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Roberto Brigati La ricerca dell’incertezza. Prolegomeni al relativismo 1. Una somiglianza di famiglia 1.1. Relativismo? E quale? Non solo non c’è una definizione nitida e ac- colta da tutti, ma i significati si accavallano, anche debordando su aree con- finanti. Intanto il relativismo s’iscrive, in maniera tutta da chiarire, in una famiglia di posizioni teoriche in cui rientrano ad esempio denominazioni come: soggettivismo, prospettivismo, convenzionalismo, scetticismo, nichi- lismo (epistemico), fallibilismo; altre designazioni affini rinviano a profili filosofici più storicamente individuati: decostruzionismo, storicismo, multi- culturalismo, postmodernismo, pensiero postmetafisico, pensiero debole. Poi ci sono diverse varietà del relativismo stesso, che possono comparire unite o disgiunte: relativismo concettuale, linguistico, epistemologico, aletico, cul- turale, morale, valoriale. Per di più, in molte analisi è cruciale l’estensione della relatività: se cioè questa sia intesa come un tratto di tutte le proposizioni o pretese di verità (relativismo radicale o globale) o solo di universi di discor- so delimitati, ad esempio quello morale, estetico ecc. (relativismo moderato o locale). Ma tutto ciò non basta: proprio perché manca una definizione condi- visa, in molti casi bisogna scendere fino alla species infima. Ognuno, o quasi, ne discute una propria versione idiosincratica, più spesso con finalità pole- miche. La fiorente letteratura pamphlettistica contro il relativismo, in parti- colare, tende per lo più a costruire un’immagine semplificata e ad hoc del proprio avversario 1 . Ma anche i relativisti non di rado si accontentano di attacchi veementi quanto generici ai feticci dell’epistemologia classica, qua- lunque cosa ciò significhi. Pochi se la sentono di fare seriamente esempi di “verità relative”, se con ciò intendiamo proposizioni che dobbiamo accettare come (relativamente) vere perché sono vere per qualcuno (salvo esempi trat- ti, non a caso, dalla sfera più soggettiva, come gli enunciati di gusto) 2 . Di so- lito ci si limita a invocare in via del tutto teorica il fatto del pluralismo cultu- 1 Come nota, tra gli altri, Chris Swoyer (Relativism, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, www.science.uva.nl/~seop/entries/relativism/, 2.2.2003, consultato 28.2.2007). 2 Probabilmente il settore in cui più abbondano gli esempi concreti, intenzionali e politi- camente rilevanti è quello della critica postcoloniale, dei Subaltern Studies e della “storia dal basso”. Cfr. ad es. il cap. 4 di D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton, 2000.

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Roberto Brigati

La ricerca dell’incertezza. Prolegomeni al relativismo

1. Una somiglianza di famiglia

1.1. Relativismo? E quale? Non solo non c’è una definizione nitida e ac-colta da tutti, ma i significati si accavallano, anche debordando su aree con-finanti. Intanto il relativismo s’iscrive, in maniera tutta da chiarire, in una famiglia di posizioni teoriche in cui rientrano ad esempio denominazioni come: soggettivismo, prospettivismo, convenzionalismo, scetticismo, nichi-lismo (epistemico), fallibilismo; altre designazioni affini rinviano a profili filosofici più storicamente individuati: decostruzionismo, storicismo, multi-culturalismo, postmodernismo, pensiero postmetafisico, pensiero debole. Poi ci sono diverse varietà del relativismo stesso, che possono comparire unite o disgiunte: relativismo concettuale, linguistico, epistemologico, aletico, cul-turale, morale, valoriale. Per di più, in molte analisi è cruciale l’estensione della relatività: se cioè questa sia intesa come un tratto di tutte le proposizioni o pretese di verità (relativismo radicale o globale) o solo di universi di discor-so delimitati, ad esempio quello morale, estetico ecc. (relativismo moderato o locale). Ma tutto ciò non basta: proprio perché manca una definizione condi-visa, in molti casi bisogna scendere fino alla species infima. Ognuno, o quasi, ne discute una propria versione idiosincratica, più spesso con finalità pole-miche. La fiorente letteratura pamphlettistica contro il relativismo, in parti-colare, tende per lo più a costruire un’immagine semplificata e ad hoc del proprio avversario1. Ma anche i relativisti non di rado si accontentano di attacchi veementi quanto generici ai feticci dell’epistemologia classica, qua-lunque cosa ciò significhi. Pochi se la sentono di fare seriamente esempi di “verità relative”, se con ciò intendiamo proposizioni che dobbiamo accettare come (relativamente) vere perché sono vere per qualcuno (salvo esempi trat-ti, non a caso, dalla sfera più soggettiva, come gli enunciati di gusto)2. Di so-lito ci si limita a invocare in via del tutto teorica il fatto del pluralismo cultu-

1 Come nota, tra gli altri, Chris Swoyer (Relativism, in Stanford Encyclopedia of Philosophy,

www.science.uva.nl/~seop/entries/relativism/, 2.2.2003, consultato 28.2.2007). 2 Probabilmente il settore in cui più abbondano gli esempi concreti, intenzionali e politi-

camente rilevanti è quello della critica postcoloniale, dei Subaltern Studies e della “storia dal basso”. Cfr. ad es. il cap. 4 di D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton, 2000.

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rale, deducendone che le verità relative esistono, o comunque che le “nostre” verità predilette potrebbero (legittimamente) non esser tali per qualcun altro.

Inutile sottolineare che altrettanta varietà si trova anche dall’altra parte, tra i “pensieri forti” in materia di epistemologia e d’etica. Un elenco alla rinfusa potrebbe includere ad esempio riferimenti teorici come: gli univer-sali antropologici, cognitivi o morali; le datità fenomenologiche a priori; la verità come corrispondenza; i programmi di naturalizzazione della cono-scenza; le teorie della classificazione basate su generi naturali; un’antro-pologia dei bisogni in quanto contrapposta a un’antropologia dei desideri; vari elenchi di diritti naturali o di valori specie-specifici; per non parlare ovviamente del pensiero teologico o ispirato a una rivelazione.

Queste precisazioni, pur tediose, sono necessarie per non incorrere in due sbagli diffusi: quello di crearsi da sé il proprio avversario, oppure di scegliere una posizione tra quelle avverse ed elaborarla surrettiziamente come idealtipo, di solito attraverso la tecnica argomentativa del vaso di Pandora o slippery slope (“se ammettiamo che ..., allora finiremo per con-cludere che ...”, dove il se-allora è tutto fuorché un’implicazione logica).

1.2. La mappa delle relazioni tra i membri delle due “famiglie” è com-plicata. Talvolta essi, pur distinguibili, si presentano insieme, rinforzandosi a vicenda. Mettiamo che qualcuno pensi di disporre di una fonte di cono-scenza infallibile; potremo allora definirlo non solo antiscettico, ma anche antifallibilista, posto che il fallibilismo sia la dottrina per cui nessuna cono-scenza è definitiva. Questa persona presumibilmente sarà propensa a difen-dere l’esistenza di valori assoluti, e dunque sarà antirelativista morale3; pro-pensione che a sua volta appare come una condizione necessaria (ma nient’af-fatto sufficiente) della tendenza a imporre o esportare tali valori, che è, se non la negazione, comunque un tratto antitetico al multiculturalismo. Tuttavia in direzione inversa non sempre valgono queste derivazioni: ad esempio molti fallibilisti si oppongono senza esitazioni al relativismo4. In breve, un passag-gio inferenziale troppo disinvolto dall’uno all’altro quadro teorico è inaccet-tabile. In nessun modo chi adotta o respinge una delle posizioni accennate s’impegna sempre a sostenere o contestare le altre. Qualche esempio ci ser-virà ad approfondire la comprensione del relativismo stesso.

Il relativismo culturale in antropologia è spesso presentato in termini pu-ramente descrittivi, come un’ipotesi scientifica o legge di copertura chiamata a spiegare osservazioni empiriche sul funzionamento delle culture5. I giudizi

3 Ma potrebbe essere relativista per altri versi. Benjamin Whorf, padre del relativismo lin-

guistico, era un cristiano fondamentalista. 4 Cfr. il lavoro di Dell’Utri in questo volume. 5 Così Melville Herskovits, spesso bersaglio di critiche antirelativistiche (tra cui quelle di

Bernard Williams), pensava che «il relativismo culturale fosse una posizione teorica riguardo a come stanno le cose [...] e non a come dovrebbero stare» (J.W. Fernandez, Tolerance in a

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“giusto” e “ingiusto” variano da cultura a cultura: da questa tesi empirica non seguirebbe nulla sul piano normativo, quindi non se ne può dedurre un rela-tivismo etico. In tal modo si vorrebbe evitare l’accusa d’inferire un dover es-sere da un essere, il che è probabilmente un’illusione (si veda l’analisi di Silvia Vida in questo volume; del resto è l’antropologia stessa, in altri contesti, a re-spingere un’immagine puramente descrittiva e avalutativa della scienza). D’al-tra parte, chi non ammetta in qualche misura il fatto empirico della relatività culturale sembra avere pochi motivi per sostenere un relativismo normativo.

Un altro caso interessante in sede tassonomica è quello del multicultura-lismo propriamente detto, che trova espressione nelle politiche di ricono-scimento e nelle rivendicazioni di diritti culturali. Si può ben essere multi-culturalisti senza essere relativisti: basterà considerare la protezione dell’i-dentità culturale come un diritto, ed eventualmente (ma non necessaria-mente) la pluralità delle identità come un vantaggio per qualsiasi società. Da ciò non segue che le culture siano a priori ugualmente “vere”. Un autore del canone multiculturalista come Charles Taylor – che sostiene sia la legit-timità sia il vantaggio dei diritti culturali – difende al tempo stesso un reali-smo ontologico-morale pienamente antitetico a soluzioni relativistiche in campo sia etico sia epistemologico.

D’altro canto non si può negare che esista, e non sporadicamente, un multiculturalismo che fa uso di premesse relativistiche, in particolare di un relativismo culturale normativo. Ciò può servire a sua volta per una prima messa a punto della disgiunzione tra relativismo e scetticismo, su cui torne-remo: difatti se il relativismo coltiva di solito attenzione e rispetto verso i molteplici patrimoni mitologici, religiosi e rituali delle culture umane, uno scetticismo puro dovrebbe forse sottoporli tutti a un’uguale ripulsa. Al pun-to che, se lo scetticismo si caratterizza per la sospensione del giudizio, per l’antropologia culturale viceversa si raccomanda generalmente come buona prassi la “sospensione dell’incredulità”.

1.3. Questa rete di rapporti si presenta quindi inconfondibilmente come una somiglianza di famiglia, ramificata fin dai suoi esordi. La struttura argo-mentativa di questa famiglia, infatti, è per sempre segnata dal gesto fondativo del nichilismo di Gorgia, coi suoi tre stadi invocati in subordine secondo la procedura tipica della perorazione forense: l’essere non è, se è non si può conoscere, se si può conoscere non si può dire. Trasponendo dal piano onto-logico a quello logico-epistemologico: non c’è verità, o non c’è conoscenza (certa) della verità, o non c’è condivisione/comunicabilità di una tale cono-

Repugnant World and Other Dilemmas in the Cultural Relativism of M.J. Herskovits, in «Ethos», 18, 2, 1990, p. 144). Il senso “descrittivo” e “normativo” sono distinti per es. da Swoyer, Relativism, cit., e da D. Wong, Moral Relativism, in Routledge Encyclopedia of Philo-sophy, versione 1.0, Routledge, London (consultato 15.4.07).

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scenza. Nonostante tutto, però, è forse possibile raggruppare gran parte di questi quadri teorici sotto l’etichetta di atteggiamenti di indeterminazione epi-stemica (o più semplicemente indeterminismo). A grandi linee, si tratterebbe in tal senso di quelle prospettive che pongono limiti alla possibilità di deter-minare in generale se un asserto p è vero, o giustificato, o giusto. Una caratte-rizzazione più precisa dovrebbe articolarsi in tre linee, rispettivamente con-nesse appunto alla verità, alla giustificabilità epistemica (o affidabilità), alla giustezza o validità etica. Diamo solo un’indicazione della prima. Si adotta un atteggiamento indeterministico quando si reputa o che [1] (nichilismo) il va-lore di verità di p è intrinsecamente non determinato; o che [2] (relativismo) tale valore è determinato ma solo in relazione a un soggetto, cioè dipende in vari sensi e gradi dal conoscente (osservatore, parlante), dal suo linguaggio, dal suo sistema concettuale, dal suo metodo di acquisizione di conoscenze; o ancora che [3] (scetticismo) tale valore, sia o no determinato intrinsecamente, non è comunque determinabile dal soggetto in un numero finito di passi.

Ai margini di un orizzonte così definito resterebbero solo, mi sembra, il multiculturalismo inteso in senso stretto, cioè come problema costituzionale dell’ammissibilità di diritti di gruppo; e il relativismo culturale inteso come ipotesi puramente empirica nel senso che s’è detto (il che beninteso non significa che questi problemi siano estranei al nostro orizzonte filosofico).

2. Relativismo e scetticismo

2.1. Per lungo tempo, il più importante tra i componenti della famiglia sopra descritta è stato lo scetticismo, i cui ranghi si sono oggi fortemente assottigliati tra i filosofi professionisti. È un quadro teorico con cui il relati-vismo viene talvolta consapevolmente associato e spesso inconsapevolmente confuso6; è cruciale allora distinguerli. Lo scetticismo, genericamente, è un atteggiamento di dubbio circa la conoscenza e la sua giustificazione. Per usare le parole di Richard Popkin, gli argomenti scettici dicono

o 1) che non è possibile alcuna conoscenza o 2) che gli elementi di prova per stabilire se una conoscenza sia possibile sono sempre insufficienti o inadeguati, sic-ché su tutte le questioni concernenti la conoscenza occorre sospendere il giudizio. La prima di queste posizioni viene chiamata scetticismo accademico, la seconda scetticismo pirroniano7.

6 Per citare solo un caso tanto più gustoso quanto più solenne: «Definito nel modo più ri-

goroso, il “relativismo” è la negazione che la ragione possa conoscere in modo autonomo qual-cosa di incontrovertibile» (E. Severino, in «Corriere della Sera», 9.6.06). Ottima definizione, ma dello scetticismo.

7 R.H. Popkin, The History of Scepticism from Erasmus to Descartes, New York, 1964, 1979, trad. it. Storia dello scetticismo, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 1.

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Viceversa, il relativismo non dubita della possibilità di provare o giusti-ficare la credenza, ma introduce una terza variabile tra credenza e realtà – una nozione di punto di vista, prospettiva, schema concettuale ecc. – e ne fa dipendere la giustificazione stessa. Semplificando molto, il relativismo dice che non c’è verità assoluta, lo scetticismo che non c’è certezza; entrambi investono poi anche la sfera del valore, dalle loro rispettive angolature: lo scetticismo si asterrà dal guadagnare una certezza in campo etico, il relativi-smo affermerà che i giudizi di valore sono veri o falsi, seppur lo sono, solo in relazione al soggetto che li enuncia.

I rapporti tra i due discorsi filosofici possono essere quindi anche al-quanto tesi, specialmente se pensiamo allo scetticismo pirroniano, il quale non afferma che non c’è certezza, ma sospende il giudizio avendo constatato l’impossibilità di raggiungerla. Dal punto di vista pirroniano, l’affermazione per cui ogni proposizione è vera solo relativamente al soggetto è appunto un’affermazione, dogmatica al pari di quella contraria. Lo scetticismo può certamente servirsi di argomenti relativistici, ma solo al fine di constatare l’isostheneia, l’equivalenza tra le tesi opposte e dunque l’indecidibilità; di fronte all’alternativa di concepire la verità come relativa o assoluta, il pirro-nismo si astiene dal prender partito8.

Beninteso, questa critica non è una confutazione del relativismo. Una vol-ta ammesso che relativismo e scetticismo sono due cose diverse, un relativista può ben accettare di non essere scettico. Può cioè considerare il proprio pun-to di vista come corroborato sul piano epistemologico, ma precisando che è corroborato soltanto all’interno di un sistema di credenze e valutazioni, cioè corroborato in senso relativo: non c’è un punto di vista neutrale da cui giudi-care il proprio relativismo e l’assolutismo altrui9. Ciò implica che per questo relativismo non scettico ci sono verità, ma relative. Su queste verità si può raggiungere una certezza il cui grado non dipende dalla loro relatività, ma dalle particolarità della loro acquisizione (il “contesto della scoperta”, nel vocabolario neopositivista). Anzi, spesso il carattere relativo di tali verità è ciò che ne rafforza la certezza, cioè l’indubitabilità soggettiva (benché questa cer-tezza non possa essere detta assoluta: questo vorrebbe dire non dipendente dal soggetto, il che è escluso per ipotesi). La versione individualistica di que-sto rafforzamento, quella che dice grosso modo che “ognuno ha la sua veri-tà”, è oggi abbastanza fuori moda, mentre è in gran voga la versione culturali-stica: è proprio perché ognuno è immerso nella propria forma di vita, che alcune certezze primitive non possono essere scalzate. Esse sono, per dirla con Wittgenstein, la roccia su cui si piega la mia vanga.

8 Devo questa puntualizzazione a Walter Cavini. 9 Cfr. infra, § 3.2.2, e il saggio di Trifirò in questo volume; inoltre M. Baghramian, Relati-

vism, Routledge, London, 2004, p. 135.

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2.2. Ci sono numerose varietà di scetticismo non relativistico, su cui non possiamo trattenerci. Oltre al pirronismo classico, val la pena però di segna-lare almeno lo scetticismo fideista o mistico, la cui posizione è così caratte-rizzata da Popkin:

Coloro che io qualifico come fideisti sono, appunto, scettici sulla nostra possibi-lità di pervenire alla conoscenza con mezzi razionali in assenza di alcune verità fon-damentali note per fede10.

Come si vede, proprio come il relativista può essere dogmatico, lo scet-tico può essere assolutista. Per lo scettico-fideista, infatti, il concetto di veri-tà è (presumibilmente) quello standard, la verità “assoluta”; ma l’uomo non conosce la verità assoluta, o non la conosce con certezza, o comunque non per le normali vie di conoscenza; dunque non c’è conoscenza della verità se non da parte di Dio, e dell’uomo solo in quanto sia illuminato da Dio attra-verso la grazia o addirittura arrivi a fondersi con Dio nell’esperienza della unio mystica. Un esempio calzante benché fittizio potrebbe essere la posi-zione di Demea nei Dialoghi sulla religione naturale di Hume; ma comun-que gli esempi storici abbondano nello scetticismo cinque-secentesco11.

Esiste anche un relativismo scettico? Il problema è che lo scetticismo, specie in versione pirroniana, è una posizione talmente forte che tende a oscurare ogni altra componente teorica con cui si trovi combinato. Sospen-dere il giudizio su tutto è una massima che non invita ad aggiungere altre considerazioni teoriche. Una visione che combina un relativismo locale (li-mitato al campo etico) e un moderato scetticismo non pirroniano è noto-riamente quella di Bernard Williams. Per Williams, in breve, ci sono sistemi di credenze che non rappresentano per noi un’«opzione reale»; con essi abbiamo «rapporti troppo lontani e blandi perché i nostri giudizi riescano a far presa su di essi»12. Dobbiamo quindi (così interpreto) sospendere il giu-dizio su di essi; tuttavia sappiamo che ci sono e che per qualcuno rappre-sentano o hanno rappresentato un’opzione, un po’ come sappiamo (di nuo-vo interpreto) che a qualcuno piace un sapore che a noi non piace, anche se non riusciamo a farci un’idea di come lo percepisca. Qui Williams potrebbe essere sulla strada giusta (ne riparleremo), ma così formulata bisogna dire

10 R.H. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 6. 11 Cfr. la discussione di Popkin. Oggi una concezione di questo tipo è difesa con franchez-

za dal teologo luterano Peter L. Berger (Questioni di fede. Una professione scettica del cristiane-simo, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2005), e, in Italia, da Dario Antiseri.

12 Cosa c’è di vero nel relativismo? (1974-75), ora in Sorte morale, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1987, p. 183. Vedi anche la critica di Jack Meiland (Bernard Williams’ Relativism, in «Mind», 88, 350, 1979), più vicina alla posizione esposta nel capoverso precedente. Da notare che Williams è tra i più noti sostenitori dell’accusa di autoconfutazione nei confronti del relati-vismo che chiama «volgare».

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che la plausibilità della sua tesi cresce inversamente al suo interesse. L’inter-pretazione – come amava dire Roberto Dionigi – scaturisce dall’improba-bilità del discorso altrui: dunque esiste dove c’è alterità. Ma se l’altro è troppo lontano l’interpretazione è interdetta, se è troppo vicino non serve. Cioè, se i sistemi con cui non abbiamo un confronto reale sono davvero inaccessibili (com’è inaccessibile il palato altrui), è difficile non essere “rela-tivisti” nei loro confronti, ma nemmeno ci sono forti ragioni per non esser-lo. Quando tali sistemi si fanno più vicini, si vorrebbe avere un modo per interpretarli, giudicarli ed eventualmente combatterli pur continuando a considerarli relativisticamente come forme di vita differenti. Tale è la crux del relativismo, e l’elaborazione di Williams non la risolve.

3. Pons asinorum: l’imbarazzo del relativismo

3.1. L’argomento-base, il vero e proprio pons asinorum delle critiche ri-volte a tutta la “famiglia” degli indeterminismi, è quello che vi ravvisa un carattere di autocontraddizione in senso logico: chi afferma che non c’è verità (o che non si può conoscere o che non si può dire) afferma ciò come una verità, dunque, se ciò che dice è vero, allora è falso. Ne segue che la ne-gazione dell’esistenza di (ogni) verità è falsa. (Ci sono altre premesse tacite di questo argomento, tra cui spicca quella per cui affermare significa affer-mare la verità di quanto si proferisce. Come abbiamo visto, l’unico membro della famiglia degli indeterminismi che possa a buon diritto respingere que-sta premessa fin dall’inizio è lo scettico pirroniano. Tra poco ci chiederemo se il relativista non-scettico possa fare lo stesso, e che cosa ciò implichi.)

Tale conseguenza, va notato, non si applica tout court al relativismo, il quale non dice che non c’è alcuna verità, ma al contrario che ce ne sono tante. Soltanto qualora si facciano derivare dal relativismo tesi concepite – consape-volmente o no – come valide in senso transculturale o transprospettico, sarà applicabile l’argomento dell’autocontraddittorietà. Così, poniamo, se dal rela-tivismo si fa discendere una richiesta di tolleranza verso ogni manifestazione culturale, si potrà rimproverare che tale principio viene promosso come «un giudizio morale transculturale che fa uso di una norma morale [assoluta]»13; ma questa derivazione non appare implicata dal relativismo in quanto tale.

3.2. Anche se non è autocontraddittorio come potrebbe essere il cugino nichilista, non si può negare che il relativista si trovi in una posizione imba-razzante. Non può sopportare che gli sia data ragione. Se accetta di essere corroborato in modo assoluto, la sua tesi si assolutizza: infatti, come osserva Trincia (in questo volume), «gli assoluti non si confutano ma piuttosto si

13 L.M. Kopelman, Female Circumcision/Genital Mutilation and Ethical Relativism, in

«Second Opinion», 20, 2, Oct. 1994. La critica è comunque molto diffusa.

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negano, e qualora si pretenda di negarli con altri assoluti li si conferma» (p. 182). Diventa allora assolutamente vero che i sistemi di valori/credenze so-no veri relativamente al soggetto che li enuncia, e questa è una verità che non dipende più dal soggetto enunciante. Non solo: a ben guardare, questa – che i sistemi sono relativi – non è l’unica verità assoluta che sia costretto ad ammettere, anzi14. La verità del relativismo dovrà essere intesa in senso per così dire distributivo: di ciascun nesso soggetto/enunciazione si dovrà dire che configura una verità assoluta (insomma, qui l’“uomo-misura” è inte-so distributivamente come “ciascun uomo”, e non collettivamente come “la specie umana”). Ad esempio, che il valore X sia buono (o non buono) per S, questa è una verità; e così per tutte le sostituzioni di X e di S (comprese quelle in cui S è un gruppo o una comunità). È da questo tappeto di relati-vità assolutizzate che segue la proposizione filosofica sovraordinata: non c’è altro modo di dire che qualcosa è buono se non dicendo che è buono per qualcuno – solo che questa proposizione deve pur essere affermata, pretesa, come verità. E se l’intento, lo scopo illocutivo dell’asserire qualcosa è otte-nere la credenza altrui, insomma guadagnare qualcuno alla propria causa, allora questa proposizione, come quelle subordinate, dev’essere asserita co-me qualcosa che vale tanto per me che la enuncio quanto per chi mi ascolta. Il problema è dunque, diciamo così, di forza (illocutiva) e non di forma.

3.2.1. Il relativismo di Protagora potrebbe essere di questa specie “asso-lutistica”, secondo alcune letture: potremmo dire che Protagora è relativista senza essere convenzionalista15. Le verità sono relative alla natura del sog-getto conoscente; ma questa è appunto natura, e la sua relazione con l’og-getto conosciuto è perfettamente determinata, non è materia di accordi contrattuali. Ciò apre la possibilità di un algoritmo che ripristini l’asso-lutezza, attraverso una sorta di “equazione personale” del conoscente; se questa sia una possibilità reale è da discutere, ma vista in questa luce la po-sizione protagorea non sarebbe comunque più un relativismo puro.

3.2.2. E se il relativista ammettesse, come si accennava sopra, una conva-lida soltanto relativa? Dovrebbe dire, insomma, per me è vero il relativismo, mentre per un altro è vero l’assolutismo. Questo non è contraddittorio, o più esattamente: questo metarelativismo o relativismo d’ordine superiore (relatività di relativismo e assolutismo) non è più contraddittorio del relati-vismo d’ordine inferiore (quello per cui p e non-p possono essere entrambe vere per soggetti diversi); dunque al fine di confutare quest’ultimo appare ozioso puntare il dito sulle presunte contraddizioni del primo. Se una per-sona è preparata a dire che una stessa proposizione può essere vera (relati-

14 Vedi però, contra, l’opinione di Robert Nozick, richiamata da Zilioli (in questo volume). 15 Cfr. L. Versényi, Socratic Humanism, Yale UP, New Haven, 1963, pp. 29 sgg. Sul pro-

tagorismo si veda comunque il saggio di Zilioli.

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vamente a S1) e falsa (relativamente a S2) nello stesso tempo, non si spaven-terà se questa sua opinione è falsa per qualcuno. L’importante è che non sia vera e falsa per lei (è questo che vuol dire autocontraddizione); ma può tranquillamente riconoscere che è vero per lei che la sua opinione è falsa per qualcun altro. Non è che si autocontraddica, semplicemente ammette la contraddizione (reciproca) come una delle proprietà interessanti della con-versazione umana16.

Tuttavia questa mossa viene criticata (anche da chi ammette che non c’è contraddizione) in quanto è politicamente una ritirata: vuol dire rinunciare a asserire la propria posizione e a persuadere l’avversario, dopodiché l’asso-lutista non avrebbe più nemmeno bisogno di confutare la pretesa dell’av-versario perché questa non è più una pretesa. Il relativismo, in questa veste, deporrebbe la carica politica di antagonismo che spesso lo connota per as-sumere tutt’al più un ruolo defilato di alta suggestione morale, da profeta disarmato o da tafano socratico. Può darsi che questa sia la collocazione migliore, più coerente e perfino più utile17, ma è per l’appunto quella che obbliga il relativismo a protestare sempre di nuovo contro ogni tentativo di dargli ragione. Non può pretendere di convincere perché ciò significa rien-trare nel circuito delle pretese di verità; né di essere condiviso sulla base di ragioni universali, perché l’assenso di due soggetti alla medesima proposi-zione avviene sempre localmente. Risulta allora convincente solo per chi già lo condivide o è predisposto a condividerlo18: fatto che sembra connotare più una Weltanschauung o un tipo psicologico in senso junghiano o jasper-siano che una dottrina filosofica presentabile.

Molte delle confutazioni filosofiche del relativismo, in realtà, sono ap-punto rinvii alla sua auto-confutazione o meglio al suo imbarazzo di fondo. In vista di ciò, la vittoria ottenuta così dall’antirelativismo contro un avver-sario apatico non è luminosa. La sua confutazione appare infatti tipicamen-te parassitaria. Non è condotta in prima persona: ci si limita ad aspettare che il relativismo faccia tutto da solo. Fuor di metafora, il procedimento è quello della reductio ad absurdum, non della ben più convincente demon-stratio ad oculos. L’antirelativismo può sperare di vincere così la propria battaglia? Perché l’antirelativismo, a differenza dello scetticismo pirroniano e del relativismo “disarmato”, ha una battaglia da combattere, né ciò può es-sergli rimproverato: ma allora deve puntare alla “persuasione” e non alla “ret-

16 Naturalmente ci sono anche sistemi che ammettono l’autocontraddizione, come la logi-

ca hegeliana o le logiche libere. – Sull’oziosità di molte argomentazioni “logiche” contro il relativismo si veda la serrata polemica di Artosi in questo volume.

17 Un ruolo chiaramente “morale” e critico in senso socratico è in fondo anche quello sug-gerito da Artosi per il «relativista avveduto»: «Io, potrebbe dire, mi limito a presentare dei punti di vista che ritengo interessanti, soprattutto per voi» (infra, p. 100).

18 Cfr. M. Baghramian, op. cit., p. 141.

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torica” (per dirla alla Michelstaedter). Se il relativismo non smuove chi esige standard assoluti di validità (e c’è da stupirsene?), nemmeno l’assolutismo ha grande forza persuasiva al di là del mero elenchos antirelativistico.

Per cercare questa forza bisogna varcare il pons asinorum: quali strade si aprono allora per la critica al relativismo? Senza pretesa di completezza, vediamone alcune.

4. No fact of the matter: il relativismo come scetticismo

La prima strategia ci riporta ancora una volta al nesso tra relativismo e scetticismo. La posizione relativistica implica che non esiste uno “sguardo da nessun luogo”, un punto di vista d’ordine superiore dal quale giudicare i punti di vista sottostanti. Ciò sembra avere una conseguenza che è, questa sì, di sapore scettico. Se infatti le verità non sono che relative (al parlante, alla sua cultura o forma di vita), e così pure le norme e i valori, allora non è possi-bile né sensato stabilire “chi è nel giusto” tra due punti di vista diversi. Non c’è fact of the matter (Swoyer), si dissolve «la distinzione tra ordo essendi e ordo cognoscendi» (Trifirò), «la consueta differenza tra “avere ragione” e “credere di avere ragione”» (Dell’Utri). Se dunque risulta impossibile giudi-care tra due tesi opposte, siamo approdati di nuovo all’epoché scettica. A que-sto ceppo appartiene l’argomento sviluppato qui da Massimo Dell’Utri19:

Nel caso delle teorie e degli enunciati empirici, è [...] il mondo che in ultima a-nalisi “decide” della loro validità o invalidità in virtù del feedback positivo o negati-vo che rimanda. Ma se [...] il mondo ricavabile da una prospettiva relativista è rigo-rosamente intraparadigmatico, avremo allora che nessun controllo, nessuna corre-zione sarà possibile, e dunque nessun progresso conoscitivo reale. [...] Infatti, i cri-teri – tanto empirici quanto argomentativi – per la giustificazione di teorie ed enun-ciati sono “interni”, fissati cioè dallo stesso paradigma. Tuttavia, un criterio di valu-tazione funziona solo se è effettivamente indipendente da ciò che deve valutare; se è effettivamente oggettivo, in grado cioè di scegliere tra più alternative; e se è conforme al mondo, che deve essere parimenti indipendente e oggettivo.

Una possibile controreplica, inerente però alla sfera etico-normativa, è implicita nella linea sviluppata da Fabrizio Trifirò (in questo volume). Di-stinguendo fra terreno di giustificazione e ambito di applicazione dei giudizi, Trifirò osserva che «il fatto di non poter ottenere un terreno di giustificazione

19 Cfr. più oltre, p. 80. Da notare che Dell’Utri, nel saggio, respinge poi lo scetticismo stes-

so facendo centro sulle «intuizioni prefilosofiche», secondo le quali noi innegabilmente ab-biamo conoscenze. Si potrebbe obiettare che tali intuizioni sono un cavallo di battaglia dello scetticismo, proprio contro i dogmi filosofici contrari all’opinione comune, e contrari perché oggettivistici: «conosciamo solo ciò che sentiamo [...] e che il fuoco brucia lo sentiamo, ma che abbia una natura caustica non lo affermiamo» (Diog. Laert. IX.103-107).

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universale per le nostre credenze e pratiche non significa che non possiamo ritenerle valide, e quindi tali da applicarsi, universalmente» (p. 238). Ciò vie-ne in sostanza a impedire il passaggio da (1) Non posso giustificare le mie credenze con ragioni universali (transculturali) a (2) Devo sospendere il giudi-zio. Secondo questa prospettiva infatti le ragioni “locali”, persino se apper-cepite come tali, autorizzano comunque giudizi che sono universali.

Restando sul piano epistemologico, però, è da notare che la preoccupa-zione che muove questo tipo di critiche (nei casi più interessanti) non è tan-to quella di non poter più convalidare le proprie credenze, quanto quella di non potersi sbagliare, cosa che sarebbe esiziale per il fallibilismo come per il falsificazionismo popperiano. Ma il relativismo conduce per forza a questo?

L’argomento dell’impossibilità di sbagliare sarebbe certamente applica-bile a chi parlasse un linguaggio privato, la cui logica ammette di fatto un solo valore di verità; lo stesso si può dire, forse, per un solipsista o soggetti-vista radicale20. Viceversa, se una forma di vita o sistema concettuale con-tiene un insieme di regole o criteri o principi epistemologici, non sembra impossibile che un suo membro o seguace possa sbagliarsi rispetto a tali regole. In questo senso, il progresso della conoscenza può benissimo essere intraparadigmatico; è sufficiente che ci siano parti o componenti o articola-zioni del paradigma che possano controllare o svolgere funzione di expertise rispetto ad altre parti, sulla base di un sistema di regole condiviso a grandi linee. L’essenziale è che ciascun enunciato non sia controllato da sé stesso, che non produca da sé il proprio truth-maker (come in un idealismo forsen-nato)21. Quel che ci vuole è qualcosa che svolga la funzione di primitivo logico. Svariate teorie metafisiche affermano che ci sono cose che sono in sé un tale primitivo (la sostanza, le strutture mentali innate, la natura); ma la dimostrazione è a carico loro. In breve, si può parlare di crescita della co-noscenza anche a partire da (i) qualche forma di teoria della verità come coerenza, in cui il vincolo fondamentale sia il legame fra verità e metodo; oppure da (ii) un’idea di verità come corrispondenza ai fatti che però non sia associata a una metafisica univocistica in cui i “fatti” sono gli stessi per tutti. In entrambi i casi, sarebbe una crescita intraparadigmatica.

20 Cfr. M. Baghramian, op. cit., p. 133. Per soggettivismo radicale, grosso modo, intendo

un punto di vista che non ammette intersoggettività; ma un soggettivismo di tipo diverso non necessariamente equivale alla postulazione di un linguaggio privato, come dimostra il punto di vista fenomenologico, evocato in seguito.

21 Una frase di Ernst Mally può chiarire che cosa intendo: «“Ciò a cui io sto pensando” è un modo di dire che ha un senso intelligibile solo quando questo “ciò” è stato appreso in un pensiero precedentemente dato, e il cui senso non può quindi essere co-prodotto attraverso il senso di quel modo di dire: nei confronti di quest’ultimo, tale senso è un primitivo logico ne-cessario» (Über Subjektivitäten und ihre objektive Bedeutung, in Studier tillägnade Efraim Lilje-qvist, Lund, 1930, estratto, pp. 5-6).

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Per giunta, al di là della questione del metodo, alcune correnti fenome-nologiche hanno assegnato alla soggettività un ruolo inaggirabile nella costi-tuzione dell’evidenza. Da questo punto di vista si potrebbe addirittura ar-gomentare che la conoscenza, lungi dall’esserne impedita, ha bisogno del relativismo soggettivo, o di una qualche sua forma. È lo stesso Descartes a fornirci questo quasi-paradosso. Nel rispondere a chi gli obiettava che la certezza del cogito, per quanto incrollabile, è comunque solo soggettiva, Descartes non fa che rivendicare tale soggettività come orizzonte ultimo, istituendola così come sede dell’evidenza: «Che cosa ci importa se qualcuno immagina che ciò stesso, della cui verità noi siamo sì fortemente persuasi, sembra falso agli occhi di Dio o degli angeli, e che, pertanto, assolutamente parlando, è falso?»22. È semmai l’insistenza su un requisito di universalità a mettere in pericolo la conoscenza, perché non ripara dal dubbio iperbolico. La tesi che Protagora annunciava in termini ontologici («la percezione è sempre di ciò che è», come traduce Zilioli nel suo saggio) è ribaltata così da Descartes sul piano di un’antropologia della conoscenza. Per legittimare qualsivoglia pratica di conoscenza, viene a dirci Descartes, è necessario pre-scindere dal punto di vista di Dio e degli angeli: occorre fare dell’essere umano la misura della certezza.

5. La prigione del linguaggio: il relativismo come incomunicabilità

Un’altra diffusa convinzione a proposito del relativismo suona più o meno così: “Il relativismo costringe a chiudere i sistemi concettuali o cultu-rali nel proprio guscio, impedendo qualunque giudizio critico dall’ester-no”23. L’idea è quella – in voga, si suppone, tra alcuni autori decostruzioni-sti, e a torto o a ragione attribuita a Wittgenstein – per cui siamo “impri-gionati” ciascuno nel proprio linguaggio o nella propria cultura o forma di vita e non possiamo muoverci da un linguaggio all’altro. D’altronde questa tesi va subito incontro a obiezioni sul piano empirico, a partire dal semplice factum dell’apprendimento e della (re-)inculturazione. Negarlo significa chiudere gli occhi di fronte a uno dei fenomeni sociali più cospicui del no-stro tempo: la migrazione, intesa come prova vivente della (ri-)plasmabilità culturale. «Il messaggio che [i migranti] incarnano, intenzionale o no, è che “si può vivere altrove e senza il paese d’origine”»24.

22 Risposte alle seconde obiezioni, trad. it. p. 318 (cors. mio), discusso da Popkin, pp. 231

sgg. 23 Tanto per fare un esempio, è un argomento utilizzato da Kai Nielsen contro quello che

lui chiama il “fideismo wittgensteiniano”. 24 A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra culture? Una riflessione storico-metodologica,

in C. Galli, a cura di, Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 177.

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Anche volendo chiudere gli occhi, peraltro, il principale argomento lo-gico-teoretico in favore dell’“imprigionamento” dovrebbe essere qualche versione culturalista della teoria delle categorie: se comprendere significa sussumere particolari sotto categorie generali, e se queste sono culturalmen-te determinate, allora non possiamo comprendere se non ciò che la nostra cultura ci ha addestrato a riconoscere. È dubbio però che questa teoria pos-sa essere articolata intelligibilmente. Quante sono le categorie (di una data cultura, poniamo la nostra)? Sono un numero finito o infinito? Finito ma aperto? Qualunque soluzione che “apra” la tavola delle categorie risulta inutilizzabile per la teoria dell’imprigionamento (perché vuol dire che le categorie si possono modellare e ricreare); e qualunque proposta di una tavola chiusa è destinata ad apparire arbitraria. Affermare semplicemente che a ciascuna cultura debba corrispondere una e una sola “tavola” chiusa è un puro assunto metafisico. E se non riusciamo nemmeno a specificare la nostra tavola delle categorie, difficilmente possiamo trarre conclusioni ge-nerali sulla permeabilità o meno dei sistemi categoriali. In un certo senso, la negazione della possibilità di riplasmare le identità, se si fonda su un’epi-stemologia delle categorie, ha la stessa consistenza di una negazione del movimento basata sui paradossi di Zenone: empiricamente, la si può confu-tare mettendosi a camminare, come Diogene25; teoreticamente, dipende da certe ipotesi metafisiche che non siamo tenuti ad adottare.

La possibilità del dislocamento culturale, cioè la possibilità per un indi-viduo di muoversi da uno schema concettuale all’altro, da un orizzonte all’altro, di ricontestualizzarsi in una diversa cultura, è evidentemente altra cosa dalla cosiddetta “fusione degli orizzonti”, fenomeno che comporta la formazione di una (nuova) comunità di parlanti-attori, ed è quindi un caso di sincretismo. Il dislocamento culturale presuppone invece, semplicemen-te, la possibilità dell’apprendimento, che in quanto tale è sempre disloca-mento, acquisizione di un nuovo schematismo. Ogni inculturazione è ac-quisizione di una (nuova) identità.

Viceversa il dislocamento individuale è strettamente legato, forse addi-rittura in senso causale, alla plasticità delle culture stesse. Indipendente-mente da fenomeni di sincretismo, le culture hanno una propria dinamica. Se mai è esistito un relativismo essenzialistico, certo non è più attuale:

il relativismo tradizionale assume che le culture siano “chiuse” e ben definite; che possano cioè trattare ogni questione dando ad essa una risposta o vedendola come un non senso. Ma questo non è il modo “reale” in cui reagiscono le culture. Di fronte ai grandi problemi (o ai duraturi successi) esse cambiano; la società che risolve un grosso problema non è la società che vi è incorsa, e quindi non può contare come

25 La metafora è presa da De Michele (in questo volume). Sul fatto che il relativismo non ne-

ghi «la possibilità di “trascendere” il proprio sistema di riferimento» cfr. anche Artosi (n. 59).

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una misura stabile di successo; in un certo senso potremmo dire che potenzialmente ogni cultura è tutte le culture26.

Attraverso il concetto di potenzialità, la plasticità che era stata respinta come attributo logico dell’idea di schema categoriale viene così recuperata come attributo dell’oggetto. Se si concepisce l’identità (personale o cultura-le) come prodotto di un’interazione, non è più impossibile spiegare il cam-biamento. Il “fatto” dell’incomunicabilità, per così dire, ha una via d’uscita dinamica: dalla prigione si esce con le proprie gambe. Le identità sono di-verse perché hanno risposto a domande diverse, ma possono comunicare perché possono continuare a reagire a nuove domande, eventualmente inte-ragendo ulteriormente. Certo, un punto di vista “continuista” direbbe qui che possono porsi le stesse domande. Ma non sembra esserci un criterio della “medesimezza” della domanda.

6. Anything goes: il relativismo come legittimazione

6.1. Uno dei timori più frequenti scatenati dal relativismo, particolar-mente quello etico, è connesso alla “proliferazione” (e il termine è feyera-bendiano) delle giustificazioni. Se ogni proposizione può essere vera per qualcuno, se ogni norma (o le norme cruciali) è giustificata per qualcuno, allora non possiamo più combattere le ingiustizie, anzi non possiamo nem-meno chiamarle ingiustizie. Tutto è legittimo, “tutto va bene”, e questo, se vogliamo essere coerenti, ci condanna alla passività.

In parte questo timore nasce dall’infelice adozione della formula any-thing goes come epitome dell’anarchismo metodologico proposto da Feye-rabend. Nel suo contesto originario, la massima aveva un altro spirito, anzi addirittura un’altra lettera: non “qualunque cosa va bene”, ma “qualunque cosa può andar bene”:

“Qualsiasi cosa può andar bene” non significa che io debba leggere tutti gli arti-coli che sono stati scritti [...] ma significa che io opero la mia scelta in un modo mol-to personale e lasciandomi guidare dalle mie idiosincrasie27.

Si trattava cioè di una massima (non si è mai chiarito, mi pare, se de-scrittiva o normativa) riguardante il potenziale di progresso di singole prati-che di conoscenza. All’inizio, diceva Feyerabend, un programma di ricerca non è che una serie di attività abbastanza casuali, che possono avere l’a-

26 P.K. Feyerabend, Quale realtà?, in A. La Vergata, A. Pagnini, a cura di, Storia della filo-

sofia e storia della scienza. Saggi in onore di Paolo Rossi, La Nuova Italia, Firenze, 1995. 27 P.K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, New

Left Books, London, 1975; trad. it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1979, 19803, p. 178.

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spetto del gioco: «le teorie diventano chiare e “ragionevoli” solo dopo che parti incoerenti di esse sono state usate per molto tempo»28. Non è, dunque, che si debba accettare qualunque cosa come parte stabile del nostro sapere; piuttosto, non si può sapere in anticipo che cosa potrà stabilizzarsi felice-mente: questo lo si può giudicare solo dopo la verifica del suo contributo di progresso, inevitabilmente valutato in base a criteri ideologici. Da ciò segue semplicemente che il dogmatismo e la sclerotizzazione dei programmi di ricerca fanno male alla scienza. Comunque si giudichi questa idea come indicazione di prassi scientifica, è chiaro che non annulla la possibilità di esaminare e scartare pratiche e concetti, benché certamente costituisca una presa di posizione a favore di una maggiore “proliferazione”.

6.2. Al di là della questione del significato di quello slogan, è vero che il relativismo legittima qualunque prassi? Il problema delle “troppe verità”, come abbiamo detto, è un classico assillo del relativismo: se dobbiamo un riconoscimento a ogni “verità relativa”, dicono i critici, non abbiamo più basi su cui fondare un’opposizione. Questa critica sembra però dimenticare che, diciamo così, per ogni verità relativa c’è anche una falsità relativa. Se l’azione di un altro è legittima dal suo punto di vista, non si vede perché non debba esserlo la mia reazione. In altri termini, se la proposizione p è falsa per me, questo mi dà almeno il diritto sacrosanto di oppormi a chi mi vuole imporre p come vera.

6.2.1. Se mi dia anche il movente, la forza psicologica sufficiente, se cioè una verità-per-me sia sufficiente come meccanismo identitario e motivazio-ne all’azione o alla reazione, questo è un altro problema, e non è questione di legittimità. Si tratta evidentemente del timore che sta dietro, per fare un esempio, all’allineamento dei cosiddetti “atei devoti” a posizioni identitarie forti (assolutiste) come quelle del Magistero cattolico, in funzione di balu-ardo contro altri assolutismi percepiti come pericolosi. Vale la pena di sof-fermarsi brevemente su questo punto.

Molte delle critiche al relativismo hanno infatti una forma volontaristica, ottativa, la forma del surtout pas: è doveroso opporsi al relativismo, non pos-siamo certo rischiare di cadere nell’anomia. Si sente risonare qui ciò che Horkheimer chiamava il «Glauben an den Glauben», la fede nella fede29. Ma, anche se il rischio fosse reale, il bisogno di valori può giustificare la cre-denza in essi? Sembra di no, almeno se la giustificazione si intende nei ter-mini di un’epistemologia assolutistica. Presumere che esistano valori e veri-tà perché dobbiamo averne, perché “bisogna pur credere in qualcosa”, è

28 Ivi, p. 24. 29 M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. Einaudi,

Torino, 1969, pp. 61, 82. Ho svolto argomentazioni analoghe a queste in un intervento dedica-to a Taylor (Charles Taylor und die Dialektik der Ernüchterung, in «Hegel-Jahrbuch», 1996).

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semplicemente un errore categoriale, che deduce un essere da un dover essere; e forse è un rimedio peggiore del male (anche se il male è davvero una patologia sociale, come l’anomia). “Bisogna credere” è un’espressione confusa: credere non si può comandare, perché non è un gesto o un’azione. Kant ne era del tutto consapevole:

può certo accadere di seguire una dottrina pratica per obbedienza; ma ritenerla vera per ingiunzione (de par le Roi) è cosa del tutto impossibile, non solo sotto pro-filo obiettivo (essendo un giudizio che ripugna al dover-essere), ma anche soggettivo (un giudizio tale, un uomo non può pronunciarlo)30.

E se si affronta la giustificazione della credenza partendo da un punto di vista relativo e “localistico”? Qui, ironicamente, la giustificazione si potreb-be anche trovare, ma è dubbio che una giustificazione locale costituisca un movente psicologico abbastanza forte31. Come si può credere “come prima” quando si scopre che i nostri valori sono “soltanto” i nostri valori, sono appunto locali? Se si vuole percorrere la strada del relativismo bisogna as-sumerlo compiutamente come una tappa nella storia del disincanto moder-no. Il che significa che la credenza diventa qualcosa di diverso (ci tornerò nel paragrafo finale).

6.2.2. Ci si potrebbe poi chiedere se la falsità-per-me di p mi dia anche il diritto di lottare per imporre non-p ad altri. Il punto è senz’altro più con-troverso; in parte coincide con la questione se il relativismo implichi il mul-ticulturalismo inteso come pratica di tolleranza illimitata. Secondo David Wong, «[s]i può coerentemente sostenere che non esiste un’unica moralità vera e tuttavia giudicare e interferire con le altre moralità sulla base della propria»32. Di primo acchito non direi che un relativismo coerente autorizzi imprese giacobine di esportazione di valori; ma è lecito pensare che nel va-lutare la liceità dell’ingerenza entrino in gioco altre considerazioni oltre a quelle pro o contro il relativismo, tra cui certamente la considerazione dei mezzi impiegati. D’altra parte non si può nemmeno chiedere al relativismo di far da antidoto al superomismo o all’egoismo, coi quali è se non altro compatibile quanto i suoi antagonisti. Difficilmente si può essere relativisti e nel contempo convinti della propria superiorità, ma forse si può essere relativisti e affermare la propria volontà di potenza o comunque cercare di ottenere il dominio o sopraffare gli altri. Peraltro, non è che il “pensiero forte” segni risultati migliori in tale direzione.

6.3. Fin qui comunque abbiamo considerato un genere di opposizione “identitaria”, cioè condotta dall’interno della propria prospettiva morale, sia

30 Der Streit der Fakultäten (1798), trad. it. Il conflitto delle Facoltà, a cura di D. Venturelli,

Morcelliana, Brescia, 1994, p. 82. 31 È l’appunto che muoverei all’epistemologia “etnocentrica” di Trifirò. 32 Moral Relativism, cit.

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in forma di difesa sia eventualmente d’ingerenza. Per l’ortodossia “comunita-rista” questo è l’unico modo di opporsi ad alcunché, dato l’imprigionamento di ogni individuo all’interno della propria forma di vita. Ma, come abbiamo visto, questa tesi è fragile sia dal punto di vista empirico sia in base a conside-razioni teoretiche. Se non si accoglie tale tesi e si pensa che gli individui ab-biano la capacità di comprendere sistemi culturali diversi da quelli in cui sono stati allevati, si può prendere in considerazione un genere di opposizione più interessante: la critica dal punto di vista dell’altro. Una prassi culturale può essere oggetto di valutazione sulla base dei propri stessi criteri, e questa criti-ca, oltre ad essere più impegnativa di una semplice critica dall’esterno, è tanto più efficace in quanto si tiene accuratamente lontana da accuse di etnocentri-smo o anacronismo storico. Cerchiamo di precisare questo punto.

Una strategia ben nota di obiezione al relativismo consiste nel fornire esempi “storici” di palesi ingiustizie, che la teoria relativista dovrebbe legit-timare. Schiavitù, mutilazioni genitali femminili, Olocausto sono tra i più popolari: se la schiavitù, in una data cultura o epoca, è un valore socialmen-te approvato, allora si dovrebbe considerarla giusta? Qui, si noti, un antire-lativismo perspicace non si limita a lamentare, un po’ oziosamente, la man-canza di valori assoluti, ma correttamente mette in questione l’idea stessa di valori relativi. Che infatti l’approvazione sociale non renda la schiavitù giu-sta in assoluto è senz’altro vero per il relativista, il quale non vuole certo rinverdire lo schiavismo o esportarlo in società che non lo contemplano; ma qui il dubbio insinuato dall’antirelativismo riguarda piuttosto noi e il nostro giudizio storico sulla giustezza relativa. Che significa che la schiavitù è giu-sta-relativamente-a-una-società, specialmente quando questo giudizio è pro-nunciato da chi di quella società non fa parte? Così – può argomentare l’an-tirelativismo – si rende opaca l’attribuzione di valore, assimilandola all’in-circa a un giudizio di gusto non ulteriormente riducibile, e implicando un’accettazione tanto pronta da essere scontata e per ciò stesso poco per-spicua. La relativizzazione potrebbe allora essere un’espressione d’indiffe-renza culturale, proprio all’opposto di quel rispetto per l’alterità che si in-vocava. Invece di assumere il punto di vista dell’altro, si prende per buona la sua approvazione.

Ma la validità di una simile obiezione non può prescindere dalla qualità dell’analisi storica e antropologica fornita; mentre di solito gli esempi ad-dotti non sono propriamente delle lezioni di metodo scientifico. Quale schiavitù? Quella del mondo antico, su cui fra l’altro abbiamo scarsissime cognizioni di carattere psicostorico, perché gli schiavi tendono a lasciare poche tracce di sé nelle fonti? Quella di certe aree africane, che è un istituto socioeconomico certo duro, da respingere con tutte le forze, ma è da com-prendere in un quadro di condizioni di vita non meno gravose ed è comun-que strutturalmente diverso dalla tratta degli schiavi in età moderna? Il mo-

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tivo per cui la qualità dell’analisi è cruciale, va notato, non è solo uno scru-polo filologico. Il fatto è che una valutazione relativistica può risultare di-versificata a seconda dello sviluppo storico di una data pratica. Se infatti si ammette che le culture mutano, un dato istituto sociale potrebbe venire a costituire un fossile antropologico non più rispondente a scopi adattativi. Per fare un altro esempio, uno degli argomenti più efficaci (per i motivi accennati sopra) contro le mutilazioni genitali femminili è quello che evi-denzia la caduta di qualunque motivazione funzionale di tale pratica nelle società africane attuali (di pari passo, certo, con l’acquisizione sociale di nuova informazione sulla sua disfunzionalità). La giustificazione delle Mgf nelle società coinvolte appare ormai legata solo a un esile argomento identi-tario, forse difendibile nella fase della lotta anticoloniale ma oggi connesso a un quadro di conservazione inerziale del tutto svantaggioso in termini socia-li e politici. Limpida a tal proposito un’osservazione di Lyda Favali:

È fondamentale tenere distinti l’origine e il contesto di permanenza di una certa pratica. Solo in quest’ultimo si dà alla mutilazione una vernice utilitaristica, evidente nelle spiegazioni tradizionali secondo cui la mutilazione è sempre sommamente vantaggiosa per qualche ragione. [...] Se avvengono cambiamenti profondi che cau-sano trasformazioni radicali, l’appello alla tradizione diviene un modo per fingere che non sia cambiato nulla rispetto al passato (reale o ricostruito ad hoc), al fine di perpetuare il potere33.

Ciò significa, comunque, che le Mgf erano giuste nel loro contesto ori-ginario di sviluppo? No, significa che è meglio giudicare i contesti che co-nosciamo: e l’origine delle Mgf resta una delle questioni più oscure della storia culturale umana.

Per giudicare occorre un lavoro. La critica sociale scientifica ha i propri modi di validazione e impone a questo lavoro i «vincoli» reciprocamente riconosciuti dai membri della comunità scientifica, in primo luogo il «control-lo incrociato che si esercita attraverso la concorrenza»34. Questi vincoli sono perfettamente intracomunitari e intraparadigmatici; sono vincoli che i mem-bri si pongono e si fanno valere vicendevolmente, non vincoli che una realtà presuntivamente data pone a un discorso che voglia riprodurla. Vale a dire, al centro di tutta questa pratica, di questo lavoro, e dunque della critica cultura-le, sta il nesso tra verità e metodo. Solo se si segue il metodo scientifico “a regola d’arte”, la critica transculturale diventa possibile: si può giudicare una cultura, purché se ne abbia una comprensione profonda e metodologica-mente adeguata. Ciò è sicuramente difficile e aleatorio, e questo forse spie-

33 Le mutilazioni del corpo: tra relativismo e universalismo. Oltre i diritti fondamentali?, in

Giudit - Giuriste d’Italia, febbraio 2003, http://www.giudit.it/documentiline/mutilazioni.htm. 34 Sono parole di Pierre Bourdieu (Meditazioni pascaliane, trad. it. Feltrinelli, Milano,

1998, p. 122), che giustamente oppone questi vincoli al «riduzionismo relativistico».

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ga perché le posizioni relativistiche spesso non lo fanno, finendo così per assomigliare tanto a quell’indifferenza verso l’altro di cui si parlava sopra. Ma quel che ci interessa notare qui è che, se e quando si decide di impe-gnarsi in questo “lavoro”, per farlo non c’è alcun bisogno di un concetto di verità sovraculturale (benché non sia nemmeno da escludere: semplicemen-te non c’entra). Una delle lezioni più alte e giustamente famose ci viene in questo senso dalla manzoniana Storia della colonna infame. Com’è noto, Manzoni si accinse a giudicare l’episodio secentesco della caccia agli untori senza partire da una condanna basata su valori e informazioni di due secoli dopo. Ciò che fece fu evidenziare le premesse che oggi si chiamano “emi-che”: le informazioni accessibili agli attori del tempo e i principi giuridici a cui essi stessi erano stati addestrati e che in altre occasioni applicavano. Da questa metodologia, che non saprei chiamare se non relativistica, non risul-tò una legittimazione della pratica analizzata, ma uno degli atti d’accusa più convincenti che la storiografia politico-morale ci abbia consegnato.

Si dirà che questa metodologia non configura una soluzione teorica: ov-viamente, che una critica “dal punto di vista dell’altro” riesca in un dato caso non ci dice niente riguardo al successo che avrà nel prossimo. La sua applicazione universale, per dirla con Trifirò (n. 3 del suo saggio), «potrà essere solo de facto e non de jure». Ma è appena il caso di notare che la cer-tezza de jure – che debba esserci in ogni caso un criterio di valore universa-le, che una pratica sia comunque giusta o ingiusta al di là di ogni tentativo di relazionarsi con gli attori – non ci consegna realmente la soluzione: sem-plicemente la postula, evitando di mettersi alla prova. Solo un approccio del tutto astratto può arrogarsi il diritto di giudicare l’alterità risparmiandosi la fatica di studiarla (e eventualmente di “decostruirla”).

7. La politica dell’indeterminismo

7.1. Da un certo punto di vista, comunque, ogni discussione seria del re-lativismo (o dell’indeterminismo in genere) si deve leggere in chiave “politi-ca” e “pragmatistica”. Perché infatti uno dovrebbe andare in cerca dell’in-certezza, se non vedesse in ciò un qualche guadagno, sia pure in termini di una maggiore onestà intellettuale, che il disincanto epistemologico trarreb-be con sé, sospendendo false sicurezze e facili persuasioni? In questo senso, non è affatto scontato che l’indeterminismo sia una forma di pessimismo epistemologico; se lo è, è comunque percepito dai suoi sostenitori come un progresso di conoscenza. La conoscenza può progredire anche scoprendosi incompetente; conoscere sé stessi vuol dire anche riconoscere i propri limi-ti. Questa non sembra una grande novità, se siamo d’accordo che nessuno è più sapiente di Socrate; eppure questo vecchio paradosso è alla radice della più comune e più logora tra le critiche all’indeterminismo, l’accusa di auto-

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confutazione. Affermare come verità che le verità sono relative (o anche affermare come certezza che non vi è certezza) non appare più autoconfuta-torio che affermare “so di nulla sapere”, l’affermazione da cui comincia la filosofia occidentale. Ne abbiamo già parlato, ma ora notiamo che l’incom-prensione nasce dal trascurare completamente il livello “politico”.

Prendiamo ad esempio la questione del relativismo applicato alla verità. Se la si prende alla lettera, l’alternativa relativismo/assolutismo riguardo alla verità finisce per ricadere tra quei dilemmi che, per dirla con Ryle, nascono da «errate applicazioni della formula “in base allo stesso ragionamen-to...”»35. In altre parole, occorre chiedersi se le due cose siano risposte con-trastanti alla medesima domanda o piuttosto risposte diverse a domande diverse, e quindi tali da poter convivere senza contraddizione. La seconda opzione ha dei punti a suo favore. Nei termini della descrizione schematica offerta qui, il relativismo sostiene grosso modo che la proposizione p può essere vera per il soggetto S, falsa per R, senza che nessuno dei due abbia titolo a giudicarsi superiore (pur ammettendo che in parecchi casi non è così, cioè nei casi in cui uno dei due semplicemente si sbaglia e può essere ripreso in base ai suoi stessi criteri). Questo “vero per” non significa sem-plicemente che p è vera se pronunciata da S e falsa se pronunciata da R: per spiegare questo caso possono bastare le proposizioni deittiche, o comunque contenenti un rimando alla persona che le pronuncia e alla sua situazione36. “Vero per” è un altro concetto di verità, non quello standard; mi rendo conto della difficoltà di definire un concetto “standard”, ma se con ciò s’in-tende almeno un concetto che includa, aristotelicamente, una proprietà come il principio di bivalenza, allora è banalmente chiaro che il relativismo è falso rispetto a quel concetto37. P non può essere standard-vera per S e standard-falsa per R, salvo che uno dei due si sbagli. Il vero problema, per così dire, è politico: si tratta di stabilire quanto sia legittimo e quanto sia utile (legittimo perché utile?) avanzare un nuovo concetto di verità, se que-sto concetto colga qualcosa della nostra mentalità corrente o se ci parli piut-tosto di una distinta Weltanschauung, e inoltre a quali scopi risponda, quali conseguenze abbia, se ci dia un mezzo per esprimere le nostre scoperte, i

35 «Wrongly imputed parities of reasoning» (Dilemmas, Cambridge U.P., Cambridge, 1954,

19642, p. 67 e passim). 36 Sulle proposizioni deittiche si veda il saggio di Moruzzi in questo volume; inoltre, ad es.,

M. Kölbel, Indexical Relativism versus Genuine Relativism, in «International Journal of Philo-sophical Studies», 12, 3, 2004.

37 L’abbandono della bivalenza, mossa teorica irrinunciabile del relativismo, è sottolineato da Joseph Margolis e ripreso anche da Zilioli in questo volume. Dissento, tuttavia, da Zilioli quando afferma che il relativismo non avrebbe perciò bisogno del qualificatore “per” (in “vero per X”). In tal caso non saprei più perché chiamarlo relativismo; altro è dire che per dar conto del “per” serve una logica non-classica, altro è dire che per caratterizzare il relativismo non occorre niente di più.

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nostri stili di vita o le nostre responsabilità. Questi sono gli interrogativi da porsi quando si riflette su qualsiasi proposta di indeterminismo epistemologi-co – come su qualsiasi proposta filosofica, che è sempre la mossa di un gioco.

La ricerca dell’incertezza non è una boutade, salvo che lo sia anche l’agnoia socratica. Il punto è che il compito della filosofia non è quello di certificare le certezze, come non è quello di dimostrare la realtà della realtà. Questo non perché l’incertezza sia più bella e romantica, ma semplicemente perché le certezze le abbiamo volenti o nolenti. Non abbiamo, dice Witt-genstein, la scelta tra avere delle certezze e non averne38; l’indeterminista ne ha quanto il suo avversario. Ma questo è del tutto compatibile col relativi-smo, che, come abbiamo visto, non ha il problema di non avere certezze ma di averne troppe, a differenza dello scetticismo. Il suo problema è trovare il modo di rispettare l’altro in quanto portatore di una specifica pretesa di verità pur non credendogli: sarà anche contraddittorio, ma è il problema chiave della modernità, come abbiamo scoperto almeno a partire dalla Dia-lettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer.

Che significato ha allora l’invenzione del relativismo, la scelta filosofica e politica di proporre un diverso concetto di verità? Sarebbe ingenuo pensare che i concetti si possano inventare, che stia a noi scegliere il significato di parole come verità, conoscenza, certezza. In questo senso Wittgenstein ave-va qualche ragione nel dire che non ci sono teorie della verità39. Ci sono modi in cui giochiamo il gioco della verità: uno di questi prevede la messa in scena dell’eterogeneità tra rappresentazione e realtà, e la pretesa di sco-prire, anziché costruire, il loro nesso40. Questo gioco di verità, forse il più comune, è chiaramente non epistemico: «una credenza è vera o falsa indi-pendentemente da quanto gli esseri umani possono arrivare a conoscere persino in linea di principio»41. Istituire un legame tra la verità e le pratiche conoscitive umane («fra ciò che rende vera una proposizione e ciò che con-sente di riconoscerla come tale»)42 significa proporre di giocare un altro gio-co. Che si giustifica, pragmatisticamente, solo per i passi avanti che ci fa fare, per la differenza “politica” che fa.

7.2. Dunque: che cosa distingue il relativismo, qual è la politica che lo differenzia? Fin qui abbiamo delineato, con esiti più o meno chiari, che

38 Cfr. le osservazioni sulla “prova del mondo esterno” di Moore in Über Gewißheit, § 204

e dintorni. 39 Lezioni 1930-1932, a cura di D. Lee, Adelphi, Milano, 1995, p. 99 e sg. 40 Sul punto rimando al mio scritto Figure della verità in filosofia e in psicoanalisi, in «Filo-

sofia e Teologia», 17, 1, 2003. 41 Dell’Utri, infra, p. 88. 42 G. Volpe, Teorie della verità, Guerini, Milano, 2005, p. 141. Così pure Margolis, in que-

sto volume, richiama a un’analisi «che colleghi indissolubilmente il semantico e l’episte-mologico» (infra, p. 35).

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cosa pensa un relativista. Ma come lo pensa, o piuttosto: che cosa fa un rela-tivista di diverso? C’è qualcosa che lo contrassegna nella qualità del suo modo di credere/agire? A questa domanda si deve, a mio parere, risponde-re affermativamente. Questa risposta in un certo senso dà ragione ai pole-misti cristiani o ateo-devoti, quando paventano che il relativismo indeboli-sca la fede dei padri o ne cambi la natura. Ma certo che la cambia (il che non vuol dire che la sopprima). Certo che un relativista avrà un rapporto diverso con le proprie certezze; certo che non può credere nello stesso mo-do (e “modo” non equivale a intensità o autenticità). Non che non possa credere in niente né prendere partito43; ma credere sapendo che altri credo-no altre verità, e riconoscendo che per loro sono vere, è una cosa diversa. Non è obbligato ad accettare qualunque credenza per il solo fatto che qual-cuno la intrattiene, come vuole la vulgata dell’anything goes; ma è tenuto a dotarsi di criteri d’accettazione e rifiuto di un tipo diverso. Un credente assoluto può semplicemente contrapporre la propria certezza a un’altra; per esempio una rivelazione a un’altra rivelazione. L’interlocutore a sua volta può restare nella propria convinzione di partenza oppure accogliere la rive-lazione alternativa, cioè convertirsi. Un credente relativista può criticare la credenza di qualcun altro, se riesce, ma non può farlo semplicemente esi-bendo la propria: in primo luogo (e banalmente) deve utilizzare criteri di validità (criteri per l’accettazione/rifiuto, con varie gradazioni e condizioni intermedie) tali da non escludere per ipotesi che la credenza dell’altro possa soddisfarli; ma se la verifica del soddisfacimento non è possibile, deve sem-plicemente ammettere che quella credenza è vera per l’altro. Insomma, un relativista non è affatto tenuto a credere che qualunque credenza di chiun-que altro è vera; ma è tenuto a credere che è vera-per l’altro, dopo aver e-sperito ogni possibile modo per controllarla (cosa che può essere anche un compito aperto e in fieri). Il concetto di relativismo non implica niente di più e niente di meno che questo.

Il termine “relativismo” invita a esser compreso come una qualifica che ritaglia una classe di persone, ma probabilmente non è così: piuttosto, ci sono casi o segmenti d’esperienza su cui siamo un po’ tutti relativisti; ce ne sono altri in cui pochissimi lo sono; e altri in cui si distingue una mentalità o se vogliamo una Weltanschauung relativistica da una che non lo è. O in altre parole, ci sono persone più relativiste di altre: proprio come un tipo psico-logico, il relativismo si trova sempre mescolato. Facciamo qualche esempio.

(1) I miracoli (o alcuni tipi di miracoli). Se qualcuno afferma che una certa statua della Madonna piange, non sembra appropriato né accettarlo né negar-lo per ipotesi e senza alcun controllo (per esempio negarlo dicendo che è in-

43 Opportuna a tal proposito la rassegna di “partigiani nichilisti” che fa De Michele nel

suo saggio. Non sempre i relativisti sono profeti disarmati.

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compatibile con le proprietà naturali della materia o con la mia eventuale diversa concezione religiosa). In questo caso non c’è differenza tra una nor-male mentalità scientifica e una “mentalità relativista”: entrambe assumono dei criteri di prova, che l’affermazione in questione può superare o no; e se non li supera, nessun relativista è tenuto ad accettare quell’affermazione.

(2) Gli enunciati di gusto. Se qualcuno afferma che un certo cibo è buo-no, mentre a me sembra cattivo, non esiste nessuna procedura di controllo. In questo caso insistere su un concetto assoluto di verità (o di bontà) è del tutto irragionevole e nessuno lo farebbe: in un caso come questo siamo tutti relativisti. Letteralmente non posso sapere “come fa a piacerti” quel sapore, ma è perfettamente legittimo concludere che “per te è buono” (o che l’e-nunciato “x è buono” è vero per te). Si può esprimere la stessa cosa dicendo che “buono (di sapore)” è un predicato a due posti. Con questo predicato binario si ripristina ovviamente la verità “assoluta” di “x è buono per lui”, ma è capzioso usare ciò come una foglia di fico di fronte al fatto, evidente e riconosciuto da tutti, che la bontà (di gusto) è relativa.

(3) Gli enunciati di fede. È qui che probabilmente un atteggiamento rela-tivistico si distingue da uno assolutistico, sia laico o religioso. Sto parlando di enunciati come quello che afferma la resurrezione del Cristo, o che il Rebbe Schneerson è il Messia, o che la Prakriti originaria è eterna, incausata e indivi-sa44. Anche qui non è immaginabile una verifica. Un materialista assolutista negherà, poniamo, la resurrezione, forse per induzione dall’esperienza pre-gressa; un credente (assolutista) di altra confessione la negherà perché, po-niamo, i morti non risorgono ma si reincarnano. Un fallibilista non relativista potrà dire che l’enunciato non ha un valore di verità. Ma un relativista dovrà convivere col fatto che quell’affermazione è vera per qualcuno45.

Ciò ha una conseguenza importante. Una persona relativista non solo non metterà l’altra di fronte alla scelta tra conversione e reciproca indiffe-renza, ma essa stessa non sarà costretta a scegliere tra agnosticismo e con-versione. Chi non ammette verità relative, di fronte a un enunciato di fede, potrà o crederlo vero (per fede) o concludere che non sa se sia vero. Chi invece ammette il “vero-per” potrebbe avere più d’un modo di convivere col fatto che per qualcuno quella è una verità. Non dico che possa essere agnostico e credente insieme, ma che la possibilità della conversione gli si presenta con una tonalità affettiva diversa. (Tra parentesi, è questa possibili-tà che sfuggiva completamente al relativismo scettico di Williams, in quanto

44 Ho utilizzato qui esempi tratti da visioni religiose, perché sono più frequenti e perché li

conosco meglio. Ma l’istruttivo lavoro di Fabio Lelli, in questo volume, mostra che potrebbero ben esserci altri universi di discorso in grado di ospitare questo fenomeno.

45 Nei termini di Dell’Utri, il fallibilista procede sulla base di un concetto moderatamente epistemico, mentre il relativista applica qui (ma solo qui) un concetto radicalmente epistemico.

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si limitava ai casi in cui il sistema alternativo non è un’opzione reale.) Da questo punto di vista, chi non ammette altro che la verità assoluta somiglia a chi pensa che il vero amore è per sempre, mentre il relativista accetta l’idea di potersi innamorare di nuovo senza per questo concludere che quello precedente non era vero amore46. Questo è il motivo per cui uno scienziato naturalista può avere fede nel soprannaturale, o per cui una persona può essere, ad esempio, cristiana e relativista allo stesso tempo. Sì, un relativista è una personalità scissa, capace di ospitare (anzi impegnato a ospitare) den-tro di sé orizzonti diversi, anche senza “fonderli” ma passando dall’uno al-l’altro quasi con un Gestalt-switch47; è un migrante più che un sincretista, un eclettico più che un ecumenico. Va da sé che questa non è una critica nei confronti dell’ecumenismo, che resta una delle forme più interessanti del-l’interazione e integrazione umana; né si vuol negare che un punto di vista religioso sia capace di tolleranza e riconoscimento dei punti di vista altrui, sia nella forma dell’ecumenismo sia inventando altre forme. Ma una fede religiosa può averla anche un individuo-isola, o una comunità-isola, che non abbia mai conosciuto altro che sé stessa. Il relativismo no: non esisterebbe senza il contatto con l’altro.

Relativista, dicevamo sopra, è chi ammette la contraddizione reciproca tra le proprietà interessanti della conversazione umana. “Interessanti” sta a dire che l’ammissione non è a malincuore, anche se ciò non comporta mi-nimamente che si rinunci a qualunque strategia per superare (magari dialet-ticamente) le contraddizioni, per rallentarle, mantenerle localizzate, ecc.48 Non si tratta di contemplare attoniti il fatto del pluralismo. Considerare la contraddizione una proprietà interessante significa professare che la con-versazione umana si svolge tra soggetti caratterizzati da una certa misura d’irriducibilità non completamente prevedibile; che il fatto che una certa cosa sia vera per qualcuno è un motivo per cercare di comprenderla e non solo di “spiegarla via”; e che l’altro è altro e rimane (può rimanere) tale an-che dopo aver esperito tutti i tentativi di comprenderlo, di mettersi d’ac-cordo, o di evidenziarne gli errori, dopodiché rimangono aperte tutte le opzioni, incluse quelle resistenziali, tranne quella di dire che l’altro non ha titolo alla verità. Infine, relativismo significa partire dall’uguale auctoritas dei parlanti e non distogliere lo sguardo – a differenza forse di altre versioni del punto di vista liberale – di fronte al fatto che talvolta la conversazione non riesce a spingersi al di là di questo punto di partenza.

46 Una conversazione con Francesco Trincia mi ha suggerito questa similitudine. 47 Anche Kuhn si serve, com’è noto, di questo concetto; si veda qui il contributo di Zilioli. 48 Come ammette anche Vida, «[c]iò che la tesi del relativismo dimostra è che il conflitto è

una caratteristica inevitabile dell’esperienza morale – non che esso è razionalmente irrisolvibi-le» (infra, p. 164).