Un vento che soffia dove vuole!

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U U n n v v e e n n t t o o c c h h e e s s o o f f f f i i a a d d o o v v e e v v u u o o l l e e ! ! Tutto cominciò lì, in quella stanza a Gerusalemme, sprangata per timore dei Giudei. Un pugno di uomini e di donne, investite da un vento gagliardo, assaporano lo Spirito di Cristo Risorto, più volte promesso dal Signore stesso, ma a malapena atteso nel terrore e nello scoraggiamento. Tutto iniziò da lì e il mondo cominciò ad avere un’altra faccia e la storia dell’umanità a prendere decisamente un’altra direzione. Uomini e donne diverse per censo e per cultura che senza più paura hanno portato nel mondo intero un nuovo messaggio di speranza. Come è stato possibile questo miracolo? Tre anni di sequela fatta di ascolto per capire , per imparare e soprattutto per fare esperienza. Un catecumenato, cioè un percorso di crescita e di trasformazione a fianco al loro amato Maestro, che li ha condotti da una religiosità, basata sulla paura e sulla devozione fine a se stessa, ad una fede creativa. In fondo alla quale è esplosa la potenza dello Spirito Santo. (continua)

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UUnn vveennttoo cchhee ssooffffiiaa ddoovvee vvuuoollee!!

Tutto cominciò lì, in quella stanza a Gerusalemme, sprangata per timore dei Giudei. Un pugno di uomini e di donne, investite da un vento gagliardo, assaporano lo Spirito di Cristo Risorto, più volte promesso dal Signore stesso, ma a malapena atteso nel terrore e nello scoraggiamento. Tutto iniziò da lì e il mondo cominciò ad avere un’altra faccia e la storia dell’umanità a prendere decisamente un’altra direzione. Uomini e donne diverse per censo e per cultura che senza più paura hanno portato nel

mondo intero un nuovo messaggio di speranza. Come è stato possibile questo miracolo? Tre anni di sequela fatta di ascolto per capire , per imparare e soprattutto per fare esperienza. Un catecumenato, cioè un percorso di crescita e di trasformazione a fianco al loro amato Maestro, che li ha condotti da una religiosità, basata sulla paura e sulla devozione fine a se stessa, ad una fede creativa. In fondo alla quale è esplosa la potenza dello Spirito Santo.

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Con Gesù hanno compreso il Timore di Dio: non era Dio da temere, ma la loro natura fallace e presuntuosa, Il loro modo di vedere parziale e spesso deformato. Hanno preso coscienza di non possedere il bene, che non è semplicemente svolgere il compitino della Legge e delle regole. Allora si sono fatti piccoli, come bambini, sentendo, con timore e tremore, che il loro destino non era nelle loro mani, ma nella misericordia di un Dio Padre e Giudice. Il dono della Pietà ha insegnato loro ad avere il giusto rapporto con Dio, con una preghiera fatta più di ascolto che di richieste; più di abbandono fiducioso che di ascesi meritoria. Con la grazia della Conoscenza è stato loro consentito di comprendere sempre più la natura di Gesù Cristo e il mistero della sua redenzione, in relazione alla propria natura ferita. La Fortezza ha loro donato determinazione e perseveranza nell’affrontare il grande combattimento della vita. Il Consiglio ha dato l’acutezza di leggere tutti i fatti della vita quali eventi della salvezza e saper scegliere l’azione più opportuna da volgere al bene. Con l’Intelligenza ha illuminato la loro vocazione, il proprio posto nel mondo per compiere le opere predisposte da Dio per lor0. Infine la Sapienza che li ha innestati nel cuore stesso di Gesù, con il suo modo di sentire e di pensare. Di amare Dio e il prossimo. Dopo di loro generazioni di uomini e di donne di fede hanno cambiato il corso della storia, con la loro santità, e il loro martirio; con la loro cultura e il loro pensiero alla base di una grande civiltà; con le loro opere di carità e di promozione sociale. Eppure “erano poveri uomini, come me, come te” e hanno cambiato la faccia della Terra. Anche se molti altri nel corso dei secoli, quella fede l’hanno spesso scossa o completamente travisata. Come direbbe Carlo Verdone in uno sketch su Garibaldi “ Ci hanno poi ricamato sopra!”. Ma c’è una chiave per verificare l’autenticità della fede in Gesù Cristo, e ce l’ha indicata chiaramente Lui stesso: ” Senza di me non potete fare nulla.” (Gv. 15,5). Testardamente l’uomo crede di potersi salvare da solo, di farcela con le sue proprie forze, lascito dell’originaria fuga da Dio: da qui l’ateismo e l’indifferenza; ma soprattutto c’è chi crede di potersi salvare conquistando la meta con i propri meriti, accampando inespresse pretese: A) per acquisti meriti religiosi e allora sotto con un devozionismo, affettato di religiosità, che rende tutto sacro, fuorché la persona di Gesù, ( quanti viviamo l’Eucarestia come una magia, come un mezzo per guadagnarsi la salvezza e non per celebrare la salvezza che l’amore di Dio ci regala in Cristo); B) per illuminati pensieri teologici e filosofici ed ecco allora astruse teorie e dottrine farlocche che arzigogolano su empirei sistemi; C) per riconosciute benemerenze morali e giù con un fariseismo galoppante, l’ipocrita ricerca della perfezione sbattuta in faccia ai peccatori come straccio bagnato. C’è un abissale differenza tra la domanda del giovane ricco: ” Che cosa devo fare io per avere la vita eterna?” (Mt. 19,16) e l’invito che ci fa la sua Mamma: “Fate quello che Lui vi dirà!” (Gv.2,5) Dice Gesù a Nicodemo e a ciascuno di noi: “In verità, in verità ti dico se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel Regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3, 5-6) La fede cristiana è pertanto un rapporto d’amore nello spirito, una relazione vivente, un incontro esistenziale con il Signore Gesù e con Dio Padre; tutto è finalizzato a questa graduale intimità: chiesa, comunità, sacramenti, preghiere, simboli,

adorazioni ecc. Se non cerco questo rapporto negli avvenimenti, nelle persone, nei progetti e nelle azioni, tutto è idolatria e la mia fede è vana. Una fuga dalla realtà, un voler scalare la montagna partendo dalla vetta. Cristo ci vuole parlare nel vissuto concreto, ha da dire verità sull’uso del denaro, sull’affettività , sulla sessualità. Sa che abbiamo a che fare con il peccato, il male e la morte e che abbiamo nemici potenti: le nevrosi dell’io, il mondo con le sue false sicurezze e il demonio che disprezza la croce e ce la fa aborrire. Cristo è la realtà, mai fuggire da essa. Occorre accettarsi cosi, umanamente peccatori ed esposti, non ossessionati dalla perfezione. L’umiltà è questa consapevolezza che rimette a Dio il processo della liberazione spesso in modo imprevedibile. Mediante l’azione dello Spirito, che è essere e non ente, Che è ma non c’è. Un vento che soffia dove vuole ma non lo vedi e non sai di dove viene.

Livio Bottone

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I frutti dello SPIRITO SANTO Il discepolo di Cristo, ricolmo dei suoi sette doni, cambia radicalmente anche il suo rapporto con gli altri, a prescindere dal suo grado di istruzione e dal carattere. Questa attitudine è il frutto dell’essere amico di Gesù: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv15, 12-17). Per questo ci sembra utile offrire a tutti alcuni stralci significativi delle catechesi orali, tenute a Radio Vaticana, da don Fabio Rosini, parroco di Santa Francesca Romana, vicino a Piazza dei Navigatori. Sono catechesi meravigliose di cui noi ci avvaliamo per spunti e suggestioni, in attesa che don Fabio le vorrà pubblicare, per goderle appieno. Don Fabio illustra a ritroso i nove frutti dello Spirito citati nel versetto 22 del capitolo 5 della lettera ai Galati di San Paolo apostolo: “il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza (magnanimità), benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”

IILL DDOOMMIINNIIOO DDII SSEE’’ (Encràteia)

Il dominio di sé è come i freni per una macchina. I freni sono una negazione della finalità della macchina che è quella di correre. Chi compra una macchina senza freni è un incosciente, va incontro ad un sicuro incidente. Dominio di sé vuol dire avere il controllo del proprio essere, ma qui possiamo entrare in un grosso equivoco. Anche ai tempi dei primi cristiani l’autocontrollo era molto apprezzato, quasi alla base di ogni virtù. Non c’è niente di brutto in questo: avere il dominio sulle proprie pulsioni ti permette di organizzare meglio la propria vita, ma fa riferimento completamente al proprio ego, al proprio benessere. Oggi siamo di fronte due estremi: da una parte un certo libertinaggio, essere spontanei, fare la prima cosa che ti viene in mente, sentirsi liberi; dall’altra un ipocrisia di fondo, il political correct, dire le cose con misura, mai esagerare, con self controll, che potremmo confondere con questo frutto dello spirito. Questa cultura della gentilezza altro non è che una distanza dall’altro. Dimentichiamo che il cristianesimo fa riferimento ad un uomo appassionato, il Signore Gesù è un uomo appassionato. Un amante è un uomo che si accende di ira che si sa sdegnare, che si sa disgustare. È un po’ diverso questo domino di sé da quello che il cristianesimo ha da dire. Il vero senso del domino di sé compare in san Paolo (1 Cor. 9,25) , nel celebre passo dell’atleta, che è disciplinato in tutto per raggiungere un obbiettivo, vincere una gara. Noi abbiamo ben altro obbiettivo. Quindi per capire il dominio di sé occorre vedere il nostro obbiettivo. Innanzitutto vediamo cosa è per noi la libertà? La capacità di autodeterminazione, determinare se stessi, mettersi un limite. La libertà non è non avere limiti, ma conoscerli e saperli usare. Libertà non è fare ciò che uno vuole, ma saper governare al meglio il proprio io, una buona gestione felice. È quand’è che io ho una gestione felice del mio io? Forse quando sono nel pieno possesso delle mie pulsioni e so controllare i miei impulsi e le mie emozioni? Non è questa schifezza qui.

Vediamo perciò qual è l’obbiettivo del domino di sé Il dominio di sé non è contro la libertà ma è la libertà. Qual è lo scopo dell’essere liberi? Partiamo dal testo sul digiuno nel Vangelo di Marco: “perché i discepoli di Giovanni e i farisei digiunano mentre i tuoi discepoli non digiunano?” E la risposta di Gesù: ” possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro! Finché hanno lo sposo non possono digiunare ma verranno giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno.” Il digiuno dei farisei è il classico esempio di chi ingaggia un combattimento con il proprio ego, tutto finalizzato alla ricerca della propria giustizia; c’è qualche somiglianza con il self control odierno. I discepoli di Gesù mangiavano mentre questi digiunavano, allora gliene chiedono conto, come sempre succede a chi si ritiene giusto di esigere dagli altri. Quando uno cambia pretende che tutti gli altri cambino. La nostra fede è un po’ diversa, grazie al cielo. Gesù dà loro un altro motivo. Dominio di sé non per la propria esaltazione,ma per alimentare un rapporto d’amore. Il motivo del digiuno sarà quando lo sposo non sarà più con loro. Il digiuno sarà ciò che segnala la mancanza di un rapporto. Ci sono le cose che si fanno per il proprio ego, ci sono le cose che entrano in un rapporto, ovverosia, vivere perché qualcuno che io amo è con me, e io non posso che essere nella festa, quando è con me. E ciò che mi fa stare nell’amore, lo lascio libero, lo amplifico in me stesso. Ciò che mi strappa lo sposo è ciò che mi farà digiunare. Ci sono quei limiti che io mi impongo solo perché sto cercando una mia propria giustizia, invece ci sono limiti e freni che mi impone l’amore. Mi autocontrollo perché io tengo a te, perché mi sei caro, mi sei importante, io farò quelle cose che possono farmi stare con te, possono consentirmi la gioia di darti felicità. Il dominio di sé nel cristianesimo è una relazione con il Signore Gesù. Viene dall’avere scoperto quelle cose che ci danno la gioia del rapporto con lui e anche avere identificato quelle cose

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che invece ce lo strappano. Quindi ci sono cose a cui dobbiamo dire no, dobbiamo frenare. Non perché io sia più giusto, ma perché voglio stare con il Signore Gesù e di conseguenza voglio stare con gli altri. Ci sono atti che un innamorato fa naturalmente, sono rinunce che chi ha il cuore pieno d’amore fa, senza tanti ragionamenti e senza studiare morale. Sono cose che si fanno per amore. Il dominio di sé è un frutto, una conseguenza dell’aver capito qual è la corona che vale. Gli atleti che per uno scopo da quattro soldi, fanno dei sacrifici spaventosi. Ecco noi possiamo fare sacrifici, possiamo negarci delle cose perché abbiamo uno scopo, trovare l’amato, inseguire l’amato. La sposa nel cantico dei cantici che insegue l’amato fa dei sacrifici, soffre, patisce, perché c’è una cosa meravigliosa. IL DOMINIO DI SÉ È LA SCELTA DEI NO, CHE IO DEVO A ME STESSO, PER STARE CON CRISTO È CON IL PROSSIMO.

LLAA MMIITTEEZZZZAA (Praus)

Qual è il vero significato della parola? È necessario sgombrare il campo da significati equivoci che vengono dal nostro modo di pensare, così pensiamo che una persona mite sia una persona gentile, urbana. Ecco quando ascoltiamo la Scrittura non possiamo restare pigri e intendere solo con il filtro della nostra ‘cultura’ , ma bisogna crescere un po’, cercare di scoprire e capire. La mitezza è un frutto dello Spirito Santo, ovverosia, è lo Spirito Santo che entra nell’uomo e produce questa attitudine, non è un atteggiamento o un tratto del carattere.

Il termine che nell’antico testamento viene usato per mitezza è anaw che vuol dire povero. Perché un povero sarebbe mite? Si potrebbe pensare il contrario! E come si capisce che una

persona è mite? Beh, il sistema è abbastanza semplice: proviamo a metterlo sotto pressione, vediamo come reagisce. Bisogna un po’ spremerle le persone per capire cosa hanno dentro. In apparenza sembriamo tutti carini simpatici, gradevoli, commestibili, poi bisogna vedere quando uno ti morde di che sai. Il mite è una persona remissiva? Il Vangelo di Matteo ci dà la chiave per capire che cosa è la mitezza :” beati i miti perché erediteranno la terra” e dalle stesse parole di Cristo conosciamo una delle poche definizioni del carattere di Cristo: ” imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Veramente il Signore Gesù Cristo è mite. Non è una persona che, come si dice a Roma, abbozza, cioè tira a campare, preferisce evitare lo scontro. In realtà questo sarebbe più una codardia, una inconsistenza di carattere. Sempre si sono fatte guerre per la conquista del territorio, anche in senso lato, territori di potere, di prestigio, di supremazia, territori mentali ecc. Come può ereditare la terra chi non combatte? Normalmente sono i violenti, gli aggressivi quelli che si fanno rispettare, quelli che si prendono il territorio. Come fa il mite a ereditare, a conseguire questa terra? Il mite non è colui che non prende posizione, non è colui che non ha coraggio. Il problema è che noi crediamo sempre alle attitudini cristiane come se fossero il frutto di una elaborazione interiore, faticosissima e sudatissima. Imporsi questo atteggiamento di mitezza, peraltro psicologicamente pericolosissimo, in nome di un buonismo di comodo. Non è questo ! Non è né un’assenza di coraggio, né un reprimere coi denti la nostra normale irruenza, più o meno manifesta. Infatti siamo tutti persone che reagiscono e che si arrabbiano. Qui stiamo parlando di un frutto dello Spirito, di una attitudine che anzi chiede coraggio, chiede una forza, in un certo senso un’ aggressività, ma di altro tipo. Il mite non è remissivo, la sua battaglia è per altro! I miti erediteranno la terra! Come? La terra è lo scopo di ogni battaglia, di ogni aggressività. Come è possibile che la terra sarà invece del mite che non combatte? Eredità a noi fa pensare al testamento di qualcuno che è morto e ci lascia qualche cosa. L’eredità nella Scrittura era la porzione di terra promessa, destinata ad ogni israelita. E questa terra è ben diversa dal territorio degli scontri umani. C’è una terra che lo Spirito Santo ci rivela, una dimensione,che vale veramente la pena di difendere. Non si tratta di essere remissivi. Spesso si entra in conflitto per difendere un bene che l’altro ti può rubare. Il mite è colui che non risponde allo scontro perché lui tiene a un bene che nessuno gli può rubare, a qualcosa di più bello, conosce una cosa che si chiama Spirito Santo che è il suo regalo. Mi vuoi rubare qualche cosa? Mi vuoi offendere? Che m’importa, ho ben altro! In questo senso il mite non è la persona che non ce la fa a combattere, ma combatte un’altra battaglia, molto più seria. È qualcuno che ha la vera ricchezza, quella che nessuno gli può togliere. Cosa si intende realmente per non reagire al male, porgere l’altra guancia? Noi abbiamo capito l’insegnamento di Gesù di non reagire al male,di porgere l’altra guancia, come un atteggiamento remissivo. In realtà il mite è anche molto aggressivo perché porgere l’altra guancia vuol dire non partecipare all’atto altrui. Normalmente ci si arrabbia ancora di più di fronte a una persona che agisce in questo modo. L’altro aggredisce, ma a me

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non interessa, non perché sono distaccato, ma perché combatto per altro, mi arrabbio per altro. Una verità detta molto mitemente, senza paura, può essere uno schiaffo molto duro dato a chi invece è abituato ad un linguaggio di scontro. Il mite è uno che si sporca le mani ; come combatte il mite? Attenzione a non capire questo come un non sporcarsi le mani. Il mite non è colui che sta al di sopra delle cose, va la centro delle cose. Il mite è colui che eredita la terra, si tiene stretto l’eredità, ciò che vale. Per quello, se sarà necessario, alzerà la voce, ma non contro qualcuno, ma per qualcuno. C’è una differenza grande: di quando uno si vede criticato con malizia, da quando si vede criticato con amore. Certe volte le critiche ricevute da chi ci vuole bene ci possono veramente far soffrire, perché vanno dritte al punto e prendiamo coscienza di avere sbagliato. Ecco il mite sa combattere le battaglie così, il mite conosce ciò per cui vale veramente la pena di impugnare le armi e sono armi strane, forgiate in un’altra fabbrica. Sempre quando ci adiriamo stiamo difendendo qualcosa. Cosa difendo ? perché mi arrabbio tanto? La mitezza, come frutto dello Spirito Santo deriva dall’intuizione di ciò che è veramente prezioso nella nostra vita. La nostra lotta, come dice san Paolo, non contro le creature di sangue e di carne. Combatto le menzogne che ho nel cuore, combatto le cose che mi tolgono la pace, e che mi procuro da solo, l’altro non mi può togliere ciò che io non gli consegno. Il mite ha questa coscienza: conosce lo Spirito Santo, la verità. Il salmo 45 ci dice quali sono le cose per cui combatte il mite: “cingi prode la spada al tuo fianco, avanza per la verità la mitezza e la giustizia”. Combattere per queste cose, implica aver intuito che la giustizia non è quella della bilancia sociale, ma è la giustizia del rapporto con Dio, è quella giustizia che ogni uomo ha diritto di avere, avere Dio per proprio Padre, avere Cristo per proprio Salvatore. LA MITEZZA DERIVA DA QUESTA ESPERIENZA, AVER CONOSCIUTO LA PATERNITÀ DI DIO, E A QUEL PUNTO DIFENDERLA CON I DENTI; QUELLA SÌ, NIENTE ALTRO.

LLAA FFEEDDEELLTTAA’’

Essere fedeli alla verità di un rapporto La fedeltà è la capacità di essere fedele. La fedeltà innanzitutto è un frutto. Non dimentichiamo mai che si arriva alla fedeltà per l’opera dello Spirito Santo in noi. Vediamo anche il suo contrario: l’infedeltà, il tradimento. Diciamo pure che è l’adulterio il contrario della fedeltà. Cos’è un padre fedele? Cos’è un fratello fedele? Cos’è uno sposo una sposa fedele? Cos’è un amico fedele? Per sapere se una persona è fedele dobbiamo vederla in stato di tentazione, quando diventerebbe tanto comodo tradire. Quando per esempio un amico richiede un impegno oneroso; quando un amico andrebbe corretto, l’amico fedele e verace, se ti vuole bene, ti dice quello che veramente pensa, quello che veramente ti deve dire, rischiando il rapporto per amore di quello che ti fa bene. Cioè molte amicizie non sono adultere perché la persona ci abbandona, ma proprio perché la persona resta a tutti i costi con noi, compiacendoci. Essere fedeli alla verità del rapporto. Se io sono fedele a una persona sono per questa persona quello io devo essere. Per esempio, come sacerdote, vuol dire stare nel mio ruolo di sacerdote, non andare in altri ruoli; oppure nell’ambito della

paternità: un padre non è un amico, un padre che si fa amico o che dà priorità a questo aspetto, è un adultero. Ha scelto il rapporto assecondante, cameratesco della complicità che è tipico dell’amicizia, mentre invece deve essere capace di autorità e anche di negazione, di limite. Un padre che non sappia dire di no a un figlio è un pessimo padre. La fedeltà è veracità reciproca, non connivenza o subalternità Cosa è la fedeltà? È una adesione alla verità rispetto all’altro dove il centro è il bene vero dell’altro e non la mia convenienza o la mia comodità. Nel matrimonio la fedeltà implica un ruolo molto strano: nel libro della Genesi, quando Dio decide di dare Eva ad Adamo, dice: “ voglio fare un aiuto che gli sia simile”. In ebraico questo testo suona molto ambiguo: “voglio fare un aiuto davanti a lui, contro di lui”. Un aiuto contro di lui, è una frase strana, eppure questa è la fedeltà dei rapporti. In realtà moglie e marito devono essere l’una per l’altro, capaci di correzione, capaci di essere quello sprone, strumento di crescita l’uno per l’altra, che implica un rapporto di veracità, non di consolazione infantile reciproca. Un conto è la fedeltà, un conto la connivenza, che sono molto diverse. La connivenza implica un patto di non aggressione che difende la tranquillità dei due contraenti. La fedeltà implica anche lo scontro, implica anche la differenza , l’adesione ad una verità. La nostra è una società adultera, che ama la trasgressione, il superare il limite. C’è nell’adulterio come una forma di fascino, perché c’è un’autoaffermazione, come un delirio infantile di onnipotenza, per la propria edificazione. Mentre la fedeltà è affermazione dell’altro, affermazione del bene dell’altro, della sua importanza. La verità del rapporto matrimoniale è l’indissolubilità Oggi si vive la paura verso un impegno di fedeltà e di indissolubilità; questa società ha fatto delle norme il grande capro espiatorio di tutte le sofferenze psicologiche. Si

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soffrirebbe per le regole che ci sono state imposte. La realtà dell’indissolubilità nel matrimonio non è un’imposizione della chiesa. Indissolubile è una realtà, un tipo di condizione. Un rapporto padre - figlio è indissolubile a prescindere da quello che il figlio fa o non fa, anche se il figlio è particolarmente problematico, comunque quello resta il figlio l’altro il padre. Quando c’è amore autentico, maturo esso è indissolubile per definizione. Puoi dire di uno sposo che non è più il tuo sposo, anche se ti ha fatto di tutto? No, perché lo è. Questa condizione è previa al matrimonio, non posteriore. Quando due persone si avvicinano al matrimonio devono avere questa consapevolezza e concepire la loro unione come una chiamata ad essere definitivamente l’uno carne dell’altra. L’infedeltà è una vita d’inferno Allora perché la fedeltà appare così impegnativa, anche noiosa, mentre l’infedeltà assai allettante? A prima vista sembra proprio così. Ma l’infedeltà è menzogna a tutto tondo. Prima o poi i nodi vengono al pettine ed è assolutamente vero. Quel tipo di rapporti diventano presto o tardi una tortura di rapporto. Il fedele non lo è semplicemente per principio,no, è una persona che ha capito che si campa molto meglio nei rapporti quando si dice la verità. Che è molto meglio litigare oggi e domani essere nella verità, piuttosto che andare a fondare questo mondo di realtà, che non si capisce niente, che sono normalmente la stragrande maggioranza dei nostri rapporti, mediocri, ambigui, insoddisfacenti. Il tradimento matrimoniale è sempre una menzogna di fronte a se stessi. L’infedele matrimoniale è quasi sempre una persona che è infedele a se stesso. Che sta scappando dalla sfida della vita, dal momento di crescita. E che fa invece? Si sta infognando in un atteggiamento infantile, un bambino che si attribuisce il centro della realtà. L’infedeltà è una vita d’inferno, una vita di menzogna. Dove si apprende la fedeltà, come frutto dello Spirito Santo? Dove si apprende la veracità dei rapporti, perché non si è fedeli nel matrimonio, ma si è fedeli in tutti i rapporti? La fedeltà è uno stile di vita, è una forma di essere di fronte alle cose. Da dove nasce questa fedeltà? Nasce dal Signore Gesù Cristo, il fedele per eccellenza. Fedele e verace. Fedele è uno degli attributi più importanti di Dio. Perché? Perché è quello che non rompe il suo patto, non esce fuori dal suo ruolo rispetto al suo popolo. E il Signore Gesù ci ha mostrato la sua fedeltà sulla croce, quando ci meritavamo di essere traditi. È impressionante quello che dice il sacerdote durante la consacrazione: “ Egli nella notte in cui fu tradito prese il pane lo spezzò e disse: questo è il mio corpo dato per voi”. Mentre veniva tradito, lui si dava. Mentre veniva tradito, lui celebrava la sua fedeltà, come uno sposo ama la sposa.

LLAA BBOONNTTAA’’ (Agatosuné)

La bontà è capire qual è la cosa migliore da fare per l’altro La bontà è un frutto non un seme. Frutto è il compimento di un processo che inizia con un seme. Cioè un punto di arrivo non un punto di partenza. Questa non è opera umana e basta, ma incontro dello Spirito con lo spirito dell’uomo. La bontà dobbiamo subito spiegarla salvandoci dai malintesi e mistificazioni talvolta volontarie della lettura della vita cristiana data dalla cultura di oggi. La bontà che non è frutto

dello Spirito Santo la definirei buonismo che è una percezione che abbiamo di noi stessi. La morale cristiana è ben altra rispetto a questa visione, dell’uomo come individuo che in se stesso spiega i suoi atti. Non è l’essere buonini, non è l’essere tutti accomodanti disposti a sorridere anche quando non sarebbe il caso; la bontà indica la qualità migliore di una realtà, Il bello e il buono in quanto maturazione piena di una persona.Una persona è buona e bella, diciamo così, quando è arrivata a dare il meglio di sé. Ma in ambito relazionale. Stiamo parlando di qualcosa che riguarda l’altro. La bontà non è un’attitudine intrinseca, ma riguarda l’altro, sposta la sua attenzione sull’altro, il meglio per l’altro, dove l’altro diventa oggetto di questa attenzione. Il centro è il bene dell'altra persona. Ciò che è utile per l’altro, cioè diventa secondario se io ho fatto la cosa che mi sento o che mi trova d’accordo. Io sto facendo la cosa che porta l’altro al meglio. È il gusto che uno prova quando riesce a ottenere un buon risultato per qualcuno. Il piacere di mettere gioia nell’altro Partiamo da un esempio banale: dal piacere di cucinare per qualcuno e di vedere l’altro contento di quello che sta mangiando. Di fare qualche cosa che dà all’altro gioia; accogliere una persona in casa e metterla a suo agio con il gusto di vedere l’altro a suo agio. La gioia di vedere ridere un bambino, di sentirlo allegro. L’allegria di vedere il proprio coniuge gioire per un regalo o per un atto di servizio. È quel gusto che si prova a curare un malato, gioire quando si vede un malato migliorare. È’ il piacere che deriva dall’intuizione che l’altro è una cosa preziosa, dal percepirlo come fine dei propri atti e autentico senso della propria espansione di sé. Di fatto la gioia altrui, il bene altrui, il miglioramento dell’altro, la condizione di maggior felicità dell’altro diventa oggetto della bontà. Ma non sempre il bene dell’altro è ciò che desidera Ma in senso cristiano è qui il punto che differenzia la bontà dal buonismo imperante oggi nella nostra cultura e anche nella nostra politica. Il meglio dell’altro, implica un amore all’altro.Il bene dell’altro non sempre è ciò che l’altro desidera. Se un padre rispetto a un figlio fa solamente quello che il figlio gli

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chiede, è un padre che non vale niente, un padre buonista, che non corregge e che creerà tanti problemi a questo figlio. Un padre sano, maturo lo sa condurre se il figlio ha bisogno di passare per luoghi ed esperienze che gli sono necessarie. Certo senza sfociare nel paternalismo, nel gestire come pare a noi, qui c’è sempre la libertà da rispettare. Ma la vera bontà è questo atteggiamento per cui una persona sta facendo il vero bene dell’altro anche a prescindere dal parere dell’altro. Come arrivare alla bontà? Se noi vogliamo capire cos’è la bontà dobbiamo uscire da un diffuso individualismo che è latente anche in tante interpretazioni spirituali, dove la nostra attenzione resta fissata sul nostro processo di crescita, sulla nostra maturazione. Partiamo allora da Gesù quando chiama a sé le persone, le chiama sempre a lasciare qualcosa, c’è sempre una parte da lasciarsi alle spalle. Se noi vogliamo andare a fondo nel viaggio della bontà, dovremmo lasciarci alle spalle qualche cosa. Curiosamente se il punto d’arrivo è cercare il meglio per l’altro e in questo trovare gioia, la cosa da lasciare dietro le spalle sono proprio i nostri problemi. L’uomo, essere relazionale, ha il suo compimento nell’uscire da se stesso. Tantissimi problemi che le persone, anche religiose, stanno affrontando sono in realtà problemi da abbandonare. Molto spesso nella vita spirituale ci incastriamo in vicoli ciechi che non portano da nessuna parte. La vita di ciascuno è per una missione C’è una legge essenziale della lettura dei testi: se una domanda non trova risposta non è la risposta che non c’è, più spesso è la domanda che è sbagliata. La bontà è il frutto di una domanda azzeccata, giusta, fatta su noi stessi, su come potrò risolvere i miei propri problemi. Che presi per se stessi sono realtà irrisolvibili. Esiste un’altra chiave per leggere tutte le nostre problematiche, le nostre fragilità, le nostre incongruenze. Se è vero che Cristo è vero Dio ma anche vero uomo, ed è la verità dell’uomo, verità per me, per la mia realtà ,io chi sono? Cristo chi è ? “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, e il verbo era Dio.” Ognuno di noi è una Parola. Ecco, posso, per esempio, avere una storia personale segnata da alcune sofferenze. Se io cerco di spiegarmi perché queste cose sono successe a me e perché queste cose forse mi lasciano delle ferite, delle necessità, che mi condizionano, io giro continuamente su una spirale inutile, che porta sempre solo a me stesso. E se invece tutto questo che io ho magari patito, potesse servire a qualcuno? Ecco allora che io trovo la chiave. Se io mi penso come una Parola, mi penso come una missione, mi penso come in funzione di altri, se il mio scopo è dare gioia all’altro ecco che le mie sofferenze diventano compassione, saggezza per capire quello che l’altro sta vivendo e anche capire come aiutarlo. Perfino i miei errori diventano strumenti per servire meglio, aiutare meglio l’altro e qui io mi realizzerò come persona. Vogliamo essere quadrati, realizzati e non ci rendiamo conto che invece sono proprio le nostre fragilità che ci permettono di fare il salto verso la compassione e l’amore. Come un pezzo di un grande puzzle Qual è la nostra realtà? Noi, per noi stesso non siamo proprio niente. Se prendo un pezzo di un puzzle da solo, non serve proprio a niente, non definisce niente. Ma se in un grande puzzle mi manca un pezzo ho un senso di vuoto, una cosa frustrante. Trovo quel pezzo, lo metto lì ed è la pienezza.Tante cose che a livello personale sono ferite, povertà, diventano di fatto delle capacità. Nella esperienza di annunciare il vangelo questo diventa lampante, limpido. Tanti Santi hanno

manifestato delle capacità straordinarie che prese per se stesse erano anche pericolose, forse anche insoddisfacenti, ma applicate a quella tal situazione per obbedienza allo Spirito Santo son diventate gloria e amore. È inutile cercare continuamente di cambiarsi, è meglio cercare di capire qual è il proprio posto nel puzzle. Quando si gira a vuoto nella vita, quando la bontà non sgorga per nessun altro è perché si sta continuando a fare la domanda sbagliata: chi sono? mentre ci si dovrebbe chiedere: a cosa servo? Cosa posso fare di buono?

LLAA BBEENNEEVVOOLLEENNZZAA ( Crestotes)

Cercare il bene in ogni situazione Mentre la benevolenza viene intesa come gentilezza e affabilità, il vero significato della parola è quello di un senso di utilità, di adattabilità, di essere adatto per qualcosa. Una persona che compie fino in fondo quello che deve compiere, perché è veramente operativo, porta al risultato che deve operare. Praticamente il benevolente è dotato di una intuizione che vede uno scopo buono da realizzare e riesce a realizzarlo. È una attitudine di fronte alla vita e alle persone, per cui si coglie costantemente l’aspetto costruttivo. Come frutto dello Spirito, è l’ intuizione di un bene possibile. Mentre la bontà è quel chiedersi qual è il bene dell’altra persona, qui siamo di fronte a qualcosa che mira più a uno scopo oggettivo, ovverosia vede nelle cose e anche nelle persone una finalità buona. È un senso che fa cogliere le occasioni proficue e costruttive della vita. E’ una visione nettamente pasquale della vita, di fronte anche alle cose negative, io penso che però il fine sarà buono, che tutto va verso qualcosa di positivo.

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Tutto è per il bene Nella maggioranza delle volte le cose non vanno come noi ci aspettiamo. Siamo di fronte magari a un imprevisto, alla situazione, per esempio, di una gita fuori porta, programmata per goderci un bella giornata ed ecco che la giornata fa abbastanza schifo e non si può fare niente. Ci sono le reazioni naturali, la realtà mi mette di fronte a qualcosa che non mi aspetto, che spezza i miei piani, questa cosa sfocia naturalmente nella tristezza, nella mormorazione, nella reazione arrabbiata, nella sgradevolezza. Perché si rifiuta l’evento. La benevolenza ti porta a pensare: ma se fosse un bene? Ma se questa cosa in realtà fosse guidata da una mano sapiente, forse questo non è il modo di passare il tempo, forse non era questa l’organizzazione della mia giornata migliore. Ci si apre ad una visione positiva. Attenzione però a non confondere la benevolenza con una sorta di ottimismo, del bicchiere mezzo pieno, con un carattere adattabile. Qui invece siamo di fronte all’intuizione profonda e quasi impercettibile che lo Spirito santo semina nel cuore dell’uomo: il sospetto che ci sia qualcosa di buono nella contraddizione, il sospetto che nel fatto che nella giornata andata a male, forse c’è una sorpresa da cogliere, forse c’è un bene in quello che ci sta succedendo. Dio è benevole verso gli ingrati e i malvagi Facciamo un salto di qualità e applichiamola a Dio. Dio è il benevolente, lo Spirito Santo opera la benevolenza nell’uomo. Lo vediamo in Cristo e nell’attitudine di Dio che è benevolo verso gli ingrati e verso i malvagi.Essere benevolo vuol dire cogliere nell’altro, quando mostra il suo aspetto peggiore la sua potenzialità. Dio guarda l’uomo non in quanto errore, non in quanto possibilità di distruzione, ma in quanto capacità di costruzione. Nell’uomo c’è una potenzialità che Dio guarda con occhio di padre e addirittura nelle situazioni più terribili, nella croce, Dio nella sua benevolenza ha accolto la potenzialità di salvezza. Dio si rallegra per il bene che possiamo compiere e inizia una storia di salvezza di fronte al nostro male, si fa luogo di incontro con la sua misericordia. Di fronte al male che l’uomo nella sua libertà compie ha un atteggiamento benevolente, guarda cioè sempre alla salvezza. Cristo non è venuto al mondo per condannare, ma per salvare il mondo. E allora le mie debolezze, nelle mani di Dio diventano la mia occasione per conoscere il suo amore per me, la sua pazienza con la sua incredibile tenerezza e il suo atteggiamento sempre paterno. Dio corregge colui che ama Questo implica correzione, anche disciplina, implica anche un aspetto di autenticità e di verità che può essere recepito dall’uomo come durezza, perché Dio non conosce tenebra, non conosce menzogna, ma è capace di trarre il bene dal male, di trarre la luce dalla tenebra. Allora Dio ci guarda sempre come qualcosa di bello, come un padre guarda anche il figlio più disgraziato, più ribelle. Vede in noi sempre qualcosa di proficuo, di utile, di efficace. Agli occhi di Dio siamo sempre salvabili, redimibili. Amare è l’avventura più bella Come è possibile essere benevolenti? Il fatto che Dio abbia trovato qualcosa di bello in me e questo mi stupisce, abbia sfruttato l’occasione della mia debolezza per amarmi, mi apre a una prospettiva, semina in me il sospetto che questo sia vero sempre e mi lancia in una gratitudine che mi pone alla stessa attitudine di fronte al prossimo. Quando un amico ha una grande necessità, è la mia occasione per essere amico. Il difetto

di un coniuge vissuto spesso come dramma è in realtà la potenzialità di un matrimonio. Quando vuoi amare tua moglie se non quando si comporta in maniera insopportabile? Il momento dell’amore è il momento del perdono. Amare una persona perché si comporta bene non è comportarsi in maniera molto sorprendente, come dice Cristo: “cosa fate di straordinario se amate solo coloro che vi amano”. Che cos’è lo straordinario? Tanta gente cerca avventure, cerca di avere emozioni. Le emozioni più grandi si hanno sfruttando le occasioni concrete della propria vita. Un amico mi fa del male, questo è il momento di amarlo, questo il momento di perdonarlo. Il matrimonio si costruisce attraverso questa intuizione, di vedere lo sbaglio altrui come l’occasione per l’amore. Quando vuoi voler bene a un bambino se non quando è debole! È una intuizione della vita; siamo nati forse per stare bene e farci i fatti nostri e passare la vita in pace e morire in buona salute? O siamo nati per amare? Allora se siamo nati per amare la benevolenza cerca questi fatti come opportunità per poter sviluppare questa gratitudine verso un Dio che ci ha amati deboli. Se Dio mi ha amato quando ho sbagliato, ecco che con allegria mi troverò di fronte al fatto che l’altro sbaglia verso di me come una occasione per perdonarlo. Tutto nasce dalla memoria costante della benevolenza di Dio. Ma amare non vuol dire capire; la croce, quando arriva, non si capisce, la croce si vive, è un’occasione in cui uno o ama Dio o in fondo gli sta chiedendo di farsi più piccolo di noi. Anche la cosa che più ci fa ribrezzo nella nostra vita, sarà la cosa che ci consegnerà il regalo più grande. La morte ci consegnerà il paradiso. E allora è utile anche la morte.

LLAA PPAAZZIIEENNZZAA ( o magnanimità = macrothomia)

La carità è paziente Nell’ inno alla carità di san Paolo si cita per prima la pazienza come una realtà corredata di magnanimità. Cioè avere un animo grande. Quando noi parliamo di magnanimo, paziente, tollerante, noi ci riferiamo sempre in relazione a qualcuno. È un tipo di frutto dello Spirito che è una capacità di dare all’altro il tempo, di dare all’altro spazio, di dargli possibilità. La magnanimità è la qualità di avere pazienza di fronte agli errori altrui, è l’atto per cui una persona dà al prossimo la possibilità di riprendersi, di pentirsi, di ravvedersi, di tornare in se stesso, di calmarsi. Dio è lento all’ira e aspetta con pazienza Cristo dice: lo Spirito vi annuncerà che cosa è di Cristo, che cosa è di Dio. Nell’A.T. si dice che Dio è lento alla ira. Ecco questo è il senso della pazienza, della magnanimità. Dio ha una ira lenta, l’ira non gli parte facilmente. Nella 2^ lettera di Pietro è scritto: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, come certuni credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che abbiano modo di pentirsi”. Dio è colui che non ci tratta secondo i nostri peccati, ma è lento all’ira ricco di misericordia, di grazia. Una domanda interessante è: perché Dio ci dà tempo per pentirci? Perchè Dio vuole darci a tutti il modo di ravvederci? La risposta non sembri risibile: perché di tempo ce ne ha tanto! Perché il tempo è una sua creatura, perché lui non guarda il tempo come un assoluto. Noi siamo impazienti con il prossimo, perché noi non possiamo dare tanto tempo perché non ne abbiamo, io non ho

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tutto questo futuro da gestire, perché non credo nell’eternità, perché io non sono dalla parte di Dio. Inizio ad essere schiavo del tempo, ho un animo piccolo, schiacciato dalle mie ansie, io devo farti cambiare subito e allora le persone sono impazienti, temono, spingono, opprimono gli altri quando sono deboli quando sono fragili. Il maligno è colui che ha ansia, è l’infuriato; l’impaziente è il demonio, perché non ha tempo. È pieno di furore sapendo che gli resta poco tempo (cfr Ap.12) . Dio invece ha a cuore l’uomo, il suo cuore, la sua salvezza. Per il Signore un giorno sono come mille anni e mille anni sono come il giorno di ieri che è passato. Ma noi per essere pazienti che possiamo fare? La prima risposta è che per poter dare tempo agli altri, occorre possederlo, per dare abbondanza agli altri bisogna avere abbondanza dentro di sé. Non c’è ombra di dubbio che noi siamo pazienti con il prossimo quando abbiamo ben presente e chiaro davanti a noi tutto quello che Dio ci ha perdonato, tutta la pazienza che Dio ci esercita. Avere sempre chiaro davanti a noi che Dio non ci sta trattando secondo i nostri peccati, secondo quello che ci meritiamo. Quanta gente dalla mattina alla sera passa il conto, fa rimostranze e non si ricorda e non pensa, tutti siamo così, immemori del fatto che Dio non ci sta trattando come meritiamo. Se Dio mi trattasse secondo quello che mi merito, mi fulminerebbe in questo preciso momento. C’è un film nei nostri cuori che solamente Dio vede, agli altri possiamo apparire buonini, carini, appetibili, di fatto Dio ci conosce bene, sa di che razza di cuore sporco siamo fatti, quante volte Dio copre i peccati, mette la sua mano provvidente per non far conoscere tutto. Perché Dio ha pazienza con noi? Perché Dio è nostro padre, e un buon padre protegge il figlio. Noi crediamo che Dio sia lontano da noi, ma c’è una assenza di iniziativa da parte di Dio che grida la sua pazienza. È un Dio che ci guarda con occhi benevoli molto al di là della nostra apparenza. Se Dio mi passasse il conto io non mi potrei salvare e mi conviene ricordare quella parola terribile del Vangelo che dice: con la misura con cui misuriamo, sarà misurato a noi in cambio. Bisogna stare un po’ attenti a dire all’altro non ti do più una possibilità, perché un giorno anch’io avrò bisogno di un’altra di possibilità. La magnanimità non è una bontà dell’uomo, non è una sua intrinseca capacità, è una memoria costante per cui uno come san Paolo che di natura era un iroso, era un violento, diventa magnanimo, capace di dare un’altra possibilità, perché vive in questa seconda possibilità. Noi tante volte ci scriviamo da noi stessi certificati di buona condotta per sopravvivere davanti alla nostra coscienza e non ci rendiamo conto in fondo di stare davanti a Dio come debitori. Da questa memoria sorge la dolcezza verso il prossimo. Sentinelle gli uni degli altri Ogni verità nascosta che viene a galla, perché la verità è la verità; i nodi vengono al pettine e non c’è niente da fare. Ciò che oggi passi liscio, domani ti verrà addosso. Perché il male non resta senza conseguenze, ogni uomo che fa il male fa soffrire, ma sicuramente presto o tardi soffrirà. C’è Dio, lasciamo a lui il ruolo di giudice; lui sa come aggiustare le cose , come correggere le persone, i fatti tanti volte sono correzioni molto serie. Questo logicamente non ci toglie il dovere di dire la verità, di correggerci gli uni gli altri, questo non ci toglie nessuna necessità di esercitare uno zelo per il bene che va fatto, ma c’è chi esercita questo zelo inondato di pace e c’è chi lo fa solamente per rabbia, per farsi tornare i conti. Quando debbo dire qualcosa a qualcuno, perché è mio dovere essere anche sentinella dell’altro, come l’altro è

sentinella nei miei confronti, se il mio animo non è magnanimo, ma è pusillanime e mi sono arrabbiato per farmi giustizia, l’altro lo sente. Non c’è nessun effetto positivo in ciò che io sto facendo. L’altro sente solamente l’aggressione e l’incomprensione reciproca. È proprio della natura di un rimprovero efficace, quello di essere magnanimo. Non si tratta di non correggere il prossimo, anzi è proprio la magnanimità e la pazienza che ci fa correggere bene il prossimo.

LLAA GGIIOOIIAA (Charà)

Non è semplicemente un’emozione Ci sono parecchi malintesi a proposito di questo stato dell’uomo. Noi pensiamo che la gioia normalmente sia uno stato di felicità che è prodotto involontariamente, uno stato emozionale, la conseguenza di una situazione che troviamo, che riceviamo. Un qualsiasi dizionario di teologia biblica definisce la gioia, non una emozione spontanea, bensì un atteggiamento complesso, dotato di valore, un vero frutto dello Spirito Santo, una realtà derivata da un processo, da un cammino; una cosa è il seme una cosa è il frutto. Non si tratta di uno stato emozionale e basta. La gioia non ci capita, non la troviamo così per caso, ma al termine di una lunga pedagogia interiore, che ha i suoi passi.

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Ma veramente ci interessa la gioia? Sembra una domanda sciocca, perché tutti affermiamo di essere interessati alla gioia, ma l’esperienza ci dice il contrario. C’è da sorprendersi nel verificare che alle persone piace stare male. In realtà la gioia è un po’ meno interessante della tristezza. Questa è molto affascinante, un sentimento coinvolgente, un infantilismo che c’è nel cuore di ogni uomo; il ruolo della vittima è un ruolo interessante, piacevole, si comincia coltivando il ricordo dei traumi ,il ricordo dei torti subiti, alimentando questo piagnisteo interiore. La mestizia si pone come un bozzolo torbidamente morbido in cui chiudersi, in cui rivoltarsi, con tanto di autocommiserazione; il bambino che è in noi ha il gusto della recriminazione, del vedere il male che gli altri gli fanno, prende volentieri il ruolo di essere compatito, è soddisfatto quando può esclamare: ecco, tutte le cose mi vanno male! Se andiamo a vedere le carceri sono piene di vittime, non di criminali. Le persone hanno sempre una storia triste da raccontare. Con il gusto di sentirsi al centro di un’attenzione, come fanciulle che si sentono solidali fra vittime, una solidarietà scambiata per compassione o addirittura per carità. Invece non ha niente a che vedere con tutto questo. La pubblicità conosce bene queste cose e fa leva indirettamente sul “sacrosanto” diritto di farsi due lacrime di pianto. Ecco, tutto questo è molto pericoloso ed è come l’orlo di un baratro. Anche un film sulla vita di un santo, se non è infarcito di vittimismo e di persecuzioni non piace a nessuno. Se invece mandiamo in onda delitti efferati, storie di sangue, stiamo tutti appiccicati alla televisione, perché tutti sono a caccia del colpevole. Allora se vogliamo trovare la gioia, dobbiamo smettere di trovare il colpevole. La gioia è un evento pasquale Che cosa è veramente la gioia cristiana? Partiamo dalla Beatitudini secondo Luca che ci parlano della felicità: “Alzati gli occhi verso i suoi discepoli Gesù diceva: beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio; beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati; beati ora che ora piangete, perché riderete; beati voi quando gli uomini vi odieranno, e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché ecco la vostra ricompensa sarà grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti, ma guai a voi ricchi perché avete già la vostra consolazione, guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame, guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete, guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti.” C’è la gioia cristiana, e ci sono altri modi di gioire e di rallegrarsi. Quel beati voi si ripete ben quattro volte e si oppone ai “guai”. Sarà felice chi ora piange. Dov’è il punto? La gioia ha due sorgenti, l’immediato e la conseguenza. C’è una gioia che sfrutta l’occasione per godere, per stare bene. C’è un presenteche porta a un futuro triste. Così sono tante gioie di questa vita, gioie che normalmente noi cerchiamo: la soluzione immediata di un problema, sgonfiare uno stato di tensione, togliersi i problemi, risolvere le cose alla meno peggio, ora, adesso. Invece essere poveri ora, avere fame ora, piangere ora, per ridere poi. Gli orientali parlano della gioia pasquale. La gioia pasquale è di chi esce fuori da un evento. La gioia di questo mondo è quella momentanea, fugace, ma che lascia un senso di vuoto e c’è invece l’entrare nel deserto della trasformazione, un atto di amore che non è mai quello che ha come primo scopo la mia

gioia, ha come primo scopo l’altro. C’è sempre un momento traumatico iniziale che prelude all’esperienza pasquale. Passare per un momento di negazione per arrivare ad una affermazione. Si può risolvere uno stato di tensione con uno scatto di rabbia? Si batte un pugno sul tavolo e viene un silenzio e l’altro si blocca. Così il problema adesso è risolto, ma poi c’è la morte, rapporti da ricostruire, occasioni mancate. Invece c’è l’atto di aprirsi ad una gioia che arriva dopo, che è conseguenza, che è derivata da una scelta che oggi mi costa, oggi mi chiede di negarmi ,di trascendermi, di andare oltre il mio immediato piacere. È una legge naturale della gioia quella che fa una scelta a monte,una scelta di bene che a valle diventa gioia. Gesù quando inizia il suo ministero, invita alla gioia, a credere alla buona notizia, a credere al bene: “convertitevi e credete al Vangelo.” Cioè alla buona novella, ad una felicità annunziata, ma prima c’è qualcosa da lasciare. La gioia cristiana è un dinamismo che viene scelto come oggetto finale di un percorso che passa per il deserto per arrivare alla terra promessa, che passa per l’abbandono dell’uomo infantile, vittimista, obbediente al torbido che c’è in ognuno di noi, per obbedire al Figlio di Dio, come Spirito che è seminato in ognuno di noi.

AAMMOORREE (Agapào)

L’amore contiene un po’ tutti gli altri frutti. Però è necessario intenderci su cos’è l’amore. Visto che oggi ognuno gli dà in senso che vuole e siamo in pieno relativismo per quanto riguarda l’amore. Cominciamo a capire che cosa intendeva San Paolo e il primo cristianesimo con la parola amore. L’amore è senza dubbio il centro dell’esistenza umana, nessuno ne dubita, ma da come pensiamo al concetto di uomo deriva come vediamo l’amore. L’amore non è un atto di volontà. Questo ci viene da due secoli di accentuazioni antropologiche. Un’epoca influenzata molto dal razionalismo, per cui l’uomo ha rivendicato il diritto di mettersi al centro del mondo e di coltivare la convinzione che tutto quanto quello che facciamo fondamentalmente è guidato dalla ragione, dal capire, dal

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poter governare la realtà. E allora l’amore è diventato un atto di volontà, un atto sottostante a principi e la cosa grave è che abbiamo pensato che questo fosse l’amore cristiano. Cioè l’amore sarebbe un impegno, uno sforzo, una decisione dell’io che si rivolge a fare il bene e lo fa con una risoluzione che è necessaria e sufficiente per arrivare a un risultato soddisfacente. Abbiamo pensato che il cristianesimo sia forza di volontà, impegno e coerenza. Ora questo non è che una piccola parte dell’amore, una parte non trascurabile o eliminabile. Certo che l’amore deve essere un atto ragionevole e un atto della volontà, ma solo in parte, questo non ci può bastare. E questo è il primo malinteso. L’amore non è neanche un sentimento. La nostra cultura dalla esaltazione della volontà è passato totalmente a una posizione spontaneistica. Film, canzoni e purtroppo rapporti umani che si reggono sul sincerismo, sul “ me lo sento”; ecco l’amore è diventato sentimento. Io devo sentirmi qualche cosa, se non me lo sento non è amore. Se era agghiacciante pensare l’amore come un atto di solo intelletto, è proprio raccapricciante pensare all’amore come a uno stato d’animo. Se il centro dell’amore è quello che io sento, non andrò mai fuori da me stesso, verso l’altro. Questi resta fuori da ogni fine del mio atto. L’amore implica certamente anche il sentimento, ma non parte da un sentire,da una pulsione sensoriale. Quando una madre o un padre di famiglia si ritrovano con un bimbo che non dorme e che per la quinta volta consecutiva interrompe il sonno, non li lascia più dormire più di un’ora e mezza di seguito e sono cotti di stanchezza e non ce la fanno più; alla sesta notte che questo bimbo si mette a piangere, quando c’è da alzarsi per andare a consolarlo, occuparsi di lui, c’è sentimento? C’è voglia o desiderio? C’è soltanto tanta stanchezza, eppure si alzano. La domanda è: è amore o non è amore? Sicuramente è amore, dei più puri, quelli che non hanno niente in cambio; . Quel amore dove noi siamo il vero oggetto dell’altro, che è fatto perché ci sia il bene. Il bene è il vero scopo, poi arriverà anche il sentimento, arriverà la gioia per averlo fatto. Ridare indietro lo spirito Fondamentalmente l’amore è un atto, che implica sentimento, volontà, memoria, intelligenza, pazienza, gioia, fedeltà, dominio di sé,ecc. Ma anche molto di più. Quando i settanta tradussero in greco la Bibbia prima di Cristo non trovarono una parola adatta a significare il termine ebraico di amare, cioè ahav. In greco per amare c’erano solo due significati; o prediligere o essere attratto (philèo o erào che genera eros). Queste erano le strade per intendere l’amore ed ecco i Settanta e poi il N.T. prendono la strada di un verbo piuttosto in disuso, agapào, da cui agape. Il cui senso è di un amore inteso come un movimento da una persona a un’altra ed un avere molto da dare per l’altro; che ha come fine lo stato dell’altro . L’amore ha un punto di partenza che è un tesoro. Quale tesoro? Che cosa è questo molto, che passiamo all’altro? Il termine ebraico a-hav, amare, per pronunciarlo richiede di respirare. Ecco il punto: “Gesù, emesso un alto grido, spirò”. Respirare, emettere l’aria. Noi concepiamo lo Spirito come colui che dà la vita, questo soffiare nelle narici dell’uomo, lo spirito che fa di questo uomo un essere vivente; Dio regala così la vita all’uomo ed ecco che l’uomo in Cristo scopre cos’è l’amore: ridare indietro lo spirito. Cristo morendo regala la sua vita. Sentirsi amati da Dio Ecco come l’amore autentico è veramente frutto dello Spirito, un tesoro di cui ci si svuota, per avere un risultato nell’altro. Per il bene dell’altro, per far star bene l’altro. L’amore è

centrato sulla relazione con l’altro. Per questo l’amore può significare tante cose, anche, quando è necessario, un atto di serietà, un atto austero di chiarezza. Per amore si può essere sia teneri che duri; per amore si può essere sia pazienti che capaci di chiedere subito il risultato. L’amore può portare a parlare come può portare a tacere, lo scopo è il bene dell’altro. Quale bene? Cosa ho dare io? “ In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare, ma lui ci ha amati per primi ”(1Gv.4,10 ). L’amore è avere un tesoro da dare, da espirare, da emettere verso l’altro, perché lo abbiamo ricevuto. L’amore che parte dalla relazione con Dio, amandoci e perdonandoci. L’amore è frutto della relazione con lo Spirito Santo, frutto della verità che è la paternità di Dio, la salvezza di Cristo, la potenza dello Spirito Santo che entrano in noi e ci danno la gioia, la felicità, la bellezza, la pienezza di essere stati amati senza condizioni. Per primi e senza merito; prima della nostra risposta, prima delle nostre opere: allora possiamo amare secondo questa qualità, la qualità che si è mostrata nella croce di nostro Signore Gesù Cristo, quando ha emesso il respiro. L’amore parte dall’essere amati da Dio.

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CCRRIISSTTOO EE’’ RRIISSOORRTTOO !! Carissimi parrocchiani, “Gesù è davvero risorto”! Questo è l’annuncio sconvolgente di “quel giorno Santo” che ha cambiato per sempre la storia. Sì, Gesù è vivo e da qui parte ogni fede, la fede della Chiesa, la fede di ogni uomo, la fede di tutti noi. Tutto è superato, tutto è oltre, tutto è al di là. Giovanni e Pietro corrono al sepolcro, trovano delle bende: non un segno esplicito, non una manifestazione sfolgorante, non un gesto evidente, eclatante: la fede obbliga a sbilanciarsi, non s'impone, Gesù chiede di schierarsi, di cogliere i segni talora impalpabili, con cui si rende presente. Il Signore risorto anche a noi, come ai suoi discepoli, dice ancora oggi, non abbiate paura! Viviamo in un periodo storico in cui sembra che la paura, il timore prevalga su tutto. Abbiamo spesso paura di chi ci vive accanto, abbiamo paura del futuro che apparentemente vediamo con colori sempre più scuri, abbiamo paura di fare scelte coraggiose ed impegnative. Non abbiate paura ci dice Gesù, allora ripartiamo in questa Santa Pasqua proprio da questa consapevolezza, la luce del Risorto possa illuminare il buio delle nostre tante paure. Gesù è risorto, e noi? Siamo come le donne, intenti ad imbalsamare un crocifisso? Ascolteremo l'angelo che ci dice: "perché cercate tra i morti uno che è vivo?" Perché la nostra fede ci spinge ancora a cercare un morto, magari da portarci dietro ognuno secondo le sue esigenze, i suoi bisogni del momento: Gesù è davvero risorto! Oggi siamo sempre più distratti dalle tante opportunità che ci vengono offerte dal mondo e dalla società, che sempre più spesso subiamo più che vivere. Gesù non è un soprammobile da poter mostrare orgogliosi nella illusione che noi lo possediamo a differenza di altri, Gesù è vivo, Lui è la vita, perciò dobbiamo riscoprire la nostra vocazione cristiana, il nostro impegno ad essere testimoni credibili in un periodo in cui tutti cerchiamo disperatamente un po’ di luce; come ci ricorda Lui stesso nel vangelo, noi siamo la luce del mondo, e non possiamo restare nascosti, ma dobbiamo fare luce. Questa è resurrezione: amare … amare senza misura. Amare la gente, i poveri soprattutto, e amare Gesù Cristo. La nostra diocesi, come ho avuto modo più volte di ricordarvi, sta riflettendo in questo anno pastorale sulla

carità che non vuole essere uno dei tanti temi sui quali ci soffermiamo per riflettere, ma un ricordare quello che è il fondamento della fede e del nostro essere cristiani: l’amore-carità.

Allora domandiamoci in questi giorni di festa, che Pasqua io posso celebrare se non mi accorgo del Cristo sofferente che mi è accanto in quelle tante persone che quotidianamente la vita mi fa incontrare? Dio per amore ha dato la vita, educhiamoci quindi alla carità, quella che, come ci ricorda l’apostolo Paolo, delle tre virtù teologali è la più grande di tutte. Auguro, quindi, a tutti voi carissimi parrocchiani, una Buona e Santa Pasqua, ripetendovi con umiltà il primo saluto di Gesù Risorto ai discepoli: «Pace a voi».

Pace alle famiglie e quindi solidità di affetti e di appartenenza reciproca. Pace specialmente ai giovani che sono tutti protesi alla vita, alla gioia, alla speranza. Pace a voi da Colui che è «il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita» (Ap 2,8). La Santa Pasqua che celebriamo ci aiuti a vivere una esperienza nuova di Cristo, le cose vecchie sono passate; coraggio andiamo sempre avanti perché, credetemi, proprio come con i discepoli di Emmaus Lui ci cammina accanto; quando ci sentiamo soli, delusi amareggiati quando pensiamo che Dio non si rivela nelle tante difficoltà che ci schiacciano, proprio allora come ci ricorda una preghiera Lui c’è, non solo è presente ma ci porta in braccio. Questa certezza vi accompagni sempre, Dio ci ama! per amore è venuto ad abitare in mezzo a noi, per amore ci ha rivelato il volto del Padre, per amore è morto sulla croce e nel suo infinito amore è risuscitato dai morti. Coraggio, sempre avanti, abbiate fede, non abbiate paura: il Signore è Risorto. Auguri – Alleluia

Don Antonio

LA PAROLA DEL PARROCO