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Università di Bologna – Dipartimento di Filosofia e comunicazione a.a. 2016/17 Corso del 2° semestre, 3° periodo Filosofia del linguaggio 6/9 cfu Paolo Leonardi 13 febbraio J.L. Austin Come fare cose con le parole (Casale Monferrato Marietti 1986, capp. 1, 6, 12). Per quanto la convinzione popolare sia che tra il dire e il fare ci sia una differenza assoluta, non è affatto così. Certo, promettere di portare un libro, di concedere un prestito, o una promessa di matrimonio, non sono la stessa cosa che portare il libro, concedere il prestito e sposarsi. Ma questo non rende quelle meno azioni di queste, ma solo azioni diverse. Fra l’altro, lo sposarsi è un’azione linguistica anch’essa, come il promettere di farlo. Una teoria della lingua come azione è essenziale per una visione della comunicazione come far notare volutamente qualcosa ad altri. Inoltre è essenziale per una concezione come quella di Wittgenstein che afferma che il significato è l’uso e che la lingua è pienamente manifesta nella sua superficie, con tutte le increspature che essa presenta. La miglior dottrina della lingua come azione la dobbiamo a John L. Austin (1911-1960). Austin è il più famoso esponente della cosiddetta filosofia del linguaggio ordinario che fiorì a Oxford nei primi 20 anni dopo la seconda guerra mondiale. Prima di Austin, il principale contributo sull’argomento è quello di Adolf Reinach. 1 Successivamente a Austin, il principale contributo è quello di John R. Searle. 2 a. Una distinzione che non tiene. «Il vaso è in alto a destra», con una frase del genere descriviamo qualcosa e induciamo chi ci ascolta a crederla. Dicendo «Portami il vaso in alto a destra» 1 A. Reinach 1913 [1983] “Die apriorischen Grundlagen des bürgerlichen Rechtes” (Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, 685-847; tr. inglese di J. F. Crosby “The apriori foundations of the civil law” Aletheia III 1983 1-142). 2 J. Searle [1969] Speech acts (Cambridge at the University Press; tr. it. di G. Cardona Atti linguistici Torino Boringhieri 1976).

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Università di Bologna – Dipartimento di Filosofia e comunicazione a.a. 2016/17 Corso del 2° semestre, 3° periodo

Filosofia del linguaggio 6/9 cfu Paolo Leonardi

13 febbraio

J.L. Austin Come fare cose con le parole (Casale Monferrato Marietti 1986, capp. 1, 6, 12).

Per quanto la convinzione popolare sia che tra il dire e il fare ci sia una differenza assoluta, non è affatto così. Certo, promettere di portare un libro, di concedere un prestito, o una promessa di matrimonio, non sono la stessa cosa che portare il libro, concedere il prestito e sposarsi. Ma questo non rende quelle meno azioni di queste, ma solo azioni diverse. Fra l’altro, lo sposarsi è un’azione linguistica anch’essa, come il promettere di farlo.

Una teoria della lingua come azione è essenziale per una visione della comunicazione come far notare volutamente qualcosa ad altri. Inoltre è essenziale per una concezione come quella di Wittgenstein che afferma che il significato è l’uso e che la lingua è pienamente manifesta nella sua superficie, con tutte le increspature che essa presenta. La miglior dottrina della lingua come azione la dobbiamo a John L. Austin (1911-1960). Austin è il più famoso esponente della cosiddetta filosofia del linguaggio ordinario che fiorì a Oxford nei primi 20 anni dopo la seconda guerra mondiale. Prima di Austin, il principale contributo sull’argomento è quello di Adolf Reinach.1 Successivamente a Austin, il principale contributo è quello di John R. Searle.2

a.

Una distinzione che non tiene.

«Il vaso è in alto a destra», con una frase del genere descriviamo qualcosa e induciamo chi ci ascolta a crederla. Dicendo «Portami il vaso in alto a destra»

1 A. Reinach 1913 [1983] “Die apriorischen Grundlagen des bürgerlichen Rechtes” (Jahrbuch für

Philosophie und phänomenologische Forschung, 685-847; tr. inglese di J. F. Crosby “The apriori foundations of the civil law” Aletheia III 1983 1-142).

2 J. Searle [1969] Speech acts (Cambridge at the University Press; tr. it. di G. Cardona Atti linguistici Torino Boringhieri 1976).

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non facciamo nulla del genere. Cerchiamo piuttosto di indurre chi ci ascolta a portarci il vaso. Richieste, preghiere, ordini, domande; dichiarazioni, nomine, battesimi; promesse, scommesse, contratti (compresi i contratti di matrimonio); scuse, saluti, ecc., sono proferimenti del secondo genere. ASSERZIONI, constatazioni, descrizioni, sono invece proferimenti del primo genere. Ciò che asserisco è vero o falso, così come la descrizione che faccio è vera o falsa. «Beve un prosecco.» «Fa lezione.» Una richiesta, invece, o un contratto non sono veri o falsi, e anche se scommettiamo per davvero e per finta, dire a un’amica «Scommettiamo 100 euro che domenica vince il Bologna!» non è dire qualcosa che è vera o falsa. Lo stesso vale ancora più chiaramente per «Buongiorno!», «Scusami!» o «Benvenuta!» (da intendersi come saluto, non come nome proprio). Austin propone di chiamare constatativi il primo genere di enunciati e performativi il secondo genere di enunciati. Gli enunciati performativi sarebbero quelli con cui si fa qualcosa. Piuttosto che veri o falsi i performativi sarebbero felici o infelici e avrebbero queste condizioni di felicità:

A) (i) Ci deve essere una procedura convenzionale accettata con determinati effetti convenzionali, che ha come caratteristica centrale il proferimento di certe catene verbali.

B) (ii) Chi invoca la convenzione deve avere titolo a farlo, deve cioè specificatamente soddisfare i requisiti previsti dalla convenzione per potervi fare ricorso; inoltre le circostanze particolari in cui invoca la convenzione devono essere quelle appropriate, cioè del tipo previsto dalla convenzione.

(B) (i) La procedura deve essere eseguita correttamente e

(ii) completamente.

(G) Chi invoca la procedura deve essere sincero, deve avere cioè i sentimenti e le intenzioni richieste.

Le condizioni (A) e (B) sono, per così dire, condizioni oggettive. Un atto che non soddisfi una di queste condizioni fa cilecca, in termini legali diremmo che è un atto nullo. In particolare, un atto che non soddisfi le condizioni (B) ha un vizio di forma. La condizione (G) è, invece, una condizione soggettiva. Un atto che non soddisfi questa condizione è un abuso.

Compiuta un’illocuzione oggettivamente felice, si hanno certe responsabilità e un comportamento incongruo espone chi lo tiene al rischio di sanzioni.

Facciamo un esempio. Per sposarci bisogna che nella comunità che vogliamo riconosca il nostro matrimonio viga l’istituzione del matrimonio, (Ai), che prevederà fra l’altro chi può sposare chi, e come può farlo. Quando ci vogliamo sposare, bisogna che noi, i promessi sposi, soddisfiamo i requisiti richiesti, (Aii). Bisogna, ad esempio, che entrambi non siamo ancora, o non siamo più, sposati. Dobbiamo poi pronunciare la formula rituale (Bi) per intero (Bii). Dobbiamo rispondere ‘Sì’ al momento opportuno, ciascuno al suo turno, non lei quando tocca a me o viceversa, e non dobbiamo dire ‘Certo!’ al posto di ‘Sì’, e dobbiamo

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dire ‘Sì’ tutti e due. (Se Lucia nei Promessi sposi avesse detto sì anche lei, cosa sarebbe successo dopo il capitolo 8? Sarebbe stato un altro romanzo.) Dobbiamo dirlo rispondendo alla domanda dell’ufficiale civile, durante la cerimonia, e non rispondendo a un amico, o rispondendo al parroco mentre lo accompagniamo allo stadio.

Quando ci sposiamo, (G), dobbiamo farlo sinceramente, con le intenzioni e i sentimenti corretti. Una violazione di (G) è cosa ben diversa da una violazione di (A) o (B): solo qualche volta il non soddisfacimento di (G) è una ragione per annullare il matrimonio. Ad esempio, lo è per il diritto canonico della Chiesa Cattolica Romana. (Come esercizio, potreste provare a individuare le condizioni di felicità di una scommessa.)

C’è un criterio grammaticale che distingua constatativi da performativi? Strettamente, no. Ma in inglese ci sarebbero alcune trasformazioni degli enunciati che sembra fornire delle indicazioni. Purtroppo in italiano le trasformazioni corrispondenti non funzionano. Possiamo infatti dire tanto «Sto affermando che il vaso è in alto a destra» quanto «Ti sto chiedendo di portarmi il vaso in alto a destra», mentre per Austin la forma progressiva non si applicherebbe in inglese ai performativi. Entrambe le forme a me sembrano enfatizzare ciò che dicono di esse, e cioè rispettivamente un’asserzione e una richiesta. Possiamo anche dire «Dicendo questo, affermo che il vaso è in alto a destra» quanto «Dicendo questo, ti chiedo di portarmi il vaso in alto a destra», mentre in inglese hereby potrebbe occorrere solo nella versione inglese della richiesta. Nella ricerca fallimentare del criterio grammaticale, sembrerebbe di intuire però che c’è una differenza fra 1ª e 3ª persona, e fra presente e passato (il futuro funziona come il passato; la 2ª persona all’attivo funziona come la 3ª, al passivo come la 2ª). Mentre «Ti chiedo di portarmi il vaso in alto a destra», che è una prima persona presente, sarebbe un performativo, non lo sarebbero né «Ti chiesi di portarmi il vaso in alto a destra» né «Ti chiede di portarmi il vaso in alto a destra». Il primo descriverebbe una nostra azione passata. Il secondo descriverebbe un’azione altrui. Anche questa sarebbe una differenza fra constatativi e performativi. Questa differenza in questi due casi a me sembra esserci, ma «Ti chiesi di portarmi il vaso in alto a destra» e «Ti chiede di portarmi il vaso in alto a destra» possono essere forme per fare indirettamente una richiesta. In effetti, «Ti chiedevo di portarmi il vaso in alto a destra», che non dovrebbe essere un performativo affatto in questo schema, è in realtà una formula gentile per fare una richiesta. L’uso del passato remoto (o del passato prossimo) invece risultano molto rudi, perché reiterano una richiesta, e per la dislocazione temporale sottolineano che non è stata ancora presa esaudita. Ma sono rudi perché sono sentiti come una richiesta.

(Questi sono esempi di cose che sappiamo, ma anche di cose di cui è moderatamente difficile divenire consapevoli.)

b.

L’agire linguistico.

Il fallimento della distinzione fra performativo e constatativo, potrebbe essere ulteriormente marcata cercando di trovare delle condizioni di felicità per i

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constatativi e delle dimensioni di verità per i performativi – per esempio, per asserire una cosa mi devo soddisfare la condizione di aver accesso all’informazione; per fare una richiesta, deve essere vero che ciò che si chiede non è stato ancora fatto, ecc.. La distinzione fra questi due generi di enunciati, al di là degli esempi, appare insomma problematica, in quanto di principio non si riesce a fissarla né in un criterio strettamente grammaticale, né in un criterio semantico.

Questo fallimento comunque Austin lo presenta come qualcosa che l’ha convinto non che fosse sbagliata l’idea di trovare cosa si fa con le parole, ma che fosse sbagliata l’idea che qualche volta non si fa qualcosa con le parole. Anzi, si fanno a un tempo più cose con le parole. Allora, mettete da parte la distinzione precedente, ed anche la terminologia con cui ve l’ho presentata e considerate che facciamo, parlando, azioni ad almeno tre livelli distinti, che Austin chiama locutivo, illocutivo e perlocutivo. Parlando, (a), agiamo a livello locutivo, nel senso che proferiamo suoni, che appartengono a una lingua e li usiamo per riferirci in un certo modo a qualche cosa, cioè li usiamo con un significato. Inoltre, (b), agiamo a livello illocutivo, perché quello che diciamo costituisce un giudizio, una richiesta, un impegno, una protesta o un’informazione. Infine, (c), agiamo a livello perlocutivo, in quanto ciò che diciamo ha degli effetti su chi ci ascolta.

Atti locutivi. I diversi tipi di atti locutivi ci mostrano l’ambiguità del loqui, parlare, i diversi modi in cui possiamo intenderlo, cosa si dice quando si dice che qualcuno ha parlato. Un atto fonetico, parlare ‘foneticamente’, consiste, più precisamente, nell’emissione di suoni o nel tracciare una serie di grafemi. Scrivere ‘Roma’ è, dunque, innanzitutto compiere un atto del genere. Ma anche fare uno scarabocchio, o mettere giù una serie di punti come ······, è scrivere, compiere cioè un atto fonetico.

‘Gigi, quando ti fermi a Roma?’ è una frase interrogativa. ‘Gigi, fermati a Roma!’, è una frase imperativa. Entrambe sono frasi grammaticalmente ben formate. ‘A Gigi, Roma ti quando?’ e ‘A Gigi, Roma ti quando fermi?’, invece, non lo sono. Pronunciando una delle prime due frasi compiamo un atto fàtico, parliamo ‘faticamente’; pronunciando una delle altre due no, perché sono frasi malformate.

Se nella frase interrogativa e in quella imperativa che abbiamo appena viste interpretiamo i nomi ‘Gigi’ e ‘Roma’ come nomi rispettivamente di Gigi e di Roma, e il verbo ‘fermarsi’ come riferentesi al fermarsi, allora pronunciando queste frasi proferiamo rispettivamente un enunciato interrogativo e un enunciato imperativo, parliamo ‘reticamente’.

Gli atti illocutivi. Con ‘illocuzione’ s’intende ciò che si fa nel parlare (dal latino in+loqui). La classificazione degli atti illocutivi sono il tema su cui Austin e la letteratura

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successiva si sono impegnati maggiormente. (Classificare introduce ordine e nitore. Proprio per questo, a volte, come primo passo, si classifica.)

T.T. Ballmer e W. Brennenstuhl 1980 (Speech act classification (New York: Springer) hanno raccolta una lista di più di 8.000 verbi illocutivi tedeschi: ammesso che le diverse illocuzioni che possiamo compiere siano ‘solo così tante’, cioè ammesso che a ciascuna illocuzione debba sempre corrispondere un verbo illocutivo, come alla promessa corrisponde il verbo promettere, in quanti tipi fondamentali possiamo raggruppare le diverse illocuzioni? Possiamo esplicitare i principî della nostra classificazione? Una classificazione è importante perché a tipi illocutivi diversi dovrebbero corrispondere indicatori di forza (linguistici) diversi.

Austin, nella lezione XII, distingue i cinque tipi fondamentali di illocuzioni che ho già elencate, offrendo delle caratterizzazioni intuitive e in ciascun caso una serie di esempi:

(1) verdettivi : assolvo, riconosco colpevole, giudico, classifico, stimo, valuto, caratterizzo, ecc.

I verdettivi formulano un giudizio, ufficiale o meno, sulla base di prove o ragioni, circa questioni di fatto o di valore.

(2) esercitivi : nomino, degrado, licenzio, scomunico, ordino, comando, avverto, consiglio, domando, chiedo, ecc.

Gli esercitivi comunicano una decisione o richiedono una certa condotta, per lo più da parte di chi ascolta.

(3) commissivi : prometto, ho l’intenzione di, giuro, m’impegno a, dò la mia parola, garantisco, scommetto, mi dichiaro d’accordo, ecc.

I commissivi impegnano chi parla a una certa condotta o esprimono l’intenzione di adottarla.

(4) comportativi : mi scuso, mi congratulo, disapprovo, “Benvenuto”, benedico, maledico, ecc.

I comportativi esprimono comportamenti o reazioni comportamentali.

(5) espositivi : affermo, nego, osservo, informo, rispondo, credo, dico, suppongo, so, riferisco, ammetto, spiego, mi riferisco, chiamo, ecc.

Gli espositivi chiarificano ciò che si sta dicendo: se si tratta di opinioni, elucidazioni, spiegazioni, ecc.

Atti perlocutivi. Con ‘perlocuzione’ s’intendono gli effetti che si producono in chi ci ascolta con il parlare (per+loqui). Torniamo al tema generale dell’agire linguistico.

Un atto perlocutivo può essere l’obiettivo che perseguiamo parlando: convincere la nostra interlocutrice è di solito un obiettivo del nostro darle dei consigli. Ma

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una perlocuzione può essere un effetto secondario o accidentale di quanto diciamo: lei può restare indifferente ai nostri consigli, laddove un’informazione datale per caso e en passant, invece, può convincerla.

Vi propongo uno schema riassuntivo. Tutti i livelli orizzontali nella parte a sfondo verde sono presenti. Gli atti distinti verticalmente, invece, sono alternativi.

LE AZIONI LINGUISTICHE

Atti locutivi

Atti fonetici

proferire suoni

Atti fatici

proferire suoni che appartengono a una lingua

Atti retici

proferire suoni che hanno significato

Atti illocutivi

V e r d e t t i v i

valutazioni

E s e r c i t i v i

valutazioni

C o m m i s s i v i

impegni

C o m p o r t a t i v i

saluti, scuse

E s p o s i t i v i

asserzioni, descrizioni

Atti perlocutivi

Obiettivi

effetti perseguiti

Seguiti

effetti non voluti Seguiti

effetti non voluti

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Altre classificazioni degli atti illocutivi. Searle 1975 (“A taxonomy of illocutionary acts“, in Language, mind and knowledge, a cura di K. Gunderson, Minneapolis, University of Minnesota Press, 344-69; tr. it. di A. Cattani e M. Zorino “Per una tassonomia degli atti illocutori” in Sbisà Gli atti linguistici Milano Feltrinelli 1988, pp. 168-98) offre una classificazione leggermente diversa, ma soprattutto offre una serie di principî di classificazione, che in Austin mancano. Searle distingue dodici dimensioni lungo cui variano, e quindi si distinguono, le illocuzioni. Ne indico solo le prime quattro: (i) lo scopo, o la ragion d’essere, ovvero il punto de(l tipo de)ll’atto, ciò che si vuole indurre nell’ascoltatore, ad esempio che creda qualcosa o che intenda fare qualcosa;3 (ii) la direzione di adattamento tra parole e mondo (un’asserzione sembra adattare le parole al mondo, per descriverlo correttamente, mentre una promessa sembra adattare il mondo alle parole, essendo un impegno a far seguire alle parole i fatti);4 (iii) differenza circa gli stati psicologici espressi (un’asserzione esprime una credenza, mentre una richiesta esprime un desiderio); (iv) le differenze di contenuto (proposizionale) determinate dal tipo di forza illocutiva: ad esempio, un resoconto può riguardare il passato o il presente, mentre una previsione (tranne una previsione circa un risultato non ancora noto) deve riguardare il futuro. Ci sono moltissime altre classificazioni. Ne menzionerò solo una, quella di M. Sbisà 1989 (Linguaggio, ragione, interazione, Bologna Il Mulino, capitolo 4), per due particolarità: primo, per aver distinto il tipo degli espositivi dagli altri, attribuendogli una funzione metadiscorsiva, perché gli espositivi organizzerebbero quanto si viene dicendo; secondo per aver fornito per gli altri quattro tipi una classificazione basata sul cambiamento della relazione fra chi parla e chi ascolta, cambiamento espresso dal cambiamento di atteggiamento in ciascuno di loro, circa il potere, dovere, sapere, credere, volere. Per esempio, il tipo commissivo cambierebbe la relazione così: a partire da un proprio potere chi parla attribuisce a chi ascolta un potere e a se stesso un dovere (in ciascun caso potremmo considerare chi parla e chi ascolta come persone che fanno le veci di qualcun altro, e allora il potere e il dovere competerebbero a coloro nelle cui veci si parla). In particolare, chi parla pretendendo di poter fare una cosa si prende l’impegno, il dovere, di farla, e attribuisce a chi lo ascolta non solo il diritto di pretendere che sia fatta.5

Come si vede, tutte le classificazioni, o quasi, sono legate alle cosiddette illocuzioni esplicite, cioè in cui è lessicalizzato il tipo di atto che si compie. Se ci fermassimo alle illocuzioni implicite dovremmo invece accettare probabilmente una classificazione semplicissima come quella di P. Grice 1968 ( “Utterer's meaning, sentence-meaning and word-meaning”, Foundations of language 4 225-

3 Lo scopo di un’illocuzione non è ancora una perlocuzione. Se chi ci ascolta viene effettivamente indotto a

credere qualcosa o a intendere di fare qualcosa, allora si ha anche una perlocuzione. 4 Come mostra Austin [1953], questa dimensione è assai più complessa: infatti, un’illocuzione assertiva può

richiedere di adattare le parole al mondo, p. es., quando è una descrizione, ma quando è l’indicazione di un esempio richiede la direzione di adattamento opposto. Se voglio indicarti un esempio di scrittura cirillica devo trovare o produrre un campione di scrittura che possa essere descritto correttamente in quel modo.

5 Per altre tassonomie vedi: Vendler [1972], Bach e Harnish [1979]. Per una discussione sulle tassonomie si veda Hancher [1979].

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42) che distingue due sole forze primitive, una assertiva e una volitiva, una legata al credere e una al volere che (come intendere o come richiedere).

c.

Alcune considerazioni sulle illocuzioni.

Si potrebbe pensare che gli atti illocutivi siano costruiti sulla lingua, per così dire, e cioè semplicemente che utilizzino la lingua -- fonetica, grammatica, significato o contenuto e riferimento. Certo, gli uomini e le donne si sposano, e per farlo, seguono un complesso rituale, che comporta degli scambi linguistici con un ufficiale civile davanti a testimoni; ma questo è, si potrebbe sostenere, un uso della lingua che non ci rivela alcunché d’intrinseco ad essa. Che l’aspetto illocutivo non sia estrinseco lo si vede meglio però discutendo un’illocuzione meno rituale del matrimonio.

Prendiamo un enunciato di cui consideriamo fissati tutti gli aspetti linguistici e supponiamo che non ne sia (stato) determinato, fissato, l’aspetto illocutivo.

Supponiamo che (1) sia questo enunciato.

(1) Romeo e Giulietta si sposano

Supponiamo cioè che (1) non sia stato determinato, ad esempio, né come affermazione, né come domanda o esclamazione. Ora, se Marco proferisse (1), cioè un enunciato indeterminato rispetto alla forza (Austin riprende il termine ‘forza’ da Frege, che aveva già distinto il livello che oggi chiamiamo ‘illocutivo’ – la metafora dalla fisica indicherebbe il tipo di lavoro cui è applicato l’enunciato), non potremmo riportare quanto ha detto con

(2) Marco ha detto che Romeo e Giulietta si sposano.

Infatti, (2) riporta un’affermazione. Potremmo invece chiedere a Marco cosa intende fare con (1): è un’affermazione, una domanda o un’esclamazione? Ci comporteremmo cioè come se ciò che è stato detto non fosse completo. Facciamo un caso leggermente diverso. Supponiamo che qualcuno ci chiedesse:

(3) Cosa ha detto Marco?

A una domanda del genere, sarebbe appropriato rispondere, a seconda del caso, «Marco ha affermato che Romeo e Giulietta si sposano», oppure «Marco ha chiesto se Romeo e Giulietta si sposano», «Marco ha esclamato ‘Romeo e Giulietta si sposano!’». Se rispondessimo «Marco ha detto che Romeo e Giulietta si sposano», lo si

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intenderebbe come una variante di «Marco ha affermato che Romeo e Giulietta si sposano». Sarebbe appropriato anche rispondere «Marco ha detto: ‘Romeo e Giulietta si sposano’», col che però non si intenderebbe che Marco ha proferito un enunciato indeterminato rispetto alla forza, ma semplicemente non ci si vorrebbe impegnare circa quale ne è la forza, lasciando all’ascoltatore di deciderlo da sé, se può. In ogni modo, assumeremmo che se Marco ha detto qualcosa, l’ha detto con una forza.

Che un enunciato privo di forza sia linguisticamente incompleto lo mostra il fatto stesso che in questa discussione ho privato (1) di alcuni tratti linguistici, come l’intonazione, ovvero come la punteggiatura visto che sto scrivendo, tratti che avrebbero completamente determinato la situazione.

Infatti, (1a) è un’affermazione, (1b) una domanda, e (1c) un’esclamazione.

(1a) Romeo e Giulietta si sposano. (1b) Romeo e Giulietta si sposano? (1c) Romeo e Giulietta si sposano!

Più esattamente l’incompletezza consiste in questo: (1) parlerebbe di uno stato di cose, e non sarebbe determinato «come ne parla: dice che le cose stanno così? Chiede se stanno così? Commenta il fatto che stanno così?

Per tutto ciò, sostengo che la forza, ciò che determina l’illocutività di un enunciato, coglie un aspetto strutturale della lingua. Siccome il come si parla è distinto da ciò di cui si parla, sostengo anche che la forza appartiene a un livello semantico distinto da quello del contenuto. La forza è insomma una caratteristica linguistico-strutturale di un enunciato, che ha di per sé una forza, indipendentemente dall’essere proferito; ed appunto perché ha quella forza, proferendolo, si compie un atto illocutivo. Se la forza è una caratteristica linguistico-strutturale di un enunciato, è cruciale sapere come si distingua da altri aspetti linguistico-strutturali. La discussione s’è incentrata soprattutto su come la si distingua dal contenuto (proposizionale), dal livello retico.

d.

Impliciti e espliciti.

Faccio un passo indietro e torno all’esempio (1). Perché, piuttosto che disambiguarlo con (1a), (1b) e (1c), come ho proposto, non l’ho determinato, rispettivamente, con (4), (5) e (6)?

(4) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano (5) Domando se Romeo e Giulietta si sposano (6) Che meraviglia: Romeo e Giulietta si sposano

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Se (4) è un po’ pomposo, ci sono forme simili che non lo sono, come «Dico che Romeo e Giulietta si sposano».

Una prima osservazione è che (1) e (4), ad esempio, non parlano della stessa cosa, hanno contenuti diversi: (1) parla dello sposarsi di Romeo e Giulietta; (4) parla del mio dire che Romeo e Giulietta si sposano. Una seconda osservazione è che (4) è ambiguo a sua volta, e potrebbe essere disambiguato, ricorrendo all’intonazione, ad esempio in uno dei tre modi seguenti:

(4a) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano. (4b) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano? (4c) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano!

In (4), cioè, non è stato ancora determinato se si afferma che si afferma che Romeo e Giulietta si sposano; se ci si chiede se si afferma una cosa del genere (una domanda un po’ strana, forse, ma uno potrebbe porla per vedere se ha commesso un lapsus); se ci si stupisce di affermare una cosa del genere.

Quando parliamo della forza di un enunciato, come facciamo in (4a), (4b) e (4c), per farlo produciamo un enunciato che ha a sua volta una forza. Se il parlare della forza determinasse la forza della illocuzione che si proferisce, (4b) e (4c) dovrebbero essere inaccettabili. Ma non è così, anzi: si può sostenere che nessun enunciato parla della sua propria forza. Una conseguenza di questo è che gli indicatori di forza linguistici, come l’intonazione, non si compongono con gli indicatori di contenuto. Anche se quando è ‘attiva’ la forza non è parte del contenuto, può però essere ‘disattivata’ e divenire parte del contenuto.6

La forza è una caratteristica semantica propria degli enunciati. La forza stabilisce come parliamo di ciò di cui parliamo. (1a), (1b) e (1c) hanno, in termini fregeani, lo stesso senso, ma hanno forze diverse -- come abbiamo visto, hanno rispettivamente forza assertiva, interrogativa e esclamativa.

Frege offre una discussione breve, ma molto chiara, della distinzione fra forza e contenuto (proposizionale), sulla quale abbiamo mimato quella presentata poco fa. Egli sostiene che ├─ 7+5=12 (dove ‘├─‘ è un indicatore di forza assertiva) non è equivalente a 7+5=12. Quest’ultimo è un contenuto giudicabile e il primo è un giudizio circa quel contenuto, un giudizio che lo giudica vero. ├─ 7+5=12 non è equivalente neppure a È vero che 7+5=12. Quest’ultimo è ancora solo un contenuto giudicabile, che viene giudicato vero da ├─ È vero che 7+5=12. Trattando di formulazioni di giudizi piuttosto che direttamente con giudizi, la discussione sul giudizio si trasforma in una discussione sull’asserzione. Allora, riformulando la tesi appena vista come una tesi che riguarda il linguaggio, le precedenti non equivalenze bloccano la nostra inclinazione a dire che ‘Asserire

6 Contrariamente a quanto è stato sostenuto da E. Stenius 1967, da D. Lewis 1970 “General semantics”

(Synthese XXII 18-67; tr. it. parziale, pp. 18-35, di U. Volli, in La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, Milano Bompiani 1973, pp. 490-509), da D. Davidson 1979 “Moods and performance” (in Meaning and Use, a cura di A. Margalit, Dodrecht Reidel, pp.9-20), e da altri.

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che 7+5=12’ equivale a ‘È vero che 7+5=12’: l’enunciato e l’asserzione non sono equivalenti perché il segno di asserzione appartiene a un livello semantico differente da quello cui appartiene il predicato ‘è vero’. Il segno di asserzione rende esplicita la forza, il fatto che parliamo di 7 +5=12 come vero; il predicato ‘è vero’ appartiene invece al livello del senso, specificamente esprime il fatto che qualcosa è vero, ma non parla di questo essere vero come vero. Perciò, per Frege, il segno di giudizio, o di asserzione, ├─ , non ha un senso, non contribuisce al senso dell’intera espressione.7

Austin ha una posizione simile a quello di Frege (cfr. Austin [1962] ad esempio p.100). Si noti che il segno di asserzione è, per Frege, un segno della lingua, ad esempio della sua ideografia, e non un segno metalinguistico; comunque è un segno che non si compone al livello del senso con gli altri segni della lingua, come mostra il fatto che non può essere usato per costruire un’espressione funzionale. ‘Padre’ e ‘cugina’ sono espressioni dotate di senso. ‘Il padre della cugina di x’ è un’espressione funzionale, che al variare di x assume valori diversi: mio zio, tuo zio, suo zio, ecc. ‘.’ è un grafema che indica un’intonazione assertiva, è un indicatore di forza assertiva. Per semplicità facciamo finta che sia l’unico indicatore di forza assertiva. ‘.’ non si compone con le espressioni dotate di senso per formare un’espressione funzionale ancora dotata di senso. Se proferisco «Ha telefonato lo zio di Maria.», non si può raccontare ciò che ho fatto dicendo «Il tuo . che ha telefonato lo zio di Maria…» -- semmai dovremo usare un nome che parla dell’atto dell’asserire, come ‘affermazione’ che come abbiamo visto non è però un indicatore di forza assertiva, e dire, ad esempio, «La tua affermazione che ha telefonato lo zio di Maria…» (Frege 1891, p. 34)

Forme come quelle di (1a), (1b) e (1c) sono dette illocuzioni implicite, mentre forme come quelle di (4a), (4b) e (4c) sono dette esplicite. La nostra discussione mostra che nessun enunciato può essere esplicito circa la propria stessa forza. Se riconsideriamo (1a) e (4a)

(1a) Romeo e Giulietta si sposano. (4a) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano.

possiamo dire che entrambe sono illocuzioni assertive. Ma non sono affatto la stessa illocuzione assertiva, perché asseriscono due contenuti diversi: (4a), in particolare, asserisce che afferma il contenuto di (1a), che invece asserisce semplicemente il proprio contenuto. Inoltre, si può sostenere che possiamo parlare della forza perché abbiamo, fin dall’inizio, un certo numero di tipi di forza primitivi. Possiamo immaginare bene la differenza di forza, immaginando che dopo che Marco ha detto (1a) qualcuno gli chieda “Cosa?”, al che lui aggiunga (4a). Avrebbe potuto aggiungere invece benissimo una qualunque delle forme seguenti:

7 Cf. Frege (1891, 118, nota); “A proposito de Die logischen Paradoxien der Mengenlehre» di Schoenflies”, in Frege (1969, pp. 371-2).

12

(4aa) Ti informo che Romeo e Giulietta si sposano. (4ab) Romeo e Giulietta si sposano, indovino. (4ac) Ipotizzo che Romeo e Giulietta si sposino. (4ad) Credo che Romeo e Giulietta si sposino. (4ae) Concludo che Romeo e Giulietta si sposano. (4af) Constato che Romeo e Giulietta si sposano.

Qualunque di questi seguiti avrebbe articolato diversamente l’assertività primitiva di (1a), precisando diversamente l’impegno che ci si prende con ciò che si dice, e lo status epistemico di ciò che si dice, oltre, almeno in alcuni casi, alle assunzioni fatte sullo stato di conoscenze di chi ascolta.

Che gli enunciati (4a) abbiano una forza diversa da quella di cui parlano, e che si possa parlare della forza dà origine a due problemi diversi, seppure non del tutto disgiunti. Da un lato, un problema circa gli indicatori di forza linguistici: in base a cosa si distinguono (1a) da (1b), da (1c) ecc.? Inoltre, problema strettamente connesso, quanti tipi primitivi di forza ci sono? Dall’altro lato, come si possono articolare i tipi di forza primitivi, che forme hanno le illocuzioni esplicite e come funzionano?

e.

Un esempio di illocuzione: la domanda.

Per discutere degli indicatori di forza linguistici soffermiamoci su un esempio di illocuzione, le domande. Una domanda può essere fatta non verbalmente, servendosi di gesti simbolici (come la mano a cucchiaio, il pollice contro le altre quattro dita, che oscilla a polso fermo avanti e indietro) e sfruttando elementi contestuali (come un gesto di indicazione, magari fatto con gli occhi). Una domanda, però, è per lo più fatta verbalmente, e noi esamineremo solo questo caso.

Una domanda è un’illocuzione di un particolare tipo (più avanti vedremo i diversi tipi di illocuzioni, comunque è di tipo esercitivo o direttivo). Promettere, scommettere, protestare, congratularsi, scusarsi, affermare, fare un resoconto, descrivere, ecc. sono illocuzioni di altri tipi. Una frase presenta sempre alcuni indicatori di forza linguistici, quali l’intonazione, le caratteristiche morfologiche del verbo, l’ordine dei costituenti dell’enunciato, eventualmente l’occorrere di particolari tipi di pronomi, particolari tipi di avverbi, particolari tipi di aggettivi. Gli indicatori di forza mostrano qual è il tipo di frase. I tratti di una frase interrogativa, in italiano, sono l’intonazione marcata ascendente, il modo indicativo o quello condizionale, e eventualmente il ricorrere di pronomi, aggettivi o avverbi interrogativi. Proferendo una frase interrogativa si fa una domanda. Più precisamente, una domanda è fatta proferendo una frase interrogativa interpretata, cioè un enunciato interrogativo.

La frase interrogativa ‘Gigi, quando ti fermi a Roma?’ presenta l’intonazione marcata ascendente (rappresentatata convenzionalmente per iscritto dal punto interrogativo), il modo indicativo, l’avverbio interrogativo ‘quando’. Se

13

assumiamo che parli del mio amico Gigi e di Roma, e se interpretiamo il verbo ‘fermarsi’ come riferentesi al fermarsi, l’enunciato interrogativo parla del fermarsi di Gigi a Roma, e chiede quando questo avverrà.

Alcune di queste caratteristiche, come l’intonazione ascendente, si trovano anche in tipi marcati (non canonici), come le domande coda, cioè le domande fatte attaccando alla fine di un’asserzione un No?, o le domande parentetiche, cioè quelle fatte inserendo in mezzo a una frase di tipo eventualmente diverso cose come Vero?, Giusto?, o ancora un No?, Marco?, ecc. Così come potrebbe andare bene anche per domande-eco, cioè quelle fatte ripetendo, con intonazione interrogativa, parte o tutto quanto è stato appena detto, come facciamo dicendo ad esempio Andare a Rimini? per replicare a chi ci ha detto Dopo potremmo andare a Rimini. Il fatto che queste forme interrogative siano caratterizzate da un minore numero di tratti le contraddistingue, ed è appunto ciò che le rende marcate ovvero non canoniche. In effetti, servono a fare domande particolari. (Un’analisi di questo genere delle frasi interrogative e delle domande è stata proposta da E. Fava in Fava 1984 Atti di domanda e strutture grammaticali in italiano, Verona: Libreria universitaria editrice, e Fava 1987 “Note su forme grammaticali e atti di domanda in italiano”, Lingua e stile 23, pp. 31-49. Le conclusioni sono chiaramente tracciate a p. 46 di quest’ultimo saggio.)

Ma non facciamo forse domande anche proferendo frasi diverse: ad esempio, non possiamo fare una domanda quando diciamo ‘Ti domando quando vai a Roma.’, ‘Ti prego di dirmi quando vai a Roma.’, ecc.? Certo! Queste, abbiamo detto, non sono affatto letteralmente delle domande. Ma certo sono forme che possono essere usate anche per fare domande. Il ricorrere a queste forme indica che il contesto in cui facciamo la domanda è di un tipo particolare -- che c’è rumore e che l’intonazione interrogativa potrebbe non essere colta, che si sta ripetendo una domanda perché un’intonazione interrogativa non era stata colta, che la domanda è delicata, ecc. (Cfr. P. Brown e S. Levinson 1978 ”Universals in language usage: politiness phenomena”, in Questions and politeness: strategies in social interaction, a cura di E. Goody, Cambridge at the University Press, pp. 56-311, stampato anche come volume a parte come indicato nelle letture per il corso). Altre forme non interrogative come ‘Non so quando vai a Roma’ indicano magari solo delicatezza. Un’interrogativa invece serve a fare una domanda indipendentemente da qualsiasi particolarità del contesto in cui viene proferita.8

Il caso che ci pare più problematico di frasi interrogative che servono a fare domande è quello delle forme esplicite, come ‘Ti domando quando vai a Roma.’ Casi problematici per più ragioni: (a) perché la ricerca della forma tipica delle illocuzioni è stata quasi sempre un tentativo di caratterizzarne le forme esplicite; (b) perché queste forme articolano tipi primitivi di forza.

8 Così come si può fare una domanda senza usare un’interrogativa, un’interrogativa può essere usata per fare anche qualcosa di diverso da una domanda. Ad esempio Ne vuoi un altro po’? può evidentemente servire per fare un’offerta, o Sei libera stasera? per fare un invito. Vale che queste sono sempre domande e che solo in certi tipi di contesto possono svolgere altri ruoli.

14

f.

Alcuni punti che non sono stati discussi nei paragrafi precedenti.

Fin qui abbiamo trattato gli atti linguistici, locutivi e illocutivi, come parte di una teoria del significato. Ciò non toglie che parlare sia anche un’attività e che quanto diciamo non possa essere governato anche da regole che non sono affatto intrinsecamente linguistiche. Un fenomeno linguistico evidentemente governato da regole extralinguistiche sono gli atti linguistici indiretti: mentre conversiamo in salotto Maria dice “Ho freddo” oppure “Puoi chiudere la finestra?” La prima è un’asserzione, la seconda una domanda. Tutte e due però contestualmente possono funzionare benissimo come richieste -- richieste di chiudere la finestra. Si dice allora che pur avendo letteralmente la forza, rispettivamente, dell’asserzione e della domanda, hanno derivativamente (e spesso convenzionalmente), la forza della richiesta.9

9 Una discussione e una tipologia di tutte le forme indirette di richiedere si trova in Benincà et al. [1977]. Si

veda anche Brown e Levinson [1978].

15

15 febbraio

Grice considera prima queste frasi:

Quelle macchie vogliono dire (o volevano dire) morbillo Quelle macchie per me non volevano dire morbillo, ma per il dottore sì L’ultimo bilancio vuole dire che avremo un’annata difficile

In casi come questi:

a1. «x vuole dire che p» implica logicamente «p». Cioè, se si dà x e x vuol dire che p, allora è vero che p. x è un criterio per concludere che p.

a2. x non intende dire nulla e nessuno intende dire nulla con x.

a3. «x vuole dire che p» non può essere riformulato come x vuol dire «p».

a4. «x vuole dire che p» è fattivo, cioè se si dà x è un fatto che p.

Quindi considera queste altre frasi:

La campanella (della scuola) vuol dire che la lezione è finita. Quell’osservazione, «Rossi non poteva tirare avanti senza litigi», voleva dire che Rossi considerava sua moglie indispensabile.

In casi come questi altri:

b1. Possiamo aggiungere, per esempio, alla prima frase: «Ma non è così. Il bidello si è sbagliato». Ovvero, qui «x vuole dire che p» non implica logicamente «p».

b2. Possiamo dire, per esempio, «La campanella era intesa dire …» così come «Suonando la campanella, il bidello intendeva dire …»

b3. Per esempio, la prima frase per mette una riformulazione in cui al verbo ’voler dire’ segue una frase fra virgolette «La campanella vuold dire ‘La lezione è finita’».

b4. «Il fatto che la campanella abbia suonato vuol dire che la lezione è finita» non è una parafrasi del significato della prima frase.

Chiamiamo i casi a, casi di significato naturale (significaton), e chiamiamo i casi b casi di significato non naturale, (significatonn).

Come caratterizzare il significato non-naturale? È possibile render conto di come questo si sviluppi a partire dal significato naturale?

Grice sostiene che la propria distinzione è migliore di quella naturale/convenzionale, perché ci sono modi non naturali di significare che non sono convenzionali, come certi gesti, così come ci sono cose che hanno un significato naturale e non sono segni (l’ultimo bilancio, sopra).

16

C.L. Stevenson sosteneva che affinché x voglia direnn qualcosa, x deve (approssimativamente) produrre abitualmente in un uditorio un qualche atteggiamento (cognitivo o di altra natura) e, nel caso di un parlante, deve abitualmente essere prodotto da quell’atteggiamento, dipendendo questi comportamenti abituali da «un elaborato processo di condizionamento che ha accompagnato l’uso del segno nella comunicazione».10 Grice obietta che un nostro comportamento, per esempio vestirsi eleganti, suggerisca che ci prepariamo a un’occasione importante, anche senza che noi lo voglia dire né questo né nient’altro. Il riferimento alla comunicazione, inoltre, suona circolare – il significato di una comunicazione dipenderebbe da un condizionamento prodotto dalla comunicazione stessa. Quello che si suggerisce, in generale, va distinto da quello che si significa. [Grice offrirà una decina di anni dopo una teoria per quello che si suggerisce, teoria che vedremo domani.]

A questo punto Grice nota che le teorie alla Stevenson al massimo sono interessate al significato standard e non a ciò che un parlante significa in una particolare occasione, che potrebbe essere qualcosa di diverso dal significato standard:

il significato (in generale) di un segno deve essere spiegato nei termini di ciò che con esso vuol dire (o dovrebbe voler dire) chi lo usa in particolari occasioni.

E in effetti poco dopo sviluppa questo spunto in modo assolutamente chiaro, distinguendo fra questi diversi modi di significare e facendo dipendere ciascuno di essi da quelle che nell’elenco lo precedono:

«x voleva direnn qualcosa (in una data occasione)»

«x voleva direnn che così-e-così (in una data occasione)»

«A voleva direnn qualcosa con x (in una data occasione)»

«A voleva direnn con x che così-e-così (in una data occasione)»

«x vuol direnn (atemporalmente) qualcosa (che così-e-così)»

«A vuol direnn (atemporalmente) con x qualcosa (che così-e-così»

Ora, perché x voglia dire qualcosa non basta che chi lo proferisca lo faccia per indurre una credenza nel suo uditorio. Lasciare il fazzoletto di B sulla scena di un delitto al fine di indurre la polizia a credere che B sia l’assassino fa sì che che il fazzoletto (o il fatto di lasciarlo lì) voglia direnn, o che io voglia direnn così facendo, che B è l’assassino. Chiaramente, affinché x voglia direnn qualcosa. Riconoscere un’intenzione, un messaggio, nel fazzoletto lasciato cadere, anzi, renderebbe impossibile raggiungere lo scopo per cui lo si lascia cadere. Anche quando riconoscere l’intenzione nel far comprendere qualcosa non avesse un effetto così negativo, quella stessa intenzione può non essere significante. Si pensi a Erode che presenta a Salomè la testa di San Giovanni Battista su di un vassoio, con

10 C.L. Stevenson Ethics and Language (New Haven Yale UP 1944; cap 3, trad it Etica e

linguaggio, Milano Longanesi 1962).

17

l’intenzione di farle sapere che il Battista è morto. Salomè non ha bisogno di interrogarsi sulle intenzioni di Erode. La testa mozzata significan che Giovanni Battista è morto.

Un altro esempio avvicina la soluzione di Grice. Si confrontino i due casi:

1) Faccio vedere alla signora X una fotografia in cui il signor Y mostra un’indebita confidenza nei confronti del signor X

2) Faccio un disegno del signor Y che si comporta in questa maniera e lo faccio vedere alla signora X.

Mentre in 1 la mia intenzione è irrilevante perché X pensi che suo marito ha un’indebita confidenza con il signor Y, nel secondo caso invece attribuirmi questa intenzione è essenziale. Ci sono casi ambigui, come l’accigliarsi – che mostra disapprovazione sia che sia una reazione naturale sia che sia un gesto deliberato. (Grice produce per superare il problema un argomento che non mi convince. Ne produrrà uno migliore nel 1982.)

Perché «A voglia dire qualcosa con x» scrive Grice:

«A deve intendere indurre con x una credenza in un uditorio», e

«deve anche intendere che il suo proferimento sia riconosciuto come scaturito da questa intenzione.»

Ed ecco un esempio che non riguarda un caso informativo, ma qualcosa di simile a un imperativo. «Ho un ospite estremamente avaro e voglio che se ne vada; così getto una banconota dalla finestra.» Se è avaro il mio ospite se ne andrà, per raccattare la banconota – il caso assomiglia a quello della fotografia che abbiamo visto prima. Un caso diverso sarebbe il mio non salutare qualcuno che incontro, dove solo assumendo che il comportamento sia intenzionale c’è ragione di indignarsi o di sentirsi umiliato.

Grice quindi tenta queste generalizzazioni.

«A voleva direnn qualcosa con x» equivale (approssimativamente) ad

(a) «A intendeva che il proferimento di x producesse qualche effetto su un uditorio

(b) attraverso il riconoscimento di quella stessa intenzione»;

«X voleva direN qualcosa» equivale (approssimativamente) a

(a) «Qualcuno voleva direNB qualcosa con x».

(b) Anche sembra esserci un qualche riferimento alle intenzioni di quel qualcuno.

«X vuole direnn; (atemporalmente) che così-e-così» potrebbe a prima vista considerarsi equivalente a

(a) qualche asserzione o disgiunzione di asserzioni circa quale effetto la gente (in maniera vaga) intende (specificando qualcosa circa il «riconoscimento») ottenere con x. Riguardo a questo ho qualcosa da dire.

18

Va bene qualsiasi tipo di effetto inteso, purché esso rientri in un ambito che l’uditorio controlla. Per esempio, se l’effetto inteso è far credere, l’uditorio si può rifiutare di credere. Se l’effetto inteso è offendere, si può rifiutare di offendersi. Ecc.

Nel significarenn l’intenzione rilevante, quella che deve essere afferrata dall’uditorio è quella primaria.

Sulla nozione di intenzione: piani consapevoli, eppure su intenzioni devianti elaborate consapevolmente pesa l’abitudine a un uso consuetudinario. In generale, poi, nei casi linguistici come in quelli non linguistici: si presume che ciascuno intenda le conseguenze normali delle proprie azioni. Se abbiamo dei dubbi – l’uso di espressioni ambigue o incomplete, il contesto ce li risolve spesso. In acuni casi difficili, la persona le cui intenzioni non ci erano chiare può decidere a posteriori esattamente quali erano le sue intenzioni. E possiamo dire che le intenzioni linguistiche sono molto simili – per lo più se non esattamente – a quelle non linguistiche.

14 febbraio

Implicature.

Implicature 1.11 Nelle lezioni su Logic and Conversation, tenute a Harvard nel 1967, 12 Paul Grice elabora, come parte di una dottrina generale del significato basata sulla nozione di intenzione, una dottrina abbastanza articolata delle implicazioni conversazionali, che fin da subito considera un'alternativa alle presupposizioni o almeno un fenomeno spesso confuso con queste. Grice distingue fra ciò che alla lettera si dice e ciò che si fa intendere. Ciò che si fa intendere lo si ricava per implicazione da quanto alla lettera si dice, e può essere un'implicazione logica, un'implicazione convenzionale (che riguarda aspetti non vero-funzionali propri del significato di un'espressione -- 'quindi' per esempio implica convenzionalmente che quanto lo segue immediatamente dipenda da quanto lo precede immediatamente ma, da un punto di vista vero-funzionale, non si distingue da altre congiunzioni come 'e' o 'ma') o può essere ricavata non semplicemente da quanto si dice ma dal dirlo, eventualmente dal dirlo in una circostanza specifica, ed è allora un'implicazione conversazionale. L'illustrazione delle implicature è assai più semplice di quella delle presupposizioni, perché possiamo cominciare dalla loro articolata introduzione fatta da un solo autore, appunto Grice.

11 Questa sezione rielabora parte di quanto è contenuto in Leonardi 1992. 12 Queste lezioni sviluppano un'idea già presente in Grice 1961.

19

Le implicazioni conversazionali richiedono che si assuma un principio specifico dei nostri scambi linguistici ordinari, paradigmaticamente le conversazioni, e precisamente il Principio di cooperazione, che recita:

il vostro contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o dall'orientamento accettato dello scambio linguistico in cui siete impegnati. (Grice 1975, p. 204.)

Allegate al principio ci sono una serie di massime, seguendo le quali, si ottengono risultati conformi ad esso. Le massime raccolte, kantianamente, sotto i nomi di quantità, qualità, relazione e modo, in una versione solo leggermente più generale di quella originale, sono le seguenti:

Quantità: date un contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non minore e (ii) non maggiore) in base a quanto è richiesto.

Qualità: date un contributo appropriato. Cioè date un contributo che vi ritenete in diritto o in dovere di dare, e date solo un contributo che vi ritenete di poter provare di avere il diritto o il dovere di dare.13

Relazione: siate pertinenti. Modo: siate perspicui, cioè: (i) evitate oscurità d'espressione; (ii) evitate ambiguità; (iii) siate brevi;

(iv) siate ordinati nell'esposizione.

Le violazioni di queste massime sembrano la regola. Ma, sostiene Grice, per lo più sono violazioni apparenti. Tali violazioni apparenti generano implicature conversazionali. A mezzogiorno A chiede a B di uscire insieme a cena, e B risponde: “Stasera c'è un concerto”. La risposta a prima vista sembra irrilevante: che stasera diano un concerto non impedisce di andare a cena fuori. Forse B non rispetta la massima della pertinenza. Ma, più probabilmente, B la rispetta, e segue il principio di cooperazione: c'è un concerto stasera e B vuole andarci; a quel concerto non si può andare un altro giorno; andare al concerto e andare fuori a cena sono due attività difficili da conciliare; B sa che A è in grado di capire che questo è il caso; dunque, B implica (conversazionalmente) che preferisce non uscire a cena stasera con A. La sua risposta è rilevante. Il punto è che non tutto ciò che vogliamo intendere è codificato esplicitamente in quello che diciamo. Una parte è strutturalmente scaricata su un meccanismo inferenziale che, secondo Grice, dovrebbe avere come assioma proprio il principio di cooperazione (o come assiomi propri le massime ad esso allegate).

Un'implicatura conversazionale viene colta, di solito, immediatamente, ma una condizione essenziale, appunto perché c'è dietro un meccanismo inferenziale, è che l'intuizione possa essere sostituita da un ragionamento analogo a quello esemplificato poco fa. Se non è così sostituibile, allora o non c'è alcuna implicatura o ce n'è una convenzionale.

13 Le massime sono state date originariamente per contributi conversazionali informativi, ed erano state

formulate pressapoco così: (Quantità) Dare un contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non meno (ii) né più informativo) di quanto è richiesto.

(Qualità) Dare un contributo che sia vero. Cioè non dite ciò che credete essere falso e non dite ciò per cui non avete prove adeguate.

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Oltre alla condizione essenziale appena indicata, ci sono due test per controllare se ci troviamo di fronte a un'implicatura conversazionale, la cancellabilità dell'implicatura e la sua non separabilità. Un'implicatura conversazionale è esplicitamente cancellabile. B, nell'esempio che abbiamo visto prima, potrebbe aggiungere 'Ma se vieni al concerto anche tu dopo potremmo andare a mangiare qualcosa insieme'. Allora, il parlare del concerto indicherebbe che c'è un problema sull'andare a cena insieme, e la proposta di andare al concerto insieme come attività principale con la cena come un rapido preludio o come piacevole coda costituirebbe un rilancio, che anziché mostrare una preferenza per il concerto rispetto al passare la serata con A indicherebbe una preferenza a stare con A più a lungo e condividendo un'esperienza più impegnativa.

Inoltre, un’implicatura conversazionale non è separabile. Non è possibile cioè trovare un altro modo di dire esattamente quanto è stato detto (a meno che non si venga così a violare la massima del modo) che non consenta di trarre l'implicatura.

Le implicature conversazionali possono essere particolari, ricavabili cioè in base all'aver detto ciò che si è detto in un contesto particolare, come l'implicatura di non voler andare a cena che A ricava quando B gli dice: “Stasera c'è un concerto”. Le implicature possono però essere anche generalizzate, tali cioè da poter essere tratte, in circostanze normali, da ogni uso di una certa forma linguistica. Esempi caratteristici di forme che comportano implicature conversazionali generalizzate sono, secondo Grice, le controparti nelle lingue naturali delle costanti logiche. Vediamo tre esempi, 'o', 'se ..., ___' e 'l'F' (controparti rispettivamente di 'v', '...-->___' '$x F(x)'. Il significato (vero-funzionale) di 'A o B' è che 'A o B' è vero se e solo se è vero A o è vero B. Ma, per la massima della quantità, chi sappia quale tra A e B è vero, dicendo 'A o B' risulterebbe meno informativo che se dicesse semplicemente 'A', se è A che sa vero. L'uso di 'A o B', sempre attribuendo a 'o' il suo significato vero-funzionale, risulta però conversazionalmente appropriato quando si vuole implicare che si hanno ragioni non vero-funzionali per sostenere che A o B. Una cosa del genere la facciamo, per esempio, quando diciamo “Lucia arriva col treno delle 7 o con quello delle 8”. Se sapessimo che arriva col treno delle 8, dire ciononostante “Lucia arriva col treno delle 7 o con quello delle 8” sarebbe fuorviante.

La distinzione fra ciò che viene detto e ciò che viene implicato,14 che è alla base di Logic and Conversation, è stata costruita originariamente sull'assunto che il comportamento di chi conversa sia intenzionale -- che ciascuno scambio linguistico sia un'attività ordinata e abbia un punto -- o più in generale che sia razionale -- si ricordi che la possibilità di ricostruire l'implicatura

14 Questa distinzione è stata molto discussa perché appare controverso precisare cosa esattamente è stato

detto. Cfr. Sperber & Wilson 1986, Recanati 1989 e 1993, e Bach 1994. Bach distingue oltre a ciò che è detto e a ciò che è implicato quelle che chiama 'impliciture', che sono proprie di espressioni come 'La lampada è cara' o 'Ho fatto colazione' che vengono completate o espanse quando vengono comprese. Come se si fosse detto rispettivamente 'La lampada è cara rispetto ad altre lampade' e 'Ho fatto colazione stamattina'.

21

(conversazionale) come un'inferenza è una condizione essenziale per affermare che c'è una tale implicatura. Sulle stesse assunzioni è costruita anche la teoria del significato basata, appunto, sulla nozione di intenzione. Il razionalismo di questa teoria emerge immediatamente quando si rifletta sul fatto che il parlante per significare occasionalmente qualcosa, cerca, con un proferimento, di conseguire un effetto su chi lo ascolta -- di fargli credere o di fargli fare qualcosa. La scelta dei mezzi adatti allo scopo, che è un'attività eminentemente razionale, è un tratto indispensabile per qualificare un comportamento come intenzionale, anche se probabilmente non è possibile districare razionalità e intenzionalità, nel senso che la prima non c'è senza la seconda.

Implicature 2. A prima vista, il meccanismo delle implicature funziona egregiamente. Da un lato, semplifica l'ipotesi, sostenuta per esempio da Strawson 1952, per cui le controparti nelle lingue naturali dei connettivi logici avrebbero più significati,15 e coglie perfettamente la nostra capacità di perseguire scopi diversi nel dire una cosa, seguendo intenzioni diverse. D'altro lato, tutti troviamo difettoso un intervento oscuro o prolisso, o siamo imbarazzati quando qualcuno dice qualcosa che non è pertinente. Anzi, siamo così poco inclini a pensare che si possa essere oscuri per caso, che facciamo congetture su cosa ci voglia nascondere chi non si fa capire, su perché sia imbarazzato nel parlarci, ecc., e riteniamo così grave non sapersi esprimere chiaramente da giudicare sciocco chi proprio non vi riesca. Ancor più ci diamo da fare per ricostruire un collegamento che renda pertinente ciò che non sembra esserlo. Ma guardato più nel dettaglio il meccanismo griciano è apparso troppo generico e troppo potente a un tempo.

Alcuni problemi preliminari sarebbero: il meccanismo si basa sulla distinzione fra dire e far intendere, ma non è ben definito che cos'è che si dice, né è chiara la differenza fra il significato di ciò che alla lettera si dice e ciò che è implicato convenzionalmente. La difficoltà maggiore però sarebbe questa: variando i contesti, il principio di cooperazione e le massime consentirebbero di implicare conversazionalmente tutto e il contrario di tutto.16 Inoltre, le massime si sovrappongono, rendendo il meccanismo ridondante.17 Tutti i test proposti, non separabilità, cancellabilità, ecc.,18 non distinguono davvero le implicature conversazionali da ciò che alla lettera si dice e da ciò che si implica convenzionalmente. Una questione relativamente di dettaglio: come distinguere fra implicatura convenzionale e implicatura conversazionale generalizzata?19

15 Cfr. Cohen 1971 e Walker 1975. 16 Per una critica distruttiva cfr. in particolare Sadock 1978 e Davis 1998. Ma vedi anche Walker 1975 e

Sterelny 1982. Per una critica costruttiva cfr. Sperber & Wilson 1986, Harnish 1991, Horn 1984, 1989, 1996.

17 Cfr. in particolare Sperber & Wilson 1986 e Wilson & Sperber 1986. 18 Sadock 1978 considera anche un test opposto alla cancellabilità quello della esplicitabilità dell'implicatura

conversazionale. 19 Davis 1998 presenta a un tempo in maniera ordinata e per accumulo tutte queste critiche, con precisi

riferimenti alla letteratura precedente. Molte delle sue critiche sono però assai difficili da condividere.

22

Non affronterò nessuna di queste difficoltà. Mi accontenterò di due osservazioni prima di illustrare due alternative alla logica della conversazione di Grice. (a) L'obiezione per cui il meccanismo sarebbe troppo potente perché variando i contesti permette di implicare conversazionalmente tutto e il contrario di tutto non è appropriata. Indubbiamente, combinando diversamente, anche con ripetizioni, le stesse dieci cifre, si formano un numero infinito di numerali diversi --'1', '15' '25', …, 532, …, 2150, …--, cioè tutti e qualunque numerale, ma non per questo il sistema di scrittura araba per i numerali è troppo potente e quindi difettoso. (b) Il meccanismo griciano è uno strumento interpretativo e non uno strumento di costruzione del significato. Concepito regolativamente ci orienta per comprendere perché è stato detto quanto è stato detto. Quanto è stato detto corrisponde a una scelta comunicativamente ottimale o per lo meno più soddisfacente di altre. Una lettura simile, in una versione decisamente non normativa, bensì contestualizzata nelle scienze cognitive è in effetti offerta nel primo sviluppo alternativo alla logica griciana della conversazione, la teoria della pertinenza di Dan Sperber e Deirdre Wilson.

La teoria della pertinenza massimizza gli aspetti inferenziali del significato contro quelli codificati; distingue aspetti ostensivi-inferenziali e considera la comunicazione verbale un caso particolare di comunicazione ostensivo-inferenziale; sviluppa l'analisi in un quadro cognitivo (ragion per cui la pertinenza sarebbe una legge di natura che regola i nostri comportamenti comunicativi e non, come per Grice, ambiguamente una legge di natura ovvero una norma costitutiva di un comportamento comunicativo razionale); introduce nozioni come render manifesto, intenzione informativa, intenzione comunicativa; distingue elementi logici e elementi enciclopedici; definisce la pertinenza --che è l'unica categoria che usa-- una volta introdotti una presunzione e un principio di pertinenza. Un elemento è tanto più pertinente, a pari condizioni, quanto maggiore ne è l'effetto cognitivo e quanto minore è il processo cognitivo cui impegna. La pertinenza di un elemento, cioè, cresce in proporzione al numero di implicazioni contestuali che esso determina e decresce al crescere dell'impegno richiesto per processarle. La processazione di un elemento comincia con l'individuazione della sua forma logica, il suo arricchimento esplicito e il computo dei suoi aspetti impliciti. Ogni atto comunicativo presume una pertinenza ottimale.20

Illustrerò tre problemi che ho con la teoria della pertinenza. Il primo riguarda l'idea di pertinenza ottimale che, in base al principio di pertinenza, sarebbe

20 Ci sono diversi aspetti della teoria della rilevanza che possono essere discussi. Da un punto di vista

griciano ci si può chiedere per esempio se la categoria di pertinenza sussuma tutte le altre categorie griciane, solo perché è assai più complessa dell'omonima categoria griciana, solo cioè perché è una variante che organizza all'interno della pertinenza le altre categorie. Oppure ci si potrebbe chiedere se la pertinenza sia l'unica categoria coinvolta nel processare un'inferenza. Le difficoltà che si possono incontrare nell'inferire possono evidentemente dipendere dal modo --da come ciò che si dice viene formulato, dalla sua non perspicuità-- o dal dipendere solo da una parte di tutte le informazioni date --e dunque dal modo di nuovo e dalla quantità-- ecc..

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comunicato da ogni atto comunicativo. Come si fa ad escludere che un atto comunicativo abbia più pertinenze ottimali, e dunque che possa comunicare una cosa piuttosto che un'altra? Basta pensare ad un'ambiguità enunciativa che non sia immediatamente risolta dal contesto. Del resto, se la pertinenza ottimale è una combinazione di effetti cognitivi e sforzo di processazione, non esisteranno in certi casi pertinenze diverse altrettanto ottimali. Un secondo problema che ho è che, se da un lato si scaricano molte delle difficoltà del meccanismo griciano sul nostro funzionamento come sistemi cognitivi, c'è un richiamo costante a nozioni intenzionali (per esempio, si cerca di comunicare, si mira a comunicare ciò che è nell'interesse di chi comunica e di chi ascolta, ecc., senza un adeguato chiarimento di questa nozione, che di suo sembra andare di più con una spiegazione normativa che con una generalizzazione nello stile delle leggi di natura). Un terzo problema è, mi pare, che mettere alla base della computazione la forma logica delle espressioni usate trascura il fatto che a quasi ogni forma linguistica si possono attribuire più forme logiche, anche se nella grammatica generativa, per esempio, si è proposto un particolare tipo di forma logica, LF (che sta per logical form).

Una riformulazione abbastanza diversa della logica della conversazione potrebbe indicare in alcune regole e in alcuni principî di analisi della conversazione una controparte "neutra" del principio di cooperazione e delle sue massime. Cooperare in termini generalissimi, quali quelli in questione, significa semplicemente produrre conversazione e continuare a produrne. A ogni mossa chi partecipa alla conversazione contratta su quanto è stato detto. Può allora chiedere o fornire precisazioni oppure lasciarne cadere. Può chiedere o fornire una sostituzione del testo prodotto. Può produrre un non sequitur. Può chiedere o produrre una breve parafrasi del testo prodotto. (L'ottimalità di un contributo conversazionale dunque può essere messa in discussione dall'uditorio, cioè dalle persone cui il contributo è offerto. Questa strategia è descritta nella letteratura come governo locale dell'agire conversazionale.)

Per esempio, chi ascolta può "tagliare la conversazione", e dunque lasciar cadere delle precisazioni. Può allora produrre un collasso conversazionale, anticipando cioè un possibile sviluppo del discorso dell'altro e producendo un seguito conversazionale a quello sviluppo che non è stato mai effettivamente prodotto. Così a chi mi chiede “Sei libero stasera?” posso rispondere di sì e aggiungere una proposta per la serata, andare al cinema o a cena fuori. Altre piccole violazioni delle regole e dei principî che governano la conversazione possono in maniera leggermente più conflittuale servire allo stesso scopo. Infatti si può alternativamente prendere la parola sfruttando un'occasione impropria di passaggio del turno, e "chiudere" l'intervento di qualcuno affermando “Ho capito” o portando a termine il discorso che l'altro aveva cominciato. Nel secondo caso a differenza del primo chi interrompe mostrerà di aver capito e non si limiterà a pretenderlo.

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Quando chi ascolta ha invece qualcosa da eccepire può farlo richiedendo delle correzioni o con limitate violazioni delle regole dell'alternanza nel turno a parlare. Per esempio, alla domanda “Vieni a cena stasera?” posso rispondere con una domanda che richiede delle precisazioni come “Siamo solo noi o c'è altra gente?”, oppure posso cercare di indagare sulla domanda “Sei libero stasera?” chiedendo “Non vorrai mica che ti scriva io la relazione?”. O anche si può controllare la bontà di un'affermazione semplicemente dicendo “Ne sei sicuro?”.

I nostri interventi di negoziazione forse possono essere classificati come elementi che mettono in discussione l'appropriatezza di quanto è stato detto (pertinenza), la sua sufficienza o la sua non ridondanza (quantità), la sua correttezza (qualità) e la sua perspicuità (modo). Ma il meccanismo che produce la conversazione può essere descritto indipendentemente da questa classificazione, come conversazione che sostituisce parte del testo, offre o chiede precisazioni, continua, cambia o offre un frame alternativo al suo svolgimento tematico, ecc.. In un quadro di analisi conversazionale inoltre possono essere spiegati con naturalezza aperture e chiusure conversazionali. Per esempio, lo scambio dei saluti per chiudere uno scambio linguistico, che nella presentazione di espressioni linguistiche quasi completamente prevedibili e spesso identiche mostra che non c'è nulla da aggiungere, e dunque costituisce chiusura. Elementi leggermente più complessi, che preannunciano una chiusura e a volte sono una chiusura, sono lo scambio di un appuntamento o degli auguri.21 “Ci vediamo!”/“Ci vediamo!”

15 febbraio

La relazione fra significaton e significatonn, viene affrontato in “Meaning Revisited”. Supponete che una creatura possa produrre volontariamente un comportamento che, prodotto involontariamente, è (parte di) un comportamento di dolore. Potrebbe allora produrlo per ingannare gli altri. Ma supponete che gli altri si rendano conto che un simile comportamento può essere simulato. Questo potrebbe portarli a pensare che, quando quel particolare comportamento viene prodotto, chi lo produce non prova effettivamente dolore. Chi produce quel comportamento volontariamente allora potrebbe, nel produrlo, cercare di far capire agli altri che lo produce volontariamente, portandoli dunque a escludere che si tratti propriamente di simulazione.

Perché però produrre un comportamento del genere? Per conseguire quale effetto sugli altri? Il candidato più “naturale” è proprio lo stesso effetto che quel comportamento produce quando è involontario, cioè far credere che prova dolore. Più esattamente, producendo quel comportamento volontariamente, vuole non solo dare delle ragioni per credere che prova dolore, cosa che accade anche

21 Cfr. Sacks, Schegloff & Jefferson 1974, Schegloff, Sacks & Jefferson 1977 e Leonardi & Viaro 1990.

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quando lo produce involontariamente, ma mettere sotto gli occhi, far sì che ci si accorga, appunto comunicare, che prova dolore. Dunque, il significatonn

nascerebbe come uso non-naturale di un segno dotato di significaton.

Nello stesso articolo, ma anche in altri saggi, Grice inventa poi una storia per mostrare il valore, e la razionalità, dell’avere un linguaggio. Immaginiamo di dover costruire una creatura complessa, anzi una serie di creature via via più complesse. Ciascun tipo è caratterizzato dall’avere certi scopi, il problema sta nel precisare che abilità deve avere per poterli realizzare. Supponiamo di aver costruito creature tali che, fra l’altro: (i) se desiderano P e credono che se P allora q, allora desiderano q; (ii) se desiderano P e desiderano q, allora se agiranno, agiranno spinti dal più forte dei due desideri; (iii) che siano in grado di modificare i propri principî valutativi. Se più creature del genere vivono nello stesso ambiente, sarà importante per la loro sopravvivenza, oltre che per la loro felicità (perché cioè possano soddisfare i propri desideri) che possano s-intendere, ovvero significare, ovvero usare una lingua dotata di significato. Se dobbiamo dotarli di un capacità del genere per ottimizzarli, è, secondo Grice, razionale che esseri del genere posseggano un’abilità del genere. Ora, noi siamo creature del genere. (I valori intervengono, forse, anche nell’usare il linguaggio, come avevamo visto, precisamente nel significato occasionale del parlante: questi si serve di valori per giudicare soddisfacente una serie finita di intenzioni e fermare così il potenziale regresso all’infinito).

Teoria dell’essere razionale Grice considera la teoria del linguaggio parte di una teoria dell’essere razionale, o degli esseri razionali. Molti spunti sono già emersi qua e là in quanto s’è visto -- per esempio quando poco fa ho parlato di intenzioni e razionalità nella logica e conversazione e nella teoria del significato. Altri possono essere colti riflettendoci sopra. Grice cerca di spiegare la nozione di significato servendosi di alcuni atteggiamenti psicologici -- l’intendere (o volere) e il credere, nonché il valutare. Con questo va subito al di là di una teoria tutt’interna del linguaggio. Altri spunti, infine, sono stati introdotti esplicitamente, come quelli presentati per spiegare perché avere un linguaggio.

I due saggi più importanti, da questo punto di vista così generale, mi sembra siano “Metaphysics, Philosophical Psychology, and Value” e “Method in Philosophical Psychology (From the Banal to the Bizarre)”, entrambi in The Conception of Value (il primo ripresenta la sezione finale di “Reply to Richards”, cioè di Grice [1986]). “Method in Philosophical Psychology” discute la primitività di due atteggiamenti psicologici, giudicare (generico atteggiamento che ha come esempio marcato il credere) e volere. In effetti, quando ci si prova a definirli siamo costretti a usare, magari addirittura entrambi, gli atteggiamenti nel definiens. Si prenda, per esempio, nella definizione disposizionale di “credere”: una persona crede che P solo se è disposta, quando vuole conseguire un certo fine F, quando crede che P sia vero, ad agire in modi che, quando P è vero, la portano a realizzare F. Questa definizione è circolare. Grice, poi, mostra come si possono sviluppare per stadi atteggiamenti psicologici complessi, con un processo di internalizzazione. Prima ci sono cose e atteggiamenti verso cose, poi ci sono

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atteggiamenti verso cose mediati dalle rappresentazioni di esse, fino ad atteggiamenti che riguardano altri atteggiamenti propri ed altrui mediati anch’essi da rappresentazioni. Gli atteggiamenti psicologici sono il tratto distintivo, essenziale, dell’essere razionale. “Metaphysics, Philosophical Psychology, and Value” offre un’argomentazione più strettamente metafisica dello sviluppo di esseri razionali, mostrando come la razionalità stessa possa essere un valore. La procedura fondamentale è una procedura metafisica costruttiva (o razionalmente ricostruttiva)che introduce dei “genitori”, che poi siamo noi stessi, che affiniamo riflettendo su noi stessi la nostra razionalità come strumento fondamentale per la nostra sopravvivenza e per realizzare al meglio i nostri fini. Tanta è la parte che la razionalità viene ad avere così per noi che il suo sviluppo viene a costituire il nostro fine proprio e un valore assoluto.

Non tratterò qui di nessun altro saggio, anche se alcuni si raccomandano vivamente al lettore. Come “Postwar Oxford Philosophy” (sul metodo filosofico-linguistico), “In Defense of a Dogma” (scritto insieme a P.F. Strawson) (in difesa della distinzione analitico/sintetico), “The Causal Theory of Perception” (in difesa di questa teoria della percezione, ma anche di certe locuzioni fenomenistiche) e “Retrospective Epilogue” (che inquadra molto del lavoro fatto).

Alcune osservazioni

Comincerò con l’evidenziare alcune delle peculiarità della teoria del linguaggio di Grice. Riprendendo e ampliando una famosa idea di Austin, da questi sostenuta con vigore, la teoria griceiana del significato presenta innanzitutto il significare come un agire, primariamente come un agire in una situazione sociale minima, una situazione faccia a faccia. Così cerca di spiegare la nascita e la dinamica del significato, e cerca di farlo non mettendo giù alcune considerazioni generali -- limitandosi a parlare, per esempio, dell’origine sociale del linguaggio -- ma presentando l’atto del significare come il produrre un effetto su un ascoltatore paradigmaticamente in una situazione faccia a faccia.

Trattando insieme dell’origine e della dinamica del significato, la teoria di Grice è, mi sembra, indipendente dalle situazioni originarie. Ogni singolo significare è un atto che può introdurre un significato (parzialmente) nuovo. Ciò che è successo prima certo lo condiziona, in due modi. Primo, il proferimento cui chi parla ricorre può essere il proferimento di una frase che normalmente riesce a conseguire l’effetto che chi parla vuole conseguire. Questo gli garantisce la massima possibilità di essere correttamente inteso da chi lo ascolta. Secondo, sfruttando, combinatoriamente, il significato atemporale delle espressioni della lingua, si possono dire cose che difficilmente si potrebbero dire altrimenti e si può generare significato a partire da significato.

Un altro tratto interessante della teoria di Grice è il suo psicologismo filosofico. Diversi filosofi analitici del linguaggio sono stati psicologisti, ma l’immagine che ci è tramandata dai manuali è quella di una serie di teorie antipsicologistiche, a cominciare da quelle di Frege e Wittgenstein. Comunque, la posizione di Grice si distingue anche da altre posizioni, come quella di Quine, perché il suo psicologismo è filosofico e non scientistico. L’ineliminabile infondatezza degli

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atteggiamenti psicologici basilari (o il regresso all’infinito che si ritrova nei tentativi di definirli) mostra semplicemente che sono concettualmente primitivi.

Specificamente, cercare di spiegare l’origine del linguaggio a partire da atteggiamenti psicologici potrebbe consentire di spiegare l’introduzione del linguaggio senza prima richiedere una qualche capacità rappresentativa.

La teoria del linguaggio è, per Grice, parte di una teoria degli esseri razionali. Il dotare un essere razionale del linguaggio è dargli maggiori possibilità per conseguire il proprio fine, per esercitare e articolare cioè la propria razionalità. Contemporaneamente, porre degli esseri razionali, dotati di razionalità e dunque innanzitutto di atteggiamenti psicologici e di valori (la razionalità stessa essendo il valore fondamentale) consente di spiegare la nascita e lo sviluppo del linguaggio.

Alcune delle tesi sono però solo abbozzate e difese spesso da pezzi di argomentazioni e non da argomentazioni complete, e la teoria di Grice richiederebbe del lavoro ulteriore che, in filosofia, è difficile immaginare che qualcun altro possa fare. Ci sono del resto anche problemi specifici all’interno delle parti finite della teoria del linguaggio di Grice che sono stati risolti in maniera, a mio avviso, tutt’altro che soddisfacente. Per prima cosa la formulazione finale di (S-I) (che non ho riprodotta e che si trova in “Logic and Conversation” 5, 114-5) è assai poco soddisfacente. Questa attribuisce in un colpo a chi parla un’intenzione estremamente complessa che quantifica su proprietà di persone, caratteristiche di enunciati, modi di correlazione (iconici, associativi, convenzionali), un’intenzione con tre clausole, la prima delle quali ha quattro sottoclausole e la terza delle quali ha due sottoclausole. Come sempre, lo scopo è quello di superare alcuni presunti controesempi del genere di quelli che abbiamo visto. Tale formulazione è insoddisfacente perché è assai dubbio che i parlanti quando intendono significare qualcosa intrattengano un atteggiamento mentale così complesso. Una soluzione diversa, a mio avviso perseguibile, sarebbe riesaminare i controesempi e vedere se sono davvero tali. Credo che non lo siano, e che si possa dimostrarlo andando ad esplorare con maggior cura quel tipo di significato che Grice in complesso trascura, e cioè il significaton. Lo stesso Grice sembra del resto suggerire una cosa del genere. (“Logic and Conversation” 5, 116) Un secondo problema riguarda la caratterizzazione dell’effetto che il parlante persegue: in “Logic and conversation” (105 e 108), modificando la propria versione precedente Grice sostiene che il parlante persegue l’obiettivo di far credere che crede o di far che si voglia, piuttosto che quello di far credere o di far fare. Perché anche non far credere che vuole che si voglia? Mi limito a un’osservazione sul far credere che si creda. Quello che si vuole stabilire via (S-I) è il significato dell’espressione x, che non è che P crede x, ma appunto x. Certo chi dice x, come mostra il paradosso di Moore, deve sostenere che crede (che) x. Infatti, non può dire “x ma non credo che x”. Ma evidentemente chi dice “x” non dice “Credo che x”. Inoltre, perché quest’ultimo enunciato possa avere effettivamente un significato, bisogna, prima, che x abbia significato. Recentemente, Schiffer ([1987]) ha sostenuto che i concetti semantici ci sono e non sono riducibili a concetti psicologici. Non riusciremmo, secondo Schiffer, a

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spiegare gli atteggiamenti psicologici che il parlante vuole indurre nell’ascoltatore senza assumere come già interpretato anche quanto del linguaggio l’atto del significare dovrebbe introdurre, ex novo o come modificazione di linguaggi precedenti. Una difficoltà assai simile, anche se forse non la stessa, mi pare possa essere indubbiamente sollevata nei confronti dell’analisi griceiana. Un po’ di sfondo. Per spiegare il significato«MDSU»nn«MDNM» delle espressioni subenunciative -- nomi e espressioni predicative -- Grice parla di espressioni correlate a oggetti o a insiemi di oggetti. Ora se le parti subenunciative sono già così collegate indipendentemente dall’atto di significare sembra proprio che abbiamo già in mano tutto quanto ci serve per parlare almeno del significato di queste parti subenunciative, prima di prendere in considerazione l’atto stesso di significare. Una spia della difficoltà è la caratterizzazione riconosciutamente inadeguata della relazione di correlazione (“Logic and Conversation” 6, 132 e sgg., in particolare la nota 1 a p. 133.) Come dicevo all’inizio, quasi ogni argomentazione di Grice contiene anche una sottoargomentazione a favore dello scettico e due contro, toccando dunque sempre uno dei grandi temi della filosofia, tipico fra l’altro di tutto l’empirismo britannico. Tre sono le argomentazioni ricorrenti in Grice: (a) la filosofia del linguaggio ordinario, alla Austin, offre a un tempo una dimensione intersoggettiva e la possibilità di un accertamento sistematico degli enunciati del senso comune, enunciati che possono essere messi in questione solo con buone ragioni. (b) per accettare le conclusioni scettiche -- per esempio, una posizione fenomenista, che non richieda l’esistenza degli ordinari oggetti materiali, piuttosto che una fisicalista -- può accadere che ci sia bisogno di un’ulteriore teoria che esiga, a sua volta, proprio ciò alla cui esistenza non ci si voleva impegnare -- per esempio, circa il corpo di chi percepisce. (c) lo scettico presenta la sua argomentazione come un’argomentazione razionale. Anche se lo scettico è forse disponibile ad ammmettere che la razionalità localmente manchi, difficilmente può però accettare che la razionalità venga a mancare del tutto. Ma allora deve accettare tutte le precondizioni della razionalità -- l’esistenza del soggetto che dubita, la libertà, ecc.

Grice fu un filosofo che pur non disdegnando affatto i compiti descrittivi era naturalmente portato a rivedere le idee e le interpretazioni correnti, accontentandosi a volte di introdurre modifiche di dettaglio e altre volte puntando a cambiare alcune convinzioni diffuse cui veniva dato una ruolo centrale. Sistematico per inclinazione, non fu abbastanza sistematico di fatto per lasciarci qualcosa di diverso da quello che questi due libri ci danno, e cioè dei saggi, molti dei quali però stanno così bene insieme che sembrano scritti come parti di uno stesso libro.

Riferimenti

B. Bennett [1976] Linguistic Behavior (Cambridge at the University Press).

R. Grandy & R. Warner, eds., Philosophical Grounds of Rationality (Oxford Clarendon Press 1986).

H.P. Grice [1986] “Reply to Richards” (in Philosophical Grounds of Rationality, R. Grandy & R. Warner eds., Oxford at the UP 45-106).

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D. Kaplan [1969] “Quantifying In” (in Words and Objections, a cura di D. Davidson e G. Harman, Dordrecht Reidel 178-214).

A. Kemmerling [1986] “Utterer’s meaning revisited” (in Philosophical Grounds of Rationality, R. Grandy & R. Warner eds., Oxford at the UP 131-56).

S. Kripke [1977] “Speaker’s Reference and Semantic Reference” (in Midwest Studies in Philosophy, H. Wettstein & al. eds., 1977, 1-27; tr. it. di C. Penco in Significato e teorie del linguaggio a cura di A. Bottani e C. Penco, Milano Angeli 1991, 18-52).

S. Schiffer [1972] Meaning (Oxford at UP).

S. Schiffer [1987] Remnants of Meaning (Cambridge Mass. Bradford Books/MIT Press).

J. Searle [1958] “Russell’s Objections to Frege’s Theory of Sense and Reference” (Analysis XVIII 137-43).