LA RISPOSTA SOFFIA NEL VENTO Frammenti di una generazione

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di Gora Devi V. Bonazzola. Il ’68 ha dato inizio a una rivoluzione libertaria senza precedenti tuttora in atto per realizzare un nuovo mondo di pace, prosperità e cooperazione tra persone e popoli senza distinzioni: la Nuova Era è già qui.

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Gora DeviValeria Bonazzola

la risposta soffia nel vento

frammenti di una generazione

J. Amba Ed.

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Gora DeviValeria Bonazzola

la risposta soffia nel vento

frammenti di una generazione

Prima edizione Edizioni Viveka

Seconda Edizione Ottobre 2012 © J. Amba Edizioni

ISBN 9788886340618

J. Amba EdizioniStrada Battaglini A 2 74015 Martina Franca TA www.j-amba.com [email protected]

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Prefazione

Il ’68, come è genericamente chiamato quel vasto som-movimento che ha scosso le coscienze in tutto il mondo, comprende molte e variegate componenti e ha dato ini-zio a una rivoluzione libertaria senza precedenti ancora in atto.

Gora Devi è stata una rivoluzionaria, che ha attiva-mente contribuito alla genesi e alla realizzazione di molte di queste: gli Hippies e i Rainbow Gipsies, le Comuni, il Movimento Studentesco e Lotta Continua, la psichiatria e la pedagogia antiautoritaria, la rivoluzione sessuale e nella moda, per poi intraprendere più decisamente la sua rivoluzione interiore, nella consapevolezza che per cam-biare il mondo bisogna prima cambiare profondamente se stessi – i viaggi psichedelici e i viaggi in Oriente, l’incontro col Guru e le comunità spirituali in India e in Occidente.

Qui ci racconta dall’interno la nascita, la crescita e l’e-voluzione della più grande rivoluzione che l’umanità ha conosciuto finora, che ha scosso dalle fondamenta il vec-chio mondo basato sull’egoismo e sul potere di pochi sulle masse mantenute nell’ignoranza solo per il profitto, sulla schiavitù della donna e sulla mancanza di amore, che por-ta inevitabilmente alla prigionia dell’anima.

Ovunque sono caduti i regimi totalitari, ovunque si è realizzato un avanzamento senza precedenti nell’afferma-zione dei diritti umani, della parità tra sessi, del sentire il pianeta come la nostra casa vivente.

Il ’68 non è finito: allo shock della rivoluzione segue una fase di assestamento e rielaborazione dei traguardi raggiunti, cui segue una nuova fase di ampliamento de-

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gli orizzonti e di perseguimento e realizzazione di nuovi obbiettivi, diretta conseguenza del processo di liberazione della coscienza, che si ottiene soprattutto attraverso la re-alizzazione spirituale.

Assistiamo quotidianamente ovunque al risveglio spi-rituale anche di chi è immerso nel materialismo, grazie alla scienza dello Yoga e alle discipline spirituali di ogni tradizione ovunque nascono e si diffondono infinite decli-nazioni di risvegliata coscienza individuale, che come un fiore inevitabilmente si apre alla coscienza cosmica.

Tanta strada c’è ancora da fare finché ogni essere vi-vente possa essere liberato, il vecchio mondo non vuol cedere il passo, ne vediamo gli orrori tutti i giorni, eppu-re ogni giorno ovunque nel mondo ci sono tanti uomini e donne che lavorano a tutti i livelli e coraggiosamente com-battono dando la vita per realizzare quel nuovo mondo di pace, prosperità e cooperazione tra persone e popoli senza distinzione di razze, caste, sesso e religioni, armonia con la terra e i fratelli animali, amore reso concreto: la Nuova Era è già qui.

Questo processo è inarrestabile, perché la natura uma-na e dell’universo è fatta di libertà e amore, due facce della stessa medaglia, e come il sole distrugge l’oscurità, così l’amore non può che distruggere ciò che amore non è.

“Quando un bambino nasce non ha religione. La vera religione è essere umani”. (Shri Babaji, Shri Muniraji)

Che questo racconto sia di ispirazione per tutti i rivo-luzionari, a qualunque rivoluzione prendano parte.

Kalavati M. Cristina Chiulli

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Questo libro è dedicato alla memoria storica

della Nuova Era

e a tutti coloro, che in questo momento,

stanno cercando...

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Introduzione

Oggi si parla molto di Nuova Era, un’epoca diversa per il pianeta terra, basata su valori positivi e spirituali, in contrasto con il materialismo e la crisi economica, politica e culturale del mondo odierno.

La Nuova Era, la tensione verso un nuovo modo di vivere in pace con se stessi e tra i popoli e in armonia con la Terra, è già iniziata e i primi segni ne sono stati i movi-menti giovanili di protesta che negli anni ‘60 e ‘70 hanno scosso l’Occidente. Si è trattato di tentativi compositi ed eterogenei, destinati a trasformare le situazioni sociali ed esistenziali. Hanno fatto parte di questi movimenti: i Beat americani e i primi gruppi pacifisti, i rivoluzionari del ‘68, gli hippies e i figli dei fiori, i più svariati gruppi di ricerca mistica e spirituale.

A quei tempi sono iniziati i primi viaggi in India. L’O-riente, con i suoi maestri, la sua saggezza millenaria e la scienza dello Yoga, ha aperto nuove prospettive, dandoci la possibilità di un’integrazione tra la cultura occidentale e quella orientale.

La Nuova Era è un progetto per il pianeta terra, che propone una rivoluzione totale, affermando la necessità di un profondo cambiamento dell’anima e del cuore degli es-seri umani, affinché anche la realtà esterna possa mutare. I mezzi offerti per la trasformazione sono tutti i metodi di introspezione, di riflessione interiore, che ci possono por-tare alla consapevolezza, all’illuminazione dello spirito, alla liberazione dalla sofferenza.

In questo contesto, sia la saggezza orientale che il sa-pere e la scienza occidentali possono amalgamarsi e offrire

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validi strumenti per percorrere il cammino, in un’alchimia destinata a produrre l’oro di una nuova civiltà.

Nel crogiolo del complesso Movimento iniziato negli anni ‘60, si sono mischiati e fusi, sia la protesta politica, sia una ricerca di vita alternativa più complessa e profonda, volte entrambe a formare una nuova coscienza.

La ricerca del trascendente e di una religiosità più con-sapevole e profonda, ha assunto anch’essa una grande im-portanza, rifacendosi soprattutto alle tecniche di medita-zione e di conoscenza della mente, indiane e buddiste.

In Occidente, la cosiddetta New Age, è diventata spes-so e volentieri un calderone confuso e mercificato, un su-permercato dello spirito. Questo è inevitabile nella nostra società, che tutto usa e getta, ma ciò non ci deve spaventa-re, la ricerca continua.

In questo processo, è importante riuscire a distillare l’essenza delle cose, il profumo dell’Invisibile. La pietra filosofale è sempre e solo Lui, il Divino, il Mago cosmico che guida e protegge il gioco delle nostre vite.

In questo libro ho voluto offrire la storia di alcune esperienze vissute in prima persona, quelle di una genera-zione che ha creduto nella possibilità di un cambiamento sociale e spirituale per la felicità globale.

Gora Devi

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“Quanta strada deve fare un uomo, prima di essere chiamato ‘uomo’?

Quanti mari deve attraversare una colomba, pri-ma di potersi riposare sulla sabbia?

Quante volte devono essere usati i cannoni, prima di venire messi al bando?

Quante volte un uomo può voltare la testa e far finta di non vedere?

La risposta, amico mio, soffia nel vento, la risposta soffia nel vento.”

Bob Dylan

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Capitolo Primo

Milano 1965

La mia vita “alternativa” era iniziata con la storia d’a-more con Paolo. Io avevo 19 anni e lui dieci più di me e aveva già fatto molte esperienze interessanti. Voleva fare il poeta e lo scrittore ed era tornato da poco dall’America, fa-cendosi crescere i capelli. Quando andavamo in giro per le strade di Milano, ci guardavano tutti, perché allora, negli anni ‘60, i ragazzi e gli uomini, dovevano ancora presen-tarsi rigorosamente rasati.

Paolo veniva a prendermi quasi ogni giorno all’uscita del liceo in lambretta e spesso mi portava un mazzo di fiori, con i colori della primavera. Ce ne andavamo poi a mangiare un panino al parco, a guardarci negli occhi e a parlare, parlare di noi, di continuo.

Lui abitava in un monolocale al Giambellino, caldo e intimo, con la moquette e un grande letto morbido nel mezzo della stanza. Era una tana comoda, un rifugio dalla nebbia e dal grigiore della città. Fuori si sentivano i tram che sferragliavano. Le notti, le passavamo a parlare, era-vamo assetati di comunicazione, di contatto. Dormivamo abbracciati come due cuccioli e a volte ci scrivevamo poe-sie d’amore. Mi aveva raccontato che in America aveva fu-mato marijuana per la prima volta, ricevendo delle impor-

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tanti intuizioni, toccando una nuova dimensione interiore. L’America era allora associata a una realtà di ampio

respiro, la ricerca di un modo di vivere diverso da quello tradizionale. Milano e l’Italia calzavano strette per noi gio-vani, erano realtà provinciali e quasi ancora ottocentesche.

Paolo suonava spesso la chitarra, cantandomi delle canzoni americane, una in particolare bellissima: “The answer, my friend, is blowing in the wind” - “La risposta, amico mio, soffia nel vento... “

Al liceo Manzoni avevo conosciuto Dinni, una ragazza di qualche anno maggiore di me, che, al ritorno da una va-canza a Londra, mi aveva parlato dell’aria nuova che si re-spirava in quella città. Mi canterellava spesso una canzone che aveva sentito per le strade: “Qualcosa sta cambiando e tu non sai cosa sia... “

Dinni mi disse di essersi sentita più leggera e feli-ce dopo quel viaggio, come se si fosse improvvisamente aperto uno spiraglio nel buio fitto in cui si era immersi in Italia in quel periodo, soffocati dal conformismo e dalle formalità degli anni ‘60. Ritornò con una patacca infilata sulla camicetta, con sopra scritto: “Make love, not war” - “Fate l’amore, non la guerra”. Si trattava di uno slogan im-portato dagli Stati Uniti, dove la guerra del Vietnam aveva profondamente scosso le coscienze. Si era tenuta da poco a Chicago una grande convention per la disubbidienza ci-vile, un Sit in, cui avevano partecipato migliaia di giovani, studenti e intellettuali americani.

La sera, con Paolo, andavamo spesso a mangiare nella zona di Brera, dalle sorelle Pirovini in via Fiori Chiari, un ritrovo di artisti anticonformisti con barbe e capelli lunghi. Il locale, molto grande e vecchio e con una evidente ur-genza di restauro, si snodava in lunghi corridoi. Il rumo-

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re all’interno era sempre assordante e si usciva puzzando di vino e cipolla. Era molto economico e si mangiavano soprattutto piatti della cucina casalinga lombarda: risotti, polente fumanti, minestroni...

Ci rifugiavamo nelle vecchie stradine, nella trattoria con il tepore del cibo e della gente. Fuori, Milano era ostile, fredda, triste, un po’ spietata; c’era paura degli altri, del sociale, dell’amore.

La casa di Paolo era uno spazio allegro e disordinato, dove mi potevo sentire libera: girare in pigiama, mangia-re o meno, godermi il disordine o fare pulizia. Lui voleva studiare psicoanalisi, io filosofia e soprattutto volevamo entrambi conoscere noi stessi e cercavamo il senso da dare alle nostre vite.

Vivevamo anche la tensione politica, la voglia di cam-biare il mondo, ma non sapevamo da dove cominciare e la politica tradizionale non ci dava risposte soddisfacenti.

Arrivavano notizie che in America si stava formando un grande movimento giovanile di protesta, per la mag-gior parte pacifista e che in California, dei ragazzi erano andati davanti alle caserme, mettendo, simbolicamente, dei fiori nei cannoni. Nel frattempo, Bob Dylan e Joan Baez stavano conquistando i giovani con la loro voce e le loro canzoni contestatarie.

In casa nostra, venivano sempre molti amici ed era ar-rivato ospite Umbertino, un ragazzo di diciotto anni, ap-pena scappato da casa, che sperava di far fortuna a Mila-no. Aveva scritto una canzone, che ci cantava sempre con la sua voce roca: “Mille chitarre contro la guerra”. Erava-mo sentimentali e ingenuamente romantici, idealisti, so-gnavamo un mondo di armonia, di vero amore.

La nostra era la generazione del dopo guerra e della bomba atomica. Eravamo nati e cresciuti con la coscien-

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za della possibile distruzione totale del pianeta, la vita si era affacciata a noi immediatamente insieme alla morte. Questo forse ci aveva reso subito grandi, più consapevoli della relatività di tutto ciò che esiste, o forse più pronti a combattere per una realtà migliore.

Paolo rappresentava per me un’alternativa di vita e così avevo deciso di vivere con lui, andandomene da casa, non senza qualche dramma familiare.

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Capitolo Secondo

I Provos e i Palumbo

Avevo partecipato a casa di Andrea Valcarenghi a una riunione di Onda Verde, un gruppo che intendeva imitare il movimento dei Provos olandesi. Come diceva la parola, si voleva agire provocando, per dare una scossa alla strut-tura sclerotizzata della nostra società.

Avevamo pensato di organizzare degli uomini san-dwich, che girassero per la città, coperti davanti e dietro da cartelloni, su cui scrivere slogan e messaggi.

Non sapevamo chiaramente cosa volevamo, la nostra rivoluzione era tutta da inventare, ma di certo desiderava-mo essere più liberi e più felici. Vivevamo la nostra società come oppressiva e materialista, piena di tabù e ipocrisie, con le città soffocanti e inquinate, senza alcuno spazio aperto e innovativo per noi. Qualche giorno fa, per esem-pio, il bidello dell’Università Statale mi aveva buttato fuo-ri dall’atrio solo perché indossavo i pantaloni, invece della gonna!

Andrea era molto intelligente, maturo per la sua età e sapeva parlare in pubblico senza timidezza, anche se ave-va solo vent’anni, come me. Decidemmo di stampare un giornalino ciclostilato, Onda Verde appunto.

Eravamo anche entrati in contatto con un altro grup-po, Mondo Beat, che voleva rifarsi al movimento dei Beat-

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nik americani. Beat, vuol dire battuto, emarginato, esclu-so, dalla società. Ci si rifaceva al messaggio e ai libri di Kerouac e Ginsberg e all’uso di sostanze psichedeliche, soprattutto marijuana. Ginsberg aveva scritto una poesia diventata famosa, “Urlo”, in cui parlava della gente della sua generazione, la cui mente aveva rischiato la follia e la perdizione, anche con le droghe, per esplorare qualcosa di grande, il significato dell’esistenza e della coscienza.

I ragazzi di Mondo Beat avevano occupato un grande locale semi abbandonato in via Ripamonti e si erano ac-campati con coperte e sacchi a pelo. Venivano da diverse parti d’Italia, molti, scappati di casa, erano giovanissimi.

Andai a trovarli un giorno, ma non mi piacquero mol-to, formavano un’accozzaglia eterogenea, nel caos e nello sporco, perlomeno, questa fu la mia prima impressione, anche se vidi che fra loro c’erano dei tipi interessanti, alla ricerca di una strada.

Una sera, fui invitata a casa di Fernanda Pivano, scrit-trice milanese, che aveva conosciuto personalmente i po-eti americani della Beat Generation, iniziando a tradurne i primi libri in italiano; aveva anche invitato Ginsberg in persona a Milano.

Fernanda aveva chiamato a raccolta il gruppo dei pri-mi capelloni milanesi, che di solito si ritrovavano nei bar di Brera. Si discusse durante la serata del progetto di far sorgere e sostenere un’arte alternativa, creando spazi e cir-cuiti diversi da quelli tradizionali. Si parlò di organizzare “Happenings”, feste-avvenimenti, dove poter esprimere un po’ della nostra follia creativa e liberatoria.

Pochi giorni prima, Paolo ed io eravamo andati come al solito a mangiare dalle sorelle Pirovini.

All’improvviso avevamo scorto sulla porta del locale due ragazzi con i capelli lunghi, bardati con strani pellic-

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ciotti; non avevamo mai visto prima tipi simili in giro, se non l’estate scorsa in Grecia. Li avevamo invitati al nostro tavolo, offrendo loro la cena.

Erano Gianni e Carlo e ci raccontarono qualcosa della loro storia. Gianni faceva il pittore e progettava di tappez-zare Milano di murales con i suoi disegni e con slogan pro-vocatori e dirompenti. Sembrava un joker, aveva due occhi enormi, verdi e trasognanti, capelli biondi. Ci fece vedere alcuni dei suoi collages pittorici: pezzi di giornale, flash pubblicitari, volti fugaci di attrici e personaggi, mozzico-ni di parole. Carlo aveva sedici anni, veniva da un paese della provincia e se ne era appena andato di casa; sognava di partire per l’India, verso orizzonti diversi. Ci invitarono ad andare a trovarli nella loro casa, in via S. Maria Fulcori-na, una stradina della vecchia Milano.

Ci andai dopo qualche giorno da sola, perché Paolo non era voluto venire. Mi ritrovai in una soffitta gelida, spoglia e praticamente senza finestre, invasa dal fumo. Tutti stavano seduti in cerchio su un tappeto, stretti a ri-scaldarsi, ad ascoltare musica. Musica orientale, di flauti e sitar, mista alla voce roca e bassa di Bob Dylan, con il sapore dolciastro dell’incenso e il buio appena interrotto da una lampada da tavolo.

Gianni era seduto in un angolo a disegnare il volto di un immenso Buddha e altri, assorti, dipingevano cerchi colorati, si parlava a tratti. Mi presentarono Lorenzo, so-prannominato lo Zio, un ragazzo più anziano di noi, che aveva già fatto un viaggio in India. Aveva occhi penetranti e dilatati, dietro gli occhialini e, vicino a lui, provai una sensazione di disagio, perché mi sembrava che facesse dei giochi con la mente degli altri. Poi c’erano Marco, angeli-co, biondo e svagato ed Enzo, zoppo, con la barba, detto la Piovra, perché cercava sempre di arraffare qualche cosa.

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Proprio Lorenzo mi offrì dell’hashish da fumare, da una pipa conica che veniva dall’India, un chilom dorato di Benares. Avevo paura, ma decisi di provare e quando nel cerchio arrivò il mio turno, aspirai profondamente. Mi avevano avvisato che avrei potuto avere delle visioni, del-le percezioni speciali. Mi venne, invece, una nausea tre-menda e mi sentii un po’ male, ma poi mi passò e riuscii a uscire con Gianni a prendere il tram per tornare a casa. I ragazzi non avevano un soldo, la cena l’avevamo saltata e nessuno aveva certo una macchina per accompagnarmi.

Rincontrai i ragazzi quasi ogni giorno nei sotterranei della metropolitana in piazza Cordusio, che era diventata il punto di ritrovo dei primi Beat. Finalmente avevamo un posto nel centro di Milano dove vederci, uno spazio tiepi-do e protetto. Esistevano altrimenti solo bar imbarazzanti e costosi o le strade della città, nebbiose, deprimenti.

Alcuni di noi continuarono comunque a ritrovarsi nel-la soffitta di via S. Maria Fulcorina. Sulla porta dell’ap-partamento, era rimasto il nome dell’inquilino precedente, Palumbo, e così Gianni aveva denominato il nostro grup-po: “I Palumbo”.

Iniziammo a metterci dei vestiti colorati ed io mi libe-rai dalle gonnelline grigie al ginocchio e da alcune paure. I milanesi, austeri e conformisti, quando vedevano in giro i ragazzi, strani e con i capelli lunghi, li chiamavano capel-loni e spesso gridavano loro: “Barboni, andate a lavorare”.

Purtroppo ero entrata in conflitto con Paolo, il quale non ne voleva sapere di partecipare a questa nuova avven-tura, era più anziano di noi ed era anche spaventato dal rischio legale che si correva fumando marijuana. Anch’io avevo a volte paura o mi sentivo a disagio, ma ero forte-mente coinvolta dall’energia del gruppo, pur non facen-done completamente parte e continuando a studiare all’U-

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niversità. Mi consideravo comunque dei Palumbo, perché erano alla ricerca di qualche cosa d’importante, un nuovo modo di vivere, anche se non ancora chiaramente definito.

Riprovai a fumare con loro e mi accorsi che il fumo ser-viva a calmarmi, a interiorizzarmi. Mi serviva soprattut-to a fermarmi, a osservarmi, facendo una pausa nel ritmo sempre agitato della mia mente.

In questo periodo s’iniziava a parlare dell’Oriente e dell’India, vi era un’attrazione indefinibile verso un sapere più ampio di quello prettamente razionale e occidentale.

Gianni mi aveva dato da leggere il libro di Kerouac “On the road” - “Sulla strada”, che parlava del coraggio di viaggiare alla ventura, per le vie del mondo, seguendo la propria sete di conoscenza. Si poteva viaggiare in auto-stop, con pochissimi soldi, abbandonandosi all’onda della vita, fidandosi dell’aiuto, che arriva sempre, quando se ne ha veramente bisogno.

Eravamo stati a una grande festa organizzata da Fer-nanda Pivano, in uno spazio appena fuori Milano.

Si trattava di un Happening, un incontro, dove far suc-cedere qualcosa, sprigionare delle energie, lasciarsi anda-re senza controlli inibitori alla scoperta di se stessi e del gruppo. C’erano anche i figli della borghesia milanese con i loro vestiti da hippies, ma non stracci veri, bensì costosi abiti di Fiorucci. Mi ero un po’ annoiata, preferivo stare con persone come Gianni e Carlo, veramente alla ricerca di qualcosa e disposti a rischiare per questo. Gianni qualche tempo fa, si era fatto arrestare in centro durante una mani-festazione pacifista e mentre i carabinieri lo portavano via, aveva porto loro dei fiori. Era apparsa la foto dell’accadu-to sulla prima pagina dei giornali.

Organizzammo in seguito un Happening con i Pro-

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vos in piazza Duomo. Accendemmo in mezzo al sagrato un grande falò di “Corriere della Sera”, a quei tempi il giornale borghese per antonomasia, ballando poi attorno al fuoco tenendoci per mano, come in una danza tribale improvvisata. Come se questo non bastasse, Lorenzo si era esibito con un maxi cartello sul petto, con su scritto: “Il sesso è una cosa sporca, lavatelo più spesso”. La gen-te, che, come sempre, attraversava frettolosa la piazza, ci guardava esterrefatta e impaurita.

Fu molto divertente, anche se io stessa rimasi intimidi-ta dalla situazione, ma mi feci forza grazie all’entusiasmo del gruppo.

Gianni mi parlava sempre di magia, viveva la vita e gli avvenimenti come un gioco di prestigio cosmico e vo-leva essere parte dello spettacolo, partecipe e co-creatore dell’incantesimo. La vita doveva essere leggera, come uno scherzo, o un film un po’ surreale.

Stava iniziando la primavera, quando a Milano si crea un’energia languida, struggente e viene voglia di verde e di prati che non ci sono, di passeggiate, di avventura. La città in quei momenti sembrava una prigione e come di-cevano le parole di una canzone dell’Equipe 84: “Non ho mai visto, amico, un cimitero così pieno di vita”.

Con la bella stagione, la sera si sarebbe voluto anda-re per le strade, scambiare amore, ma pareva così difficile incontrarsi, comunicare, fare insieme delle cose utili e si-gnificative.

Ci chiedevamo, come tutti, qual è il senso della vita, in un mondo dove si corre sempre per guadagnare, consu-mare tante cose e poi morire.

Avevamo deciso con I Palumbo, di costituirci come gruppo provocatorio e di rottura, organizzando degli spettacoli di strada.

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Dal movimento giovanile in America arrivava un nuovo invito interessante: cercare di cambiare la società dall’interno, offrendo un esempio di vita alternativa, testi-moniando e mostrando la propria diversità.

Una delle nostre prime sperimentazioni avvenne in occasione di una conferenza sulla contestazione giovani-le, in un circolo culturale molto borghese. Decidemmo di andare a protestare contro l’incontro, perché eravamo con-trari all’uso di discorsi noiosi e parole intellettuali, che cer-cassero di definirci, volevamo invece far vedere il nostro dissenso con i fatti e le azioni. Ci preparammo quindi a un Happening di tutto punto, indossando i nostri vestiti più fantasiosi e stampandoci un grande OM mistico sulla fron-te. Chiudemmo Gianni in un grande scatolone, armato di polveri colorate e nel bel mezzo del dibattito, deponemmo lo scatolone sul tavolo del conferenziere. Gianni uscì dalla scatola urlando, gettando polveri colorate sul pubblico e mettendosi a leccare sulle guance le signore in pelliccia.

Chiamarono la polizia e ci portarono in questura, dove fummo trattenuti e interrogati per qualche ora.

Il giorno dopo apparve per la prima volta sul Corriere della Sera un articolo sui Palumbo e su Mondo Beat, con cui ci avevano un po’ confuso.

Mi ero sentita molto orgogliosa dell’accaduto, veden-do che eravamo riusciti a smuovere qualcosa, o perlome-no a incuriosire l’opinione pubblica.

Paolo, il mio ragazzo, era sempre più preoccupato, si sentiva trascurato e il nostro rapporto era entrato in cri-si, ma non potevo rinunciare a questa nuova, interessante esperienza esistenziale.