamentale. Per-ché un progetto non può essere inteso che co-me un cammino, un percorso da fare insieme alsoggetto in cui l’operatore si deve spostare daun luogo all’altro, come in un viaggio, per svol-gere la propria attività. E come in un viaggio siosserva, si ascolta, ci si domanda, ci si interro-ga, ci si confronta. Solo così si può mettere in-sieme ciò di cui c’è bisogno per potersi diverti-re lavorando.

Stiamo preparando una società di anziani. Lavita media si è allungata, e di molto, superandoampiamente gli ottanta anni per i soggetti disesso femminile, avvicinandosi agli ottanta anniper quelli di sesso maschile. Ed è evidente unatendenza ad un ulteriore progressivo prolunga-mento della vita media negli anni a venire. Ciòcomporta senz’altro grandi cambiamenti nelloscenario di una vita sociale che dovrebbe diven-tare sempre più a misura di … anziano. Ma co-me sarà l’anziano di domani?Credo che molto dipenderà dal suo grado diautosufficienza e dalle modalità di superamentoo di sostegno delle sue “fragilità”. È certo cheuna prospettiva ad impatto sociale così epocalenon può che venire preparata in termini di“prevenzione”, e a tutto tondo, a 360 gradi, datutta la società, anche se mi sembra che vera-mente pochissimo sia stato fatto in questa dire-zione fino ad ora.Non dovremmo più parlare quindi solo di ma-lattie e di cure, ma molto più di “salute” e di“prevenzione”, proprio perché il valore princi-pale e determinante sembra diventare la “qua-lità della vita”, più che la durata della vita stes-sa: dovremmo in fondo imparare ad aggiungerevita agli anni e non soltanto anni alla vita.

L’allungamento progressivo della durata dell’e-sistenza porta con sé infatti una grande veritàstatistica o, meglio, un pesante fardello proba-bilistico: c’è infatti più tempo perché le malattiecardiovascolari possano manifestarsi e ancherecidivare più volte nell’arco dell’esistenza. Lecure più intensive, più aggressive e più efficacievitano infatti spesso che anche molteplici rica-dute, pur nella loro potenziale gravità, evolvanoverso esiti infausti, ma il rischio è che residuinocomunque esiti invalidanti o capaci di ridurrel’autosufficienza dell’anziano o ancora ne incre-mentino la sua fragilità e dipendenza da moltifattori esterni ed estranei, anche di tipo socio-assistenziale.Questa consapevolezza è estremamente carentenella popolazione generale, ma anche nei deci-sori pubblici, e anche le terapie più comuni, co-me quelle per l’ipertensione arteriosa o per ildiabete, vengono vissute come un peso, seguitespesso approssimativamente e senza chiariobiettivi di salute da raggiungere.È invece molto più palpabile la sensibilità neiriguardi delle prestazioni sanitarie, con partico-lare attenzione nei confronti dei tempi di attesanecessari per effettuarle, quasi che le prestazio-ni stesse fossero il fine del percorso sanitario e

Come aggiungere vita agli anni La risposta ai bisogni cardiologici 

Gian Luigi Nicolosi

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la risposta a un “bisogno”, invece che più ap-propriatamente il mezzo per la ricerca di solu-zioni adeguate nel singolo caso.Molti dei possibili equivoci di fondo, che ten-dono a porre attenzione prioritaria alle presta-zioni sanitarie, derivano dal fatto che le presta-zioni stesse sono comunque una entità facil-mente misurabile nella quantità, nonché sonoparametrabili il tempo in cui la prestazionestessa viene erogata e la quantità di risorse ne-cessarie alla sua produzione, e infine anche ilgrado di soddisfazione dell’utenza. Ciò deter-mina una grande e spontanea attenzione sia daparte della opinione pubblica che da parte poli-tica, anche se il tutto viene poi generalmente af-frontato con notevole superficialità e senza unaadeguata e completa informazione. Va ribaditoche comunque il centro del servizio sanitarionon dovrebbe essere la prestazione in se stessa,ma piuttosto le motivazioni e i risultati dellaprestazione, quale strumento per raggiungereobiettivi di salute per il cittadino. Sarebberoperciò da misurare e monitorare proprio gliobiettivi di salute e non solo le prestazioni, pernon far diventare un fine quello che è solo unmezzo e uno strumento per definire e sceglierele cure più appropriate.Va anzi detto che prestazioni inappropriate perindicazione o tempistica tolgono comunque ri-sorse al sistema sanitario nel suo insieme e in-ducono un incremento delle liste di attesa an-che per le prestazioni appropriate.Accade quindi che il cittadino esprima bisogniper i quali viene attivata direttamente e auto-maticamente la richiesta di prestazioni da partedel medico prescrittore, generico o specialista,secondo modalità consolidate, ripetitive e ri-dondanti, senza una adeguata e vera analisi dif-ferenziata del bisogno secondo priorità clini-che. In alternativa può succedere anche che ilcittadino ricorra all’autoprescrizione di presta-zioni, richieste e sollecitate come tali al medicoprescrittore, ridotto nel caso al ruolo di “scri-vano”. In questo tipo di modellistica la listad’attesa per le prestazioni dipende in gran par-te dall’erogatore e dalla sua capacità di rispon-dere alle richieste, con scarsa possibilità di in-tervento sulla appropriatezza delle prestazionie sulla loro tipologia e tempistica. Anzi, adogni incremento di offerta di prestazioni si rea-

lizza un incremento incontrollato della doman-da. Un blando tipo di controllo può derivaresoltanto dal numero e dalla tipologia di presta-zioni che vengono riconosciute come rimbor-sabili dalla committenza.

Se invece l’analisi del bisogno espresso dal cit-tadino viene effettuata dal Medico di MedicinaGenerale che classifica il bisogno secondo prio-rità cliniche e differenzia la necessità o meno diricorrere a prestazioni o a specialisti, il percorsosanitario può diventare davvero “virtuoso”. Inquesto tipo di modellistica parte dei bisogni disalute può infatti venir soddisfatto già diretta-mente dal Medico di Medicina Generale, spes-so senza ulteriori “esami”, eventualmente so-stenuto nella propria decisionalità da procedu-re definite e condivise di teleconsulto e suppor-to alla decisione. L’accesso eventuale alle pre-stazioni viene quindi determinato dal Medicodi Medicina Generale o da altro prescrittore se-condo priorità cliniche e criteri di appropria-tezza preventivamente condivisi fra prescrittoried erogatori. Le informazioni al cittadino suitempi di attesa e sulle modalità di erogazione esul significato di quella particolare prestazioneper il suo particolare caso vengono esplicitate alcittadino stesso direttamente da parte del pri-mo prescrittore. Il governo della domanda vie-ne in tal modo attivato sin dal primo esplicitar-si del bisogno, consentendo di ottenere richie-ste appropriate di prestazioni a tutti i livelli, siada parte del medico prescrittore, sia da partedell’erogatore, sia dalla committenza, che puòriconoscere e legittimare le linee guida di com-portamento e appropriatezza condivise fra pre-scrittori ed erogatori, partecipando anche acompletare l’informazione al cittadino sullemodalità di soddisfazione dei suoi bisogni disalute.Da tutto ciò emerge la grande complessità delproblema delle liste di attesa, la cui soluzionenon può assolutamente derivare da affermazio-ni superficiali, parziali o demagogiche, esplici-tate al fine di attribuire responsabilità a questoo a quell’anello della “filiera” produttiva, madal coinvolgimento di tutti gli “agenti della do-manda”, dai cittadini, ai medici prescrittori,siano essi i Medici di Medicina Generale, i Pe-diatri di libera scelta, i Medici specialisti, aglierogatori e alle istituzioni committenti.E che questo sia in qualche modo possibile lodimostra l’attivazione da parte della nostra Car-diologia, in ambito di Area vasta Pordenone, diun sistema di liste di attesa differenziato e con-diviso con i Medici di Medicina Generale se-

condo priorità cliniche e percorsi concordati edeterminati anche con il sostegno del telecon-sulto telefonico. Dal 1999 è infatti attivo un nu-mero telefonico dedicato e riservato ai Medicidi Medicina Generale dell’Area vasta Pordeno-

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nese: il 70% degli accessi telefonici (al cui “tria-de” è dedicata una infermiera professionale conspecifiche competenze e formazione) viene uti-lizzato per la programmazione dei percorsi dia-gnostici e terapeutici secondo priorità cliniche,mentre il 30% circa delle telefonate costituiscerichieste di teleconsulto con lo specialista.Va comunque ribadito che è essenziale porre inatto ogni sforzo formativo e informativo, rivol-to sia ai cittadini che agli operatori sanitari, alfine di ridurre o abolire le richieste immotivate,inappropriate, o poco o nulla correlate a biso-gni sanitari reali. Va infatti ricordato che ogniincremento indifferenziato di offerta di presta-zioni, comunque ottenuto al di fuori di unastrategia di appropriatezza, potrà portare facil-mente ad un incremento indifferenziato delladomanda (e della spesa), in un circolo viziosoche riconosce la sua causa prima in un ambitoculturale del medico, ma può trovare terrenofertile in sistemi organizzativi prioritariamenteed esclusivamente interessati alla soddisfazioneindiscriminata della domanda, comunque po-sta, e all’abbattimento indifferenziato delle listedi attesa. La scarsa appropriatezza delle richie-ste di prestazioni, lo sforzo atto ad incrementa-re continuamente il numero delle prestazionistesse, l’adozione della prestazione come giudi-ce e misura della bontà di un sistema sanitario,possono portare facilmente ad un consumismoesasperato in medicina, alla automedicalizza-zione e alla autoprescrizione da parte del citta-dino e ad un decadimento generalizzato dellaefficacia ed efficienza del sistema sanitario pub-blico in generale. È anzi possibile che la spiraledel “consumo” diventi talmente perversa eacritica da esigere, per poter essere sostenuta,perdite colpevoli e pericolose di equità, con ilrischio di passare dalla “razionalizzazione” al“razionamento” delle risorse. Non potendo piùfornire, infatti, tutto a tutti per la finitezza dellerisorse stesse, ma soprattutto non avendo il co-raggio di dirlo ai cittadini, il rischio è che il si-stema perda la sua equità, soprattutto verso isoggetti più deboli, sia dal punto di vista cultu-rale, che economico e sociale.La soluzione di tali problematiche è possibilese si supera il concetto del “prestazionificio”attraverso un salto di qualità culturale di tuttigli operatori coinvolti, delle istituzioni, ma an-

che di tutti i cittadini, riportando le richieste diprestazioni di un sistema sanitario pubblicocon risorse definite a ciò che è corretto ed ap-propriato, nell’ambito di un progetto persona-lizzato e condiviso di salute, all’interno di per-

corsi diagnostico-terapeutici predefiniti, con-solidati, condivisi e aggiornabili. È anche es-senziale che ogni soluzione venga verificata,implementata e consolidata mediante la com-partecipazione di tutti gli operatori sanitari e lalegittimazione delle istituzioni nell’ambito diun determinato bacino d’utenza geografico. Leistituzioni e la committenza dovranno farsi ga-ranti della sua applicazione e della pertinentediffusione di una adeguata e completa infor-mazione ai cittadini.Alla “ipertrofizzazione” del significato dellaprestazione si accompagna spesso la sottovalu-tazione della importanza di seguire stili di vita etrattamenti farmacologici secondo obiettivi cli-nici consolidati e noti e a dosaggi efficaci e ade-guati seguendo le indicazioni della medicinabasata sulle prove di efficacia o Evidence Based 

 Medicine.Trattamenti farmacologici insufficienti e inade-guati, o sospesi prematuramente, o a cui corri-spondano stili di vita non corretti, costituisco-no spesso costi sanitari a cui può non corri-spondere una adeguata protezione nel tempodal rischio di nuovi eventi. Invece il singolo in-dividuo continua ad essere convinto di fare tut-to il possibile per se stesso, e che il “male” pos-sa se mai derivare solo dagli effetti collateralidei farmaci, piuttosto che dalla progressionedella malattia arteriosclerotica cardiovascolare,facilitata da scorretti stili di vita e da terapie se-guite approssimativamente per tutto l’arco diuna generalmente lunga esistenza.E siccome invece proprio di malattia cardiova-scolare diffusa, cronica e sistemica si tratta,quello che può essere stato magari inizialmenteun evento cardiaco (ad esempio una angina oun infarto) potrà manifestarsi successivamentemagari come una ischemia cerebrale transitoriao un ictus o addirittura come una insufficienzarenale progressiva o una malattia ateroscleroti-ca delle carotidi o delle arterie degli arti inferio-ri. Anche questa consapevolezza della sistemi-cità della malattia, ma anche della sistemicitàdegli effetti protettivi degli stili di vita e delleterapie, se opportunamente avviati e sostenutinel tempo con adeguati obiettivi, manca in granparte della popolazione.C’è quindi grande spazio per ogni forma dieducazione alla salute, di formazione continua,

di partecipazione e di condivisione di cono-scenza a vari livelli e nei più diversi ambientisociali, dalla famiglia, alla scuola, al luogo di la-voro e a quelli del tempo libero. C’è bisogno diformazione motivazionale delle scelte e di so-

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stegno delle stesse nel tempo. Chi pratica o puòfare tutto ciò? Il deserto è grande, così come ègrande lo spazio in cui e possibile operare. For-se è anche tempo di uscire dalla demagogia ge-nerica delle prestazioni e delle liste d’ attesa in-tese come obiettivo indifferenziato di salute. Ètempo di una nuova sinergia e “alleanza” con icittadini in campo sanitario e non solo. Soltantouna grande sinergia fra il mondo della sanità o

meglio della salute, o ancora meglio della conti-nuità socio-assistenziale fra ospedale e territo-rio, e il volontariato e i cittadini, variamente or-ganizzati, potrà creare quei presupposti di edu-cazione e formazione continua ai corretti stili divita, alla salute e al benessere, in modo da ri-spondere ai bisogni di salute cardiologica men-tre si aggiunge qualità di vita agli anni e nonsoltanto si aggiungono anni alla vita.

Scriveva, una ventina d’anni fa o poco più,Norberto Bobbio che, quanto alle risposte, daparte delle Istituzioni, alle domande di serviziche provenivano dalla società, si stava assisten-do all’estendersi del processo di democratizza-zione: e indicava una delle caratteristiche pecu-liari del momento nella forma di una societàpoliticamente in espansione, portatrice della ri-chiesta di un esercizio effettivo di sempre nuo-va partecipazione. Il flusso del potere, secondolui, non poteva che avere due direzioni: o di-scendente, dall’alto verso il basso, o ascendente,dal basso all’alto; esempio tipico della primapolarità, negli Stati moderni, era rappresentatadal potere burocratico; del secondo dal poterepolitico, esercitato a tutti i livelli: locale, regio-nale, statale, in nome e per conto del cittadino,o meglio, dell’individuo in quanto cittadino.

Quello che stava, allora, avvenendo, era, perBobbio, un processo di democratizzazione delpotere ascendente che si andava estendendodalla sfera dei rapporti politici – dalla sfera deirapporti in cui l’individuo veniva preso in con-siderazione nel suo ruolo di cittadino – alla sfe-ra dei rapporti sociali, ove l’individuo venivapreso in considerazione dei suoi status e deisuoi ruoli specifici, per esempio di padre, di fi-glio, di coniuge, di imprenditore, di lavoratore,di insegnante, di studente, eccetera di medico,di malato, di gestore di servizi pubblici e diutente. Non si trattava tanto di un passaggiodalla democrazia rappresentativa a quella diret-ta, quanto piuttosto di un passaggio dalla demo-crazia politica in senso stretto alla democrazia so-ciale, ovvero nell’estensione del potere ascen-dente – che sino ad allora aveva occupato quasi

La domanda di scolarizzazione

Massimo Riccetti

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esclusivamente il campo della grande societàpolitica – al campo della società civile nelle suediverse articolazioni. Non si trattava di un nuo-vo tipo di democrazia, bensì nell’occupazione,da parte di forme anche tradizionali di demo-crazia, di nuovi spazi dominati prima da orga-nizzazioni di tipo gerarchico o burocratico: sitrattava di una vera e propria svolta nello svi-luppo delle Istituzioni democratiche: dalla de-mocratizzazione dello Stato alla democratizza-zione della Società. (N. Bobbio,  Il potere dellademocrazia, Einaudi, Torino 1984, pp. 43-44).Sono trascorsi più di vent’anni da quelle teoriz-zazioni, è vero, e quanto le cose siano mutate inquesta frazione di “secolo breve” è sotto gli oc-chi di tutti noi: eppure, per coloro che sono de-putati, a diversi livelli, sino al più umile, ad or-ganizzare, in qualche modo, o nel migliore deimodi possibili, la risposta alla domanda cheproviene dal sociale, gli strumenti di analisi of-ferti da Bobbio risultano ancora attualissimi.Non si può più parlare, certamente, di “demo-crazia sociale” a proposito della congerie di ri-chieste che provengono dall’utenza, poichémanca, a queste, un denominatore comune,non soltanto in qualche misura unitario, maneppure riconducibile a grandi filoni: si tratta,invece, di un susseguirsi di domande individua-li, ciascuna con la sua peculiarità, con la suaproblematica personale, cui non sempre è pos-sibile fornire la pluralità di risposte che sono at-tese da ciascuno.Le cause di questo fenomeno sembrano ricon-ducibili, in ultima analisi, al venir meno, talvoltagraduale ma inarrestabile, talvolta repentino e avalanga, che si è verificato in questo ventennio,della funzione di collettore della domanda socia-le di quelle forme di organizzazione che aveva-no, sino ad allora, svolto un ruolo di cerniera trale istanze che provenivano dal “basso” e i luoghideputati a tradurle in modalità organizzate di ri-sposta alle esigenze di cui il potere politico e lesue articolazioni burocratiche si facevano inter-preti, al fine di incanalarle in grandi filoni diproblematiche cui occorreva dare risposta. Indefinitiva, le forme di aggregazione a ciò funzio-nali, quali i partiti politici, i sindacati, le parroc-chie, le associazioni di volontariato, hanno per-so sempre più velocemente questa funzione,isterilite in forme burocratiche tese a riprodurre

sostanzialmente se stesse, rinunciando a canaliz-zare l’insieme di istanze, provenienti dal sociale,verso una razionalità collettiva, in grado dipro/vocare la risposta politico-istituzionale.Ogni cittadino finisce, così, per avanzare le pro-

prie richieste personali direttamente alle Am-ministrazioni di competenza, o alle Istituzionidei cui servizi intende avvalersi.Quello che Bobbio aveva teorizzato come de-mocrazia sociale è andato quindi trasformando-si in democrazia individuale, ammesso che l’e-spressione un po’ ossimorica abbia senso e chenon si tratti, piuttosto, di semplici interessi –cose ben diverse dai bisogni – che con la demo-crazia hanno poco o nulla a che fare.Si è trattato di un fenomeno del quale la stessalegislazione non ha potuto non tenere conto,giungendo sino alla istituzionalizzazione delprincipio di separazione tra indirizzo e gestione,distinguendo tra “direttiva”, che è prerogativadel potere politico, da “attività di gestione” cheè competenza della burocrazia, lasciata semprepiù sola – o, in termini più altisonanti, autono-ma – di fronte alla miriade di domande singoleche ogni cittadino, anzi, ogni persona, ponevadinanzi. Questo apparato burocratico, che giàMax Weber aveva analizzato, negli anni Ventidel secolo scorso, in cui il funzionario tendeva alimitare al minimo le sue relazioni personali,mentre chi a lui faceva ricorso era convinto delcarattere eccezionale del suo caso, rischiava co-sì di franare sotto il peso schiacciante della plu-ralità di richieste. Lo stesso Weber notava, in-vece, come un’azione istituzionale debba costi-tuire “un agire in comunità”, per essere un“agire di consenso” (M. Weber, Il metodo dellescienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1974, p.60 - prima ediz. Tubinga 1922).Le istituzioni – e, con esse, coloro che sono inca-ricati di farle funzionare secondo le “direttive”generiche che provengono dall’alto – venivano atrovarsi, dunque, di fronte al dilemma di cosafosse, di volta in volta, utente per utente, giusto onon giusto fare, sia pur nel rispetto delle norma-tive che non possono, per loro natura, prevederetutte le più disparate situazioni con cui si viene acontatto e non di rado in conflitto fra di loro.In un saggio su John Rawls, e, più in generale,sui modelli etici americani odierni, Pier PaoloMarrone nota come esistano, oggi, diverse con-cezioni del principio di differenza: diverse sonole concezioni per quanti sostengono che «diffe-renti concezioni della giustizia possono ancoraessere d’accordo sul fatto che le istituzioni sonogiuste quando non viene fatta alcuna distinzio-

ne arbitraria tra le persone nell’assegnazionedei diritti e dei doveri fondamentali»; Rawls in-terpreta il principio di differenza come un equi-librio non arbitrario fra pretese conflittuali invista del vantaggio complessivo della società.

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Premessa Da anni i Servizi sanitari e sociali sitrovano di fronte ai bisogni di cura ed assistenzadelle persone affette da demenza (soprattutto dimalattia di Alzheimer) e dei loro famigliari.Uno dei nodi cruciali che gli operatori si trova-no ad affrontare non è soltanto il cosa fare, qua-

li interventi avviare, ma anche il come fare: co-me affrontare le domande di aiuto, come tenerea bada l’inquietudine, l’ansia, la depressione, ilsenso di impotenza che molto spesso questamalattia provoca. La demenza è una malattia

che intacca la capacità di pensare, di relazionar-si con sé stessi e con gli altri. Donald Meltzer hasostenuto che «...la demenza è la perdita dellacapacità di pensiero che “contagia” sia i fami-gliari, che le badanti, che gli operatori se vengo-no lasciati soli». La perdita della capacità di

pensare può creare confusione, disorientamen-to tra le persone che se ne occupano.È una malattia che comporta un continuo lutto:la persona che tutti abbiamo conosciuto è sem-pre meno presente, il dialogo è sempre più dif-

I malati di demenza, i famigliarie gli operatori dei servizi

Emanuela Naibo, Giuseppina Pavan e Renato Tonus

Rispetto al problema delle quote distributive, ilsuggerimento di Rawls è di trattare il problemain termini di giustizia procedurale pura: l’ideaconsiste nel progettare il sistema sociale in mo-do che il risultato sia giusto in qualunque caso,per lo meno in un “ambito determinato”, pre-scindendo completamente dalla non public identity delle parti (P. Marrone, Consenso taci-to, La Rosa Editrice, Torino 1996, pp. 79-80).Calandosi nello specifico dell’istituzione scola-stica, e, soprattutto, nella molteplicità di doman-da che in essa confluisce da parte dell’utente,non si può non sottolineare come, all’internodella stessa, si concentrino, da una parte, il desi-derio di delega da parte di genitori che nel servi-zio vedono la funzione utilissima di difendere ipropri giovani utenti dai pericoli e dalle minaccedi una quotidianità extrascolastica da cui un am-biente “protetto” deve salvaguardare: una sortadi a/silo, in senso etimologico, ove ogni giovanenon possa essere assalito da nulla di pericoloso;dall’altra si richiede all’istituzione stessa di“educare alla vita”, di costituire una palestra incui il giovane possa allenarsi a diventare adultoper inserirsi in quella stessa “vita reale” da cuiall’inizio deve essere difeso, o, a seconda dei ca-si, in cui impari a muoversi in piena autonomiapersonale. Naturalmente, ciascuno, secondo lepeculiarità del proprio figliolo, chiede una cosao l’altra, quando non le pretenda entrambe.Pertanto, chi, per avventura, si trovi a dover as-sicurare il funzionamento di quell’Istituzionenon ha altro, dinanzi a sé, che una somma di in-

dividualità, ciascuna delle quali pone la propriarichiesta, ed è in questo frangente che si sentel’assenza di quelle funzioni che, tradizional-mente ricoprivano quelle “altre” istituzioni, de-putate, come s’è detto, a svolgere un ruolo dicerniera e di collettore in grado di raccogliere leistanze di tutti e di ciascuno, di elaborarle, diportarle a sintesi che si tramutasse poi in grandicanali di domanda cui, in qualche modo, erapossibile fornire risposte che potessero soddi-sfare la comunità di utenti.Oggi, l’individuo-utente è, appunto, un indivi-duo portatore dei propri personali interessi, checondivide con pochi altri o con nessuno, ma cheattende una risposta positiva dall’istituzione dicui si serve, o a cui si rivolge. Non è semplice, inquesto quadro, fornire risposta, se non nei ter-mini, mutatis mutandis, in cui Rawls suggerisce:attuare una “giustizia procedurale pura”, in mo-do tale che il risultato, nell’ambito determinatodel sistema scolastico, sia, se non “giusto in qua-lunque caso”, almeno accettabile per tutti se-condo il principio del neminem laedere.Ma si è, in questo compito, irrimediabilmentesoli: troppi interessi confliggono gli uni con glialtri: quelli dei genitori nei confronti dei docen-ti e degli operatori scolastici in verticale; quellidei genitori e degli operatori tra di loro in oriz-zontale, senza che un’opera di mediazione e difiltro sia attuata da altri soggetti istituzionaliche, pure, nella loro storia, questo patrimoniogenetico posseggono e debbono, o possono,ancora tramandare.

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ficile, non possiamo più confrontarci, non pos-siamo più contare su di lei. Il malato diventasempre più fragile, in difficoltà e dipendentedal nostro aiuto; in parte è vivo e in parte è co-me se fosse morto e sempre di più.La persona affetta da demenza, anche in una fa-se avanzata, sente il clima emotivo e affettivoche la circonda e riconosce lo stato d’animo dichi le è vicino: cioè quello che gli altri sentono eprovano arriva direttamente senza difese, senzamediazioni, è impossibile mentire.Il decorso è molto lungo, a dura anni e richiedecontinui adattamenti.Per gli operatori prendersi cura dei malati di de-menza e dei loro famigliari non è mai una routi-ne; è necessaria una costante verifica della situa-zione, capacità di ascolto e comprensione, sapermediare e condividere tra operatori. La creati-vità degli stessi è uno strumento indispensabileper poter rispettare, durante gli interventi, lastoria, gli interessi, la personalità e il livello dideterioramento dei malati. In sintesi c’è l’esi-genza di un continuo confronto, ci vuole tantacreatività e condivisione tra chi se ne prende cu-ra e una flessibilità negli interventi che possonoessere a volte molto discreti altre volte massicciin relazione ai vari momenti della malattia.Per questo diviene indispensabile poter mante-nere una capacità di pensiero sia tra operatoriche con i famigliari e le badanti (quando ci so-no) per mantenere un clima ed un ambiente disostegno il più sereno possibile nei confronti diuna malattia che comporta tanto dolore.I famigliari non possono essere lasciati soli, de-vono poter pensare con gli operatori dei Servizicome è opportuno intervenire in ogni momentodella malattia, dall’assistenza a domicilio fino alricovero in Casa di riposo, se necessario. Tuttociò può avvenire senza perdere di vista l’aspettodella cura e dell’accompagnamento al propriocongiunto anche nella struttura protetta.La condivisione è indispensabile, quindi, ancheper il fatto che permette di accogliere e renderepiù frequenti i momenti sereni che ci sono no-nostante la malattia.

La signora Maria Il medico di famiglia ave-va invitato i famigliari della signora Maria achiedere aiuto ai Servizi sociali del Comune peressere sostenuti nell’assistenza alla loro madre.

Erano ormai sei anni che gli specialisti avevanodiagnosticato una probabile malattia di Alzhei-mer e fino a quel momento i figli, seguendo leindicazioni di cura medica, si erano occupatidella loro madre sostenendola da vicino nello

sviluppo della sua malattia. Avevano modificatole loro abitudini e l’organizzazione della loro vi-ta in relazione all’evolvere della malattia e allecrescenti difficoltà della madre ed uno di loroera rientrato a vivere stabilmente con lei.Ma in quel momento, dopo sei anni, sentivanoche era per loro sempre più difficile continuarea farsi carico da soli della situazione della ma-dre. Il progressivo deterioramento delle capa-cità cognitive era ora accompagnato da inson-nia e da incontinenza. Maria aveva difficoltà acompiere autonomamente qualsiasi gesto utilealla cura di sé e dei suoi bisogni primari, volevasempre qualcuno accanto, chiamava in conti-nuazione. L’accudimento richiedeva un’atten-zione continua, costante e non c’era modo distaccare il pensiero da quella madre che era lìma non era più la stessa ed aveva bisogno ditutto e di loro.Maria era stata una madre disponibile ed affet-tuosa, aveva un buon carattere ed anche oraspesso cantava, parlava della sua infanzia, chia-mava la propria madre e ringraziava continua-mente i figli per l’attenzione che le davano. Nonl’avrebbero mai lasciata sola, non l’avrebberoaffidata ad una Casa di riposo; era un pensieroche non riuscivano a considerare perché sem-brava loro di abbandonarla, di rinunciare ad oc-cuparsi di lei; per tutti, in modo diverso, conti-nuare ad occuparsi della madre era una questio-ne importante, era il loro modo per dimostrarleaffetto. Le erano grati per tanto che aveva dato,ma soprattutto le riconoscevano che nei mo-menti di difficoltà famigliari era stata loro vici-na, premurosa ed attiva nel sostenere tutti.L’accoglienza al Centro diurno era sembratauna scelta possibile e condivisibile: Maria sa-rebbe rimasta nella propria casa e avrebbe pas-sato la giornata al Centro con operatori che, in-sieme ai figli, si sarebbero presi cura di lei.Fin da subito l’attenzione posta dagli operatoriè stata quella di mantenere la continuità dellecure tra casa e Centro, rispettando le sue abitu-dini, rinforzando e mantenendo le cose che sa-peva fare. Un aspetto centrale dell’accoglienzaè stato quello di accettare le difficoltà di Mariae di instaurare con lei un rapporto di fiduciabasato sull’accettazione e sulla comprensione.Scrive un operatore nelle osservazioni periodi-che: «[…] per me Maria è una scuola per impa-

rare ad accettare i limiti e le difficoltà dell’al-tro[…]. Dopo aver cambiato atteggiamento, nonpiù fretta ma accoglienza, sono cambiate tantecose sia nella relazione con lei che nei risultati ot-tenuti. Inizialmente Maria ha ripreso, in parte, a

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mangiare da sola e a camminare per brevi tragit-ti. Si lava il viso, le mani e si pettina. Se non è ingrado di fare qualcosa non si rattrista più comeprima, non si preoccupa della brutta figura. È di-ventata molto chiacchierona e ride spesso. Il can-to che l’appassionava un tempo continua ad esse-re un momento importante per lei».Maria è rimasta al Centro per tre anni ed il lavo-ro ha avuto come obiettivo guida quello di ga-rantirle giornate serene sia nei periodi in cui ave-va una maggiore autonomia sia quando la sua di-pendenza dagli altri è divenuta totale. Nel tempodedicato a lei si sono ricercate ogni giorno le so-luzioni e le strategie che le permettessero di con-tinuare a riconoscersi nei luoghi del Centro (lasua poltrona sistemata in un luogo specifico – ilsuo posto, i bordi del lavello riconoscibili da uncolore, i piatti e le posate colorate…).Il lavoro con i famigliari è stato costante ed atti-vo. Nella fase iniziale era più improntato allacondivisione e al confronto per garantire lacontinuità assistenziale e le soluzioni migliorati-ve durante la giornata sia al Centro che a casa,successivamente si è più volto a condividere lefatiche dei famigliari e degli operatori.Con l’aggravamento della malattia, Maria erasempre più assente ed immobile ed il tragitto dacasa al Centro e viceversa la agitava molto e leisembrava mal sopportare questi cambiamenti.In questa fase l’esigenza di Maria era probabil-mente quella di stare in uno stesso luogo e conpochi stimoli. I famigliari hanno condiviso que-sta esigenza e dopo alcuni mesi hanno matura-no la decisione di tenere a casa Maria con il so-stegno di aiuti esterni.Dopo le dimissioni dal Centro i Servizi hannomantenuto un rapporto periodico con i fami-gliari e la possibilità di continuare a pensare in-sieme per Maria.È frequente che i famigliari dei malati di de-menza chiedano, come unica soluzione possibi-le soprattutto nelle fasi più critiche, il ricoveroin una casa di riposo. Se con Maria ciò non èaccaduto, è stato sicuramente per la grandemotivazione dei famigliari ma forse anche per ilfatto che la frequenza al Centro diurno e la pre-senza costante dei Servizi hanno lasciato il tem-po alla famiglia per pensare e per organizzarsiin base delle proprie esigenze.

Il signor Pietro* Pietro era sempre irritatoed arrabbiato. La moglie riferiva di non riuscirepiù ad accettare i suoi scatti d’ira, le sue esplo-sioni di rabbia che quasi sempre erano dirette alei. Le giornate erano diventate lunghe da pas-

sare, difficili e con il pensiero sempre rivolto aPietro alla sua fatica, ai suoi umori. Ormai face-va poche cose: giocava un po’ a carte ma, comei bambini voleva sempre vincere, altrimenti siarrabbiava, sistemava e spostava continuamen-te i suoi attrezzi da lavoro senza riuscire ad uti-lizzarli; li guardava, li rigirava, li riponeva, si ar-rabbiava. Anche la presenza dei bambini lo in-fastidiva, non dovevano muoversi, non doveva-no toccare nulla; la convivenza era difficoltosa,a tratti insopportabile.I parenti, gli amici di sempre non li voleva piùvedere e se la moglie parlava con qualcuno vo-leva sapere cosa stesse dicendo e perché si in-trattenesse a parlare: era diventato più sospet-toso. Ricorda che da qualche tempo qualcosastava cambiando, forse da tre, quattro anni siera accorta di cambiamenti a volte inquietanti:su strade abitualmente percorse Pietro chiede-va se girare a destra o sinistra; a volte chiedevadove aveva riposto degli oggetti che abitual-mente si trovavano al loro posto; aveva perso lavoglia di fare cose che prima faceva volentiericome incontrare gli amici per il pomeriggio del-le carte, non voleva andare in luoghi affollati.Non lo riconosceva più e non sapeva cosa fare.Pietro era suo marito, era l’uomo con il qualeaveva affrontato tanti anni di convivenza serenae superato insieme tante difficoltà ma ora sem-brava un’altra persona.Pietro era sempre stato un uomo forte, sicuro disé, decisionista, senza mezze misure. Negli annipassati all’estero aveva lavorato duramente fa-cendosi apprezzare per le doti di grande lavora-tore; aveva sempre evidenziato grandi capacità diapprendimento, capacità manuali, organizzativee comunicative; aveva ricoperto ruoli di respon-sabilità in diversi settori. Sapeva fare un po’ tuttoe aveva una grande disponibilità e versatilità.Amava molto la sua famiglia, amava teneramen-te la moglie ed i figli. Era partito da una fami-glia numerosa, il quinto di dieci fratelli, ed ave-va ricercato all’estero un po’ di fortuna neglianni difficili del dopoguerra; aveva conosciutosua moglie all’estero ed ora vivevano nella casache si erano costruiti al rientro; anche i figli era-no rientrati con loro ed ognuno ora si è costrui-to un proprio nucleo familiare.Una mattina la moglie del signor Pietro ha chie-sto aiuto, dopo l’ennesima esplosione di rabbia

del marito, telefonando ai servizi sociali e chie-dendo cosa poteva fare. Chiedeva se c’era lapossibilità che Pietro frequentasse un Centro,che passasse alcune ore della giornata o anche,in alternativa, se poteva essere accolto in una

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Casa di riposo. In realtà non voleva che suo ma-rito andasse in Casa di riposo, potevano stareinsieme ancora molti anni, lei voleva continuaread occuparsi di lui e anche i suoi figli lo voleva-no, ma in giornata come quelle non riusciva avedere una via d’uscita, non sapeva cosa fare.Chiedeva aiuto per poter sostenere una condi-zione familiare che stava diventando semprepiù difficile e insostenibile: che cosa stava suc-cedendo a suo marito? Cosa stava succedendoa lei e ai suoi figli? Perché ora era tutto così dif-ficile e incomprensibile?Nei colloqui e nelle visite dei giorni successivicon Pietro e i famigliari noi operatori abbiamocercato di capire cosa stava succedendo, di ca-pire le risorse di Pietro e della sua famiglia, lecose positive che ognuno di loro esprimeva nel-l’affrontare la situazione; abbiamo condiviso in-sieme ai famigliari le cose “buone” di Pietro.Ci siamo avvicinati tenendo presente la lororealtà, le loro storie, la loro fatica e la modalitàattraverso la quale, nella sofferenza, stavano af-frontando la quotidianità.Abbiamo cercato di rispondere ai bisogniespressi attraverso un’interazione attiva contutti cercando di comprendere in quali terminisi poneva il problema in quel momento della lo-ro vita. Ci siamo proposti come un sostegno di-namico e creativo nel rispetto delle loro moda-lità di trovare un adattamento al problema. Si è,allora, costruito un sistema di aiuto che si inse-riva nella quotidianità di Pietro e della sua fa-miglia affiancandola.L’assistente domiciliare si reca settimanalmentea casa per incontrare il signor Pietro e la mogliecon l’obiettivo di sostenere la difficile quotidia-nità e condividere con loro quanto comunica-no. Egli “segue” il percorso della malattia dan-do suggerimenti che possano in parte fare da“protesi” ai deficit, ad esempio suggerendo diusare un bicchiere colorato e non quello traspa-rente, altrimenti non viene più visto. L’inter-vento punta anche ad aiutare ad accettare l’ine-vitabile deterioramento cognitivo e in partico-lare la perdita della capacità di pensiero perusare la manualità che è stata un punto di forzadella sua vita.Quanti vivono ed operano con Pietro ricono-scono e ammirano insieme con lui le cose fattesenza pretendere che dimostri come le ha fatte.

L’assistente domiciliare scrive nel diario setti-manale: «[…] un po’ di preparazione prima diandare dal signor Pietro […] riflettendo provoad immaginare le persone che frequentano lamia casa… ce n’è una che aspetto alla quale

posso aprire il mio mondo […] questo non èl’ennesimo incontro con il signor Pietro, è l’in-contro con Pietro».Ed ancora: «Devo vivere con il signor Pietro unmomento di piacevole normalità, accantonan-do tutto ciò che conosco di lui, della sua storialetta dai documenti perché ogni volta emergequalcosa di nuovo […]. La parola e la memoriaa lungo termine gli permettono di rivivere i mo-menti che hanno segnato la sua vita lavorativa».La moglie è presente partecipa, condivide, rivi-ve le emozioni del marito e viene “aiutata” nelcomunicare senza chiedergli continuamenteconto delle cose dette, nel gratificare, nel darglimomenti di tranquillità.La strategia creativa messa in atto dall’assisten-te domiciliare parte dalla considerazione di al-cuni aspetti importanti della dimensione affetti-vo-relazionale. L’assistente domiciliare dà lorola possibilità di esprimere le fatiche, le proprieansie, accogliere le angosce, i sentimenti di soli-tudine e a non porsi nell’ottica di “non c’è nul-la da fare”. Attraverso questo intervento setti-manale l’assistente domiciliare è presente inquesta famiglia e li aiuta, in un costante con-fronto con il proprio servizio.Abbiamo visto quanto sia importante che i fa-migliari e gli operatori non vengano lasciati soliperché questa malattia comunica tanta confu-sione e toglie la capacità di pensare. L’operato-re può ascoltare, condividere, rilanciare e, at-traverso il gruppo di lavoro, può rivedere le dif-ficoltà ed i problemi usando il confronto comestrumento di conoscenza e comprensione.Il gruppo di lavoro attuale è formato da assi-stente domiciliare, assistente sociale, psicologa,medico delle cure primarie, fisioterapista, infer-miera. In momenti ritenuti opportuni, attraver-so il confronto in équipe si possono proporrecolloqui con la psicologa, incontri con l’assi-stente sociale, con il medico, consulenza farma-cologia, ricoveri di sollievo, frequentazionipresso il Centro diurno.Ritornando al signor Pietro, da un anno a que-sta parte non c’è una progressione evidente deldeterioramento della malattia. Attualmentemantiene la manualità rispetto ai suoi bisogniprimari, ma soprattutto continua la capacità diricordare, descrivere, raccontare.La famiglia, in particolare la moglie, sta accet-

tando con maggiore serenità e consapevolezzala malattia e le sue manifestazioni, evita gliscontri diretti con il marito, non lo rimproveraper le mancanze; i famigliari non hanno piùpretese che lui capisca la loro fatica; ora c’è più

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coerenza negli atteggiamenti di tutti. I con-giunti sono attivi nella collaborazione con iServizi; la visita settimanale dell’operatore è unmomento atteso, dove c’è accoglienza e si col-labora per stare bene insieme; vengono tra-smesse le cose significative della settimana inuna relazione di scambio condiviso ed in unclima molto sereno.La consapevolezza del servizio è che la signorae la famiglia “usino” in modo proficuo e positi-vo tutto ciò che il servizio può fare per loro e siavvalgano dell’intervento dell’operatore che hacome strumento la propria disponibilità internae relazionale ed il rinforzo del gruppo di lavoro.

Conclusione Purtroppo i Servizi fanno fati-ca a capire quanto sia importante attrezzarsiora per affrontare una malattia che sta aumen-

tando in frequenza e a cui molte famiglie fannofronte da sole perché gli stessi non hanno di-sponibilità. Certo, i famigliari non hanno la for-za di farsi sentire, sono spesso stanchi e affati-cati. E allora sembra che non ci sia domanda,ma spesso non c’è domanda per il fatto che iServizi non sono attrezzati a dare una risposta.Dare una risposta può significare anche essercinell’ascolto, partecipare, sopportare di condivi-dere per un po’ di non riuscire a trovare solu-zioni adeguate. Anche il solo sapere che non siè lasciati soli può essere un sollievo.

* Il Servizio che ha risposto alla richiesta di aiuto dellafamiglia del signor Pietro è stato il Servizio Sociale delComune di Aviano che, nel lavoro successivamente av-viato, ha attivato l’intervento della psicologa dell’Ambi-to e dei servizi sanitari competenti per territorio.

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«Alcune situazioni – scrive Ot-to Kernberg ne Le relazioni nei gruppi – sono talmente negati-ve che l’unica soluzione per imembri del personale che con-servano il rispetto di sé è quel-la d’andarsene: in altre paroleesistono delle organizzazionitossiche. È incredibile quantospesso i membri del personaleche lavorano in un ambientecosì distruttivo neghino a sestessi che i problemi dell’orga-nizzazione sono insolubili egratifichino in realtà, con que-sto diniego, i loro bisogni pa-tologici di dipendenza senzapoter ammettere la necessitàd’andarsene»1.«Alcune situazioni» dice Kern-berg, dunque non-tutte, il chefa ben sperare. E poiché abbia-mo toccato i bisogni patologicidi dipendenza, ho pensato difocalizzare il mio contributo,prendendo in considerazione iconcetti di “legame” e di “sle-gamento”.Perché proprio il legame? Perdiverse ragioni, la prima: per-ché il legame fa nodo – ciò chel’analisi (dal greco åna-luv w), hail compito di sciogliere senzaeccezione per quel particolarelegame che si chiama transfertcosì determinante in una cura.Esiste dunque un legame checura ma – ecco ciò che interes-sa – lo stesso legame che curapuò diventare patogeno. Èquesto il paradosso che attra-verserà la nostra riflessione sul-

la clinica dell’istituzione psica-nalitica e sulla formazione.Detto nei termini di Roustang– riportati da Kernberg – esi-ste, nella storia del movimento

psicanalitico da Freud in poi,una contraddizione internache consiste in questo: mentrela finalità della psicanalisi è ladissoluzione del transfert, «laformazione analitica mantiene

proprio quel transfert che lapsicanalisi tenta di risolvere»2.La seconda ragione per cui illegame interessa, è il suo soda-lizio con l’odio. Non c’è nulla

che faccia legame come l’odio equesto risulta evidente dallaclinica, a cominciare da quel-l’impaludamento familiare incui i confini fra un componentee l’altro sono colonizzati: tuttisanno tutto di tutti con il risul-tato che nessuno può saperenulla di sé: è il primato dell’in-differenziazione sull’individua-zione, o – nei termini di Kaës –dell’«isomorfismo» sull’«omo-morfismo»3.Ma non è tutto qui. Si tratta diconsiderare l’azione dell’odio,della pulsione di morte e deiloro effetti devastanti nell’am-bito di un’associazione o diuna comunità psicanalitica checi costringono a ridimensiona-re certe forme di idealizzazio-ne gruppale, che, in forza di unautomatismo linguistico quan-to mai impoverito, insistononel porre al centro della vitacomunitaria, l’amore. Voglioricordare, a questo proposito,un passo di Lacan che mi sem-bra illuminante:«L’odio non è soddisfatto dallascomparsa dell’avversario. Sel’amore aspira allo sviluppodell’essere dell’altro, l’odiovuole il contrario, il suo abbas-samento, il suo sbandamento,il suo delirio, la sua negazionedettagliata, la sua sovversione.In questo l’odio come l’amore,è una carriera senza limiti»4.La terza ragione che mi spingead approfondire il problemadel legame nelle istituzioni psi-

canalitiche, è ancora un pas-saggio di Lacan contenuto ne L’Étourdit: «La mia impresasembra disperata perché è im-possibile che gli analisti formi-

Dentro o fuori

Paola Zaretti

Tiburzio Donadon, Disegno per Santa barbara.

FORMAZIONE

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no gruppo. Ciononostante,quello psicanalitico è proprioil discorso che può fondare unlegame sociale ripulito daqualsiasi necessità di gruppo.È il cammino che io traccio»5.Va sottolineato che qui Lacannon si pronuncia contro il lega-me ma contro la «necessità digruppo»: a dire che il legamefra un individuo e un grupponon può e non deve essere ne-cessario nel senso che nessungruppo può rappresentare perun soggetto qualcosa dell’ordi-ne di una appartenenza, di unadipendenza. Il gruppo cui La-can fa riferimento è il gruppo-massa cui Freud ha dedicatonon poche opere che vanno dal1913 al 1938: da Totem e tabù(1913) a Psicologia delle folle(1921) da Il disagio della civiltà(1929) a L’uomo Mosè e la reli-gione monoteistica (1938).Si tratta dunque di vedere sesia davvero possibile che ungruppo che fa parte di un’isti-tuzione psicanalitica funzionidiversamente da un gruppo-massa addestrato ad “ululare”insieme, e a quali condizioniciò sia possibile. Sappiamoche, secondo Bion, è impensa-bile che un «gruppo di lavoro»o «razionale» non sia, al tempostesso, un «gruppo in assuntodi base» e ciò è quanto bastaper comprendere che pensaread un gruppo a-conflittuale èpura utopia.Queste le tre ragioni per cuimi interesso al legame, in se-quenza: il transfert, l’odio, illegame sociale fra analisti – dicui Lacan ci dice davvero trop-po poco per poterci acconten-tare –, sono strettamente cor-relate e ci interrogano sull’isti-tuzione psicanalitica come og-

getto della clinica.Credo che senza un lavoro pre-liminare in tal senso, sia diffici-le pensare ad una “comunità”nei termini di un luogo di cura

per qualcuno: una comunità in-capace di rendere inintelligibilia se stessa i propri meccanismidi funzionamento, incapace diprendersi cura si sé, non puòavere né la pretesa né il dirittodi curare nessuno. Si trattadunque di costruire una teoriapsicanalitica dei legami interniad una comunità analitica.Scrive a questo proposito Kaës– uno degli autori più autore-voli che si è occupato del pro-blema – ne Il gruppo e il sogget-to del gruppo: «L’idea stessache una istituzione possa esse-re psicoanalitica per altro cheper la qualità psicoanalitica deisuoi membri è, fin dall’origine,un’idea audace e fragile: essadipende forse dalle categoriedell’impossibilità tra i compitidell’educazione, della politica,della psicanalisi… Per prende-re la misura del compito da ef-fettuare per affrontare que-st’impossibile, nuovo Zuider Zee da prosciugare, dovrebbeattuarsi un’altra rivoluzioneteorica e metodologica, in gra-do di superare le speculazionifreudiane e postfreudiane suigruppi e sulle istituzioni e ca-pace di mettere alla prova leipotesi da me appena delinea-te. Nel caso contrario, le istitu-zioni della psicoanalisi conti-nueranno a gestire con piùperdite che profitto per la psi-coanalisi i transfert individuali,le funzioni dell’Ideale, i riferi-menti identificatori, i contratti,patti e alleanze inconsce – edunque una parte dell’incon-scio – le nostalgie religiose, leinsopportabili solitudini»6.Come dire – con Bleger – chele istituzioni analitiche e ilgruppo che le abita diventano«il quadro necessariamente

non pensato e non simbolizza-to del processo psicanalitico».Ne consegue che è proprio ilcaso di porsi alcune domandesul concetto di formazione

chiedendosi, per esempio,quale genere di formazione – edi trasmissione – possa esseregarantita all’interno di una co-munità psicanalitica funzio-nante esclusivamente sugli «as-sunti di base» di Bion ed inca-pace di compiere quella trans-formazione, necessaria, dallamentalità primitiva, tipica del-l’orda descritta da Freud, al«gruppo razionale» o «di lavo-ro». Possiamo dire, insomma,che non c’è formazione senzatrans-formazione.Questo principio vale sia nelcaso in cui ci si riferisca alla cu-ra individuale del setting, sianel caso in cui si faccia riferi-mento a un gruppo, a una co-munità, a un’associazione. Unindividuo formato è un indivi-duo sempre in grado di trans-formarsi, e, analogamente, unacomunità, può essere luogo diformazione solo in quanto ècapace di trasformarsi attra-verso una “crisi mutativa”.Aspetto primitivo e aspettoevoluto del gruppo non sonodunque opposti: per Bion, lacrescita del gruppo non consi-ste in una separazione fra l’a-spetto primitivo – dominatodal “protomentale” – e l’aspet-to evoluto proprio del grupporazionale: «È soltanto quandol’evoluto entra in risonanzacon il primitivo e lo strappa alsuo isolamento che vi è realesviluppo del gruppo e dellapersonalità dell’individuo»7.Ma che significa strappare ilprimitivo al suo isolamento edentrare in risonanza con esso?Significa seguire la genesi e latrasformazione che avviene inun gruppo cogliendone i di-versi momenti logici che van-no dal momento “fantasmati-

co” – che include il momentooriginario e quello che Kaëschiama il «primo organizzato-re» –, al momento “ideologi-co”, al momento “figurativo

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transizionale” e, infine, al mo-mento “mitopoietico”.Di questi quattro momenti –che hanno molto a che fare conil legame in quanto ne seguonoin qualche modo l’evoluzione –troviamo una descrizione pre-cisa nel testo di Kaës, Il gruppoe il soggetto del gruppo.Il primo momento – fantasma-tico – comprende il momentooriginario e quello che Kaëschiama il «primo organizzato-re» psichico. In questo mo-mento – in cui i gruppi internivengono esternalizzati in vistadi un luogo determinato da oc-cupare – tutti i componenti delgruppo vengono unificati inun’unica massa grazie all’illu-sione isomorfica che va nelladirezione dell’indifferenziazio-ne piuttosto che dell’individua-zione. In questa fase il gruppofunziona sulla base di un pattoimplicito. Esso è la costruzionenarcisistica comune dei mem-bri del gruppo (patto narcisi-stico) che deve essere mante-nuta contro ogni irruzione chemetta in discussione assegna-zioni di ruolo, di senso, di ripa-razioni narcisistiche.Il secondo momento – ideolo-gico – ha di mira il manteni-mento, ad ogni costo, anchecon la violenza, dell’assegnazio-ne e del senso. Si assiste, inquesta fase, ad una riduzionedell’attività fantasmatica e adun appiattimento delle articola-zioni differenziali dei posti as-segnati a ciascuno, ad un impo-verimento del legame di grup-po. A un predominio dell’atti-vità narcisistica e a una forte ac-centuazione dei confini fra den-tro e  fuori, corrispondono imeccanismi di difesa: proiezio-ne, diniego, scissione. Il gruppo

– oggetto transizionale – è di-ventato un “feticcio”.Il terzo momento – figurativo-transizionale – è un momentoin cui l’apparizione della fun-

zione alfa di cui parla Bion, fa-cilita l’introiezione di oggettibuoni e la capacità, da partedell’Io, di ammettere le rap-presentazioni rimosse. Il ripie-gamento narcisistico del mo-mento precedente permette algruppo l’acquisizione di unacerta sicurezza e, conseguente-mente, il superamento del mo-mento ideologico precedente,segnato da processi di proie-zione inidonei alla trasforma-zione. Ha inizio un processo disimbolizzazione e una differen-ziazione all’interno del gruppo.Il quarto momento – mitopoie-tico – è il momento di quelloche Bion chiama gruppo di la-voro. Si assiste ad una distinzio-ne fra lo spazio psichico indivi-duale e lo spazio psichico grup-pale e ad una capacità di diffe-renziazione fra le cose e le rap-presentazioni che va a discapitodell’illusione gruppale. Il mo-mento mitopoietico prevede illutto del gruppo come oggettoma questo lutto – ecco il puntoteorico interessante su cui ri-flettere – è possibile a condizio-ne che il gruppo non sia unprolungamento del soggetto. Èil momento della posizione de-pressiva di cui parla Klein, unafase in cui l’indebolimento delgruppo rappresenta un perico-lo per i suoi membri. L’esitopositivo di questo momento ècaratterizzato da un nuovo pe-riodo gruppale segnato dallaindividuazione personale ed èparticolarmente creativo.I momenti descritti da Kaës equi sintetizzati, rappresentanoi diversi stadi di una proces-sualità necessaria ad un grup-po per farne qualcosa di diver-so da un semplice aggregatoumano, per farne quell’«invo-

lucro» di cui ci dice Anzieu, invirtù del quale è possibile tene-re insieme gli scambi, il pensie-ro, le parole. Questo processonon è né semplice né lineare in

quanto suppone la trasforma-zione del legame isituenteun’associazione.Seguiamo ora, dopo questicenni preliminari, alcuni mo-menti del saggio di Kaës dedi-cato a questo tema e contenutoin una raccolta di saggi di au-tori teoricamente impegnatisulla clinica istituzionale inti-tolata Sofferenza e psicopatolo-gia dei legami istituzionali. Co-me già detto, sono due le ideeche l’autore intende svilupparee che rappresentano il para-dosso delle istituzioni di cura:l’idea che il legame cura e l’i-dea che il legame curante è su-scettibile di diventare patoge-no. Ciò che il nostro autorevuole costruire non è una teo-ria sociale o una teoria psicolo-gica del legame: ciò che lo inte-ressa – e per questo lui interes-sa me – è una teoria psicoanali-tica del legame riguardante ildesiderio inconscio, il deside-rio dell’altro e l’oggetto del de-siderio dell’altro. Essendo ilsaggio piuttosto complesso,rinvio, per un maggior ap-profondimento, alla sua letturaintegrale limitandomi a sinte-tizzare quella parte dedicataagli «indicatori della sofferen-za istituzionale». Quali sonogli indicatori che ci mettonosull’avviso che siamo in pre-senza di una sofferenza del le-game istituzionale?Sono, per un verso, la paralisi ela siderazione, ma anche, percontro, l’iperattivismo e unagitarsi vano ed improduttivonel senso di un’evidente spro-porzione fra l’impiego delleforze dissipate e gli obiettiviraggiunti. Questi sintomi «nontestimoniano soltanto la man-canza di spazio per pensare,

essi contribuiscono a mantene-re fuori uso il pensiero». Mac’è di più: «I meccanismi di

 proiezione massiccia mirano asbarazzarsi, nello spazio inter-

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no delle istituzioni, di certisoggetti, o, all’esterno, di unoggetto pericoloso, inconteni-bile, ritenuto la causa di unasofferenza intollerabile. Leidentificazioni proiettive mas-sicce mirano a un controllodraconiano e onnipotente de-gli oggetti persecutori, in mo-do tale che l’altro si comportiesattamente come lo esige ilsoggetto che utilizza questomeccanismo di difesa: con laregressione paranoide… Inmancanza di questi meccani-smi di difesa arcaici, la forclu-sione e il diniego in comuneimplicano operazioni di scis-sione dell’Io e dell’oggetto.Misure del genere induconoconfusione fra i confini dell’Ioe i suoi prolungamenti nei dif-ferenti spazi del legame inter-soggettivo e istituzionale. Essepossono essere all’origine diazioni violente e congiunte suoggetti vittimizzati…»8.La patologia istituzionale cheKaës definisce, con pertinenza,«sofferenza dell’inestricabile»,deriva da un «disturbo dellafondazione e della funzioneistituente». Di istituzione cen’è troppa o troppo poca macapita anche che l’istituzionesia inadatta a svolgere la suafunzione a causa di una inade-guatezza fra la struttura di cuiè capace e il compito primarioche si è data. Altre cause disofferenza legate all’istituzionedipendono dagli «ostacoli allarealizzazione del compito pri-mario» o, ancora, ai «disturbidella costituzione dell’illusionefondatrice e ai difetti della di-sillusione». C’è, infine, unasofferenza legata alla riduzionedello spazio psichico dovuto al«prevalere dell’istituito sull’i-

stituente, con lo sviluppo bu-rocratico dell’organizzazionecontro il processo, con la su-premazia delle forme narcisi-stiche, regressive, denegatici e

difensive che predominanonell’istituzione»9.Ma c’è un altro modo di ab-bordare la questione del lega-me nell’istituzione ed è quellodi considerarlo dal versante –speculare – dello slegamento.Legamento e slegamento sonodue modi per dire, con terminidiversi, del dentro e fuori, dellacongiunzione e della disgiun-zione, della associazione e delladissociazione.Di questo aspetto – della pre-senza, all’interno di un’associa-zione, di movimenti di disso-ciazione tali da comportare ildisfacimento patologico dei le-gami – si è occupato Jean Pier-re Pinel. La sua tesi è che lo sle-gamento patologico dei legamiistituzionali deriva dalla negati-vità, dalla «carenza dell’appa-rato psichico gruppale (Käes,1976b) di articolare la forza e ilsenso a mantenere uno spaziodi simbolizzazione che accolga,gestisca e trasformi gli elementipulsionali insensati che immo-bilizzano le formazioni psichi-che comuni»10.

Uno degli indizi utili ad aller-tarci sullo slegamento dei lega-mi istituzionali, è la messa inatto di procedure sacrificali oesclusive e la scelta del caproespiatorio: «…il soggetto vieneattaccato a vantaggio dell’og-getto-istituzione», attraverso«degli acting out perversi di-struttori dei legami più elabo-rati e della creatività»11.L’alterità viene rigettata e conessa vengono ripudiate le dif-ferenze generazionali, sessuali,culturali. Siamo in pieno arcai-smo al di qua della posizionepsico-paranoide in cui i pen-sieri diversi dal discorso

conformista vengono attaccatie distrutti. È la fase dell’incre-mento della distruttività e del-l’odio proiettati sull’altro:l’oggetto cattivo. Un altro se-

gno inequivocabile di slega-mento patologico dei legami, ècostituito dall’eliminazionedelle differenze. «Si crea – di-ce Pinel – una confusione frafini e mezzi, atto parola e pen-siero, tra registro professiona-le e privato». È la via del mara-sma in cui la ricerca del falsoconsenso e il mito di un fun-zionamento unitario e unani-mistico trova il massimo delpotenziamento.Sono quattro, per Pinel, le for-me di scioglimento del legameistituzionale: la crisi mutativa,la crisi esplosiva, l’usura e ladistruzione dell’istituzione. Laprima rappresenta un momen-to necessario alla ripresa e allatrasformazione dei legamiaprendo lo spazio ad un muta-mento della fase). È, nell’aprés-coup, una fase creativa per ilgruppo: «L’irruzione energeti-ca che risulta da questo slega-mento temporaneo, è necessa-ria all’emergere di un processocreatore. Queste crisi mutativecorrispondono spesso a unmovimento di rifondazione epermettono un rilancio dellaquantità e della qualità dell’in-vestimento».La crisi caotica consiste nel-l’incapacità di trovare gli stru-menti efficaci per superare lecrisi mutative: uno di questistrumenti è la capacità di ri-trattazione del “negativo” e laprefigurazione di spazi possi-bili che permettano «la ripresae la trasformazione di elementifino allora negativi e forclusi».Gli effetti di questa incapacitàsono di seguito descritti: a)una cronicizzazione della crisi;b) una distruzione contagiosadei sistemi dei legami; c) unaviolenza invasiva di tutti gli

spazi istituzionali; d) una re-gressione allo stadio dell’orda.È la fase in cui i fantasmi di on-nipotenza vengono agiti e incui l’accelerazione pseudo-as-

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sociativa è estremamente dan-nosa in quanto impedisce algruppo di lavorare sulla rap-presentazione. Inoltre, man-cando gli spazi intermedi, imateriali psichici non possonoessere trattati come oggettod’elaborazione, come dellerappresentazioni analizzabili.L’esito di questa crisi esplosivasegue vie diverse: la distruzio-ne dell’istituzione, l’usura, laripresa mutativa.Ma quali sono gli elementi “at-trattori”, gli elementi che atti-vano lo slegamento patologicodel legame istituzionale?Concluderò dicendo qualcosasu questo punto importante.Secondo Pinel sono tre e il lo-ro denominatore comune è co-stituito dalla “negatività”.Questi attrattori dello slega-mento generano «una catastro-fe del pensiero», producendouna desimbolizzazione. Diquesti tre tipi di negatività,considereremo quello che mag-giormente ci interessa, ovverola negatività che trae originedalla fondazione istituzionale.Si tratta di una negatività di ti-po ideologico, di una «negati-vità d’obbligazione» (Kaës), lacui fonte è nelle origini dell’i-stituzione. Vediamo come,chiedendoci, per esempio, per-ché venga in mente a qualcunodi fondare qualcosa come un’i-stituzione psicanalitica e se siaun caso che il mito della fonda-zione in campo psicanaliticosia un mito quasi esclusiva-mente maschile.Quel che ci dice Pinel è cheogni istituzione nasce da undesiderio di differenziazione:«Perché si sostituisca il movi-mento creatore, perché il desi-derio dei fondatori prenda for-

ma e realtà, spesso è necessarioche questa differenziazione siaffermi in modo radicale, ossiache una separazione si enuncicome una frattura. Tale rottura

si afferma come un rigetto del-le vecchie istituzioni che, daistituzioni di obbligazione, ac-quistano lo statuto di cattivooggetto violentemente ripu-diato. Il violento movimentodi sottrazione alla presa cheispira creazione di una nuovaistituzione non è che una figu-ra appena spostata dell’ucci-sione del fondatore descrittoda Freud in Totem e tabù. Lafondazione quindi s’accompa-gna spesso a un rigetto o a unascissione associata a un dinie-go originario. In questa linea,l’ideologia fondatrice si edificasull’espulsione di una partedella realtà in riferimento a unnegativo il cui destino si rive-lerà decisivo nel divenire deilegami istituzionali. La parterigettata che fa da contro-mo-dello può essere oggetto diuna co-rimozione e riappariresuccessivamente sotto una for-ma critica ma trattabile dell’in-sieme a prezzo di alcuni riag-giustamenti. A contrario, puòessere oggetto di una forclu-sione e diventare l’analogo diuna cripta (Abraham 1978) in-cistata nelle fondamenta deilegami. In questo caso la vio-lenza distruttiva e/o la perver-sione costituiranno gli indizielettivi del ritorno degli ele-menti forclusi.Il brano – lungo e denso – èimportante considerato il nes-so logico evidenziato dall’au-tore, fra il concetto di  fonda-zione e il concetto di differen-ziazione. In base a tale nesso,appare evidente che il deside-rio di fondazione è l’effetto diun fallimento: il fallimento delprincipio dialettico di diffe-renziazione e di individuazio-ne in seno ad una Comunità o

Associazione che dir si voglia.Come dire che la fondazione èun modo per realizzare un’in-dividuazione resa impossibiledal fallimento della dialettica

individuo-gruppo, Uno-Altro.È una prima conclusione sucui riflettere perché, se le cosestanno così, le associazioni la-caniane fondate in Italia sonola testimonianza dell’impossi-bilità di garantire qualcosa didiverso da una formazione iso-morfica – a massa – piuttostoche una formazione alla diffe-renziazione. Responsabile ditale genere di formazione sa-rebbe quella che Pinel defini-sce «la parte rigettata che fa dacontro-modello» che esclude,per definizione, ogni movi-mento in senso dialettico, insenso pluralistico.La conseguenza di questaideologia fondatrice – il cuiscopo è di tenere lontano ilcontro-modello e che non vasenza una rottura radicale e ilfantasma di una creazione to-talmente diversa – oscillerà fra«un negativo d’obbligo e unidolo che si tratterà di legitti-mare ad ogni costo».Inutile dire, che in queste con-dizioni, la sola risposta possibi-le a tutto ciò che appare un pe-ricolo per la fondazione – criti-ca, dubbio, ambivalenza – èl’autoreferenzialità.

1. O. F. Kernberg,  Le relazioni nei gruppi , pag. 80.2. Ibid., pag. 254.

3. R. Käes, Le teorie psicoanalitichedel gruppo, pag. 76.4.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I .5.  J. Lacan, L’Étourdit, 1972.6. R, Kaës,  Il gruppo e il soggettodel gruppo, pagg. 385-386.7. C. Neri, Gruppo, pag. 29.8. R. Kaës, in: “Sofferenza e psico-patologi dei legami istiuiti” in: Soffe-renza e psicopatologia dei legami isti-tuzionali , pag. 35.9. Ibid., 37.

10.  J. P. Pinel, “Lo slegamento pa-tologico dei legami istiuzionali” in:Sofferenza e patologia dei legami isti-tuzionali , pag. 60.11. Ibid., 65, 66, 68, 69, 78, 79.

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Nell’anno 2004 il Dipartimen-to di Salute Mentale in colla-borazione con il Comune diPordenone ha organizzato uncorso di lettura e scrittura au-tobiografica dal titolo Otto vol-te Io. Questo corso rientravanelle attività di socializzazionee di inclusione sociale promos-se dal nostro Servizio. Il corsosi è sviluppato in otto incontri,da qui la scelta del titolo Ottovolte Io e Non ho l’età, perchénon c’è un età anagrafica perricordare la propria storia.Ogni incontro si svolgeva pres-so la sede dell’Ufficio Culturaall’ex Convento San Francescoe aveva una durata di quattroore, una volta alla settimana.La conduzione del gruppo eraa cura di Patrizia Rigoni, socio-loga e scrittrice di Trieste masoprattutto esperta nella con-duzione di gruppi di lettura escrittura autobiografica.Questo corso ha visto la parte-cipazione di cittadini interessa-ti, di operatori del Dipartimen-to di Salute Mentale, con quali-fiche diverse e appartenenti aUnità operative diverse, diun’operatrice della Cooperati-va Fai, e di Utenti del Diparti-mento di Salute Mentale, perun totale di 17 partecipanti,con un’età compresa tra i 20 e i60 anni. Il corso è stato peroperatori e pazienti una scom-messa in quanto anche se lepersone avevano scelto volon-tariamente di condividere que-

sta esperienza, portavano consé una patologia psichica im-portante. Su nove utenti, ottohanno terminato il corso. I cit-tadini che hanno partecipato,

non conoscevano la provenien-za degli altri partecipanti.Il corso ha attraversato le variefasi della vita: infanzia, adole-scenza, maturità e vecchiaia se-condo una scansione program-mata. A ogni incontro, veniva-no letti a più voci dei brani let-terari scelti dalla docente esuccessivamente veniva chiestodi scrivere altro, individual-mente o in coppia. È proprioquesto “altro” nato, cresciutodurante il corso che ha datovalore a questa esperienza.Tutti siamo stati per otto voltescrittori, partecipanti e com-ponenti di un gruppo. Adognuno è stata data la possibi-lità di riportare alla luce i pro-pri ricordi, momenti e situazio-ni ancorati al passato condivi-dendo in gruppo gioie e turba-menti, facendo riscoprire il va-lore del linguaggio e delle pa-role come veicolo fondante diogni incontro. L’aspetto piùimportante è stato che il rac-

contarsi e ri-raccontarsi insie-me ha permesso a ciascuno disuperare l’aspetto angosciosodella solitudine e della diffi-coltà a comunicare con l’altro.

Infatti, non è stato un raccon-tare per compiacere l’altro maper cercare di farsi nuove do-mande e darsi nuove risposte.Su quel tavolo verde c’erano 17penne, 17 teste, 17 vite, 17 sto-rie “ricordate”. Non esistevanooperatori o pazienti, solo per-sone con una grande voglia diparlare, di leggere e ascoltare.Per otto volte siamo stati pro-tagonisti della vita degli altri,per otto volte gli altri sono sta-ti protagonisti della nostra vita.Questa esperienza mi confer-ma l’idea che per essere opera-tori del sociale (e non solo“psichiatrici”) dovremmo farnostro l’atteggiamento di“creare le possibilità”, di apri-re spazi in cui le diversità sog-gettive si incontrino per cono-scersi e farsi meno paura. Que-sto atteggiamento di apertura eciò che ci accompagna quoti-dianamente e che ci permettedi utilizzare ciò che siamo eche abbiamo per guardaresempre un po’ più in là.Così anche quest’anno, in col-laborazione con il Centro Ser-vizi del Volontariato del FriuliVenezia Giulia, gli Istituti su-periori Liceo «Leopardi-Majo-rana», l’Istituto d’Arte di Cor-denons, le associazioni «EnzoSarli», «APA» e «AITSaM», ènato un percorso creativo sullepaure chiamato Attenti al Lupoche verrà esposto in modo ap-profondito nel prossimo nume-ro di Atti & documenti in uscita

a settembre.Aggiungiamo ora alcuni scrittiprodotti e concludiamo con leimpressioni di tre operatori in-tervenuti al corso Otto volte Io.

Raccontarsi per conoscersiFrammenti di un’esperienza di gruppo

Chiara Schifilliti e Patrizia Zanet

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La realtà è il mio sogno.I miei sogni sono realtà e li dimentico.«Esistenza fatta di certezze.È un’idiozia ascoltare le “voci” bianche e le vocinere?».Il momento in cui capirò di più e avrò imparato

sarà tutte le volte che morirò a me stesso…e per così dire, mai mi dispiace invecchiare,conservandomi bambino nella profondità delmio essere.Ma forse questo è un sogno.Prendo e vado…… e sempre lo credo presente il tempo chescorre veloce rimane solo una sensazione.«Non esiste». CiaoChi ero, chi sono, chi sarò, non è tanto unaffare che mi riguarda.essere come si è adesso vale più di tutto quelloche si è fatto e costruito.

Gianni

La durata del tempo per meè lo svegliarsi la mattina e vedere una giornatasoleggiata,è il guardare la siepe sul muro di fronte la miacamera maè anche sentire la pioggia di sera in primavera od’inverno,

è starmene a casa sul divano a guardare latelevisione,è ripercorrere la stessa strada per tornare a casaogni giorno,è farmi un giro in bicicletta attorno a casa mia efermarmi alla solita edicola per prendere ilgiornale, è ricevere una mia amica,è andare al mare ogni estate nello stesso posto,è uscire la sera,è andare a dormire nel mio letto ogni notte.

Maria Vittoria

Sì, quella sono proprio io.Seduta comoda sul seggiolino imbottito,il visetto disteso e sorridente come in ascolto.Ben tenuta dalle mani di papà,un po’ vezzosa, con la mano che tiene il ditinoinfilato in un pizzo della gonnellina;e la mamma e il papà sorridenti, semiaccovacciati,uno da una parte e una dall’altra.Pare che mi stiano raccontando una storia

davanti al fotografo:la storia di quella fotografia.

Giulia

Mamma ti somiglio un poco e sempre tisomiglierò io,ultimo esperimento,come tu somigli similmente alla tua mamma.Lui (il nonno) non l’ho mai conosciuto perchémorto in guerra ma,

la nonna non ne parlò mai né mai, lo ricordòalla mamma e alle zie.Parlava poco, quasi mai.Non si lamentava mai, tranne qualche volta pergli occhi e le gambe, e chissà,non chiedeva mai aiuto per leggere o salire lescale al piano dove si trovava la sua camera ealtre due stanze.Pur vegliarda, nel tempo libero leggeva sempre,specialmente un libro di preghiere e devozioni.La sua forza la trovava lì, in cucina, vicino allastufa a legna in completa solitudine e assorta daqueste letture.Nessuno le chiese mai come poteva vederequelle minuscole scritture.Ah… la testa e gli occhi e il resto che nessunocomprendeva di lei.Era una creatura senza parole si può dire,e se però c’era qualcosa per farsi capire lebastava questo:o uno sguardo, un movimento del corpo,un cenno anche per il saluto o per chiedere:«come stai?».

Nonna Angela, quasi una donna misteriosa.Poche domande le si rivolgevano, le cose lecapiva e agiva o ti fissava;poi sembrava indifferente.Se doveva esserci, c’era quasi sempre,se succedeva qualcosa allora forse parlavacomunque poco: l’essenziale.Riusciva a trasmettere e comunicare con meattraverso il suo sguardo.

Gianni

Io sono io, uno dei miei io, nella foto da sola nelgiardino.Da una parte indica uno star sola perché sivuole star sola.Dall’altra parte un sentirsi emarginati; unadifficoltà a dialogare, in senso ampio.Non voglio il latte materno e non c’è verso didarmelo.È l’immagine che ho sempre teso dare di me:io ce la faccio a far da sola, solo a 18 mesi stavoin piedi.Sensazione di bello nel prato con le margherite.Sole che scalda e non brucia.

Isa

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Dormi, dormi, dormi, ah… sei tu?S’accendono pupille… attorno si dilatano, siposano… rimangono nell’ombra, e aspettano…Dormi, dormi, dormi, ah… sei tu?Sepolte ancora vive branchie che si affannano,hanno denti di falena ma nell’ombra si

spengono.Ah… sei tu?Nel vuoto di vertigine anche l’ovvio è in bilico;la notte ha un occhio solo appeso in ombra,riflette in ombra e canta in ombra finché avràun’ombra di sobrietà!No! Sei tu?Per altri è già mattino, per me cielo capovolto.Il sogno dorme, arriva, aspetta l’onda, aspettal’ombra e canta l’ombra e toglie l’ombra…Ritornerà!

Andrea

I bambini occupano lo spazio libero intorno aloro,libero molto di più di chi segna il confine dellaloro libertà, che è il loro tesoro.

Giulia

Affrontare emozioni dimenticate,affrontare situazioni nuovemi ha fatto ricordare chi sono,mi ha fatto dimenticare brutti momenti,mi ha stupito.Non mi ha fatto diventare, però, una scrittrice.

Maria Vittoria

Isabella Flaborea L’esperienza del gruppo èstato un momento di forte emozione per me.Mai prima avevo avuto la possibilità di condivi-dere con altri colleghi, utenti del Servizio e sem-plici cittadini un momento così intimo comequello del parlare di sé, dei propri ricordi, dei

propri sentimenti, delle proprie paure ed emo-zioni. L’atmosfera degli incontri era sempremolto accogliente e come operatore mi ha moltocolpito quanto i pazienti gradissero tanta vici-nanza unita alla gradevole sorpresa che le storiedi noi tutti potevano avere dei punti di contattoo similitudine. Questo ha evidenziato quanto siatalvolta un nostro pregiudizio l’affermare che,lepersone affette da disturbi psichici siano cosìlontane, incomprensibili e diverse da noi.

Luana Miol Dall’esperienza di Otto volte Io,né è scaturita una forma del prendersi cura del-l’altro stando accanto all’altro e a noi stessi. So-no stata sorpresa da una piacevole confusionedi ruoli che permetteva lo sfumarsi di rigida as-

simetria, riportandoci al concetto di gruppo. Lapatologia aveva perduto il suo valore d’incon-tro con gli “addetti ai lavori” per lasciar spazioin quei fogli bianchi a storie di vita, a soggettiche per otto volte si scoprivano e si incontrava-no semplicemente accomunati dalla fatica nelricordare e nel condividere. Credo si possa direche, si sia realizzato un avvicinarsi all’altro spo-glio del suo ruolo sia esso professionale o dimalato, permettendo l’apertura di un discorsotra persone. Questo avvolte manca nel nostrolavoro sia in èquipe che con gli utenti, perchésiamo spesso intrappolati nei nostri abiti istitu-zionali e mentali.

Patrizia Rigoni Avevamo la consapevolezzadi aver costituito, grazie alle nostre parole, un

gruppo di lavoro, un gruppo che è passato dauna sorta di assembramento casuale ad una sor-ta di tessuto organizzato, affettivo, intellettuale,poetico, capace di ascoltarsi e di rispondere alleinquietudini degli altri come alle proprie.

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L’ORCOLAT

6 Maggio 1976

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l’orcolat

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Sono passati trent’anni dallanotte tremenda del 6 maggio,che nella memoria storica deifriulani si è inserita nella lungaserie delle loro grandi sventu-re. Trent’anni, ma sembra ieri,almeno per coloro che a quel-l’epoca erano già adulti e pos-sedevano maturità di cono-scenze e di giudizio. Quelli cheerano bambini conservano in-vece una quantità d’impressio-ni disordinate, mescolate allarinfusa. Coloro che eranotroppo piccoli, o non ancoranati, hanno trasformato i rac-conti dei padri e dei nonni inuna sorta di leggenda tragica,dai contorni favolosi. Cometutti i grandi fatti storici gremi-ti di distruzione e di morte, an-che il sisma del 1976 sviluppòuna serie di dicerie tra favola erealtà. Corse voce che il lago diCornino si fosse messo a ribol-lire, poco prima del sisma.Qualcuno credette di ricono-scere in Nostradamus i cennidi una profezia che ci riguar-dava: le “case di Pietro” (lechiese?) che sarebbero crollatea centinaia. Altri riferirono chesismologi giapponesi, chiamatiper una consulenza, avevanoricavato dalle loro osservazioniche nella zona dell’epicentrov’erano i segnali per ritenereche stava per formarsi un nuo-vo vulcano. Con quali conse-guenze era facile immaginare.Però le testimonianze giornali-stiche raccolte in questo libro

antologico non recano alcunatraccia di questo versante favo-loso della catastrofe friulana.Gli articoli, specialmente quel-li nati a ridosso dell’avveni-

mento, apparsi sui principaliquotidiani del nostro Paese, ol-tre che, ovviamente, su quelli

regionali, sono soprattuttocronache di cose viste, sentite,colte nel momento in cui acca-devano; legate per lo più a unalocalità precisa: Majano, Ge-mona, Osoppo, Buia, Forga-ria, Artegna, Tarcento, Tricesi-mo, Trasaghis, Sequals, Mog-gio, Cassacco e via dicendo.Sono la cronaca frammentaria,non ancora organica, di ciòche i giornalisti avevano sottogli occhi: le grandi distruzioni,i centri storici crollati, i tettifranati, le travi sporgenti, imucchi di macerie, sotto lequali si trovavano ancora cen-tinaia o migliaia di persone,molte ferite, molte ormai dece-dute. I sopravvissuti sono de-scritti come sonnambuli vaga-bondi e trasognati. Si aggirava-no tra le macerie disorientati,come fossse loro sfuggito dimano il filo d’Arianna della lo-ro esistenza, e non fossero an-cora in grado di riprenderlo.Molti di essi sembravano nonrendersi ancora ben conto chenella catastrofe avevano per-duto dei familiari, figli, madri,padri, mogli, o addirittura tut-ta la famiglia. La luce natural-mente era venuta subito amancare. I telefoni non fun-zionavano. Alcuni terremotatiavevano già cominciato a ri-muovere le macerie nella spe-ranza di ritrovare qualche pa-rente ancora in vita. Altri era-no seduti da qualche parte,immobili, sconfitti da un desti-

no infinitamente più potentedi loro. Qualcuno aveva già ac-certato di non avere subìto del-le perdite, tra i parenti, e per-ciò stava tentando di recupera-

Alle nove della sera

Carlo Sgorlon

Trent’anni fa, il sei maggio1976, il terremoto – l’orcolat,nella parlata popolare – oltre aprovocare più di un migliaiodi morti cambiò la storia e idestini di parecchi paesi e per-sone nelle provincie di Udinee Pordenone. Ricordiamo queltragico evento pubblicandodue testi. Il primo è di CarloSgorlon, ed è l’introduzionedel libro 6  Maggio 1976 . Terre-moto in Friuli pubblicato dalleEdizioni Biblioteca dell’Im-magine di Pordenone. Segueun testo che racconta il dopoterremoto, con la testimonian-za di Giacomo Miniutti, chedescrive anche gli errori fattiin quei concitati momenti. Lefoto di queste pagine sono di

Elio Ciol e di Aldo Missinato.

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l’orcolat

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re qualche supellettile. Allinea-va gli oggetti trovati, a volte in-tatti, a volte irrimediabilmentedanneggiati, nelle vicinanzedella propria casa, spesso com-pletamente crollata e irricono-scibile. Lo faceva con amore,con delicatezza, con modi cherivelavano il grande affetto chelo legava alla propria abitazio-ne, spesso frutto del lavoro edei risparmi di una vita intera,di dure fatiche sopportate daemigranti, per lunghe stagioni,o anni, o decenni. I cronistispesso, anche quelli venuti dalontano, dal Piemonte, da Mi-lano, da Roma, erano in pos-sesso di qualche informazionestorica e culturale sulla gentefriulana. Conoscevano qualco-sa del dramma secolare della

emigrazione e delle tante sven-ture storiche, soprattutto delleinvasioni subite attraverso i se-coli. Nei loro scritti si mostra-no stupiti del comportamento

dignitoso, sobrio, controllatodi questi contadini o artigianimontanari, che non piangono,non si disperano, non si ab-bandonano al loro dolore inmodi agitati, urlanti, come so-litamente avviene non soltantotra la gente abituata, per costu-me secolare, ad esprimere ipropri sentimenti e le propriedisperazioni in modi teatrali estrepitosi. I terremotati friulaninon si lasciano andare neppurea pianti e lamenti che sarebbe-ro stati naturali in chiunque.Qui in Friuli, notano i giornali-sti, il dolore è trattenuto e con-trollato con straordinaria forzamorale, in forme perfino ecces-sive. A un notissimo giornalistaquesto controllo iperbolico,innaturale, pare quasi una for-

ma di pazzia. Molti terremota-ti, non ancora soccorsi in alcunmodo, spingono la loro estre-ma disposizione all’ospitalità ealla gratitudine per i primi arri-

vati fino ad offrire loro un bic-chiere di vino e una fetta di pa-ne. I giornalisti, spesso grandifirme non solo di quotidiani operiodici, ma anche della lette-ratura, notano un’infinità diparticolari. I campanili sonomuti perché le campane sonocadute, o comunque non sipossono più suonare perché isistemi elettrici sono guasti oinutilizzabili per mancanza dienergia. Il buio e il silenzio so-no pressoché universali. Lemacerie diffuse dappertuttopaiono le conseguenze di unaguerra invisibile o di bombar-damenti spietati. Gli orologidei campanili sono quasi tuttifermi alle nove della sera. An-che io fui colpito da quel parti-colare, che mi faceva ricordare

alcuni versi di Garcia Lorcanel  Llianto por la muerte di  Ignacio:  A la cinco de la tarde.Eran la cinco en punto de la tar-de… Rimasero fermi per molto

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tempo. Alcuni giornalisti an-notano che nelle prime oremancavano del tutto i soccorsie che la confusione era univer-sale. Chi era venuto immedia-tamente per portare aiuto nonsapeva che fare, da dove co-minciare a lavorare, dove dor-mire, dove mangiare. Sono disolito cronisti dei giornali di si-nistra a sottolineare le inevita-bili disfunzioni e la retorica el’imprecisione, altrettanto ine-vitabili, nelle dichiarazioni uf-ficiali delle istituzioni e del go-verno, presieduto da Aldo Mo-ro (meno di due anni dopo egliverrà assassinato dalle BrigateRosse). I reporters cattolici in-vece sottolineano la presenzadelle organizzazioni della pro-pria parte politica e religiosa. Igiornalisti locali friulani e trie-stini lodano soprattutto la for-za morale, la tenacia, la deci-sione di ricostruire al più pre-sto manifestata dai terremotati:a costo di farlo “di bessoi” conle loro risorse soltanto. Tuttoquesto sembra al lettore nel-l’ordine naturale delle cose.

Anzi in Friuli è accaduto informe assai più lievi e venialiche altrove. Molti notano lagran fretta di ritornare allanormalità, di ricostruire subito

le fabbriche, di riprendere illavoro. Fu un sentimento cheio stesso vissi in prima perso-na. Infatti la mattina dopo unpo’ ingenuamente mi recai alloZanon, dove allora insegnavo.Alle otto meno cinque ero lì.Naturalmente trovai solo unpaio di bidelli che scopavano icalcinacci. A mano a manoche la notte maledetta si allon-tanava, i reportages dei croni-sti registravano i progressidell’organizzazione di soccor-so: la tendopoli, i prefabbrica-ti di legno, la ricostruzione,per quanto era possibile, deinuclei familiari e paesani.A mano a mano che il tempopassava, emergevano nuoviproblemi; i dati definitivi deldisastro, il numero dei morti,dei feriti, delle case danneg-giate e distrutte, degli evacua-ti (trasportati negli alberghi diLignano, Grado, Jesolo, Bi-bione) si avvicinavano a quellidefinitivi e accertati. Si dise-gnava la presenza e l’autore-vole capacità di decisione delClero, cui i friulani, credenti e

non, hanno sempre guardatocome a una guida, a un mo-dello sicuro, specialmente nel-le circostanze drammatiche.Così questa monumentale an-

tologia giornalistica rievoca inmodi cronistici, diacronici,commossi, costernati, affet-tuosi, ammirati, ricchi di sim-patia, a volte lievemente pole-mici, a volte poetici, a secon-da, tutta la lunga e drammati-ca vicenda del terremoto. Re-gistra come i friulani, con gliaiuti venuti dalla collettivitànazionale, ma anche di moltiPaesi stranieri, da comunità diogni genere, riuscirono a usci-re dall’emergenza, ricostruen-do prima le fabbriche e le in-frastrutture (acquedotti, stra-de, ponti), poi le case, poi lechiese e infine i castelli. Emer-gono alcune personalità, comeil sottosegretario agli interniGiuseppe Zamberletti e l’ar-chitetto urbanista Luciano DiSopra, carnico. La ricostruzio-ne dei friulani e di tutti coloroche li aiutarono fu mirabile, eancora oggi è citata e imitatanei suoi procedimenti un po’in tutto il mondo. E si nota al-lora nei testi di questa antolo-gia come i friulani erano sti-mati in tutto il mondo, perché

dovunque s’erano fatti cono-scere per la loro serietà, l’amo-re per il lavoro, la dignità, lacapacità di reagire alla sventu-ra, e tante altre cose.

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Vorrei raccontare del dopoterremoto, tralasciando la di-struzione provocata dalle scos-se di maggio e settembre 1976e andando subito al tempo del-la ricostruzione.Il terremoto oltre alle vittime ealle macerie procura sconquas-si d’ogni genere: inesorabiles’instaura un cambiamentoeconomico, sociale e culturale.Nulla è più come prima. An-che i vecchi si adeguano e la-sciano il “fogher” per un caldoprefabbricato con l’acqua cor-rente, la doccia e i radiatori; èfinita la fatica di fare la legna enon serve più uscire di casaper andare nel “condot”.Le vacche nella stalla diminui-scono e i rovi cominciano adavanzare. Chi faceva il boscaio-lo o aveva la stalla, ritorna es’inventa muratore. Dalle zonebalneari, chi era bagnino o ge-stiva un chiosco, acquista lacazzuola, la borsa dei chiodicon martello e tenaglia e diven-ta un “murer”, pronto a tirar sule case danneggiate. Nasconofabbriche che producono cartacatramata a chilometri. Il ce-mento, il ferro e il calcestruzzodiventano il pane quotidiano.Arrivano imprese da fuori re-gione: c’è la sensazione del faci-le guadagno, salvo poi lasciare ilavori all’inizio, dopo aver inta-scato il 50% del primo accon-to. Anche la certezza del «Fa-sen besoi» credo sia stata messaalla prova ma, malgrado ciò,

pare sia uscita a testa alta. Seperò, per ipotesi, succedesseora, penso che dovremmo cam-biare detto e accettare il fattoche a riparare le nostre case sia-

no i cosiddetti extracomunitari.Anch’io ho subito questo pro-cesso. Ho lasciato un impiegopresso un’impresa di costru-zioni, per fare l’artigiano edile.Era la primavera del 1977 e ilmio primo lavoro è stato la ri-parazione della casa della non-na materna, nella borgata diMuinta: un pezzo di terra simi-le ad uno sperone che s’adden-tra nel lago di Redona e che siraggiunge attraverso una pas-serella sospesa su corde d’ac-ciaio. Quando ero bambinotrascorrevo le vacanze dallanonna ed ero terrorizzato al

pensiero di attraversare quelponticello tutto traballante.Ancora oggi provo tali sensa-zioni. Nel lago si è inabissatol’elicottero dei vigili del fuoco,

mentre trasportava il calce-struzzo per gettare le piazzoledei prefabbricati. In questo si-nistro ci furono cinque vittime:quattro pompieri e l’impresa-rio. La borgata ha sempre avu-to una chiesetta, dopo questofatto è stata riattata e abbellitae ogni anno il sei maggio si ce-lebra una messa di commemo-razione. Quest’anno per il tren-tesimo si è tenuta una cerimo-nia ufficiale e solenne a parteci-pazione regionale.Muinta, vista dalla strada stata-le che porta al passo Rest, sem-bra inaccessibile ai mezzi pe-santi e, vista la sciagura dell’e-licottero, pareva non attacca-bile dai caterpiller, invece èstata costruita una zattera condei tronchi d’abete e si è tra-ghettato una pala meccanicacingolata che, come un panzer,ha raso al suolo più di mezzaborgata con le sue case di sassoe le viuzze lastricate, scaraven-tando il tutto nel sottostantelago. Poco è rimasto come pri-ma; forse si è avuta troppa fret-ta. Fretta di essere i migliori edi servire poi d’esempio.Ora la borgata è disabitata,l’ultima persona residente èdeceduta un mese fa; era la Sil-la, mia madrina di battesimo.Al tempo della ricostruzioneera già spopolata e con moltecase acquistate da vacanzieridella pianura. Quei pochi abi-tanti ora mi appaiono in se-quenza; come dicessero: noi

c’eravamo. Per prima vedo mianonna, la “Paula”, la chiama-vano il “sindaco di Muinta”, siriteneva una filosofa e mi dice-va: «Meglio un barabba che

Dopo il terremoto nulla è più come prima

Giacomo Miniutti

La Muta e la Paula.

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uno stupido». Era sempre ve-stita di nero, compreso il faz-zoletto sulla testa. Ha portatocon dignità le sue croci e l’ulti-ma era mia zia Gina, che soffri-va del mal caduto. Vedo il“Barba Pieri e l’agna Linda”,due vecchietti sempre in scher-zosa baruffa, ma sempre insie-me. Tutti i giorni la figlia Ma-ria, che abitava in Faidona, ve-niva a fargli visita e gli riattavail prefabbricato.Poi mi appare la “Muta”, unasordomuta che era come la ve-detta lombarda: sempre di sen-tinella vicino alla chiesetta, percontrollare se qualcuno attra-versava il ponte sospeso sul la-go. Quando ancora ero al di làmi riconosceva e, di corsa, an-dava ad avvertire la nonna del

mio arrivo.Poi c’è la “Pitel”, che vive inFrancia ed è sorella della non-na ma non si parlano, è unapersona estroversa, ma per for-tuna della borgata, soggiornasolo pochi mesi l’anno. Sedutovicino alla teleferica vedo “Na-ni”, che è intento alla manovra:quando il segno sulla fune trai-nante è visibile bisogna frenare,

perché il carrello è arrivato aldi là sulla piazzola di carico.Spesso manca la tempestività esuccede che tutto si ribalta,però non vuole che nessuno la

manovri. Dopo tanto insisteresono riuscito a convincerlo difarmela usare. Con la telefericasi trasportava tutto: dalla ghiaiaal cemento, dai mobili alle da-migiane di vino. Nani avevafatto l’ultima guerra ed era mu-tilato ad una gamba, non erasposato e a modo suo era unbuon uomo, si scontrava spes-so con la nonna e con la Silla eallora si potevano sentire i mi-gliori epiteti sulle donne.C’è Tranquillo detto “Sçita”,fratello di Nani, vivono insie-me e tentano di andare d’ac-cordo. Ha sposato una vita daemigrante, che pare continui,perché fa in continuazione ilgiro della borgata, sedendosiora su una panca e ora su unoscalino in sasso, tenendo tra le

dita l’amica sigaretta.Infine i santoli Eugenio e Silla,con il figlio Mario, mio coeta-neo, che si sposerà proprioquell’estate, andando a viverea Maniago. Anche loro stavanoriparando la casa e mio santolopareva un camion che traspor-tava ghiaia, dalla teleferica alcortile davanti casa, solo cheguidava la carriola, oppure lo

vedevi di là del ponte a carica-re le benne e si sentiva Naneche gli urlava di caricare meno.Era un uomo pacifico e nonl’ho mai visto arrabbiato.

La santola Silla si era nominatavice sindaco della borgata e astento condivideva le idee del-la nonna; spesso discutevanocon fervore, ma poi si riconci-liavano e di sera facevano lapolenta insieme. Anche lei ve-stiva di nero e teneva i capelli atrecce avvolti nel fazzoletto.Non ha voluto lasciare la suacasa finché ha potuto. Si senti-va come il guardiano del faro.Poi, sempre più stanca, è anda-ta dalla figlia a Milano. È ritor-nata solo per incontrare nelcamposanto di Tramonti diSotto il suo Eugenio e gli altriabitanti “dell’Isola dei Prepo-tenti”, (così quelli di Faidonaapostrofavano quelli di Muin-ta) che da qualche tempo l’ave-vano preceduta.

Lassù ad attenderla avrà trova-to anche il senatore Franco Ca-stiglione, da pochi mesi dipar-tito. L’avvocato Franco fu unodei primi forestieri a scoprirequel bel posto, che sicuramen-te amava come vi fosse nato,ed era benvoluto da tutti. Sispese molto per la borgata e lateleferica fu una sua iniziativa.Quel giorno della Santa Mes-

sa, sono certo che tutti loroerano “presenti” ed avrannogioito nel vedere la «Loro Iso-la» così piena di gente, cherende loro grazie.

l’orcolat

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La casa prima del terremoto e, a destra, la Paula tra le macerie.

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Bel volume questo, che riuni-sce gli Atti di due recenti Con-vegni organizzati dall’Univer-sità e dal Conservatorio di Udi-ne. Ed è utile ad avvicinare etentare di sviscerare i complessirapporti della poesia di Zanzot-to con la musica e il cinema.Complessi proprio per la relati-va esiguità di esperienze che lapoesia del poeta di Pieve di So-ligo ha intrecciato con questearti, forse perché, come scrivenell’ Introduzione il musicologoRoberto Calabretto, curatore eprincipale promotore di questainiziativa editoriale pubblicatada Forum / Editrice Universita-ria Udinese, «la straordinariamusicalità dei versi di AndreaZanzotto è tale da non potersopportare alcuna forma dicommento sonoro». Allo stessomodo, ci voleva un altro animovisionario come quello di Fe-derico Fellini per poter sup-portare/sopportare la straordi-naria carica evocatrice del ver-nacolo zanzottiano e accoglierenel proprio ampio ventre oniri-co le sue variazioni sui temiverdiani, talmente noti da fardubitare chiunque dell’impre-sa. Chi scrive non può che tro-vare nella sfaccettata disaminadi questo intimo sodalizio, perquanto saltuario, uno dei prin-cipali motivi di interesse e ori-ginalità di questa raccolta. Per-ché è proprio in questo sodali-zio che il titolo del volume trovala sua massima traduzione,

coinvolgendo fra i due uno deicompositori più originali delNovecento italiano, quel NinoRota che legherà il suo nome atanti film del regista riminese

che poi troverà, alla sua scom-parsa, un valido emulo nel com-positore Gianfranco Plenizio,come emerge dall’attenta analisidei cori per E la nave va (Fellini,1983), condotta da Calabretto.Ma andiamo con ordine, se-guendo le tre sezioni in cui ilvolume è diviso. La prima inda-ga il suono e la musicalità in-trinseche della poesia e dellaprosa di Zanzotto con i contri-buti di Tina Matarrese, GianMario Villalta, Anna Panicali e

Roberto Favaro. La seconda,introdotta da un “Piccolo di-scorso sulla musica” di AndreaZanzotto intervistato da PaoloCattelan, raccoglie analisi ap-

profondite, pentagrammi allamano, di alcuni fra i principalicomponimenti musicali diret-tamente ispirati alle poesie diZanzotto, analisi condotte da-gli stessi musicisti, come nel ca-so di Gabbiani (Mirco de Stefa-ni) e Dai Filò di Zanzotto (Clau-dio Ambrosini), passando poialle letture di Serena Facci eMohammad Aouzari per Ve-nessia di Azrié Abed, di AldoOrvieto ( Dai Filò di Zanzotto),di Stefano Procaccioli per  Leesequie della luna di FrancescoPennisi. Al connubio Zanzotto-De Stefani si riferiscono poi letrascrizioni di tre interviste ra-diofoniche condotte, tra il1995 e il 1997, da Guido Bar-bieri. La terza sezione si aprecon Luca Giuliani che ricordacome la collaborazione Zanzot-to-Fellini abbia avuto un prece-dente al Casanova del 1976:una corrispondenza fra il poetae il regista per un progetto maiattuato dal significativo titolodi Venezia. Già allora Felliniappariva intimorito da questacittà che non si riesce a ridurrea nessuna descrizione, essenza,perché a sua volta scenario sen-za tempo, «memoria fatta pie-tra e doratura». Il progetto Ve-nezia fallisce e Giacomo Man-zoli si sofferma a ricordare l’os-sessione del regista per il suo il-lustre cittadino, la cui biografiasi rivela progetto utile a tenerbuoni i produttori finché, “con-trovoglia”, Fellini si ritrova a

doverla affrontare veramente.Così al poeta il regista chiededei versi che possano contri-buire a esorcizzare il fascinodella città lagunare, a lasciarla a

LIBRI

Rapporti trapoesia, musica

e cinema

Manlio Piva

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libri

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mezz’aria (a mezz’acqua), testadi Venere o di grottesca “grassaCamena”, come potrebbe esse-re letto il “corto” Zanzotto-Fel-lini secondo Giovanni Morelli.I versi e i lazzi apotropaici diZanzotto, evocati nella scenache apre il film, ritornano infat-ti nel “linguaggio petèl” intona-to intorno alla tinozza della gi-gantessa veneta nel luna-parklondinese, anello delle peregri-nazioni del veneziano che, nellenebbie londinesi, ritrova, ormaianziano, uno scorcio di casa. Siscopre poi che Nino Rota, a suavolta, aveva avuto con Veneziaun precedente: le musichecomposte per un thriller del1952, Venetian bird , di RalphThomas. Uccello magico ebambola meccanica sono infattigli elementi che compongono ilCasanova elettrico di Nino Rotasecondo Francesco Lombardi,con quel valzer-carillon che ri-manda a tutta un’epoca, il ’700,di volta in volta corteggiata oviolentata dal Casanova/Fellini(“l’aria felliniana” descritta daFabrizio Borin). Con i Cori di Zanzotto per “E la nave va”(1983) si misura invece Cala-bretto, descrivendo il comples-so rapporto da un lato fra Felli-ni, orfano di Rota, e Plenizio;dall’altro fra Fellini, poco avvez-zo al teatro d’opera, e la sua ri-chiesta a Zanzotto di far comba-ciare strofe composte ex-novosulle musiche d’opera rievocate.Questo trio si ritrova quindi afare la caricatura di testi già diper sé caricaturali: Fellini deifilm-opera tanto di moda neglianni Ottanta; Zanzotto dei li-bretti d’opera; Plenizio dellamusica d’opera, ma à la maniè-re de Rota. Il risultato è quellastraordinaria “nave dei folli”,

fantasma di un’epoca passata eforse mai esistita, che cola apicco al contatto con la Storia.Di sezione in sezione, la com-plessità dei rapporti fra la poe-

sia di Zanzotto e le altre arti au-menta con l’aumentare dellemuse alle quali si chiede colla-borazione. Se già, come dice lostesso poeta nell’intervista aCattelan, «Fellini diceva cheRota lo distraeva, Rota a suavolta si distraeva con Fellini. Siaccusavano l’un l’altro di di-strarsi. In realtà arrivavano aperseguire due percorsi diversi,ma che si intrecciavano a livellimolto lontani e molto sotterra-nei», come si “distrassero” vi-cendevolmente questi FelliniZanzotto e Plenizio? La rispo-sta diventa più difficile e porta icritici intervenuti a mettere, divolta in volta, la sordina a unodei tre. Se infatti i musicologi sitrovano nel loro elemento natu-rale a confrontare le sonorità e iritmi della musica con quellidella poesia, complesso diven-ta, e non solo in questo caso,approntare una lettura “verti-cale” di linguaggi espressivi co-sì diversi come le immagini e isuoni. Si difendono bene i criti-ci cinematografici, ma nei lorotesti la presenza della poesia diZanzotto arretra di fronte allalettura dell’universo evocativodi Fellini. Mette sempre in dif-ficoltà analizzare le parole in unfilm. Cosa sono? Letteratura?Poesia? Musica? Come farlerientrare nel linguaggio cine-matografico? Come giustificarela grandezza delle prime senzasminuire il secondo o vicever-sa? Si apre il solito problema dicome spiegare la specificità ar-tistica di un cinema divenutoprevalentemente parlato, nar-rativo. Con il cinema degli anniVenti tutto era più “facile”, lasua specificità si risolveva nel-l’arte del montaggio. Con l’av-vento del sonoro si sono aperte

due vie: quella, sia detto in ter-mini riassuntivi, dell’asincroni-smo, della video-arte e quelladel cinema narrativo, centratointorno alla voce. Un cinema di

nicchia e un cinema di massa.All’interno di quest’ultimo c’èchi ha cercato di recuperarel’afflato poetico del mezzo, un“cinema di poesia” che, alla finfine, come emerge anche dagliottimi interventi di questi Atti ,è un cinema che cerca di giusti-ficare se stesso lavorando sullesue capacità mitopoietiche.Tutto questo è evidente in Felli-ni, con il suo recupero dell’im-maginario dell’infanzia, dei mitiantichi e moderni, della “mito-logia” freudiana e junghiana, diuna belle époque forse mai esi-stita. Ed è evidente nei film ana-lizzati in questo volume: Casa-nova, E la nave va, La città delledonne. In un cinema siffatto ipersonaggi non potranno parla-re come le persone qualsiasi,non è teatro filmato. Le loro vo-ci saranno sfasate rispetto alcorpo (nel senso di fuori-sin-crono, ma anche di fuori-luogo:eccedenti, degenerate, baroc-che). Ecco allora la parola poe-tica di Zanzotto introdursi inquesto scarto, essere all’altezza,organica in quanto a sua voltamitopoietica. Le diglossie e il“linguaggio petèl” si traducononei fescennini veneziani, dissa-cranti e apotropaici della ceri-monia d’apertura del Casanova(fuoricampo sonoro talmentepotente da sovrapporsi al tripu-dio dei fuochi d’artificio); di-ventano la filastrocca che perva-de lo spazio intorno alla tinozzadella gigantessa e i suoi nani; di-ventano la ripresa semiseria diVerdi in E la nave va. Propriocome le voci di Giulietta degli spiriti , le contadine di Otto emezzo… Tutte donne, perché,come Zanzotto rivela nella sualettura di  La città delle donne,che chiude, mediata da Roy

Menarini, il volume, un film è,prima di tutto, un’opera sul ci-nema, è metalinguaggio: il cine-ma, il cinema di Fellini, comeuna donna, seducendo rivela.

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libri

Come una famiglia allargata,una “famiglia d’affetti” necessa-riamente omosessuale, potevaessere inteso il clan Bellezza.Comunità, affascinante e nevro-tica insieme, di ragazzi e poi uo-mini, scrittori, poeti, viveursnient’affatto grandi, che fre-quentavano Dario Bellezza,poeta dalla vita scapigliata e tra-gica che Pier Paolo Pasolini assi-curò essere il «miglior poeta del-la nuova generazione».Intorno a Dario Bellezza girava-no personaggi strani, divertenti,e pure malinconici. Protagonistidella generazione culturale epoetica romana a cavallo tra duedecenni, gli anni ’70 e ’80, chese pure divisi da vite e storiepersonali diverse, restano tra lo-ro legati a testimoniare l’esisten-za sfrenata di quegli anni. DarioBellezza moriva il 31 marzo didieci anni fa, consumato dal-l’Aids. Dopo un’esistenza tra-scorsa a infierire sulla banalitàdel conformismo, a inseguirepiaceri che la morale dei perbe-nisti definisce proibiti, ma che avolte sono il rifugio per quelliche l’amore non riescono o san-no trovarlo, è dovuto morire so-lo, o quasi. Dimenticato, persinoscacciato dalla terra degli scrit-tori, consegnato al pozzo nerodell’indifferenza.A riaccendere la fiamma dellamemoria è venuto ora questoprezioso libro di Daniele Priori,

 Diario di un mostro. Omaggioinsolito a Dario Bellezza (Ane-

mone Purpurea Editrice, Ro-ma), scritto a quattro mani conMassimo Consoli, fondatore delmovimento gay italiano e amicovero e sincero di Dario, che ri-

percorre gli anni della storia co-mune, del sodalizio, o comeamavano definirlo i due amici,del “sodomizio” umano e lette-rario tra lui e il poeta.

Il titolo del libro ha un originerisalente. Era il 1971. Dario Bel-lezza scriveva  Lettere da Sodo-ma, mentre Consoli, in una sor-ta di parallelo col suo miglioreamico, aveva preso ad annotaregli episodi più singolari della lo-ro vita comune in un “diario”.Un diario che non poteva essered’altri che d’un mostro. Mostrodi incoerenza, d’intelligenza eacume, d’ironia nella vita di tut-ti i giorni. Massimo fino ad oggi,però, non aveva mai conclusoquell’opera, nonostante Dariolo esortasse a finirla. E dunque inostri due autori, oltre trent’an-ni dopo, hanno deciso di termi-

nare quell’opera, facendolo rivi-vere dalla bella gioventù alla di-struttiva ma certo non impoeti-ca malattia, fino all’ingiustooblio di oggi, e disegnando con

mano ferma i tratti sfuggentidell’uomo, ma soprattutto delpoeta Dario Bellezza, attingen-do allo scrigno di ricordi gelosa-mente conservati e messi insie-me dall’amico Massimo.Insieme a Consoli, a firmarequest’omaggio insolito, ci sonopure Enzo Siciliano, la scrittriceDacia Maraini, il poeta AntonioVeneziani, che con Bellezza dicedi aver condiviso «il buon cibo,il buon sesso e le buone dro-ghe», Riccardo Peloso, la cui ca-sa in via dei Giubbonari a Romaispirò a Dario Lettere da Sodo-ma. E ancora, Elio Pecora, An-tonio De Benedetti, GaetanoDimatteo e Alessandro CecchiPaone. Ognuno di loro, nelleinterviste raccolte da Priori aconclusione del libro, restitui-sce un brandello di memoria diDario Bellezza, come se non sene fosse andato per davvero,come se potessero ancora sen-tirlo cadenzare il suo vezzoso“cherie” con cui usava chiamareamici e amanti, come se queglianni non fossero ancora tra-scorsi; anni sregolati e amati,riempiti dagli aliti caldi dei ra-gazzi rimorchiati per una nottesoltanto, dalle idee folli, dall’I-talia battuta a far letture e aconsumarsi di poesia.Anni che Dario Bellezza rim-pianse ancora in vita, scrivendo:Ora alla fine della tregua / Tuttos’è adempiuto; vecchiaia / Chia-ma morte e so che gioventù / Èun lontano ricordo. Così / Senza

speranza di sapere mai / Cosastato sarei più che poeta / Se nonm’avesse tanta morte / Dentrooccluso e divorato, da me / Pren-do infernale commiato.

Omaggio insolito a Dario Bellezza

Christian Poccia

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libri

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 Lesa maestà è una raccolta diversi che abbraccia un arco ditempo che va dal principio de-gli anni Ottanta ad oggi.Il libro sembra non avere biso-gno di una prefazione o di unaguida alla lettura, eppure il let-tore non è “solo” dentro le pa-role. Qua e là, dalla bandella dicopertina ai titoli, alle annota-zioni (esplicative dei ricchi ri-ferimenti culturali: da Eraclitoa Dante, da Hölderlin a Eliot,da Kafka alle suggestioni dellamusica di Mahler), trova ag-ganci ad una comprensioneche si personalizza. Ciascunlettore stabilisce coi testi uncontatto personale, ricreandoun “valore” del libro che va ol-tre le intenzioni della semplicepubblicazione.

 Lesa maestà è articolato inquattro parti distinte, esito diun lavoro maturato attraversoun lungo percorso; ciascuna èintrodotta da notazioni epigra-fiche. Perciò Pascal Quignardè citato in apertura alla sezioneintitolata “Lapsus?”. Qui ilpoeta sembra interrogarsi sullapossibile ricerca di una suturatra il linguaggio criptico, coevoa quegli anni in cui questa poe-sia si germina, e la chiarifica-zione del senso che nella stessaamnesia, per l’appunto, si na-sconde. «Confondere l’in-fluenzabile, costringerlo allaresa / per appiattirne i paesag-gi amati / e per altri itinerariincorrosivi. // Affinché il sog-

getto e la sua mancanza / (so-pra tutti l’emozione, la sem-bianza) / si accavallino, siconfondano … / riunendo l’u-nione.[…]». La seconda sezio-

ne è introdotta da un interobreve racconto di Kafka: Desi-derio di essere un indiano nellaversione dello stesso Scrignòliche prova un uguale desiderio,cantando un mondo di grandispazi abitati dagli uomini edallo Spirito col dolore del ri-cordo, nostalgia appunto diciò che è stato irreparabilmen-te distrutto, emblematica filo-

genesi dell’anima che il corre-lativo oggettivo, inteso nellaformulazione eliottiana, intrec-cia nel modo che i fatti esterniche conducono all’esperienza

sensibile, evochino immediata-mente l’emozione: «Ora taglia-moci un dito della mano / ilpiù piccolo come fanno gli in-diani /quando perdono un fi-glio. // Come gli indiani /quando si lasciano sottrarre imorti / dal sole // e lo rincor-rono a cavallo /del loro solofurore».A significare la perdita affron-tata con virile coraggio, ma an-che tutte le possibili compo-nenti dello stato d’animo nellareazione di dolore, condizioneesistenziale altra dalla rasse-gnazione.“Voci esposte a nord” è la ter-za sezione del libro. È questauna sezione ricca di lirismo e,insieme, di profondissimi con-tenuti filosofici, come si puòimmediatamente cogliere in“L’avvio”: «Se in origine que-sto universo era acqua / e sol-tanto il vuoto cresceva /di qua-le amnesia sfuggita /a un fuocoprimordiale /potrà mai essereil tuono / che ora ci siede ac-canto, […]».La quarta sezione, che conclu-de la raccolta, porta il titolodella poesia eponima, “Lesamaestà”, che descrive un mo-mento particolarmente intensodi affetto e di dolore. È il mo-mento della morte di RobertoSanesi, straordinaria persona eimpareggiabile maestro che,con la sua opera vasta di poe-ta, traduttore, critico, origina-le artista di scrittura visiva, uo-

mo di teatro, aveva attraversa-to, segnandolo, il secondo No-vecento. Con questa poesia,con tutta quanta questa sezio-ne, Massimo rende omaggio a

Lesa maestà Il nuovo lavoro poetico di Massimo Scrignòli

Francesco Maria Di Bernardo-Amato

Di fronte ad un pubblico nu-meroso ed attentissimo, la se-ra di venerdì 5 maggio pressola Libreria al Segno di Porde-none, ospite del Circolo dellacultura e delle arti, con il pa-trocinio della Regione FriuliVenezia Giulia e del Comunedi Pordenone, Massimo Scri-

gnòli ha presentato il suonuovo libro di poesie  Lesamaestà edito da Marsilio.

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questo raro amico, al cui ricor-do l’intero libro è dedicato.Ma non inganni il pretesto,dove ora si trovano quelli checi hanno lasciato; la Morte, unluogo (?) dove solo ci precedeuna schiera accorata di senti-menti, di pensiero, d’amore. Ilgesto poetico coglie le traietto-rie di una vita interiore vissuta

non in compagnia della paro-la, bensì dentro la parola. Ini-zio e avvio, come pensa Hei-degger, non sono la medesimacosa: sulla linea della rivagiunge l’acqua del mare, peròpuò darsi soltanto che da lì ilmare cominci. Come l’acquanon si attraversa in superficie,ma dall’alto in basso e vicever-

sa, naufragando, così è la poe-sia: un grande libro d’acquainvolto nel colore muliebredell’amore «…così almeno do-veva apparire il viola / allaparte silenziosa dell’occhio: /né buio o altro diverso colore/ ma acqua curiosa come unprofilo distante / che guarda ericonosce…».

libri

Seduzione, opera di Simone Pizzioli.

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Nel prossimo numero

Emozioni e politica

Per inviare contributi, riflessioni e impressioni, scrivere a:Redazione «L’Ippogrifo» c/o Studio Rigoni viale Marconi 32 33170 Pordenone

Telefono e fax 0434 21559E-mail: [email protected] [email protected]

«L’Ippogrifo» è distribuito dalla «Libreria al Segno Editrice»Vicolo del Forno 2 33170 Pordenone Telefono 0434 520506 Fax 0434 21334

Chi volesse sostenere anche economicamente questa iniziativa editoriale può farlo tramite il c.c.p. n. 12530598intestato a: «Enzo Sarli», Associazione per la Salute e l’Integrazione Sociale, specificando la causale.

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L’IPPOGRIFO LaTerra vistadallaLuna

Numeri pubblicati

Il passaggio, la metamorfosi, le sfumature

Che cos’è una città I sintomi della salute

La Guerra Sognare, forse…L’amicizia La comunità e i suoi destini

La cura del Mondo

Verità, dubbio, finzione

Madri, oggi

La formazione impossibile

Gioco e violenza

La morte... e noi

 Atti & documenti Soggetto e istituzione. L’eredità di Franco

Basaglia La Provincia nel bicchiere.Una ricerca sui problemi alcolcorrelati Comunità che curano Venticinque anni

dopo, ancora Latino e matematica.P l’id tità lt l d l Li